S
econdo l’Organizzazione mondiale
della sanità, nei prossimi anni la
depressione sarà il disturbo psichico
più diffuso. Già oggi ne soffrono 350
milioni di persone di ogni età e fascia
sociale. In Italia, è clinicamente depresso 1
adulto su 5, in particolare le donne, ma
sono sempre più numerosi i casi che
riguardano bambini e adolescenti.
Ma di che cosa parla la psichiatria
quando parla di depressione? Non certo di
un semplice abbassamento del tono
dell’umore, della comune esperienza di
sentirsi con il morale a terra, ma – come si
legge in queste pagine – della percezione
della perdita del Sé, del tempo dell’Io che
rallenta fino a fermarsi, del dolore che
frantuma l’identità individuale e preclude
ogni progetto e ogni apertura al futuro.
Schiacciata da un profondo sentimento di
vuoto, di colpa e di disperazione, la persona
depressa affonda, sentendo di aver perso lo
slancio vitale e smarrito il filo della propria
esistenza. Per aiutarla a «risalire in
superficie», bisogna imparare a conoscere e
ad ascoltare la sua sofferenza.
Alberto Siracusano, uno dei massimi
esperti italiani di depressione, analizza
questa patologia diffusissima, di cui si parla
ancora troppo poco e troppo spesso senza
cognizione di causa, a trecentosessanta
gradi, descrivendone origini, meccanismi,
caratteristiche e indicando i possibili e più
efficaci trattamenti.
Con un linguaggio semplice e accessibile,
ma senza rinunciare all’accuratezza e al
rigore del discorso scientifico, affronta il
tema della depressione da una duplice
prospettiva – quella razionale, scientifica di
chi cura e quella emozionale del paziente –
e secondo l’inedito approccio del ciclo di
vita, dall’infanzia all’adolescenza (oltre la
metà dei disturbi mentali si manifesta
all’età di 14 anni), dalla maturità alla
vecchiaia, con particolare attenzione per
l’universo femminile (crescita, gravidanza e
menopausa) e per la difficile congiuntura
economica che stiamo vivendo (in questi
ultimi anni, la vendita di psicofarmaci è
aumentata in modo allarmante). Il tutto
raccontato anche attraverso diverse storie
cliniche, che arricchiscono il testo dando
voce alle esperienze di chi ne ha sofferto e
ha avuto la forza di uscirne.
«Scrive Tagore: “L’uomo ha dentro di sé
il silenzio del mare, lo strepitio della terra e
la musica dell’aria”. La vita è tutto questo!
Da parte nostra, nel momento in cui siamo
di fronte alla depressione possiamo
immaginare di essere davanti a un abisso
che allontana gli altri elementi vitali, terra e
aria. Per ritrovarli bisognerà risalire in
superficie.»
L’autore
Alberto Siracusano è
ordinario di psichiatria,
direttore della scuola di
specializzazione in psichiatria
e direttore del dipartimento di
Medicina dei sistemi dell’Università di
Roma Tor Vergata. È inoltre direttore
dell’Unità operativa complessa di psichiatria
della Fondazione Policlinico Tor Vergata.
Già presidente della Società Italiana di
Psichiatria, è presidente della Società
Italiana di Psicopatologia (S OPS I ) e membro
della Società Psicoanalitica Italiana e
dell’International Psychoanalytic
Association. Autore di numerose
pubblicazioni scientifiche e libri, ha curato il
Manuale di Psichiatria, il più diffuso testo di
studio di psichiatria. Ha dedicato numerosi
studi e articoli al tema della depressione, in
particolare alla depressione femminile.
Alberto Siracusano
RISALIRE IN SUPERFICIE
Conoscere e affrontare la depressione
Risalire in superficie
A Carla
Un dì si venne a me Malinconia
e disse: «io voglio un poco stare teco»;
e parve a me ch’ella menasse seco
Dolore e Ira per sua compagnia.
DANTE ALIGHIERI , Rim e, LXXII
I
Che cos’è la depressione
Un po’ di storia
È utile scorrere rapidamente alcuni passaggi
storici del concetto di depressione.
Nell’antichità veniva utilizzato il termine
«melanconia», e solo a metà dell’Ottocento la
melanconia viene rinominata «depressione»,
un vocabolo preso a prestito dalla cardiologia
dell’epoca per riferirsi «a una riduzione
generale del funzionamento di un organo, il
cuore». Inizialmente si parlò, per analogia, di
«depressione mentale», poi solo di
«depressione». Verso il 1860, il termine
compare nei dizionari medici per indicare un
«andar giù, uno slivellamento psichico, una
lowness of spirits» presente nelle persone
affette da una qualche malattia. La
caratteristica di questa impostazione è
ritenere che le patologie mediche in generale
siano il risultato o di un eccesso o di un
esaurimento dell’«energia» fisica e psichica,
avendo come riferimento un modello teorico
basato sul concetto di energia. Non a caso si
parlerà anche di «neuroastenia» e di
«esaurimento nervoso». Vale la pena
ricordare che proprio in questo periodo,
intorno al 1870, fa la sua comparsa l’energia
elettrica, che segna convenzionalmente
l’inizio della rivoluzione industriale.
L’evoluzione storica della terminologia
dimostra come lo studio della depressione sia
sempre stato influenzato dalle diverse
correnti filosofiche, ideologiche, sociali,
economiche, culturali e morali delle varie
epoche, che hanno influito sulla definizione e
sul riconoscimento. Inoltre, sulla depressione
ricade anche la problematicità dello scontro,
all’interno della medicina e della psichiatria,
tra la «scienza dello spirito» e la «scienza del
corpo». La malattia mentale è ancora oggi
oggetto di controversia a causa della mai
ricomposta scissione tra corpo e anima,
mondo del somatico e mondo dello psichico,
e della difficoltà di determinare cause
eziopatogenetiche uniche. Infatti, la
complessità delle cause dei disturbi psichici
rende impossibile ogni approccio
riduzionistico e semplificatore.
Per spiegare quanto stiamo dicendo, basti
pensare a ciò che accade nel confronto-
scontro tra la persona affetta da depressione,
che lamenta un dolore psichico, e la persona
vicina che le dice: «Non hai niente; che ti
manca? Non hai nessuna malattia [del
corpo]», sottolineando così una visione del
mondo in cui lo star male può essere
determinato solo dalla presenza di un danno
fisico. La persona depressa viene anche
sollecitata, spesso in modo sbagliato, a
reagire: «Fai qualcosa, è solo questione di
volontà. Dipende tutto da te».
Nella concezione comune della
depressione è possibile rintracciare
l’influenza della morale cristiana, cioè
l’erronea visione della malattia come colpa, e
quindi dell’individuo depresso come
accidioso, pigro, colpevole di un peccato di
tristezza, di indolenza, posseduto dal
demone diabolico del meriggio, che verso la
metà del giorno «tormenta i solitari, … ispira
il disgusto delle cose di Dio, l’orrore della vita
spirituale… Nell’ora in cui regna la canicola,
il sole si immobilizza, la vita diviene senza
senso, l’esistenza odiosa, il lavoro inutile». 9
L’accidia, per Flaubert la peste dell’anima,
muta rapidamente da stato di inerzia ad
aggressività, da tristezza a collera, da torpore
passivo a rabbia attiva. Non a caso Dante,
nell’Inferno, pone assieme accidiosi e
iracondi, sommersi dalle fangose e «umorali»
acque dello Stige.
Nel linguaggio comune il termine
«depressione», che deriva dal verbo deprimere,
il cui significato è «mandare giù, mandare più
in basso, affondare», indica uno stato
d’animo la cui tonalità affettiva principale è
appunto lo «stare giù», il sentire un misto di
svogliatezza, mancanza di piacere, tendenza
all’essere pessimisti, insoddisfazione, noia.
Così intesa, la depressione è un’esperienza
che tutti noi abbiamo vissuto e viviamo nella
nostra vita quotidiana, e che viene indicata
anche con i termini «melanconia» o
«malinconia». Il temperamento melanconico,
predisposto alla depressione, viene descritto
come letargico, dedito alla contemplazione e
alla rimuginazione (vedi capitolo II).
Il rapporto fra depressione e melanconia è
stato descritto in modo splendido definendo i
due affetti «emozioni sorelle». 10 È possibile
tracciare una differenza fra depressione e
melanconia basandosi non tanto
sull’esistenza o meno di una causa, ma
considerando la prima una forma di malattia
e la seconda un modo di essere
personologico. I termini melanconia e
depressione sono spesso utilizzati in modo
intercambiabile, creando fraintendimenti
rispetto alla situazione psicopatologica che si
vuole descrivere. Possiamo invece
sinteticamente delineare tre aree depressive:
una con possibili cause esistenziali, la
«depressione esistenziale»; un’altra in cui
prevale l’essere una malattia con evidenti
fondazioni biologiche, la «depressione-
malattia»; e un’altra ancora che possiamo
chiamare «depressione motivata», provocata
da «avvenimenti dolorosi e conflittuali».
Queste tre aree depressive spesso si
intrecciano e non si escludono l’una con
l’altra. La melanconia, invece, sembra essere
più una predisposizione di fondo dell’animo,
un modo di accostarsi al mondo.
Nell’antichità, al temperamento
melanconico venivano attribuite doti creative
in campo artistico, filosofico, poetico e
politico (Aristotele). Secondo le teorie
dell’epoca, tale temperamento, sotto
l’influsso di fattori che potremmo dire
«precipitanti» (posizione dei pianeti,
variazioni stagionali, in particolare
l’autunno), indurrebbe nell’individuo
un’eccessiva produzione di «bile nera»
(atrabile), che può fuoriuscire dalla milza, sua
sede e luogo di secrezione, infiammarsi e dar
luogo a tutti i fenomeni fisici e psichici tipici
della melanconia. Ippocrate (460-377 a.C.)
descrive i sintomi depressivi come
«avversione per il cibo, irritabilità, agitazione
motoria, sonnolenza…». La teoria
dell’eccesso di bile ha influenzato la terapia
per la melanconia: norme dietetiche e
igienico-sanitarie, e soprattutto salassi e
purganti per eliminare la bile in eccesso.
Tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.,
tuttavia, alcuni filosofi e studiosi di anatomia
(Asclepiade, Aulo Cornelio Celso, Lucio
Anneo Seneca) cominciano a proporre teorie
alternative a quella umorale, le cosiddette
«teorie solidistiche», che sostengono l’idea di
una costrizione di alcune fibre del corpo
umano come causa dei sintomi depressivi. In
questo stesso periodo, vengono proposte le
prime classificazioni e suddivisioni della
melanconia – in particolare, vengono
identificati due sottotipi, uno a prevalente
manifestazione somatica e l’altro a prevalente
manifestazione psichica – e per la prima volta
vengono descritte anche forme deliranti.
Areteo di Cappadocia (II secolo) è stato il
primo a differenziare una melanconia di
origine biologica da una di tipo reattivo, e
quindi con cause psicologiche. Con Galeno
(131-201), invece, ritorna in primo piano la
teoria umorale: la bile nera, a seconda del
luogo di maggior concentrazione (solo
encefalo, organismo intero per via ematica,
regione ipocondriaca con esalazioni tossiche
diffuse fino al cervello), può dare origine a
forme diverse di melanconia. Anche Galeno
descrive forme deliranti. Celio Aureliano (V
secolo) sottolinea il ruolo dell’aggressività e
del suicidio nel quadro depressivo, oltre alla
possibile presenza di tratti psicotici.
Nel mondo arabo la conoscenza
«scientifica» del fenomeno depressivo è
testimoniata dai testi di Avicenna (X-XI
secolo), il quale, partendo sempre dalla
struttura del temperamento, postula che un
particolare tipo di melanconia possa
insorgere «se la bile nera si mischia con il
flegma … quando la malattia è tranquilla, e si
associa a inerzia, mancanza di
movimento…». Avicenna considerava la
depressione una malattia e, per la sua cura,
proponeva rimedi «medici», cioè
farmacologici, quali l’iperico.
In epoca rinascimentale riemerge
l’accostamento aristotelico fra depressione,
temperamento depressivo e genialità.
Marsilio Ficino (1433-1499) descrive il
temperamento melanconico e la melanconia
stessa come tratti tipici del genio e
dell’artista, ricollegandoli all’influsso,
ambivalente, del pianeta Saturno.
Tra il XVI e il XVII secolo compaiono
alcuni trattati specialistici, nei quali vengono
descritte e classificate forme diverse di
melanconia. Tra questi, il Discours des
maladies mélancoliques (1594) di André Du
Laurens e il Treatise of Melancholie (1586) di
Timothy Bright. Molto importante per la sua
distinzione tra una forma organica, dovuta
alla bile, e una psichica, legata a dinamiche
spirituali, è The Anatomy of Melancholy (1621)
di Robert Burton. L’autore, includendo tra i
disturbi affettivi categorie piuttosto ampie,
descrive forme di melanconia «senza causa»,
accanto ad altre reattive a eventi di vita (lutto,
consumo di alcol e di certi cibi, ritmi
biologici, stagioni, emozioni molto intense
come l’amore); ritiene inoltre che tra i
melanconici ci sia una prevalenza di maschi
(contrariamente a quanto si rileva oggi).
Burton descrive anche apertamente i legami
tra follia, melanconia e suicidio. Anch’egli
prescrive rimedi farmacologici, come iperico
e tarassaco, accanto agli usuali consigli
dietetici e igienico-sanitari.
Sulla scia di questa dicotomia tra organico
e psichico si collocano anche le descrizioni di
una melanconia «umorale» e di una
«nervosa» offerte da Anne-Charles Lorry
(1726-1783), caratterizzate l’una
prevalentemente da disturbi digestivi, l’altra
da fenomeni convulsivi. Jean-Étienne
Dominique Esquirol (1772-1840) descrive più
sistematicamente il primato dell’affettività
nella melanconia, coniando il termine
«lipemania» (dal greco lypemanía, «malattia
con dolore o piena di dolore») e
descrivendone una forma delirante dominata
da un unico delirio, la «monomania».
In epoca romantica si va accentuando
l’aspetto affettivo, spirituale, della
melanconia e si delinea la tendenza a
preferire un trattamento «morale» ai rimedi
fisici e farmacologici. Per Emil Kraepelin
(1856-1926), i sintomi nucleari della
depressione consistono in un abbassamento
del tono dell’umore e in un rallentamento dei
processi fisici e mentali, in contrapposizione
all’elevazione del tono dell’umore e
all’accelerazione dell’attività fisica e mentale
proprie della mania. Alla fine dell’Ottocento,
la depressione è considerata «una condizione
caratterizzata dall’affondamento dello spirito,
dalla mancanza di coraggio e di iniziativa, e
da pensieri cupi». In maniera sintetica,
possiamo dire che le malattie affettive e i
disturbi dell’umore sono considerati
sfuggenti e scarsamente definibili perché
legati alle passioni. I ricercatori concordano
nel sostenere, in base all’osservazione clinica,
a metodi logico-deduttivi e alle teorie
epistemologiche a loro contemporanee, che i
disturbi affettivi, ivi compresa la depressione,
siano patologie primarie dell’affettività, con
sintomi psicopatologici definiti, natura
periodica, origine genetica, si manifestino in
soggetti con personalità predisposta e siano
di natura endogena (non precipitati da
eventi).
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del
secolo scorso, Karl Leonhard, Jules Angst,
Carlo Perris e George Winokur,
indipendentemente l’uno dall’altro, hanno
proposto la distinzione fra episodi depressivi
senza episodi maniacali o ipomaniacali
(disturbo depressivo maggiore), che
compaiono in età adulta e anziana, e quelli,
d’insorgenza più precoce, nei quali sono
presenti uno o più episodi maniacali o
ipomaniacali (disturbo bipolare). Nello stesso
periodo si delineano con maggior precisione i
due filoni di trattamento «moderni» per la
depressione, quello psicologico (psicoterapia)
e quello somatico (elettroshock,
psicofarmaci).
Arriviamo quindi a oggi, e al tentativo
sempre più forte di definire scientificamente
le diverse forme di depressione per evitare il
rischio che questa diventi un concetto
«omnibus» che include di tutto, dal generico
mal di vivere allo sconforto individuale e
sociale, dalle delusioni alle reazioni allo
stress quotidiano, alle manifestazioni che
seguono un lutto. Opportunamente è stato
detto che il termine depressione «viene
spesso impiegato abusivamente e condito in
tutte le salse». 11
In tutte le discipline scientifiche, definire
l’oggetto di studio e classificare le varianti
sono prerequisiti irrinunciabili per il
progredire della conoscenza. Raggruppare i
simili e distinguere i diversi è fondamentale
per una ricerca fruttuosa. La classificazione
delle malattie mentali è cambiata spesso
negli ultimi due secoli e per superare, almeno
in parte, la mancanza di accordo sulle
definizioni diagnostiche, l’American
Psychiatric Association ha pubblicato il
Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders (DS M ), che nella sua prima e
seconda edizione (DS M -I e DS M -II ,
rispettivamente del 1952 e del 1968) ha avuto
scarsissima diffusione. La storia del DS M -III ,
pubblicato nel 1980, è del tutto diversa.
L’introduzione di criteri diagnostici espliciti
(criteri operativi) per ciascun disturbo, la
scelta di basare la diagnosi sulla descrizione
dei segni e dei sintomi anziché su ipotesi
eziologiche e la messa a punto di interviste
semistrutturate per accertare il
soddisfacimento dei criteri operativi per la
diagnosi di un certo disturbo sono tutti
elementi che hanno decretato la grande
diffusione del DS M -III e dei suoi successori, il
DS M -III-R (1987), il DS M -IV (1994) e il DS M -IV-TR
(2000). Nel maggio 2013 è stata pubblicata la
versione più recente di questa classificazione
diagnostica, il DS M -5 . 12 Vedremo più avanti
quali sono gli attuali criteri diagnostici della
depressione, le controversie legate a essi e i
tentativi recenti di progredire verso altre
forme di classificazione, per esempio
attraverso la creazione di «Research Domain
Criteria».
Un po’ di numeri
Secondo le stime dell’Organizzazione
mondiale della sanità, nel 2020 la depressione
sarà la seconda causa di invalidità per
malattia. Un gradino sotto le malattie
cardiovascolari, ma molto al di sopra delle
malattie infettive, oncologiche o respiratorie.
All’inizio del 2010 Philip Campbell, il
direttore della rivista «Nature», scriveva: «I
prossimi dieci anni saranno, verosimilmente,
il decennio dei disturbi psichiatrici». Questa
previsione non era frutto di un calcolo
ipotetico, ma si basava su dati già allarmanti.
Nel 2011 un nuovo articolo pubblicato su
«Nature» riportava una prevalenza lifetime
della depressione del 16,5%, che, tradotto in
termini concreti, vuol dire che ciascuno di noi
ha una probabilità pari al 16,5% di ammalarsi
di depressione nel corso della vita. Oppure,
in altre parole, un individuo su sei è oggi
affetto da depressione maggiore. Il dato si
complica se si considera che chi è affetto da
depressione, dopo essere guarito, ha una
probabilità di riammalarsi compresa fra il 35
e il 65%.
In Italia, secondo i dati dell’European Study
of the Epidemiology of Mental Disorders, 13
pubblicato sul sito del ministero della Salute,
la prevalenza della depressione maggiore
nell’arco della vita è dell’11,2% (14,9% nelle
donne e 7,2% negli uomini). In Italia, sono
affette da depressione circa 7,5 milioni di
persone, di cui solo il 30% assume una
terapia farmacologica. Sebbene la
depressione colpisca più frequentemente il
genere femminile (due volte in più rispetto a
quello maschile), tipicamente in un range di
età giovane-adulta, in realtà non ci sono fasce
di età o di popolazione realmente immuni da
questo disturbo. Nelle persone
ultrasessantacinquenni la depressione
maggiore e la distimia (disturbo depressivo
persistente) hanno una prevalenza,
nell’ultimo anno, del 4,5% (ma tra le persone
istituzionalizzate di questa età la prevalenza è
molto più elevata e, in alcuni casi, arriva fino
al 40%). Da numerose indagini
epidemiologiche risulta che il 2% dei bambini
e il 4% degli adolescenti ha, nel corso di un
anno, un episodio di depressione che dura
almeno 2 settimane.
Parimenti la depressione sta diventando
pericolosamente comune durante la
gravidanza o nel periodo immediatamente
successivo al parto, con una percentuale pari
al 10-20% delle donne. Oltre ai sintomi, le
persone affette da depressione spesso
subiscono lo stigma e la discriminazione da
parte della società. Atteggiamenti
stigmatizzanti si verificano fra le persone
comuni e spesso sono «fatti propri» dai
pazienti, che interiorizzano questa
discriminazione proveniente dall’altro,
finendo con autoaccusarsi o sentirsi in colpa
per il proprio disturbo. Si crea, in questo
modo, uno «stigma interiorizzato» che
inciderà negativamente sulla qualità della vita
e sul senso di benessere personale.
I dati che abbiamo citato non tengono poi
conto delle notevoli conseguenze economiche
e sociali della depressione, non solo per gli
individui affetti, ma anche per i familiari, e in
generale per la comunità intera. Per esempio,
sono ormai sempre più diffusi i dati sulla
trasmissione «trans-generazionale» della
depressione, cioè sulla ricaduta della
depressione materna e/o paterna sui figli.
Uno studio pubblicato recentemente dalla
rivista «Lancet» ha quantificato il peso
economico dei disturbi mentali e neurologici
in una percentuale compresa tra l’1,3 e il 3,3%
del Prodotto interno lordo (PIL), la quantità di
ricchezza prodotta in un anno da un paese. 14
Considerando che tra i disturbi mentali e
neurologici la depressione occupa un posto
prioritario, incidendo per il 40% su questo
dato, si può facilmente intuire quanto sia
rilevante il suo peso economico.
In Italia, il costo sociale della depressione,
in termini di ore lavorative perse, è pari a
circa 4 miliardi di euro l’anno, mentre in
Europa è pari a 92 miliardi. Il costo che il
Sistema sanitario nazionale deve sostenere
per ciascun paziente depresso è pari a 4062
euro all’anno. Queste considerazioni di
natura socioeconomica devono costituire una
spinta in più affinché vengano implementate
le risorse destinate alla ricerca clinica e
neurobiologica sulla depressione. 15 A oggi,
sia la ricerca pubblica sia quella privata
soffrono di una carenza di risorse, in parte
compensata dallo sforzo della comunità
scientifica e dei singoli ricercatori. Investire
sulla prevenzione e sulla cura della
depressione non è solo una sfida clinico-
scientifica, ma è anche una grande
opportunità di rilancio socioeconomico per il
paese, considerato l’elevato impatto di questo
disturbo.
La Figura 1 mostra l’impatto, in termini di
disabilità sociale, della depressione rispetto
ad altri disturbi mentali o neurologici.
L’acronimo DALY, dall’inglese Disability-
Adjusted Life Year (attesa di vita corretta per
disabilità), si riferisce a un indicatore
composito, usato negli studi epidemiologici,
che tiene conto degli anni di vita potenziale
persi a causa di mortalità prematura e degli
anni di vita produttiva persi a causa di
disabilità. La figura conferma quanto già
accennato, cioè il peso prioritario occupato
dalla depressione all’interno dei disturbi
mentali e neurologici. C’è infine un altro dato
che emerge in modo allarmante, ed è il
differente impatto che questo disturbo ha nei
paesi sviluppati economicamente rispetto ai
paesi in via di sviluppo.
Figura 1. L’impatto di alcuni disturbi mentali nei
paesi sviluppati economicamente e nei paesi in via
di sviluppo.
Fonte: V. Ravindranath, H.M. Dang, R.G. Goya et
al., Regional Research Priorities in Brain and Nervous
System Disorders, in «Nature», 527, 2015, pp. 198-
206.
Da «esaurimento nervoso» a
«depressione»: l’evoluzione di un
concetto
Per arrivare a definire cosa sia la depressione,
è necessario fare alcuni passi indietro.
Quando nel 2007 fu annunciato l’inizio dei
lavori che avrebbero portato alla stesura della
quinta edizione del Manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali, di cui abbiamo
parlato nel capitolo precedente, la comunità
degli operatori della salute mentale per la
prima volta «sognò» di poter realizzare quello
che ormai da decenni era diventato un
obiettivo fondamentale: passare da un
sistema diagnostico basato su una
classificazione e un raggruppamento
statistico di segni e sintomi a un sistema
diagnostico legato alle sempre più importanti
evidenze ricavate dalle neuroscienze. Il sogno
di molti era di poter effettuare una diagnosi
non solo grazie al riconoscimento, all’interno
della storia psicopatologica di una persona, di
una serie di criteri sintomatologici, ma anche
basandosi sul rilevamento oggettivo di
specifici biomarker di malattia, come accade
in molte branche della medicina.
La pubblicazione, nel 2013, del DS M -5 ha
parzialmente deluso queste aspettative. Le
numerose conoscenze che abbiamo sul
funzionamento del cervello non consentono
ancora una traduzione clinica diretta. È un
problema essenziale che investe tutta la
psichiatria, ma la depressione ne risente in
modo particolare, non solo perché essa
rappresenta il disturbo psichiatrico più
frequente, occupando un peso maggiore in
termini epidemiologici, sociali ed economici,
ma perché definire il concetto di depressione
e distinguerla dalla «tristezza», da uno stato
emotivo transitorio con cui tutta l’umanità si
confronta ogni giorno, è una sfida ancora
aperta.
Recentemente, negli Stati Uniti, il National
Institute of Mental Health (NIM H) ha
sviluppato un progetto di ridefinizione della
diagnosi in psichiatria denominato «Research
Domain Criteria» (RD oC ). Questo progetto, di
cui è stato promotore Thomas Insel, si
propone di andare oltre l’attuale modello
categoriale espresso dal DS M , un modello che
suddivide i disturbi in categorie ben distinte
l’una dall’altra, per esempio depressione e
disturbi d’ansia. L’obiettivo principale del
progetto RD oC consiste nello «sviluppare, per
scopi di ricerca, nuove modalità di
classificazione dei disturbi mentali sulla base
di dimensioni comportamentali e misure
neurobiologiche». 1 Il progetto RD oC , di fatto,
si pone l’obiettivo di fare da ponte tra i
moderni approcci di ricerca in genetica e
neuroscienze comportamentali e i problemi
della salute mentale, studiati in modo
indipendente dall’attuale sistema di
classificazione.
Come abbiamo visto, raccontare la storia
della depressione consiste essenzialmente
nell’esaminare i vari tentativi che sono stati
fatti nel corso del tempo per definirla. Nel
1869 la rivista americana «The Boston Medical
and Surgical Journal» pubblicò il primo
articolo psichiatrico con ampia influenza e
rilevanza nel mondo accademico e
scientifico. 2 Quell’articolo, firmato dal
neurologo statunitense George Beard,
contribuì enormemente a far uscire la
psichiatria dall’ambito settoriale,
prescientifico, distante da una metodologia
osservazionale empirica, in cui era confinata
in quanto «sorella minore» della medicina.
