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Il libro

S
econdo l’Organizzazione mondiale
della sanità, nei prossimi anni la
depressione sarà il disturbo psichico
più diffuso. Già oggi ne soffrono 350
milioni di persone di ogni età e fascia
sociale. In Italia, è clinicamente depresso 1
adulto su 5, in particolare le donne, ma
sono sempre più numerosi i casi che
riguardano bambini e adolescenti.
Ma di che cosa parla la psichiatria
quando parla di depressione? Non certo di
un semplice abbassamento del tono
dell’umore, della comune esperienza di
sentirsi con il morale a terra, ma – come si
legge in queste pagine – della percezione
della perdita del Sé, del tempo dell’Io che
rallenta fino a fermarsi, del dolore che
frantuma l’identità individuale e preclude
ogni progetto e ogni apertura al futuro.
Schiacciata da un profondo sentimento di
vuoto, di colpa e di disperazione, la persona
depressa affonda, sentendo di aver perso lo
slancio vitale e smarrito il filo della propria
esistenza. Per aiutarla a «risalire in
superficie», bisogna imparare a conoscere e
ad ascoltare la sua sofferenza.
Alberto Siracusano, uno dei massimi
esperti italiani di depressione, analizza
questa patologia diffusissima, di cui si parla
ancora troppo poco e troppo spesso senza
cognizione di causa, a trecentosessanta
gradi, descrivendone origini, meccanismi,
caratteristiche e indicando i possibili e più
efficaci trattamenti.
Con un linguaggio semplice e accessibile,
ma senza rinunciare all’accuratezza e al
rigore del discorso scientifico, affronta il
tema della depressione da una duplice
prospettiva – quella razionale, scientifica di
chi cura e quella emozionale del paziente –
e secondo l’inedito approccio del ciclo di
vita, dall’infanzia all’adolescenza (oltre la
metà dei disturbi mentali si manifesta
all’età di 14 anni), dalla maturità alla
vecchiaia, con particolare attenzione per
l’universo femminile (crescita, gravidanza e
menopausa) e per la difficile congiuntura
economica che stiamo vivendo (in questi
ultimi anni, la vendita di psicofarmaci è
aumentata in modo allarmante). Il tutto
raccontato anche attraverso diverse storie
cliniche, che arricchiscono il testo dando
voce alle esperienze di chi ne ha sofferto e
ha avuto la forza di uscirne.
«Scrive Tagore: “L’uomo ha dentro di sé
il silenzio del mare, lo strepitio della terra e
la musica dell’aria”. La vita è tutto questo!
Da parte nostra, nel momento in cui siamo
di fronte alla depressione possiamo
immaginare di essere davanti a un abisso
che allontana gli altri elementi vitali, terra e
aria. Per ritrovarli bisognerà risalire in
superficie.»
L’autore

Alberto Siracusano è
ordinario di psichiatria,
direttore della scuola di
specializzazione in psichiatria
e direttore del dipartimento di
Medicina dei sistemi dell’Università di
Roma Tor Vergata. È inoltre direttore
dell’Unità operativa complessa di psichiatria
della Fondazione Policlinico Tor Vergata.
Già presidente della Società Italiana di
Psichiatria, è presidente della Società
Italiana di Psicopatologia (S OPS I ) e membro
della Società Psicoanalitica Italiana e
dell’International Psychoanalytic
Association. Autore di numerose
pubblicazioni scientifiche e libri, ha curato il
Manuale di Psichiatria, il più diffuso testo di
studio di psichiatria. Ha dedicato numerosi
studi e articoli al tema della depressione, in
particolare alla depressione femminile.
Alberto Siracusano

RISALIRE IN SUPERFICIE
Conoscere e affrontare la depressione
Risalire in superficie

A Carla

Un dì si venne a me Malinconia
e disse: «io voglio un poco stare teco»;
e parve a me ch’ella menasse seco
Dolore e Ira per sua compagnia.
DANTE ALIGHIERI , Rim e, LXXII
I
Che cos’è la depressione

Avvicinarsi alla depressione


Le parole che ispirano il titolo del libro che
state sfogliando, «Sento che sto per risalire in
superficie», sono state pronunciate da una
persona che ha vissuto una grave
depressione, nel momento in cui ha avvertito
la sensazione che si alleggerisse il peso che
l’aveva fatta sprofondare nell’abisso
1
depressivo. Questo testo vuole affrontare il
tema della depressione secondo due
prospettive: quella scientifica, che permetterà
di avere una conoscenza corretta di ciò che
intendiamo oggi quando parliamo di
depressione, e quella emozionale, che farà
«sentire» il significato più profondo di questo
cambiamento dell’umore e del nostro modo
di essere quando «entriamo in depressione».
Molti ritengono che la depressione sia
soltanto il frutto di uno squilibrio organico,
spesso ereditato, altri che sia dovuta a una
debolezza individuale di fronte agli
accadimenti della vita, altri ancora che non
esista, e sia solo una costruzione culturale.
L’intenzione di questo libro è di fornire al
lettore, in modo equilibrato e aggiornato, una
visione completa della depressione:
avvicinarsi alla depressione e conoscerla
consente di affrontarla e di non lasciarsi
influenzare da superficiali credenze
mediatiche.
Perché sia possibile percepire in maniera
più precisa l’intensità e i contenuti della
depressione psichica, l’esperienza e la
sofferenza depressiva hanno bisogno tanto di
essere definite dalle parole della razionalità
quanto di essere colte nel loro senso
emozionale. L’intreccio fra la dimensione
depressiva e quella esistenziale è fitto e
articolato, e il filo che le cuce insieme è il
concetto di perdita. Sigmund Freud, nel 1925,
ragionando sui collegamenti tra angoscia,
dolore e lutto, scrive: «Il dolore è dunque la
reazione propria alla perdita dell’oggetto,
l’angoscia la reazione al pericolo che tale
perdita implica, e, in uno spostamento
ulteriore, la reazione al pericolo della perdita
dell’oggetto in quanto tale». 2 Nella
depressione la fonte del dolore non è solo la
perdita dell’oggetto, cioè di ciò che si ama,
ma anche la percezione della perdita
dell’integrazione e coesione del Sé.
Lo psichiatra Eugenio Borgna definisce il
dolore tipico della depressione come «il
dolore che frantuma la nostra identità, il
dolore del corpo e il dolore dell’anima
intrecciati l’uno all’altro, il dolore che rende
impossibile ogni futuro e ogni progetto, il
dolore che trascina l’io nelle fiamme, il dolore
che cancella i ricordi, il dolore che ci rende
inconoscibili, il dolore che manda al rogo la
nostra vita». 3
Comprendere la depressione è
comprendere la natura dell’essere umano. A
proposito della perdita, il filosofo Søren
Kierkegaard scrive: «Una giovane perde il
fidanzato e si dispera. Non è per il fidanzato
perduto, ma per sé-senza-fidanzato. E così è
per tutti i casi di perdita, si tratti di denaro, di
potere o di rango sociale. Ciò che non
possiamo sopportare, in realtà non è
insopportabile in sé. Ciò che non possiamo
sopportare è che ci venga strappato via
l’oggetto esterno. Rimasti denudati vediamo
l’intollerabile abisso di noi stessi». 4
Molte delle persone che soffrono di
depressione riescono a descrivere in maniera
estremamente intensa il proprio stato
d’animo, usano frasi, metafore toccanti,
espressioni di viva sofferenza: «Mi si gela la
vita», «Penso di aver perso tutto, anche me
stesso», «Mi sveglio. È tutto buio e ho paura»,
«Ho un maiale nello stomaco che mi morde e
non mi lascia mai», «Il tempo è di marmo,
non passa mai», «Tutto è pesante», «Ho un
peso sul cuore», «Non sono capace di niente»,
«Non ce la faccio», «Mi sembra di stare nelle
sabbie mobili». Una donna di una città del
Sud diceva: «Mi accorgo subito che mio
marito sta male, ha gli occhi calamarati».
Un’altra diceva di sé: «Me ne vado in acqua
[sudore], mi alzo che sono già stanca». Un
giovane: «Sono al tappeto, non riesco a
rialzarmi».
Il poeta dell’inquietudine, il portoghese
Fernando Pessoa, descrive la sua depressione
come una perdita della dimensione
temporale, ridotta a una condizione di eterno
presente: «Vivo sempre nel presente. Il
futuro, non lo conosco. Il passato, non lo
possiedo più. L’uno mi pesa come la
possibilità di tutto, l’altro come la realtà di
niente. Non ho speranze né nostalgie». 5
Nella depressione il rapporto con il tempo
risulta profondamente alterato. Il tempo
vissuto (temps vécu) di cui parla lo psichiatra
Eugène Minkowski, 6 cioè quella coscienza
dell’esperienza che ognuno di noi avverte
come contemporanea progressione personale
e universale verso il tempo futuro, viene
perso. Il «tempo dell’Io» rallenta fino a
fermarsi, mentre il «tempo del mondo»
continua a scorrere. Il depresso sente
sfuggire il tempo, sente di non avere più
futuro, di avere perso quello slancio vitale che
rende vivi e che dà un senso alla nostra vita.
Il futuro è barré, sbarrato, inglobato «in un
presente vuoto, doloroso, immobile,
testimone di un male già presente e perciò
ineluttabile». Il passato è condizionato dalla
mancanza di dinamismo del tempo vissuto,
tutto è bloccato nel tempo presente.
Lo psichiatra e psicoanalista Ignacio Matte
Blanco ha descritto il funzionamento della
nostra vita mentale parlando di un «doppio
ordine di fenomeni», costituito sia da
elementi appartenenti al substrato biologico
sia da elementi strettamente psicologici e
affettivi, base bio-psico-emotivo-sensoriale
attraverso cui si crea il nostro modo specifico
di pensare, di sentire, di essere nel mondo. 7
Il frequente ricorso, da parte della persona
depressa, a immagini metaforiche è il
tentativo di far capire il profondo senso di
angoscia, di impotenza, di disperazione che
vive in quei momenti. Il linguaggio
metaforico tipico del depresso è spesso
incredibilmente ricco, ma risulta orientato in
un unico senso, verso un unico blocco di
significati: quello del dolore, della perdita,
del lutto, della sofferenza, della inutilità,
della morte.
Nell’avvicinarci alla depressione,
nell’intraprendere questo viaggio che ci
porterà a incontrarla, possiamo ricorrere a
un’immagine tratta dal romanzo di Joseph
Conrad, Cuore di tenebra: «Abbiamo perso
l’inizio del riflusso … Il mare aperto era
sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto
corso d’acqua che portava ai confini estremi
della terra scorreva cupo sotto un cielo
offuscato – pareva condurre nel cuore di una
tenebra immensa». 8 Il senso del nostro
viaggio verso la depressione, verso questa
tenebra immensa, è quello di comprendere
non solo la natura del disturbo depressivo,
ma anche il senso dell’esistenza.

Un po’ di storia
È utile scorrere rapidamente alcuni passaggi
storici del concetto di depressione.
Nell’antichità veniva utilizzato il termine
«melanconia», e solo a metà dell’Ottocento la
melanconia viene rinominata «depressione»,
un vocabolo preso a prestito dalla cardiologia
dell’epoca per riferirsi «a una riduzione
generale del funzionamento di un organo, il
cuore». Inizialmente si parlò, per analogia, di
«depressione mentale», poi solo di
«depressione». Verso il 1860, il termine
compare nei dizionari medici per indicare un
«andar giù, uno slivellamento psichico, una
lowness of spirits» presente nelle persone
affette da una qualche malattia. La
caratteristica di questa impostazione è
ritenere che le patologie mediche in generale
siano il risultato o di un eccesso o di un
esaurimento dell’«energia» fisica e psichica,
avendo come riferimento un modello teorico
basato sul concetto di energia. Non a caso si
parlerà anche di «neuroastenia» e di
«esaurimento nervoso». Vale la pena
ricordare che proprio in questo periodo,
intorno al 1870, fa la sua comparsa l’energia
elettrica, che segna convenzionalmente
l’inizio della rivoluzione industriale.
L’evoluzione storica della terminologia
dimostra come lo studio della depressione sia
sempre stato influenzato dalle diverse
correnti filosofiche, ideologiche, sociali,
economiche, culturali e morali delle varie
epoche, che hanno influito sulla definizione e
sul riconoscimento. Inoltre, sulla depressione
ricade anche la problematicità dello scontro,
all’interno della medicina e della psichiatria,
tra la «scienza dello spirito» e la «scienza del
corpo». La malattia mentale è ancora oggi
oggetto di controversia a causa della mai
ricomposta scissione tra corpo e anima,
mondo del somatico e mondo dello psichico,
e della difficoltà di determinare cause
eziopatogenetiche uniche. Infatti, la
complessità delle cause dei disturbi psichici
rende impossibile ogni approccio
riduzionistico e semplificatore.
Per spiegare quanto stiamo dicendo, basti
pensare a ciò che accade nel confronto-
scontro tra la persona affetta da depressione,
che lamenta un dolore psichico, e la persona
vicina che le dice: «Non hai niente; che ti
manca? Non hai nessuna malattia [del
corpo]», sottolineando così una visione del
mondo in cui lo star male può essere
determinato solo dalla presenza di un danno
fisico. La persona depressa viene anche
sollecitata, spesso in modo sbagliato, a
reagire: «Fai qualcosa, è solo questione di
volontà. Dipende tutto da te».
Nella concezione comune della
depressione è possibile rintracciare
l’influenza della morale cristiana, cioè
l’erronea visione della malattia come colpa, e
quindi dell’individuo depresso come
accidioso, pigro, colpevole di un peccato di
tristezza, di indolenza, posseduto dal
demone diabolico del meriggio, che verso la
metà del giorno «tormenta i solitari, … ispira
il disgusto delle cose di Dio, l’orrore della vita
spirituale… Nell’ora in cui regna la canicola,
il sole si immobilizza, la vita diviene senza
senso, l’esistenza odiosa, il lavoro inutile». 9
L’accidia, per Flaubert la peste dell’anima,
muta rapidamente da stato di inerzia ad
aggressività, da tristezza a collera, da torpore
passivo a rabbia attiva. Non a caso Dante,
nell’Inferno, pone assieme accidiosi e
iracondi, sommersi dalle fangose e «umorali»
acque dello Stige.
Nel linguaggio comune il termine
«depressione», che deriva dal verbo deprimere,
il cui significato è «mandare giù, mandare più
in basso, affondare», indica uno stato
d’animo la cui tonalità affettiva principale è
appunto lo «stare giù», il sentire un misto di
svogliatezza, mancanza di piacere, tendenza
all’essere pessimisti, insoddisfazione, noia.
Così intesa, la depressione è un’esperienza
che tutti noi abbiamo vissuto e viviamo nella
nostra vita quotidiana, e che viene indicata
anche con i termini «melanconia» o
«malinconia». Il temperamento melanconico,
predisposto alla depressione, viene descritto
come letargico, dedito alla contemplazione e
alla rimuginazione (vedi capitolo II).
Il rapporto fra depressione e melanconia è
stato descritto in modo splendido definendo i
due affetti «emozioni sorelle». 10 È possibile
tracciare una differenza fra depressione e
melanconia basandosi non tanto
sull’esistenza o meno di una causa, ma
considerando la prima una forma di malattia
e la seconda un modo di essere
personologico. I termini melanconia e
depressione sono spesso utilizzati in modo
intercambiabile, creando fraintendimenti
rispetto alla situazione psicopatologica che si
vuole descrivere. Possiamo invece
sinteticamente delineare tre aree depressive:
una con possibili cause esistenziali, la
«depressione esistenziale»; un’altra in cui
prevale l’essere una malattia con evidenti
fondazioni biologiche, la «depressione-
malattia»; e un’altra ancora che possiamo
chiamare «depressione motivata», provocata
da «avvenimenti dolorosi e conflittuali».
Queste tre aree depressive spesso si
intrecciano e non si escludono l’una con
l’altra. La melanconia, invece, sembra essere
più una predisposizione di fondo dell’animo,
un modo di accostarsi al mondo.
Nell’antichità, al temperamento
melanconico venivano attribuite doti creative
in campo artistico, filosofico, poetico e
politico (Aristotele). Secondo le teorie
dell’epoca, tale temperamento, sotto
l’influsso di fattori che potremmo dire
«precipitanti» (posizione dei pianeti,
variazioni stagionali, in particolare
l’autunno), indurrebbe nell’individuo
un’eccessiva produzione di «bile nera»
(atrabile), che può fuoriuscire dalla milza, sua
sede e luogo di secrezione, infiammarsi e dar
luogo a tutti i fenomeni fisici e psichici tipici
della melanconia. Ippocrate (460-377 a.C.)
descrive i sintomi depressivi come
«avversione per il cibo, irritabilità, agitazione
motoria, sonnolenza…». La teoria
dell’eccesso di bile ha influenzato la terapia
per la melanconia: norme dietetiche e
igienico-sanitarie, e soprattutto salassi e
purganti per eliminare la bile in eccesso.
Tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.,
tuttavia, alcuni filosofi e studiosi di anatomia
(Asclepiade, Aulo Cornelio Celso, Lucio
Anneo Seneca) cominciano a proporre teorie
alternative a quella umorale, le cosiddette
«teorie solidistiche», che sostengono l’idea di
una costrizione di alcune fibre del corpo
umano come causa dei sintomi depressivi. In
questo stesso periodo, vengono proposte le
prime classificazioni e suddivisioni della
melanconia – in particolare, vengono
identificati due sottotipi, uno a prevalente
manifestazione somatica e l’altro a prevalente
manifestazione psichica – e per la prima volta
vengono descritte anche forme deliranti.
Areteo di Cappadocia (II secolo) è stato il
primo a differenziare una melanconia di
origine biologica da una di tipo reattivo, e
quindi con cause psicologiche. Con Galeno
(131-201), invece, ritorna in primo piano la
teoria umorale: la bile nera, a seconda del
luogo di maggior concentrazione (solo
encefalo, organismo intero per via ematica,
regione ipocondriaca con esalazioni tossiche
diffuse fino al cervello), può dare origine a
forme diverse di melanconia. Anche Galeno
descrive forme deliranti. Celio Aureliano (V
secolo) sottolinea il ruolo dell’aggressività e
del suicidio nel quadro depressivo, oltre alla
possibile presenza di tratti psicotici.
Nel mondo arabo la conoscenza
«scientifica» del fenomeno depressivo è
testimoniata dai testi di Avicenna (X-XI
secolo), il quale, partendo sempre dalla
struttura del temperamento, postula che un
particolare tipo di melanconia possa
insorgere «se la bile nera si mischia con il
flegma … quando la malattia è tranquilla, e si
associa a inerzia, mancanza di
movimento…». Avicenna considerava la
depressione una malattia e, per la sua cura,
proponeva rimedi «medici», cioè
farmacologici, quali l’iperico.
In epoca rinascimentale riemerge
l’accostamento aristotelico fra depressione,
temperamento depressivo e genialità.
Marsilio Ficino (1433-1499) descrive il
temperamento melanconico e la melanconia
stessa come tratti tipici del genio e
dell’artista, ricollegandoli all’influsso,
ambivalente, del pianeta Saturno.
Tra il XVI e il XVII secolo compaiono
alcuni trattati specialistici, nei quali vengono
descritte e classificate forme diverse di
melanconia. Tra questi, il Discours des
maladies mélancoliques (1594) di André Du
Laurens e il Treatise of Melancholie (1586) di
Timothy Bright. Molto importante per la sua
distinzione tra una forma organica, dovuta
alla bile, e una psichica, legata a dinamiche
spirituali, è The Anatomy of Melancholy (1621)
di Robert Burton. L’autore, includendo tra i
disturbi affettivi categorie piuttosto ampie,
descrive forme di melanconia «senza causa»,
accanto ad altre reattive a eventi di vita (lutto,
consumo di alcol e di certi cibi, ritmi
biologici, stagioni, emozioni molto intense
come l’amore); ritiene inoltre che tra i
melanconici ci sia una prevalenza di maschi
(contrariamente a quanto si rileva oggi).
Burton descrive anche apertamente i legami
tra follia, melanconia e suicidio. Anch’egli
prescrive rimedi farmacologici, come iperico
e tarassaco, accanto agli usuali consigli
dietetici e igienico-sanitari.
Sulla scia di questa dicotomia tra organico
e psichico si collocano anche le descrizioni di
una melanconia «umorale» e di una
«nervosa» offerte da Anne-Charles Lorry
(1726-1783), caratterizzate l’una
prevalentemente da disturbi digestivi, l’altra
da fenomeni convulsivi. Jean-Étienne
Dominique Esquirol (1772-1840) descrive più
sistematicamente il primato dell’affettività
nella melanconia, coniando il termine
«lipemania» (dal greco lypemanía, «malattia
con dolore o piena di dolore») e
descrivendone una forma delirante dominata
da un unico delirio, la «monomania».
In epoca romantica si va accentuando
l’aspetto affettivo, spirituale, della
melanconia e si delinea la tendenza a
preferire un trattamento «morale» ai rimedi
fisici e farmacologici. Per Emil Kraepelin
(1856-1926), i sintomi nucleari della
depressione consistono in un abbassamento
del tono dell’umore e in un rallentamento dei
processi fisici e mentali, in contrapposizione
all’elevazione del tono dell’umore e
all’accelerazione dell’attività fisica e mentale
proprie della mania. Alla fine dell’Ottocento,
la depressione è considerata «una condizione
caratterizzata dall’affondamento dello spirito,
dalla mancanza di coraggio e di iniziativa, e
da pensieri cupi». In maniera sintetica,
possiamo dire che le malattie affettive e i
disturbi dell’umore sono considerati
sfuggenti e scarsamente definibili perché
legati alle passioni. I ricercatori concordano
nel sostenere, in base all’osservazione clinica,
a metodi logico-deduttivi e alle teorie
epistemologiche a loro contemporanee, che i
disturbi affettivi, ivi compresa la depressione,
siano patologie primarie dell’affettività, con
sintomi psicopatologici definiti, natura
periodica, origine genetica, si manifestino in
soggetti con personalità predisposta e siano
di natura endogena (non precipitati da
eventi).
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del
secolo scorso, Karl Leonhard, Jules Angst,
Carlo Perris e George Winokur,
indipendentemente l’uno dall’altro, hanno
proposto la distinzione fra episodi depressivi
senza episodi maniacali o ipomaniacali
(disturbo depressivo maggiore), che
compaiono in età adulta e anziana, e quelli,
d’insorgenza più precoce, nei quali sono
presenti uno o più episodi maniacali o
ipomaniacali (disturbo bipolare). Nello stesso
periodo si delineano con maggior precisione i
due filoni di trattamento «moderni» per la
depressione, quello psicologico (psicoterapia)
e quello somatico (elettroshock,
psicofarmaci).
Arriviamo quindi a oggi, e al tentativo
sempre più forte di definire scientificamente
le diverse forme di depressione per evitare il
rischio che questa diventi un concetto
«omnibus» che include di tutto, dal generico
mal di vivere allo sconforto individuale e
sociale, dalle delusioni alle reazioni allo
stress quotidiano, alle manifestazioni che
seguono un lutto. Opportunamente è stato
detto che il termine depressione «viene
spesso impiegato abusivamente e condito in
tutte le salse». 11
In tutte le discipline scientifiche, definire
l’oggetto di studio e classificare le varianti
sono prerequisiti irrinunciabili per il
progredire della conoscenza. Raggruppare i
simili e distinguere i diversi è fondamentale
per una ricerca fruttuosa. La classificazione
delle malattie mentali è cambiata spesso
negli ultimi due secoli e per superare, almeno
in parte, la mancanza di accordo sulle
definizioni diagnostiche, l’American
Psychiatric Association ha pubblicato il
Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders (DS M ), che nella sua prima e
seconda edizione (DS M -I e DS M -II ,
rispettivamente del 1952 e del 1968) ha avuto
scarsissima diffusione. La storia del DS M -III ,
pubblicato nel 1980, è del tutto diversa.
L’introduzione di criteri diagnostici espliciti
(criteri operativi) per ciascun disturbo, la
scelta di basare la diagnosi sulla descrizione
dei segni e dei sintomi anziché su ipotesi
eziologiche e la messa a punto di interviste
semistrutturate per accertare il
soddisfacimento dei criteri operativi per la
diagnosi di un certo disturbo sono tutti
elementi che hanno decretato la grande
diffusione del DS M -III e dei suoi successori, il
DS M -III-R (1987), il DS M -IV (1994) e il DS M -IV-TR
(2000). Nel maggio 2013 è stata pubblicata la
versione più recente di questa classificazione
diagnostica, il DS M -5 . 12 Vedremo più avanti
quali sono gli attuali criteri diagnostici della
depressione, le controversie legate a essi e i
tentativi recenti di progredire verso altre
forme di classificazione, per esempio
attraverso la creazione di «Research Domain
Criteria».
Un po’ di numeri
Secondo le stime dell’Organizzazione
mondiale della sanità, nel 2020 la depressione
sarà la seconda causa di invalidità per
malattia. Un gradino sotto le malattie
cardiovascolari, ma molto al di sopra delle
malattie infettive, oncologiche o respiratorie.
All’inizio del 2010 Philip Campbell, il
direttore della rivista «Nature», scriveva: «I
prossimi dieci anni saranno, verosimilmente,
il decennio dei disturbi psichiatrici». Questa
previsione non era frutto di un calcolo
ipotetico, ma si basava su dati già allarmanti.
Nel 2011 un nuovo articolo pubblicato su
«Nature» riportava una prevalenza lifetime
della depressione del 16,5%, che, tradotto in
termini concreti, vuol dire che ciascuno di noi
ha una probabilità pari al 16,5% di ammalarsi
di depressione nel corso della vita. Oppure,
in altre parole, un individuo su sei è oggi
affetto da depressione maggiore. Il dato si
complica se si considera che chi è affetto da
depressione, dopo essere guarito, ha una
probabilità di riammalarsi compresa fra il 35
e il 65%.
In Italia, secondo i dati dell’European Study
of the Epidemiology of Mental Disorders, 13
pubblicato sul sito del ministero della Salute,
la prevalenza della depressione maggiore
nell’arco della vita è dell’11,2% (14,9% nelle
donne e 7,2% negli uomini). In Italia, sono
affette da depressione circa 7,5 milioni di
persone, di cui solo il 30% assume una
terapia farmacologica. Sebbene la
depressione colpisca più frequentemente il
genere femminile (due volte in più rispetto a
quello maschile), tipicamente in un range di
età giovane-adulta, in realtà non ci sono fasce
di età o di popolazione realmente immuni da
questo disturbo. Nelle persone
ultrasessantacinquenni la depressione
maggiore e la distimia (disturbo depressivo
persistente) hanno una prevalenza,
nell’ultimo anno, del 4,5% (ma tra le persone
istituzionalizzate di questa età la prevalenza è
molto più elevata e, in alcuni casi, arriva fino
al 40%). Da numerose indagini
epidemiologiche risulta che il 2% dei bambini
e il 4% degli adolescenti ha, nel corso di un
anno, un episodio di depressione che dura
almeno 2 settimane.
Parimenti la depressione sta diventando
pericolosamente comune durante la
gravidanza o nel periodo immediatamente
successivo al parto, con una percentuale pari
al 10-20% delle donne. Oltre ai sintomi, le
persone affette da depressione spesso
subiscono lo stigma e la discriminazione da
parte della società. Atteggiamenti
stigmatizzanti si verificano fra le persone
comuni e spesso sono «fatti propri» dai
pazienti, che interiorizzano questa
discriminazione proveniente dall’altro,
finendo con autoaccusarsi o sentirsi in colpa
per il proprio disturbo. Si crea, in questo
modo, uno «stigma interiorizzato» che
inciderà negativamente sulla qualità della vita
e sul senso di benessere personale.
I dati che abbiamo citato non tengono poi
conto delle notevoli conseguenze economiche
e sociali della depressione, non solo per gli
individui affetti, ma anche per i familiari, e in
generale per la comunità intera. Per esempio,
sono ormai sempre più diffusi i dati sulla
trasmissione «trans-generazionale» della
depressione, cioè sulla ricaduta della
depressione materna e/o paterna sui figli.
Uno studio pubblicato recentemente dalla
rivista «Lancet» ha quantificato il peso
economico dei disturbi mentali e neurologici
in una percentuale compresa tra l’1,3 e il 3,3%
del Prodotto interno lordo (PIL), la quantità di
ricchezza prodotta in un anno da un paese. 14
Considerando che tra i disturbi mentali e
neurologici la depressione occupa un posto
prioritario, incidendo per il 40% su questo
dato, si può facilmente intuire quanto sia
rilevante il suo peso economico.
In Italia, il costo sociale della depressione,
in termini di ore lavorative perse, è pari a
circa 4 miliardi di euro l’anno, mentre in
Europa è pari a 92 miliardi. Il costo che il
Sistema sanitario nazionale deve sostenere
per ciascun paziente depresso è pari a 4062
euro all’anno. Queste considerazioni di
natura socioeconomica devono costituire una
spinta in più affinché vengano implementate
le risorse destinate alla ricerca clinica e
neurobiologica sulla depressione. 15 A oggi,
sia la ricerca pubblica sia quella privata
soffrono di una carenza di risorse, in parte
compensata dallo sforzo della comunità
scientifica e dei singoli ricercatori. Investire
sulla prevenzione e sulla cura della
depressione non è solo una sfida clinico-
scientifica, ma è anche una grande
opportunità di rilancio socioeconomico per il
paese, considerato l’elevato impatto di questo
disturbo.
La Figura 1 mostra l’impatto, in termini di
disabilità sociale, della depressione rispetto
ad altri disturbi mentali o neurologici.
L’acronimo DALY, dall’inglese Disability-
Adjusted Life Year (attesa di vita corretta per
disabilità), si riferisce a un indicatore
composito, usato negli studi epidemiologici,
che tiene conto degli anni di vita potenziale
persi a causa di mortalità prematura e degli
anni di vita produttiva persi a causa di
disabilità. La figura conferma quanto già
accennato, cioè il peso prioritario occupato
dalla depressione all’interno dei disturbi
mentali e neurologici. C’è infine un altro dato
che emerge in modo allarmante, ed è il
differente impatto che questo disturbo ha nei
paesi sviluppati economicamente rispetto ai
paesi in via di sviluppo.
Figura 1. L’impatto di alcuni disturbi mentali nei
paesi sviluppati economicamente e nei paesi in via
di sviluppo.
Fonte: V. Ravindranath, H.M. Dang, R.G. Goya et
al., Regional Research Priorities in Brain and Nervous
System Disorders, in «Nature», 527, 2015, pp. 198-
206.

