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Artefice di uno sterminato lavoro di «fenomenologia storica» applicata alla storia dei
concetti, fautore dell’apertura a una «teoria dell’inconcettuale», deciso a restituire al
moderno la propria «legittimità» ma altresì a comprendere i meccanismi profondi della
produzione di miti e dunque anche le ragioni antropologiche della «dialettica
dell’illuminismo», Hans Blumenberg viene generalmente considerato un autore prima facie
‘impolitico’. In effetti si è sempre mantenuto al di qua di una riflessione esplicitamente
filosofico-politica, o sembra averne relegato gli sparuti accenni in una posizione satellitare
rispetto al suo ‘sistema filosofico’. Bisogna dunque semplicemente considerare la teoria
politica un ambito negletto e periferico per un autore che ha in realtà preferito parlare
d’altro, o si tratta di un aspetto meritevole di maggiore attenzione? Forse – ed è quanto mi
propongo in questo articolo – è possibile andare in cerca delle tracce celate, ma
probabilmente disseminate intenzionalmente, di una riflessione portata avanti ‘in sordina’ e
sottotraccia1; oppure lasciarne emergere i contorni ideali ‘giocando’ con alcune categorie,
1 Come non vi sono opere di Blumenberg esplicitamente dedicate ai temi tipici di una filosofia politica, così la
letteratura secondaria raramente cerca di ‘dedurli’ dal suo pensiero. Per un tentativo in tal senso si vedano in
particolare: R. Faber, Der Prometheus-Komplex. Zur Kritik der Polytheologie Eric Voegelins und Hans Blumenbergs,
Königshausen-Neumann, Würzburg 1984, pp. 75-87; P. Behrenberg, The Explorations of the relation between
Politics and Myth: Vico, Cassirer, and Blumenberg, in «New Vico Studies», 9 (1991), pp. 17-28; sempre nel segno di
una considerazione politica della teoria blumenberghiana del mito il recente C. Bottici, Filosofia del mito politico,
Bollati Boringhieri, Torino 2012, in particolare pp. 114-144: anche se non è Blumenberg l’autore che
direttamente affronta la questione del mito politico, Bottici sceglie proprio l’impostazione «interrelazionale»,
processuale e fenomenologica blumenberghiana nei confronti del mito come paradigma teorico a cui fare
riferimento per la sua analisi successiva, a partire dal concetto di «significatività», dal carattere fondativo e
situato del mito, tratti indispensabili per comprendere l’acutizzarsi dell’esigenza di «una mediazione simbolica
dell’esperienza politica» nel contesto di società moderne sempre più complesse (ivi, p. 148); B. Accarino, La
ragione insufficiente, in particolare pp. 49-92, 127-172; J.C. Monod, Hans Blumenberg, Belin, Paris 2007, pp. 205-
221, con il quale mi trovo sostanzialmente d’accordo e che parla, per l’appunto, di un «sottotesto politico»
(ivi, p. 205) che attraversa l’opera di un autore che «non accorda un posto centrale alla politica» (ibidem), dal
momento che la stessa legittimità del moderno – ossia l’argomento che più direttamente potrebbe rimandare
a una filosofia politica – è affermata in senso primariamente storico. Tuttavia, riconosce Monod, la polemica
sulla secolarizzazione conduce a una valutazione eminentemente politica del decisionismo e dell’assolutismo –
su cui mi soffermerò nel corso di questa trattazione –; non solo: anche le riflessioni blumenberghiane sul
tempo, sul mito, sull’uscita dalla caverna come «paideia» si rivelano politicamente significative. Nelle ultime
raccolte di saggi su Blumenberg vi sono alcuni tentativi di ‘politicizzare’ certi aspetti del discorso
blumenberghiano, si vedano in particolare A. Rivera García, Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutimso:
retórica y mito en Blumenberg, V. Pavesich, Hans Blumenberg: Philosophical Anthropology, Terror and the Faces of
Absolutism, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg. Nuovi paradigmi d’analisi, Aracne, Roma
2010, pp. 143-165, 167-203 e J.C. Monod, Politische Theologie. Blumenberg als ein Leser von Schmitt und Benjamin, in
M. Moxter (a cura di), Erinnerung an das Humane. Beiträge zur phänomenologischen Anthropologie Hans Blumenbergs,
Mohr Siebeck, Tübingen 2011, pp. 210-225.
1
con alcuni elementi chiave della filosofia blumenberghiana, e ottenere così i lineamenti di
una meditazione politica tutt’altro che banale o estemporanea.
Blumenberg – che alla morte avvenuta nel 1996 ha lasciato una sterminata opera
postuma – è autore anche di un’originale e interessantissima «antropologia
fenomenologica»2, una sorta di sottotesto «esoterico»3 che percorre l’opera più conosciuta,
che lo ha condotto ad alcune ipotesi sugli stadi preistorici dell’esistenza umana,
sull’«antropogenesi»4. Credo che questa sia la pista più feconda per tracciarne un profilo
politico; infatti, il campo della politica – e di conseguenza la riflessione sul moderno –
prende forma e acquisisce nuovo spessore alla luce della speculazione sull’uomo e sulle
circostanze della sua genesi. D’altra parte, come ha scritto Carl Schmitt riportando
un’osservazione di Helmut Plessner, non esiste filosofia o antropologia che non sia
politicamente rilevante5 e non potrebbe essere altrimenti, nella misura in cui le teorie
politiche si costruiscono tradizionalmente a partire da ipotesi sulle condizioni di partenza
germinali della sfera politica stessa. Nel caso di Blumenberg non siamo di fronte a una
semplice astrazione funzionale sullo stato naturale ma, al contrario, a una teoria
antropologica integrata, seppur erratica e sotterranea, che merita di essere esplorata anche
perché capace di offrire un quadro più comprensibile e completo della fenomenologia della
storia di Blumenberg e delle sue posizioni, cariche di significato politico, in merito al
moderno.
Contaminando l’antropologia filosofica di Alsberg, Gehlen, Rothacker, la filosofia
delle forme simboliche di Cassirer e la fenomenologia di Husserl, Blumenberg giunge a
un’ipotesi sull’emergenza della specie umana all’insegna della contingenza, della perdita di
specificità istintuale e di una conseguente dialettica tra carenza organica e lusso delle risposte
compensatorie: l’uomo, espulso dal biotopo-ambiente chiuso e protetto della foresta
pluviale, si trova gettato nelle vastità del mondo-orizzonte della savana e costretto agli
ambigui vantaggi della postura eretta. L’apertura di nuovi spazi di visibilità – un’inedita ottica
attiva – e la prevedibilità delle proprie e delle altrui azioni significano al contempo
esposizione all’ottica passiva, allo sguardo e all’attacco dell’altro. La razionalità, il simbolismo,
le prestazioni della cultura, le «istituzioni» si svilupperanno a partire da questo contesto
come dispositivi di produzione di «distanza» e schermatura del corpo, di creazione di
intervalli temporali fatti di esitazione e pensosità che rallentano e mediano l’azione, di
sostituzioni retoriche e deviazioni che mitigano l’«assolutismo della realtà», ossia la sua
percepita ingovernabilità. La caverna, prima sede e unità prototipica della sfera culturale,
funge contemporaneamente da riparo e riposo per la creatura esposta agli spazi aperti della
2 Cfr. in particolare H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2006 (d’ora in poi
BM).
3 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein. Überlegung zu einem Aspekt der phänomenologischen
Anthropologie Hans Blumenbergs, in R. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, Philosophische und theologische
Perspektiven in Hans Blumenbergs Anthropologie, Königshausen & Neumann, Würzburg 2009, p. 101.
4 Cfr. in particolare, oltre a BM, H. Blumenberg, Arbeit am Mythos (1979), trad. it. Elaborazione del mito, il
Mulino, Bologna 1991 (d’ora in poi EM); Id., Höhlenasugänge (1989), trad. it., Uscite dalla caverna, Medusa,
Milano 2009 (d’ora in poi UC).
5 Cfr. H. Plessner, Macht und menschliche Natur (1931), cit. in C. Schmitt, Begriff des Politischen (1932), trad. it. Le
6 Cfr. H. Jonas, Organismus und Freiheit. Ansatze zu einer philosophischen Biologie (1973), trad. it. Organismo e liberta.
Verso una biologia filosofica, Einaudi, Torino 1999.