Questa condizione, per certi versi, è rimasta
immutata per molto tempo, basti pensare a
un editoriale del «New England Journal of
Medicine» (NEJM ), pubblicato negli anni
Settanta del Novecento, in cui la psichiatria
veniva definita «la figlia maltrattata della
medicina». 3
È interessante notare che l’articolo di
Beard introdusse un concetto tuttora molto
utilizzato, non in ambito accademico, ma
nell’opinione pubblica e tra la gente comune:
il concetto di «esaurimento nervoso». Ancora
oggi molti pazienti si rivolgono al medico di
base o allo psichiatra lamentando non di
essere depressi, ma di essere afflitti da una
condizione di «esaurimento» – «Sono
stanchissimo… Non ce la faccio ad alzarmi…
Sono esaurito» –, probabilmente a causa della
potenza suggestiva ed evocativa di questa
espressione. Secondo Beard, questa
condizione si incontrava più frequentemente
in «contesti civilizzati e colti», in quanto parte
di una sorta di «compensazione del nostro
progresso», quasi fosse un prezzo da pagare
all’evoluzione culturale, sociale ed
economica. La riflessione di Beard ha
anticipato il modello bio-psico-sociale di
malattia di George Engel e anche alcuni dati
emersi recentemente dalla ricerca scientifica
circa il peso dei contesti ambientali
all’interno di una traiettoria psicopatologica.
Nel 1977 Engel pubblicò su «Science» un
celebre articolo in cui teorizzava il modello
bio-psico-sociale. 4 Tale modello, derivato
dalla teoria generale dei sistemi, considera
nel sistema biologico il substrato anatomico
strutturale e molecolare della malattia, nel
sistema psicologico gli effetti dei fattori
psicodinamici, delle motivazioni e della
personalità e nel sistema sociale l’incidenza
degli aspetti familiari socioculturali.
In Lutto e melanconia (1917), Freud così
scriveva: «Nel lutto il mondo si è impoverito e
svuotato, nella melanconia impoverito e
svuotato è l’Io stesso». 5 Nella tristezza vitale
accade un impoverimento ancora più intenso
della vita emozionale e una vera e propria
perdita delle «funzioni base della vitalità». È
la perdita dell’élan vital (slancio vitale), che è
percepita a livello psichico come tristezza ma
è un sentimento avvertito a livello fisico come
un’oppressione fisica e psichica. Lo
psicopatologo Kurt Schneider la descrive
come «un sentimento di stanchezza e
mancanza di vigore che viene riportato a
livello psichico come tristezza». 6 La tristezza
vitale può localizzarsi a livello toracico,
gastrointestinale. Inoltre, non solo è una
tristezza incarnata nel corpo-soma, ma altera
il senso del tempo. Esiste solo un presente
dilatato, in cui il passato e il futuro sono
«presenti» come «colpe, proiezioni, errori,
ricordi». Sentimenti capaci di bloccare
dolorosamente l’esistenza della persona,
togliendole e negandole ogni vitalità. La
depressione è una malattia del tempo, un
tempo tanto espanso quanto immobile, un
tempo «macigno» che schiaccia l’esistere e lo
trasforma in peso.
Contributi teorici successivi hanno fornito
definizioni e concettualizzazioni
psicopatologiche via via più complesse,
introducendo concetti come quelli di lutto,
tristezza vitale, melanconia.
Bisogna però attendere il 1968 perché il
termine «depressione» entri nella nosografia
ufficiale. In quell’anno, il DS M -II inserì la
«nevrosi depressiva» tra le diagnosi
codificate, definendola come un’eccessiva
reazione depressiva causata da un conflitto
interno o da un evento chiaramente
identificabile, quale, per esempio, la perdita
di una persona cara o di qualcosa a cui si
tiene particolarmente». Gli autori
differenziarono questo disturbo dalla
«melanconia involutiva» e dalla «malattia
maniaco-depressiva»; al contrario, le
«depressioni reattive o le reazioni depressive
rientrano in questo ambito». 7
È interessante notare che sin da allora il
DS M tentava di differenziare le forme reattive
dalle forme endogene. Si tratta di una
differenziazione non meramente definitoria,
né tantomeno statistica, ma che va al cuore
del problema, cioè distinguere la «vera»
malattia depressiva rispetto alle forme
reattive. Nel primo caso viene
frequentemente utilizzato il termine
«depressione endogena», proprio per
rimarcare la natura di malattia a prescindere
dal contesto circostante. Nel secondo caso si
parla invece di «depressione reattiva», per
connotare uno stato depressivo conseguente
a fattori ambientali stressanti, lutti o traumi.
Resta il problema di definire che cos’è la
depressione, quali sono i suoi sintomi chiave
e qual è il confine con l’esperienza transitoria
e fisiologica della tristezza.
La psichiatria, per definire le sue malattie,
ha sempre cercato di individuare dei sintomi
patognomonici, cioè sintomi univocamente
associati a ciascuna forma nosologica (per
esempio, la rigidità nucale è caratteristica
della meningite), ma i tentativi degli
psichiatri sono sempre andati a vuoto,
pertanto la diagnosi diventa possibile solo
componendo insieme diversi tipi di sintomi,
nessuno dei quali è sovraordinato rispetto
agli altri né costituisce un sintomo
patognomonico del disturbo. Questo concetto
vale anche per la depressione e per i criteri
diagnostici proposti dal DS M -5 .
Quando si «entra in depressione» si vive
uno stato affettivo in cui la tristezza e la
perdita della spinta vitale sono quasi sempre
presenti, ma esprimono solo una parte della
complessità sintomatologica provocata dal
dolore depressivo patologico che «paralizza»
olotimicamente sia il soma sia la psiche. È
frequente incontrare persone depresse in cui
l’umore è talmente cupo e compatto da
impedire anche di verbalizzare l’esperienza
della tristezza. Le componenti somatiche del
dolore possono impedire un’elaborazione di
ordine psichico dei propri vissuti e diventare
prevalenti nel rappresentare lo stato
depressivo. Il quadro depressivo racchiude
diverse sfumature cliniche, corrispondenti a
diverse dimensioni/aree dell’esperienza
soggettiva: la dimensione affettivo/emotiva, la
dimensione cognitiva, la dimensione
motivazionale, la dimensione legata alla
motricità e alla temporalità, la dimensione
vegetativa e fisica (vedi Tabella 1). 8
I sistemi nosografici succedutisi nel
tempo, attraverso la costruzione di schemi
diagnostici fondati sul riscontro di precisi
sintomi/criteri, hanno cercato di abbracciare
la complessità fenomenica della depressione,
e hanno tentato di andare «oltre la tristezza»,
considerandola sì un sintomo cardine, ma da
inserire in un contesto sintomatologico più
ampio. Si è ritenuto cioè che limitare la
diagnosi di depressione alla presenza del solo
umore depresso o triste sarebbe stato
riduttivo e non avrebbe colto la vastità e
varietà sintomatologica dello stato
depressivo.
Tabella 1
DIMENSIONI/AREE DELL’ESPERIENZA SOGGETTIVA DELLA
DEPRESSIONE E RELATIVI SINTOMI
Tabella 2
SINTOMI ELENCATI NEL CRITERIO A DEL DISTURBO
DEPRESSIVO MAGGIORE (DSM-5).
1. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi
ogni giorno
I sottotipi
La depressione non ha solo una «faccia», ma
si può presentare in modi molto diversi, tanto
che possiamo dire che le «facce», cioè i
sottotipi, della depressione si distinguono
sulla base delle caratteristiche
fenomenologiche di un determinato quadro
clinico. In questo paragrafo passeremo in
rassegna i sottotipi di depressione per fornire
una panoramica delle diverse modalità in cui
il disturbo si presenta.
DEPRESSIONE BIPOLARE
Circa il 15% dei pazienti affetti da un
episodio depressivo maggiore in realtà ha un
disturbo bipolare. Il disturbo bipolare è
caratterizzato da un’alternanza ricorrente di
episodi depressivi ed episodi maniacali,
caratterizzati da marcata espansione del tono
dell’umore. A oggi, la letteratura non ha
individuato caratteristiche patognomoniche
della depressione bipolare rispetto al
disturbo depressivo unipolare. Tuttavia
esistono caratteristiche che sono più tipiche
della depressione bipolare come l’ipersonnia,
l’iperfagia, il rallentamento psicomotorio e
un ipertrofico, fino a livelli francamente
patologici, senso di colpa. I pazienti affetti da
depressione bipolare hanno comunemente
un’età di esordio più precoce, episodi
depressivi generalmente di durata minore e
una storia familiare di disturbo bipolare. Il
trattamento della depressione bipolare è
considerato più complesso, principalmente
per due motivi: il maggior rischio di suicidio
e l’elevato rischio di passaggio rapido dalla
depressione alla fase «contropolare»
maniacale. Gli antidepressivi sono spesso
controindicati nel disturbo bipolare proprio
perché aumentano il rischio di passaggio da
una fase all’altra. La difficoltà di utilizzo dei
farmaci è un fattore che complica
ulteriormente il trattamento di questa
condizione.
DEPRESSIONE AD ANDAMENTO
STAGIONALE
Il ritornello di una famosa canzone diceva:
«Scende la pioggia, ma che fa, crolla il mondo
addosso a me…»; mentre le parole di un’altra
vantavano l’effetto taumaturgico del sole:
«Here comes the sun and I say it’s all right», che
significa «Sta arrivando il sole e io dico che va
tutto bene». Il rapporto tra il tempo
atmosferico e il nostro umore è non solo uno
degli argomenti di conversazione più
frequenti, ma anche una delle «certezze della
vita» socialmente più riconosciute.
L’influenza del sole, della luna, delle nuvole e
della pioggia sullo stato d’animo è accettata
da tutti noi.
La ricerca psichiatrica ha studiato
approfonditamente il rapporto tra i
cambiamenti stagionali e la depressione,
arrivando a definire il disturbo affettivo
stagionale come un sottotipo di disturbo
dell’umore con particolari caratteristiche di
esordio e remissione. Secondo
l’Organizzazione mondiale della sanità, il
30% della popolazione soffre di cambiamenti
d’umore legati alle variazioni climatiche.
Anche le malattie cosiddette «fisiche» come
l’emicrania, l’artrosi e l’ulcera gastrica,
subiscono l’influenza delle stagioni con
ripercussioni sul benessere psichico.
Le variazioni climatiche e il succedersi
delle stagioni influenzano il benessere psico-
fisico, causando fenomeni transitori, ove
scarsa energia e insonnia costituiscono una
semplice fase di adattamento al cambio di
stagione, o quadri clinici più complessi, come
la depressione ad andamento stagionale.
Il termine «disturbo affettivo stagionale» è
stato coniato nel 1984 dallo psichiatra
Norman Rosenthal per descrivere un
sottotipo di disturbo dell’umore, da cui lui
stesso era affetto. Rosenthal ha avuto il
merito di elencare i criteri diagnostici che si
sono rivelati utili per le successive
classificazioni psichiatriche: la ricorrenza in
autunno-inverno, l’assenza di eventi psico-
sociali stagionali scatenanti (per esempio,
periodi di disoccupazione), l’assenza di
disturbi dell’umore in primavera e in
estate. 11 Tipicamente la depressione inizia in
autunno o inverno e migliora in primavera ed
estate. Certe volte si alterna con periodi in cui
vi è un aumento dell’energia e un ridotto
bisogno di sonno.
Si calcola che il 15-20% dei disturbi
dell’umore abbia un pattern stagionale; esiste
anche un quadro subsindromico, definito
winter blues, caratterizzato da sintomi
depressivi attenuati che si manifestano solo
in inverno. I sintomi caratteristici della
depressione stagionale sono la mancanza di
energia, più evidente nelle ore serali,
l’ipersonnia, con necessità di dormire molto
più a lungo del solito, l’aumento dell’appetito
e la ricerca compulsiva di dolci, con
conseguente aumento di peso. Spesso viene
sottovalutata la gravità del disturbo e questo
può facilitare il ricorso a sostanze attivanti,
come caffè o farmaci psicotropi da banco, nel
tentativo di automedicarsi e far fronte al calo
di efficienza lavorativa e relazionale.
Come nelle altre forme di depressione,
anche nel disturbo stagionale si possono
manifestare pensieri suicidari. Il suicidio
stesso sembra avere un pattern stagionale,
con un picco in primavera e autunno e una
riduzione in inverno. È stato notato che i
suicidi compiuti con modalità più violente
sarebbero invece più frequenti in estate, un
periodo in cui statisticamente si registra un
aumento anche di altri comportamenti
aggressivi auto- ed eterodiretti. Le donne
sono più vulnerabili agli effetti della
stagionalità sull’umore, verosimilmente in
virtù del diverso assetto endocrino e
riproduttivo (per un ulteriore
approfondimento di tale rapporto, vedi il
successivo sottoparagrafo «Luce e
depressione»).
Meglio depressi o infelici?
Due pensionati seduti su una panchina, come se
ne vedono spesso nei parchi o in giro per la città.
Entrambi sembrano malconci, con gli occhi a
mezz’asta; uno dei due si appoggia a un bastone e
domanda all’altro: «Depresso?». E l’altro, con il
capo coperto da una bandana, risponde: «Magari!
Infelice». È amara e sorprendente l’ironia di
Altan. 12 La depressione, male oscuro del XX
secolo, è vista come un miraggio, il problema è
piuttosto l’infelicità. Con questa battuta, Altan
mette involontariamente in scacco decenni di
discussioni scientifiche su cosa sia la depressione e
quale sia il modo migliore per definirla. Basti
pensare che in un recente articolo pubblicato su
una prestigiosa rivista americana, gli autori
affermano: «I sintomi della depressione maggiore
definiti dal DSM-5 differiscono dai sintomi
misurati attraverso le scale cliniche e la
questione empirica su quali siano i sintomi
cardine della depressione è irrisolta». 13 La
questione, dunque, non è ancora stata risolta e si
potrebbe dire, ironicamente, che gli autori di
quello studio non hanno letto Altan! L’aspetto
interessante della vignetta è che Altan sembra
porre una gerarchia concettuale, nella quale la
dimensione umana, esistenziale, dell’infelicità
prevale sull’inquadramento nosografico della
depressione.
Tale problematica, in realtà, non sfugge al
dibattito psichiatrico e neuroscientifico. Uno
studioso australiano, Gordon Parker, ha dedicato
una parte consistente della sua attività di ricerca
al tentativo di distinguere in modo scientifico la
«tristezza» (grief) dalla «tristezza complicata»
(complicated grief) e dalla depressione. 14 A
tutt’oggi non sono stati trovati biomarker clinici
(come parametri ematici o neuroradiologici) in
grado di far diagnosticare con certezza la
depressione.
Ma torniamo ad Altan. Nei suoi lavori, il
fumettista lega l’infelicità al nostro contesto
storico, alle difficoltà lavorative, alla caduta
degli ideali e delle speranze. Lancia uno sguardo
ironico sulla condizione esistenziale dell’uomo
postmoderno. «“Sono ateo.” “Io no, credo nel
SuperEnalotto.”» Dopo il mitico Cipputi, simbolo
disilluso di una classe operaia ormai estinta,
Altan disegna l’uomo qualunque. Possono essere
i due anziani seduti sulla panchina di un parco o
la coppia stanca e casalinga, lei davanti ai
fornelli e lui in poltrona nel tinello (cui Altan ha
dedicato una serie di vignette). 15 Si potrebbe
commentare: «Poteva andare peggio…». «No» è
l’amara chiosa. In un’intervista, parlando dei
film di Paolo Sorrentino, Altan afferma che dalla
scena emana «una disperazione controllatissima,
un’atmosfera sconfortante, il quadro di
un’umanità che in sé ha gli anticorpi per non
abbandonarsi al dolore». 16
Dal canto suo il regista, in un’intervista,
spiega che «la malinconia pone una sorta di
amorevole distanza dalle cose … Malinconia e
ironia sono due filtri che aiutano molto a
rapportarsi al mondo … L’autoironia è lo
strumento più prossimo alla malinconia. Però, se
la malinconia si avvita su se stessa, può
rappresentare una condanna». 17
La coppia di coniugi protagonista di molte sue
vignette testimonia la caducità del desiderio, la
perdita di slancio, il tramonto delle passioni. In
particolare, il marito confida la «perdita di
passione» per la politica, facendosi così portavoce
di un sentimento popolare molto diffuso, tale da
determinare la nascita di movimenti di
antipolitica; in realtà, l’uomo rivela – ed è
prontamente smascherato dalla sua acuta
consorte – che non si tratta dello spegnimento
dell’interesse politico, ma dello spegnimento
dell’interesse e del desiderio in senso lato, cioè
una condizione non banalmente attribuibile a
questo o all’altro partito politico, ma
intrinsecamente legata a un’involuzione della
spinta vitale. In termini clinici, possiamo
considerare la «perdita della passione» come
depressione? La clinica psichiatrica ha ben
presente che il concetto di depressione è più ampio
e complesso.
La ricchezza di Altan sta proprio nel
descrivere, con una battuta, condizioni
esistenziali che in taluni casi si elevano a una
dimensione clinica, ma che indubbiamente
riguardano tutti noi nella nostra quotidianità. E
allora, cosa fare? Quale soluzione per questo
uomo qualunque postmoderno, infelice e privo di
passioni, che sopravvive a fatica alla sua
stanchezza? «“Siamo sull’orlo del baratro!”
“Goditi il panorama.”» Cioè, fai del baratro,
della perdita di ideali, della caduta degli eroismi
e delle passioni, delle difficoltà lavorative e delle
ingiustizie sociali il tuo spettacolo: non da
recitare, ma da osservare come spettatore, inerte,
è vero, ma in grado di sopravvivere e non finirci
dentro.
I confini
ANSIA E DEPRESSIONE
Come abbiamo visto, i criteri stilati nel DS M -5
per porre una diagnosi di depressione non si
limitano solo alla tristezza o all’umore
depresso, ma inquadrano una serie di sintomi
diversi, tra i quali quelli «fisici». Tuttavia,
definire la depressione, ossia circoscrivere il
suo nucleo psicopatologico fondamentale e
differenziarlo dagli stati reattivi fisiologici, è
una sfida ancora aperta per il mondo
accademico e scientifico. Riconoscere i
confini della depressione non è soltanto una
necessità statistica o epidemiologica ma, in
primis, concettuale. A tale riguardo, uno degli
interrogativi più frequenti è il rapporto tra
ansia e depressione. L’esperienza comune
dello psichiatra può testimoniare che spesso i
pazienti fanno fatica a distinguere i due
fenomeni oppure, altrettanto
frequentemente, interrogano il clinico su
quale dei due aspetti sia prioritario rispetto
all’altro. Uno dei più importanti studi
condotti finora sulla depressione (lo studio
S TAR*D ) ha rivelato un dato eloquente: su un
totale di 2876 pazienti depressi studiati negli
Stati Uniti, il 53,2% aveva ricevuto una
diagnosi di «depressione ansiosa». 18 Lo
studio aggiungeva un dato piuttosto
allarmante: i pazienti con depressione
ansiosa evidenziavano un tasso di risposta al
trattamento peggiore.
Come interpretare questo dato? Una delle
possibilità avanzate dagli studiosi è
considerare l’ansia un fattore aggiuntivo, «in
comorbilità», come si dice tecnicamente. La
presenza di un elemento psicopatologico
aggiuntivo complicherebbe la depressione e
renderebbe il trattamento più difficile.
Un’altra possibilità consiste nel considerare
l’ansia non come un elemento aggiuntivo
bensì come parte di un quadro clinico unico.
Non a caso, nel D S M -I V -T R , nella sezione
dedicata ai «Criteri e Assi utilizzabili per
ulteriori studi», era stato proposto il
«Disturbo Ansioso Depressivo Misto». 19
Nell’ultima edizione del DS M , alla diagnosi di
depressione è stata aggiunta la possibilità di
un’ulteriore specifica, quella di un episodio
depressivo «con ansia», che indica la
presenza di una marcata quota d’ansia e
angoscia. Si può notare che gli sforzi di
concettualizzare con più precisione e di
definire meglio la depressione sono dettati
dal tentativo di cogliere il nucleo
psicopatologico di questi fenomeni e
definirne i confini.
LUTTO E DEPRESSIONE
Una delle questioni più spinose nel
delimitare i confini della depressione volendo
differenziare, per esempio, le forme reattive
da quelle esogene, riguarda il lutto. La
perdita di una persona cara è per definizione
un evento traumatico che porta con sé
infelicità, tristezza, rabbia, paura. È un
fenomeno trasversale nella popolazione, con
il quale ciascun individuo, prima o poi, sarà
costretto a confrontarsi. Nella condizione di
lutto bisogna affrontare non solo la
scomparsa di una persona cara, ma
confrontarsi anche con il tema della fine della
vita; per questo motivo, sollecita spesso
reazioni emotive di paura che possono
sfociare in traiettorie psicopatologiche come
depressione vera e propria, ipocondria,
vissuti post-traumatici. La questione che da
tempo i ricercatori si sono posti è come
circoscrivere i vissuti emotivi depressivi che
si innescano naturalmente,
«fisiologicamente», negli individui colpiti da
un evento luttuoso, distinguendoli da un vero
e proprio sprofondamento depressivo.
La perdita di interesse e di piacere dovuta
alla mancanza della persona amata, le forti
emozioni scatenate dai ricordi e il tentativo di
evitare le situazioni che possano farli
riemergere, i sentimenti di colpa e
autoaccusa, i pensieri improvvisi che
riportano alla rievocazione della persona
scomparsa, il desiderio e la nostalgia sono gli
elementi caratteristici del dolore acuto del
lutto.
Il DS M -IV-TR , nei criteri per la diagnosi di
Depressione Maggiore, precisava: «Dopo la
perdita di una persona amata, anche se i
sintomi depressivi sono sufficienti per durata
e per numero a soddisfare i criteri per
l’Episodio Depressivo Maggiore, essi
dovrebbero essere attribuiti al Lutto». Gli 20
1. Non interattività
2. Immobilità facciale
3. Cadute posturali
4. Non reattività
5. Apprensione a livello della mimica
facciale
6. Ritardo nella risposta verbale
7. Lunghezza delle risposte verbali
8. Inattenzione
9. Agitazione facciale
10. Immobilità corporea
11. Agitazione motoria
12. Povertà delle associazioni
13. Movimenti rallentati
14. Stereotipia verbale
15. Ritardo nell’attività motoria
16. Difficoltà nell’eloquio spontaneo
17. Rallentamento della frequenza
dell’eloquio
18. Movimenti stereotipati
CORPO E DEPRESSIONE
Un altro tema clinicamente significativo è il
rapporto tra la depressione e il corpo. È un
intreccio ancora misterioso che si manifesta
principalmente con la cefalea e con sintomi a
carico dell’apparato cardiovascolare e
gastrointestinale.
La cefalea nelle sue varie forme – sinusite,
cefalea a grappolo, cefalea tensiva, emicrania
– è un disturbo molto frequente; in Italia, ne
soffrono oltre venti milioni di persone,
soprattutto donne. Incide sulla qualità della
vita di chi ne è affetto e ha costi sociali
altissimi, basti pensare che ogni anno almeno
duecento milioni di ore lavorative vengono
perse a causa di questo disturbo. Sebbene il
mal di testa sia un’esperienza diffusa – è
capitato a tutti di provare almeno una volta
nella vita dolore alle tempie, o alla nuca, o a
un lato della testa – è tuttavia un disturbo
spesso concomitante con la depressione:
quasi il 50% dei pazienti cefalalgici è
depresso. Ancora più evidente è la
correlazione tra ansia e cefalea: i disturbi
d’ansia sono presenti in oltre la metà dei
pazienti con cefalea. Naturalmente, è vero
anche l’opposto, i pazienti depressi o ansiosi
hanno un rischio molto alto di soffrire di
cefalea. È comunque importante sottolineare
che non tutte le cefalee devono essere
considerate parte di un quadro clinico
psicopatologico e, all’interno di un corretto
percorso diagnostico, è necessario effettuare
prima di tutto una valutazione neurologica.
La cefalea di tipo tensivo è probabilmente
la più frequente forma di mal di testa. I
pazienti riferiscono dolore gravativo,
costrittivo, generalmente bilaterale. Lo stress,
l’ansia e la depressione rappresentano cause
scientificamente riconosciute, ma nella
maggior parte dei casi chi soffre di questo
disturbo non riesce a riconoscere il legame
con l’aspetto psichico. In altre parole, le
persone che soffrono di cefalea collegata alla
depressione difficilmente prendono in
considerazione le cause psicologiche alla base
del mal di testa. Spesso preferiscono ricorrere
all’automedicazione e tendono a sviluppare
una grave dipendenza dall’uso di analgesici.
Più complesso è il rapporto tra
depressione e apparato gastrointestinale. Nel
1998, viene pubblicato Il secondo cervello, in
cui l’autore, il medico Michael D. Gershon,
afferma che oltre all’encefalo esisterebbe un
secondo cervello, non meno importante, nella
«pancia». 23 Il primo cervello sarebbe quello
critico, cosciente, morale, che sceglie il bene o
il male; l’intestino sarebbe invece il cervello
«inconscio» che risponde alle pressioni
dell’ambiente esterno, metabolizza le
emozioni, gioisce, si tormenta e soffre. Al
cervello addominale sono affidate le decisioni
viscerali, spontanee e inconsapevoli, le
cosiddette risposte «di pancia».
Molti di noi, nel corso della vita, avranno
intuito che l’intestino ha una sua memoria,
che reagisce alla tristezza, all’ansia, allo stress
in modo autonomo, a volte prima dell’altro
cervello, con un linguaggio fatto di spasmi,
nausee, gonfiori. Frasi comuni – «Ho le
farfalle nello stomaco», «Quando sto male mi
si chiude lo stomaco», «Ho un coltello nella
pancia» – esprimono ancor prima di averle
pensate coscientemente le nostre
preoccupazioni, ansie, paure. Il bambino che
non vuole andare a scuola spesso accusa un
mal di pancia, che scompare istantaneamente
se la mamma acconsente a farlo rimanere a
casa. L’apparato gastrointestinale è la sede di
rappresentazioni psico-fisiologiche delle
emozioni depressive: ansia, rabbia, paura,
dolore, tristezza. Nelle patologie
gastrointestinali – gastrite, ulcera, morbo di
Crohn, rettocolite ulcerosa – i fattori
psicologici giocano un ruolo determinante. La
presenza di una vulnerabilità genetica, lo
stress e la resilienza personale spiegano,
anche in questo caso, la multifattorialità delle
possibili espressioni di sofferenza mentale e
fisica che, nella depressione, diventa
«globale». Un esempio psicosomatico-
somatopsichico: l’ipersecrezione gastrica e
l’ansia, riscontrabili nei soggetti che si
ammalano di ulcera.