Come si può evincere dalla figura,


l’impatto della depressione misurato in
termini di D ALY è quasi 6 volte maggiore nei
paesi in via di sviluppo rispetto ai paesi
sviluppati economicamente. Malnutrizione
sia materna sia della prole (per esempio,
carenza di vitamine o iodio) e traumi
ambientali (povertà, guerre) modulano
negativamente lo sviluppo cerebrale nel
periodo perinatale, determinando
conseguenze psicopatologiche a lungo
termine. Parlare della depressione significa
dunque parlare dei numeri di questo
disturbo, del suo impatto, dello stigma che lo
circonda e persino della sua geografia. Non
possiamo più rimandare il nostro impegno
clinico, scientifico ma anche, in un certo
senso, politico per facilitare l’accesso alle cure
della depressione e per sviluppare
programmi di prevenzione e di intervento
precoce.
II
La diagnosi

Da «esaurimento nervoso» a
«depressione»: l’evoluzione di un
concetto
Per arrivare a definire cosa sia la depressione,
è necessario fare alcuni passi indietro.
Quando nel 2007 fu annunciato l’inizio dei
lavori che avrebbero portato alla stesura della
quinta edizione del Manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali, di cui abbiamo
parlato nel capitolo precedente, la comunità
degli operatori della salute mentale per la
prima volta «sognò» di poter realizzare quello
che ormai da decenni era diventato un
obiettivo fondamentale: passare da un
sistema diagnostico basato su una
classificazione e un raggruppamento
statistico di segni e sintomi a un sistema
diagnostico legato alle sempre più importanti
evidenze ricavate dalle neuroscienze. Il sogno
di molti era di poter effettuare una diagnosi
non solo grazie al riconoscimento, all’interno
della storia psicopatologica di una persona, di
una serie di criteri sintomatologici, ma anche
basandosi sul rilevamento oggettivo di
specifici biomarker di malattia, come accade
in molte branche della medicina.
La pubblicazione, nel 2013, del DS M -5 ha
parzialmente deluso queste aspettative. Le
numerose conoscenze che abbiamo sul
funzionamento del cervello non consentono
ancora una traduzione clinica diretta. È un
problema essenziale che investe tutta la
psichiatria, ma la depressione ne risente in
modo particolare, non solo perché essa
rappresenta il disturbo psichiatrico più
frequente, occupando un peso maggiore in
termini epidemiologici, sociali ed economici,
ma perché definire il concetto di depressione
e distinguerla dalla «tristezza», da uno stato
emotivo transitorio con cui tutta l’umanità si
confronta ogni giorno, è una sfida ancora
aperta.
Recentemente, negli Stati Uniti, il National
Institute of Mental Health (NIM H) ha
sviluppato un progetto di ridefinizione della
diagnosi in psichiatria denominato «Research
Domain Criteria» (RD oC ). Questo progetto, di
cui è stato promotore Thomas Insel, si
propone di andare oltre l’attuale modello
categoriale espresso dal DS M , un modello che
suddivide i disturbi in categorie ben distinte
l’una dall’altra, per esempio depressione e
disturbi d’ansia. L’obiettivo principale del
progetto RD oC consiste nello «sviluppare, per
scopi di ricerca, nuove modalità di
classificazione dei disturbi mentali sulla base
di dimensioni comportamentali e misure
neurobiologiche». 1 Il progetto RD oC , di fatto,
si pone l’obiettivo di fare da ponte tra i
moderni approcci di ricerca in genetica e
neuroscienze comportamentali e i problemi
della salute mentale, studiati in modo
indipendente dall’attuale sistema di
classificazione.
Come abbiamo visto, raccontare la storia
della depressione consiste essenzialmente
nell’esaminare i vari tentativi che sono stati
fatti nel corso del tempo per definirla. Nel
1869 la rivista americana «The Boston Medical
and Surgical Journal» pubblicò il primo
articolo psichiatrico con ampia influenza e
rilevanza nel mondo accademico e
scientifico. 2 Quell’articolo, firmato dal
neurologo statunitense George Beard,
contribuì enormemente a far uscire la
psichiatria dall’ambito settoriale,
prescientifico, distante da una metodologia
osservazionale empirica, in cui era confinata
in quanto «sorella minore» della medicina.
Questa condizione, per certi versi, è rimasta
immutata per molto tempo, basti pensare a
un editoriale del «New England Journal of
Medicine» (NEJM ), pubblicato negli anni
Settanta del Novecento, in cui la psichiatria
veniva definita «la figlia maltrattata della
medicina». 3
È interessante notare che l’articolo di
Beard introdusse un concetto tuttora molto
utilizzato, non in ambito accademico, ma
nell’opinione pubblica e tra la gente comune:
il concetto di «esaurimento nervoso». Ancora
oggi molti pazienti si rivolgono al medico di
base o allo psichiatra lamentando non di
essere depressi, ma di essere afflitti da una
condizione di «esaurimento» – «Sono
stanchissimo… Non ce la faccio ad alzarmi…
Sono esaurito» –, probabilmente a causa della
potenza suggestiva ed evocativa di questa
espressione. Secondo Beard, questa
condizione si incontrava più frequentemente
in «contesti civilizzati e colti», in quanto parte
di una sorta di «compensazione del nostro
progresso», quasi fosse un prezzo da pagare
all’evoluzione culturale, sociale ed
economica. La riflessione di Beard ha
anticipato il modello bio-psico-sociale di
malattia di George Engel e anche alcuni dati
emersi recentemente dalla ricerca scientifica
circa il peso dei contesti ambientali
all’interno di una traiettoria psicopatologica.
Nel 1977 Engel pubblicò su «Science» un
celebre articolo in cui teorizzava il modello
bio-psico-sociale. 4 Tale modello, derivato
dalla teoria generale dei sistemi, considera
nel sistema biologico il substrato anatomico
strutturale e molecolare della malattia, nel
sistema psicologico gli effetti dei fattori
psicodinamici, delle motivazioni e della
personalità e nel sistema sociale l’incidenza
degli aspetti familiari socioculturali.
In Lutto e melanconia (1917), Freud così
scriveva: «Nel lutto il mondo si è impoverito e
svuotato, nella melanconia impoverito e
svuotato è l’Io stesso». 5 Nella tristezza vitale
accade un impoverimento ancora più intenso
della vita emozionale e una vera e propria
perdita delle «funzioni base della vitalità». È
la perdita dell’élan vital (slancio vitale), che è
percepita a livello psichico come tristezza ma
è un sentimento avvertito a livello fisico come
un’oppressione fisica e psichica. Lo
psicopatologo Kurt Schneider la descrive
come «un sentimento di stanchezza e
mancanza di vigore che viene riportato a
livello psichico come tristezza». 6 La tristezza
vitale può localizzarsi a livello toracico,
gastrointestinale. Inoltre, non solo è una
tristezza incarnata nel corpo-soma, ma altera
il senso del tempo. Esiste solo un presente
dilatato, in cui il passato e il futuro sono
«presenti» come «colpe, proiezioni, errori,
ricordi». Sentimenti capaci di bloccare
dolorosamente l’esistenza della persona,
togliendole e negandole ogni vitalità. La
depressione è una malattia del tempo, un
tempo tanto espanso quanto immobile, un
tempo «macigno» che schiaccia l’esistere e lo
trasforma in peso.
Contributi teorici successivi hanno fornito
definizioni e concettualizzazioni
psicopatologiche via via più complesse,
introducendo concetti come quelli di lutto,
tristezza vitale, melanconia.
Bisogna però attendere il 1968 perché il
termine «depressione» entri nella nosografia
ufficiale. In quell’anno, il DS M -II inserì la
«nevrosi depressiva» tra le diagnosi
codificate, definendola come un’eccessiva
reazione depressiva causata da un conflitto
interno o da un evento chiaramente
identificabile, quale, per esempio, la perdita
di una persona cara o di qualcosa a cui si
tiene particolarmente». Gli autori
differenziarono questo disturbo dalla
«melanconia involutiva» e dalla «malattia
maniaco-depressiva»; al contrario, le
«depressioni reattive o le reazioni depressive
rientrano in questo ambito». 7
È interessante notare che sin da allora il
DS M tentava di differenziare le forme reattive
dalle forme endogene. Si tratta di una
differenziazione non meramente definitoria,
né tantomeno statistica, ma che va al cuore
del problema, cioè distinguere la «vera»
malattia depressiva rispetto alle forme
reattive. Nel primo caso viene
frequentemente utilizzato il termine
«depressione endogena», proprio per
rimarcare la natura di malattia a prescindere
dal contesto circostante. Nel secondo caso si
parla invece di «depressione reattiva», per
connotare uno stato depressivo conseguente
a fattori ambientali stressanti, lutti o traumi.
Resta il problema di definire che cos’è la
depressione, quali sono i suoi sintomi chiave
e qual è il confine con l’esperienza transitoria
e fisiologica della tristezza.
La psichiatria, per definire le sue malattie,
ha sempre cercato di individuare dei sintomi
patognomonici, cioè sintomi univocamente
associati a ciascuna forma nosologica (per
esempio, la rigidità nucale è caratteristica
della meningite), ma i tentativi degli
psichiatri sono sempre andati a vuoto,
pertanto la diagnosi diventa possibile solo
componendo insieme diversi tipi di sintomi,
nessuno dei quali è sovraordinato rispetto
agli altri né costituisce un sintomo
patognomonico del disturbo. Questo concetto
vale anche per la depressione e per i criteri
diagnostici proposti dal DS M -5 .
Quando si «entra in depressione» si vive
uno stato affettivo in cui la tristezza e la
perdita della spinta vitale sono quasi sempre
presenti, ma esprimono solo una parte della
complessità sintomatologica provocata dal
dolore depressivo patologico che «paralizza»
olotimicamente sia il soma sia la psiche. È
frequente incontrare persone depresse in cui
l’umore è talmente cupo e compatto da
impedire anche di verbalizzare l’esperienza
della tristezza. Le componenti somatiche del
dolore possono impedire un’elaborazione di
ordine psichico dei propri vissuti e diventare
prevalenti nel rappresentare lo stato
depressivo. Il quadro depressivo racchiude
diverse sfumature cliniche, corrispondenti a
diverse dimensioni/aree dell’esperienza
soggettiva: la dimensione affettivo/emotiva, la
dimensione cognitiva, la dimensione
motivazionale, la dimensione legata alla
motricità e alla temporalità, la dimensione
vegetativa e fisica (vedi Tabella 1). 8
I sistemi nosografici succedutisi nel
tempo, attraverso la costruzione di schemi
diagnostici fondati sul riscontro di precisi
sintomi/criteri, hanno cercato di abbracciare
la complessità fenomenica della depressione,
e hanno tentato di andare «oltre la tristezza»,
considerandola sì un sintomo cardine, ma da
inserire in un contesto sintomatologico più
ampio. Si è ritenuto cioè che limitare la
diagnosi di depressione alla presenza del solo
umore depresso o triste sarebbe stato
riduttivo e non avrebbe colto la vastità e
varietà sintomatologica dello stato
depressivo.

Tabella 1
DIMENSIONI/AREE DELL’ESPERIENZA SOGGETTIVA DELLA
DEPRESSIONE E RELATIVI SINTOMI

Dolore, Anedonia, Colpa, Vergogna,


Dimensione Inutilità, Ridotta autostima,
affettivo/emotiva Helplessness, Hopelessness, Negative
affect
Fallimento, Senso di inferiorità, Incertezza,
Rallentamento
Dimensione ideico, Disturbi della memoria, Alterazione
cognitiva dell’immagine corporea, Ideazione di colpa
o
ipocondriaca, Bias negativo su di sé
Tendenza a evitare impegni/sforzi,
Dimensione
Aumento delle
motivazionale
dipendenze, Idee suicidarie
Dimensione legata
Rallentamento, Inibizione,
alla
Presentificazione, Rivalutazione
motricità e alla
pessimistica del passato
temporalità
Disturbi dell’appetito e del peso corporeo,
Dimensione
Disturbi
vegetativa e fisica
digestivi, Disturbi del sonno
La diagnosi di depressione (disturbo
depressivo maggiore) secondo il DS M -5 (vedi
Tabella 2) prevede la presenza di almeno
cinque dei sintomi elencati, per un periodo di
almeno due settimane. Fra i cinque sintomi
devono essere presenti «umore depresso»
(inteso non solo come il «sentirsi tristi, vuoti,
disperati», ma anche come la «lamentosità
osservata da altri») o «perdita di interesse o
piacere». 9 Mentre i segnali psicologici della
depressione sono relativamente noti, esistono
ancora molti pregiudizi sui «sintomi fisici»,
anche se i disturbi fisici della depressione
sono numerosi e possono riguardare il sonno,
l’alimentazione, le capacità cognitive e la
sessualità. I pazienti si sentono stanchi
nonostante il riposo. Il sonno è molto
disturbato e non soddisfacente, si possono
avere problemi di insonnia o, viceversa, di
ipersonnia. Anche i disturbi dell’appetito
sono frequenti: la persona depressa può
perdere rapidamente peso o, al contrario,
guadagnarlo. La depressione altera i
meccanismi cognitivi: sono presenti difficoltà
a riflettere o a esprimersi, calo della
concentrazione e perdita di memoria.
Frequentemente la vita sessuale è bloccata; la
libido, il desiderio sessuale, è assente. Infine,
si riscontrano molti disturbi fisici come mal
di testa, mal di schiena o mal di pancia. Che
siano psicologici o fisici, tutti i sintomi della
depressione influiscono intensamente sulla
qualità della vita della persona, alterandone
ritmi, abitudini, relazioni sociali. Infatti, il
DS M -5 riporta che i sintomi devono causare
disagio o compromissione clinicamente
significativi in ambito sociale, occupazionale
o in altro ambito funzionale importante.
Quando la sintomatologia è
prevalentemente di tipo somatico si parla di
«depressione mascherata». I sintomi più
comuni sono l’insonnia e la stanchezza; sono
inoltre presenti dolori alle gambe, senso di
oppressione toracica, difficoltà digestive e
dell’alvo, mal di testa, dolori muscolari. A
questi si aggiungono la difficoltà ad alzarsi
dal letto, la difficoltà di comunicazione, il
rimuginare sulla sintomatologia e sui
possibili eventi negativi che si verificheranno,
e la drastica riduzione della vita sociale.