7 Cfr. E. Cassirer Philosophie der symbolischen Formen, II. Das mythische Denken (1925), trad. it. Filosofia delle forme
9 Cfr. P. Sloterdijk, Spharen, III. Schaume, Plurale Spharologie (2004), trad. fr. Sphères III. Écumes, Hachette, Paris
3
2. L’unità minima del politico: la polis tra immunità e visibilità
La città è «ripetizione della caverna con altri mezzi»12 e come tale è legata ab origine a un
bisogno bio-psicologico regressivo: isola, insonorizza le proprie pareti da tutto ciò che
pullula fuori e che non ha prodotto essa stessa. In ciò nasconde la propria natura
parassitaria nei confronti dei ‘dintorni’ da cui dipende, rovesciandola in «somministrazione»
e fungendo da calamita per tutti i prodotti di cui necessita e che non contiene in sé, da
centro propulsore di scambi, da «acceleratore del processo economico»13 e polo produttivo
per eccellenza del mezzo primario di tale accelerazione: il denaro. Poiché vive quasi
esclusivamente della produzione per un mercato di clienti sconosciuti in cui l’interesse delle
parti si estrinseca in tutta la sua «spietata oggettività»14, la città sussiste grazie a una forma
sofisticata di presa di distanza dalla realtà come capacità di disporre dell’assente come del
presente e, quale fulcro catalizzatore di flussi di denaro, si mostra più performativa della
caverna in fatto di Distanz, poiché «dispone a raggiera le sue distanze dalla realtà, in modo
uniforme, a trecentosessanta gradi»15. Per ripresentificare l’esterno al proprio interno la città
non ha più bisogno di magia, poiché le basta il calcolo in termini di economia monetaria;
per ottenere o scongiurare qualcosa non è più necessario dipingere su delle pareti, è
sufficiente astrarre in termini di valore di scambio. È innegabile che assicurarsi il cibo sulla
base di operazioni aritmetiche, piuttosto che con un rituale propiziatorio, è una forma ‘più
illuministica’ di mediazione con il fuori.
Tuttavia, se l’astrazione è «surrogato della magia»16, deve pur sempre conservare
qualcosa di essa. In tempi di capitalismo avanzato l’esplosione delle grandi metropoli
moderne si fa allora autarchia illusionistica: la città impedisce il ricordo del mondo esterno
e lo rimpiazza col proprio mondo interno, accoglie un quantum di natura solo sotto forma
di parco, giardino botanico o fioriera, ove essa diviene innocua e indisturbata a un tempo;
promette fortuna in luogo di vita e realtà, incatena con la propria «attrazione artificiale»
eppure, al sommo della sua «umbratilità sbiadita», si rivela luogo del massimo
«bombardamento di stimoli»17. Nelle grandi città «il rumore chiude ciascuno nella propria
caverna»18, come mostra lo spettacolo straniante di individui pigiati in veicoli pubblici dove
si vedono ma non possono sentirsi o parlare, o insonorizzati nell’abitacolo delle proprie
automobili. E tuttavia Blumenberg ci rammenta, con il sottile sarcasmo che gli è proprio,
che prima di ogni critica alla civilizzazione e ai suoi effetti alienanti occorrerebbe accertarsi
che le persone abbiano qualcosa da dirsi19, che insomma sia questa la loro prioritaria
esigenza.
12 UC, p. 56.
13 Ibidem.
14 G. Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben (1903), trad. it. Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma
2005, p. 39.
15 UC, p. 56.
16 Ivi, p. 57.
17 Ivi, p. 59.
18 Ivi, p. 59.
19 Cfr. ivi, p. 59.
4
In fondo la funzione primaria della città è quella di schermare, difendere, con una
propensione di cavernicola memoria all’autosufficienza: per sopravvivere come luogo che
catalizza flussi20 deve «chiudere le porte, presidiare le mura»21 in senso reale o figurato.
Talvolta lo fa talmente bene che incorre in una forma avanzata di quella stessa dialettica
della visibilità in cui si dibatteva il nostro antenato: più il guscio diventa magniloquente –
«tumuli, piramidi, templi, cattedrali, fino ai grattacieli e ai ponti sospesi» – più la sfera
culturale produce il proprio rovescio come «incremento della visibilità»; involucri sempre
più imponenti eretti attorno alla corporeità rendono al contempo gli uomini più vulnerabili
e accessibili all’intromissione dell’estraneo, oltre a manifestare, nel «comparativo di
grandezza»22, un implicito segnale di sfida. Difficile – leggendo queste righe – non pensare
all’attentato alle Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001, al suo effetto
«antropologico» di rovesciamento del modo di guardare e dimorare in un habitat divenuto
improvvisamente «ambiente ostile»: l’immagine apocalittica delle torri che crollano,
trasformandosi in ordigni bellici, porta con sé un’inedita lucidità rispetto al fatto che quanto
più la nostra totalità ambientale costruita tecnologicamente «indurisce, innalza, ingigantisce,
compatta e organizza, accumula e concentra potenze in luoghi ed involucri divenuti
l’esclusiva sede del nostro abitare», tanto più include la possibilità sempre imminente della
catastrofe, «del rovesciamento radicale dell’ordine geometrico della costruzione in entropia
improvvisa»23.
La morfologia dello spazio urbano – unità minima della sfera politica – dipende
dall’«ineluttabilità del farsi visibili» e altrettanto ne dipende la divisione del mondo coabitato
dall’uomo in amici e nemici potenziali; di questa materia ‘fisica’ e antropologica è fatto il
«realismo»: entro il suo dominio, all’uscita della caverna, l’immaginazione ha dovuto cercare
«nuovi spazi protetti, istituzionali più che fisici», il che significa «costruire le condizioni
d’esistenza dell’immaginazione con lo strumento dell’immaginazione»24. Così luoghi di culto
sono stati posti sotto la protezione di dèi, città e Stati santificati, altri spazi e altri tempi
dannati, monumenti eretti, già pronti «per i realismi delle prossime guerre»25.
A partire dalla città come prototipo della sfera politica è lecito domandarsi: è questo il
senso ultimo delle «istituzioni»? Proteggere la stabilità di una comunità dalle minacce che
provengono dall’esterno (o dall’interno)? Insomma, secondo il lessico del pensiero politico
classico, produrre un ordine che conservi la pace e consenta così ai singoli l’esercizio della
propria libertà? Si potrebbe, per situare correttamente la posizione di Blumenberg in merito
20 Traggo questa dicotomia di matrice sociologica da Aldo Bonomi, in particolare Id., Il capitalismo molecolare.
La società del lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino 1997.
21 UC, p. 56.
22 Ivi, p. 44.
23 M. Revelli, La seconda globalizzazione, in «Carta», n°5, 2001, p. 42.
24 UC, p. 44; cfr. B. Accarino, La ragione insufficiente, cit., p. 139.
25 UC, p. 45.
5
a tale questione, utilizzare come punto di partenza una conversazione alla quale non ha
preso parte, ossia la disputa sullo statuto della sociologia, svoltasi nel 1965 tra Gehlen e
Adorno, due personalità politicamente agli antipodi26. Anche qui – come altrove – il
conservatore Gehlen sottolinea l’importanza cruciale delle «istituzioni»27,
antropologicamente essenziali proprio sulla base dell’assunzione del «punto di vista della
sicurezza»: esse appaiono così il mezzo principale che consente all’uomo – povero d’istinto
ed eccessivamente plasmabile – di difendersi dalle minacce esterne come da se stesso, di
controllare la propria «diposizione […] alla degenerazione». Abitudini consolidate, forme
salde e disciplina28, grazie all’«esonero» (Entlastung) di cui sono portatrici, producono
un’esteriorità su cui ricadono gran parte dei moventi e delle condotte che governano le
decisioni, in modo che l’agire dei singoli sia per lo più orientato in base all’uniformazione a
questa esteriorità e solo una piccola percentuale dipenda effettivamente da decisioni
profonde e personali. Se consumano ed erodono porzioni di libertà, ciò che conta è che in
cambio le istituzioni «conservano» e stabilizzano29. Tutto ciò in stretta connessione con una
considerazione pessimistica della possibilità e della desiderabilità di un’emancipazione e di
una compiuta autonomia universalmente accessibili e sostenibili. Se le istituzioni si
sgretolano sotto la pressione di «pretese di decisionalità», «prese di posizione improvvisate»,
mutamenti sociali e politici privi di un indirizzo comune, l’unico risultato è la diffusione di
«un’insicurezza generalizzata»30. Nella sicurezza, e dunque nel nesso protezione-obbedienza –
risiede «l’estrema legittimazione della facoltà di impartire disposizioni da parte del potere»31.