A ulteriore testimonianza della
interdipendenza depressione-ulcera, uno dei
vecchi trattamenti per ridurre
l’ipersecrezione acida, la resezione del nervo
vago, aveva come effetto collaterale la
depressione. Ricordiamo che uno dei sintomi
core della depressione è il dolore, che
coinvolge in maniera indistinta la mente e il
corpo. Crampi, spasmi, acidità: lo stomaco e
l’apparato gastrointestinale tutto esprimono
così il dolore psichico. L’insieme dei
microrganismi che popolano il nostro
intestino, chiamato «microbioma» o
«microbiota» intestinale, è ormai riconosciuto
come un elemento decisivo nel favorire
l’insorgere della depressione e condizionare
la risposta alle terapie farmacologiche. Poiché
il microbioma intestinale regola la
maturazione e il funzionamento del sistema
immunitario, proteggendo il sistema nervoso
gastroenterico, l’assunzione di probiotici
nella dieta potrebbe aiutare nella cura della
depressione.
Siamo ben lontani dal dire che sostanze
con effetto benefico sulla flora intestinale
possano da sole sconfiggere la depressione,
tuttavia dobbiamo tener presente il ruolo
primario che ha l’equilibrio intestinale nel
garantire il benessere fisico e mentale. Una
persona su dieci che soffre di colon irritabile
ha anche la depressione; fino al 40% delle
persone che hanno una malattia
infiammatoria intestinale cronica, come il
morbo di Crohn o la rettocolite ulcerosa, sono
affette da depressione; la celiachia è spesso
associata a sintomi depressivi che la dieta
senza glutine può alleviare. In tutte queste
malattie è presente una «disbiosi», cioè
un’alterazione patologica del microbioma che
danneggia la permeabilità della parete
gastrointestinale, influenzando così il
metabolismo e la produzione delle sostanze
neurochimiche coinvolte nel brain-gut axis,
l’«asse cervello-intestino». Queste
connessioni psico-neuro-immunologiche
sono quindi essenziali per il funzionamento
del sistema nervoso centrale e tra qualche
anno potrebbero sia migliorare la
comprensione delle malattie intestinali sia
semplificare la terapia della depressione.
Infine, analizzare l’intreccio tra corpo e
depressione non può prescindere dal
considerare il rapporto bidirezionale che
esiste tra apparato cardiovascolare e umore.
Sul piano clinico-scientifico, il legame tra
cuore e cervello può essere analizzato da
diversi punti di vista. Partiamo da quello
epidemiologico. La depressione e le malattie
cardiovascolari si contendono il primato di
disturbo a più alta prevalenza e maggiore
disabilità. Se i dati dell’Organizzazione
mondiale della sanità prevedono che nel 2020
la depressione sarà seconda alle malattie
cardiovascolari, nel 2030 le posizioni si
invertiranno. Questo evidenzia la rilevanza
del binomio cuore-cervello nel garantire il
benessere psico-fisico della società. Sul piano
clinico, se definiamo la depressione «un mal
di cuore» diciamo una doppia verità. Non
solo perché i sentimenti depressivi fanno
soffrire il nostro cuore, ma anche perché chi
soffre di patologie cardiovascolari va molto
più frequentemente incontro a depressione. È
un circolo vizioso: ciascun disturbo
determina delle modificazioni dello stile di
vita che, a loro volta, possono provocare
l’insorgenza dell’altro. In mezzo, se così si
può dire, a fare da «collante» tra queste due
condizioni mediche, ci sono gli stili di vita,
l’insonnia, lo stress cronico, l’ansia, il fumo,
la cattiva alimentazione, l’ipertensione, i
disturbi metabolici o altri fattori di rischio di
tipo medico. Tutti questi elementi
convergono in un percorso biologico comune,
quello infiammatorio, responsabile di danni a
livello tanto dei circuiti neuronali quanto
delle pareti coronariche. Bisognerà
intervenire con opportune strategie di
prevenzione a garanzia che cuore e cervello,
almeno nel caso della patologia depressiva e
cardiovascolare, non si influenzino
negativamente.
LUCE E DEPRESSIONE
L’influenza della luce sulla psiche è nota fin
dall’antica Grecia. Nel II secolo il medico
Areteo di Cappadocia raccomandava ai suoi
pazienti letargici di esporsi il più possibile al
sole. Ippocrate ipotizzava che in autunno ci
fosse un aumento di «bile nera», causa della
melanconia, e in estate di «bile gialla», fonte
di euforia. Più recentemente, la cronobiologia
ha fatto chiarezza sugli effetti della luce
sull’organismo mostrando come la ridotta
esposizione alla luce possa causare
depressione, alterando il ritmo circadiano
attraverso azioni sulla melatonina e sulla
serotonina che influenzano l’attività del
pacemaker ipotalamico.
Entriamo più in dettaglio. Per la
cronobiologia, un ritmo circadiano è
caratterizzato da un periodo di ventiquattro
ore (dal latino circa diem, «vicino alla durata di
un giorno»). Sia nel regno animale sia
nell’uomo, molti fenomeni vitali come la
secrezione del cortisolo e degli ormoni, la
temperatura corporea, l’appetito, il ritmo
sonno-veglia, la fertilità, la frequenza cardiaca
e la pressione arteriosa seguono il ritmo
circadiano, che è dettato da un pacemaker
endogeno, cioè una sorta di orologio
biologico localizzato nel nucleo
soprachiasmatico del cervello, che ha una
ritmicità intrinseca quasi circadiana,
sincronizzata con la durata naturale del
giorno astronomico mediante segnali
ambientali o Zeitgeber (letteralmente,
«segnatempo»), come la temperatura
dell’ambiente, gli orari lavorativi e l’intensità
della luce. Lo stimolo luminoso percepito
dalla retina, attraverso il tratto retino-
ipotalamico, raggiunge le cellule del nucleo
soprachiasmatico dal quale si proietta
all’epifisi, o ghiandola pineale, che attiva o
interrompe il rilascio di melatonina a seconda
del fotoperiodo, cioè del rapporto tra luce e
buio.
Nei mammiferi, il segnale di rilascio della
melatonina, ormone secreto dall’epifisi e
preposto alla regolazione del ciclo sonno-
veglia, dipende dalla lunghezza delle
giornate, o ore luce, e può quindi tradurre le
informazioni del fotoperiodo all’organismo.
Secondo il programma biologico del
pacemaker, il buio della sera attiva una
cascata enzimatica che termina con il rilascio
di melatonina innescando il sonno. Al
mattino, l’attivazione neuronale si spegne e la
produzione di melatonina diminuisce
rapidamente. Il ritmo circadiano endogeno
funziona anche in assenza di segnatempo
esterni, ma il suo periodo si può modificare.
Per esempio, senza luce il ritmo sonno-veglia
tende ad allungarsi fino a trentasei ore.
Celebri esperimenti, condotti in condizioni di
oscurità all’interno di grotte, hanno
confermato la spontaneità di alcuni ritmi
biologici. 24 La cadenza dei ritmi circadiani
potrebbe quindi derivare da una «mappa
temporale» primordiale, successivamente
condizionata da stimoli ambientali, come la
luce e l’alternanza delle stagioni, e sociali,
come il lavoro. Queste influenze
consentirebbero all’organismo di adattarsi in
senso evolutivo ai cambiamenti climatici,
geografici e sociali. L’intensità e la durata
della luce influenzano in modo determinante
non solo il ciclo dei fenomeni biologici, ma
anche il funzionamento di processi psichici
come la memoria, l’attenzione, i
comportamenti sociali e sessuali,
l’impulsività e l’umore.
L’umore è condizionato dall’alternanza
luce-buio sia nei cicli di durata breve, come il
fotoperiodo del giorno, sia in quelli di durata
lunga, come l’avvicendarsi delle stagioni. La
stagionalità, che ha assunto un’importanza
crescente in ambito psicopatologico, può
influenzare l’umore con meccanismi diversi.
Secondo l’ipotesi della melatonina, una
presunta iperproduzione di melatonina
durante l’inverno causerebbe alterazioni
dell’umore, del ritmo sonno-veglia e delle
funzioni endocrine e sessuali interagendo
con il pacemaker endogeno. La diversa
secrezione di melatonina renderebbe le
persone affette da questa alterazione
assonnate, letargiche e depresse nei mesi
invernali. Al contrario, in estate, l’aumento
della luce inibirebbe il rilascio di melatonina:
ritardandone il rilascio la sera e
anticipandone il declino la mattina.
Un’altra ipotesi è quella della disfunzione
serotoninergica, una predisposizione
genetica allo sviluppo della depressione
invernale. Le persone affette da depressione
stagionale avrebbero difficoltà nella
regolazione neurotrasmettitoriale della
serotonina, il cui ruolo nel bilanciamento
dell’umore è ben noto. Uno studio recente ha
dimostrato che in inverno aumenta la
produzione della proteina S ERT coinvolta
nella ricaptazione della serotonina. 25 Un
incremento dei livelli di questa proteina
determinerebbe una riduzione della quantità
di serotonina presente nello spazio sinaptico
tra neuroni comunicanti, causando così la
depressione. Viceversa, in estate, riducendosi
i livelli di S ERT, aumenterebbe la quantità di
serotonina circolante, con un conseguente
miglioramento del tono dell’umore.
La ridotta esposizione alla luce dei mesi
invernali si associa a una carente produzione
di vitamina D, molecola già implicata nello
sviluppo della depressione ad andamento
non stagionale.
Secondo l’ipotesi del fotoperiodo, la
riduzione delle ore di luce durante l’inverno,
associata a una diminuita capacità retinica di
rispondere alla luce, sarebbe la causa della
depressione. A favore dell’ipotesi del
fotoperiodo giocherebbe il riscontro
frequente di depressione stagionale nei paesi
nordici e la risposta positiva ai cambiamenti
di area climatica che comportano un aumento
della durata giornaliera di esposizione alla
luce solare (fotoperiodo, appunto). Nelle
culture tradizionali delle popolazioni
nordiche, sono descritte sindromi come la
morketiden o «tempo oscuro» in Norvegia, la
skammdegistunglyndi o «cattivo umore dei
giorni corti» in Groenlandia, la winter blues o
cabin fever degli inuit.
La teoria del ritardo di fase ipotizza che la
secrezione di melatonina non coincida con
l’inizio del sonno ma sia posticipata alle
prime ore del mattino, facendo poi ritardare
anche gli altri ritmi circadiani. Per esempio, le
persone «notturne», con uno spostamento del
ritmo sonno-veglia che le fa addormentare e
svegliare più tardi degli altri, sarebbero più
vulnerabili alla depressione stagionale.
L’esposizione alla luce, soprattutto di
mattina, risincronizzerebbe il pacemaker
endogeno, spiegando l’efficacia della
fototerapia, o light therapy, nel riportare «in
fase» il ritmo secretivo della melatonina.
La light therapy risulta il trattamento
elettivo per la depressione ad andamento
stagionale. L’effetto antidepressivo sarebbe
mediato dall’azione della fototerapia sui
circuiti monoaminergici e sul ritmo
circadiano. In particolare, la light therapy
agirebbe sui sintomi più specifici e
invalidanti della depressione stagionale come
l’affaticamento, l’insonnia e la difficoltà di
concentrazione. La terapia consiste
nell’esposizione a una lampada che produce
luce artificiale con una lunghezza d’onda
predefinita. È fondamentale che gli occhi
rimangano aperti per consentire alla retina di
percepire lo stimolo luminoso e trasmetterlo
al pacemaker endogeno. L’applicazione va
fatta quotidianamente, entro un’ora dal
risveglio. La risposta clinica, preceduta da
una fase di latenza di 2-4 giorni, è positiva nel
60% dei casi. 26
La semeiotica
La semeiotica è la scienza generale dei segni,
della loro produzione, trasmissione e
interpretazione, o dei modi in cui si comunica
e si vuole «significare» qualcosa. In ambito
medico, ha per oggetto il rilievo e lo studio
dei segni che orientano verso la diagnosi.
Occorre però fare una distinzione tra
segni, sintomi e sindromi. Ricorriamo a un
esempio per chiarire il significato di questi
termini: l’ansia è un «fenomeno» (dal greco
phaínomai, «apparire») che attraverso alcuni
«segni» (dal latino signum, «marchio, indizio,
prova»), ossia manifestazioni che possono
essere obiettivate attraverso l’osservazione
del paziente (per esempio il tremore o la
tachicardia), e alcuni «sintomi» (dal greco
sympíptein, «cadere insieme») riferiti dal
paziente, ossia come avverte i propri disturbi
(per esempio la stanchezza, la nausea o la
difficoltà di concentrazione), può costituire
una «sindrome» o un disturbo. 1
«Disturbo» (disorder, trouble, Störung) non è
un termine preciso. Per il DS M -5 un disturbo è
una «sindrome caratterizzata da
un’alterazione clinicamente significativa della
sfera cognitiva, della regolazione delle
emozioni o del comportamento di un
individuo, che riflette una disfunzione nei
processi psicologici, biologici o evolutivi che
sottendono il funzionamento mentale». 2 Non
è pertanto una definizione «ristretta»: nel
tentativo di racchiudere la complessità del
disagio psichico, include aspetti molteplici e
riguardanti dimensioni diverse, come la
cognizione, le emozioni, il comportamento, i
processi psicologici, biologici e neurologici.
In questo paragrafo, proponiamo una
rassegna delle «parole chiave» con le quali
costruire la semeiotica della depressione.
Nell’ordine, affronteremo prima i termini
relativi a umore, paura, affettività, poi alcuni
concetti spesso impiegati quando si parla di
depressione.
UMORE
L’umore è un «insieme emozionale» che
include i fenomeni sentimento, affetto,
emozione, temperamento e carattere; è lo
stato emotivo globale e unitario con cui il
mondo viene percepito. Secondo il DS M -5,
l’umore è «un’atmosfera emotiva» pervasiva e
durevole, mentre l’affetto esprime
cambiamenti più fluttuanti del «clima
emotivo». 3 Kurt Schneider definì l’umore
come «un fondale sotterraneo non vissuto,
non motivante, ma agente in maniera
causale», 4 che influenza le reazioni emotive e
sostiene, in modo costante, lo stato d’animo
medio prevalente. La psicopatologia tedesca
utilizza il termine Stimmung per riferirsi allo
stato dell’umore o stato d’animo che
comprende la somma di tutti i sentimenti
presenti in un determinato stato di coscienza
e che può variare per motivi psicologici o
cause somatiche. Bisogna distinguere tra un
«umore normale», eutimico, in cui il soggetto
reagisce e corrisponde in modo equilibrato,
flessibile e congruo agli stimoli ambientali, e
un «umore patologico» che, al contrario, è
rigido, non si modifica al mutare delle
circostanze, degli stimoli e dei significati a
essi correlati.
UMORE DEPRESSO
Nella depressione, il tono dell’umore di base
è costituito da sentimenti di tristezza,
infelicità, malinconia, dolore, pessimismo,
colpa, avvilimento, di solito accompagnati da
inibizione e rallentamento di tutta la vita
psichica (ma sono comuni anche quadri
clinici dominati dall’irrequietezza). L’umore
depresso è accompagnato da modificazioni a
livello comportamentale, come rallentamento
psicomotorio, pianto, tensione muscolare,
espressione triste del volto.
Fenomeni tipicamente collegati al tono
dell’umore depresso e che, a loro volta, in un
circolo vizioso, esercitano un’influenza su di
esso sono i disturbi del sonno (tipicamente
insonnia, ma spesso anche ipersonnia), la
perdita dell’appetito con calo ponderale, la
facile affaticabilità, i sintomi cognitivi con
particolare riferimento ai deficit di
concentrazione, di attenzione, di
apprendimento e di memoria, i contenuti
depressivi del pensiero (temi di perdita, di
indegnità, di rovina, di colpa, di assenza di
speranze). Tali tematiche possono assumere
le caratteristiche di un pensiero delirante
(deliri congrui all’umore: colpa, rovina,
autoaccusa). Specie laddove la disperazione
assuma un carattere predominante, possono
comparire idee suicidarie con possibilità di
passaggio all’atto.
TRISTEZZA VITALE
Il concetto di tristezza vitale rimanda a quella
qualità distinta dell’umore che il DS M -5
introduce all’interno dei criteri diagnostici
della depressione melanconica.
Il concetto di «depressione vitale» fu
proposto da Kurt Schneider come unico
possibile candidato al ruolo di sintomo di
primo rango della depressione endogena
(analogamente ai sintomi di primo rango
della schizofrenia). Giovanni Gozzetti ha
riportato la descrizione di una paziente: «Un
peso che grava sullo sterno, come un masso
… una sofferenza penosissima, indefinibile e
non descrivibile avvertita specialmente nel
petto, nella fronte, nell’epigastrio, che varia
durante la giornata con prevalenza al
mattino». 5
La differenza strutturale fra tristezza e
tristezza vitale riguarda la temporalità. Nella
tristezza vitale, il passato (le inadempienze,
gli errori, le colpe) e il futuro (fino alla sua
conclusione nella morte) non sono più
proiezioni (ricordi e previsioni) del presente,
ma sono nel presente, dilatato a dismisura,
che, inglobando in sé passato e futuro, è
stagnante ed eterno. 6
MELANCONIA
Come abbiamo visto nel paragrafo dedicato
ai sottotipi, la melanconia rappresenta una
delle forme in cui si può manifestare la
depressione. Senza dilungarsi descrivendo i
criteri diagnostici, è utile sottolineare in cosa
consista questo particolare quadro clinico. Il
concetto di melanconia fa riferimento a un
campo psichico definito tecnicamente
«spettro dell’endogeno». L’«endogenicità»
contempla la possibilità di un terzo (endon)
come campo causale alternativo al soma e alla
psiche. Il concetto di endogenicità, in
contrapposizione all’esogeno inteso come
campo causale esterno ben delimitabile, è
necessario per definire la melanconia e
distinguerla dalle forme depressive esogene
(tradizionalmente intese come quelle di
origine nevrotica o reattiva). La melanconia fa
riferimento a una qualità particolarmente
grave di umore depresso, peggiore al
mattino, con marcati sensi di colpa e idee
suicidarie. La perdita di piacere e il
rallentamento motorio completano il quadro
clinico.
Negli anni Sessanta del Novecento, lo
psichiatra Hubertus Tellenbach individuò i
tratti essenziali del cosiddetto typus
melancholicus, un soggetto «il cui modo di
essere», riscontrabile empiricamente
attraverso l’osservazione clinica, è «costituito
da una certa struttura che per le sue
possibilità inclina verso il campo
gravitazionale della melanconia». Quali sono
le caratteristiche di questo soggetto? Quale il
suo profilo personologico? Innanzitutto la
«coscienziosità»: il typus melancholicus è
«preciso, ordinato, meticoloso e coscienzioso
all’estremo», con una «sensibilità al di sopra
della media» e una funzione della coscienza
prevalentemente di tipo «proibitivo». 7 La
colpa è un altro elemento tipico: colpa,
debito, assoluzione, perdono, oppressione
rappresentano le parole della melanconia. Da
qui scaturisce la frequente tendenza
all’autorimprovero, all’autoaccusa, alla
vergogna, allo svilimento di sé.
DEMORALIZZAZIONE
Il termine «demoralizzazione» è stato a lungo
estraneo al contesto e alla classificazione
psichiatrica, rimanendo per lo più confinato
al linguaggio quotidiano, dove è utilizzato
per esprimere uno stato di scoramento,
avvilimento, perdita di fiducia in se stessi,
venir meno di ambizioni e aspettative.
L’esistenza umana è spesso ricca di momenti
di delusione, di perdita di speranza, di caduta
dei propri desideri, e la sofferenza che ne
consegue, per l’appunto la demoralizzazione,
è spesso fonte di una domanda d’aiuto di tipo
psicologico o psichiatrico.
Bisogna attendere i contributi di Donald
Klein 8 e Jerome Frank 9 per arrivare alle
prime concettualizzazioni in senso
psichiatrico del termine demoralizzazione. In
particolare, Frank ha parlato di
demoralizzazione come il risultato di un
lungo processo a spirale in cui il dubbio sulle
proprie capacità e la bassa autostima si
rafforzano in una escalation di aspettative e
riscontri negativi che «cristallizzano» in
qualche modo un senso di incapacità, da cui il
soggetto tenta di proteggersi chiudendosi in
se stesso e adottando comportamenti di
evitamento che possano metterlo al riparo da
ulteriori delusioni. Questo processo è stato
definito «incapacità appresa» (learned
incapacity), un’alterata modalità di affrontare
le difficoltà e gli ostacoli della vita per
pregresse esperienze negative. In quegli
stessi anni, Klein identificava la
demoralizzazione in un vissuto di incapacità
(learned attitudinal despair), legato a una
progressiva perdita della stima di sé. Le
persone «demoralizzate sono incapaci di
affrontare spesso anche i normali compiti
della vita, non reputandosi all’altezza
dell’impegno richiesto e questo senso di
sconfitta nella rinuncia rinforza il vissuto di
incapacità e inutilità».
DOLORE
«Il sommo dolore non si sente … ma la sua
proprietà è di render l’uomo attonito,
confondergli, sommergergli, oscurargli
l’animo in guisa, ch’egli non conosce né se
stesso, né la passione che prova, né l’oggetto
di essa; rimane immobile e senza azione
esteriore, né, si può dire, interiore.» 10
Il dolore è uno dei sintomi centrali della
depressione: il dolore psico-fisico è così
compatto che il paziente non riesce a
descrivere dove finisca l’uno e cominci l’altro,
e dice solo, con il palmo della mano
appoggiato sul petto, «Ho un dolore qui».
Il dolore della persona depressa è
un’esperienza che deriva dall’idea di un male
presente, attuale, immodificabile. Le
caratteristiche principali sono la presenza
costante e la pervasività: interessa tutta la vita
del paziente ed è l’elemento centrale
dell’umore depressivo. Corpo e psiche
esprimono tale dolore all’unisono, come si è
detto, in maniera spesso indistinguibile o con
confini confusi. In alcuni casi, invece, il
vissuto depressivo viene espresso solo
somaticamente, sempre sotto forma di
dolore: cefalee, dolori osteoarticolari, dolori
epigastrici, la cosiddetta «depressione
mascherata», tipica degli anziani e delle
persone con scarse capacità di mentalizzare,
di riconoscere la natura psichica della
sofferenza del corpo.
Il dolore della persona depressa è il dolore
per la perdita: dell’oggetto, del senso di sé,
del senso della vita, del sentimento, del
piacere, della capacità di amare e di essere
amati. Questo dolore assoluto paralizza
completamente la parte vitale di chi lo prova,
lo lascia immobile come quando, provando
un forte dolore fisico, ci si accartoccia su se
stessi senza fiato, comprimendo la parte
dolorante, aspettando solo che passi.
Nelle parole del filosofo Friedrich
Nietzsche: «L’esistenza mi pesa
spaventosamente … sofferenza ininterrotta,
per ore e ore, una sensazione di
intorpidimento molto simile al mal di
mare». 11
MANIA
La mania ha una presentazione clinica
esattamente contraria, antinomica, a quella
della depressione. La mania è contraddistinta
da un tono dell’umore caratterizzato da
abnorme e stabile elevazione in senso
esaltato o euforico. Il soggetto appare
facilmente distraibile, ha un diminuito
bisogno di sonno, è iperattivo, fino ad
arrivare all’agitazione psicomotoria, ha un
linguaggio e un pensiero accelerati. Comuni
correlati dell’umore maniacale sono
l’esagerata spiritosità, l’eccesso di confidenza
con gli estranei, la sconsiderata prodigalità,
tipico del paziente maniacale è non avere il
senso del denaro, l’inclinazione a
comportamenti rischiosi, per esempio
guidare a una velocità molto elevata, la scelta
di abbigliamenti, acconciature e
atteggiamenti chiassosi e bizzarri.
AUTOSTIMA
La perdita dell’autostima è una caratteristica
della depressione ampiamente riconosciuta.
Non è del tutto chiaro se sia da considerarsi
un sintomo della depressione o piuttosto un
aspetto implicato nella sequenza causale del
disturbo. Nel definire questa condizione, il
DS M -5 descrive un «sentimento di
autosvalutazione» che varia da «un
sentimento di inadeguatezza» a «valutazioni
negative irrealistiche del proprio valore».
Molti autori nel corso della storia si sono
cimentati con questo concetto. Freud, per
esempio, vedeva nella perdita di autostima
un fattore chiave per distinguere la
depressione o melanconia dal lutto. 12 Altri
autori hanno focalizzato la loro attenzione
sullo sviluppo infantile, in particolare sulle
fonti di soddisfazione del neonato, tra cui il
nutrimento, o sulle modalità di sviluppo delle
relazioni interpersonali con l’altro. Più
recentemente, contributi di derivazione
cognitivista hanno sviluppato modelli di
autostima nella depressione a partire dalle
risposte cognitive, affettive e
comportamentali che un soggetto mette in
atto di fronte a un evento negativo. Le
risposte cognitive, in particolare, giocano un
ruolo fondamentale: esse consistono nei
tentativi che il soggetto compie di attribuire
un significato agli eventi negativi che lo
colpiscono. Vedremo successivamente nei
concetti di hopelessness e di helplessness come
agiscono questi schemi di pensiero.
AFFETTIVITÀ
L’affettività è uno dei concetti più complessi
in semeiotica. Eppure gli «affetti», intesi
come stati emotivi, sono qualcosa che ci
connota sempre, in ogni momento della
nostra vita. L’affettività è la capacità di
provare emozioni/sentimenti in condizioni
ambientali e relazionali mutevoli per
significato. Gli affetti hanno una durata e
un’intensità diverse e devono essere congrui
con lo stimolo che li determina. Inquadrare in
termini clinico-semeiotici il mondo degli
affetti è chiaramente molto complesso poiché
esso può sfuggire a una definizione precisa. Il
riconoscimento stesso degli affetti, sia propri
sia altrui, può rappresentare una sfida non
soltanto clinica ma, in fondo, quotidiana, che
ciascuno di noi deve affrontare nel corso della
propria giornata, nelle proprie relazioni, nei
propri stati emotivi. In ambito psichiatrico, si
tratta di individuare gli elementi riconoscibili
e propri di un disturbo dell’affettività. Per
esempio, per il DS M -5 l’affetto è una
«modalità di comportamento, rilevabile
all’osservazione, che è espressione di una
condizione di sentimento soggettivamente
sperimentata (emozione)». 13 Ne consegue
che, all’interno di questo quadro teorico, i
disturbi dell’affettività in ambito psichiatrico
devono essere valutati non solo in base a ciò
che il soggetto riferisce, ma anche in base
all’osservazione clinica.