Tabella 2
SINTOMI ELENCATI NEL CRITERIO A DEL DISTURBO
DEPRESSIVO MAGGIORE (DSM-5).
1. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi
ogni giorno

2. Marcata diminuzione di interesse o piacere (anedonia)


per tutte, o quasi tutte le attività, per la maggior parte
del giorno

3. Perdita di peso significativa in assenza di diete o aumento


di peso (per esempio può essere significativa una
variazione del peso corporeo superiore al 5% nell’arco di
un mese), o riduzione/aumento dell’appetito quasi ogni
giorno

4. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno


5. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno

6. Fatica o mancanza di energia quasi ogni giorno

7. Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o


inappropriati quasi ogni giorno

8. Ridotta capacità di pensare o concentrarsi, o indecisione


quasi ogni giorno

9. Pensiero ricorrente di morte (non solo paura di morire),


ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico,
oppure tentato suicidio o piano specifico per suicidarsi

I sintomi sono più evidenti al mattino (la


cosiddetta «variazione circadiana»), e per
questo motivo i soggetti non svolgono le
normali attività quotidiane, si assentano dal
lavoro oppure non portano a compimento le
attività programmate per la giornata. Spesso i
pazienti si sottopongono a numerosi esami
clinici, per cercare di dare una spiegazione ai
sintomi da cui sono affetti. Generalmente,
tutti gli esami effettuati, anche i più invasivi,
non segnalano alcuna patologia medica
grave: questo genera ancora di più
preoccupazione e sconforto.

I sottotipi
La depressione non ha solo una «faccia», ma
si può presentare in modi molto diversi, tanto
che possiamo dire che le «facce», cioè i
sottotipi, della depressione si distinguono
sulla base delle caratteristiche
fenomenologiche di un determinato quadro
clinico. In questo paragrafo passeremo in
rassegna i sottotipi di depressione per fornire
una panoramica delle diverse modalità in cui
il disturbo si presenta.

DEPRESSIONE CON MANIFESTAZIONI


MELANCONICHE
La depressione con manifestazioni
melanconiche è da sempre considerata una
delle forme più gravi di depressione. Il
termine «melanconia» ha attraversato la
storia della medicina proprio per connotare
una particolare qualità di umore depresso.
Nel saggio Lutto e melanconia, Freud aveva
usato espressioni come «scoramento», «attesa
delirante di una punizione», «svuotamento
dell’Io». 10 Oggi, la depressione con
manifestazioni melanconiche viene definita
come una forma depressiva nella quale il
quadro clinico è dominato da anedonia,
alterazioni circadiane e, soprattutto, sintomi
dell’area psicomotoria e vegetativa. Cosa
significa?
L’anedonia consiste nella perdita di piacere
nello svolgere attività che in precedenza
erano fonte di soddisfazione e gratificazione.
È una caratteristica fondamentale della
depressione in generale, ma nella
depressione con manifestazioni
melanconiche raggiunge la forma più grave.
Non si tratta soltanto di una perdita di
interessi, ma di una scomparsa totale, o
quasi, del piacere legato a cose anche
semplici, come per esempio conversare con
un amico o un familiare, leggere un libro o,
nei casi più gravi, mangiare. Il cibo, fonte
tradizionale di piacere, perde il suo potere
«edonico» e, spesso, il dimagramento che ne
consegue può essere drammatico. In fondo,
non è azzardato parlare di una «malattia del
piacere» nel caso della melanconia.
Con «alterazioni circadiane» intendiamo,
invece, la variazione dell’umore nel corso
della giornata: in particolare, una tonalità
depressiva particolarmente grave al mattino,
che tende poi a ridursi nel corso della
giornata.
In questa variante della depressione
maggiore, la componente somatica è parte
integrante del quadro clinico. Il
rallentamento sia psichico sia motorio, tipico
di questa forma, è caratterizzato da eloquio
lento, tono di voce monotono e sottomesso,
rallentamento di tutti i movimenti e povertà
della mimica. L’inibizione del pensiero
ostacola la capacità di prendere le decisioni.
Il melanconico appare bloccato, il suo
pensiero è rallentato e si avvita su se stesso,
determinando una condizione di perplessità
cronica, di incapacità a prendere ogni
decisione, anche quella più banale. D’altro
canto, il paziente melanconico può
presentare anche forti aspetti di agitazione
psicomotoria: può manifestare un
atteggiamento irrequieto, essere incapace di
stare fermo, camminare avanti e indietro,
stropicciarsi frequentemente le mani,
sospirare, lamentarsi e ripetere, in maniera
continua, le stesse domande e le stesse frasi.
A differenza delle grandi scuole
psicopatologiche del passato che
consideravano la melanconia una depressione
a sé stante (endogena) differente dalle altre
forme depressive (psicogene), gli attuali
sistemi diagnostici comprendono la
melanconia nel disturbo depressivo
maggiore, considerandola una variante più
grave della depressione comune.

DEPRESSIONE CON MANIFESTAZIONI


ATIPICHE
La depressione con manifestazioni atipiche
presenta un quadro clinico in qualche modo
«deviante» rispetto alla classica forma
depressiva. La sua atipicità è dovuta
soprattutto alla reattività dell’umore. Mentre
il paziente depresso presenta comunemente
un umore deflesso in modo «rigido»,
«stabile», in questo sottotipo di depressione
l’umore, pur essendo depresso, può essere
reattivo alle situazioni ambientali,
consentendo di riacquistare improvvisamente
gioia e iniziativa. Bastano, però, contrarietà e
delusioni anche minime per far riprecipitare i
pazienti nella depressione profonda con
reazioni emotive talora eccessive o con la
messa in atto di gesti autolesivi. La reattività
dell’umore non modifica il quadro clinico di
fondo ma, certamente, descrive un’atipicità
sostanziale. Nella depressione «atipica» la
persona manifesta aumento di peso e
ipersonnia, anziché calo ponderale e
insonnia. Infine, può manifestarsi la
cosiddetta «paralisi plumbea», una
sensazione di pesantezza agli arti superiori o
inferiori molto invalidante, che può arrivare a
configurare una pseudoparalisi.

DEPRESSIONE CON MANIFESTAZIONI


CATATONICHE
Se nella depressione con manifestazioni
melanconiche può esserci un rallentamento
motorio importante, nella depressione con
manifestazioni catatoniche tale rallentamento
arriva al suo grado estremo, al blocco, alla
paralisi motoria. Questo tipo di depressione è
di particolare gravità e richiede, in genere, il
ricovero in ambiente specialistico. Il paziente
catatonico è facilmente riconoscibile, ma è
necessario riuscire a comprendere se tale
manifestazione sia la conseguenza di un
grave stato depressivo o di una grave forma
psicotica.
Le caratteristiche principali del quadro
clinico sono le manifestazioni motorie:
rallentamento psicomotorio fino al
raggiungimento del quadro catalettico e dello
stupor. Oppure si può osservare una forma
con aumento, a volte eccessivo, dell’attività
motoria («catatonia agitata»). Il paziente non
risponde alle sollecitazioni esterne
(negativismo) e non di rado finisce con
l’assumere posizioni strane o bizzarre
rispetto al contesto. In genere il paziente è
mutacico, non parla neanche se sollecitato,
oppure ripete le parole dell’altro. Si tratta di
un quadro clinico di particolare gravità; oggi,
per fortuna, più raro rispetto al passato,
grazie alla possibilità di un intervento
farmacologico precoce.

DEPRESSIONE CON MANIFESTAZIONI


PSICOTICHE
La depressione con manifestazioni psicotiche
è una forma depressiva a cui si sovrappone la
presenza di sintomi psicotici. In particolare,
l’umore è così depresso da influenzare il
pensiero e condurlo verso veri e propri stati
deliranti congrui con l’umore triste. La
persona depressa vivrà il mondo con
fortissimi sensi di colpa e di inadeguatezza,
sviluppando pensieri di malattia, di morte, di
nichilismo o di punizione meritata.

DEPRESSIONE BIPOLARE
Circa il 15% dei pazienti affetti da un
episodio depressivo maggiore in realtà ha un
disturbo bipolare. Il disturbo bipolare è
caratterizzato da un’alternanza ricorrente di
episodi depressivi ed episodi maniacali,
caratterizzati da marcata espansione del tono
dell’umore. A oggi, la letteratura non ha
individuato caratteristiche patognomoniche
della depressione bipolare rispetto al
disturbo depressivo unipolare. Tuttavia
esistono caratteristiche che sono più tipiche
della depressione bipolare come l’ipersonnia,
l’iperfagia, il rallentamento psicomotorio e
un ipertrofico, fino a livelli francamente
patologici, senso di colpa. I pazienti affetti da
depressione bipolare hanno comunemente
un’età di esordio più precoce, episodi
depressivi generalmente di durata minore e
una storia familiare di disturbo bipolare. Il
trattamento della depressione bipolare è
considerato più complesso, principalmente
per due motivi: il maggior rischio di suicidio
e l’elevato rischio di passaggio rapido dalla
depressione alla fase «contropolare»
maniacale. Gli antidepressivi sono spesso
controindicati nel disturbo bipolare proprio
perché aumentano il rischio di passaggio da
una fase all’altra. La difficoltà di utilizzo dei
farmaci è un fattore che complica
ulteriormente il trattamento di questa
condizione.
DEPRESSIONE AD ANDAMENTO
STAGIONALE
Il ritornello di una famosa canzone diceva:
«Scende la pioggia, ma che fa, crolla il mondo
addosso a me…»; mentre le parole di un’altra
vantavano l’effetto taumaturgico del sole:
«Here comes the sun and I say it’s all right», che
significa «Sta arrivando il sole e io dico che va
tutto bene». Il rapporto tra il tempo
atmosferico e il nostro umore è non solo uno
degli argomenti di conversazione più
frequenti, ma anche una delle «certezze della
vita» socialmente più riconosciute.
L’influenza del sole, della luna, delle nuvole e
della pioggia sullo stato d’animo è accettata
da tutti noi.
La ricerca psichiatrica ha studiato
approfonditamente il rapporto tra i
cambiamenti stagionali e la depressione,
arrivando a definire il disturbo affettivo
stagionale come un sottotipo di disturbo
dell’umore con particolari caratteristiche di
esordio e remissione. Secondo
l’Organizzazione mondiale della sanità, il
30% della popolazione soffre di cambiamenti
d’umore legati alle variazioni climatiche.
Anche le malattie cosiddette «fisiche» come
l’emicrania, l’artrosi e l’ulcera gastrica,
subiscono l’influenza delle stagioni con
ripercussioni sul benessere psichico.
Le variazioni climatiche e il succedersi
delle stagioni influenzano il benessere psico-
fisico, causando fenomeni transitori, ove
scarsa energia e insonnia costituiscono una
semplice fase di adattamento al cambio di
stagione, o quadri clinici più complessi, come
la depressione ad andamento stagionale.
Il termine «disturbo affettivo stagionale» è
stato coniato nel 1984 dallo psichiatra
Norman Rosenthal per descrivere un
sottotipo di disturbo dell’umore, da cui lui
stesso era affetto. Rosenthal ha avuto il
merito di elencare i criteri diagnostici che si
sono rivelati utili per le successive
classificazioni psichiatriche: la ricorrenza in
autunno-inverno, l’assenza di eventi psico-
sociali stagionali scatenanti (per esempio,
periodi di disoccupazione), l’assenza di
disturbi dell’umore in primavera e in
estate. 11 Tipicamente la depressione inizia in
autunno o inverno e migliora in primavera ed
estate. Certe volte si alterna con periodi in cui
vi è un aumento dell’energia e un ridotto
bisogno di sonno.
Si calcola che il 15-20% dei disturbi
dell’umore abbia un pattern stagionale; esiste
anche un quadro subsindromico, definito
winter blues, caratterizzato da sintomi
depressivi attenuati che si manifestano solo
in inverno. I sintomi caratteristici della
depressione stagionale sono la mancanza di
energia, più evidente nelle ore serali,
l’ipersonnia, con necessità di dormire molto
più a lungo del solito, l’aumento dell’appetito
e la ricerca compulsiva di dolci, con
conseguente aumento di peso. Spesso viene
sottovalutata la gravità del disturbo e questo
può facilitare il ricorso a sostanze attivanti,
come caffè o farmaci psicotropi da banco, nel
tentativo di automedicarsi e far fronte al calo
di efficienza lavorativa e relazionale.
Come nelle altre forme di depressione,
anche nel disturbo stagionale si possono
manifestare pensieri suicidari. Il suicidio
stesso sembra avere un pattern stagionale,
con un picco in primavera e autunno e una
riduzione in inverno. È stato notato che i
suicidi compiuti con modalità più violente
sarebbero invece più frequenti in estate, un
periodo in cui statisticamente si registra un
aumento anche di altri comportamenti
aggressivi auto- ed eterodiretti. Le donne
sono più vulnerabili agli effetti della
stagionalità sull’umore, verosimilmente in
virtù del diverso assetto endocrino e
riproduttivo (per un ulteriore
approfondimento di tale rapporto, vedi il
successivo sottoparagrafo «Luce e
depressione»).
Meglio depressi o infelici?
Due pensionati seduti su una panchina, come se
ne vedono spesso nei parchi o in giro per la città.
Entrambi sembrano malconci, con gli occhi a
mezz’asta; uno dei due si appoggia a un bastone e
domanda all’altro: «Depresso?». E l’altro, con il
capo coperto da una bandana, risponde: «Magari!
Infelice». È amara e sorprendente l’ironia di
Altan. 12 La depressione, male oscuro del XX
secolo, è vista come un miraggio, il problema è
piuttosto l’infelicità. Con questa battuta, Altan
mette involontariamente in scacco decenni di
discussioni scientifiche su cosa sia la depressione e
quale sia il modo migliore per definirla. Basti
pensare che in un recente articolo pubblicato su
una prestigiosa rivista americana, gli autori
affermano: «I sintomi della depressione maggiore
definiti dal DSM-5 differiscono dai sintomi
misurati attraverso le scale cliniche e la
questione empirica su quali siano i sintomi
cardine della depressione è irrisolta». 13 La
questione, dunque, non è ancora stata risolta e si
potrebbe dire, ironicamente, che gli autori di
quello studio non hanno letto Altan! L’aspetto
interessante della vignetta è che Altan sembra
porre una gerarchia concettuale, nella quale la
dimensione umana, esistenziale, dell’infelicità
prevale sull’inquadramento nosografico della
depressione.
Tale problematica, in realtà, non sfugge al
dibattito psichiatrico e neuroscientifico. Uno
studioso australiano, Gordon Parker, ha dedicato
una parte consistente della sua attività di ricerca
al tentativo di distinguere in modo scientifico la
«tristezza» (grief) dalla «tristezza complicata»
(complicated grief) e dalla depressione. 14 A
tutt’oggi non sono stati trovati biomarker clinici
(come parametri ematici o neuroradiologici) in
grado di far diagnosticare con certezza la
depressione.
Ma torniamo ad Altan. Nei suoi lavori, il
fumettista lega l’infelicità al nostro contesto
storico, alle difficoltà lavorative, alla caduta
degli ideali e delle speranze. Lancia uno sguardo
ironico sulla condizione esistenziale dell’uomo
postmoderno. «“Sono ateo.” “Io no, credo nel
SuperEnalotto.”» Dopo il mitico Cipputi, simbolo
disilluso di una classe operaia ormai estinta,
Altan disegna l’uomo qualunque. Possono essere
i due anziani seduti sulla panchina di un parco o
la coppia stanca e casalinga, lei davanti ai
fornelli e lui in poltrona nel tinello (cui Altan ha
dedicato una serie di vignette). 15 Si potrebbe
commentare: «Poteva andare peggio…». «No» è
l’amara chiosa. In un’intervista, parlando dei
film di Paolo Sorrentino, Altan afferma che dalla
scena emana «una disperazione controllatissima,
un’atmosfera sconfortante, il quadro di
un’umanità che in sé ha gli anticorpi per non
abbandonarsi al dolore». 16
Dal canto suo il regista, in un’intervista,
spiega che «la malinconia pone una sorta di
amorevole distanza dalle cose … Malinconia e
ironia sono due filtri che aiutano molto a
rapportarsi al mondo … L’autoironia è lo
strumento più prossimo alla malinconia. Però, se
la malinconia si avvita su se stessa, può
rappresentare una condanna». 17
La coppia di coniugi protagonista di molte sue
vignette testimonia la caducità del desiderio, la
perdita di slancio, il tramonto delle passioni. In
particolare, il marito confida la «perdita di
passione» per la politica, facendosi così portavoce
di un sentimento popolare molto diffuso, tale da
determinare la nascita di movimenti di
antipolitica; in realtà, l’uomo rivela – ed è
prontamente smascherato dalla sua acuta
consorte – che non si tratta dello spegnimento
dell’interesse politico, ma dello spegnimento
dell’interesse e del desiderio in senso lato, cioè
una condizione non banalmente attribuibile a
questo o all’altro partito politico, ma
intrinsecamente legata a un’involuzione della
spinta vitale. In termini clinici, possiamo
considerare la «perdita della passione» come
depressione? La clinica psichiatrica ha ben
presente che il concetto di depressione è più ampio
e complesso.
La ricchezza di Altan sta proprio nel
descrivere, con una battuta, condizioni
esistenziali che in taluni casi si elevano a una
dimensione clinica, ma che indubbiamente
riguardano tutti noi nella nostra quotidianità. E
allora, cosa fare? Quale soluzione per questo
uomo qualunque postmoderno, infelice e privo di
passioni, che sopravvive a fatica alla sua
stanchezza? «“Siamo sull’orlo del baratro!”
“Goditi il panorama.”» Cioè, fai del baratro,
della perdita di ideali, della caduta degli eroismi
e delle passioni, delle difficoltà lavorative e delle
ingiustizie sociali il tuo spettacolo: non da
recitare, ma da osservare come spettatore, inerte,
è vero, ma in grado di sopravvivere e non finirci
dentro.

I confini
ANSIA E DEPRESSIONE
Come abbiamo visto, i criteri stilati nel DS M -5
per porre una diagnosi di depressione non si
limitano solo alla tristezza o all’umore
depresso, ma inquadrano una serie di sintomi
diversi, tra i quali quelli «fisici». Tuttavia,
definire la depressione, ossia circoscrivere il
suo nucleo psicopatologico fondamentale e
differenziarlo dagli stati reattivi fisiologici, è
una sfida ancora aperta per il mondo
accademico e scientifico. Riconoscere i
confini della depressione non è soltanto una
necessità statistica o epidemiologica ma, in
primis, concettuale. A tale riguardo, uno degli
interrogativi più frequenti è il rapporto tra
ansia e depressione. L’esperienza comune
dello psichiatra può testimoniare che spesso i
pazienti fanno fatica a distinguere i due
fenomeni oppure, altrettanto
frequentemente, interrogano il clinico su
quale dei due aspetti sia prioritario rispetto
all’altro. Uno dei più importanti studi
condotti finora sulla depressione (lo studio
S TAR*D ) ha rivelato un dato eloquente: su un
totale di 2876 pazienti depressi studiati negli
Stati Uniti, il 53,2% aveva ricevuto una
diagnosi di «depressione ansiosa». 18 Lo
studio aggiungeva un dato piuttosto
allarmante: i pazienti con depressione
ansiosa evidenziavano un tasso di risposta al
trattamento peggiore.
Come interpretare questo dato? Una delle
possibilità avanzate dagli studiosi è
considerare l’ansia un fattore aggiuntivo, «in
comorbilità», come si dice tecnicamente. La
presenza di un elemento psicopatologico
aggiuntivo complicherebbe la depressione e
renderebbe il trattamento più difficile.
Un’altra possibilità consiste nel considerare
l’ansia non come un elemento aggiuntivo
bensì come parte di un quadro clinico unico.
Non a caso, nel D S M -I V -T R , nella sezione
dedicata ai «Criteri e Assi utilizzabili per
ulteriori studi», era stato proposto il
«Disturbo Ansioso Depressivo Misto». 19
Nell’ultima edizione del DS M , alla diagnosi di
depressione è stata aggiunta la possibilità di
un’ulteriore specifica, quella di un episodio
depressivo «con ansia», che indica la
presenza di una marcata quota d’ansia e
angoscia. Si può notare che gli sforzi di
concettualizzare con più precisione e di
definire meglio la depressione sono dettati
dal tentativo di cogliere il nucleo
psicopatologico di questi fenomeni e
definirne i confini.

LUTTO E DEPRESSIONE
Una delle questioni più spinose nel
delimitare i confini della depressione volendo
differenziare, per esempio, le forme reattive
da quelle esogene, riguarda il lutto. La
perdita di una persona cara è per definizione
un evento traumatico che porta con sé
infelicità, tristezza, rabbia, paura. È un
fenomeno trasversale nella popolazione, con
il quale ciascun individuo, prima o poi, sarà
costretto a confrontarsi. Nella condizione di
lutto bisogna affrontare non solo la
scomparsa di una persona cara, ma
confrontarsi anche con il tema della fine della
vita; per questo motivo, sollecita spesso
reazioni emotive di paura che possono
sfociare in traiettorie psicopatologiche come
depressione vera e propria, ipocondria,
vissuti post-traumatici. La questione che da
tempo i ricercatori si sono posti è come
circoscrivere i vissuti emotivi depressivi che
si innescano naturalmente,
«fisiologicamente», negli individui colpiti da
un evento luttuoso, distinguendoli da un vero
e proprio sprofondamento depressivo.
La perdita di interesse e di piacere dovuta
alla mancanza della persona amata, le forti
emozioni scatenate dai ricordi e il tentativo di
evitare le situazioni che possano farli
riemergere, i sentimenti di colpa e
autoaccusa, i pensieri improvvisi che
riportano alla rievocazione della persona
scomparsa, il desiderio e la nostalgia sono gli
elementi caratteristici del dolore acuto del
lutto.
Il DS M -IV-TR , nei criteri per la diagnosi di
Depressione Maggiore, precisava: «Dopo la
perdita di una persona amata, anche se i
sintomi depressivi sono sufficienti per durata
e per numero a soddisfare i criteri per
l’Episodio Depressivo Maggiore, essi
dovrebbero essere attribuiti al Lutto». Gli 20

autori del DS M -IV si erano «rifugiati» in un


criterio temporale, accantonando la
possibilità di operare una distinzione tra le
due condizioni, basata sul riconoscimento di
una qualità clinica differente. Il criterio
temporale adottato dai curatori del DS M -IV-TR
era due mesi: se i sintomi depressivi
persistevano per due mesi dopo l’evento
luttuoso, lo psichiatra era autorizzato a porre
la diagnosi di depressione.
La quinta edizione del manuale
diagnostico americano ha eliminato questo
criterio temporale, sollevando non poche
polemiche. La specifica temporale è stata
sostituita da una nota che suggerisce al
clinico di valutare con attenzione se, in caso
di eventi legati alla perdita (come lutto, gravi
problemi economici, disastri naturali,
malattia o disabilità), il soggetto presenti i
sintomi di un «episodio depressivo» in
aggiunta alla fisiologica reazione naturale che
si avrebbe dopo un evento del genere.