Dal canto suo, Adorno solleva la legittima obiezione secondo cui i processi di
adattamento cui le istituzioni costringono l’uomo contemporaneo conducono a forme non
solo di sottomissione, ma di vera e propria deformazione, a fenomeni di atrofizzazione e
repressione delle potenzialità, a rapporti nevrotici, di soggezione e subalternità nei
confronti della sfera tecnica32. E suggerisce, a proposito del bisogno umano di sicurezza, il
dubbio che «il mondo in cui non c’è niente a cui appoggiarsi»33, il mondo «destrutturato»
non sia altro che un mito, mentre molto più tangibile è la paura di una «catastrofe latente»
legata al sentimento della propria sostituibilità, del carattere superfluo dell’esistenza entro
un sistema funzionale che si autoregola e procede riducendo gli uomini, appunto, a
«funzioni» intercambiabili34. E infine, al paternalismo gehleniano obietta che sì, «finché si
esonerano gli uomini dalla responsabilità complessiva e non si pretende da loro
26 Cfr. T.W. Adorno, A. Gehlen, Ist die Soziologie eine Wissenschaft vom Menschen? (1974), trad. it. La sociologia e una
scienza dell’uomo? Una disputa, in T.W. Adorno, E. Canetti, A. Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle
metamorfosi dell’umano, Mimesis, Milano 1995, pp. 83-107.
27 Si veda in particolare A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen (1986), trad. it.
31 Ivi, p. 78.
32 T.W. Adorno, A. Gehlen, La sociologia, cit., pp. 102-103.
33 Ivi, p. 104.
34 Ivi, p. 105.
6
l’autodeterminazione, anche il loro benessere e la loro felicità in questo mondo [sono]
un’apparenza»35, che un giorno esploderà con terribili conseguenze.
Come Gehlen, Blumenberg è sensibile alle difficoltà che inducono gli uomini a
desiderare esoneri (un diverso modo di nominare la «distanza»). Un punto che Adorno
nuovamente problematizza, suggerendo che proprio le istituzioni e il loro «strapotere»
inducano negli uomini il bisogno di essere esonerati: in una sorta di «identificazione con
l’aggressore», essi si rifugiano e cercano riparo proprio presso quella società, quel potere,
che li ha oppressi e scacciati. Blumenberg è per molti versi distante da Adorno, ma
nonostante ciò, si potrebbe dire, entrambi si mantengono nel solco dell’illuminismo; tenere
a mente il monito adorniano nei confronti dello strapotere delle istituzioni può essere utile
per comprendere come Blumenberg si distanzi da Gehlen, pur condividendone alcuni
assunti importanti (oltre a numerose premesse antropologiche).
Al termine di Höhlenausgänge si sofferma sulle tesi gehleniane, traendone una
definizione ampia di «istituzione» come concetto che designa «ogni abitacolo che si possa
stabilire e fondare, di tipo materiale o di tipo spirituale». Istituzione è tutto ciò che riduce il
«bisogno di elaborare la realtà», che offre «nuovi dispositivi di sicurezza» alla vita esposta,
dunque un dispositivo di matrice antropologica prima che politica, grazie al quale soltanto
si aprono spazi eccedenti disponibili per l’evasione, l’avventura, l’ascesa, si potrebbe dire la
libertà. Se si interpretano queste tesi come un’ultima possibile variante dell’allegoria
platonica della caverna, i fabbricanti di ombre (alias: le istituzioni), benché certamente
sospetti di sfruttare la stupidità e la fragilità umana, soddisfano prima di tutto il «bisogno di
immagini» dei prigionieri, sono per loro «produttori di agiatezza», al proprio pubblico di
incatenati-incantati non offrono solo intrattenimento e varietà, ma soprattutto orientamento,
affidabilità, fiducia36. Il mondo istituzionalizzato che «si inalbera contro il corso dell’entropia»
può agevolmente tollerare, sostenere e ospitare in qualche nicchia ecologica nascosta «tra le
fitte maglie delle istituzioni» i suoi reietti, i suoi emarginati e i suoi oppositori. Essi sanno in
fondo che «se mai lo distruggessero davvero, sarebbero le prime vittime»37. C’è dunque
poco da ribellarsi o spezzare le proprie catene38.
Di questa posizione gehleniana Blumenberg accoglie che il «vantaggio delle istituzioni»
consista nel fatto che consentono «di non dover intervenire personalmente in ogni cosa»39.
Su questo occorre essere onesti prima di disporsi spensieratamente alla loro
delegittimazione o dissoluzione. Il rifiuto nei confronti dei meccanismi di delega e di
rappresentanza risponde a un «rigido realismo dell’immediatezza» che pretende di
partecipare a tutte le decisioni, rimuovendo il fatto inaggirabile che queste forme d’«arte di
vivere»40 hanno a che fare innanzitutto con l’‘esilio ambientale’ dell’uomo. La delega, prima
che un meccanismo utilizzato da alcuni sistemi politici, è un bisogno antropogeneticamente
35 Ibidem.
36 UC, p. 621.
37 Ivi, p. 622. Traduzione modificata.
38 Cfr. A. Gehlen, Arbeiten – Ausruhen – Ausnützen. Wesensmerkmale des Menschen, in Gesamtausgabe, VII.
7
fondato, apparso fin dal momento in cui divenne di vitale importanza ispezionare
l’orizzonte con la massima copertura possibile. Fintanto che si accetta di essere-nel-mondo,
piuttosto che rinunciare a esso, la «funzionalità della gestione intersoggettiva dell’esistenza
mondana» non può venire interrotta. Ma la prestazione più efficace dell’intersoggettività
risiede, più ancora che nell’accordo simultaneo, nella delega che ne consente la profondità
temporale. Essa origina dal «gesto dell’indicare» come prima revoca del possesso corporeo;
«indicare una persona» per cederle e trasmetterle qualcosa di cui non ci si fa più carico: di
ciò si tratta fin da quando si è cominciato a indicare a qualcun altro la direzione in cui
avventurarsi per ispezionare l’orizzonte e allargarne la prospettiva. La delega si mostra qui
come una «sottofunzione dell’actio per distans», del fatto che per vivere non sempre occorre
«trovarsi sul luogo del delitto»41. Non serve all’uomo, fin dai primordi della sua uscita dal
«mondo-della-vita» silvestre, che tutto il gruppo, l’orda o la famiglia siano impiegati nella
funzione sociale di far fronte all’ignoto42.
Al contempo, la visibilità ci rende collocabili, fa sì che possano esserci attribuite
responsabilità e fonda il mandato che assegniamo all’altro nel meccanismo di
riconoscimento. Responsabilità e delega, le più importanti istituzioni umane, hanno la
medesima origine nella visibilità e, se paiono contraddirsi, ciò dipende dal paradosso
costitutivo per cui «l’uomo è quell’animale che vuole fare tutto da sé, ma per farlo deve delegare tutto ciò
che può – per poi subito rammaricarsi di non poterlo più fare da solo. La quintessenza di questa
delega» – prosegue Blumenberg – «è lo Stato, il rammarico dei cittadini nei suoi confronti è
il potenziale delle utopie»43.
Addirittura – ‘ironizza’ Blumenberg – sul principio di delega s’infrange il tabù della
critica alla divisione del lavoro e del riferimento – carico di coloriture rousseauiane e
romantiche – a un’ipotetica dimensione ideale (un «mondo-della-vita») in cui ciascuno
sarebbe in relazione con tutti e con la totalità dei compiti e dei prodotti44. A quanto pare il
concetto di Lebenswelt è entrato a far parte del «gergo esclusivo degli amici del
proletariato»45, assumendo i tratti da Fata Morgana di un mondo perduto sotto la
coercizione della costruzione d’identità, che avrebbe alienato la vita a se stessa
sacrificandola alla pura classificazione. Blumenberg individua qui una forma di recupero del
marxismo, probabilmente proprio di matrice francofortese, che mischia Hegel con
Kierkegaard e riflette usando «la logica della lotta di classe»46. Al contrario, anche la
divisione del lavoro è antropologicamente fondata sul principio di delega e sulla possibilità
di non impiegare in ogni attività la totalità della persona. Se dover vendere la propria forza
lavoro non è certamente «la fortuna della vita»47, è pur sempre meglio che vendere se stessi
tutti interi, concedersi in schiavitù per poter aver salva la vita, risarcire un danno, o pagare
8
una multa. E il denaro, a sua volta, è un’istituzione che sta in stretto rapporto con la
capacità umana di delegare e assumere prestazioni. In generale si tratta di guadagnare
tempo, di far fronte alla propria finitezza, il che spiega anche come mai i rappresentati
spesso accettino le azioni dei rappresentanti anche qualora si discostino palesemente dal
loro volere: la fiducia e l’identificazione non bastano a spiegare il fenomeno, bisogna
presupporre che esso conservi la propria legittimazione nella misura in cui consente di
guadagnare tempo rinunciando a certe competenze ed espressioni della volontà. È evidente
– continua con sarcasmo Blumenberg – che gli «amanti delle discussioni infinite» non si
soffermano più di tanto a riflettere sulla brevità della vita, altrimenti saprebbero che, per
godere di quella «gioia della vita» consistente nel poter essere presenti, occorre poter essere
assenti «senza dover rinunciare del tutto a esserci»48.