Come potremmo descrivere l’affettività in
una persona depressa? Ci viene in aiuto il
concetto di negative affect, «affettività
negativa», sui cui la ricerca si è soffermata a
lungo. Due psicologi britannici
dell’Università di Aberdeen, John Crawford e
Julie Henry, hanno costruito una scala – la
PANAS (Positive and Negative Affect Schedule) –
con la quale è possibile tentare di
«quantificare» l’affettività «positiva» e quella
«negativa». Nell’ambito dell’affettività
positiva, gli autori hanno incluso i seguenti
stati: interessato, vigile, attento, eccitato,
entusiasta, ispirato, orgoglioso, determinato,
forte, attivo. Tra gli affetti negativi, si
annoverano invece gli stati: angosciato,
irritabile, in colpa, imbarazzato, nervoso,
teso, impaurito, dispiaciuto. I due autori
hanno condotto una ricerca su un vasto
campione non clinico, riscontrando una
correlazione positiva tra livello di
depressione e affettività negativa, e,
viceversa, una correlazione negativa tra livello
di depressione e affettività positiva. In altri
termini, la presenza di un negative affect è
chiaramente legata a un livello maggiore di
depressione. 14
ANSIA
Quando parliamo di ansia, va subito fatta una
distinzione importante tra ansia «normale» e
ansia «patologica». L’ansia normale
rappresenta una fisiologica emozione di
difesa sperimentata da ogni individuo di
fronte a una situazione che costituisce un
pericolo oggettivo. Uno stato d’ansia normale
presenta alcune caratteristiche peculiari,
come una comprensibile reattività, una
reazione adeguata allo stimolo ansiogeno; la
transitorietà, la reazione ansiosa termina alla
sospensione dello stimolo ansiogeno senza
lasciare conseguenze o esiti di natura psico-
fisica; la funzione adattiva, che consente
all’individuo di mettere in atto una serie di
strategie e di comportamenti funzionali al
superamento dell’ostacolo o del pericolo
reale. Nell’ansia patologica, si verifica
pressoché il contrario: vi è una reattività
esagerata rispetto allo stimolo, non c’è
transitorietà, anzi spesso si instaura uno stato
ansioso generalizzato, e manca la funzione
adattiva, sostituita da un blocco paralizzante
che impedisce al soggetto l’attivazione di una
risposta adeguata al pericolo.
In termini strettamente clinici, l’ansia
consiste in un sentimento di penosa
aspettativa e allarme di fronte a un pericolo
reale o potenziale, immediato o imminente,
associata a sintomi fisici di iperattività
neurovegetativa e a un comportamento di
evitamento. Analizziamo nel dettaglio questa
definizione. Si parla di «penosa aspettativa»:
attesa, unita a sofferenza, di qualcosa che
potrebbe danneggiarci, fare del male a noi o
alle persone care. Spesso si tratta dell’attesa
di un pericolo potenziale, per esempio
temere di avere una malattia o di andare
incontro a un incidente aereo, o reale, per
esempio prima di fare un esame
all’università, oppure prima di sostenere la
prova di un concorso. All’interno della
definizione dell’ansia, si parla di sintomi
fisici di «iperattività neurovegetativa»: con
questa espressione si intende la reazione del
nostro cervello a un segnale di pericolo, tale
da generare uno stato di allarme che si
manifesta con una reazione neurovegetativa
localizzata in tutto il corpo. Nel 1975, due
importanti scienziati della psiche umana,
Paul Fraisse e Jean Piaget, così descrivevano
le reazioni neurovegetative: «La lista delle
manifestazioni neurovegetative che possiamo
distinguere è lunga per l’una o l’altra
emozione: conduttanza della pelle, velocità
cardiaca, livello della tensione sanguigna,
vasocostrizioni e vasodilatazioni, velocità,
oscillazioni e regolarità della respirazione,
temperatura della pelle, sudorazione,
diametro pupillare, secrezione salivare,
funzionamento peptico, contrazione o
rilassamento degli sfinteri, attività elettrica
cerebrale, analisi chimica e ormonale del
sangue, delle urine e della saliva,
metabolismo basico sono più o meno
modificati». 15 Si tratta, come si può notare, di
una lista lunga e completa, valida per molti
aspetti ancora oggi, e che contraddistingue le
manifestazioni somatiche tipiche di uno
spettro che va dall’ansia fino al cosiddetto
attacco di panico. Gran parte di queste
reazioni è mediata dal sistema
noradrenergico, responsabile dello stato di
allarme e della risposta a un pericolo, sia esso
reale, percepito in misura amplificata o
addirittura immaginario.
PAURA
Emozione primordiale reattiva di fronte a un
pericolo esterno chiaramente riconosciuto dal
soggetto. Secondo questa definizione,
condivisa dalla maggior parte degli autori,
nella paura, a differenza che nell’ansia, si
identifica un oggetto-stimolo chiaramente
definito (ansia con oggetto).
La sostanziale differenza tra ansia e paura
sembrerebbe relativa alla proiezione del
timore nel futuro: se l’ansia è l’attesa penosa
di un evento proiettato nel futuro non
sempre chiaramente identificato, nella paura
l’evento minaccioso è attuale e di regola
chiaramente percepito. Va comunque detto
che la paura, sebbene sia parte del correlato
psicopatologico della depressione, è una delle
sei emozioni di base, universali, individuate
negli anni Settanta del Novecento dai
ricercatori Paul Ekman e Wallace Friesen. In
particolare, Ekman nel 1972, seguendo una
tribù isolata dal mondo in Papua Nuova
Guinea, notò le espressioni «di base»: felicità,
paura, rabbia, disgusto, tristezza e sorpresa.
Queste emozioni sono innate e si ritrovano in
tutte le popolazioni; per questo motivo
vengono definite «emozioni primarie
(universali)».
Nel caso della depressione, l’espressione
della paura è enormemente amplificata e
spesso è collegata a tematiche o contenuti
tipicamente depressivi, come la paura del
futuro, la paura di non farcela, la paura di
finire in rovina economica, la paura di essere
abbandonati. In questo senso, il
neuroscienziato contemporaneo Joseph
LeDoux ha evidenziato una distinzione
importante relativa al «sistema della paura»
nel modello animale e nell’essere umano. 16
Nell’uomo, la paura non è legata solo a
circuiti puramente emozionali, istintuali, ma
anche a circuiti complessi che coinvolgono
aree cerebrali superiori deputate al
ragionamento e alla riflessione. Procedendo a
una semplificazione anatomica
indubbiamente riduttiva, se nell’animale la
paura è più amigdaloidea, cioè legata
all’attivazione dell’amigdala, nell’uomo
coinvolge anche le aree prefrontali. Le paure
dell’uomo non sono solamente legate a uno
stimolo pericoloso, ma spesso, come per
esempio accade nella depressione, sono
esistenziali.
LUTTO
La migliore definizione che si può dare del
lutto è quella del padre della psicoanalisi,
Sigmund Freud, il quale nel 1917, nel saggio
Lutto e melanconia, scriveva: «Il lutto è
invariabilmente la reazione alla perdita di
una persona amata o di un’astrazione che ne
ha preso il posto, la patria ad esempio, o la
libertà, o un ideale o così via». 17
Perché il lutto si associa alla depressione?
Perché, come sottolinea Freud, il concetto di
lutto implica la perdita e la perdita può
determinare nel soggetto che ne è colpito un
dolore tale da generare una reazione
depressiva. Questo collegamento veniva così
sintetizzato da Freud: «La melanconia è
psichicamente caratterizzata da un profondo
e doloroso scoramento, da un venir meno
dell’interesse per il mondo esterno, dalla
perdita della capacità di amare,
dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e
da un avvilimento del sentimento di sé che si
esprime in autorimproveri e autoingiurie e
culmina nell’attesa delirante di una
punizione … L’analisi della melanconia ci
insegna che l’Io può uccidersi solo quando …
riesce a trattare se stesso come un
oggetto». 18 La potenza descrittiva di queste
parole («avvilimento», «profondo e doloroso
scoramento»…) si accompagna a una chiara
illustrazione dei meccanismi psicopatologici
che legano la perdita alla melanconia. L’Io,
impoverito e svuotato, nella melanconia
arriva a identificarsi con l’oggetto della
perdita.
COLPA
La colpa occupa un ruolo centrale nello
sviluppo della depressione. Lo psichiatra
Ludwig Binswanger ha legato lo sviluppo
della colpa a un meccanismo tipico dello
stato depressivo denominato «retrospezione
melanconica». 19 Un processo consistente in
una serie di rimpianti/rimproveri legati a
fallimenti reali o potenziali del passato: «Se
solo non avessi fatto questo… È colpa mia,
non dovevo farlo». Questo meccanismo di
retrospezione melanconica sottende una
sorta di autosvalutazione, un «sentirsi di
scarso valore». Alcuni autori si sono
interrogati sul significato di questo senso di
colpa, chiedendosi se debba essere
differenziato in «secondario» (e quindi
reattivo a un evento spiacevole) e «primario»,
slegato «da un’occasione di colpa». La grande
tradizione psicopatologica di derivazione
fenomenologica ha affrontato la questione
della «deducibilità» o meno della colpa, della
sua «comprensibilità». Appare evidente che,
nelle grandi forme melanconiche, il soggetto
non fa discendere il suo sentimento di colpa
da occasioni precise, «individuate», piuttosto
egli si sente colpevole primariamente e, in
modo paradossale, «sceglie», se così si può
dire, occasioni per rafforzare il suo sentirsi
colpevole. Si tratta tuttavia, come ha
sottolineato Binswanger attraverso l’analisi di
diversi casi clinici, di occasioni «sostituibili» e
quindi non tali da determinare
autonomamente questo processo.
L’inclinazione alla colpa ha spesso anche un
carattere «ossessivo»: è un avvitarsi intorno a
una serie di autorimproveri, a sentimenti di
colpa e vergogna. Freud e la psicoanalisi
postfreudiana hanno rimandato il concetto di
colpa alle forme cliniche tipicamente
nevrotiche, legate a conflitti interni inconsci
di cui il soggetto è inconsapevole. Nelle
forme psicotiche, invece, la colpa è
completamente proiettata all’esterno e il
soggetto, anziché sentirsi colpevole, vive una
condizione di innocenza ed è costretto a
difendersi da un mondo persecutore e
aggressivo.
VERGOGNA
A volte, al centro dell’esperienza depressiva
non ritroviamo soltanto il sentimento di
colpa, quanto piuttosto una mortificazione
dell’animo, schiacciato da un senso di
sconfitta e di fallimento: appaiono in primo
piano la vergogna, l’umiliazione e
l’autosvalutazione, la tendenza al giudizio e
all’autorimprovero, legati al non sentirsi
all’altezza delle proprie aspettative. «Mi
vergogno di farmi vedere così», «Non sono
più io». La semeiotica psichiatrica ha
individuato due grandi raggruppamenti
semantici rispetto ai quali definire la
vergogna. Il primo è quello della «vergogna-
pudore», i cui temi sono: soggezione, timore,
imbarazzo, pudore, modestia, riserbo,
timidezza. 20 In questa accezione, la vergogna
ha una funzione protettiva nel difendere la
persona dall’intrusione del mondo esterno. È
molto frequente nei quadri ansiosi e può
manifestarsi o esacerbarsi nei quadri
depressivi. L’altro grande raggruppamento
semantico all’interno del quale si può
delimitare o individuare la vergogna è quello
della «vergogna-onta». Esso include disonore,
ignominia, macchia, vituperio, infamia e si
avvicina all’ambito paranoicale. Oggi, i mezzi
di comunicazione tendono a spettacolarizzare
la vita intima delle persone, e il sentimento di
vergogna-pudore sembra quasi cedere il
passo a quello della vergogna-onta,
largamente più diffuso in una società che
valorizza quasi esclusivamente la
performance. È importante però fare una
precisazione: la vergogna non coincide con la
colpa. Così come la società mediatica ci offre
lo spettacolo di colpevoli che sono senza
vergogna. Negli ambiti psicoterapeutici
troviamo frequentemente soggetti che
sprofondano nella vergogna pur essendo
senza macchia alcuna. Il senso di colpa ha
una genesi diversa, che riguarda la storia
personale del soggetto e i suoi trascorsi di
vita.
ANEDONIA
L’anedonia è una delle caratteristiche
peculiari della depressione. È un sintomo
particolarmente grave nelle forme
melanconiche e consiste nella diminuzione
della capacità di provare piacere per qualsiasi
tipo di esperienza vitale. Quel che
frequentemente accade è che il paziente
smette di provare piacere per situazioni che
prima trovava piacevoli. L’anedonia può
presentarsi in forme particolarmente gravi,
come nel caso di una madre che non sente
più piacere nell’abbracciare il proprio figlio.
Altre volte è limitata alla perdita del gusto
per il cibo o alla perdita di piacere nel fare le
piccole cose, nello stare insieme agli altri. La
letteratura psichiatrica solitamente distingue
tra anedonia parziale e anedonia totale,
oppure fra anedonia fisica e anedonia sociale,
la perdita di piacere nelle situazioni di
condivisione sociale o di scambio/relazione
con gli altri. Come abbiamo visto, l’anedonia
costituisce uno dei due criteri fondamentali
per la diagnosi di depressione maggiore
secondo il DS M -5 .
ALESSITIMIA
«Alessitimia» è un termine di derivazione
greca, che significa letteralmente «umore
senza parole». Nella psicopatologia attuale,
rappresenta la difficoltà di verbalizzare le
emozioni, unitamente alla povertà
immaginativa. Il funzionamento cognitivo-
affettivo risulta appiattito sulla realtà del
momento e marcata è la difficoltà nel
distinguere sensazioni fisiche e sentimenti.
Inizialmente proposto come aspetto
distintivo dei disturbi psicosomatici rispetto
a quelli propriamente psichici, il concetto di
alessitimia ha gradualmente perso questa
connotazione: infatti, molti disturbi
psichiatrici risultano altrettanto o più
alessitimici dei disturbi psicosomatici. È di
solito considerata una caratteristica di
personalità stabile, mentre è accertato che
circostanze varie, come traumi, assunzione di
sostanze, stati depressivi, possono
determinarla o intensificarla.
LABILITÀ AFFETTIVA
La labilità affettiva è un’anomala variabilità
degli affetti che comporta una notevole
instabilità del tono dell’umore, facilmente e
rapidamente modificabile da stimoli
incongrui o di scarsa importanza.
RABBIA
Come diceva Omero: «Facili all’ira sopra la
terra siamo noi di stirpe umana».
Effettivamente, siamo facili alla rabbia, che è
una delle emozioni primordiali comuni a tutti
i popoli a prescindere dalle sovrastrutture
culturali e sociali. La rabbia, però, ha un
legame molto forte con la depressione,
perché è una delle emozioni più
comunemente vissute dai soggetti depressi.
In Al di là del principio di piacere, Freud
affronta il tema della rabbia alla luce della
teoria delle pulsioni, arrivando a
concettualizzare un «istinto di morte», un
istinto autonomo, biologico, deputato al
dissolvimento e alla distruzione: un istinto
«al di là del principio di piacere» o al di là del
principio di vita. 21 La problematica della
rabbia e dell’aggressività è riproposta da
Freud, nel saggio Il disagio della civiltà, in
un’ottica non più solamente individuale e
soggettiva, ma rielaborata in termini psico-
sociali. 22 Viene descritto una sorta di
conflitto inevitabile tra l’uomo e la civiltà, in
quanto quest’ultima è costruita sulla
repressione, sulla rimozione delle pulsioni,
che per loro natura possono essere
disfunzionali. In questo saggio Freud anticipa
gli anni bui del nazismo e della guerra, e la
sua convinzione che all’interno dell’uomo
esista una rabbia, una forza distruttrice
pulsionale in grado di minare la convivenza
civile, raggiunge il suo apice. Questa pulsione
distruttrice, l’«istinto di morte», rappresenta
la causa principale del «disagio della civiltà»,
sperimentato come sentimento di colpa e
come angoscia morale. Il depresso vive e
rivolge principalmente la rabbia contro se
stesso. L’istinto di morte, introiettato e
direzionato su di sé, può fornire un quadro
teorico esplicativo della perdita di vitalità e di
piacere, e della comparsa di idee e impulsi
suicidari propri del soggetto depresso.
Tratteremo ancora della rabbia nel paragrafo
«Tre emozioni sorelle» del capitolo IV.
DISFORIA
La disforia è uno stato d’animo presente
soprattutto nel disturbo bipolare, ma si può
ritrovare anche nei disturbi depressivi, nei
disturbi d’ansia e in quelli di personalità.
Consiste in una condizione emotiva in cui
non è prevalente un umore di tipo ansioso,
depressivo o delirante, ma il paziente vive
una miscela di sentimenti opposti in
inestricabile successione: insoddisfazione,
irrequietezza, irritabilità, ansia, malumore,
aggressività, euforia.
APATIA
L’apatia (dal greco a-páthos, letteralmente
«senza emozione») è uno dei tratti più
caratteristici della depressione. Di fatto,
consiste in una carenza, o assenza, di risposta
affettiva a stimoli esterni e interni che
normalmente dovrebbero suscitare una
risposta emozionale. L’apatia non è solo un
vissuto soggettivo, ma ha anche una
manifestazione clinico-fenomenologica
caratterizzata dalla presenza di sintomi
psicomotori come rallentamento e inerzia. È
un termine molto utilizzato nella pratica
clinica e nel linguaggio comune. Nella
psichiatria anglosassone, il suo contenuto
semantico sembra coincidere con quello del
concetto, oggi più usato, di «appiattimento
affettivo», una condizione di generale
impoverimento della reattività emotiva.
HOPELESSNESS
Si tratta di un termine abitualmente in uso
nella letteratura angloamericana per definire
una condizione di «perdita di speranza».
Questo concetto è stato variamente
interpretato come sintomo accessorio oppure
sintomo nucleare della depressione, da cui
derivano la tristezza, la perdita di piacere,
ecc. Alcuni autori hanno proposto la
hopelessness theory of depression, una teoria
della depressione basata sul concetto della
perdita di speranza. Che cosa fa sì che un
individuo si senta hopeless, senza speranza?
Quando si verificano, e si ripetono, eventi di
vita percepiti come «negativi», il soggetto
forma schemi di pensiero riguardanti: i
motivi per cui l’evento negativo si è verificato
(il soggetto, di solito, tende ad attribuirsene
la causa), le conseguenze che derivano da
questo evento e le considerazioni del
soggetto circa i motivi per cui tale evento sia
capitato proprio a lui e non ad altri. La
conseguenza di queste inferenze logiche è
che il soggetto finisce con l’attribuire a se
stesso delle caratteristiche e delle qualità
negative come risultato degli eventi di vita
percepiti negativamente e che hanno
prodotto gli schemi di pensiero appena
descritti. Alcuni autori, per esempio Aaron T.
Beck, padre del cognitivismo, hanno studiato
a lungo la rilevanza di questi schemi cognitivi
disfunzionali nella genesi della depressione,
giungendo alla conclusione che molti casi di
depressione con «perdita di speranza» si
verificano in soggetti con stile cognitivo
«vulnerabile» al confronto con eventi di vita
avversi. 23
HELPLESSNESS
È un termine difficilmente traducibile in
italiano; noi abbiamo proposto di utilizzare il
vocabolo «inermità» per renderne il vissuto.
Helplessness indica la condizione di un
soggetto che avverte l’impossibilità di
ricevere un aiuto. Questa condizione è
necessaria ma non sufficiente a vivere una
condizione di hopelessness. Non è detto, cioè,
che un individuo che non può ricevere aiuto
sia senza speranza, sebbene le due condizioni
siano fortemente connesse tra loro. Il
concetto di helplessness si lega in qualche
modo al «controllo» o, meglio,
all’impossibilità per un soggetto di
controllare gli esiti di un evento qualsiasi.
Questa condizione di perdita di controllo
genera impotenza e pone l’individuo in una
condizione di solitudine e impossibilità di
essere aiutato concretamente. Incapace di
controllare l’andamento di un’azione o di un
evento e senza poter ricevere aiuto, il
soggetto ha una percezione di se stesso come
«messo all’angolo», che facilmente può
sfociare in uno stato depressivo. Per un
approfondimento di questo concetto, vedi il
paragrafo «Tre emozioni sorelle» del capitolo
IV.
IPOCONDRIA
L’ipocondria è un disturbo estremamente
frequente, rintracciabile sia come disturbo
autonomo sia come correlato di sindromi
ansioso-depressive. Consiste in una costante
apprensione per la propria salute e si
accompagna a una tendenza ansioso-
ossessiva a sopravvalutare i minimi disturbi.
Possiamo ritenere un paziente ipocondriaco
quando continua a fornire interpretazioni
riguardo ad alcune sensazioni corporee,
nonostante abbia ricevuto rassicurazioni
mediche adeguate. Accade di frequente che i
timori si concentrino su un solo organo, il cui
funzionamento diventa fonte di estrema
preoccupazione. Il convincimento non è
solitamente delirante: la persona è capace, in
certi momenti, di ammettere la possibilità di
non avere alcuna grave malattia. La
depressione e l’ipocondria sono spesso
correlate, in quanto entrambe dominate dalla
prevalenza di pensieri/schemi cognitivi
negativi. I pazienti depressi spesso
manifestano preoccupazioni ipocondriache
che scompaiono con la risoluzione
dell’episodio depressivo, a differenza del
disturbo ipocondriaco vero e proprio.
STRESS
Il 17 giugno 1950 il «British Medical Journal»
pubblica un articolo del ricercatore canadese
Hans Selye dal titolo Stress and the General
Adaptation Syndrome (Lo stress e la sindrome
generale dell’adattamento). 24 Per la prima
volta, il concetto di stress, fino a quel
momento in uso nel mondo della fisica, entra
in biologia e in medicina per designare «la
risposta non specifica dell’organismo a ogni
richiesta effettuata su di esso» a opera di
agenti stressanti, i cosiddetti «stressor». Al
giorno d’oggi, questo concetto è
frequentemente utilizzato non solo in
medicina, ma anche nel linguaggio comune,
spesso in modo inappropriato. Nella società
attuale si parla continuamente di stress,
spesso inteso come ostacolo alla conquista
del piacere o quanto meno del benessere.
Nella ricerca clinica e neurobiologica in
campo psichiatrico, lo studio dello stress ha
una connotazione ben precisa ed è volto
all’indagine dei suoi effetti sul cervello, per
esempio gli studi sull’attivazione del cortisolo
e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. In una
delle ultime ricerche, Selye concludeva: «La
completa libertà dallo stress è la morte.
Contrariamente a quanto si pensa di solito,
noi non dobbiamo, e in realtà non possiamo,
evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in
modo efficace, e trarne vantaggio imparando
di più sui suoi meccanismi e adattando la
nostra filosofia dell’esistenza a esso». 25
STIGMA
«Stigma» è una parola di origine greca, che
significa marchio, impronta, segno distintivo.
In psichiatria, indica la discriminazione,
operata dalla società e basata sul pregiudizio,
nei confronti di una persona affetta da un
disturbo mentale. La conseguenza di questo
pregiudizio è l’esclusione sociale, associata a
senso di rifiuto, vergogna e solitudine. Il
National Institute of Mental Health ha
recentemente definito lo stigma come
l’aspetto più debilitante di un disturbo
mentale. È fin troppo facile immaginarne il
motivo. Lo stigma accresce il disagio
psicologico di un paziente e può portare a
evitare, per vergogna, di rivolgersi ai servizi
di salute mentale con conseguente
peggioramento del quadro clinico. Nel caso
della depressione, il peso di questa
discriminazione è persino maggiore, in
quanto è frequente riscontrare la presenza di
due tipologie di stigma: lo stigma
propriamente detto, cioè il pregiudizio della
società e le conseguenze in termini di
isolamento ed esclusione sociale; lo stigma
internalizzato, cioè l’interiorizzazione e
l’autoattribuzione del giudizio negativo
altrui. Questo tipo di stigma trova nel
depresso un humus fertile, costituito dal fatto
che i depressi sono per definizione soggetti
con pensieri/schemi cognitivi tali da
determinare perdita di autostima, perdita di
speranza, helplessness e negative affect. Come
detto precedentemente, vergogna, sconfitta,
senso di fallimento, umiliazione sono parole
che fanno già parte del vocabolario della
depressione.
SPETTRO
In fisica, il concetto di «spettro» è utilizzato
per indicare un continuum quantitativo: per
esempio, si parla di spettro a proposito della
serie di colori che si forma quando un raggio
di luce bianca attraversa un prisma. In
psichiatria, il concetto di spettro è impiegato
per identificare gruppi sindromici distinti sul
piano clinico-sintomatologico, ma che sono
sottesi da un fattore patogenetico comune.
Un esempio è il cosiddetto «spettro
bipolare», concettualizzato per la prima volta
all’inizio del Novecento da Emil Kraepelin. 26
Lo psichiatra considerava gli stati affettivi
lungo un continuum che va dalle forme più
gravi a quelle attenuate, dalle forme
psicotiche a quelle temperamentali. Più
recentemente, Hagop Akiskal, uno dei più
eminenti studiosi di questi fenomeni clinici,
ha proposto il concetto di «spettro bipolare
attenuato», all’interno del quale, oltre al
disturbo bipolare propriamente detto, sono
inclusi episodi depressivi alternati a episodi
ipomaniacali sia di breve sia di lunga durata,
tratti temperamentali di ipertimia e
ciclotimia e soggetti con familiarità per
disturbo bipolare. 27
Tabella 3
LA PAURA IN VARI DISTURBI PSICOPATOLOGICI
MODELLI NEUROBIOLOGICI
È utile e interessante soffermarsi
rapidamente su cosa accade nel nostro
cervello nel momento in cui abbiamo paura. I
modelli neurobiologici della paura sono
diventati sempre più sofisticati e complessi, e
prevedono l’attivazione di network neuronali
non circoscrivibili a una singola area del
cervello o a un singolo meccanismo.
Secondo tali modelli, la paura, nelle sue
forme patologiche, deriva da un meccanismo
detto di «riconsolidamento», un processo
patologico ascrivibile a due aspetti ben
precisi: la «generalizzazione», il reclutamento
tra i fattori scatenanti della paura di stimoli
non correlati all’evento inizialmente
responsabile del fenomeno psichico, e la
«sensibilizzazione», l’incremento progressivo
della percezione della paura dopo
esposizione ripetuta all’evento scatenante.
Questi due fenomeni (generalizzazione e
sensibilizzazione) fanno sì che, dopo
l’esposizione a un evento spaventoso o
traumatico, si generi nel soggetto una
condizione di paura via via più ingravescente;
tale condizione si innesca anche in risposta a
stimoli distanti dall’evento scatenante
iniziale.
Si tratta di due fenomeni opposti a quelli
che si verificano in caso di remissione della
percezione della paura, la «discriminazione»
e l’«estinzione». La discriminazione consiste
nel limitare la reazione di paura al singolo e
specifico stimolo spaventoso, mentre
l’estinzione consiste in una reazione di
desensibilizzazione progressiva ottenuta
mediante l’esposizione ripetuta allo stimolo
fobico.
Su un piano strettamente neurobiologico,
è ben noto il ruolo dell’amigdala rispetto
all’espressione della paura. Un recente
articolo della rivista «Nature» ha mostrato
che un evento stressante/pauroso fisico e
psichico determina l’attivazione
dell’amigdala, in particolare la divisione
laterale e centrale di questa regione,
attraverso la mediazione di una regione del
talamo, il nucleo paraventricolare, che è stata
denominata brain area stress sensor, «sensore
cerebrale dello stress». 18 Tuttavia, se il
coinvolgimento dell’amigdala è ben noto, ed
è stato confermato da studi sia sul modello
animale sia sull’uomo, recentemente Joseph
LeDoux, in un’intervista pubblicata sulla
rivista «PNAS », ha ribadito che l’amigdala, per
quanto necessaria nell’espressione della
paura, non è però sufficiente. È in gioco
quindi un sistema più complesso che non
riguarda solo l’amigdala (per usare le parole
del ricercatore newyorkese: «Not simply the
amygdala»). 19 In particolare, nell’uomo sono
coinvolti circuiti superiori, presenti a livello
prefrontale. Questa differente neuroanatomia
della paura nell’uomo ha un’origine anche di
tipo «culturale», dovuta al fatto che l’essere
umano non ha solo paure «concrete», legate a
minacce o pericoli che incontra sulla propria
strada. Spesso ha paure «esistenziali», e
queste ultime sono quelle più
frequentemente coinvolte negli stati
depressivi.