I «CORE SYMPTOMS» DELLA DEPRESSIONE


Il dibattito sui confini della depressione,
dunque, non è ancora del tutto risolto. A ogni
modo, la caratteristica che si è rivelata più
utile per differenziare le forme endogene
dagli altri tipi di disturbi depressivi è il
rallentamento psicomotorio. Questo
fenomeno si manifesta con una progressiva
riduzione dei movimenti spontanei del
soggetto, accompagnata da una riduzione
della mimica e dell’espressione facciale.
L’eloquio diventa scarso e monotono e, in
generale, si assiste a una globale riduzione
dell’attività ideica. Questa condizione di
rallentamento è tipica delle forme
«melanconiche», le forme più gravi della
depressione, e in alcune condizioni, anche se
piuttosto rare, può arrivare sino al blocco
catatonico.
Nel 1997 C. Sobin e H.A. Sackheim, in un
articolo pubblicato sulla rivista «American
Journal of Psychiatry», hanno affermato che i
«sintomi psicomotori potrebbero essere
considerati i soli sintomi della depressione in
grado di differenziare vari sottotipi» 21 e in
grado di fornire un valore predittivo rispetto
al trattamento antidepressivo. In un
contributo monografico del 1996, intitolato
«La melanconia come un disturbo dell’umore
e del movimento», è stata pubblicata una
scala di misurazione dei sintomi
22
psicomotori. Questa scala valuta i seguenti
criteri:

1. Non interattività
2. Immobilità facciale
3. Cadute posturali
4. Non reattività
5. Apprensione a livello della mimica
facciale
6. Ritardo nella risposta verbale
7. Lunghezza delle risposte verbali
8. Inattenzione
9. Agitazione facciale
10. Immobilità corporea
11. Agitazione motoria
12. Povertà delle associazioni
13. Movimenti rallentati
14. Stereotipia verbale
15. Ritardo nell’attività motoria
16. Difficoltà nell’eloquio spontaneo
17. Rallentamento della frequenza
dell’eloquio
18. Movimenti stereotipati

Ciascuno di questi criteri meriterebbe una


trattazione specifica e approfondita che ne
illustri il significato e la valenza
psicopatologica. In questo contesto è
sufficiente sottolineare come il concetto di
depressione sia ben lontano dal «semplice»
riconoscimento della tristezza. C’è una serie
di segni e sintomi «indiretti», cioè non
immediatamente correlabili alla dimensione
dell’umore, che però hanno grande valenza in
psichiatria. Come vedremo nel capitolo «Il
lessico della depressione», la semeiotica, cioè
il riconoscimento dei segni e dei sintomi di
natura psicomotoria, svolge un ruolo
fondamentale nella diagnosi.

CORPO E DEPRESSIONE
Un altro tema clinicamente significativo è il
rapporto tra la depressione e il corpo. È un
intreccio ancora misterioso che si manifesta
principalmente con la cefalea e con sintomi a
carico dell’apparato cardiovascolare e
gastrointestinale.
La cefalea nelle sue varie forme – sinusite,
cefalea a grappolo, cefalea tensiva, emicrania
– è un disturbo molto frequente; in Italia, ne
soffrono oltre venti milioni di persone,
soprattutto donne. Incide sulla qualità della
vita di chi ne è affetto e ha costi sociali
altissimi, basti pensare che ogni anno almeno
duecento milioni di ore lavorative vengono
perse a causa di questo disturbo. Sebbene il
mal di testa sia un’esperienza diffusa – è
capitato a tutti di provare almeno una volta
nella vita dolore alle tempie, o alla nuca, o a
un lato della testa – è tuttavia un disturbo
spesso concomitante con la depressione:
quasi il 50% dei pazienti cefalalgici è
depresso. Ancora più evidente è la
correlazione tra ansia e cefalea: i disturbi
d’ansia sono presenti in oltre la metà dei
pazienti con cefalea. Naturalmente, è vero
anche l’opposto, i pazienti depressi o ansiosi
hanno un rischio molto alto di soffrire di
cefalea. È comunque importante sottolineare
che non tutte le cefalee devono essere
considerate parte di un quadro clinico
psicopatologico e, all’interno di un corretto
percorso diagnostico, è necessario effettuare
prima di tutto una valutazione neurologica.
La cefalea di tipo tensivo è probabilmente
la più frequente forma di mal di testa. I
pazienti riferiscono dolore gravativo,
costrittivo, generalmente bilaterale. Lo stress,
l’ansia e la depressione rappresentano cause
scientificamente riconosciute, ma nella
maggior parte dei casi chi soffre di questo
disturbo non riesce a riconoscere il legame
con l’aspetto psichico. In altre parole, le
persone che soffrono di cefalea collegata alla
depressione difficilmente prendono in
considerazione le cause psicologiche alla base
del mal di testa. Spesso preferiscono ricorrere
all’automedicazione e tendono a sviluppare
una grave dipendenza dall’uso di analgesici.
Più complesso è il rapporto tra
depressione e apparato gastrointestinale. Nel
1998, viene pubblicato Il secondo cervello, in
cui l’autore, il medico Michael D. Gershon,
afferma che oltre all’encefalo esisterebbe un
secondo cervello, non meno importante, nella
«pancia». 23 Il primo cervello sarebbe quello
critico, cosciente, morale, che sceglie il bene o
il male; l’intestino sarebbe invece il cervello
«inconscio» che risponde alle pressioni
dell’ambiente esterno, metabolizza le
emozioni, gioisce, si tormenta e soffre. Al
cervello addominale sono affidate le decisioni
viscerali, spontanee e inconsapevoli, le
cosiddette risposte «di pancia».
Molti di noi, nel corso della vita, avranno
intuito che l’intestino ha una sua memoria,
che reagisce alla tristezza, all’ansia, allo stress
in modo autonomo, a volte prima dell’altro
cervello, con un linguaggio fatto di spasmi,
nausee, gonfiori. Frasi comuni – «Ho le
farfalle nello stomaco», «Quando sto male mi
si chiude lo stomaco», «Ho un coltello nella
pancia» – esprimono ancor prima di averle
pensate coscientemente le nostre
preoccupazioni, ansie, paure. Il bambino che
non vuole andare a scuola spesso accusa un
mal di pancia, che scompare istantaneamente
se la mamma acconsente a farlo rimanere a
casa. L’apparato gastrointestinale è la sede di
rappresentazioni psico-fisiologiche delle
emozioni depressive: ansia, rabbia, paura,
dolore, tristezza. Nelle patologie
gastrointestinali – gastrite, ulcera, morbo di
Crohn, rettocolite ulcerosa – i fattori
psicologici giocano un ruolo determinante. La
presenza di una vulnerabilità genetica, lo
stress e la resilienza personale spiegano,
anche in questo caso, la multifattorialità delle
possibili espressioni di sofferenza mentale e
fisica che, nella depressione, diventa
«globale». Un esempio psicosomatico-
somatopsichico: l’ipersecrezione gastrica e
l’ansia, riscontrabili nei soggetti che si
ammalano di ulcera.
A ulteriore testimonianza della
interdipendenza depressione-ulcera, uno dei
vecchi trattamenti per ridurre
l’ipersecrezione acida, la resezione del nervo
vago, aveva come effetto collaterale la
depressione. Ricordiamo che uno dei sintomi
core della depressione è il dolore, che
coinvolge in maniera indistinta la mente e il
corpo. Crampi, spasmi, acidità: lo stomaco e
l’apparato gastrointestinale tutto esprimono
così il dolore psichico. L’insieme dei
microrganismi che popolano il nostro
intestino, chiamato «microbioma» o
«microbiota» intestinale, è ormai riconosciuto
come un elemento decisivo nel favorire
l’insorgere della depressione e condizionare
la risposta alle terapie farmacologiche. Poiché
il microbioma intestinale regola la
maturazione e il funzionamento del sistema
immunitario, proteggendo il sistema nervoso
gastroenterico, l’assunzione di probiotici
nella dieta potrebbe aiutare nella cura della
depressione.
Siamo ben lontani dal dire che sostanze
con effetto benefico sulla flora intestinale
possano da sole sconfiggere la depressione,
tuttavia dobbiamo tener presente il ruolo
primario che ha l’equilibrio intestinale nel
garantire il benessere fisico e mentale. Una
persona su dieci che soffre di colon irritabile
ha anche la depressione; fino al 40% delle
persone che hanno una malattia
infiammatoria intestinale cronica, come il
morbo di Crohn o la rettocolite ulcerosa, sono
affette da depressione; la celiachia è spesso
associata a sintomi depressivi che la dieta
senza glutine può alleviare. In tutte queste
malattie è presente una «disbiosi», cioè
un’alterazione patologica del microbioma che
danneggia la permeabilità della parete
gastrointestinale, influenzando così il
metabolismo e la produzione delle sostanze
neurochimiche coinvolte nel brain-gut axis,
l’«asse cervello-intestino». Queste
connessioni psico-neuro-immunologiche
sono quindi essenziali per il funzionamento
del sistema nervoso centrale e tra qualche
anno potrebbero sia migliorare la
comprensione delle malattie intestinali sia
semplificare la terapia della depressione.
Infine, analizzare l’intreccio tra corpo e
depressione non può prescindere dal
considerare il rapporto bidirezionale che
esiste tra apparato cardiovascolare e umore.
Sul piano clinico-scientifico, il legame tra
cuore e cervello può essere analizzato da
diversi punti di vista. Partiamo da quello
epidemiologico. La depressione e le malattie
cardiovascolari si contendono il primato di
disturbo a più alta prevalenza e maggiore
disabilità. Se i dati dell’Organizzazione
mondiale della sanità prevedono che nel 2020
la depressione sarà seconda alle malattie
cardiovascolari, nel 2030 le posizioni si
invertiranno. Questo evidenzia la rilevanza
del binomio cuore-cervello nel garantire il
benessere psico-fisico della società. Sul piano
clinico, se definiamo la depressione «un mal
di cuore» diciamo una doppia verità. Non
solo perché i sentimenti depressivi fanno
soffrire il nostro cuore, ma anche perché chi
soffre di patologie cardiovascolari va molto
più frequentemente incontro a depressione. È
un circolo vizioso: ciascun disturbo
determina delle modificazioni dello stile di
vita che, a loro volta, possono provocare
l’insorgenza dell’altro. In mezzo, se così si
può dire, a fare da «collante» tra queste due
condizioni mediche, ci sono gli stili di vita,
l’insonnia, lo stress cronico, l’ansia, il fumo,
la cattiva alimentazione, l’ipertensione, i
disturbi metabolici o altri fattori di rischio di
tipo medico. Tutti questi elementi
convergono in un percorso biologico comune,
quello infiammatorio, responsabile di danni a
livello tanto dei circuiti neuronali quanto
delle pareti coronariche. Bisognerà
intervenire con opportune strategie di
prevenzione a garanzia che cuore e cervello,
almeno nel caso della patologia depressiva e
cardiovascolare, non si influenzino
negativamente.

LUCE E DEPRESSIONE
L’influenza della luce sulla psiche è nota fin
dall’antica Grecia. Nel II secolo il medico
Areteo di Cappadocia raccomandava ai suoi
pazienti letargici di esporsi il più possibile al
sole. Ippocrate ipotizzava che in autunno ci
fosse un aumento di «bile nera», causa della
melanconia, e in estate di «bile gialla», fonte
di euforia. Più recentemente, la cronobiologia
ha fatto chiarezza sugli effetti della luce
sull’organismo mostrando come la ridotta
esposizione alla luce possa causare
depressione, alterando il ritmo circadiano
attraverso azioni sulla melatonina e sulla
serotonina che influenzano l’attività del
pacemaker ipotalamico.
Entriamo più in dettaglio. Per la
cronobiologia, un ritmo circadiano è
caratterizzato da un periodo di ventiquattro
ore (dal latino circa diem, «vicino alla durata di
un giorno»). Sia nel regno animale sia
nell’uomo, molti fenomeni vitali come la
secrezione del cortisolo e degli ormoni, la
temperatura corporea, l’appetito, il ritmo
sonno-veglia, la fertilità, la frequenza cardiaca
e la pressione arteriosa seguono il ritmo
circadiano, che è dettato da un pacemaker
endogeno, cioè una sorta di orologio
biologico localizzato nel nucleo
soprachiasmatico del cervello, che ha una
ritmicità intrinseca quasi circadiana,
sincronizzata con la durata naturale del
giorno astronomico mediante segnali
ambientali o Zeitgeber (letteralmente,
«segnatempo»), come la temperatura
dell’ambiente, gli orari lavorativi e l’intensità
della luce. Lo stimolo luminoso percepito
dalla retina, attraverso il tratto retino-
ipotalamico, raggiunge le cellule del nucleo
soprachiasmatico dal quale si proietta
all’epifisi, o ghiandola pineale, che attiva o
interrompe il rilascio di melatonina a seconda
del fotoperiodo, cioè del rapporto tra luce e
buio.
Nei mammiferi, il segnale di rilascio della
melatonina, ormone secreto dall’epifisi e
preposto alla regolazione del ciclo sonno-
veglia, dipende dalla lunghezza delle
giornate, o ore luce, e può quindi tradurre le
informazioni del fotoperiodo all’organismo.
Secondo il programma biologico del
pacemaker, il buio della sera attiva una
cascata enzimatica che termina con il rilascio
di melatonina innescando il sonno. Al
mattino, l’attivazione neuronale si spegne e la
produzione di melatonina diminuisce
rapidamente. Il ritmo circadiano endogeno
funziona anche in assenza di segnatempo
esterni, ma il suo periodo si può modificare.
Per esempio, senza luce il ritmo sonno-veglia
tende ad allungarsi fino a trentasei ore.
Celebri esperimenti, condotti in condizioni di
oscurità all’interno di grotte, hanno
confermato la spontaneità di alcuni ritmi
biologici. 24 La cadenza dei ritmi circadiani
potrebbe quindi derivare da una «mappa
temporale» primordiale, successivamente
condizionata da stimoli ambientali, come la
luce e l’alternanza delle stagioni, e sociali,
come il lavoro. Queste influenze
consentirebbero all’organismo di adattarsi in
senso evolutivo ai cambiamenti climatici,
geografici e sociali. L’intensità e la durata
della luce influenzano in modo determinante
non solo il ciclo dei fenomeni biologici, ma
anche il funzionamento di processi psichici
come la memoria, l’attenzione, i
comportamenti sociali e sessuali,
l’impulsività e l’umore.
L’umore è condizionato dall’alternanza
luce-buio sia nei cicli di durata breve, come il
fotoperiodo del giorno, sia in quelli di durata
lunga, come l’avvicendarsi delle stagioni. La
stagionalità, che ha assunto un’importanza
crescente in ambito psicopatologico, può
influenzare l’umore con meccanismi diversi.
Secondo l’ipotesi della melatonina, una
presunta iperproduzione di melatonina
durante l’inverno causerebbe alterazioni
dell’umore, del ritmo sonno-veglia e delle
funzioni endocrine e sessuali interagendo
con il pacemaker endogeno. La diversa
secrezione di melatonina renderebbe le
persone affette da questa alterazione
assonnate, letargiche e depresse nei mesi
invernali. Al contrario, in estate, l’aumento
della luce inibirebbe il rilascio di melatonina:
ritardandone il rilascio la sera e
anticipandone il declino la mattina.
Un’altra ipotesi è quella della disfunzione
serotoninergica, una predisposizione
genetica allo sviluppo della depressione
invernale. Le persone affette da depressione
stagionale avrebbero difficoltà nella
regolazione neurotrasmettitoriale della
serotonina, il cui ruolo nel bilanciamento
dell’umore è ben noto. Uno studio recente ha
dimostrato che in inverno aumenta la
produzione della proteina S ERT coinvolta
nella ricaptazione della serotonina. 25 Un
incremento dei livelli di questa proteina
determinerebbe una riduzione della quantità
di serotonina presente nello spazio sinaptico
tra neuroni comunicanti, causando così la
depressione. Viceversa, in estate, riducendosi
i livelli di S ERT, aumenterebbe la quantità di
serotonina circolante, con un conseguente
miglioramento del tono dell’umore.
La ridotta esposizione alla luce dei mesi
invernali si associa a una carente produzione
di vitamina D, molecola già implicata nello
sviluppo della depressione ad andamento
non stagionale.
Secondo l’ipotesi del fotoperiodo, la
riduzione delle ore di luce durante l’inverno,
associata a una diminuita capacità retinica di
rispondere alla luce, sarebbe la causa della
depressione. A favore dell’ipotesi del
fotoperiodo giocherebbe il riscontro
frequente di depressione stagionale nei paesi
nordici e la risposta positiva ai cambiamenti
di area climatica che comportano un aumento
della durata giornaliera di esposizione alla
luce solare (fotoperiodo, appunto). Nelle
culture tradizionali delle popolazioni
nordiche, sono descritte sindromi come la
morketiden o «tempo oscuro» in Norvegia, la
skammdegistunglyndi o «cattivo umore dei
giorni corti» in Groenlandia, la winter blues o
cabin fever degli inuit.
La teoria del ritardo di fase ipotizza che la
secrezione di melatonina non coincida con
l’inizio del sonno ma sia posticipata alle
prime ore del mattino, facendo poi ritardare
anche gli altri ritmi circadiani. Per esempio, le
persone «notturne», con uno spostamento del
ritmo sonno-veglia che le fa addormentare e
svegliare più tardi degli altri, sarebbero più
vulnerabili alla depressione stagionale.
L’esposizione alla luce, soprattutto di
mattina, risincronizzerebbe il pacemaker
endogeno, spiegando l’efficacia della
fototerapia, o light therapy, nel riportare «in
fase» il ritmo secretivo della melatonina.
La light therapy risulta il trattamento
elettivo per la depressione ad andamento
stagionale. L’effetto antidepressivo sarebbe
mediato dall’azione della fototerapia sui
circuiti monoaminergici e sul ritmo
circadiano. In particolare, la light therapy
agirebbe sui sintomi più specifici e
invalidanti della depressione stagionale come
l’affaticamento, l’insonnia e la difficoltà di
concentrazione. La terapia consiste
nell’esposizione a una lampada che produce
luce artificiale con una lunghezza d’onda
predefinita. È fondamentale che gli occhi
rimangano aperti per consentire alla retina di
percepire lo stimolo luminoso e trasmetterlo
al pacemaker endogeno. L’applicazione va
fatta quotidianamente, entro un’ora dal
risveglio. La risposta clinica, preceduta da
una fase di latenza di 2-4 giorni, è positiva nel
60% dei casi. 26

I sogni che non danno tregua


Quando si è depressi si sogna e i sogni raccontano
la nostra depressione. Eraclito, nel frammento 26,
dice: «Nella notte, quando gli occhi sono spenti
alla luce, l’uomo ne accende una per sé».
Nel mondo notturno della depressione, la luce
che si accende è oscura: «Cammino per strada,
non sono tranquillo. Avverto un pericolo. Sento
aumentare l’angoscia. Guardo il mio orologio.
Qualcuno mi solleva il polsino della camicia per
vedere che orologio ho. Diverse persone cercano di
portarmelo via. Sento un dolore profondo, non ho
più il mio orologio, non sono riuscito a impedire
che lo portassero via… L’orologio è un regalo di
famiglia, è parte di me, della mia identità. In
quel periodo la depressione era molto forte,
pensavo di aver perso tutto, e che niente e nessuno
mi avrebbe potuto aiutare». Questo è il racconto
di un sogno di Vincenzo, professionista affermato
di 55 anni.
Lo stesso Freud racconta un sogno molto
rappresentativo del mondo onirico tipico della
depressione-lutto, che egli fece in occasione della
morte del padre: «La notte prima del funerale di
mio padre sognai una tabella a stampa, un
manifesto o un affisso … su cui si leggeva: “Si
prega di chiudere gli occhi” oppure: “Si prega di
chiudere un occhio”». 27 Freud stesso commenta
che la sua famiglia era scontenta di lui perché,
avendo scelto una cerimonia funebre semplice ed
economica, non aveva fatto il suo dovere di figlio:
nel sogno, quindi, si autorimprovera e cerca
indulgenza. Aggiungerà qualche tempo dopo: «…
ora mi sento privo di radici… ed ho perso il mio
buonumore e la gioia di vivere». 28 Noi possiamo
commentare che la scritta sul cartello esprime un
doppio concetto: sia il bisogno del perdono («Si
prega di chiudere un occhio»), sia, in modo più
ambiguo, il desiderio di allontanare da sé, il
prima possibile, il dolore della morte di una
persona cara e il desiderio di raggiungere chi non
c’è più («Chiudere gli occhi»). Ritroviamo così,
nel sogno di Freud, i sentimenti depressivi propri
della perdita, la tristezza, il senso di colpa, il
rimprovero di aver sbagliato e di aver rovinato
tutto. Non a caso, Freud intuirà l’intimo rapporto
tra lutto e depressione.
Nei sogni, la depressione «sceglie», in maniera
estremamente abile, delle immagini che
colpiscono al cuore la persona depressa, perché
sono quelle più capaci di trasmettere la
drammaticità e la forza dei sentimenti provati.
Per esempio, una persona molto legata alla sua
casa, costruita e realizzata con tanti sforzi, nel
momento in cui è depressa, sogna: «Tornavo da un
viaggio e là dove c’era la mia casa non c’era più
niente, tutto era sparito, c’era solo il vuoto»;
oppure: «Sentivo, nel sogno, dell’acqua scorrere,
non vedevo niente, percepivo solo l’acqua salire e
travolgere tutto». Un’altra persona, nei periodi
più cupi della depressione, angosciata dalla colpa
e dalla mancanza di vie d’uscita, sogna: «Era
freddo, umido; ero sdraiato e scivolavo verso il
buio. Mi accorgevo di essere diventato un barbone
che viveva sotto i ponti». Tante sono le scene
oniriche che si possono collegare alla depressione:
naufraghi che vengono salvati ma che si
ributtano in mare, trovarsi in un incendio e
rimanere immobili avvolti dalle fiamme, vedersi
come automi vuoti e senza emozioni.
Potremmo dire che, quando entra in azione, la
depressione «non fa prigionieri» e, anche nella
notte, non dà tregua.
III
Il lessico della depressione