L’impossibilità della delega scaraventerebbe nuovamente l’uomo nelle caverne quanto
il suo abuso.
Il binomio eguaglianza e libertà, una delle opposizioni chiave della moderna filosofia
politica, è qui risolto semplicemente mediante la sintesi operata dalla rappresentanza.
Al di là dell’imbarazzo di fronte a una soluzione così sbrigativa, qui emerge un
problema che si potrebbe definire servendosi delle categorie proposte da Roberto Esposito
per una critica all’antropologia filosofica. Questa, applicando il concetto di compensatio
all’originaria carenza dell’essere umano, conduce all’assunto secondo cui, per la propria
conservazione, la vita umana ha bisogno di «oggettivarsi», «esteriorizzarsi» in forme che
trascendono il suo semplice darsi, di costruire «un ordine artificiale che la scarta rispetto a
se stessa». Ma in tal modo l’«immunizzazione antropologica» perviene a un «esito
anticomunitario»50: la comunità in quanto tale è insostenibile51; per resistere al rischio
48 Ivi, p. 155.
49 H. Blumenberg, Begriffe in Geschichten (1998), trad. it. Concetti in storie, Medusa, Milano 2004, p. 49 (d’ora in
poi CS); anche in Id., Ein mögliches Selbstverständnis, Reclam, Stuttgart 1997, p. 173 (d’ora in poi MS).
50 R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, p. 16.
51 La comunità, secondo Esposito, non è un attributo dei soggetti che accomuna, né una sostanza prodotta
dalla loro unione, ma designa un insieme di persone unite da un dovere o da un debito, da un «meno», un
munus, un sacrificio, un’espropriazione della propria soggettività (cfr. R. Esposito, Communitas, Einaudi,
Torino 2006, in particolare pp. VII-XXXII). Viceversa, «l’immunitas è la condizione di dispensa da tale obbligo
e dunque di difesa nei confronti dei suoi effetti espropriativi» (Id., Bíos, cit., p. 47). Eppure, in verità, il
negativo dell’immunitas, la communitas, ne costituisce l’oggetto e il motore: l’immunizzazione è l’ingranaggio
9
entropico che la minaccia, va sterilizzata nei confronti del suo stesso contenuto relazionale
attraverso il consolidamento di forme (ruoli, norme, istituzioni), producendo un «eccesso di
mediazione istituzionale»52. Insomma, la «semantica della compensazione» slitta in quella
dell’immunizzazione53. Nel caso di Gehlen, il paradigma immunitario non procede
semplicemente per chiusura difensiva, come nell’immagine della città fortificata, ma si
impone soprattutto tramite il principio dell’esonero54, laddove per esonerarsi
compiutamente l’individuo deve esonerarsi da se stesso, scaricando le decisioni sul
«dispositivo sociale» di cui è parte e liberare energia per prestazioni superiori55. Ciò significa
che l’espansione della libertà è direttamente proporzionale alla crescita dell’apparato
istituzionale e di un codice di abitudini e automatismi: la libertà «scaturisce dalla stessa
necessità che la trattiene», trova il proprio spazio entro una «tendenziale eteronomia»56. Di
sicuro, così intesa, libertà non è autonomia in senso kantiano, né partecipazione.
Benché a proposito di Gehlen affermi che il suo «assolutismo delle “istituzioni”»
riporta l’antropologia al proprio punto di partenza (il modello del contratto pubblico),
benché non sia chiaro se «questo fatale ritorno sia inevitabile»57 e, in generale, la retorica
dell’«“insicurezza” universale» testimoni come «la mera insaziabilità nel bisogno di nido
invada le aspettative della scienza e della politica»58, anche a Blumenberg interessa
soprattutto scongiurare la liquidazione del «resto di diritto del privato»59. Il punto è allora
una modulazione dell’intensità d’intervento delle istituzioni, una limitazione e
costituzionalizzazione dei poteri che consenta ai singoli di disinteressarsi di molte questioni
con una certa dose di spensieratezza e dedicarsi a ciò che può arricchire la loro esistenza nel
breve tempo che hanno a disposizione prima di morire. Tuttavia quest’esito
apparentemente banale va osservato lungo le sue articolazioni e i momenti che vi
conducono, per mostrarne le nuances e gli elementi di originalità.
4. Antiassolutismo e antitotalitarismo
interno della comunità (ivi, p. 48), che per sopravvivere ha bisogno di introiettare il proprio opposto. Questo
meccanismo nascosto altro non è che la sovranità.
52 R. Esposito, Immunitas, cit., p. 17.
53 Ivi, p. 99.
57 H. Blumenberg, Wirklichkeiten, in denen wir leben (1981), trad. it. Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano
10
Se non altro perché ciò implicherebbe – paradossalmente – la cessione del «potere
definitorio», della sovranità nell’uso della ragione e nella decisione (gravida di conseguenze
biopolitiche) su che cosa e chi sia o non sia un uomo, su dove cominci e dove debba
terminare una vita. Com’è noto, secondo la definizione foucaultiana, il potere biopolitico si
distingue da quello sovrano classico, dal cui sfondo pur emerge, sostituendo «al vecchio
diritto di far morire o di lasciar vivere» un potere di «far vivere o respingere nella morte»62, che
è, da un lato, affermazione diretta della vita, suo potenziamento e regolazione, dall’altro
produzione di massa della morte, «tanatopolitica»63. Se la vita si difende e si sviluppa solo
allargando progressivamente il cerchio della morte, il biopotere può giungere fino al punto
(come nel caso del nazismo) di separare coloro che devono restare in vita da coloro che
vanno respinti nella morte, instaurando un nesso causale tra le due condizioni, in virtù di
un confine intraspecifico posto all’interno della dimensione umana: si individua «il non-
uomo nell’uomo», con uno «scambio incontrollato tra norma biologica e norma giuridico-
politica64.
Tornando alla terminologia blumenberghiana, il punto è che il delegante non dispone
affatto della facoltà di rispondere alla «questione di fondo dell’antropologia»65, cioè chi e
che cosa sia un uomo, dunque non si vede perché dovrebbe delegare qualcosa che non è
nemmeno potenzialmente di sua competenza. Checché ne pensasse Hobbes, il potere
definitorio non è mai delegabile, e «per ciò che non si può delegare nessuno ha la
competenza»66. Quando ciò accade si entra precisamente in una variante della ‘dialettica
della visibilità’ che potremmo definire ‘dialettica dell’autoconservazione’ e che comporta la
trasformazione della difesa in assolutismo, dell’istituzione in istituzione totale: quando
Göring afferma «decido io chi è ebreo», si pone su un piano ulteriore rispetto al pregiudizio
e agisce prima di tutto in base al proprio arbitrio, ossia prende una decisione, il cui rovescio
consiste nella facoltà di fare eccezioni, di salvare la vita a qualche singolo per confermare la
regola67. «Lasciarne sfuggire alcuni diviene immediatamente la compensazione per averne
uccisi molti», ma senza odio, bensì per la più alta necessità dell’autoconservazione. Si
compie lo sterminio come forma perversa di Selbsterhaltung: con «l’ossessione di Hitler per il
contagio reale e metaforico», i bacilli divengono «strumento linguistico»68 e l’antisemitismo
acquisisce una giustificazione «igienica»; si va in cerca degli «agenti patogeni» di nuove
piaghe e pesti69; lo sterminio si fa «zoopolitica», nel senso della «disinfezione sociale»70.