La paura dell’uomo, quindi, non è
semplicemente una reazione immediata (in
termini neurofisiologici diremmo
«sottocorticale») a uno stimolo percepito
come pericoloso, ma coinvolge aree cerebrali
più complesse e implicate non solo
nell’elaborazione delle emozioni, ma anche
nella regolazione dell’umore e nelle capacità
cognitive.
La mappatura del cervello «ansioso» è una
delle frontiere di ricerca più complicate delle
neuroscienze. Come detto, la paura e l’ansia
non riguardano solo l’amigdala, ma regioni
più vaste e connesse tra loro. Tra queste,
particolare attenzione va riservata al
cosiddetto default mode network (DM N). Il
DM N, in realtà, non è una singola area del
cervello, ma un sistema, un network, che
include al suo interno diverse regioni
cerebrali, tra cui la corteccia mediale
prefrontale, la corteccia cingolata posteriore e
i lobi mediali temporali. Nel mondo
informatico, si definisce default mode un
sistema preimpostato che viene
automaticamente utilizzato in mancanza di
un’impostazione dell’utente: si dice che una
funzione si attiva «di default» per intendere
qualcosa che si avvia automaticamente in
condizione di stop o inattività. Nel nostro
cervello il DM N possiede una funzione simile:
esso si attiva automaticamente in condizioni
di riposo e si «deattiva» durante l’esecuzione
di un compito attentivo. Una delle ipotesi più
accreditate riguardo l’origine degli stati
ansiosi, la cosiddetta load theory (teoria del
sovraccarico), è che essi siano la conseguenza
di una incapacità del cervello di «deattivarsi»,
di filtrare o inibire gli stimoli interni
irrilevanti o ansiogeni, con la conseguenza
che il cervello verrebbe sovrastimolato
ricevendo un carico attentivo-percettivo
insostenibile. 20
Nelle persone ansiose, le regioni coinvolte
in questo network sono «meno collegate» tra
loro rispetto a quelle dei soggetti non ansiosi.
In termini tecnici, si parla di una «ridotta
connettività». L’ipotesi è che un ridotto
funzionamento del DM N non consentirebbe al
cervello a riposo di costituire un adeguato
«filtro» rispetto alla molteplicità degli stimoli
attentivi-percettivi ricevuti. In qualche modo,
è come se il nostro cervello, durante uno stato
ansioso, non raggiungesse mai la condizione
di default ma, parafrasando il linguaggio
informatico, finisse in blocco da sovraccarico.
Studi di neuropsicoanalisi hanno ipotizzato
che il DM N possa rappresentare l’equivalente
neurobiologico dell’Io freudiano, e cioè
costituire una funzione regolatrice degli
stimoli interni, in grado di inibire,
controllare, dirigere, limitare la cosiddetta
«energia libera» secondo le esigenze imposte
dal confronto con la realtà (quello che, in
termini psicoanalitici, è definito «processo
secondario»).
Il «cervello depresso»
Bisogna partire da una premessa: i dati di
ricerca disponibili, nonostante consentano
una visione più dettagliata dei meccanismi
cerebrali della depressione, sono
«incompleti», nel senso che non permettono
di effettuare una diagnosi di depressione
sulla base di referti cerebrali. È molto
lontano, e forse non arriverà mai, il momento
in cui la diagnosi di depressione si potrà
basare su referti di risonanza magnetica,
anziché su un’attenta valutazione clinico-
anamnestica-psicopatologica. Inoltre, i
meccanismi di rapporto causale tra un dato
strutturale/funzionale e lo stato clinico di un
paziente non sono ancora noti e, dunque, non
ci è possibile stabilire con sufficiente certezza
se il dato neurobiologico rappresenti la
conseguenza o la causa di un certo disturbo.
Le patologie psichiatriche non rispondono
alla legge causa-effetto, ma seguono le vie
della multimodalità bio-psico-sociale. Di
conseguenza, al fine di ridurre la complessità
dei risultati delle ricerche e poter fornire al
lettore non tecnico un resoconto fruibile e
aggiornato, correremo il rischio del
«riduzionismo esemplificativo».
Fatte queste premesse, cosa possiamo dire
riguardo a come si presenta il cervello di una
persona depressa? Per semplicità,
esaminiamo cosa accade nelle tre aree
cerebrali principali durante un episodio
depressivo.
IL MODELLO NEURO-INFIAMMATORIO
All’interno del modello gene-ambiente, una
delle ipotesi eziopatogenetiche più
interessanti per spiegare l’insorgenza di uno
stato depressivo è il cosiddetto modello
neuro-infiammatorio. Studi recenti hanno
mostrato come i soggetti depressi mostrino
livelli ematici incrementati di una varietà di
biomarker periferici rispetto alla popolazione
non depressa. Questi dati sono stati spesso
interpretati come la dimostrazione che
persino la depressione possa essere
considerata una malattia infiammatoria tout
court. 10 L’interazione tra polimorfismi genici
tipicamente candidati allo sviluppo di
depressione (come il BDNF e il S ERT) e
polimorfismi deputati alla sintesi di proteine
infiammatorie, citochine quali
l’«interleuchina 10» e l’«interleuchina 8», può
concorrere allo sviluppo di resilienza o
vulnerabilità a eventi di vita stressanti
sperimentati in età adulta. Questo pattern
genetico determina in sostanza la plasticità o,
al contrario, la rigidità di un soggetto nel far
fronte agli eventi avversi. La vulnerabilità o,
per meglio dire, la rigidità e la mancanza di
resilienza, concorreranno allo sviluppo di
quadri clinici depressivi che si tradurranno
da un lato in un aumento dei livelli ematici
delle citochine infiammatorie e del cortisolo,
dall’altro in una riduzione dei livelli dei
fattori di crescita neurotrofici (BDNF) e delle
monoamine (serotonina, dopamina,
noradrenalina).
Memoria e depressione
«Bisogna cominciare a perdere la memoria,
anche solo ogni tanto, per comprendere che
la memoria è ciò che riempie la nostra vita. La
nostra vita senza memoria non è vita … La
nostra memoria è la nostra coerenza, la
nostra ragione, il nostro sentimento, persino
la nostra azione. Senza di lei, non siamo
niente.» 18 Questa affermazione del regista
spagnolo Luis Buñuel stimola riflessioni
psicopatologiche sull’importanza
«esistenziale» della memoria e sul ruolo che
può svolgere nell’insorgenza di uno stato
depressivo. Per esempio, in un’intervista a
Oriana Fallaci («L’Europeo», 1963) Totò dice:
«Forse vi sono momentini minuscolini di
felicità, e sono quelli durante i quali si
dimenticano le cose brutte. La felicità,
signorina mia, è fatta di attimi di
dimenticanza».
Parlare di memoria e, in particolar modo,
parlare di memoria nella depressione è
necessario se vogliamo comprendere i
meccanismi di funzionamento e mal-
funzionamento della nostra mente. Freud nel
1909 diceva, in modo per certi versi profetico:
«I nostri malati isterici soffrono di reminiscenze
… non solo ricordano le esperienze dolorose
del loro remoto passato, ma sono ancora
attaccati a esse emotivamente; non riescono a
liberarsi del passato e trascurano per esso la
realtà e il presente». 19
Per Freud, non erano solo le esperienze ad
avere effetto traumatico, ma il loro riviverle
come ricordo, dopo che il soggetto aveva
varcato la soglia della maturità sessuale:
«Quasi tutti i sintomi erano sorti come
residui – “sedimenti” si potrebbe dire – di
esperienze cariche di affetto, che perciò più
tardi abbiamo chiamato “traumi psichici” …
Essi erano, per usare un termine tecnico,
determinati dalle scene di cui rappresentavano
i residui mnestici». 20 Siamo agli albori della
psicoanalisi e Freud, negli Studi sull’isteria, 21
arriva alla conclusione che l’isterico soffre di
reminiscenze, ossia di ricordi dolorosi e
spiacevoli di natura traumatica. È vero che i
ricordi traumatici sono sepolti nell’inconscio,
ma rimangono una forza attiva che modifica
il comportamento: i ricordi traumatici sono di
per sé patogeni, ossia in grado di
condizionare negativamente la vita psichica e
fisica del soggetto.
Come tradurre l’intuizione freudiana in
termini moderni, alla luce del bagaglio di
conoscenze che si sono accumulate negli
ultimi decenni? Un dato ormai consolidato è
il fatto che il volume ippocampale, quello
della regione cerebrale primariamente
coinvolta nella memoria, sia ridotto nei
soggetti depressi e che tale riduzione sia però
reversibile dopo adeguato trattamento
antidepressivo. Questo risultato è stato
replicato in studi diversi e conferma, tra
l’altro, quanto detto precedentemente circa la
plasticità sinaptica. Sappiamo inoltre che a
livello dell’ippocampo viene prodotta la
neurotrofina BDNF, tra i principali fattori in
grado di modulare la plasticità sinaptica.
Come abbiamo già visto, numerosi studi
hanno rivelato come i livelli di BDNF siano
ridotti nei soggetti depressi, salvo
normalizzarsi, anche in questo caso, dopo
adeguato trattamento antidepressivo. Questi
dati confermano il ruolo centrale occupato
dai sistemi della memoria e dai circuiti a essi
sottostanti.
Nella depressione non c’è una vera perdita
dei ricordi, né recenti né antichi, ma piuttosto
una difficoltà nel rievocarli. L’amnesia che
spesso si osserva nei soggetti depressi è
legata alla difficoltà di prestare attenzione
agli stimoli che ci circondano e ci consentono
di rievocare ricordi. Uno studio ha mostrato
un dato estremamente interessante: nei
pazienti affetti da depressione si osserva una
ridotta attivazione dell’amigdala (regione
cerebrale coinvolta nell’espressione delle
emozioni) durante il richiamo autobiografico
di esperienze passate positive. 22 In altri
termini, i pazienti depressi sono
particolarmente angosciati nel rievocare
eventi spiacevoli, mentre restano per lo più
indifferenti di fronte a ricordi positivi. Gli
autori dello studio hanno concluso come
questo particolare funzionamento
dell’amigdala rappresenti un fattore centrale
nel meccanismo eziologico cerebrale della
depressione.
La personalità depressiva
Il problema psicopatologico da sempre
dibattuto da clinici e ricercatori, nel momento
in cui si affronta la discussione sulla
personalità depressiva, è se le caratteristiche
di personalità possano costituire l’elemento
che favorisce l’instaurarsi della depressione,
cioè se il carattere sia l’elemento che
determina lo sviluppo della depressione o se
tra la depressione e il carattere non vi sia
alcun collegamento. «Temperamento»,
«carattere», «personalità» sono termini che,
nel linguaggio comune, vengono usati spesso
in modo equivalente per descrivere sia
l’insieme e l’integrazione di quegli aspetti
psicologici, percettivi, affettivi, emotivi,
umorali che contraddistinguono il nostro
particolare modo di essere, le cosiddette
«caratteristiche personologiche», sia le
modalità comportamentali messe in atto in
risposta agli eventi della vita. Tecnicamente,
però, i tre vocaboli hanno significati diversi.
«Temperamento» è stato il primo termine a
essere impiegato per indicare l’indole di una
persona, basandosi su una teoria somatico-
costituzionalistica. L’origine latina del
vocabolo rimanda al significato di «umore»:
come abbiamo visto nel capitolo I, l’idea
antica era che gli umori regolassero
fisiologicamente i tratti emotivi della
persona. Il termine «carattere» deriva del
greco e significa «incisione»; viene usato per
descrivere aspetti del comportamento
considerati stabili e tipici della persona. «Ha
un buon carattere… Ha un brutto carattere»
sono espressioni usate per sottolineare
caratteristiche psicologiche e relazionali che
abitualmente guidano le risposte
comportamentali e affettive agli stimoli
esterni.
La «personalità» rappresenta invece il
risultato delle interazioni tra disposizioni
innate, bisogni, impulsi, desideri e la capacità
di adattamento all’ambiente e alle situazioni
della vita. Secondo Umberto Galimberti, per
personalità va inteso quell’«insieme di
caratteristiche psichiche e modalità di
comportamento che, nella loro integrazione,
costituiscono il nucleo irriducibile di un
individuo che rimane tale nella molteplicità e
diversità delle situazioni ambientali in cui si
esprime e si trova a operare». 23 Lo sviluppo
della personalità adulta è il risultato
dell’interazione dinamica tra le
caratteristiche personologiche individuali e le
situazioni ambientali, come le esperienze
sociali, scolastiche, lavorative e relazionali,
che l’individuo affronta durante la vita.
Numerose ricerche hanno cercato di
spiegare il rapporto tra personalità,
vulnerabilità depressiva e depressione,
considerata come una «risposta abnorme» a
un determinato stimolo. È possibile stabilire
quattro tipi di collegamento tra personalità e
depressione: a) predisposizione, b) legame
subclinico-sottosoglia, c) deterioramento-
distorsione, d) legame patoplastico. La
personalità depressiva potrebbe
rappresentare un tratto premorboso lungo il
continuum dello spettro depressivo. Questo
tratto sarebbe un «elemento di
predisposizione» per lo scatenarsi della
depressione. Mentre la «forma depressiva
subclinica-sottosoglia» costituirebbe una
forma attenuata, per intensità e pervasività,
della depressione. Avere una personalità
depressiva rende la persona «cronicamente
giù», assonnata, triste, insicura, debole, pigra,
pessimista. L’insicurezza e la scarsa
autostima, aggravate dalla cronicità delle fasi
depressive, influenzerebbero negativamente,
attraverso una «distorsione cognitivo-
affettiva», la spinta vitale e, con il passare
degli anni, si ridurrebbero sempre di più
iniziative e vita di relazione. 24 Infine, per
«patoplastia» va intesa la modalità con cui la
personalità può incidere nell’espressione
soggettiva della forma depressiva.
L’abbinamento tra cultura, storia personale,
ambiente di vita e stile di personalità
individuale dà forma patoplastica ai
fenomeni del quadro depressivo.
Facendo riferimento al concetto di
temperamento, quello depressivo è il più
frequente nei pazienti con depressione.
Diversi sono, però, i tipi di temperamento
che si possono mettere in collegamento con
la depressione: temperamento «inibito» con
spiccata introversione e timidezza,
un’eccessiva sensibilità al rifiuto
interpersonale e una tendenza alle
manifestazioni somatiche che mascherano la
sintomatologia depressiva; temperamento
«irritabile», con estrema reattività agli stimoli
esterni, che causano esplosioni di rabbia,
aggressività, lamentosità, insofferenza e
atteggiamento ipercritico verso gli altri;
temperamento «ipertimico», che corrisponde
a un livello elevato di energia, vitalità,
volizione, tendenza a impegnarsi in attività
diverse; temperamento «ciclotimico», che
appartiene agli individui che cambiano
improvvisamente umore, oscillando in modo
imprevedibile tra stati di euforia e repentini
momenti di disperazione. 25 Ogni tipo di
temperamento determinerà difficoltà di
adattamento, con possibilità di grave
sofferenza personale e rischio di depressione.
Il temperamento condiziona in modo
determinante anche la risposta al trattamento
antidepressivo: si ritiene che le cosiddette
difficult-to-treat depressions, le depressioni
difficili da trattare, siano correlate al
temperamento ciclotimico. 26
Il DS M preferisce non far menzione dei
temperamenti, appoggiandosi
esclusivamente sul concetto di personalità.
Secondo la definizione del DS M , la
personalità corrisponde a «modalità durature
di percepire, rapportarsi e pensare a se stesso
o all’ambiente». 27 La personalità può essere
definita da quei tratti emotivi e
comportamentali che caratterizzano una
persona nella vita quotidiana, in condizioni
ordinarie. Quando è «sana» è relativamente
stabile e capace di flessibilità, per adattarsi
alle variazioni ambientali e sociali, e per avere
un buon funzionamento in famiglia e sul
lavoro. Si parla, invece, di «disturbo di
personalità» se l’insieme dei tratti emozionali
e comportamentali si allontana da quelli che
sono considerati i «limiti della normalità»,
cioè i comportamenti che si osservano nella
maggior parte delle persone; tali tratti,
quando diventano rigidi, maladattivi,
provocano sofferenza soggettiva e causano
alterazioni funzionali. Il DS M -5 definisce il
disturbo di personalità come un «pattern
costante di esperienza interiore e di
comportamento che devia marcatamente
rispetto alle aspettative della cultura
dell’individuo, è pervasivo e inflessibile,
esordisce nell’adolescenza o nella prima età
adulta, è stabile nel tempo e determina
disagio o menomazione». 28
Poiché l’approccio categoriale ai disturbi di
personalità ha mostrato diverse carenze, non
ultimo il fatto che una persona può
soddisfare i criteri per più di un disturbo di
personalità, nel D S M -5 è stato proposto un
modello alternativo. Le novità di questo
modello riguardano la valutazione della
compromissione del funzionamento di
personalità, la presenza di tratti di
personalità patologica come l’affettività
negativa e tutto lo spettro di sentimenti ed
emozioni negative, l’ansia, la depressività,
l’angoscia di separazione, la labilità emotiva e
l’ostilità.
Si è parlato di personalità depressiva anche
per indicare un disturbo, fortemente
correlato con la depressione, tipico degli
individui pessimisti, con poche speranze, che
trovano difficoltà a essere «felici», che hanno
scarsa autostima e sono piuttosto autocritici e
sprezzanti. Akiskal ha descritto sette gruppi
di tratti di personalità depressivi: 1) calmo,
introverso, passivo e non assertivo; 2)
malinconico, pessimista, serio e incapace di
divertirsi; 3) autocritico, autobiasimante e
autosprezzante; 4) scettico, critico degli altri e
poco simpatico agli altri; 5) coscienzioso,
responsabile, disciplinato; 6) meditabondo e
tormentato; 7) timoroso degli eventi negativi,
con sentimenti di inadeguatezza e di
insufficienza personale. 29
Tutti i disturbi di personalità sono
elementi di vulnerabilità per lo sviluppo della
depressione poiché possono influenzare in
maniera radicale le modalità individuali di
reazione, relazione, percezione e pensiero, in
modo così profondo da causare
disadattamento e psicopatologia. Ogni tipo di
personalità patologica provocherà la reazione
depressiva a seconda delle proprie
caratteristiche.
Per esempio, gli individui con disturbo
borderline di personalità sono
«esistenzialmente in crisi»; possono essere
polemici, si lamentano di essere «depressi»
per colpa del partner che li ha abbandonati o
per l’atteggiamento di opposizione
dell’ambiente familiare e lavorativo. La
tendenza prima a idealizzare e
successivamente a disprezzare il partner
viene ritenuta un meccanismo di difesa nei
confronti dell’angoscia di poter essere
rifiutati o abbandonati in qualsiasi momento.
Per evitare l’abbandono, possono ricorrere a
gesti eclatanti, come tentativi di suicidio,
nella speranza di essere salvati «dall’oggetto
di amore» da cui dipendono.
Chi soffre di un disturbo narcisistico di
personalità può andare incontro a penosi
sentimenti di umiliazione e di vergogna,
dovuti al riconoscimento dei propri limiti,
della propria imperfezione oppure al
mancato raggiungimento dei propri desideri.
Molte persone con questo disturbo di
personalità non invecchiano bene: costrette a
inseguire fantasie di eterna giovinezza,
cercano relazioni extraconiugali o ricorrono a
trattamenti estetici. Alla fine si ritrovano soli,
con la devastante sensazione di non essere
amati perché, come diceva Benjamin
Franklin, «chi ama se stesso non avrà rivali».
Gli individui con disturbo istrionico di
personalità attribuiscono grande valore alle
loro inclinazioni e capacità seduttive. Con il
passare degli anni, il naturale cambiamento
del «fascino» potrà predisporre alla
depressione, più frequentemente
«mascherata», in cui i sintomi fisici
sostituiscono quelli emotivi. Le
caratteristiche personologiche teatrali degli
istrionici si manterranno nell’espressione dei
fenomeni depressivi, drammatizzati per
attirare l’attenzione. Gli effetti di un farmaco
potranno essere misconosciuti tanto in senso
positivo, vantando una prematura efficacia,
quanto in senso negativo, esagerando nel
riportarne gli effetti collaterali.
I soggetti con disturbo ossessivo-
compulsivo sono persone dedite all’ordine, al
perfezionismo, al controllo ipercritico di sé e
degli altri. Soffrono per mancanza di
autostima e di fiducia in se stessi, e la ricerca
estenuante della perfezione mimetizza il
disperato tentativo di ottenere approvazione
dagli altri. La personalità ossessivo-
compulsiva è ad alto rischio di depressione,
soprattutto durante la mezza età, quando ci si
rende conto dell’impossibilità di raggiungere
i propri ideali.
La personalità dipendente è definita
astenica, inadeguata, autosvalutativa, passiva,
incapace di decidere in modo autonomo e
debole di volontà. I propri bisogni sono
subordinati al timore di essere abbandonati;
l’incertezza riguardo le proprie capacità può
portare, in mancanza di sostegno, allo
sviluppo di depressione che spesso si
complica con abuso di sostanze in grado di
attenuare l’ansia, come le benzodiazepine e
l’alcol.
La personalità evitante è tipica di chi prova
un timore esagerato di venir giudicato dagli
altri. Il nucleo psicopatologico risiede nella
timidezza e nella vergogna. La vergogna e la
paura di essere umiliati nelle situazioni
sociali porta a evitare i rapporti
interpersonali. L’isolamento, scatenato dal
convincimento di essere inferiori agli altri, ha
conseguenze devastanti sul piano sociale e
psicopatologico con quadri depressivi spesso
correlati con esperienze di rifiuto in età
infantile. La preoccupazione di svelare la
propria natura si ripercuote anche sul
trattamento psicoterapeutico, che risente del
timore che questi pazienti hanno di
esprimere bisogni eccessivi o inappropriati e
di soffrire per la mancanza di adeguate
risposte da parte del terapeuta.
Infine, le persone con disturbo paranoide
di personalità, «permalose e sospettose»,
fanno della diffidenza e del timore di essere
danneggiati la regola inconfutabile delle
relazioni interpersonali. Non amano essere
smentiti, in quanto ritengono che nulla
accada a caso e che tutti siano nemici. Si
offendono con facilità, sono rivendicativi e
ostili per paura verso il prossimo. Nel corso
della vita, potranno precipitare nella
depressione, che sarà sempre ritenuta colpa
degli altri, dei torti subiti, dell’invidia, della
cattiveria e della malafede altrui.
VI
Depressione e ciclo di vita
UN PERCORSO A TAPPE
A partire dagli anni Ottanta, la psicopatologia
dello sviluppo ha approfondito il tema del
ciclo di vita. La prospettiva della
multicausalità, e delle traiettorie (pathways)
attraverso le quali operano i meccanismi
responsabili dello sviluppo di quadri
psicopatologici, non può prescindere da un
approccio di studio in senso evolutivo,
dall’infanzia all’età adulta, centrato
sull’osservazione del corso «normale» dello
sviluppo psicologico e biologico
dell’individuo, confrontato con lo sviluppo
«patologico». La questione nasce dal rapporto
fra i disturbi dell’età adulta e quelli dell’età
infantile: da un lato se ne riconosce
l’unitarietà, dall’altro si discute sull’esistenza
di un rapporto di antecedenza dei disturbi
dell’età infantile rispetto a quelli dell’età
adulta.
Nel 2013 il DS M -5 ha abolito la distinzione
«classica» tra disturbi dell’infanzia e disturbi
dell’età adulta, introducendo la nuova sezione
dei «Disturbi del neurosviluppo» al posto di
quella dei «Disturbi solitamente diagnosticati
per la prima volta nell’infanzia, nella
fanciullezza o nell’adolescenza» e
impostando in senso evolutivo tutte le altre
categorie. Con l’introduzione di questa nuova
categorizzazione, il DS M ha posto l’accento
sul fatto che i vari disturbi vanno inquadrati
secondo un approccio prospettico lifetime.
Queste considerazioni sottolineano la
mancanza di una chiara distinzione tra i
disturbi dell’età infantile e quelli dell’età
adulta – con una possibile variabilità nell’età
di esordio dei vari disturbi – e la possibilità
che un disturbo già presente in età infantile
venga diagnosticato solo in età adulta. Infine,
viene avanzata l’ipotesi della «continuità»,
ossia della possibilità di applicare all’adulto
criteri diagnostici dell’età infantile o
adolescenziale e viceversa.
Il concetto di «continuità» tra le prime fasi
dello sviluppo, l’adolescenza e l’età adulta è
riferito sia allo sviluppo normale, quello in
cui non vi sono modificazioni rispetto ai
livelli standard di adattamento, sia a quello
patologico, la cosiddetta «continuità
psicopatologica», che indica il permanere
della malattia nel corso della vita. Il concetto
di «discontinuità» descrive il passaggio,
nell’arco della vita, da una condizione di
normalità a una condizione psicopatologica o,
al contrario, l’interruzione della malattia e il
recupero di uno stato di benessere.
Sin dal 1969, Bowlby ha parlato di sentieri
evolutivi alternativi, «linee di sviluppo»,
deviazioni dal percorso principale idealmente
considerato «sano». Il verificarsi di
condizioni ambientali favorevoli
consentirebbe di proseguire il proprio
cammino evolutivo all’interno di uno
sviluppo fisiologico; condizioni sfavorevoli
comporterebbero invece una deviazione dalla
«normalità» tanto più ampia quanto più
precoci sono gli eventi negativi. Fino alla
metà degli anni Settanta, esistevano poche
evidenze sia sugli outcome in età adulta dei
disturbi mentali del bambino, sia sugli
antecedenti infantili dei disturbi mentali
dell’adulto.
Lo studio dei collegamenti tra disturbi
dell’età infantile e dell’età adulta permette di
individuare diversi tipi di continuità di una
traiettoria psicopatologica. Un primo tipo è la
«continuità longitudinale», riferita al
mantenersi di un disturbo, nella stessa
persona, dall’infanzia all’età adulta; un
secondo tipo è la «continuità
transgenerazionale», riferita alle possibili
modalità di trasmissione ai figli del disturbo
psicopatologico dei genitori (vedi paragrafo
«La trasmissione transgenerazionale della
depressione»).