L’importanza delle parole


Nel film Palombella rossa Michele Apicella,
storico alter ego del regista Nanni Moretti,
urlava a una giovane giornalista: «Le parole
sono importanti!», per farle capire che le
parole non vanno usate in maniera leggera e
approssimativa. È una frase che tanti
psichiatri ripetono a se stessi quando
sentono, dai mezzi di comunicazione o
persino da colleghi esperti, espressioni tanto
generiche quanto imprecise riferite alla
depressione. «Strage in famiglia, era
depresso» oppure: «Il dramma della
depressione dietro la strage», «Madre
depressa uccide il proprio figlio» sono titoli
giornalistici frequenti, in cui il termine
«depressione» è usato con superficialità per
indicare una qualsiasi forma di disagio
psichico, spesso molto lontana dalla realtà
clinica della depressione. L’espressione
«essere depresso» è divenuta un modo
iperinclusivo (concetto «omnibus») per
indicare la presenza di una qualsiasi
sofferenza psichica o di una malattia mentale
e per suggerire contemporaneamente, in
maniera più o meno esplicita, l’idea che chi è
affetto da un disturbo psichico è
«pericoloso».
La stigmatizzazione delle persone che
soffrono di disturbi psichici è costante e
comune. L’opinione pubblica ha «paura»
della depressione, delle malattie mentali,
della follia, perché ritiene che i disturbi
mentali «non si possano curare» e che siano il
segnale di «tare ereditarie», aspetto che li
rende «innominabili». Termini come ansia,
tristezza, depressione, eccitamento, mania,
utilizzati frequentemente nel linguaggio
comune, nel linguaggio psicopatologico
clinico indicano fenomeni diversi e specifici.
È importante utilizzare in modo corretto la
terminologia medica, perché dimostra una
chiara comprensione della sintomatologia
presente, evita i rischi della confusione
comunicativa, permette trasparenza clinica e,
di conseguenza, consente un corretto
approccio diagnostico e terapeutico.
Nel caso della depressione, in particolare,
«le parole sono importanti». La depressione,
a tutt’oggi, è una sindrome diagnosticabile (e
curabile) non solo analizzando il
comportamento del paziente, ma anche, se
non soprattutto, ascoltando le sue parole.
Tuttavia, vi sono pazienti che fanno fatica a
parlare delle proprie emozioni o che non
sono capaci di riconoscerle («alessitimia»).
Soprattutto in questi casi, compito dello
psichiatra è saper identificare una serie di
segni e sintomi, spesso indiretti o che si
manifestano attraverso il corpo, e di inserirli
all’interno della giusta cornice interpretativa
clinico-diagnostica.

La semeiotica
La semeiotica è la scienza generale dei segni,
della loro produzione, trasmissione e
interpretazione, o dei modi in cui si comunica
e si vuole «significare» qualcosa. In ambito
medico, ha per oggetto il rilievo e lo studio
dei segni che orientano verso la diagnosi.
Occorre però fare una distinzione tra
segni, sintomi e sindromi. Ricorriamo a un
esempio per chiarire il significato di questi
termini: l’ansia è un «fenomeno» (dal greco
phaínomai, «apparire») che attraverso alcuni
«segni» (dal latino signum, «marchio, indizio,
prova»), ossia manifestazioni che possono
essere obiettivate attraverso l’osservazione
del paziente (per esempio il tremore o la
tachicardia), e alcuni «sintomi» (dal greco
sympíptein, «cadere insieme») riferiti dal
paziente, ossia come avverte i propri disturbi
(per esempio la stanchezza, la nausea o la
difficoltà di concentrazione), può costituire
una «sindrome» o un disturbo. 1
«Disturbo» (disorder, trouble, Störung) non è
un termine preciso. Per il DS M -5 un disturbo è
una «sindrome caratterizzata da
un’alterazione clinicamente significativa della
sfera cognitiva, della regolazione delle
emozioni o del comportamento di un
individuo, che riflette una disfunzione nei
processi psicologici, biologici o evolutivi che
sottendono il funzionamento mentale». 2 Non
è pertanto una definizione «ristretta»: nel
tentativo di racchiudere la complessità del
disagio psichico, include aspetti molteplici e
riguardanti dimensioni diverse, come la
cognizione, le emozioni, il comportamento, i
processi psicologici, biologici e neurologici.
In questo paragrafo, proponiamo una
rassegna delle «parole chiave» con le quali
costruire la semeiotica della depressione.
Nell’ordine, affronteremo prima i termini
relativi a umore, paura, affettività, poi alcuni
concetti spesso impiegati quando si parla di
depressione.

UMORE
L’umore è un «insieme emozionale» che
include i fenomeni sentimento, affetto,
emozione, temperamento e carattere; è lo
stato emotivo globale e unitario con cui il
mondo viene percepito. Secondo il DS M -5,
l’umore è «un’atmosfera emotiva» pervasiva e
durevole, mentre l’affetto esprime
cambiamenti più fluttuanti del «clima
emotivo». 3 Kurt Schneider definì l’umore
come «un fondale sotterraneo non vissuto,
non motivante, ma agente in maniera
causale», 4 che influenza le reazioni emotive e
sostiene, in modo costante, lo stato d’animo
medio prevalente. La psicopatologia tedesca
utilizza il termine Stimmung per riferirsi allo
stato dell’umore o stato d’animo che
comprende la somma di tutti i sentimenti
presenti in un determinato stato di coscienza
e che può variare per motivi psicologici o
cause somatiche. Bisogna distinguere tra un
«umore normale», eutimico, in cui il soggetto
reagisce e corrisponde in modo equilibrato,
flessibile e congruo agli stimoli ambientali, e
un «umore patologico» che, al contrario, è
rigido, non si modifica al mutare delle
circostanze, degli stimoli e dei significati a
essi correlati.

UMORE DEPRESSO
Nella depressione, il tono dell’umore di base
è costituito da sentimenti di tristezza,
infelicità, malinconia, dolore, pessimismo,
colpa, avvilimento, di solito accompagnati da
inibizione e rallentamento di tutta la vita
psichica (ma sono comuni anche quadri
clinici dominati dall’irrequietezza). L’umore
depresso è accompagnato da modificazioni a
livello comportamentale, come rallentamento
psicomotorio, pianto, tensione muscolare,
espressione triste del volto.
Fenomeni tipicamente collegati al tono
dell’umore depresso e che, a loro volta, in un
circolo vizioso, esercitano un’influenza su di
esso sono i disturbi del sonno (tipicamente
insonnia, ma spesso anche ipersonnia), la
perdita dell’appetito con calo ponderale, la
facile affaticabilità, i sintomi cognitivi con
particolare riferimento ai deficit di
concentrazione, di attenzione, di
apprendimento e di memoria, i contenuti
depressivi del pensiero (temi di perdita, di
indegnità, di rovina, di colpa, di assenza di
speranze). Tali tematiche possono assumere
le caratteristiche di un pensiero delirante
(deliri congrui all’umore: colpa, rovina,
autoaccusa). Specie laddove la disperazione
assuma un carattere predominante, possono
comparire idee suicidarie con possibilità di
passaggio all’atto.
TRISTEZZA VITALE
Il concetto di tristezza vitale rimanda a quella
qualità distinta dell’umore che il DS M -5
introduce all’interno dei criteri diagnostici
della depressione melanconica.
Il concetto di «depressione vitale» fu
proposto da Kurt Schneider come unico
possibile candidato al ruolo di sintomo di
primo rango della depressione endogena
(analogamente ai sintomi di primo rango
della schizofrenia). Giovanni Gozzetti ha
riportato la descrizione di una paziente: «Un
peso che grava sullo sterno, come un masso
… una sofferenza penosissima, indefinibile e
non descrivibile avvertita specialmente nel
petto, nella fronte, nell’epigastrio, che varia
durante la giornata con prevalenza al
mattino». 5
La differenza strutturale fra tristezza e
tristezza vitale riguarda la temporalità. Nella
tristezza vitale, il passato (le inadempienze,
gli errori, le colpe) e il futuro (fino alla sua
conclusione nella morte) non sono più
proiezioni (ricordi e previsioni) del presente,
ma sono nel presente, dilatato a dismisura,
che, inglobando in sé passato e futuro, è
stagnante ed eterno. 6

MELANCONIA
Come abbiamo visto nel paragrafo dedicato
ai sottotipi, la melanconia rappresenta una
delle forme in cui si può manifestare la
depressione. Senza dilungarsi descrivendo i
criteri diagnostici, è utile sottolineare in cosa
consista questo particolare quadro clinico. Il
concetto di melanconia fa riferimento a un
campo psichico definito tecnicamente
«spettro dell’endogeno». L’«endogenicità»
contempla la possibilità di un terzo (endon)
come campo causale alternativo al soma e alla
psiche. Il concetto di endogenicità, in
contrapposizione all’esogeno inteso come
campo causale esterno ben delimitabile, è
necessario per definire la melanconia e
distinguerla dalle forme depressive esogene
(tradizionalmente intese come quelle di
origine nevrotica o reattiva). La melanconia fa
riferimento a una qualità particolarmente
grave di umore depresso, peggiore al
mattino, con marcati sensi di colpa e idee
suicidarie. La perdita di piacere e il
rallentamento motorio completano il quadro
clinico.
Negli anni Sessanta del Novecento, lo
psichiatra Hubertus Tellenbach individuò i
tratti essenziali del cosiddetto typus
melancholicus, un soggetto «il cui modo di
essere», riscontrabile empiricamente
attraverso l’osservazione clinica, è «costituito
da una certa struttura che per le sue
possibilità inclina verso il campo
gravitazionale della melanconia». Quali sono
le caratteristiche di questo soggetto? Quale il
suo profilo personologico? Innanzitutto la
«coscienziosità»: il typus melancholicus è
«preciso, ordinato, meticoloso e coscienzioso
all’estremo», con una «sensibilità al di sopra
della media» e una funzione della coscienza
prevalentemente di tipo «proibitivo». 7 La
colpa è un altro elemento tipico: colpa,
debito, assoluzione, perdono, oppressione
rappresentano le parole della melanconia. Da
qui scaturisce la frequente tendenza
all’autorimprovero, all’autoaccusa, alla
vergogna, allo svilimento di sé.

DEMORALIZZAZIONE
Il termine «demoralizzazione» è stato a lungo
estraneo al contesto e alla classificazione
psichiatrica, rimanendo per lo più confinato
al linguaggio quotidiano, dove è utilizzato
per esprimere uno stato di scoramento,
avvilimento, perdita di fiducia in se stessi,
venir meno di ambizioni e aspettative.
L’esistenza umana è spesso ricca di momenti
di delusione, di perdita di speranza, di caduta
dei propri desideri, e la sofferenza che ne
consegue, per l’appunto la demoralizzazione,
è spesso fonte di una domanda d’aiuto di tipo
psicologico o psichiatrico.
Bisogna attendere i contributi di Donald
Klein 8 e Jerome Frank 9 per arrivare alle
prime concettualizzazioni in senso
psichiatrico del termine demoralizzazione. In
particolare, Frank ha parlato di
demoralizzazione come il risultato di un
lungo processo a spirale in cui il dubbio sulle
proprie capacità e la bassa autostima si
rafforzano in una escalation di aspettative e
riscontri negativi che «cristallizzano» in
qualche modo un senso di incapacità, da cui il
soggetto tenta di proteggersi chiudendosi in
se stesso e adottando comportamenti di
evitamento che possano metterlo al riparo da
ulteriori delusioni. Questo processo è stato
definito «incapacità appresa» (learned
incapacity), un’alterata modalità di affrontare
le difficoltà e gli ostacoli della vita per
pregresse esperienze negative. In quegli
stessi anni, Klein identificava la
demoralizzazione in un vissuto di incapacità
(learned attitudinal despair), legato a una
progressiva perdita della stima di sé. Le
persone «demoralizzate sono incapaci di
affrontare spesso anche i normali compiti
della vita, non reputandosi all’altezza
dell’impegno richiesto e questo senso di
sconfitta nella rinuncia rinforza il vissuto di
incapacità e inutilità».

DOLORE
«Il sommo dolore non si sente … ma la sua
proprietà è di render l’uomo attonito,
confondergli, sommergergli, oscurargli
l’animo in guisa, ch’egli non conosce né se
stesso, né la passione che prova, né l’oggetto
di essa; rimane immobile e senza azione
esteriore, né, si può dire, interiore.» 10
Il dolore è uno dei sintomi centrali della
depressione: il dolore psico-fisico è così
compatto che il paziente non riesce a
descrivere dove finisca l’uno e cominci l’altro,
e dice solo, con il palmo della mano
appoggiato sul petto, «Ho un dolore qui».
Il dolore della persona depressa è
un’esperienza che deriva dall’idea di un male
presente, attuale, immodificabile. Le
caratteristiche principali sono la presenza
costante e la pervasività: interessa tutta la vita
del paziente ed è l’elemento centrale
dell’umore depressivo. Corpo e psiche
esprimono tale dolore all’unisono, come si è
detto, in maniera spesso indistinguibile o con
confini confusi. In alcuni casi, invece, il
vissuto depressivo viene espresso solo
somaticamente, sempre sotto forma di
dolore: cefalee, dolori osteoarticolari, dolori
epigastrici, la cosiddetta «depressione
mascherata», tipica degli anziani e delle
persone con scarse capacità di mentalizzare,
di riconoscere la natura psichica della
sofferenza del corpo.
Il dolore della persona depressa è il dolore
per la perdita: dell’oggetto, del senso di sé,
del senso della vita, del sentimento, del
piacere, della capacità di amare e di essere
amati. Questo dolore assoluto paralizza
completamente la parte vitale di chi lo prova,
lo lascia immobile come quando, provando
un forte dolore fisico, ci si accartoccia su se
stessi senza fiato, comprimendo la parte
dolorante, aspettando solo che passi.
Nelle parole del filosofo Friedrich
Nietzsche: «L’esistenza mi pesa
spaventosamente … sofferenza ininterrotta,
per ore e ore, una sensazione di
intorpidimento molto simile al mal di
mare». 11

MANIA
La mania ha una presentazione clinica
esattamente contraria, antinomica, a quella
della depressione. La mania è contraddistinta
da un tono dell’umore caratterizzato da
abnorme e stabile elevazione in senso
esaltato o euforico. Il soggetto appare
facilmente distraibile, ha un diminuito
bisogno di sonno, è iperattivo, fino ad
arrivare all’agitazione psicomotoria, ha un
linguaggio e un pensiero accelerati. Comuni
correlati dell’umore maniacale sono
l’esagerata spiritosità, l’eccesso di confidenza
con gli estranei, la sconsiderata prodigalità,
tipico del paziente maniacale è non avere il
senso del denaro, l’inclinazione a
comportamenti rischiosi, per esempio
guidare a una velocità molto elevata, la scelta
di abbigliamenti, acconciature e
atteggiamenti chiassosi e bizzarri.

AUTOSTIMA
La perdita dell’autostima è una caratteristica
della depressione ampiamente riconosciuta.
Non è del tutto chiaro se sia da considerarsi
un sintomo della depressione o piuttosto un
aspetto implicato nella sequenza causale del
disturbo. Nel definire questa condizione, il
DS M -5 descrive un «sentimento di
autosvalutazione» che varia da «un
sentimento di inadeguatezza» a «valutazioni
negative irrealistiche del proprio valore».
Molti autori nel corso della storia si sono
cimentati con questo concetto. Freud, per
esempio, vedeva nella perdita di autostima
un fattore chiave per distinguere la
depressione o melanconia dal lutto. 12 Altri
autori hanno focalizzato la loro attenzione
sullo sviluppo infantile, in particolare sulle
fonti di soddisfazione del neonato, tra cui il
nutrimento, o sulle modalità di sviluppo delle
relazioni interpersonali con l’altro. Più
recentemente, contributi di derivazione
cognitivista hanno sviluppato modelli di
autostima nella depressione a partire dalle
risposte cognitive, affettive e
comportamentali che un soggetto mette in
atto di fronte a un evento negativo. Le
risposte cognitive, in particolare, giocano un
ruolo fondamentale: esse consistono nei
tentativi che il soggetto compie di attribuire
un significato agli eventi negativi che lo
colpiscono. Vedremo successivamente nei
concetti di hopelessness e di helplessness come
agiscono questi schemi di pensiero.

AFFETTIVITÀ
L’affettività è uno dei concetti più complessi
in semeiotica. Eppure gli «affetti», intesi
come stati emotivi, sono qualcosa che ci
connota sempre, in ogni momento della
nostra vita. L’affettività è la capacità di
provare emozioni/sentimenti in condizioni
ambientali e relazionali mutevoli per
significato. Gli affetti hanno una durata e
un’intensità diverse e devono essere congrui
con lo stimolo che li determina. Inquadrare in
termini clinico-semeiotici il mondo degli
affetti è chiaramente molto complesso poiché
esso può sfuggire a una definizione precisa. Il
riconoscimento stesso degli affetti, sia propri
sia altrui, può rappresentare una sfida non
soltanto clinica ma, in fondo, quotidiana, che
ciascuno di noi deve affrontare nel corso della
propria giornata, nelle proprie relazioni, nei
propri stati emotivi. In ambito psichiatrico, si
tratta di individuare gli elementi riconoscibili
e propri di un disturbo dell’affettività. Per
esempio, per il DS M -5 l’affetto è una
«modalità di comportamento, rilevabile
all’osservazione, che è espressione di una
condizione di sentimento soggettivamente
sperimentata (emozione)». 13 Ne consegue
che, all’interno di questo quadro teorico, i
disturbi dell’affettività in ambito psichiatrico
devono essere valutati non solo in base a ciò
che il soggetto riferisce, ma anche in base
all’osservazione clinica.
Come potremmo descrivere l’affettività in
una persona depressa? Ci viene in aiuto il
concetto di negative affect, «affettività
negativa», sui cui la ricerca si è soffermata a
lungo. Due psicologi britannici
dell’Università di Aberdeen, John Crawford e
Julie Henry, hanno costruito una scala – la
PANAS (Positive and Negative Affect Schedule) –
con la quale è possibile tentare di
«quantificare» l’affettività «positiva» e quella
«negativa». Nell’ambito dell’affettività
positiva, gli autori hanno incluso i seguenti
stati: interessato, vigile, attento, eccitato,
entusiasta, ispirato, orgoglioso, determinato,
forte, attivo. Tra gli affetti negativi, si
annoverano invece gli stati: angosciato,
irritabile, in colpa, imbarazzato, nervoso,
teso, impaurito, dispiaciuto. I due autori
hanno condotto una ricerca su un vasto
campione non clinico, riscontrando una
correlazione positiva tra livello di
depressione e affettività negativa, e,
viceversa, una correlazione negativa tra livello
di depressione e affettività positiva. In altri
termini, la presenza di un negative affect è
chiaramente legata a un livello maggiore di
depressione. 14

ANSIA
Quando parliamo di ansia, va subito fatta una
distinzione importante tra ansia «normale» e
ansia «patologica». L’ansia normale
rappresenta una fisiologica emozione di
difesa sperimentata da ogni individuo di
fronte a una situazione che costituisce un
pericolo oggettivo. Uno stato d’ansia normale
presenta alcune caratteristiche peculiari,
come una comprensibile reattività, una
reazione adeguata allo stimolo ansiogeno; la
transitorietà, la reazione ansiosa termina alla
sospensione dello stimolo ansiogeno senza
lasciare conseguenze o esiti di natura psico-
fisica; la funzione adattiva, che consente
all’individuo di mettere in atto una serie di
strategie e di comportamenti funzionali al
superamento dell’ostacolo o del pericolo
reale. Nell’ansia patologica, si verifica
pressoché il contrario: vi è una reattività
esagerata rispetto allo stimolo, non c’è
transitorietà, anzi spesso si instaura uno stato
ansioso generalizzato, e manca la funzione
adattiva, sostituita da un blocco paralizzante
che impedisce al soggetto l’attivazione di una
risposta adeguata al pericolo.
In termini strettamente clinici, l’ansia
consiste in un sentimento di penosa
aspettativa e allarme di fronte a un pericolo
reale o potenziale, immediato o imminente,
associata a sintomi fisici di iperattività
neurovegetativa e a un comportamento di
evitamento. Analizziamo nel dettaglio questa
definizione. Si parla di «penosa aspettativa»:
attesa, unita a sofferenza, di qualcosa che
potrebbe danneggiarci, fare del male a noi o
alle persone care. Spesso si tratta dell’attesa
di un pericolo potenziale, per esempio
temere di avere una malattia o di andare
incontro a un incidente aereo, o reale, per
esempio prima di fare un esame
all’università, oppure prima di sostenere la
prova di un concorso. All’interno della
definizione dell’ansia, si parla di sintomi
fisici di «iperattività neurovegetativa»: con
questa espressione si intende la reazione del
nostro cervello a un segnale di pericolo, tale
da generare uno stato di allarme che si
manifesta con una reazione neurovegetativa
localizzata in tutto il corpo. Nel 1975, due
importanti scienziati della psiche umana,
Paul Fraisse e Jean Piaget, così descrivevano
le reazioni neurovegetative: «La lista delle
manifestazioni neurovegetative che possiamo
distinguere è lunga per l’una o l’altra
emozione: conduttanza della pelle, velocità
cardiaca, livello della tensione sanguigna,
vasocostrizioni e vasodilatazioni, velocità,
oscillazioni e regolarità della respirazione,
temperatura della pelle, sudorazione,
diametro pupillare, secrezione salivare,
funzionamento peptico, contrazione o
rilassamento degli sfinteri, attività elettrica
cerebrale, analisi chimica e ormonale del
sangue, delle urine e della saliva,
metabolismo basico sono più o meno
modificati». 15 Si tratta, come si può notare, di
una lista lunga e completa, valida per molti
aspetti ancora oggi, e che contraddistingue le
manifestazioni somatiche tipiche di uno
spettro che va dall’ansia fino al cosiddetto
attacco di panico. Gran parte di queste
reazioni è mediata dal sistema
noradrenergico, responsabile dello stato di
allarme e della risposta a un pericolo, sia esso
reale, percepito in misura amplificata o
addirittura immaginario.