Questi fenomeni testimoniano del sovvertimento totalitario in cui l’assolutismo si accosta
62 M. Foucault, La volonté de savoir (1976), trad. it. La volontà di sapere. Storia della sessualità, I, Feltrinelli, Milano
2001.
63 R. Esposito, Bíos, cit., p. 34.
64 Ivi, p. 126. Esposito rielabora qui le riflessioni di M. Foucault, Il faut défendre la société (1976), trad. it. Bisogna
66 Ivi, p. 508.
11
alla «prevenzione assoluta», fino al caso limite dell’«autoarresto»71: la psicosi preventiva si
rivela – a conti fatti – il rovescio della sicurezza.
Alla luce di tutto ciò la «limitazione della possibilità di delegare» auspicata da
Blumenberg ha una fondamentale «funzione di difesa» contro ogni tentazione totalitaria e
assolutistica, ossia contro «il presunto diritto ad approfittare o far approfittare della
funzione delegata»72. In altre parole, se il potere condivide col mito la facoltà di definire,
«dare nomi alle cose», del mito dovrà condividere anche il carattere dubitativo, relativo,
parziale, politeistico, plurale, che rimanda alla divisione dei poteri73. Resta il fatto
inaggirabile che «tutta l’antropogenesi si basa sul principio della delega» e che ciò costituisce
«la radice antropologica dello Stato»74, fonda il suo potere e rende meno inaudito il fatto
che questo, spesso e volentieri, si discosti assai dalla mera funzione della rappresentanza.
71 CS, p. 171. Blumenberg riporta la vicenda di un agente della Gestapo che si premunì dall’eventualità che
un’organizzazione con lo stesso scopo (difendere la sicurezza nazionale) decidesse di proteggere lo Stato da
lui, portando con sé e all’occorrenza esibendo un mandato di cattura a suo nome.
72 BM, p. 509.
73 Cfr. C. Bottici, Filosofia del mito politico, cit., p. 131.
74 BM, p. 508.
76 Cfr. C. Schmitt, Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff (1938), trad. it. Sulla relazione intercorrente fra i
concetti di guerra e di nemico, in Le categorie del «politico», cit., in particolare pp. 195-96 (dove Schmitt propone la sua
ricostruzione dell’origine dei termini Freund e Feind).
77 BM, pp. 565-566.
12
successivi, costituisce il ‘politico’» schmittianamente inteso78. Se nemico è «presuntivamente
chiunque si avvicina», la scena originaria è «assolutamente politica»79, in quanto priva di
passato: solo in virtù di un passato rammemorato, ossia in seguito al riconoscimento di
qualcuno che già si conosce, la categoria antropologica dell’amicizia può intervenire a
emendare il verdetto precedente.
Ma tutto ciò riguarda una situazione che coincide col cominciamento o, in alternativa,
con una patologica perdita di fiducia in un’«adeguata economia» della razionalità80. Detto
più brutalmente: la civiltà consiste nel premiare e valorizzare le deviazioni – per quanto ciò
possa apparire il segno di una ragione insufficiente –, poiché solo queste le consentono di
«umanizzare la vita», mentre «la pretesa “arte di vivere” della via più breve è, nella
consequenzialità delle sue esclusioni, barbarie»81.
Le dinamiche della politica moderna sono estranee alla logica dell’amicizia e
conservano un legame debole e mediato con quella dell’inimicizia: da un lato la convivenza
politica tra uomini e Stati non ha bisogno e non ha infatti nulla a che fare con una
conoscenza profonda e con l’amore che ne può discendere. Che si parli di «amicizia tra i
popoli», ignorando che solo in sua assenza i malumori «diplomatici» promettono di restare
tali e non degenerare, deriva solo da un riflesso condizionato a basare le proprie
interpretazioni su qualcosa che «ciascuno conosce ‘per propria intuizione’»82, dall’effetto
tranquillizzante di immaginare le azioni politiche fondate su un fattore che a sua volta non
ha alcuna consistenza politica: la fiducia. Ma si tratta di arguzie o inerzie del linguaggio:
l’amicizia «esiste tra gli uomini, indubbiamente, non tra i popoli», non può essere
«contenuto della politica»83. Dall’altro lato, se non occorre simpatia per conservare la pace,
per stipulare trattati, non c’è alcun passaggio graduale e obbligato dall’ostilità all’omicidio e
alla persecuzione e, se è vero che l’Ursituation ha insegnato all’uomo a diagnosticare e agire
preventivamente, gli ha mostrato anche come molto più fruttuoso, allo scopo
dell’autoconservazione, sia esitare e sostituire. «Tutta la sfera politica è una realtà derivata, e
altrettanto lo sono le sue categorie»84, le quali non portano necessariamente con sé tutto
della loro origine. Perciò risalire all’antropogenesi serve anche a far luce sull’emergenza di
quella «realtà derivata», sul delinearsi, sull’evolversi e sull’eventuale pervertirsi dei suoi
compiti. E – implicitamente – per confutare la derivazione teologica del moderno alla base
del paradigma schmittiano della secolarizzazione: il binomio amico/nemico descrive una
condizione di partenza in cui è sempre possibile ricadere, ma non è il perno immutabile di
traslazioni che si succedono l’una all’altra fino al dislocamento che, riconoscendolo o
78 H. Blumenberg, C. Schmitt, Briefwechsel 1971-1978 und weitere Materialien (2007), trad. it. L’enigma della
modernita, Laterza, Bari 2011 (d’ora in poi L), p. 153 (già pubblicato in H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der
Sterne, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1997, pp. 345-348).
79 L, p. 153.
80 BM, p. 566.
81 H. Blumenberg, Die Sorge geht über den Fluβ (1987), trad. it. L’ansia si specchia sul fondo, il Mulino, Bologna
1989, p. 131.
82 MS, p. 146 (questo brano è stato ripubblicato sulla base della versione manoscritta, lievemente diversa, e col
13
neutralizzandolo, ha animato il percorso dell’umanità europea dalla teologia cinquecentesca,
alla metafisica del 1600, fino alla morale umanitaria dell’età dei Lumi e all’economia
dell’‘80085.
85 Cfr. C. Schmitt, Die Europäische Kultur in Zwischenstadien der Neutralisierung (1929), trad. it. L’epoca delle
neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Le categorie del «politico», cit., pp. 167-183; M. Revault D’Allonnes,
Sommes-nous vraiment «déthéologisés»? Carl Schmitt, Hans Blumenberg et la sécularisation des temps modernes, in «Les
Études philosophiques», n°1, 2004, p. 27. Come tutti i concetti e i presupposti della sfera spirituale derivano il
proprio concreto contenuto storico dal «centro di riferimento della vita spirituale» in quel momento
dominante (dunque il teologico, il metafisico, il morale-umanistico, l’economico e infine – annuncia già
Schmitt – il puramente tecnico), così avviene anche per la realtà dello Stato e i «temi polemici decisivi dei
raggruppamenti amico-nemico» (C. Schmitt, Le categorie del «politico», cit., p. 174): dallo Stato confessionale, allo
Stato-nazione, allo Stato-sistema economico di cui il comunismo è l’espressione più lampante, si sviluppano
nuove contrapposizioni di uomini e d’interessi, nuovi campi di lotta che generano nuove guerre, benché nello
spostamento verso un altro centro si cerchi, di volta in volta, un terreno di «neutralità» che possa porre fine ai
conflitti.
86 Dopo la prima edizione del 1966 ne esce, nel 1974, una seconda, aggiornata alla luce della reazione di Carl
Per una chiara comprensione della posizione di Schmitt si veda C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la
crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1996, pp. 333-459; in particolare sul confronto con
Blumenberg cfr. pp. 412-414.
89 H. Blumenberg, Die Legitimitat der Neuzeit (1966), trad. it. La legittimita dell’eta moderna, Marietti, Genova 1992,
90 Ivi, p. 96.
91 Così come definita dalla celebre formula di Politische Theologie (1922): «Tutti i concetti più pregnanti della
moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» (C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel
zur Lehre von der Souveranität, 1934, trad. it. Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie
del «politico», cit., p. 61). Molto più condivisibile – secondo Blumenberg –, ma sostanzialmente diversa, la
nuova formulazione del principio in Politische Theologie II (1970) nei termini di una «parentela strutturale» tra
concetti teologici e giuridici (cfr. C. Schmitt, Politische Theologie II. Die Legende von der Erledigung jeder Politischen
Theologie, 1984, trad. it. Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffrè, Milano 1992,
p. 83, nota 1). Qui – scrive Blumenberg – il teorema della secolarizzazione, ridotto al concetto dell’«analogia
strutturale», mostra certamente qualcosa di rilevante, ma «non implica più alcun’affermazione sull’origine di
una struttura dall’altra o di entrambe da una forma anteriore comune» (LM, p. 100). La tesi di un
cambiamento ‘sostanziale’ fra la prima e la seconda Politische Theologie è tuttavia controversa: per
un’interpretazione diversa da quella blumenberghiana rimando a M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia
politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 624-637; cfr. anche C. Galli, Genealogia della politica, cit., p.