All’interno della continuità longitudinale,
è possibile distinguere una forma
«omotipica», caratterizzata dalla stabilità nel
tempo di uno stesso quadro psicopatologico,
per esempio la depressione in età giovanile e
in età adulta, e una forma «eterotipica»,
caratterizzata dalla modificazione del
disturbo nella transizione dall’infanzia all’età
adulta. L’importanza di questo concetto
consiste nel porre grande attenzione alla
depressione in età giovanile come segnale di
una possibile manifestazione di disturbi
diversi in età adulta.
Nel 1984 lo studioso italo-americano Dante
Cicchetti ha definito quale obiettivo
principale della Developmental
Psychopathology (psicopatologia dello
sviluppo) il riconoscere le deviazioni delle
traiettorie evolutive fisiologiche per poterne
prevedere le conseguenze psicopatologiche. 2
In altri termini, riuscire a valutare quali siano
le manifestazioni dei disturbi precoci del
comportamento correlabili a una evoluzione
di tipo depressivo nell’età adulta.
I fattori di rischio
In età evolutiva i disturbi depressivi possono
avere caratteristiche diverse e presentare
differenti livelli di gravità, in quanto sono il
risultato di diversi elementi che interagiscono
tra di loro: la fase di sviluppo del bambino, le
sue caratteristiche temperamentali, le
dinamiche familiari e le condizioni
ambientali in cui il disturbo si sviluppa. Il
costituirsi di uno stato depressivo
clinicamente rilevante riflette la presenza di
numerosi fattori di rischio collegati alla
famiglia e all’ambiente circostante. In sintesi,
studiosi e ricercatori ritengono che la
psicopatologia dell’età evolutiva non possa
mai essere valutata al di fuori del contesto
socio-ambientale in cui si manifesta.
I fattori di rischio vengono suddivisi in tre
tipologie: fattori di ordine biologico,
psicologico e ambientale. Tra i fattori
biologici ricordiamo una storia familiare di
depressione, i cambiamenti ormonali durante
la pubertà, gravidanze precoci, la presenza di
malattie organiche debilitanti come asma e
diabete mellito o di disturbi del sonno. I
fattori psicologici comprendono forte
dipendenza emotiva, bassa autostima,
immagine corporea negativa, presenza di
negative affect, basso rendimento scolastico,
idee di suicidio, uso di sostanze. I fattori
ambientali, infine, sono costituiti da
mancanza di un gruppo sociale di riferimento
adeguato, presenza di una forte conflittualità
familiare, povertà di rapporti familiari
significativi, presenza di eventi traumatici
quali incidenti, abusi fisici e sessuali. In
particolare, è importante sottolineare
all’interno dei fattori di rischio socio-
ambientale i conflitti della genitorialità, in
quanto producono disturbi significativi
dell’attaccamento madre-bambino e
costituiscono un elemento determinante
nella patogenesi delle forme di depressione
cronica in età evolutiva. In questo caso,
l’autostima del bambino viene minata da
identificazioni proiettive «deformanti» che la
madre effettua sul bambino «difficile». Gli
studiosi ritengono che il bambino diventi
difficile – difficile da calmare, da consolare,
da comprendere – perché si esprime in modo
confuso, in quanto assorbe dentro di sé le
immagini negative e cariche di aggressività
trasmesse dai genitori: il risultato è che ha
un’idea squalificata di se stesso e sente una
bassa stima di sé. In queste circostanze, la
persona di riferimento, generalmente la
madre, non riconoscendo la natura aggressiva
e colpevolizzante delle proprie proiezioni, si
identifica con l’immagine di una madre
vittima o indegna, aggredita dal suo
bambino.
Per altri contesti familiari, il nucleo
principale della depressione infantile si può
ricollegare a uno stile di comportamento
appreso. Il bambino risente di un rapporto
affettivo genitoriale in cui prevalgono
sentimenti depressivi o interpretazioni
depressive della realtà. Il bambino depresso
vive sotto il segno dell’inadeguatezza e
finisce con il coartare i propri sentimenti,
scegliendo una posizione depressiva. Sembra
un bambino spento, che non si arrabbia mai,
che evita ogni possibile conflitto emotivo, un
bambino che cerca di devitalizzare le proprie
emozioni.
Tra i principali fattori di rischio ambientale
vi sono poi le esperienze di natura traumatica
(vedi anche capitolo II), a cui molto
frequentemente si trovano esposti bambini di
ogni fascia di età, spesso senza che l’adulto se
ne renda conto. Tutti gli studiosi sono
concordi nel sostenere che le esperienze
traumatiche hanno un impatto fortemente
negativo sul benessere fisico ed emotivo del
bambino e condizionano, oltre al
comportamento, anche lo sviluppo cognitivo.
La vulnerabilità al trauma è diversa da
soggetto a soggetto: naturalmente dipende
dall’età e dalla storia personale, ma quanto
più il bambino è piccolo, tanto maggiore è il
rischio che possa essere sopraffatto da eventi
che sull’adulto, o su ragazzi più grandi,
potrebbero non avere effetto. L’intensità del
trauma è definita, quindi, non soltanto
dall’evento in sé, ma anche dalle
caratteristiche bio-psicologiche del bambino
e dal suo contesto di vita. La risposta
all’evento traumatico sarà diversa a seconda
delle caratteristiche dell’evento stesso,
dell’intensità e del tempo di esposizione al
trauma, e anche dell’età del bambino, della
sua malleabilità e resilienza e delle risposte
ambientali, protettive o non, che possono
attivarsi.
In sintesi, nel bambino piccolissimo, cioè
entro l’anno di vita, poiché le capacità
motorie e verbali sono ancora molto limitate,
si può osservare una risposta al trauma che si
manifesta come chiusura e isolamento, una
sorta di torpore psico-fisico attuato come
difesa di fronte a un disagio non più
tollerabile, una versione primitiva della
dissociazione. In età prescolare, la risposta a
uno stress eccessivo può presentarsi sia
attraverso un comportamento iperattivo e
irritabile con pianti esasperati poco motivati
sia, all’opposto, attraverso un comportamento
di estrema chiusura, con rifiuto del gioco e
delle persone care o, ancora, attraverso
comportamenti regressivi o la presenza di
incubi notturni. Segni di evidente malessere,
che si palesano soprattutto quando accade
qualcosa che richiama alla memoria del
bambino l’esperienza traumatica.
Le manifestazioni depressive
nell’infanzia
Gli stati depressivi della prima infanzia
hanno caratteristiche cliniche molte diverse
da quelle delle forme di depressione che si
sviluppano nelle età successive. Soltanto
nella depressione dell’adolescente si
ritrovano alcune caratteristiche della
depressione dell’adulto, come la tristezza e
alcune forme di dolore mentale.
Il decorso della depressione in età
evolutiva può avere diverse evoluzioni.
Ovviamente se vi saranno fattori favorevoli e
positivi per la crescita i sintomi depressivi
potranno regredire ed essere riassorbiti
all’interno di uno sviluppo regolare. Al
contrario, il prevalere di esperienze negative
potrà creare sia una cronicità del disturbo, sia
una vulnerabilità alla depressione che si
presenterà nuovamente nel corso della vita in
risposta a situazioni esistenziali sfavorevoli.
NEL BAMBINO PICCOLO
Le manifestazioni cliniche della depressione
si manifestano in modo diverso nel bambino
piccolo, al di sotto dei 2 anni e mezzo di età, e
nel bambino tra i 2 anni e mezzo e i 6. In
entrambi i casi, la sintomatologia risente in
modo importante delle pressioni conflittuali
esercitate dagli avvenimenti dell’ambiente,
soprattutto dalle situazioni che protraggono i
vissuti di privazione, di perdita e di
separazione e dai conflitti della genitorialità,
che disturbano la conservazione di un senso
di sicurezza e di autostima nel bambino. 6
Possiamo riconoscere l’esistenza di due
forme depressive nei bambini piccoli. La
forma acuta compare nei primissimi mesi di
vita, quando il bambino subisce una
separazione precoce e repentina dalle figure
parentali di attaccamento. Il neonato cade in
una condizione depressiva gravissima,
descritta da René Spitz nel 1946 e chiamata
«depressione anaclitica», che comporta la
perdita progressiva di tutte le funzioni
vitali. 7 La sindrome si manifesta,
inizialmente, con pianti inconsolabili
accompagnati da disturbi dell’appetito e del
sonno, e progressivamente si aggrava
seguendo tre fasi principali (protesta per la
perdita, disperazione, apatia e isolamento)
fino a raggiungere una regressione
irreversibile dello sviluppo. Questa forma,
ormai rara e presente quasi solo nelle
situazioni di grave degrado socioeconomico,
può recedere soltanto nelle prime due fasi, se
si ricostituiscono condizioni ambientali
adeguate o se sopraggiungono nuove figure
di attaccamento, in grado di supplire in modo
efficace ai bisogni affettivi del bambino.
Tra i 2 e i 6 anni di età può verificarsi una
forma cronica di depressione denominata
anche «fredda» o «vuota» (Léon Kreisler) 8
per le sue particolari caratteristiche
sintomatologiche. La manifestazione clinica
principale è un comportamento di inibizione
con riduzione delle attività esplorative,
povertà e ritardo nello sviluppo del
linguaggio, riduzione degli scambi
comunicativi con la madre e con tutte le
principali figure di attaccamento. Il bambino
appare apatico, serioso, scarsamente
empatico, con distacco affettivo, fino a
manifestare un ritiro relazionale. Si
accompagnano a questa forma di depressione
infantile anche sintomi di tipo somatico quali
perdita di appetito, difficoltà di
alimentazione, disturbi del sonno, infezioni
frequenti alle vie respiratorie.
Altre volte la sintomatologia depressiva è
espressa da modificazioni del
comportamento, che diviene iperattivo,
oppositivo, fortemente instabile con
manifestazioni poco comprensibili come crisi
di rabbia e pianti irrefrenabili. Questo
disturbo cronico dell’umore si ricollega a un
disturbo dell’attaccamento. Nelle sue forme
più lievi, la depressione fredda può provocare
disturbi dell’attaccamento per cui il bambino
viene descritto dai genitori o come «capace di
andarsene con il primo venuto», o come
incapace di separarsi dalle figure genitoriali.
Mancano in queste forme depressive il
vissuto di colpa e la perdita della stima di sé.
DOPO I 6 ANNI
Le caratteristiche della depressione infantile
iniziano a strutturarsi intorno ai 6 anni di età
quando il bambino ha internalizzato i sistemi
di valori genitoriali e ha raggiunto una
primaria conoscenza di sé e del mondo
circostante. A questa età il bambino possiede
un sistema di convinzioni e di aspettative
verso se stesso e il mondo esterno che lo
induce a colpevolizzarsi quando le sue
aspettative non vengono soddisfatte. Le
reazioni alla perdita e alla frustrazione sono
molto intense e i sentimenti di inadeguatezza
più vividi. Accanto a modificazioni stabili
dell’umore, vi sono sentimenti di tristezza e
di insoddisfazione che non vengono
facilmente mitigati da fattori esterni o da
rassicurazioni dell’adulto. Il comportamento
è molto variabile e oscilla tra atteggiamenti di
inibizione e di chiusura e comportamenti di
marcata instabilità, profonda irritabilità e
aggressività verso gli adulti e i coetanei. Vi
può anche essere riduzione della curiosità e
dei comportamenti esplorativi, mancanza di
piacere per ogni forma di gioco, richiesta
continua della presenza di una figura di
riferimento in tutte le situazioni
extrafamiliari come la scuola, le feste dei
coetanei, lo sport. L’allontanamento
dell’adulto provoca reazioni incontrollabili di
ansia. A volte questi bambini dimostrano un
interesse precoce per i temi inerenti la morte
e una particolare sensibilità rispetto a
fantasie di scomparsa delle figure di
attaccamento. La principale difesa consiste
nella diffidenza e nella chiusura di fronte alle
nuove relazioni e alle nuove esperienze, a cui
cercano di sottrarsi inibendo ogni forma di
curiosità.
«Vorrei avere indietro i miei giocattoli»
«Vorrei avere indietro i miei giocattoli» dice Luigi
alla madre, dopo aver offerto spontaneamente
agli amici i nuovi giocattoli che il padre gli ha
portato la sera prima. Luigi frequenta la seconda
elementare; a scuola, viene considerato «timido»:
la maestra dice che «si fa mettere sotto e togliere
tutto» dai compagni. A essere preoccupata per
Luigi è soltanto la madre, la quale ha notato nel
bambino reazioni di forte irritazione; per esempio,
se mentre gioca da solo con le costruzioni non
riesce a trovare il pezzo giusto, «butta tutto
all’aria… si mette a urlare ed è impossibile
calmarlo». La madre riconosce che in quei
momenti lei stessa diventa ansiosa; mentre il
padre replica con sarcasmo: «Tu strilli insieme a
lui… Con me invece si calma»; e aggiunge,
banalizzando le preoccupazioni della madre:
«Tutti i bambini fanno scherzi e li subiscono,
allora quando farà il militare…», alludendo al
fatto che il figlio deve maturare. Luigi ha una
sorellina di circa un anno e, sebbene le sia molto
affezionato, quando la madre è presente la
maltratta e si lamenta ripetutamente di essere
trascurato. La notte fatica a addormentarsi e
resta a lungo sveglio «a fantasticare», ma
ultimamente la madre ha dovuto togliere dalla
stanza tutti i giocattoli, «perché la notte gli
sembravano dei mostri che venivano a
spaventarlo». Da alcuni mesi, Luigi fa molte
domande sull’universo e sulla vita, e manifesta
una grande preoccupazione per i genitori: «Ha
paura che si possa morire». Il suo gioco preferito è
mascherarsi: «Prende foulard, cappelli, sciarpe e
inventa dei personaggi». Talvolta gioca da solo e
non vuole essere visto; altre volte coinvolge
madre e sorella, le traveste e immagina di dover
fare insieme a loro un lungo percorso, pieno di
difficoltà e pericoli da superare (draghi,
trabocchetti, muri altissimi) allo scopo di
raggiungere «il tesoro». Ma il gioco non finisce
mai, e al tesoro non si arriva mai. Il padre
commenta, in aperto disaccordo con la moglie, che
«il gioco è solo una scusa per non studiare». La
madre a sua volta accusa il marito di essere
disattento nei confronti dei figli, concentrato solo
sul lavoro che lo tiene lontano da casa. Luigi
domanda spesso il motivo delle loro discussioni.
Nel mondo di Luigi emergono due dimensioni
di pensiero parallele. Una è reale, piena di paure,
preoccupazioni, lamentele: paura di non essere
visto (dal padre), paura di non essere amato
(dalla madre e dalla sorella), paura di non
soddisfare mai l’altro (gli amici), paura di
perdere tutto (angoscia di morte). L’altra è una
dimensione immaginaria, carica di emozioni e
aspettative, in cui Luigi si rifugia, portando con
sé anche gli affetti più cari, la madre e la sorella,
alla ricerca del «tesoro». Purtroppo la strada è
lunga, piena di pericoli e di prove da superare e
non si raggiunge mai la fine. In altre parole,
Luigi non raggiunge mai la soddisfazione, la
rassicurazione di cui avrebbe bisogno, spera che al
di là delle difficoltà che deve affrontare con la
crescita alla fine possa essere ricompensato, e
trovare il «tesoro»; ma il percorso è difficile e
forse deludente, «… manca sempre un pezzo», e
tutto, con rabbia, «finisce di nuovo in pezzi». La
speranza che gli amici siano più buoni, soddisfatti
dai suoi giochi, ricorda la mitologia del sacrificio
agli dei, che devono essere costantemente
gratificati per ottenere la loro benevolenza.
«Non so scrivere»
Mattia ha 6 anni e frequenta la prima
elementare. Trascorsi i primi giorni di scuola,
mostra subito delle difficoltà: tiene la matita
stretta nella mano chiusa a pugno e la fa scorrere
con fatica sul foglio; il tratto è grossolano e
pesante; a volte accade che involontariamente
buchi il foglio. Le prime lettere che cerca di
tratteggiare sono deformi, troppo grandi, poco
intellegibili. Mattia si confronta con i compagni e
si rende conto che scrivere, nonostante il suo
impegno, è davvero molto faticoso e senza alcuna
soddisfazione; l’insegnante lo riprende in
continuazione e guarda sempre con
disapprovazione il suo quaderno.
Mattia non riesce a coordinare correttamente e
velocemente i movimenti delle mani
(«disprassia»), perciò per lui scrivere è
un’attività motoria molto complessa che richiede
tempo ed esercizio, e quasi mai porta a dei
risultati soddisfacenti («disgrafia»). Tutte queste
difficoltà, con la delusione che ne consegue,
producono nel bambino un sentimento di
frustrazione e di inadeguatezza che non trovano
comprensione nell’insegnante che, invece,
persevera in un atteggiamento di disapprovazione
e rimprovero. Il comportamento di Mattia
gradualmente si modifica: il bambino diventa
svogliato, disattento, irrequieto, litigioso con i
compagni, facilmente frustrabile, e sviluppa
comportamenti aggressivi (picchia i coetanei,
butta le sue cose per terra) o di grande disagio
emotivo (scappa dalla classe, piange
ripetutamente, rifiuta di scrivere, chiede di
tornare a casa). Risulta evidente che Mattia
risponde con atteggiamenti di rabbia depressiva
alla delusione di non sapere scrivere e di avere
vicino adulti incapaci di capire il suo vero
problema: la difficoltà a coordinare i movimenti
necessari per farlo. Un insegnante avrà un’idea
semplice, ma molto efficace; superando la
«convenzione» di dover sempre usare una penna,
lo farà scrivere con un computer. Ciò renderà
Mattia un bambino allegro, liberato dal dolore
del fallimento.
Le manifestazioni depressive
nell’adolescenza
In adolescenza i molteplici cambiamenti
corporei, cognitivi, affettivi, relazionali che i
ragazzi devono affrontare segnano l’ingresso
in una fase di ulteriore maturazione, ma
anche l’inizio di un periodo di particolare
vulnerabilità. L’umore è variabile e può
essere l’indice tanto di un comportamento
normale, quanto «mascherare» uno stato
depressivo sottostante. In adolescenza, molti
atteggiamenti e tratti comportamentali che
potrebbero far pensare a uno stato
depressivo patologico possono essere parte di
un quadro emozionale di relativa normalità
del processo di crescita: «L’adolescente oscilla
costantemente tra una condizione che tende
alla depressione ma che non è patologica ed è
dotata anzi di valenze strutturanti, e il
pericolo rappresentato dalla caduta in un
vero e proprio stato depressivo» (Vaneck). 10
I sintomi più frequenti della depressione
adolescenziale sono molteplici e spesso si
presentano mescolati tra di loro. Tra essi
troviamo il rallentamento psicomotorio,
caratterizzato da un rallentamento della
motricità, dell’ideazione, dell’espressione
verbale e della percezione del tempo, i
disturbi fisici, come disturbi alimentari e
disturbi del sonno, gli stati emotivi di
tristezza, sentimenti di noia, perdita di
interesse, stanchezza fisica e senso di
affaticamento, senso di impotenza e di
inefficacia. Infine, possono insorgere
comportamenti auto ed eteroaggressivi, con
ideazioni e condotte suicidarie.
Il suicidio in adolescenza è un fenomeno
gravissimo e drammatico, non sempre
determinato dalla depressione ma legato a
una molteplicità di fattori. 11 I ragazzi
possono metterlo in atto come estremo
tentativo per fuggire da un dolore mentale
insopportabile, alimentato da sentimenti di
colpa o dall’incapacità dell’Io di raggiungere
mete ideali rispetto alle quali si sentono
inadeguati. Tra i diversi fattori implicati
bisogna considerare anche la forza dei
sentimenti di vergogna, «come ci si sente
fatti»; il sentirsi diversi fisicamente e
psicologicamente dagli altri compagni può
determinare il ritiro dai rapporti con i
coetanei, una solitudine così estrema da
diventare intollerabile. Altro elemento
considerato determinante negli accadimenti
suicidari sono le qualità relazionali familiari:
la difficoltà o la mancanza di dialogo tra
genitori e figli può sia aumentare la
negatività dei pensieri dei ragazzi sia non
costituire un elemento di difesa di fronte al
desiderio di fuga dalla vita.
Un fenomeno oggi particolarmente e
pericolosamente diffuso è quello del
bullismo, messo in atto non solo
direttamente nelle relazioni di gruppo, ma
anche attraverso i social network. 12 Il
cyberbullismo, in questi anni, è diventato una
delle forme più frequenti di bullismo. A
questo proposito, è importante osservare che
lo spazio virtuale della rete è un luogo in cui
ognuno può assumere personalità diverse
rispetto alla propria e, approfittando della
«copertura virtuale», mettere in atto forme di
aggressività che non si avrebbe il coraggio di
attuare nella realtà. 13 La depressione è una
conseguenza dell’essere vittima di bullismo,
del sentirsi «circondati» senza speranza e
pensare di non poter ricevere aiuto. A volte, si
preferisce allontanare i ragazzi dall’ambiente
in cui sono vittime di bullismo, ma questo
deve essere fatto con grande attenzione in
quanto, se non adeguatamente elaborata,
questa esperienza lascerà sentimenti di
frustrazione, di inadeguatezza e scarsa
autostima che, nel corso della vita, potranno
essere fonte di vulnerabilità alla depressione.
Differenze di genere
Negli ultimi anni la rivista «Time» ha
dedicato copertine suggestive e provocatorie
alla salute mentale delle donne. «Come i
primi nove mesi della tua vita condizionano il
resto della tua vita» è la frase stampata sopra
la fotografia del corpo di una donna incinta,
per sottolineare come la salute della madre in
gravidanza sia determinante per la crescita
del figlio. La domanda «Quanto sei
mamma?», accanto alla fotografia di una
donna che allatta un bambino di quasi 8 anni,
vuole rappresentare il pericolo di un
attaccamento morboso che, a sua volta, evoca
il fantasma di una madre depressa e il
presagio di un figlio problematico.
L’intenzione dell’articolo è stimolare ogni
mamma a chiedersi che tipo di relazione ha
con il proprio figlio: se è una mamma con un
attaccamento morboso, come suggerisce
l’immagine della copertina, o se è una
mamma che riesce a separarsi dal figlio.
Sappiamo che una madre depressa potrà
avere un attaccamento eccessivo al figlio, per
ricostituire un «tutto» che pensa di aver
perduto, o, viceversa, potrà essere una madre
distaccata, con scarsissima affettività, una
madre lontana dai bisogni del figlio e
incapace di occuparsi amorevolmente di lui.
Diversi personaggi dello spettacolo, come
per esempio Gwyneth Paltrow e Angelina
Jolie, hanno parlato pubblicamente della loro
depressione perinatale e hanno prestato la
loro immagine per campagne di
sensibilizzazione negli US A e in Europa.
Durante una puntata dello show di Oprah
Winfrey, Brooke Shields ha raccontato di aver
sofferto di una grave depressione post
partum che l’avrebbe condotta sull’orlo del
suicidio. Nel 2005 ha scritto il libro E poi
venne la pioggia, in cui ha descritto la sua
tragica battaglia contro la depressione,
raccogliendo il consenso di milioni di donne
e uomini. 1
Negli ultimi anni, la comunità scientifica si
è impegnata sempre di più per far conoscere i
rischi della depressione di genere. La Task
Force on Women’s Reproductive Mental
Health nell’ottobre 2015 ha pubblicato un
editoriale sull’«American Journal of
Psychiatry» in cui è stata ribadita l’estrema
importanza delle ricerche scientifiche sulla
depressione femminile che hanno
documentato l’effetto negativo delle
fluttuazioni degli ormoni riproduttivi, in
grado di causare depressioni premestruali,
perinatali e perimenopausali. La depressione
perinatale, che colpisce mediamente il 15%
delle gestanti, è considerata la complicanza
più comune della gravidanza. 2
Le donne sono diverse dagli uomini in
termini biologici, comportamentali, sociali,
affettivi e cognitivi. Queste «differenze di
genere» si evidenziano molto presto durante
lo sviluppo e sono «evolutive», cioè si
modificano con lo scorrere della vita, delle
esperienze personali e delle relazioni con gli
altri (intersoggettività). Tali differenze
interessano sia lo sviluppo fisiologico del
cervello sia le sue disfunzioni patologiche. Si
può dire che le differenze di genere
interessino le più importanti malattie
mediche, come quelle cardiovascolari,
metaboliche e tumorali, con una spiccata
predilezione per le malattie psichiatriche, in
particolare la depressione.
La depressione è donna?
Gli studi di Ronald Kessler hanno messo in
rilievo che le differenze di genere
nell’incidenza della depressione cominciano
durante l’adolescenza e terminano nella
quinta decade di vita: una finestra temporale
che abbraccia l’intero ciclo riproduttivo
femminile, dal menarca alla menopausa. 3 Il
tasso di depressione nelle donne dopo la
pubertà è il doppio di quello degli uomini. Il
Sequenced Treatment Alternatives to Relieve
Depression (S TAR*D ), uno dei più importanti
studi sull’efficacia dei trattamenti
antidepressivi, ha mostrato che i pazienti
depressi di età compresa tra i 25 e i 35 anni
erano per il 66% donne e per il 34% uomini.
Secondo un altro studio di popolazione, lo
Study of Women’s Health Across the Nation
(S WAN), questa enorme differenza si riduce
dopo la menopausa. Pubertà, gravidanza e
menopausa rappresentano fasi critiche di
vulnerabilità, caratterizzate da veri e propri
sconvolgimenti ormonali capaci di mettere a
repentaglio la salute mentale della donna.
Le complesse interazioni tra gli ormoni
riproduttivi e le cellule cerebrali
dell’ippocampo, della corteccia e delle aree
associative principali rendono conto della
diversa maturazione neuronale di uomini e
donne e della maggiore incidenza di
depressione in momenti salienti del ciclo
vitale femminile. L’epoca del menarca è ormai
quasi invariabilmente anticipata rispetto alla
transizione di ruolo femminile, al
superamento della fase infantile e soprattutto
alla maturità psichica. I cambiamenti
ormonali e gli eventi legati ai cicli
riproduttivi, come il ciclo mestruale, i
contraccettivi ormonali, la fecondazione
assistita, la gravidanza, l’aborto, il parto,
l’allattamento, la menopausa e la terapia
ormonale sostitutiva possono facilitare la
comparsa di depressione, qualora
interagiscano con fragilità personali, latenti o
manifeste, o con eventi di vita stressanti o
traumatici.
La depressione femminile si presenta con
caratteristiche cliniche peculiari: apatia,
irritabilità e ipersensibilità al giudizio degli
altri. L’area neurovegetativa è colpita in modo
tipico; viene riferito un cambiamento delle
abitudini alimentari con aumento
dell’appetito, la spinta a consumare cibi
«consolatori» e ricchi di calorie, come dolci e
carboidrati, fino a veri e propri disturbi del
comportamento alimentare. Il desiderio
sessuale è inibito; comunemente, si
registrano fastidi e dolori «somatici»,
stanchezza cronica e mancanza di
concentrazione. Uno dei dati più
preoccupanti riguarda il rischio di suicidio: è
stato ampiamente dimostrato che le donne
commettono più tentativi di suicidio rispetto
agli uomini. Anche il decorso è diverso: la
depressione dura di più e guarisce di meno.