PAURA
Emozione primordiale reattiva di fronte a un
pericolo esterno chiaramente riconosciuto dal
soggetto. Secondo questa definizione,
condivisa dalla maggior parte degli autori,
nella paura, a differenza che nell’ansia, si
identifica un oggetto-stimolo chiaramente
definito (ansia con oggetto).
La sostanziale differenza tra ansia e paura
sembrerebbe relativa alla proiezione del
timore nel futuro: se l’ansia è l’attesa penosa
di un evento proiettato nel futuro non
sempre chiaramente identificato, nella paura
l’evento minaccioso è attuale e di regola
chiaramente percepito. Va comunque detto
che la paura, sebbene sia parte del correlato
psicopatologico della depressione, è una delle
sei emozioni di base, universali, individuate
negli anni Settanta del Novecento dai
ricercatori Paul Ekman e Wallace Friesen. In
particolare, Ekman nel 1972, seguendo una
tribù isolata dal mondo in Papua Nuova
Guinea, notò le espressioni «di base»: felicità,
paura, rabbia, disgusto, tristezza e sorpresa.
Queste emozioni sono innate e si ritrovano in
tutte le popolazioni; per questo motivo
vengono definite «emozioni primarie
(universali)».
Nel caso della depressione, l’espressione
della paura è enormemente amplificata e
spesso è collegata a tematiche o contenuti
tipicamente depressivi, come la paura del
futuro, la paura di non farcela, la paura di
finire in rovina economica, la paura di essere
abbandonati. In questo senso, il
neuroscienziato contemporaneo Joseph
LeDoux ha evidenziato una distinzione
importante relativa al «sistema della paura»
nel modello animale e nell’essere umano. 16
Nell’uomo, la paura non è legata solo a
circuiti puramente emozionali, istintuali, ma
anche a circuiti complessi che coinvolgono
aree cerebrali superiori deputate al
ragionamento e alla riflessione. Procedendo a
una semplificazione anatomica
indubbiamente riduttiva, se nell’animale la
paura è più amigdaloidea, cioè legata
all’attivazione dell’amigdala, nell’uomo
coinvolge anche le aree prefrontali. Le paure
dell’uomo non sono solamente legate a uno
stimolo pericoloso, ma spesso, come per
esempio accade nella depressione, sono
esistenziali.

LUTTO
La migliore definizione che si può dare del
lutto è quella del padre della psicoanalisi,
Sigmund Freud, il quale nel 1917, nel saggio
Lutto e melanconia, scriveva: «Il lutto è
invariabilmente la reazione alla perdita di
una persona amata o di un’astrazione che ne
ha preso il posto, la patria ad esempio, o la
libertà, o un ideale o così via». 17
Perché il lutto si associa alla depressione?
Perché, come sottolinea Freud, il concetto di
lutto implica la perdita e la perdita può
determinare nel soggetto che ne è colpito un
dolore tale da generare una reazione
depressiva. Questo collegamento veniva così
sintetizzato da Freud: «La melanconia è
psichicamente caratterizzata da un profondo
e doloroso scoramento, da un venir meno
dell’interesse per il mondo esterno, dalla
perdita della capacità di amare,
dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e
da un avvilimento del sentimento di sé che si
esprime in autorimproveri e autoingiurie e
culmina nell’attesa delirante di una
punizione … L’analisi della melanconia ci
insegna che l’Io può uccidersi solo quando …
riesce a trattare se stesso come un
oggetto». 18 La potenza descrittiva di queste
parole («avvilimento», «profondo e doloroso
scoramento»…) si accompagna a una chiara
illustrazione dei meccanismi psicopatologici
che legano la perdita alla melanconia. L’Io,
impoverito e svuotato, nella melanconia
arriva a identificarsi con l’oggetto della
perdita.

COLPA
La colpa occupa un ruolo centrale nello
sviluppo della depressione. Lo psichiatra
Ludwig Binswanger ha legato lo sviluppo
della colpa a un meccanismo tipico dello
stato depressivo denominato «retrospezione
melanconica». 19 Un processo consistente in
una serie di rimpianti/rimproveri legati a
fallimenti reali o potenziali del passato: «Se
solo non avessi fatto questo… È colpa mia,
non dovevo farlo». Questo meccanismo di
retrospezione melanconica sottende una
sorta di autosvalutazione, un «sentirsi di
scarso valore». Alcuni autori si sono
interrogati sul significato di questo senso di
colpa, chiedendosi se debba essere
differenziato in «secondario» (e quindi
reattivo a un evento spiacevole) e «primario»,
slegato «da un’occasione di colpa». La grande
tradizione psicopatologica di derivazione
fenomenologica ha affrontato la questione
della «deducibilità» o meno della colpa, della
sua «comprensibilità». Appare evidente che,
nelle grandi forme melanconiche, il soggetto
non fa discendere il suo sentimento di colpa
da occasioni precise, «individuate», piuttosto
egli si sente colpevole primariamente e, in
modo paradossale, «sceglie», se così si può
dire, occasioni per rafforzare il suo sentirsi
colpevole. Si tratta tuttavia, come ha
sottolineato Binswanger attraverso l’analisi di
diversi casi clinici, di occasioni «sostituibili» e
quindi non tali da determinare
autonomamente questo processo.
L’inclinazione alla colpa ha spesso anche un
carattere «ossessivo»: è un avvitarsi intorno a
una serie di autorimproveri, a sentimenti di
colpa e vergogna. Freud e la psicoanalisi
postfreudiana hanno rimandato il concetto di
colpa alle forme cliniche tipicamente
nevrotiche, legate a conflitti interni inconsci
di cui il soggetto è inconsapevole. Nelle
forme psicotiche, invece, la colpa è
completamente proiettata all’esterno e il
soggetto, anziché sentirsi colpevole, vive una
condizione di innocenza ed è costretto a
difendersi da un mondo persecutore e
aggressivo.

VERGOGNA
A volte, al centro dell’esperienza depressiva
non ritroviamo soltanto il sentimento di
colpa, quanto piuttosto una mortificazione
dell’animo, schiacciato da un senso di
sconfitta e di fallimento: appaiono in primo
piano la vergogna, l’umiliazione e
l’autosvalutazione, la tendenza al giudizio e
all’autorimprovero, legati al non sentirsi
all’altezza delle proprie aspettative. «Mi
vergogno di farmi vedere così», «Non sono
più io». La semeiotica psichiatrica ha
individuato due grandi raggruppamenti
semantici rispetto ai quali definire la
vergogna. Il primo è quello della «vergogna-
pudore», i cui temi sono: soggezione, timore,
imbarazzo, pudore, modestia, riserbo,
timidezza. 20 In questa accezione, la vergogna
ha una funzione protettiva nel difendere la
persona dall’intrusione del mondo esterno. È
molto frequente nei quadri ansiosi e può
manifestarsi o esacerbarsi nei quadri
depressivi. L’altro grande raggruppamento
semantico all’interno del quale si può
delimitare o individuare la vergogna è quello
della «vergogna-onta». Esso include disonore,
ignominia, macchia, vituperio, infamia e si
avvicina all’ambito paranoicale. Oggi, i mezzi
di comunicazione tendono a spettacolarizzare
la vita intima delle persone, e il sentimento di
vergogna-pudore sembra quasi cedere il
passo a quello della vergogna-onta,
largamente più diffuso in una società che
valorizza quasi esclusivamente la
performance. È importante però fare una
precisazione: la vergogna non coincide con la
colpa. Così come la società mediatica ci offre
lo spettacolo di colpevoli che sono senza
vergogna. Negli ambiti psicoterapeutici
troviamo frequentemente soggetti che
sprofondano nella vergogna pur essendo
senza macchia alcuna. Il senso di colpa ha
una genesi diversa, che riguarda la storia
personale del soggetto e i suoi trascorsi di
vita.

ANEDONIA
L’anedonia è una delle caratteristiche
peculiari della depressione. È un sintomo
particolarmente grave nelle forme
melanconiche e consiste nella diminuzione
della capacità di provare piacere per qualsiasi
tipo di esperienza vitale. Quel che
frequentemente accade è che il paziente
smette di provare piacere per situazioni che
prima trovava piacevoli. L’anedonia può
presentarsi in forme particolarmente gravi,
come nel caso di una madre che non sente
più piacere nell’abbracciare il proprio figlio.
Altre volte è limitata alla perdita del gusto
per il cibo o alla perdita di piacere nel fare le
piccole cose, nello stare insieme agli altri. La
letteratura psichiatrica solitamente distingue
tra anedonia parziale e anedonia totale,
oppure fra anedonia fisica e anedonia sociale,
la perdita di piacere nelle situazioni di
condivisione sociale o di scambio/relazione
con gli altri. Come abbiamo visto, l’anedonia
costituisce uno dei due criteri fondamentali
per la diagnosi di depressione maggiore
secondo il DS M -5 .

ALESSITIMIA
«Alessitimia» è un termine di derivazione
greca, che significa letteralmente «umore
senza parole». Nella psicopatologia attuale,
rappresenta la difficoltà di verbalizzare le
emozioni, unitamente alla povertà
immaginativa. Il funzionamento cognitivo-
affettivo risulta appiattito sulla realtà del
momento e marcata è la difficoltà nel
distinguere sensazioni fisiche e sentimenti.
Inizialmente proposto come aspetto
distintivo dei disturbi psicosomatici rispetto
a quelli propriamente psichici, il concetto di
alessitimia ha gradualmente perso questa
connotazione: infatti, molti disturbi
psichiatrici risultano altrettanto o più
alessitimici dei disturbi psicosomatici. È di
solito considerata una caratteristica di
personalità stabile, mentre è accertato che
circostanze varie, come traumi, assunzione di
sostanze, stati depressivi, possono
determinarla o intensificarla.

LABILITÀ AFFETTIVA
La labilità affettiva è un’anomala variabilità
degli affetti che comporta una notevole
instabilità del tono dell’umore, facilmente e
rapidamente modificabile da stimoli
incongrui o di scarsa importanza.

RABBIA
Come diceva Omero: «Facili all’ira sopra la
terra siamo noi di stirpe umana».
Effettivamente, siamo facili alla rabbia, che è
una delle emozioni primordiali comuni a tutti
i popoli a prescindere dalle sovrastrutture
culturali e sociali. La rabbia, però, ha un
legame molto forte con la depressione,
perché è una delle emozioni più
comunemente vissute dai soggetti depressi.
In Al di là del principio di piacere, Freud
affronta il tema della rabbia alla luce della
teoria delle pulsioni, arrivando a
concettualizzare un «istinto di morte», un
istinto autonomo, biologico, deputato al
dissolvimento e alla distruzione: un istinto
«al di là del principio di piacere» o al di là del
principio di vita. 21 La problematica della
rabbia e dell’aggressività è riproposta da
Freud, nel saggio Il disagio della civiltà, in
un’ottica non più solamente individuale e
soggettiva, ma rielaborata in termini psico-
sociali. 22 Viene descritto una sorta di
conflitto inevitabile tra l’uomo e la civiltà, in
quanto quest’ultima è costruita sulla
repressione, sulla rimozione delle pulsioni,
che per loro natura possono essere
disfunzionali. In questo saggio Freud anticipa
gli anni bui del nazismo e della guerra, e la
sua convinzione che all’interno dell’uomo
esista una rabbia, una forza distruttrice
pulsionale in grado di minare la convivenza
civile, raggiunge il suo apice. Questa pulsione
distruttrice, l’«istinto di morte», rappresenta
la causa principale del «disagio della civiltà»,
sperimentato come sentimento di colpa e
come angoscia morale. Il depresso vive e
rivolge principalmente la rabbia contro se
stesso. L’istinto di morte, introiettato e
direzionato su di sé, può fornire un quadro
teorico esplicativo della perdita di vitalità e di
piacere, e della comparsa di idee e impulsi
suicidari propri del soggetto depresso.
Tratteremo ancora della rabbia nel paragrafo
«Tre emozioni sorelle» del capitolo IV.

DISFORIA
La disforia è uno stato d’animo presente
soprattutto nel disturbo bipolare, ma si può
ritrovare anche nei disturbi depressivi, nei
disturbi d’ansia e in quelli di personalità.
Consiste in una condizione emotiva in cui
non è prevalente un umore di tipo ansioso,
depressivo o delirante, ma il paziente vive
una miscela di sentimenti opposti in
inestricabile successione: insoddisfazione,
irrequietezza, irritabilità, ansia, malumore,
aggressività, euforia.

APATIA
L’apatia (dal greco a-páthos, letteralmente
«senza emozione») è uno dei tratti più
caratteristici della depressione. Di fatto,
consiste in una carenza, o assenza, di risposta
affettiva a stimoli esterni e interni che
normalmente dovrebbero suscitare una
risposta emozionale. L’apatia non è solo un
vissuto soggettivo, ma ha anche una
manifestazione clinico-fenomenologica
caratterizzata dalla presenza di sintomi
psicomotori come rallentamento e inerzia. È
un termine molto utilizzato nella pratica
clinica e nel linguaggio comune. Nella
psichiatria anglosassone, il suo contenuto
semantico sembra coincidere con quello del
concetto, oggi più usato, di «appiattimento
affettivo», una condizione di generale
impoverimento della reattività emotiva.

HOPELESSNESS
Si tratta di un termine abitualmente in uso
nella letteratura angloamericana per definire
una condizione di «perdita di speranza».
Questo concetto è stato variamente
interpretato come sintomo accessorio oppure
sintomo nucleare della depressione, da cui
derivano la tristezza, la perdita di piacere,
ecc. Alcuni autori hanno proposto la
hopelessness theory of depression, una teoria
della depressione basata sul concetto della
perdita di speranza. Che cosa fa sì che un
individuo si senta hopeless, senza speranza?
Quando si verificano, e si ripetono, eventi di
vita percepiti come «negativi», il soggetto
forma schemi di pensiero riguardanti: i
motivi per cui l’evento negativo si è verificato
(il soggetto, di solito, tende ad attribuirsene
la causa), le conseguenze che derivano da
questo evento e le considerazioni del
soggetto circa i motivi per cui tale evento sia
capitato proprio a lui e non ad altri. La
conseguenza di queste inferenze logiche è
che il soggetto finisce con l’attribuire a se
stesso delle caratteristiche e delle qualità
negative come risultato degli eventi di vita
percepiti negativamente e che hanno
prodotto gli schemi di pensiero appena
descritti. Alcuni autori, per esempio Aaron T.
Beck, padre del cognitivismo, hanno studiato
a lungo la rilevanza di questi schemi cognitivi
disfunzionali nella genesi della depressione,
giungendo alla conclusione che molti casi di
depressione con «perdita di speranza» si
verificano in soggetti con stile cognitivo
«vulnerabile» al confronto con eventi di vita
avversi. 23

HELPLESSNESS
È un termine difficilmente traducibile in
italiano; noi abbiamo proposto di utilizzare il
vocabolo «inermità» per renderne il vissuto.
Helplessness indica la condizione di un
soggetto che avverte l’impossibilità di
ricevere un aiuto. Questa condizione è
necessaria ma non sufficiente a vivere una
condizione di hopelessness. Non è detto, cioè,
che un individuo che non può ricevere aiuto
sia senza speranza, sebbene le due condizioni
siano fortemente connesse tra loro. Il
concetto di helplessness si lega in qualche
modo al «controllo» o, meglio,
all’impossibilità per un soggetto di
controllare gli esiti di un evento qualsiasi.
Questa condizione di perdita di controllo
genera impotenza e pone l’individuo in una
condizione di solitudine e impossibilità di
essere aiutato concretamente. Incapace di
controllare l’andamento di un’azione o di un
evento e senza poter ricevere aiuto, il
soggetto ha una percezione di se stesso come
«messo all’angolo», che facilmente può
sfociare in uno stato depressivo. Per un
approfondimento di questo concetto, vedi il
paragrafo «Tre emozioni sorelle» del capitolo
IV.

IPOCONDRIA
L’ipocondria è un disturbo estremamente
frequente, rintracciabile sia come disturbo
autonomo sia come correlato di sindromi
ansioso-depressive. Consiste in una costante
apprensione per la propria salute e si
accompagna a una tendenza ansioso-
ossessiva a sopravvalutare i minimi disturbi.
Possiamo ritenere un paziente ipocondriaco
quando continua a fornire interpretazioni
riguardo ad alcune sensazioni corporee,
nonostante abbia ricevuto rassicurazioni
mediche adeguate. Accade di frequente che i
timori si concentrino su un solo organo, il cui
funzionamento diventa fonte di estrema
preoccupazione. Il convincimento non è
solitamente delirante: la persona è capace, in
certi momenti, di ammettere la possibilità di
non avere alcuna grave malattia. La
depressione e l’ipocondria sono spesso
correlate, in quanto entrambe dominate dalla
prevalenza di pensieri/schemi cognitivi
negativi. I pazienti depressi spesso
manifestano preoccupazioni ipocondriache
che scompaiono con la risoluzione
dell’episodio depressivo, a differenza del
disturbo ipocondriaco vero e proprio.
STRESS
Il 17 giugno 1950 il «British Medical Journal»
pubblica un articolo del ricercatore canadese
Hans Selye dal titolo Stress and the General
Adaptation Syndrome (Lo stress e la sindrome
generale dell’adattamento). 24 Per la prima
volta, il concetto di stress, fino a quel
momento in uso nel mondo della fisica, entra
in biologia e in medicina per designare «la
risposta non specifica dell’organismo a ogni
richiesta effettuata su di esso» a opera di
agenti stressanti, i cosiddetti «stressor». Al
giorno d’oggi, questo concetto è
frequentemente utilizzato non solo in
medicina, ma anche nel linguaggio comune,
spesso in modo inappropriato. Nella società
attuale si parla continuamente di stress,
spesso inteso come ostacolo alla conquista
del piacere o quanto meno del benessere.
Nella ricerca clinica e neurobiologica in
campo psichiatrico, lo studio dello stress ha
una connotazione ben precisa ed è volto
all’indagine dei suoi effetti sul cervello, per
esempio gli studi sull’attivazione del cortisolo
e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. In una
delle ultime ricerche, Selye concludeva: «La
completa libertà dallo stress è la morte.
Contrariamente a quanto si pensa di solito,
noi non dobbiamo, e in realtà non possiamo,
evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in
modo efficace, e trarne vantaggio imparando
di più sui suoi meccanismi e adattando la
nostra filosofia dell’esistenza a esso». 25

STIGMA
«Stigma» è una parola di origine greca, che
significa marchio, impronta, segno distintivo.
In psichiatria, indica la discriminazione,
operata dalla società e basata sul pregiudizio,
nei confronti di una persona affetta da un
disturbo mentale. La conseguenza di questo
pregiudizio è l’esclusione sociale, associata a
senso di rifiuto, vergogna e solitudine. Il
National Institute of Mental Health ha
recentemente definito lo stigma come
l’aspetto più debilitante di un disturbo
mentale. È fin troppo facile immaginarne il
motivo. Lo stigma accresce il disagio
psicologico di un paziente e può portare a
evitare, per vergogna, di rivolgersi ai servizi
di salute mentale con conseguente
peggioramento del quadro clinico. Nel caso
della depressione, il peso di questa
discriminazione è persino maggiore, in
quanto è frequente riscontrare la presenza di
due tipologie di stigma: lo stigma
propriamente detto, cioè il pregiudizio della
società e le conseguenze in termini di
isolamento ed esclusione sociale; lo stigma
internalizzato, cioè l’interiorizzazione e
l’autoattribuzione del giudizio negativo
altrui. Questo tipo di stigma trova nel
depresso un humus fertile, costituito dal fatto
che i depressi sono per definizione soggetti
con pensieri/schemi cognitivi tali da
determinare perdita di autostima, perdita di
speranza, helplessness e negative affect. Come
detto precedentemente, vergogna, sconfitta,
senso di fallimento, umiliazione sono parole
che fanno già parte del vocabolario della
depressione.