13.
92 LM. Corsivo mio.
93 J. Monod, Hans Blumenberg, cit., p. 208.
94 LM, p. 78.
95 Ivi, p. 103.
96 Ibidem.
97 Ibidem.
98 Ivi, p. 104.
99 Ivi, p. 79.
15
assoluto»100 e si pone al polo opposto rispetto al decisionismo, ove tutte le decisioni sono
«sempre già state prese»101, di cui l’hitlerismo rappresenta l’esito mostruoso.
Il Führer, figura della sopravvivenza102 come consapevolezza paranoica della mancanza
di tempo, che pur di non capitolare tentò di «far convergere a forza tempo del mondo e
tempo della vita»103, tentò di operare «la distruzione dell’essenziale istituzionalità del
tempo», dato che le istituzioni si basano sul fatto che «è necessario prendere disposizioni
che scavalcano i limiti della vita, fissare e accettare tradizioni che la oltrepassano» 104. Egli
aspirava alla «definitività politica», voleva decidere della storia una volta per tutte, e in ciò –
si potrebbe dire – ha mostrato il punto più estremo del decisionismo, che è però anche il
punto in cui la politica è messa sotto scacco: per Hitler «la politica non era destino», ma
solo un surrogato del destino e di una vita che si dà esclusivamente come unica vita che
reclama per sé la totalità incondizionata105.
altri sopravvissuti attorno e dopo di sé; cfr. E. Canetti, Masse und Macht (1960), trad. it. Massa e potere,
Bompiani, Milano 1989, pp. 279-297.
103 H. Blumenberg, Lebenszeit und Weltzeit (1986), trad. it. Tempo della vita e tempo del mondo, il Mulino, Bologna
Accarino, Daedalus: le digressioni del male. Da Kant a Blumenberg, Mimesis, Milano 2002, p. 123 (d’ora in poi CT).
107 Ivi, p. 124.
16
Posta l’«artificialità del potere»108 e l’autonomia della politica dalla morale e dalla natura
che il moderno, da Machiavelli in poi, non può più negare, la realtà intesa come spazio del
politico si contrappone alla datità e cade ogni criterio di netta distinzione tra parvenza ed
essere: la statualità presuppone per la sua emergenza un elemento di violenza, il che implica
un superamento della metafisica che contrapponeva alle «cose» le «parole»,
stigmatizzandole nella demonizzazione della sofistica, delle cavernicole ombre, inaugurando
con ciò quel «discredito della retorica politica» come «tecnica» che fa appello a una realtà
antecedente dotata di una propria potestatività109.
Sorge insomma il dubbio che il marchio d’infamia che grava sulla politica quando
sembra coincidere con la «pura retoricità» non sia poi così giustificato: non è forse meglio
una politica di sole parole, che sappia ‘congelare’ i conflitti e trasformarli in mera
intimidazione, sostituendo i «proclami» alle «decisioni»? Piuttosto che sopravvalutare «il
repertorio tradizionale della “realtà” politica», la sua – spesso funesta – «gioia di
decidere»110, converrebbe spesso apprezzarne la mera simulazione111. In mancanza di una
«pace perpetua», frutto di un grande e consapevole sforzo dell’umanità, alla guerra è pur
sempre preferibile la «pace cattiva» (ma «non la peggiore»112) scaturita dalla certezza della
delusione e della catastrofe che discenderebbero dalla sua violazione, difesa col
mantenimento degli eserciti e della leva militare, protetta dalla costante minaccia di una
guerra ‘possibile’ (tutti dispositivi che però meriterebbero di esser sciolti all’istante se
dovesse fallire la loro finalità)113.
Bisogna insomma pensare a fondo e saper sopportare il paradosso del «potere
impotente»114, ossia la circostanza per cui – scrive Blumenberg – il potere oggi è efficace
non in senso classico, coercitivo, in termini di forza, ma come capacità di disporre delle
«teste» che ‘liberamente’ acconsentono alla volontà politica, ovvero si sostiene proprio su
ciò che in effetti «non si può né ottenere né dominare con il potere»115, sull’intelligenza
spontanea e la facoltà inventiva, come capacità di produrre ideologia e padroneggiare la
sfera intellettuale. L’immagine della statualità che trapela alla luce di ciò è allora quella di
uno «Stato suggeritore», che deve la sua sussistenza alla «retorica istituzionalizzata» e
vacillerebbe se l’abbandonasse per presentarsi come incarnazione dello zoon politikón o
come nudo esercizio di potenza116.
Se da un lato la politica, e forse oggi ancor più l’economia, devono il loro carattere
destinale al discorso pubblico che le corrobora, producendo profezie che si auto-avverano,
enunciando obiettivi, presentandosi come «insieme di “misure”», dall’altro questa «politica
111 Cfr. anche RV, p. 97; A. Rivera García, Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutismo, cit., pp. 143-165.
113 La guerra – scrive Blumenberg altrove – «si fa sempre con l’illusione che questa sia l’unica forma di agire
politico in cui non è necessario […] aspettare che passi il tempo» (TT, p. 100).
114 CT, p. 133.
115 Ivi, p. 134.
116 Ivi, p. 135. Per un’analoga descrizione di questo genere di «soft power» cfr. Y. Citton, Mythocratie. Storytelling et
preferibilità della guerra fredda rispetto alla guerra guerreggiata. Lo Stato stesso si mantiene grazie a questo
compito di pax retorica sotto la minaccia della guerra.
18
In ogni caso bisogna porsi come obiettivo il «depotenziamento ontologico dello Stato»
inteso in senso forte come «realizzazione dell’idea etica», decostruirlo ri-costruendo e
mantenendo «l’aporia del depotenziamento del potere» contro la «falsa delusione» che si
accompagna alla sostituzione delle parole ai fatti124. Il richiamo alla realtà non può tradursi
nella pretesa dello Stato che essa gli si adegui come a una necessità 125; in altri termini,
sarebbe totalmente paradossale immaginare di superare l’assolutismo della realtà, la
violenza dello status naturalis riproponendo nuove forme di assolutismo. Posto che
l’antropogenesi stessa è stata «la crisi di tutte le crisi» e ha generato condizioni di vita che
hanno tutti i tratti dell’assolutismo, nella forma dell’«assolutismo della realtà»,
per quanti assolutismi l’uomo potesse produrre nella sua storia, questo della sua
origine doveva restare insuperabile. Tutti gli altri sono stati al servizio del suo
superamento. La creatura che è nata ha gestito magistralmente il rapporto con
l’assoluto [solo] nelle sue forme già sempre depotenziate126.
Se dev’esserci passaggio dal caos al cosmo, non deve incarnarsi nello Stato che
rivendica la propria «dignità cosmica», ma – come insegna il politeismo olimpico – nella
forma costituzionale della divisione dei poteri, che sola garantisce la conservazione
dell’ordine e la sua accettazione. Non si può, hobbesianamente, «rinunciare a se stessi per
conservarsi»127. Andrebbe invece riletto l’Ésprit des lois, e non come una teoria sulla
possibilità dell’emersione dello Stato dalle sue condizioni pre-statuali, ma sulla necessità di
«portare lo Stato storico, quale è già dato, alla misura della sopportabilità umana», di
«neutralizzare e frenare la dinamica autentica del potere»128. Il saggio di Blumenberg
termina con una citazione di Kant che, dopo il terremoto di Lisbona del 1755, chiudeva la
sua Storia e descrizione naturale del terremoto esortando il re di Prussia a risparmiare agli uomini,
devastati dai flagelli naturali, il flagello della guerra. Se la politica – sembra dire Blumenberg
– sorge come ulteriore sfera protettiva opposta alla precarietà dell’esistenza umana, non
può mai mimare la catastrofe naturale, mai assumere i tratti della fatalità, mai soggiogare gli
uomini a un potere assoluto, poiché il potere assoluto della realtà è proprio ciò contro cui è
sorto come mitigazione.