Secondo l’«ipotesi riproduttiva» della
depressione femminile, deve essere
chiaramente riconoscibile un collegamento
tra l’inizio dei sintomi depressivi e le
fluttuazioni ormonali dei cicli riproduttivi.
Questa coincidenza temporale dovrebbe
ripetersi in modo tipico nel ciclo vitale. Le
donne che sperimentano cambiamenti
significativi dell’umore prima dei cicli
mestruali o quando assumono contraccettivi
ormonali dovranno preoccuparsi di una
possibile futura depressione legata alle
gravidanze e alla menopausa. Solo di recente
le depressioni del ciclo vitale femminile sono
entrate nelle classificazioni «ufficiali» dei
disturbi mentali. Storicamente, il primo
accenno compare nel DS M -II , in cui si descrive
la «psicosi da parto»; fino al DS M -IV si parlava
di depressione perinatale solo quando
l’esordio avveniva dopo il parto, escludendo
di fatto tutto il periodo della gravidanza. Il
DS M -5 estende invece la specifica di esordio
della depressione perinatale anche ai nove
mesi della gravidanza, sostituendo il termine
post partum con quello di peripartum. Inoltre,
il disturbo disforico premestruale viene
inserito tra i disturbi psichiatrici, lasciando
fuori dalla classificazione la depressione della
transizione menopausale.
Considerando quindi le fasi riproduttive e
le età di sviluppo, la depressione nel ciclo
vitale femminile può manifestarsi come:
disturbo disforico premestruale, depressione
perinatale, depressione della perimenopausa.
QUEI GIORNI…
Il «disturbo disforico premestruale» è
caratterizzato da una modificazione
patologica del tono dell’umore che colpisce
una donna su dieci e i cui sintomi si
manifestano a cavallo dei cicli mestruali.
Tipicamente l’umore è irritabile (vedi
capitolo I) più che depresso. Gli altri sintomi
possono essere fisici (cefalea, dolore),
cognitivi (disattenzione), affettivi (tristezza,
rabbia, ansia) e comportamentali
(aggressività, eccessiva sensibilità
interpersonale) e si manifestano ciclicamente
in corrispondenza con la fase luteale del ciclo
mestruale, prima della mestruazione vera e
propria, risolvendosi rapidamente in
corrispondenza con la fase follicolare, pochi
giorni dopo la mestruazione. Il disturbo
disforico premestruale spesso si associa a un
disturbo del comportamento alimentare, per
esempio la bulimia nervosa.
L’esordio può avvenire in qualsiasi
momento dopo il menarca e ricomparire in
menopausa con la terapia ormonale
sostitutiva. Il termine «sindrome
premestruale» viene invece usato quando i
sintomi sono più lievi e non compromettono
la vita e il benessere soggettivo. Circa il 70-
90% delle donne in età fertile ha una
sindrome premestruale, mentre solo il 20-
40% considera i sintomi così fastidiosi da
interferire con il funzionamento quotidiano.
IL NIDO VUOTO
Uno dei falsi miti sulla depressione è che le
donne in menopausa normalmente siano un
po’ depresse. La depressione in questa
delicata fase del ciclo vitale femminile non
dovrebbe mai essere vista come un fenomeno
normale, ma ricevere la giusta attenzione. La
depressione della transizione
perimenopausale si presenta in un arco
temporale che va tra i 45 e i 54 anni e che
comprende: il periodo della premenopausa,
con i primi cambiamenti ormonali e i sintomi
fisici che anticipano la menopausa; la
menopausa, che corrisponde al termine dei
cicli mestruali e della fertilità, e la post
menopausa, fino a un anno dalla fine dei cicli
mestruali. Durante la perimenopausa, che
può durare da pochi mesi a due o tre anni, la
prevalenza di depressione oscilla tra il 15 e il
24%, con un rischio aumentato sia di episodi
depressivi de novo sia di ricorrenze
depressive. Le donne sono più a rischio
quando hanno già sofferto di depressione,
oppure quando hanno avuto altri tipi di
depressioni femminili, come la disforia
premestruale e la depressione perinatale.
L’esordio dei sintomi, in genere, avviene nel
periodo di maggiore vulnerabilità, la
premenopausa, quando cominciano i
cambiamenti ormonali. Sintomi «minori»
come insonnia e vampate di calore sono
molto comuni e, se isolati, poco preoccupanti.
In alcune donne, i sintomi aumentano o
diventano più gravi, fino a una vera e propria
depressione. Oltre ai disturbi del sonno e ai
sintomi vasomotori, compaiono palpitazioni,
cefalea, infezioni o dolori vaginali,
stanchezza, labilità emotiva, ansia, irritabilità,
tristezza e ridotta capacità di concentrazione.
I cambiamenti ormonali, la riduzione degli
estrogeni e l’aumento del testosterone
causano le vampate di calore, la sudorazione
notturna e la secchezza vaginale, che possono
essere fonte di grande disagio psichico e
relazionale per la donna. In particolare, i
sintomi vasomotori notturni disturbano il
sonno, il calo del desiderio sessuale e la
dispareunia possono avere effetti negativi
sulla sessualità, influenzando l’intimità
coniugale.
La perimenopausa, come la pubertà e il
periparto, è una fase di cambiamenti cruciali
nella vita della donna, fisici, psichici ma
soprattutto sociali. In quest’età della vita
sono più frequenti le esperienze di perdita
come i lutti o l’indipendenza dei figli, e
spesso la donna conclude definitivamente
capitoli fondamentali della sua esistenza,
come la vita lavorativa.
Il campanello d’allarme può essere la
cosiddetta «sindrome del nido vuoto», uno
stato di disagio psichico che può colpire la
madre quando tutti i figli lasciano la casa
genitoriale, facendola sentire abbandonata e
inutile. Un aspetto importante e delicato si
evidenzia nella crisi dell’appeal femminile,
nel sentirsi meno attraente, meno donna
rispetto al passato, con un corpo modificato
dalla menopausa. Il confronto con le donne
più giovani può essere difficile, non
riuscendo più a identificarsi in determinati
attributi e stereotipi. Un altro rischio è legato
alla percezione della fine della capacità
riproduttiva che, specialmente quando non è
stato realizzato il desiderio di maternità, può
associarsi a diminuzione dell’autostima e a
una visione pessimistica del futuro. Alcuni
eventi di vita non sono legati alla menopausa
di per sé ma si manifestano con maggior
frequenza in questa età: l’invecchiamento dei
genitori, vedere persone care ammalarsi,
soffrire di disturbi fisici sono tutte situazioni
che possono agire da fattori scatenanti.
È interessante ricordare che la menopausa
non è un’esperienza vissuta allo stesso modo
da tutte le donne. L’ambiente sociale e il
contesto culturale hanno un ruolo
determinante nel modularne gli effetti. Nelle
tribù africane Bantu o nella casta induista
Rajput, le donne in menopausa godono di un
grande rispetto, ricoprono ruoli sociali più
elevati e raramente si ammalano di
depressione.
Nel mondo occidentale non è codificato
nessun modello sociale per affrontare questo
cambiamento e ciò rende ancor più difficile
per la donna adattarsi alla nuova condizione.
Alcune volte, un aumentato senso di
solitudine unito alla percezione di un grande
disagio psico-fisico può indurre l’insorgenza
della depressione, ma soprattutto può
portare a compiere scelte drastiche, come
quella di rivolgersi alla chirurgia estetica per
cercare di ritardare gli effetti del passare
degli anni.
Sono stati ipotizzati tre modelli causali per
spiegare l’insorgenza di depressione durante
la perimenopausa. Il primo è legato alla
riduzione degli estrogeni che, agendo a vari
livelli (sistema serotoninergico,
dopaminergico, endorfine), faciliterebbe la
comparsa della depressione. Anche nel
secondo modello, detto dell’«effetto
domino», si considera la diminuzione degli
estrogeni: questi, però, non agirebbero
direttamente sui sistemi neurobiologici, ma,
causando sintomi fisici insopportabili per la
donna (vampate, insonnia, difficoltà di
concentrazione), la farebbero sentire inerme,
precipitandola in una spirale depressiva. Le
teorie della vulnerabilità ormonale delle
donne alla depressione, anche se confermate
dalle evidenze scientifiche, non sembrano
tuttavia sufficienti a spiegare il fenomeno
della depressione perimenopausale. Pertanto,
il modello esplicativo più complesso, di tipo
bio-psico-sociale, sembra essere il più
attendibile. 8 Le influenze reciproche tra la
vulnerabilità ormonale, le risorse personali di
adattamento e il supporto sociale, la
percezione di benessere soggettivo e gli
stimoli o gli stressor ambientali agiscono in
sinergia a scapito della donna, spesso
catapultata in una realtà nuova, diversa e
inaspettata.
A livello terapeutico, questo tipo di
depressione è l’unica per la quale, sin dagli
anni Settanta, è stata documentata l’efficacia
della terapia ormonale a base di estrogeni o
di combinazioni estro-progestiniche. Tuttavia,
la complessità del vissuto della donna
durante la perimenopausa rende conto del
perché la terapia ormonale sembra essere
d’aiuto soltanto nei casi di sintomi depressivi
più lievi, risultando invece ben poco efficace
nei quadri clinici più severi o quando c’è una
storia di depressione di lunga data. In molti
casi è opportuno iniziare una terapia con
antidepressivi, eventualmente unita a un
percorso psicoterapeutico. I tipi di
psicoterapia più indicati sono la terapia
interpersonale, che focalizza l’attenzione sul
ruolo del contesto interpersonale nella
depressione, la terapia cognitivo-
comportamentale, mirata a individuare e
modificare i pensieri, le emozioni e i
comportamenti depressivi e infine, la terapia
psicodinamica, che permette di esplorare le
emozioni e i sentimenti vissuti in questa fase,
elaborando all’interno della storia personale
le criticità emotive attraversate. La
psicoterapia funziona in modo più graduale
rispetto ai farmaci antidepressivi, ma riesce a
inquadrare il vissuto depressivo della donna
nei suoi aspetti salienti, rispondendo in
modo più completo ai suoi bisogni di
guarigione.
Uomini e padri
L’idea che la gravidanza e il parto siano una
questione esclusivamente femminile ha fatto
sì che pochissime ricerche si siano occupate
della salute psichica paterna. Probabilmente
questo è avvenuto a causa dell’atteggiamento
culturale che da sempre vede nella donna
debolezze e carenze. I dati scientifici ci
dicono invece che più del 10% dei padri soffre
di depressione perinatale, un disturbo che
può presentarsi anche indipendentemente
dalla depressione materna. Il momento più
rischioso è tra il terzo e il sesto mese dopo il
parto, quando la madre torna al lavoro. 9 La
giovane età, la disoccupazione, i problemi
coniugali, sono tutti fattori di rischio
accertati. Un ulteriore elemento di
complessità è rappresentato dalla particolare
relazione padre-bambino, che nei primi mesi
dopo la nascita può essere più difficile e
meno intensa rispetto a quella madre-
bambino: un esempio classico è il bambino
che continua a piangere quando viene preso
in braccio dal padre, innescando sentimenti
di rabbia e rifiuto che predispongono alla
depressione paterna.
La depressione può avere un effetto
dannoso sul benessere soggettivo del padre,
sulla relazione di coppia e sullo sviluppo
psichico del bambino, con un aumento del
rischio di disturbi comportamentali (disturbo
oppositivo-aggressivo), affettivi (ansia e
depressione), cognitivi (disturbo da deficit di
attenzione e iperattività, ritardo
nell’apprendimento del linguaggio e nella
lettura). Il benessere psicologico dei padri è
determinante per la crescita emotiva dei figli
soprattutto se concomitante alla depressione
della madre. I motivi della depressione nei
padri sono diversi e riguardano la storia
personale e il cambiamento esistenziale
determinato dalla nascita del figlio. In ogni
caso si deve affrontare una modificazione
esistenziale, in cui si ha il passaggio da una
relazione duale alla presenza del figlio, che
modifica le geometrie della coppia o della
famiglia.
È necessario studiare di più il fenomeno
della depressione paterna, per poterla
prevenire a tutela della famiglia e della
crescita dei figli.
L’età di mezzo
Crisi di transizione o depressione? È una
domanda che, a partire dagli anni Ottanta, ci
si è posti sempre più spesso perché,
nonostante le condizioni di vita siano andate
nettamente migliorando, sempre più persone
ne soffrono e, tra queste, anche molti
personaggi di successo. Qualche anno fa la
giornalista Margaret Drabble ha scritto sul
quotidiano «The Guardian»: «La depressione
è la notizia di questi giorni. Amiamo leggere
e scrivere di depressione». 1 L’articolo traeva
spunto dalla confessione – outing, per usare
un termine di moda – di soffrirne, o di averne
sofferto, fatta da diverse personalità della
cultura britannica, tra cui Alastair Campbell,
Stephen Fry, Lewis Wolpert e la scrittrice
Marian Keyes. Quest’ultima aveva scritto sul
proprio sito di non riuscire più a mangiare, a
dormire, a scrivere, a leggere o a parlare con
le altre persone a causa del proprio stato
depressivo, suscitando molto scalpore e
un’ondata di commenti favorevoli: finalmente
si parlava pubblicamente, senza vergogna, di
questo disturbo. Il clamore suscitato aveva
indotto la Drabble a domandarsi se la
depressione fosse ancora un tabù, qualcosa di
non menzionabile o, invece, stesse
diventando un motivo di distinzione o
addirittura un fatto di moda. L’articolo ebbe il
merito di dare il via al dibattito sulla
«depressione di mezza età».
La depressione nell’età di mezzo ha
un’incidenza minore, anche se,
generalmente, è più grave. L’impatto sociale è
maggiore in termini relazionali (rischio di
essere lasciati dal partner) e lavorativi
(perdita del posto di lavoro). Importanti sono
anche le conseguenze sullo stile di vita e sulle
malattie mediche che possono comparire in
questa fascia d’età. I dati sul suicidio sono
particolarmente preoccupanti; in Gran
Bretagna, oltre un terzo dei morti per suicidio
nel 2013 era costituito da uomini di mezza
età.
Tornando alla domanda di partenza –
depressione o crisi di transizione –, proviamo
a dare una risposta con un esempio tratto dal
cinema: American Beauty, di Sam Mendes,
interpretato magistralmente da Kevin Spacey.
All’inizio, può sembrare la storia felice di una
tipica famiglia statunitense, ma basta poco
per capire che le cose non sono piacevoli e
armoniose come sembrano. Il film tratta,
portando provocatoriamente i toni
all’eccesso, della frustrazione di un
quarantaduenne che vede calare l’attrazione
sessuale per la moglie e comincia a guardare
con un interesse «diverso» le compagne di
scuola della figlia. Ma non è solo questo.
Kevin Spacey, frustrato pubblicitario, è
stanco, sull’orlo di un esaurimento. Stanco di
abitare nella tipica casa americana, stanco
della routine lavorativa, stanco della moglie
insoddisfatta e del rapporto di coppia: «Il
nostro matrimonio è solo una farsa, uno spot
su quanto siamo normali quando in realtà
siamo tutt’altro». Cerca allora di cambiare la
sua vita, abbandona il lavoro, compra l’auto
dei suoi sogni giovanili, fa palestra per
tornare a essere attraente, fuma marijuana
con il giovane figlio dei vicini di casa. «Mia
moglie e mia figlia mi vedono come un
colossale perdente… e hanno ragione! Ho
perso davvero qualcosa. Non sono del tutto
sicuro di cosa si tratta, ma… so che non mi
sono sempre sentito così “posato”. Però,
volete saperlo?!, non è mai troppo tardi per
tornare indietro.» Nell’istante in cui viene
colpito alla testa da un proiettile esploso dal
vicino di casa, paranoico e ossessionato da
timori omofobici, Kevin Spacey recupera
parte della propria esistenza e del senso della
vita, smarrito di fronte alle frustrazioni della
classe media e alle aspirazioni giovanilistiche,
arrivando a concludere che «è difficile restare
arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel
mondo».
Nel film, vincitore di 5 premi Oscar, si
possono individuare alcuni elementi che
rappresentano i tipici segnali di una crisi di
transizione dell’età di mezzo: il desiderio di
cambiare lavoro o dare una svolta alla propria
carriera; la tendenza a esplorare nuove
esperienze religiose o spirituali; il desiderio
di essere in forma fisicamente; la ricerca di
nuove forme di espressione creativa, come la
musica, la scrittura, l’arte; la frustrazione per
la propria vita relazionale vissuta come un
fallimento; l’acquisto di cose che possano
dare benessere (nuovi vestiti o una nuova
macchina). Questi elementi costituiscono
talvolta i segnali prodromici di un possibile
cambiamento dell’umore.
Una «crisi di transizione», se può essere un
segnale esistenziale da non trascurare, non va
confusa con lo sviluppo di una depressione
vera e propria. Com’è una depressione
nell’età di mezzo? Oltre alla tristezza, quali
sono gli altri elementi caratteristici?
Proviamo a elencarli: modificazioni radicali
nelle abitudini alimentari; sensazione di
essere sempre stanchi o esausti; difficoltà a
dormire; sentimenti di colpa o perdita di
fiducia nel futuro; irritabilità; voglia di
fuggire dalle proprie responsabilità; tendenze
compulsive all’alcol o alle sostanze; perdita
del desiderio e dell’ambizione.
I FATTORI DI RISCHIO
La depressione nell’età di mezzo è legata a
modificazioni nello stile di vita, per esempio
cambiamenti lavorativi, pensionamento,
trasformazioni dell’assetto familiare, e alla
presenza di comorbilità di carattere medico,
che entrano in una relazione bidirezionale
con lo sviluppo di sintomi depressivi: la
depressione influenza l’andamento di una
patologia medica e a sua volta questa
peggiora il quadro depressivo. Più avanti
spiegheremo come è possibile questo
interscambio.
Il genere, maschile o femminile, esercita
un ruolo chiave in quanto esistono fattori di
rischio di natura medica diversi nell’uomo
rispetto alla donna. Negli uomini di mezza
età i sintomi depressivi si associano al
sovrappeso, al diabete e all’insulino-
resistenza. Questi, a loro volta, rappresentano
dei fattori di rischio per lo sviluppo di
disturbi affettivi. La depressione influisce
sugli stili di vita, comportando ridotta attività
fisica, iperfagia, insonnia e incremento
dell’abitudine al fumo, con alterazioni di tipo
metabolico. Il diabete e l’insulino-resistenza
incrementano il rischio di depressione,
favorendo la formazione di lesioni
microvascolari di tipo aterosclerotico, con
rischio di danno cerebrale. Tali alterazioni
non solo predispongono alla depressione, ma
peggiorano l’outcome e la risposta ai
trattamenti farmacologici. È questo un
concetto importante, che spiega come mai
alcuni interventi farmacologici siano risultati
parziali.
Nella popolazione femminile, uno dei
fattori di maggiore impatto sullo sviluppo di
sintomi depressivi è legato alla menopausa,
di cui abbiamo parlato precedentemente.
La terza età
Non disponiamo di sufficienti dati biologici
e/o psicologici per definire un’età limite oltre
la quale è possibile parlare di terza età o età
anziana. Tuttavia, numerosi fattori di
carattere economico e sociale – basti pensare
al dibattito sull’età di pensionamento in Italia
– hanno esercitato forti pressioni sulla
comunità scientifica affinché si definisse una
«soglia» cronologica. L’Organizzazione
mondiale della sanità ha concettualizzato
l’«anzianità», in inglese elderliness, come il
momento in cui si verifica una riduzione
nella capacità di adeguarsi ai fattori
ambientali e ha posto la soglia cronologica
all’età di 65 anni. Questa definizione, fondata
sull’individuazione di una soglia temporale e
sulla valutazione di una capacità adattativa,
va tenuta in considerazione quando
investighiamo la presenza o meno di uno
stato depressivo nell’anziano e, in particolar
modo, quando dobbiamo distinguere tra una
fisiologica riduzione del funzionamento
psico-sociale, imputabile all’avanzare degli
anni, e lo sviluppo di una depressione
conclamata. La terza età è una fase della vita
nella quale dovremmo aspettarci, all’interno
di una traiettoria di sviluppo psicologico
ideale, un consolidamento dell’integrità del
sé, la comprensione di tutti gli aspetti della
vita, sia quelli positivi sia quelli negativi,
l’accettazione delle esperienze precedenti e la
fine delle paure per il futuro. L’avanzare degli
anni dovrebbe fornire maggiori strumenti, la
cosiddetta «saggezza», per fronteggiare le
difficoltà della vita.
Nel film Youth, Paolo Sorrentino propone
una riflessione sulla vecchiaia. I protagonisti
appartengono alla terza età e rielaborano le
proprie esperienze, criticando le scelte
razionali del passato. «Ho perso i migliori
anni della mia vita… Tu hai detto che le
emozioni sono sopravvalutate, ma è una vera
stupidaggine!» L’idea è che rinunciare a
provare emozioni, preferendo una vita «sotto
controllo», può dimostrarsi una scelta che
coarta la vitalità e la libertà. Forse, perciò,
meglio seguire le parole di una nota canzone:
«Voglio una vita come Steve McQueen…».
Oltre a difficoltà di carattere fisico, la terza
età si accompagna spesso a perdite, lutti o
separazioni, poiché capita facilmente di
vedere le persone care, i compagni di una
vita, ammalarsi e morire. I dati della
letteratura dicono che la depressione è uno
dei più comuni disturbi psichiatrici nella
popolazione over 65, con tassi pari al 3% circa
nel caso di disturbo depressivo conclamato e
10-15% nel caso di forme subcliniche. In
genere, si tratta di un disturbo ricorrente, che
si è già manifestato in età più precoce; in
alcuni casi esordisce per la prima volta in
questi anni.
I sistemi nosografici attuali non prevedono
criteri diagnostici specifici per la depressione
durante la terza età. Tuttavia, i dati di ricerca
e la pratica clinica mostrano che le
manifestazioni sintomatologiche osservabili
nelle persone depresse over 65 presentano
caratteristiche peculiari. Prevalgono i disturbi
medici, in particolare quelli cardiovascolari, e
i deficit cognitivi; spesso sono presenti
lamentele sulle proprie condizioni di salute e
un significativo rallentamento psicomotorio.
Gli anziani sembrano avere maggiore
difficoltà nell’esprimere i propri sentimenti, e
in particolar modo quelli depressivi. È molto
più facile che raccontino i sintomi vegetativi
(la stanchezza e il senso di fatica, la perdita
del riposo notturno, la riduzione
dell’appetito) e i sintomi somatici (la
costipazione e il dolore a livello muscolare,
osseo, gastrointestinale, ecc.). D’altro canto,
con il passare degli anni, la frequenza dei
disturbi medici aumenta e questo, spesso, si
intreccia con l’aspetto psicologico. La
percezione del dolore può essere fortemente
condizionata dal tono dell’umore, senza
contare che la depressione di per sé,
modificando gli stili di vita, può accentuare
quadri medici in comorbilità.
Uno dei sintomi più caratteristici di questa
forma depressiva riguarda l’aspetto cognitivo.
La riduzione dell’attenzione, della
concentrazione e della memoria a breve
termine sono sintomi facilmente riscontrabili
con l’avanzare dell’età, ma rappresentano un
elemento clinico di particolare gravità
durante gli episodi depressivi. A questo
proposito, è importantissimo riuscire a fare
una diagnosi differenziale tra un declino
cognitivo primario, per esempio forme
iniziali di demenza vascolare, e la presenza di
deficit cognitivi secondari a un calo
dell’umore, suscettibili di miglioramento
mediante un trattamento antidepressivo
(vedi «Demenza o depressione?»).
Abbiamo già detto che molti disturbi
medici aumentano in frequenza e in gravità
con il procedere degli anni; indubbiamente,
solitudine e necessità di aiuto rendono la vita
più problematica. Malattie cerebrovascolari,
tumori, morbo di Parkinson svolgono un
ruolo attivo nel determinare o facilitare
l’insorgenza di sintomi depressivi. Questi
disturbi esercitano un ruolo «diretto» sul
sistema nervoso centrale: per esempio, il
morbo di Parkinson e le malattie
cerebrovascolari possono produrre delle
modificazioni cerebrali capaci di indurre la
comparsa di quadri depressivi. Esistono
anche dei meccanismi indiretti attraverso i
quali alcuni disturbi medici determinano
sintomi di depressione: spesso la presenza di
patologie mediche croniche provoca
disabilità fisica e sociale, con conseguenti
ricadute sull’umore, oppure necessita di
trattamenti farmacologici con corticosteroidi
o anti-ipertensivi, che spesso provocano
effetti collaterali di tipo affettivo.
Un dato estremamente importante
riguarda la relazione tra depressione e
malattie cerebrovascolari. Queste ultime, che
possono essere conseguenza di fumo,
ipertensione e diabete, a livello cerebrale
producono alterazioni della plasticità
sinaptica, della capacità del cervello di
adattarsi e rispondere agli stimoli nocivi,
abbinate ad alterazioni microstrutturali. È
ormai ben nota la connessione tra alterazioni
delle fibre di sostanza bianca, le fibre
deputate alla connessione tra aree cerebrali
differenti, e l’incidenza di depressione con un
basso tasso di risposta a trattamenti
antidepressivi, elemento da valutare
attentamente prima di intraprendere una
terapia farmacologica.
DEMENZA O DEPRESSIONE?
L’incidenza di sintomi cognitivi nella
depressione dell’anziano è elevata. Spesso
sono presenti deficit di concentrazione,
svogliatezza e calo della memoria, e non sono
né direttamente correlabili a uno stato
depressivo né a una demenza vera e propria.
Recentemente è stata introdotta una nuova
entità diagnostica, il Mild Cognitive
Impairment (M CI ), caratterizzata da uno stato
di deterioramento cognitivo lieve. Affligge
soggetti che presentano un deficit cognitivo
maggiore rispetto a quello statisticamente
atteso in base all’età e al livello di istruzione,
ma che sono ancora in grado di svolgere le
proprie attività quotidiane. Questa
condizione presenta una oggettiva
menomazione della memoria, non ancora
riconducibile a una forma di demenza
conclamata. Il M CI è stato definito in molti
modi: «demenza incipiente», «deficit isolato
della memoria», «deficit della memoria
associato all’età», «deterioramento cognitivo
in assenza di demenza».