SPETTRO
In fisica, il concetto di «spettro» è utilizzato
per indicare un continuum quantitativo: per
esempio, si parla di spettro a proposito della
serie di colori che si forma quando un raggio
di luce bianca attraversa un prisma. In
psichiatria, il concetto di spettro è impiegato
per identificare gruppi sindromici distinti sul
piano clinico-sintomatologico, ma che sono
sottesi da un fattore patogenetico comune.
Un esempio è il cosiddetto «spettro
bipolare», concettualizzato per la prima volta
all’inizio del Novecento da Emil Kraepelin. 26
Lo psichiatra considerava gli stati affettivi
lungo un continuum che va dalle forme più
gravi a quelle attenuate, dalle forme
psicotiche a quelle temperamentali. Più
recentemente, Hagop Akiskal, uno dei più
eminenti studiosi di questi fenomeni clinici,
ha proposto il concetto di «spettro bipolare
attenuato», all’interno del quale, oltre al
disturbo bipolare propriamente detto, sono
inclusi episodi depressivi alternati a episodi
ipomaniacali sia di breve sia di lunga durata,
tratti temperamentali di ipertimia e
ciclotimia e soggetti con familiarità per
disturbo bipolare. 27

«Una serie di fallimenti»


Quando Sergio entrò in clinica psichiatrica, ebbe
la percezione di subire l’ennesimo affronto,
l’ennesima sconfitta accumulata negli ultimi
anni della sua vita. «Una serie di fallimenti» era
una delle frasi di autorimprovero che si rivolgeva
quotidianamente. Generalmente il momento
peggiore era al mattino, quando si svegliava
all’alba in preda all’angoscia e con il senso di
oppressione di chi deve scalare una montagna e
non ha più gli strumenti per farlo (hopelesness,
«tristezza vitale»). In quei momenti, gli ultimi
anni della sua vita passavano nella sua mente
come la pellicola di un film. E il giudizio che ne
derivava era una sentenza di condanna senza
appello, sotto forma di autorimproveri,
autoinsulti, rabbia e recriminazione (perdita di
autostima). Sergio aveva conosciuto il «giudizio»
sin da bambino, quando osservava i mucchi di
libri nello studio dove suo padre, e prima di lui
suo nonno, lavoravano come avvocati. Ma Sergio
aveva imparato a conoscerlo soprattutto pensando
a se stesso: la tenacia nel raggiungere i traguardi
scolastici e universitari, e il non perdonarsi non
solo gli insuccessi o le parziali sconfitte, ma
persino i rari momenti di piacere, facevano da
tempo parte di lui. Anche il matrimonio, tardivo,
quando aveva 40 anni, sembrava agli occhi della
sua famiglia un ennesimo traguardo raggiunto.
In realtà, la «soddisfazione sociale» che derivava
dallo sposare Laura, brillante giudice in carriera,
era ben poca cosa rispetto alla gioia, per lo più
segreta, che Sergio provava nel vivere finalmente
qualcosa di nuovo, qualcosa che aveva a che fare
con il suo desiderio e non con i suoi doveri.
Prima di ricoverarsi in clinica, durante le
lunghe notti di insonnia, Sergio pensava spesso
al giorno del suo matrimonio, alla gioia dei
parenti, al volto di sua moglie. Ma era un
pensiero ormai offuscato, anzi doloroso. Una cosa
così bella, che però gli suscitava solo dolore
(negative affect). Al mattino, l’angoscia era
paralizzante e lo costringeva a rimanere a letto,
senza dormire, fino a tardi, provocando in lui un
senso di umiliazione (vergogna). Proprio lui che
era sempre stato mattiniero e puntuale al lavoro!
Sergio era stato abituato a comandare, a gestire e
controllare tutto. Dirigente di una grande
azienda, era arrivato ai vertici grazie al suo
enorme spirito di sacrificio e devozione nei
confronti del lavoro. Non aveva solo uno spiccato
senso del dovere, ma anche la tendenza a sentirsi
in colpa se le cose non giravano come avrebbero
dovuto. Questa tendenza alla colpa portava
Sergio a cercare l’approvazione di tutti, il
riconoscimento universale del proprio lavoro e
della propria dedizione. Anche a costo di accettare
compromessi al ribasso, Sergio non voleva mai
scontentare nessuno, perché ne avrebbe sofferto e
avrebbe avvertito quel forte senso di colpa che
ormai aveva imparato a conoscere bene. Quando
ricevette delle pressioni dal direttore generale per
ammettere nel suo staff un nuovo collaboratore,
Sergio avvertì da un lato l’impotenza di non
riuscire a dire di no al proprio capo, dall’altro il
senso di umiliazione e sconfitta nell’accettare un
compromesso di cui non poteva certo essere fiero.
Questa tendenza a compiacere l’altro era una
caratteristica che Sergio aveva manifestato sin
dalla prima adolescenza. Anche in famiglia, era
sempre pronto a soddisfare le richieste di tutti, al
punto da non lasciare spazio ai propri bisogni e
desideri. Ma ritornare a casa e ritrovare la
moglie e i due figli ormai ventenni lo ripagava
dei sacrifici fatti. Sergio, sin da piccolo, sentiva la
necessità di ricoprire il ruolo di pater familias, e
quando la moglie gli disse che ormai il loro
matrimonio era finito e che di lì a qualche giorno
avrebbe chiesto la separazione, rimase
completamente stordito, non capendo quale
potesse essere la causa di una tale richiesta. Più
Laura gli elencava le difficoltà, ormai divenute
insormontabili, della loro vita di coppia, più
Sergio sembrava non capire. Soprattutto non
accettava l’idea di perdere quel ruolo di
capofamiglia su cui aveva basato gran parte dei
suoi ideali.
Quando avvenne la separazione, sentì
letteralmente crollare la propria base di
appoggio. La caduta dell’ideale familiare coincise
con l’inizio della caduta depressiva. All’inizio
aveva vissuto la depressione come una vergogna,
come un cedimento delle forze da nascondere e da
contrastare con tutta la forza di volontà possibile.
Ma più faceva appello alla volontà, più sentiva le
forze venire meno. Dopo la separazione, Sergio
viveva da solo e vedeva di rado i figli. Amici e
parenti gli consigliarono di andare da uno
psichiatra o da uno psicologo, ma la sola idea di
rivolgersi a qualcuno a cui confessare la propria
depressione generava in lui un profondo senso di
smarrimento e angoscia.
Quando ricevette una lettera di richiamo
dall’azienda presso la quale lavorava a causa
delle assenze, sentì risvegliarsi dentro di sé il
«giudizio», l’autorimprovero senza appello a cui
si era sempre condannato. Tentò il suicidio per la
vergogna, cercando di intossicarsi con i farmaci
che aveva a disposizione. Ci volle oltre un mese di
ricovero in clinica perché riprendesse la voglia di
vivere.
IV
Paura e depressione

Tre emozioni sorelle


Nel 50 a.C. tutta la Gallia è occupata dai
Romani. Resiste solo un piccolo villaggio
dell’Armorica, dove vivono gli irriducibili
Galli Asterix e Obelix. Tutti gli abitanti del
villaggio sono forti e coraggiosi, anche grazie
a una pozione magica che li rende invincibili
in battaglia. Hanno una sola paura: che il
cielo gli possa cadere sulla testa, anche se
sicuramente «non accadrà domani». La paura
dei Galli è una paura atavica, ancorata
culturalmente, che in termini tecnici si
potrebbe chiamare «fobia specifica».
In psichiatria, le paure immotivate,
irrazionali, si chiamano «fobie»; ve ne sono di
diversi tipi: agorafobia, aracnofobia,
aerofobia, claustrofobia, rupofobia…
Teoricamente, distinguere tra ansia e paura
non è così difficile: come abbiamo visto,
l’ansia è la percezione angosciosa di un
pericolo imminente, di qualcosa che deve
ancora accadere, di una minaccia che sta per
sopraggiungere; diversamente, la paura è la
reazione a una minaccia presente che mette
in pericolo la sicurezza della persona.
Entrambe costituiscono l’anticipazione di
qualcosa che accadrà: nella paura il pericolo è
certo e conosciuto, nell’ansia la minaccia non
solo non è presente, ma è incerta e può anche
non verificarsi mai.
L’ansia e la paura patologiche
interferiscono notevolmente con la vita delle
persone che ne soffrono; a volte, i
condizionamenti sono così gravi che le
semplici azioni della quotidianità, come
uscire di casa, lavarsi, guidare la macchina,
fare un viaggio, diventano impossibili. La
persona che soffre di ansia patologica attua
dei comportamenti di evitamento che
costituiscono contemporaneamente una
difesa e una prigione: per esempio, una
persona che soffre di fobia sociale eviterà
contesti sociali nei quali deve esporsi, nei
quali può sentirsi in imbarazzo e correre il
rischio di essere giudicata; l’agorafobico che
ha vissuto momenti di panico ricorrerà a un
accompagnatore fisso per poter uscire di casa
e cercare di condurre una vita «normale».
Gli esempi di ansia e paura patologiche
sono tanti e dimostrano che le transizioni tra
ansia e paura sono continue e costanti. I
confini di queste emozioni sono incerti,
poiché in entrambe vi è apprensione,
inquietudine, imminenza del pericolo: «Ho
ansia di prendere l’aereo, paura-terrore-
panico al momento di salirci». Spesso la loro
distinzione in campo clinico è più teorica che
pratica, tanto che i trattamenti farmacologici
utilizzati sono sovrapponibili. Cerchiamo
dunque di approfondire il discorso tenendo
presente che ansia-paura-depressione si
possono collocare lungo il medesimo asse
concettuale.
Le moderne ricerche sul cervello emotivo
tentano di spiegare quale sia il rapporto tra i
meccanismi inconsci delle emozioni e i livelli
superiori di consapevolezza esperiti dalla
nostra mente quando avvertiamo tali
emozioni, soprattutto nel caso delle forme
patologiche. In altre parole, il problema è
distinguere cosa accade nella nostra mente
quando si attivano meccanismi non
consapevoli di ordine neurofisiologico e
quando invece si attivano meccanismi di
pensiero capaci di attribuire un significato
emotivo/affettivo alla medesima esperienza.
Lo stesso Freud, nell’ultima versione della
sua teoria dell’angoscia, aveva proposto due
diversi meccanismi per spiegare la
formazione dell’ansia. Il primo, collegato a un
livello più istintuale, genera l’«angoscia
primaria», emozione derivante dal senso di
disintegrazione dell’Io, dallo stato di
impotenza psichica e biologica del bambino
di fronte a una situazione traumatica. Il
secondo, chiamato «angoscia segnale», deriva
da processi più coscienti dell’Io, che attiva
meccanismi di difesa per evitare di
sperimentare situazioni angosciose
fortemente minacciose. 1

Joseph LeDoux, uno dei più attenti


studiosi delle emozioni, in particolare
dell’ansia e della paura, ripropone la
contrapposizione tra conscio e inconscio e
sottolinea come «la mancata distinzione tra
esperienza conscia di paura e di ansia e
processi più fondamentali inconsci abbia
prodotto molta confusione». 2 Secondo
l’autore, esiste un «sistema paura» inconscio,
fisiologico, che agisce e si attiva per primo di
fronte a una minaccia: di questa attivazione
non siamo consapevoli. Solo successivamente
interviene il meccanismo cosciente del
sentimento di paura, che non deve essere
considerato un sottoprodotto, ma una risorsa
del cervello conscio per fronteggiare la
situazione di pericolo. In questa prospettiva,
le emozioni sono «costrutti psicologici» e,
pertanto, diventa necessario sviluppare
ricerche che consentano di sapere di più sul
rapporto esistente tra meccanismi fisiologici
di attivazione non coscienti e meccanismi di
pensiero coscienti. «Non conscio» non vuol
dire «non mentale»: indica solo che il
soggetto non è consapevole che un certo tipo
di processo fisiologico sta avvenendo nel suo
cervello. Impropriamente, la reazione
fisiologica non cosciente viene chiamata
paura: si genera così confusione, perché il
termine paura viene impiegato per indicare
sia il livello cosciente sia il meccanismo
fisiologico inconscio.
Quale paura troviamo nella depressione?
Quali rapporti possiamo stabilire tra ansia,
paura e depressione? Perché ansia e
depressione hanno così alti tassi di
comorbilità, cioè di copresenza dei due
disturbi? Se abbiamo chiamato depressione e
melanconia «emozioni sorelle», possiamo
fare lo stesso con ansia, paura e depressione?
Nella Vienna dei primi del Novecento, lo
scrittore e medico Arthur Schnitzler pubblica
una serie di racconti che ottengono notevole
successo e che lo rendono subito famoso.
L’abilità di Schnitzler consiste nel riuscire a
rendere, in termini letterari, diverse
sfumature dell’animo umano; è un
esploratore del mondo interno e mostra una
notevole capacità di rappresentare i vissuti
depressivi e le ansie inconsce. I titoli di
alcune sue opere sono inequivocabili: Morire,
I morti tacciono, Fuga nelle tenebre. Egli stesso
afferma: «Senza dubbio sono uno scrittore
per gente che non soffre di vertigini». 3
Sembra che un solo uomo, anch’egli
medico, mostrasse una certa resistenza ad
affrontare la lettura degli scritti di Schnitzler,
nonostante fosse lo «scopritore
dell’inconscio»: Sigmund Freud, che in una
famosa lettera gli scrive: «Il suo
determinismo come il suo scetticismo – che la
gente chiama pessimismo –, la sua
penetrazione nelle verità dell’inconscio, nella
natura pulsionale dell’uomo, la sua
demolizione delle certezze convenzionali
della civiltà, l’adesione dei suoi pensieri alla
polarità di amore e morte, tutto ciò mi ha
colpito con un’inquietante familiarità». 4 Le
parole di Freud si riferiscono a quella
sensazione di disagio angoscioso, «a quella
sorta di spavento», provocato da qualcosa che
ci è noto da lungo tempo, qualcosa di
familiare che si riattualizza e sentiamo
nuovamente presente: è la sensazione che lo
psicoanalista viennese chiama «perturbante»
e che può aiutarci a entrare nel tema paura-
depressione. 5
La persona depressa vive nella paura, in
tutte le sue varie forme: la paura di non
farcela, la paura di non riuscire a reagire, la
paura di aver perso tutto, la paura di essere
soli, la paura che niente cambi, la paura di
aver perso la capacità di provare piacere, la
paura di non riuscire a tornare quelli di
prima, la paura di non riuscire più a pensare,
la paura di essere rovinati, la paura di morire.
Un paziente depresso diceva: «Sono al
tappeto, ho paura di non riuscire a rialzarmi.
Non reagisco più, non sento più niente». Un
uomo di successo, abituato alla
responsabilità e al comando, nei periodi di
depressione sognava in modo ricorrente e
angoscioso di diventare un barbone, cioè di
perdere tutto, anche la propria dignità.
Paura della depressione, ma anche paura
come nucleo psicopatologico della
depressione. Una paura che non è l’ansia-
paura: in questo secondo caso, vi sarebbe il
sentimento angoscioso di qualcosa che
accadrà; nella depressione, invece, vi è il
sentimento angoscioso della perdita, non
come fatto possibile ma come fatto avvenuto,
irreversibile. Si tratta quindi di paura, ma
soprattutto di «paura della perdita».
Sviluppiamo questo collegamento tra
ansia-paura-depressione ricorrendo a Freud.
In Inibizione, sintomo e angoscia, egli si pone
questa domanda: «Il problema sorge a
proposito del punto seguente: abbiamo
dovuto dire che l’angoscia si verifica come
reazione al pericolo della perdita dell’oggetto.
Ebbene, noi conosciamo già una reazione alla
perdita dell’oggetto: il lutto. Dunque: quando
tale perdita conduce all’angoscia e quando al
lutto? Nel lutto … un aspetto rimaneva del
tutto incompreso: la sua particolare
dolorosità … Che la separazione dall’oggetto
sia dolorosa, ci appare tuttavia assolutamente
ovvio. Quindi il problema si complica
ulteriormente. Quand’è che la separazione
dall’oggetto genera angoscia, quando lutto e
quando, magari, soltanto dolore?». 6
Conseguenza di quanto stiamo dicendo è che
la separazione intesa come cambiamento, ma
soprattutto come perdita, è il cardine su cui
ruota la possibilità che si verifichino i tre
affetti, ansia, paura e depressione.
Abbiamo visto che, da un punto di vista
psicopatologico, in stretta relazione con la
perdita si può sviluppare il sentimento di
Hilflosigkeit, di helplessness, quel sentimento
di inermità che potrà condurre a volte più
vicino all’ansia, alla paura panica, altre volte
più vicino alla depressione. Se ipotizziamo di
disporre queste emozioni agli estremi di un
continuum, possiamo immaginare di trovare
a un estremo, dalla parte della situazione
ansiogena di pericolo e minaccia, un
particolare sentimento di «inaiutabilità»,
misto a rabbia e aggressività, dovuto al fatto
che il soggetto sente ancora la presenza di
qualcosa che lo potrebbe aiutare ma che
tuttavia non interviene: egli si sente dunque
rifiutato e respinto, avverte l’angoscia di non
farcela, ma soprattutto attribuisce al mancato
intervento d’aiuto la responsabilità di quanto
sta accadendo.
All’altro estremo troviamo l’inermità
depressiva: la coscienza dolorosa della
propria incapacità di affrontare il
cambiamento-perdita; il soggetto non si
ritiene più in grado di far fronte alla
situazione, inizia a sprofondare
nell’impotenza, è privo di risorse, apatico,
inerme. «A questo estremo della Hilflosigkeit
non esistono più la minaccia, l’abbandono
temuto, il pericolo, ma solo la solitudine
inerme dell’assenza. Il soggetto è senza
speranza (hopelessness): non solo non spera
più di ricevere aiuto dall’altro, ma soprattutto
non spera più in se stesso, si sente
colpevole». 7 Willard Gaylin, nel libro Il
significato della disperazione, sottolinea che le
persone depresse si sentono senza aiuto e
senza speranza, impotenti, con una
diminuzione dell’autostima provocata dalla
mancanza di fiducia in sé e, citando la
psicoanalista Grete Bibring, definisce la
depressione come «l’espressione emotiva di
uno stato in cui l’Io è inerme e impotente». 8
In sintesi, possiamo dire che il sentimento di
inermità costituisce un possibile ponte
psicopatologico tra ansia e depressione e può
declinarsi verso uno dei due poli, a seconda
che il soggetto avverta, nel caso dell’ansia, la
minaccia di una perdita o, nella depressione,
la certezza di una perdita. Pertanto non è solo
interessante ma anche necessario, per capire
di più della depressione, approfondire il
discorso sulla paura.

«Apro gli occhi e ho paura»


Dario, 50 anni, insegnante di scuola media, ha il
suo primo episodio depressivo a 35, in seguito a
un intervento chirurgico per l’asportazione di una
neoplasia. A quell’epoca, era sposato e aveva tre
figli piccoli; l’episodio depressivo insorge subito
dopo la conclusione del ciclo di chemioterapia, che
lo ha molto prostrato sia fisicamente sia
mentalmente, facendogli nascere dentro «la
paura».
Per meglio dire, questo frangente fa riaffiorare
una paura mai sopita del tutto, che provava
spesso da bambino durante la notte; questa paura
lo svegliava e lo spingeva ad alzarsi e a cercare
rifugio nel letto dei genitori. Loro, però, erano
molto rigidi, il padre in particolare, e per fargli
«passare la paura» lo obbligavano a stare tutta
la notte da solo in una stanza vicina, seduto su
una sedia, al buio. Dario ricorda che trascorreva
la notte in preda all’angoscia, piangendo, senza
che nessuno dei genitori lo andasse a consolare.
Questo non gli impediva di ripetere tutta la
sequenza la notte successiva. «La paura era
troppo forte, e poi speravo sempre che sentendomi
piangere qualcuno sarebbe venuto.»
Dario aveva un nonno materno a cui era molto
legato, morto quando lui era bambino in
circostanze misteriose; venne poi a sapere che si
era suicidato. La scomparsa del nonno, oltre a
addolorarlo molto e a lasciargli un grande senso
di vuoto, aveva gettato la famiglia in una
catastrofe economica che ebbe un peso importante
sugli anni successivi della sua vita.
Il padre viene descritto come una persona
sempre «sopra le righe», che ha esposto la
famiglia a frequenti alti e bassi economici, a
causa di «affari sballati». Per sfuggire ai
creditori, sono stati spesso costretti a improvvisi
traslochi notturni, organizzati all’ultimo
momento, in giro per tutta Italia. In Dario,
questa esperienza di instabilità faceva sì che «mi
svegliavo al mattino, non sapevo dov’ero,
percepivo subito l’angoscia».
La situazione economica variava da
agiatissima a molto precaria; le case in cui
soggiornavano erano molto diverse l’una
dall’altra. I bambini – Dario era il primo, poi
c’erano quattro sorelle più piccole – cambiavano
continuamente scuola, insegnanti, amici. La
madre non era assolutamente in grado di far
fronte agli eccessi del marito, avendo una
personalità dipendente, probabilmente come
conseguenza delle tragiche vicende della famiglia
di origine. «A volte, la mattina quando mi
svegliavo, non capivo immediatamente dove fossi,
provavo un forte senso di disorientamento e di
angoscia; avevo sempre paura che avremmo
dovuto lasciare tutto di nuovo; non riuscivo a fare
amicizie perché avevo paura che non sarebbero
durate.»
Da adulto Dario sposa una donna «solida,
stabile, affidabile» e conduce una vita regolare
fino a che non arriva la diagnosi di tumore che
mette di nuovo a soqquadro tutto. Deve
interrompere il lavoro, con il rischio di perderlo;
la moglie si fa carico delle sue cure, oltre
all’accudimento e alla gestione dei bambini
piccoli. L’incertezza per l’esito delle terapie e per
il decorso della malattia lo tiene per lungo tempo
«sul filo del rasoio». «Non avevo tanto paura di
morire, ma ho avuto paura di perdere tutto. La
mia malattia, la mia debolezza potevano essere la
causa della rovina della mia famiglia; poteva
ricominciare tutto daccapo: il mondo sicuro e
stabile che mi ero creato poteva andare di nuovo
in mille pezzi; io ero troppo debole per far fronte a
tutto.»
L’episodio depressivo insorge quando ormai la
prognosi è buona; la sua caratteristica principale
è la paura: paura della malattia, di potersi
riammalare; i sintomi fisici della depressione –
stanchezza, dolori ossei – vengono interpretati
come segni di possibili recidive, e perciò paura di
perdere tutto, andare in pezzi. Da un punto di
vista psichico, questo episodio depressivo, come
anche i successivi, è caratterizzato soprattutto da
sintomi della sfera cognitiva: cali di memoria,
disturbi dell’attenzione e della concentrazione.
Essendo Dario un insegnante, questi disturbi
provocano una riduzione delle sue performance a
scuola: fa fatica a spiegare, a ricordare gli
argomenti delle lezioni, a interrogare, a
correggere i compiti. A tutto ciò si aggiunge,
ancora una volta, la paura: paura di aver perso
per sempre la propria intelligenza, la propria
memoria e la capacità di insegnare: «Faccio
questo lavoro da tanti anni, ripeto queste cose
ogni anno, ora il giorno prima della lezione devo
studiare e il giorno dopo non mi ricordo più
niente… Questa volta ho paura che non tornerò
più come prima, il mio cervello si è danneggiato
per sempre!».
Dopo la risoluzione del primo episodio
depressivo, Dario riacquista interamente le sue
facoltà intellettive e continua la sua attività
professionale e la vita di sempre, ma da questo
momento in poi le successive fluttuazioni di
umore, anche se di minore intensità e durata
rispetto all’episodio iniziale, sono sempre
precedute dalla paura. Qualunque situazione lo
faccia sentire «debole», fisicamente o
psicologicamente – malattie, anche semplici
raffreddori o influenze, instabilità nella relazione
di coppia, difficoltà lavorative, momenti di crisi
nel lavoro della moglie, difficoltà nella gestione
dei figli, malattie o morte di amici o conoscenti –,
fa riaffiorare violentemente due tipi di paure. La
prima è quella di poter avere un nuovo episodio
depressivo, di stare di nuovo male; la seconda è
quella di perdere tutto, intelligenza, stabilità,
certezze, e che il suo mondo possa andare in pezzi:
«Alle volte, anche quando sto bene e non succede
niente per tanto tempo, mi domando con timore:
come mai è tutto così tranquillo? Che cosa sta per
succedere? Allora mi assale la paura, spesso non
so neanche di che cosa…».
Una terapia integrata, farmaci e psicoterapia,
riuscirà ad aiutare Dario a rendersi conto che la
sua paura di ammalarsi, di perdere quello che ha
ottenuto, deriva oltre che dal sentire di non poter
esercitare un controllo sugli avvenimenti, dal
vivere un intenso sentimento di impotenza. Nella
sua esperienza di crescita, aveva percepito,
erroneamente, che mettersi in una condizione di
indipendenza lo avrebbe protetto dai rischi della
vita. Invece aveva sviluppato intensi sentimenti
di impotenza, helplessness, che di fronte alle
difficoltà attivavano quella paura indefinita che
sarebbe accaduto qualcosa che non avrebbe saputo
fronteggiare.