Qui sta, secondo me, il nucleo teorico forte della posizione filosofico-antropologico-
politica di Blumenberg, definibile come una «lode del politeismo»129, applicato – anche
attraverso la «fenomenologia della ragione narrativa» sviluppata negli studi sul mito e nella
teoria dell’inconcettualità – al gesto di autoaffermazione della ragione moderna, al fine di
scongiurarne il pervertimento in «delirio di onnipotenza»130. La «politeologia»131 che
Blumenberg oppone alla teologia politica parrebbe implicitamente farsi carico di una
128 Ibidem.
129 Cfr. O. Marquard, Apologie des Zufälligen (1987), trad. it. Apologia del caso, il Mulino, Bologna 1991, pp. 37-62.
130 G. Leghissa, Il dio mortale. Ipotesi sulla religiosità moderna, Medusa, Milano 2004, p. 280.
131 Ivi, p. 281.
19
religione civile dei moderni, adeguata alle esigenze di una democrazia pluralista, capace
pertanto di immunizzarsi rispetto al rischio – additato dalle teorie della secolarizzazione –
che i miti fondatori del moderno divengano più virulenti del dogma di cui intendono
sbarazzarsi. Insomma, sembra emergere la questione di una «religione dei moderni non in
quanto mitologia della ragione, ma in quanto creazione di uno spazio di convivenza tra
ragione e mito, a cui affidare la possibilità di nuove creazioni mitologiche»132. E certamente
tale questione non può che essere posta sul terreno della politica e della prassi. Ma tutto ciò
rimane in Blumenberg solo abbozzato e suggerito, tocca dunque ai suoi interpreti
intraprendere un cammino che conduca, a partire dalle sue indicazioni, a sviluppi e
applicazioni eccedenti ma coerenti con esse.
8. Conservazione e utopia
Sul terreno della politica, dove a quanto pare si mostrano i nessi più rilevanti tra
l’ipotesi antropogenetica, la teoria del mito e della retorica e la questione della legittimità del
moderno, Blumenberg mette in scacco Hobbes, Schmitt e Gehlen coi loro stessi mezzi,
pensa «con» e «contro» di loro133: dal bellum omnium contra omnes e dalla precarietà della
situazione di partenza giunge al politeismo e alla divisione dei poteri; dalla polarizzazione
amico/nemico trae non la confutazione del liberalismo, ma la sua giustificazione; dalla
necessità dell’esonero la negazione dell’assolutismo; dall’insicurezza il sospetto sulla
decisione e uno smaliziato elogio della retorica. Eppure sembra pervenire alla fondazione
antropologica di una certa forma di governo liberal-costituzionale non priva di
problematicità. Questo perché sussiste una sorta di rapporto analogico tra modernità e
antropogenesi, tra strutture del moderno e strutture antropologiche, certamente
problematico benché in ultima istanza consapevole, dato che Blumenberg sa e dichiara
frequentemente che ogni antropologia è figlia del suo tempo.
C’è un’ulteriore questione: il «soddisfacimento di sfondo»134 (ossia l’appagamento dei
bisogni primari assicurato dalle istituzioni fondamentali) che garantisce stabilità e
percezione diffusa di sicurezza, può essere «reale o virtuale»135. Blumenberg intende questa
‘virtualità’ in tal senso: bisogna sempre tenere a mente che il principio della delega è legato
a un’‘economia della coscienza’, a una dose necessaria di fuga dal realismo che discende
dalla costitutiva inconsolabilità umana. Anche la consolazione, quale necessaria «istituzione
per l’elusione della coscienza», fa parte delle prestazioni della delega. Entrambe
intrattengono un nesso forte con la retorica, la forma di espressione istituzionale che
Blumenberg predilige. E, anche nel caso della sete di consolazione, «lo spettro dei bisogni
di un organismo è al contempo misura del suo grado di libertà e individualità»136, libertà che
consiste soprattutto nella possibilità di conservarsi in vita «nonostante la sussistenza della
20
realtà, dunque infine di poterlo fare anche attraverso la finzione (fiktiv)»137: c’è libertà anche
nel godere della mera finzione della realtà o nel sopportare la rinuncia a essa, nella
compensazione tramite un’eccedente disponibilità dell’immaginario138.
Complicando il quadro di una posizione ideale che potrebbe andare dall’inquietante
ritratto benjaminiano della città fantasmagorica139, all’invettiva francofortese sull’industria
culturale che offre un divertimento basato su un «sentimento di impotenza», una fuga
«dall’ultima velleità di resistenza che [la realtà] può avere ancora lasciato sopravvivere negli
individui»140, fino alle ammonizioni baudrillardiane sull’assorbimento del reale da parte del
virtuale come «precessione dei simulacri», costruzione di un «iperreale» al riparo da «ogni
distinzione tra reale e immaginario»141, Blumenberg afferma la necessità e la positività della
simulazione, anche come forma surrogata di democrazia: va tenuto in considerazione che,
in un «mondo sovraffollato», il contatto autentico con la realtà non è più possibile per tutti
nella medesima misura ed è il caso di chiedersi, seppur cautamente, se la fruizione dei
surrogati non sia comunque meglio del semplice accesso negato alla realtà. Se non ci fosse
il teatro lirico col suo pubblico elitario, non esisterebbero nemmeno i dischi e la
televisione142! Questa è la rassegnata risposta di Blumenberg allo scandalo dei rematori sordi
che accompagnano Ulisse al di là dello scoglio delle Sirene143.
E tuttavia – Blumenberg lo sa – la tendenza verso l’indistinguibilità di realtà e illusione
non può essere sottovalutata144. È sempre in agguato il rischio di scivolare dalla
«funzionalità della gestione intersoggettiva dell’esistenza mondana», come «fondo di
garanzia per il mondo», alla «rinuncia al mondo» tout court145, agevolata da un dispiegamento
degli arsenali della simulazione, dalla sovrabbondanza di informazioni e immagini che
fanno sorgere «un “mondo” dei non vedenti perché onniscienti», un mondo di soli esoneri
dal reale, che si rassicura retoricamente della propria transitorietà, in «preparazione di nuovi
cieli e nuove terre»146.
Le questioni mi sembrano allora le seguenti: fino a che punto possiamo aspirare a
nuove terre qui e ora e sbarazzarci di questa compensazione virtuale, di questi
140 M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialektik der Aufklarung. Philosophische Fragmente (1969), trad. it. Dialettica
Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Cappelli, Bologna 1980, pp. 46-47.
142 BM, p. 600.
143 Ancora in Dialektik der Aufklärung, dove l’eroe omerico incarna il prototipo del soggetto borghese, nel
momento del passaggio davanti allo scoglio delle Sirene, il privilegio dell’ascolto che Odisseo, il signore
terriero, si concede, è possibile solo come sottrazione e sfruttamento del lavoro che altri svolgono al suo
posto. Per i compagni, antenati del moderno operaio salariato, il prezzo della sopravvivenza è l’ignoranza del
«richiamo dell’irrevocabile»: essi, «che non odono nulla, sanno solo del pericolo del canto, e non della sua
bellezza». M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 42.
144 Cfr. BM, p. 601.
145 UC, p. 614.
146 Ivi, p. 615.
21
«appagamenti immaginari»147? Non sono anch’essi una forma di quello «strapotere delle
istituzioni» additato da Adorno?148 Come vigilare sul potere mistificatorio della retorica,
operando smascheramenti? In che modo si può scongiurare la degenerazione della
rappresentanza in mera autoreferenzialità, nell’invito a ‘non disturbare il manovratore’?
Quanto possiamo emanciparci? Si può denunciare lo stato di cose presente senza ricadere
in nuovi realismi e assolutismi? Dove corre il confine tra la minaccia della pace e una giusta
esigenza di cambiamento? E se i cittadini, anziché esercitare la propria libertà nella
dimensione privata, ambissero a occupare in qualche forma lo spazio pubblico, revocando
almeno in parte la delega alle istituzioni? C’è il margine per una critica sociale? Nel testo del
’68-’69, Blumenberg afferma che la pace mondiale, raggiungibile per via ‘tecnica’, è solo il
primo passo per poter sperare nella felicità dell’umanità, la precondizione dell’utopia: «a
entusiasmare e scatenare le forze costruttive può essere solo quel che potrebbe venire dopo
l’acquisizione della pace»149. Ciò non di meno il pensiero utopico è stato, nel corso della
modernità, un movimento virtuoso in favore della possibilità della pace mondiale nella
misura in cui ha funzionato come istanza di mantenimento dello Stato entro i confini della
propria contingenza: rinfacciando al reale le possibilità che ha rifiutato, l’utopia ne confuta
la «sussistenza cogente»150 e mostra che le cose possono essere diverse da come sono, che si
può «contestare la coscienza della loro ovvietà»151.