È interessante notare che nell’aprile 2016
sono usciti due studi, pubblicati
rispettivamente da «Lancet Psychiatry» e
«JAM A Psychiatry», sulla correlazione fra
depressione nella terza età e rischio di
demenza. Le due ricerche, una americana e
una europea, hanno studiato, in un campione
molto ampio, la probabilità che un disturbo
depressivo in età senile possa evolvere in una
forma di demenza. 2 Entrambi gli studi sono
arrivati alla conclusione che i pazienti con
sintomi depressivi più gravi hanno un rischio
maggiore di demenza rispetto a pazienti con
sintomi lievi o moderati. Quali sono i fattori
che determinano questo tipo di evoluzione in
caso di depressione grave o ingravescente? La
risposta va cercata probabilmente nella
neuroinfiammazione provocata dalla
depressione, che, a sua volta, è causa della
produzione di una serie di molecole ad
attività infiammatoria in grado di
danneggiare l’attività neuronale e quindi di
predisporre allo sviluppo di demenza. Questa
traiettoria depressione-neuroinfiammazione-
demenza può essere interrotta intervenendo
tempestivamente sulla sintomatologia
depressiva. È ben noto che i farmaci
antidepressivi sono in grado di regolare i
meccanismi neuroinfiammatori e di stimolare
la produzione di fattori neurotrofici per
preservare l’attività neuronale. Ne possiamo
trarre la conclusione che la depressione fa
male due volte: prima di tutto, come è
evidente, di per sé, poi «intossicando» il
nostro cervello. Bisogna quindi sempre
curarsi: rimandare il trattamento è una scelta
sbagliata.
LE LINEE GUIDA
Uno dei progressi della medicina attuale è
stato quello di selezionare i trattamenti
convalidati sulla base di chiare evidenze di
efficacia (medicina evidence-based).
Conseguenza di questa selezione è stata la
possibilità di formulare specifiche linee guida
per la cura di tutti i disturbi medici. Le linee
guida sono il frutto del lavoro congiunto, a
livello internazionale, di studiosi che dopo
accurate ricerche e verifiche propongono
trattamenti standardizzati. Ciò vale per tutti i
disturbi e tutte le discipline mediche, dalla
medicina generale alle specialità chirurgiche,
e quindi anche per la psichiatria. Fra le
principali linee guida in ambito psichiatrico,
ci sono quelle del britannico National
Institute of Clinical Excellence (NICE) e quelle
dell’American Psychiatric Association (APA). 2
Per le forme depressive, entrambe
consigliano un approccio integrato, una
combinazione di farmacoterapia e
psicoterapia. Un altro elemento in comune è
che gli S S RI sono i farmaci di prima scelta: il
tempo di osservazione per valutarne
l’efficacia è fra le 4 e le 6 settimane.
Successivamente sarà possibile aumentare il
dosaggio o sostituirli con un antidepressivo
di classe diversa (switching). In alternativa, le
linee guida prevedono la possibilità di
adottare una strategia di potenziamento,
come affiancare un altro antidepressivo a
quello già prescritto. La durata completa del
trattamento va dai 6 mesi ai 2 anni.
Trattamenti di breve durata, anche se
temporaneamente efficaci, non proteggono
dalle ricadute.
Le linee guida NICE e APA sottolineano
l’importanza di discutere con il paziente
alcuni dei passaggi fondamentali del
programma terapeutico; in particolare, è bene
chiarire perché si sceglie un determinato
farmaco in relazione alla sintomatologia e al
quadro clinico, gli effetti terapeutici attesi, gli
eventuali effetti collaterali e da sospensione, i
motivi per cui può rendersi necessario un
incremento della dose o il passaggio a
un’altra molecola, i rischi legati a un
sottodosaggio e a una brusca sospensione
della terapia.
Novità terapeutiche
Fra le domande più frequenti sui trattamenti,
due sono particolarmente significative. La
prima riguarda la possibilità di prevedere la
risposta al trattamento. La seconda, se oltre
alle terapie farmacologiche e psicologiche vi
sono altre terapie possibili.
Prevenire il suicidio
Esiste un momento delicato e particolare nel
colloquio con la persona depressa quando il
medico chiede: «Pensa al suicidio? Ha mai
pensato di farlo? Come?». Dalla risposta che
segue, dipendono diverse decisioni e scelte
terapeutiche. Prima di tutto, bisogna capire la
concretezza dei pensieri suicidari, il loro
grado di determinazione, e distinguere tra un
pensiero che rimarrà solo un’intenzione e
uno che si sta per realizzare. Nella
depressione, il confine tra idee di morte
(«Vorrei addormentarmi e non svegliarmi mai
più») e pensieri reali di suicidio è molto
labile.
Il suicidio è un accadimento
multifattoriale e imprevedibile; diversi sono
gli elementi in gioco che determinano il suo
realizzarsi: il sentirsi soli, senza speranze e
alternative, pensare così di risolvere tutti i
problemi e di reagire a eventi frustranti o
percepiti come tali, essere spinti da una
rabbia interna, non sentirsi né capiti né
ascoltati, non riuscire più a sfruttare le
risorse psichiche personali per resistere a un
dolore vitale insopportabile e alla «tentazione
di farla finita». «È come se, appena cercavi di
andare avanti con la tua vita, il dolore della
depressione clinica fosse tornato di nuovo. È
come se la depressione clinica fosse la canna
della pistola che ti spingeva» ha scritto il
romanziere David Foster Wallace, morto
suicida. 8
Il suicidio è visto dalla persona che ha
pensato e sta pensando di suicidarsi come
una soluzione completa e definitiva, una
liberazione da un mondo doloroso e
insopportabile. La vita è diventata inutile, la
morte è l’unica via di uscita, «tutto qui». È
quello che afferma lo scrittore giapponese
Yukio Mishima: «“Nell’istante della mia
morte, tutto scomparirà” si era detto Honda.
Quel pensiero alimentò in lui una sorta di
appagamento, simile a quello di una vendetta
consumata. Smantellare il mondo alle radici,
affondarlo nel nulla, non avrebbe comportato
alcuna difficoltà. Gli bastava morire, tutto
qui». 9
L’Organizzazione mondiale della sanità,
nel 2013 ha descritto il suicidio come una
strage, con almeno 800.000 morti all’anno.
Ogni tre secondi, qualcuno tenta il suicidio e
ogni quaranta secondi qualcuno muore
suicida. Sempre l’OM S , nel piano d’azione
«Salute 2020», ha individuato alcuni
«traguardi fondamentali» da raggiungere
entro il 2020: tra gli obiettivi prioritari c’è
quello di ridurre il tasso di suicidio del 10%.
Questo programma non nasce soltanto dalla
grave realtà dei dati epidemiologici sul
suicidio, ma anche dalla crescente necessità
di doverne ridurre l’incidenza nel mondo. 10
Il suicidio è sempre stato un argomento
tabù, di cui non parlare apertamente; il
depresso lo ritiene un segreto da nascondere
a tutti, si vergogna e ha paura di un desiderio
che è contro la vita. Non a caso, alcune volte,
decide di compierlo nel momento in cui si
sente meglio, quando nessuno si aspetta più
che lo faccia. I familiari, spesso già provati
dall’esperienza faticosa della depressione,
percepiscono la possibilità del suicidio come
un ulteriore problema che aggrava la già
dolorosa assistenza a una persona depressa.
Allo stesso medico, a volte può sfuggire la
dimensione del rischio, sia perché il depresso
nasconde la sua idea, sia perché è
estremamente complicato attuare strategie di
difesa dall’evento, che sconvolgono il
funzionamento della vita quotidiana
personale e di tutta la famiglia e richiedono
validi motivi per essere applicate.
Ribadiamo che bisogna parlare del suicidio
in modo chiaro e aperto, non averne paura; il
suicidio è un fenomeno che fa parte della
malattia depressiva, e non solo, e per
affrontarlo bisogna che siano coinvolti tutti i
livelli: individuale, familiare e medico.
Prevenire e proteggere dal suicidio significa
individuare i fattori di vulnerabilità
personale, ma anche considerare quanto la
rete familiare ristretta e allargata sia in grado
di collaborare e sostenere il familiare
depresso.
Tutto questo confluisce in due scelte
principali. La prima si chiama «rischio
accettabile e condiviso»: decidere, quando è
possibile, di non limitare la libertà della
persona sottoponendola a una condizione di
controllo (guardata a vista o ricoverata in un
ambiente protetto), dove potrebbe sentirsi
«in trappola» e senza speranze. L’obiettivo è
far capire al depresso che le idee di suicidio
fanno parte dei sintomi depressivi ma non
sono sentimenti genuini che gli
appartengono. Bisogna «tenerlo attaccato alla
vita» e la famiglia deve essere coinvolta per
proteggerlo da se stesso, senza farlo sentire
isolato e colpevole. La seconda opzione, in
base alla gravità e alla pericolosità delle idee,
è far scattare invece un sistema di controllo,
anche obbligato, che impedisca la messa in
atto del comportamento autolesivo.
I cardini su cui poggiano queste decisioni
sono la saldezza della relazione medico-
paziente, le caratteristiche e le risorse
personali del depresso, la collaborazione e il
sostegno della famiglia. Ferma restando
l’estrema difficoltà di scegliere il percorso
terapeutico più adatto nel momento in cui è a
rischio la vita di una persona, è fondamentale
che le decisioni avvengano in un clima di
fiducia reciproca tra tutti coloro che sono
coinvolti. La responsabilità delle scelte deve
essere perciò condivisa da paziente, famiglia
e medico.
In particolare, un’alleanza terapeutica
solida, sia con il paziente sia con i familiari,
serve a comprendere i diversi elementi che
possono spingere la persona a tentare il
suicidio, ma anche a proporre stimoli vitali in
grado di far emergere alternative possibili
alle idee suicidarie e rappresenta la base per
ridurre al minimo le possibilità che l’evento
accada. Aver già tentato in precedenza il
suicidio è un rischio ulteriore, e anche questo
andrà affrontato con chiarezza e non
nascosto.
Prevenire significa soprattutto parlare,
trasmettere empatia, non giudicare, non
negare, non nascondere. Le linee guida delle
società scientifiche che si occupano di
suicidio sottolineano di porre estrema
attenzione all’intenzionalità suicidaria,
esplorando apertamente, anche con domande
esplicite, il perché si vuole farlo, il come e il
quando. La comprensione e la prevenzione
del suicidio partono dall’analisi della
sofferenza individuale, dalla tollerabilità e
dal significato del dolore mentale, e dalle
circostanze alle quali è legato.
La scienza che studia il suicidio, la
suicidologia, ha definito questo dolore
psichico intollerabile psychache o «stato
perturbato della psiche», la cui risoluzione
non può essere che drammatica. Lo psychache
è un livello di sofferenza individuale non
riconducibile a un preciso disturbo mentale.
È un misto di emozioni, affettività negativa
(negative affects), ansia, rabbia, senso di
solitudine, vergogna, angoscia, dolore
psichico e somatico, peso sul cuore, nodo alla
gola. Si è incapaci di pensare in modo
costruttivo e immaginare una possibile
soluzione, presente o futura. Il pensiero
diventa «dicotomico», c’è spazio solo per due
possibilità: o tutto si risolverà in modo
magico, oppure morire sarà l’unica soluzione.
Anche le parole non lasciano scampo:
«sempre», «solo», «mai»… «La mia vita è un
fallimento completo, non voglio più far
soffrire nessuno, voglio solo morire, odio la
mia vita.»
La depressione è la condizione
psicopatologica più strettamente connessa al
suicidio, ma è un errore ritenerla l’unica, in
quanto il suicidio può essere determinato da
altre molteplici cause. Le malattie croniche, le
delusioni lavorative e sentimentali, le
difficoltà economiche possono far scattare
forti sentimenti di umiliazione, di rimorso, di
vergogna, di rabbia, di vendetta che
annichiliscono l’individuo facendogli
intravedere il suicidio come unica via
d’uscita. Tutte queste motivazioni sono state
messe in luce dall’autopsia del suicidio,
intesa come analisi a posteriori di tutte le
informazioni mediche e psichiche di chi si è
suicidato, raccolte con interviste a familiari e
medici che si sono occupati della persona che
non c’è più.
Prendersi cura delle persone segnate dal
suicidio o dal tentato suicidio di una persona
cara, i survivors, è fondamentale per alleviare
il loro dolore, elaborare il lutto, lo shock della
perdita e la rabbia verso il defunto; li aiuta a
riconciliarsi con la memoria della persona
cara oppure, se è ancora vivo, ad assisterlo. Ai
familiari dovrebbe sempre essere garantito
un aiuto, dando l’opportunità di partecipare a
gruppi di sostegno formati da persone che
hanno vissuto la stessa tragedia, o di fruire di
altri servizi psicologici o psicoeducazionali
che li aiutino a recuperare un nuovo
equilibrio emotivo e relazionale, così difficile
dopo un suicidio.
Un’ultima suggestione proviene dalle
parole di Salvatore Niffoi: «“Oh mannà! Ma
cosa dice quella voce quando chiama la
gente?” “Ajò! Preparati, che il tuo tempo è
scaduto!” Solo questo dice, Battì! Poi allunga
una mano invisibile e ti porta via». 11 Anche
nella depressione si può sentire una voce
simile, che chiama perché il tempo è scaduto,
ma nella depressione l’idea che il tempo sia
scaduto è falsa: sembra scaduto perché il gelo
depressivo ha bloccato l’orologio della vita,
ma sappiamo che si tratta di una condizione
solo temporanea e che, oltre alla mano
invisibile che ti porta via, ce ne sono molte
altre che ti trattengono alla vita.
XI
Depressione, stigma, società
La solitudine digitale
La società moderna tratteggiata nel paragrafo
precedente, veloce, liquida, «performante»,
induce per forza di cose a doversi adeguare
alla velocità di scambio delle informazioni,
della cultura, dei dati: requisito essenziale
per non sentirsi out, isolati, soli. Dunque,
l’uso di Internet, facilitando la velocità e la
connessione, risulta uno dei modi più utili,
oltre che immediati e alla portata di tutti, per
rimanere in touch, in contatto. In maniera
piuttosto contraddittoria, d’altro canto, la
vicinanza virtuale non sempre corrisponde ad
altrettanta vicinanza reale; anzi, spesso la
sostituisce, tanto che il termine social
network, che nella sua accezione originale di
«rete sociale» si riferisce a una rete fisica e
reale, oggi è utilizzato per fare riferimento a
una rete virtuale. Quando si parla di social
network, si pensa a questo e non alla rete
sociale che ogni individuo appartenente a
una società ha, o dovrebbe avere, intorno a
sé: famiglia, amici, scuola, ambiente
lavorativo, comunità religiosa.
Per certi aspetti, e soprattutto se ciò non
desse origine a confusioni o ambiguità di
significati, questo potrebbe rappresentare
un’evoluzione culturale importante,
un’aggiunta moderna all’altra rete, che ne
amplia i confini, consentendo un
arricchimento dell’informazione e della
comunicazione, e soprattutto un nuovo
sistema di contatti, definito many to many:
blog e web community facilitano uno
scambio partecipativo di comunicazione tra
gli utenti, diverso e innovativo rispetto al
passato, in quanto ogni utente scambia con
gli altri competenze e informazioni. La rete è
un luogo di incontri in cui, per esempio, i
single cercano un partner, in cui ci si può
nascondere per non essere soli, si può essere
«altri» rispetto a se stessi.
Il cambiamento epocale introdotto nella
comunicazione dallo sviluppo dei social
network ha prodotto delle modifiche alle
interazioni sociali, traghettandole da «uno a
uno» e «vis-à-vis» a «molti a molti». Non
sempre, però, alla quantità si associa la
qualità e, soprattutto, elementi che hanno
una declinazione così soggettiva come la
comunicazione e la relazione possono essere
omologati in termini generali, «globali».
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, e
a quello che dovrebbe essere il loro scopo
primario, i siti di social network spesso
possono diventare portatori di
allontanamento invece che di connessione, o
per meglio dire di «allontanamento
attraverso la connessione».
Le persone, grazie al social network che le
connette ad ampio raggio senza limiti di
tempo, non hanno più necessità di
incontrarsi e di discutere «faccia a faccia»,
fanno prima ad accendere il pc e collegarsi.
L’idea di avere tutto a portata di mano fa sì
che le giornate siano trascorse davanti al
computer senza incontri reali. In questo
senso, la comunicazione via web invece di
affiancare e integrare i rapporti personali ne
prende il posto, in alcuni casi
completamente, riducendo drammaticamente
il potenziale comunicativo della persona.
L’esito è una progressiva disabitudine al
contatto visivo, al linguaggio non verbale, a
tutto ciò che, in una parola, rappresenta
l’implicito della relazione interpersonale, e
l’integrazione a un’intersoggettività fondata
solo sulle parole scritte o viste in video. Forse
la domanda più corretta da farsi sarebbe:
come la rete sta cambiando il nostro cervello?
E ancora: esistono delle differenze tra il
cervello «adulto», non nativo digitale, e
quello dei ragazzi nati e cresciuti nell’era di
Internet?
La rete è stata definita come «la più
potente tecnologia di alterazione della mente
mai diventata di uso comune… la più potente
arrivata dopo il libro». 11 La funzione
maggiormente interessata da questo processo
di cambiamento sembra essere l’attenzione,
che da Internet viene «catturata per poi
essere dispersa». Questo aspetto, che può
apparire paradossale, avverrebbe in maniera
diversa nei ragazzi nativi digitali e negli
adulti, «adottivi digitali». In questi, l’uso
della rete sembra innescare un processo di
rimodellamento della capacità di
approfondire, di concentrarsi, una sorta di
«superficializzazione» del pensiero che si
contrappone alla verticalizzazione in
profondità. Di questo gli adulti si rendono
conto e alcuni hanno paura di perdere il
proprio modo di pensare, di leggere, di
concentrarsi, così come, alla nascita della
scrittura, si ebbe il timore che avrebbe
causato la perdita della memoria, che non
sarebbe stata più esercitata dalla
trasmissione per via orale. Altri, al contrario,
suggeriscono che l’allenamento a mettere
insieme frammenti di informazioni possa
portare a un arricchimento e a una maggiore
articolazione della profondità dei processi di
pensiero. Il cambiamento, comunque, è
indubbio ed evidente. Ancora più evidente e
radicale nei giovani, i quali non assistono a
un viraggio da una modalità di pensiero a
un’altra, ma imparano direttamente a pensare
in un modo nuovo.
I nativi digitali sono umani multitasking,
riescono cioè a svolgere più operazioni
contemporaneamente. Questo, però, non
coincide con un aumento delle loro capacità
cognitive: i nativi digitali «distribuiscono
attenzione» su una dimensione temporale
dilatata, al punto che sembrano distratti. Come
accade anche per altre situazioni di interesse
clinico, questo cambiamento massiccio e
generalizzato nelle modalità di relazione
sociale, e non solo, può avere un effetto
«epigenetico» sul nostro cervello,
modificando permanentemente il modo in
cui i geni lavorano, con effetti sulle
performance mentali. 12
Tutto ciò corrisponde, a livello cerebrale, a
una nuova configurazione delle reti neuronali
dell’apprendimento, e, nell’adulto, a un
cambiamento dell’attività cerebrale connessa
con l’attività intellettuale, evidente
soprattutto a livello dei lobi frontali e
prefrontali. La plasticità cerebrale fa sì che il
cervello si sviluppi in modalità «funzione-
dipendente»: se la modalità di apprendere,
pensare, leggere cambia, la migrazione, le
connessioni e le reti neuronali cambieranno a
loro volta, dando vita a «cervelli differenti».
Tutto questo rende necessario definire un
«nuovo scenario delle relazioni
interpersonali». 13 Infatti, lo stesso
cambiamento che la rete induce sul «cervello
cognitivo» si verifica anche per quanto
riguarda il «cervello relazionale». Le nuove
modalità di formare rapporti sia individuali
sia di gruppo determinano cambiamenti di
struttura e funzione nelle aree cerebrali
deputate alla relazionalità, assetti endocrini
diversi, modifiche del sistema immunitario.
La diversa significatività che la presenza
della rete conferisce ai concetti di solitudine e
di socialità può creare una nuova via di
accesso alla depressione.
Pertanto, come si collegano Internet e i
social network alla depressione? Esiste un
tramite specifico che lega la depressione
all’uso e all’abuso di Internet? La rete ci può
spingere verso la depressione o la
depressione spinge a rimanere impigliati
nella rete? Se, come abbiamo visto, i
principali nuclei psicopatologici della
depressione riguardano la vergogna di
esistere e di mostrarsi all’altro, il senso di
inettitudine, di abbandono e di perdita,
Internet e i social network possono
contribuire ad alimentarla attraverso i
sentimenti di solitudine e isolamento sociale
che producono.
Possiamo dire che l’elemento condiviso tra
l’uso di Internet e la depressione è proprio la
solitudine. Va sottolineato, in modo
estremamente chiaro, che la solitudine è
l’elemento psicoesistenziale che può portare
a un uso patologico di Internet, a sua volta
capace di rafforzare la condizione
psicopatologica. La solitudine, non solo
quella reale ma anche quella percepita, è
considerata l’aspetto più propriamente
psichico dell’isolamento sociale, esprime
l’insoddisfazione soggettiva rispetto alla
qualità e all’intensità della propria vita
relazionale o la discrepanza esistente tra le
relazioni sociali che il soggetto ha e quelle
che invece vorrebbe avere.
Facebook è basato sulla «paura della
solitudine in un mondo fatto di relazioni
fragili: una risposta alla paura che le persone
hanno di essere rifiutate». 14 Questa
considerazione sembra suffragata dai
risultati di alcuni sondaggi recenti (effettuati
dall’organizzazione «Relationships Australia»
nel 2011), secondo i quali il sentimento di
solitudine percepita cresce all’aumentare
degli strumenti di comunicazione tecnologici
utilizzati (Facebook, Twitter, blog, email). È
risultato che coloro che più spesso si sentono
«soli» sono più propensi a usare Facebook
per comunicare con amici, familiari e
potenziali partner rispetto a coloro che
raramente o mai si sentono soli.
Allo stesso modo, i dati di uno studio
recente condotto su 1400 studenti di scuole
medie superiori indicano che il 47,3% di
questi è/si sente solo, e che questa solitudine
risulta correlata in maniera significativa con il
numero di amici su Facebook: più solitudine,
più amici. 15 Sicuramente per chi si sente solo
Internet rappresenta un ambiente ideale e
controllabile, emotivamente non esigente, in
cui incontrare gli altri: una fuga dal
confronto.
La solitudine cronica, definita dai
massmedia un silent killer e considerata come
uno dei più grandi problemi futuri di salute
pubblica per le proporzioni epidemiche che
ha raggiunto nella nostra società, può avere
conseguenze sulla salute mentale, generando
ansia, depressione e abuso di sostanze, oltre
a essere un fattore di rischio per le malattie
cardiovascolari.
L’uso della tecnologia come
compensazione di «qualcos’altro che manca»
emotivamente e affettivamente è un
fenomeno che va crescendo sempre di più,
soprattutto tra bambini e adolescenti. In
realtà, vale anche il contrario. Per esempio,
Facebook fa aumentare la sensazione che
nella propria vita «manchi qualcosa»: si tratta
quindi di un circolo vizioso. A maggior
ragione nel momento in cui un giovane si
troverà in una condizione depressiva, l’uso di
Internet potrà rappresentare il mezzo
attraverso il quale «mantenere» la condizione
depressiva. Apparentemente si sentirà meno
solo, meno in difficoltà, in realtà accadrà
esattamente l’opposto, perché l’uso della rete
è «patologicamente rasserenante».
Un ultimo accenno meritano alcuni
approcci psicoterapeutici moderni alla
depressione, che propongono l’utilizzo di
Internet nella terapia. Sempre più si
diffondono app per l’autogestione della
depressione. È evidente che tutte queste
applicazioni andranno valutate per
verificarne l’efficacia, in senso sia terapeutico
sia psicoeducazionale.
«Mio figlio ormai vive online»
Gianni ha 13 anni, è stato promosso in terza
media e ha un gruppo di amici con cui studia,
esce, fa sport. Il padre lo definisce un ragazzo
molto preciso e meticoloso nel programmarsi le
uscite, i divertimenti, le incombenze scolastiche:
«Ha preso dalla madre; basta guardare come è
ordinata casa nostra… nulla è fuori posto».
I problemi sono cominciati con l’inizio
dell’estate, quando ha iniziato a passare molto
tempo davanti al computer. «Da quando è finita
la scuola, ha presentato un’inarrestabile voglia
di giocare ai videogame. Se prima giocava al
massimo due ore e poi interrompeva, più o meno
spontaneamente, adesso passa davanti ai
videogiochi almeno otto ore al giorno.» Gianni ha
sviluppato una predilezione per i videogame di
guerra e le piattaforme di gioco online. I genitori
dicono che la piattaforma è costituita da un
gruppo di 4-5 persone di diversa nazionalità ed
età, sempre le stesse, che però lui non conosce.
Gianni, a poco a poco, è rimasto sempre più
attratto da questi giochi: passa sempre più tempo
a giocare, non esce con gli amici, se non per due
ore quando il gruppo di giocatori online non è
connesso. Preferisce rimanere chiuso nella sua
stanza davanti al computer piuttosto che
frequentare la scuola calcio che prima amava
tanto. Anche gli altri interessi sono scomparsi.
È irritabile, irascibile, non rispetta più le
regole della casa. Passa tutta la giornata in
camera sua; ormai si lava sempre meno e non ha
più cura dei capelli a cui prima teneva tanto.
Talvolta si siede a tavola con i genitori: dopo
essersi lamentato di quello che ha cucinato la
madre ingurgita qualcosa per poi «scappare
subito e tornare immediatamente davanti alla
consolle». Più spesso porta il piatto in camera sua
e consuma i pasti continuando a giocare.
I genitori dicono: «È diventato aggressivo…
sia verbalmente sia fisicamente. Mi ha aggredito,
facendomi anche male, quando ho provato a
interrompere il gioco». «Ha insultato la madre…
più volte… non lo aveva mai fatto… non è da lui.
Addirittura negli ultimi giorni, nei rari momenti
in cui non gioca, tende a riprodurre con le mani e
le dita i movimenti che fa con il joystick, come a
non voler perdere l’allenamento. Io e mia moglie
non ce la facciamo più… ci abbiamo provato in
tutti i modi sia con le buone sia con le cattive.
Nostro figlio ha bisogno d’aiuto, noi abbiamo
bisogno di aiuto…»
Gianni si difende: «Sono loro che non
capiscono, il gioco per me è tutto, già diverse volte
sono arrivato primo ai tornei». «Lì ho successo,
non mi annoio come quando sto con gli altri e non
rischio di fare brutte figure e di dovermi
difendere.»
Lo sforzo terapeutico sarà quello di far uscire
Gianni dalla sua stanza, portandolo a
confrontarsi con la realtà esterna che, in questo
momento della vita, rappresenta per lui una fonte
di paura. Il messaggio che i genitori e Gianni
dovranno accettare è che «ci vorrà tempo», per
superare queste difficoltà. La psicoterapia avrà
successo se sarà seguita con costanza e senza
avvilirsi nelle fasi in cui sembrerà non riuscire ad
aiutare Gianni nelle sue difficoltà relazionali.
Molto utile si rivelerà anche un intervento
riabilitativo di psicoeducazione familiare.
Ciascun membro sarà ascoltato e sostenuto nelle
proprie difficoltà e l’intero gruppo familiare
imparerà a utilizzare tecniche più funzionali per
gestire il comportamento di Gianni e ristabilire
una maggiore serenità in casa.
II. La diagnosi
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11. Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria,
Milano, Adelphi, 2005.
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Risalire in superficie
di Alberto Siracusano
© 2017 Mondadori Libri S.p.A., Milano
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