Spesso – scrive vent’anni dopo in Höhlenausgänge –, nel corso della storia le «epifanie
dell’apparenza sospesa» pongono, nella loro «consistenza infranta», la «datità fisica dalla
parte del torto, a beneficio dell’inesperibile per il quale non resta altro che la professione di
fede»152. Rispetto a ogni realtà storica «gli aspiranti alla disillusione si trovano un passo più
in là, nel giorno della “critica”». Al contrario, ogni realismo è sempre soggetto a possibili
strumentalizzazioni, da quello dell’uscita dalla caverna a quello del ‘dopo apocalisse’ (i
nuovi cieli e la nuova terra) 153. Perciò, va tenuto presente non solo che il problema della
pace può essere affrontato fruttuosamente solo in coerenza con «le datità presentemente
date», nella concretezza del contesto e di quel che può offrire; ma soprattutto che, se la
147 Ibidem.
148 Per un discorso, ispirato alla lezione di Blumenberg, sulle pratiche di coercizione e violenza simbolica
come operazioni che dirigono la disposizione psicologica dei soggetti, e su come il pensiero retorico debba far
luce su queste si veda V. Pavesich, Hans Blumenberg, cit., pp. 167-203. Pavesich è però soprattutto attenta al
rovesciamento virulento di retorica, miti e narrazioni in «assolutismo delle immagini e dei desideri» (EM, p.
30), in sostanza in fondamentalismo da un lato e neoconservatorismo altrettanto fondamentalista dall’altro,
entrambi sfocianti in forme di terrore. Ciò su cui invece qui tento di esercitare il sospetto è la ‘quiete che sta
nel mezzo’, la possibile percentuale di mistificazione insita in situazioni di stabilità istituzionale, quella dose di
retorica che consente tutto sommato di vivere in società, ma non garantisce che la società sia giusta, né aiuta
ad accorgersi se non lo è.
149 CT, p. 141.
150 Ivi, p. 142.
151 Ivi, p. 143. Barthes direbbe che, se il linguaggio del mito eternizza, depoliticizza e naturalizza il presente, il
linguaggio rivoluzionario parla «per trasformare il reale e non più per conservarlo in immagine» e per ciò
stesso, se rimane tale, non può diventare mitico. R. Barthes, Mythologies (1957), trad. it. Miti d’oggi, Einaudi,
Torino 1994, p. 226.
152 UC, p. 616.
153 Ivi, p. 617.
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trascendenza dell’utopia viene «recuperata nell’immanenza del tempo unico», ovvero di
fatto rimossa nel momento in cui è posta al servizio del progresso come «realizzazione
permanente di possibilità», essa incorre in un’«atrofia funzionale». La provincia utopica
deve restare al di fuori del contesto della realtà, diversamente, se si trasforma in «utopia del
futuro» nei termini di «ciò che deve comunque accadere», non può che produrre ottimismo
o rassegnazione, atteggiamenti inclini ad «abbandonare la storia a se stessa» 154. Detto
altrimenti, se l’utopia cede il proprio esotismo per assumere tratti profetici, perde a un
tempo tutto il suo potenziale critico: perciò non può dare «insegnamenti su come
dev’essere il mondo o lo Stato», ma soltanto su come non devono essere155.
Purtuttavia bisogna prendere sul serio in senso sperimentale l’intenzione dell’immagine
della caverna; fatta la tara della qualità mitica che le deriva dalla prossimità con l’origine,
occorre – dice Blumenberg nelle ultime pagine di Höhlenausgänge – pensarne ancora l’intento
in relazione al nostro tempo: se la situazione data si giustifica in base a un bisogno di
autoconservazione, ciò non impedisce di mettere in discussione gli strumenti e le funzioni
della retorica, quand’anche questo non dovesse condurre a un grado maggiore di possesso
della realtà156. Un’allegoria della caverna capace di «cogliere la problematicità del presente»
dovrebbe, oltre a comprendere in termini antropologici, e non più metafisici, gli oppositori
delle verità superiori157, i fautori della ‘conservazione’, e riconoscere il bisogno di affidabilità
che induce a rifugiarsi nelle istituzioni, altresì pensarne il culmine non più nel mondo delle
idee, ma nella «fantasia»158. Essa è «lo strumento delle sorprese che l’uomo riesce a farsi» 159,
qualcosa che intrattiene un legame segreto con la giovinezza. E se, in quest’allegoria finale,
dall’acme della fantasia liberata si tornasse alla caverna dell’abitudine, ciò significherebbe
solo «il declivio della perdita di giovinezza, fino alla morte». La fantasia è autistica, è un
«organo per altri mondi» e perciò è «incapace di generare vincoli», nei confronti di ciò che
si lascia alle spalle come verso quel che è a venire, nel futuro. Per questo, come la sua
traduzione coatta in meta del movimento reale della storia, anche il suo volgersi all’indietro
è sempre forzato, è un anelito a ritirarsi là dove regna la certezza del ritorno dell’eguale,
non ha a che fare con alcuna saggezza o esperienza, coincide soltanto con «la perdita di
organizzazione che si ha con l’invecchiare»160.
L’adultità è un’altra cosa ancora: si conquista «non rinunciando alle sfere, ma
imparando ad abitare in modo corretto al loro interno»161; uscendo dallo stato di minorità
senza credere di poter fare a meno delle caverne, ma sapendo che nell’orizzonte del
moderno si tratta piuttosto di una «reintegrazione della sfericità […] entro contesti più
158 Qui Blumenberg usa come sottotesto ancora gli scritti di Gehlen, in questo caso il saggio giovanile del
1927: Reflexionen über Gewohnheit, in Gesamtausgabe, I. Philosophische Schriften, Vittorio Klostermann, Frankfurt am
Main 1978, pp. 97-111.
159 Ivi, p. 624.
160 Ivi, p. 625.
161 G. Leghissa, Sulla sferologia di Peter Sloterdijk, in «Iride», n°63, 2011, p. 440.
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complessi»162, di demitologizzare senza negare il mito, ma liberando «la perla dalla sua
conchiglia teologica»163. Essere adulti significa tener sempre a mente che un andamento
virtuoso dell’agon, in equilibrio tra affidabilità e stimolo dell’inusuale, sarebbe il punto
d’intersezione desiderabile, il «riferimento della realtà» in grado di fare della caverna
l’«istituzione delle istituzioni»164, e che proprio i riusciti esoneri aprono gli spazi per le
promesse, le esperienze esotiche, le sfide sconosciute: insomma, bisogna imparare a sognare per
essere liberi, così non serve nemmeno volare per essere liberi165.
9. Brevi conclusioni
166 Cfr. B. Accarino, Nomadi e no. Antropogenesi e potenzialismo in Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans
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erano eredi della borghesia e del boom economico, di un sistema che aveva comunque la
sua solidità, che ha offerto loro la sicurezza e gli strumenti per elaborare una controcultura.
La posizione di Blumenberg rispetto a questa dialettica è definibile come un invito alla
maturità, alla sobrietà, per utilizzare una formula di Remo Bodei, e alla rinuncia non solo a
«utopie di dominio», ma anche «di miglioramento globale della realtà»169. E tuttavia mi piace
pensare che anch’egli si considerasse mobile rispetto a questo centro, membro esemplare di
quella specie indocile a cui ha dedicato la propria ‘antropologia dinamica’. Non è casuale
che chiuda Höhlenausgänge con un’apertura, domandandosi se, forse, non saranno nuovi
rapporti di legittimità tra le età della vita a plasmare l’inizio del secondo millennio 170, ossia –
credo – se il futuro non riservi una diversa sintesi tra vecchiaia, maturità e giovinezza, tra
conservazione, equilibrio e trasformazione …
169 R. Bodei, Introduzione all’edizione italiana di H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt (1981), trad. it. La leggibilità
del mondo, il Mulino, Bologna 1984, p. XIX.
170 Cfr. UC, p. 626. Sulla base di una traduzione modificata rispetto alla versione italiana di Martino Doni.
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