La paura come emozione di base


Abbiamo visto nel capitolo sulle parole della
depressione che la paura, tra i più importanti
correlati psicopatologici della depressione, è
un’intensa emozione derivata dalla
percezione di un pericolo, reale o supposto. È
una delle emozioni primarie, comune sia alla
specie umana sia al mondo animale. Più
recentemente, lo psicobiologo Jaak Panksepp,
tra i fondatori delle cosiddette «neuroscienze
affettive», ha preferito utilizzare il termine
«sistemi emotivi» rispetto a «emozioni di
base»: il sistema della ricerca e della
curiosità, della rabbia, della paura, della
sessualità, del prendersi cura, per esempio
fornire le cure materne o l’assistenza in
generale, del panico, del gioco. Panksepp,
sostenuto da una grande quantità di dati
sperimentali, ha posto in evidenza che questi
circuiti emotivi si trovano nelle identiche aree
o circuiti cerebrali in tutti i vertebrati
esaminati, sono concentrati nelle antiche
regioni sottocorticali e vengono regolati dai
centri superiori. Aree simili del cervello
producono esperienze affettive simili. 9

Non dobbiamo avere paura che della


paura
La paura, dunque, non è solamente uno dei
molteplici e più importanti correlati
psicopatologici della depressione, ma è in
primis un’emozione di base. In quanto tale, ha
una sua «storia universale», una
rappresentazione diversa in funzione del
contesto storico, sociale e politico. Il titolo di
questo paragrafo è una citazione dal Giulio
Cesare di William Shakespeare: la rivolge il
grande condottiero romano alla moglie
Calpurnia, che tenta di dissuaderlo dal
proposito di recarsi al Senato per il timore
che possa cadere vittima di un attentato.
Cesare, incurante delle preghiere di
Calpurnia: «Ahimè, mio signore, la tua
saggezza si consuma per troppa confidenza.
Non uscire oggi. Chiamala mia la paura che ti
tiene in casa, e non tua», esce di casa
andando incontro al proprio destino, alla
morte per mano di Bruto, dopo aver
pronunciato, con grande sicurezza, le
seguenti parole: «I codardi muoiono molte
volte prima della loro morte; i valorosi
assaggiano la morte soltanto una volta. Di
tutte le strane cose che ho udito finora, la più
strana mi sembra che gli uomini debbano
temerla, la morte, vedendo che, fine
necessaria, verrà quando verrà». 10
Cesare, fedele a se stesso nel suo coraggio,
affronta due questioni con le quali l’uomo si
confronta da sempre: la «paura della paura» e
«la paura della morte». Se la prima
rappresenta, in termini psicopatologici
moderni, «la penosa aspettativa di un
pericolo potenziale immaginario» invece che
«reale», «concreto», la seconda investe
l’umanità alle prese col suo destino. «Fine
necessaria», così viene definita la morte da
Cesare. Ma questa fine necessaria da sempre
interroga l’uomo, lo pone di fronte a sfide
esistenziali, lo obbliga a cercare rimedi nella
scienza e, spesso, lo fa precipitare in baratri
psicopatologici (per esempio, l’ipocondria in
tutte le sue manifestazioni).
La paura della morte, in fondo, ci riporta
all’angoscia primordiale, all’angoscia di
essere al mondo, una tematica
eminentemente novecentesca. Il
drammaturgo Samuel Beckett la esprimeva
così: «Ho un ricordo netto della mia esistenza
fetale. Era un’esistenza dove nessuna voce,
nessun movimento poteva liberarmi
dall’angoscia e dall’oscurità alla quale ero
assoggettato». 11 Vita e angoscia si
intrecciano. L’eroismo di Giulio Cesare, la
sfida alla morte, cede il passo, nel Novecento,
a questo intreccio. Hamm, il protagonista di
Finale di partita di Beckett, urla la sua
disperazione: «Ormai siete al mondo, non c’è
rimedio» e, rivolgendosi al padre Nagg,
chiede con rabbia: «Maiale! Perché mi hai
fatto?». 12
Questo tipo di angoscia primordiale,
esistenziale, sganciata da un contenuto
specifico come nelle fobie, è stato ben
descritto da Martin Heidegger:
«Nell’angoscia, noi diciamo “uno è spaesato”.
Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e
cosa vuol dire quell’“uno”? Non possiamo
dire dinanzi a che cosa uno è spaesato,
perché lo è nell’insieme … L’angoscia rivela il
niente … Che l’angoscia sveli il niente,
l’uomo stesso lo attesta non appena
l’angoscia se n’è andata». 13 Heidegger ci
aiuta così a distinguere la paura («la paura di
… è sempre anche paura per qualcosa di
determinato») dall’angoscia che svela il
niente.
Nei quadri clinici depressivi, non è sempre
facile distinguere tra angoscia e paura.
Talvolta, in alcuni soggetti, è la paura a
predominare. Spesso si tratta di una paura
esistenziale, legata alla propria vita, al
proprio desiderio, alla propria
insoddisfazione lavorativa o affettiva, altre
volte assume forme più concrete, la paura di
perdere il lavoro oppure la casa o il partner,
sino a trasformarsi in senso delirante
perdendo il contatto con la realtà, i cosiddetti
deliri di rovina o perdita. In altri casi, i
pazienti depressi esprimono una forma di
angoscia più oscura, meno definita nei suoi
confini e, in quanto tale, più insidiosa.

I modelli della paura


MODELLI PSICOPATOLOGICI
Da quando Freud ha definito il
«perturbante», si sono susseguiti numerosi
modelli neurobiologici e costrutti teorici sulla
paura. Lo psicoanalista Donald Winnicott ha
studiato la relazione madre-bambino e il
ruolo che essa esercita rispetto alla nascita
delle paure in età evolutiva e poi in età
adulta. In particolare, Winnicott ha teorizzato
che il senso di sé si forma anche e soprattutto
nel rapporto con l’altro e, in particolare, sulla
base dell’immagine che l’altro «materno» ci
rimanda. «Che cosa vede il lattante quando
guarda il viso della madre? Secondo me di
solito ciò che il lattante vede è se stesso.» La
funzione di rispecchiamento, di mirroring, da
parte della madre è fondamentale per la
costruzione dell’identità del bambino. «Molti
lattanti devono avere una lunga esperienza di
non vedersi restituito ciò che danno.
Guardano e non si vedono. Ne derivano
conseguenze.» 14 In particolare, secondo
Winnicott, il mancato rispecchiamento del
bambino nel volto della madre può essere
all’origine di paure e disturbi d’ansia nell’età
adulta.
La relazione madre-bambino e le sue
implicazioni rispetto alle traiettorie evolutive
personologiche e psicopatologiche sono state
oggetto di studi anche da parte di John
Bowlby. Lo psicoanalista, nel 1969, ha
descritto l’«attaccamento» come una
«propensione innata a cercare la vicinanza
protettiva di un membro della propria specie
quando si è vulnerabili ai pericoli ambientali
per fatica, dolore, impotenza o malattia». 15
Ovviamente, la tendenza all’attaccamento
opera con la massima intensità nella prima
infanzia, quando maggiore è la vulnerabilità
rispetto a situazioni di potenziale pericolo e,
in questo senso, il rapporto madre-bambino è
fondamentale. Bowlby riteneva che
l’attaccamento si sviluppa attraverso alcune
fasi e che sia di tipo «sicuro» o «insicuro».
Uno degli stili di attaccamento insicuro è
costituito dall’attaccamento fearful, pauroso,
spaventato. Si tratta di un modello
caratterizzato da due elementi chiave: alti
livelli di ansietà e condotte di evitamento.
«Questi soggetti avvertono una qualche
forma di disagio nell’avvicinarsi agli altri. Essi
vogliono sul piano emotivo avvicinarsi agli
altri, ma fanno fatica a fidarsi
completamente, o a dipendere dagli altri.
Talvolta temono che qualcosa li potrebbe
ferire se permettessero di essere troppo
prossimi agli altri.» 16 La paura delle relazioni
è frequentemente spiegabile in termini di
uno stile di attaccamento di tipo fearful.
LA PAURA NELLA NOSOGRAFIA ATTUALE
La decima edizione dell’International
Classification of Diseases (ICD-10 ) 17 ha
definito i «disturbi ansioso-fobici» come un
gruppo di disturbi in cui l’ansia è evocata
esclusivamente, o prevalentemente, da alcune
situazioni specifiche che di norma non sono
pericolose. Queste situazioni sono
tipicamente evitate oppure sopportate con
paura. L’attenzione del paziente può
concentrarsi su singoli sintomi, come
palpitazioni o sensazioni di lipotimia,
associate spesso a paura di morire, perdere il
controllo o impazzire. Di solito, è sufficiente
che si consideri la possibilità di entrare nella
situazione fobica per scatenare un’ansia
anticipatoria.
Come si può evincere da questa
definizione, gli autori si sono concentrati sia
sui sintomi psichici sia sui sintomi somatici
dell’ansia fobica, come palpitazioni o
sensazioni di lipotimia. È interessante notare
come l’ICD-10 precisi che l’ansia fobica e la
depressione spesso coesistono. L’eventuale
necessità di due distinte diagnosi, disturbo
fobico ed episodio depressivo, dipende dal
decorso temporale delle due condizioni e
dalle considerazioni terapeutiche al momento
della consultazione. Depressione e ansia
fobica sono spesso entità intrecciate tra loro
in modo inestricabile e tale da non
permettere una reale distinzione, se non
temporale.
Va tuttavia notato che, sebbene la paura e
l’ansia rappresentino correlati psicopatologici
tipicamente legati allo stato depressivo, in
realtà la loro presenza, nonché
caratterizzazione, può essere trasversale a
varie entità cliniche, come schematizzato
nella Tabella 3.

Tabella 3
LA PAURA IN VARI DISTURBI PSICOPATOLOGICI

Tipo di paura Disturbo


Paura o ansia eccessiva
Disturbo d’ansia di separazione
rispetto alla separazione
Disturbo d’ansia di separazione Paura eccessiva di rimanere soli
Paura di essere giudicati
Fobia sociale, Disturbo delirante
negativamente
Ipocondria, Crisi di panico Paura di morire
Disturbo di personalità Paura dell’abbandono
Paura o ansia marcata di un
Fobia oggetto
o situazione specifica
Paura di perdere il controllo o di
Panico
impazzire
Disturbo da stress post- Paura di rivivere situazioni
traumatico traumatiche

MODELLI NEUROBIOLOGICI
È utile e interessante soffermarsi
rapidamente su cosa accade nel nostro
cervello nel momento in cui abbiamo paura. I
modelli neurobiologici della paura sono
diventati sempre più sofisticati e complessi, e
prevedono l’attivazione di network neuronali
non circoscrivibili a una singola area del
cervello o a un singolo meccanismo.
Secondo tali modelli, la paura, nelle sue
forme patologiche, deriva da un meccanismo
detto di «riconsolidamento», un processo
patologico ascrivibile a due aspetti ben
precisi: la «generalizzazione», il reclutamento
tra i fattori scatenanti della paura di stimoli
non correlati all’evento inizialmente
responsabile del fenomeno psichico, e la
«sensibilizzazione», l’incremento progressivo
della percezione della paura dopo
esposizione ripetuta all’evento scatenante.
Questi due fenomeni (generalizzazione e
sensibilizzazione) fanno sì che, dopo
l’esposizione a un evento spaventoso o
traumatico, si generi nel soggetto una
condizione di paura via via più ingravescente;
tale condizione si innesca anche in risposta a
stimoli distanti dall’evento scatenante
iniziale.
Si tratta di due fenomeni opposti a quelli
che si verificano in caso di remissione della
percezione della paura, la «discriminazione»
e l’«estinzione». La discriminazione consiste
nel limitare la reazione di paura al singolo e
specifico stimolo spaventoso, mentre
l’estinzione consiste in una reazione di
desensibilizzazione progressiva ottenuta
mediante l’esposizione ripetuta allo stimolo
fobico.
Su un piano strettamente neurobiologico,
è ben noto il ruolo dell’amigdala rispetto
all’espressione della paura. Un recente
articolo della rivista «Nature» ha mostrato
che un evento stressante/pauroso fisico e
psichico determina l’attivazione
dell’amigdala, in particolare la divisione
laterale e centrale di questa regione,
attraverso la mediazione di una regione del
talamo, il nucleo paraventricolare, che è stata
denominata brain area stress sensor, «sensore
cerebrale dello stress». 18 Tuttavia, se il
coinvolgimento dell’amigdala è ben noto, ed
è stato confermato da studi sia sul modello
animale sia sull’uomo, recentemente Joseph
LeDoux, in un’intervista pubblicata sulla
rivista «PNAS », ha ribadito che l’amigdala, per
quanto necessaria nell’espressione della
paura, non è però sufficiente. È in gioco
quindi un sistema più complesso che non
riguarda solo l’amigdala (per usare le parole
del ricercatore newyorkese: «Not simply the
amygdala»). 19 In particolare, nell’uomo sono
coinvolti circuiti superiori, presenti a livello
prefrontale. Questa differente neuroanatomia
della paura nell’uomo ha un’origine anche di
tipo «culturale», dovuta al fatto che l’essere
umano non ha solo paure «concrete», legate a
minacce o pericoli che incontra sulla propria
strada. Spesso ha paure «esistenziali», e
queste ultime sono quelle più
frequentemente coinvolte negli stati
depressivi.
La paura dell’uomo, quindi, non è
semplicemente una reazione immediata (in
termini neurofisiologici diremmo
«sottocorticale») a uno stimolo percepito
come pericoloso, ma coinvolge aree cerebrali
più complesse e implicate non solo
nell’elaborazione delle emozioni, ma anche
nella regolazione dell’umore e nelle capacità
cognitive.
La mappatura del cervello «ansioso» è una
delle frontiere di ricerca più complicate delle
neuroscienze. Come detto, la paura e l’ansia
non riguardano solo l’amigdala, ma regioni
più vaste e connesse tra loro. Tra queste,
particolare attenzione va riservata al
cosiddetto default mode network (DM N). Il
DM N, in realtà, non è una singola area del
cervello, ma un sistema, un network, che
include al suo interno diverse regioni
cerebrali, tra cui la corteccia mediale
prefrontale, la corteccia cingolata posteriore e
i lobi mediali temporali. Nel mondo
informatico, si definisce default mode un
sistema preimpostato che viene
automaticamente utilizzato in mancanza di
un’impostazione dell’utente: si dice che una
funzione si attiva «di default» per intendere
qualcosa che si avvia automaticamente in
condizione di stop o inattività. Nel nostro
cervello il DM N possiede una funzione simile:
esso si attiva automaticamente in condizioni
di riposo e si «deattiva» durante l’esecuzione
di un compito attentivo. Una delle ipotesi più
accreditate riguardo l’origine degli stati
ansiosi, la cosiddetta load theory (teoria del
sovraccarico), è che essi siano la conseguenza
di una incapacità del cervello di «deattivarsi»,
di filtrare o inibire gli stimoli interni
irrilevanti o ansiogeni, con la conseguenza
che il cervello verrebbe sovrastimolato
ricevendo un carico attentivo-percettivo
insostenibile. 20
Nelle persone ansiose, le regioni coinvolte
in questo network sono «meno collegate» tra
loro rispetto a quelle dei soggetti non ansiosi.
In termini tecnici, si parla di una «ridotta
connettività». L’ipotesi è che un ridotto
funzionamento del DM N non consentirebbe al
cervello a riposo di costituire un adeguato
«filtro» rispetto alla molteplicità degli stimoli
attentivi-percettivi ricevuti. In qualche modo,
è come se il nostro cervello, durante uno stato
ansioso, non raggiungesse mai la condizione
di default ma, parafrasando il linguaggio
informatico, finisse in blocco da sovraccarico.
Studi di neuropsicoanalisi hanno ipotizzato
che il DM N possa rappresentare l’equivalente
neurobiologico dell’Io freudiano, e cioè
costituire una funzione regolatrice degli
stimoli interni, in grado di inibire,
controllare, dirigere, limitare la cosiddetta
«energia libera» secondo le esigenze imposte
dal confronto con la realtà (quello che, in
termini psicoanalitici, è definito «processo
secondario»).

Il valore della paura


«Tutti dobbiamo avere paura» è la traduzione
del titolo di un famoso e importante
contributo monografico di due ricercatori
americani, Allan Horwitz e Jerome Wakefield,
i quali hanno voluto sottolineare,
rivolgendosi in particolare ai curatori dei
sistemi nosografici attuali, il ruolo fisiologico
e in un certo senso adattivo che la paura
svolge nell’uomo. 21 La paura ha una
funzione adattiva in quanto permette di
reagire a eventi o stimoli pericolosi o
stressanti e, qualora non assuma una
connotazione francamente psicopatologica
tale da determinare un blocco psichico,
emotivo e motorio, permette lo sviluppo di
adeguate strategie difensive volte a eliminare
l’ostacolo. Per esempio, per riferirci alla
quotidianità, avere paura di «attraversare la
strada» è necessario, ed è una delle paure che
i genitori «insegnano» ai bambini, proprio
per il ruolo in un certo senso protettivo che
svolge.
Resta da chiedersi qual è il confine tra
paura normale e paura patologica. Il dibattito
è particolarmente attuale alla luce delle
continue modificazioni del contesto sociale,
culturale e ambientale nel quale ci troviamo.
Questo determina il continuo, e via via
sempre più notevole, cambiamento dello
stimolo pauroso. La sua mutevolezza è tale
da avere indotto il sociologo Zygmunt
Bauman a definire la paura postmoderna e
contemporanea come una «paura liquida». 22
Basti pensare a quanto sta accadendo ai
giorni nostri: il rapido susseguirsi di scenari
politici differenti, e spesso enigmatici per
l’uomo comune, provoca pericoli di natura
sociale, per esempio il terrorismo, nei
confronti dei quali non è facile definire il
confine tra una fisiologica e necessaria
risposta difensiva e lo sconfinamento nel
panico. Horwitz e Wakefield hanno affrontato
il problema esaminandolo su due fronti. Dal
punto di vista della ricerca scientifica, nel
momento in cui i neurobiologi tentano di
determinare le basi organiche del fenomeno,
la necessità di definire in modo più completo
e meno ambiguo i confini della paura
«normale» si rivela sempre più impellente.
Questo implica, ovviamente, che una corretta
definizione delle basi neurofisiologiche della
paura necessiti di un costrutto teorico e di
una definizione fenomenologica appropriata.
D’altro canto, sottolineano, il problema non è
soltanto clinico o scientifico ma è anche etico,
poiché solleva una questione sempre più
attuale in psichiatria, quella dei limiti che è
necessario porre rispetto a un’eccessiva
medicalizzazione delle emozioni.
V
Alla base della depressione

«Tutto ha inizio nel cervello…»


Nel 2001 la rivista americana «Newsweek» ha
pubblicato un’ampia e approfondita rassegna
dal titolo How It All Starts Inside Your Brain
(Tutto ha inizio nel cervello). L’articolo veniva
pubblicato alla fine del cosiddetto «decennio
del cervello» e descriveva, con un linguaggio
semplice e chiaro, le moderne conquiste
tecnologiche applicate alle neuroscienze
cliniche e la capacità degli strumenti di
neuroimaging, per esempio la risonanza
magnetica funzionale, di fornire immagini
cerebrali per analizzare e comprendere il
funzionamento del cervello in vivo. In
particolare, esaminava la possibilità di
investigare l’attivazione di specifiche aree
cerebrali in risposta a eventi di vario tipo.
L’articolo mostrava al grande pubblico non
solo come «tutto ha inizio nel cervello», ma
anche come le neuroscienze si fossero dotate
di strumenti di studio altamente sofisticati e
in grado di consentire una più profonda
conoscenza del funzionamento neuronale.
Il «decennio del cervello» era iniziato nel
1990, con una proclamazione ufficiale
dell’allora presidente degli Stati Uniti George
W. Bush: «Nel corso degli anni, la nostra
comprensione del cervello – come funziona,
cosa accade quando viene danneggiato o
colpito da una malattia – è enormemente
aumentata. Ma abbiamo ancora molto da
imparare. È indispensabile non smettere di
studiare il cervello: milioni di americani sono
affetti da patologie cerebrali, disturbi
neurogenetici o neurodegenerativi come
l’Alzheimer, nonché ictus, schizofrenia,
autismo, disturbi del pensiero, del linguaggio
e dell’udito». Si è trattato di un’iniziativa
storica, perché per la prima volta lo studio del
cervello diventava un programma di
intervento politico, che obbligava le maggiori
istituzioni governative a includere le
neuroscienze nei loro ambiti di azione
strategica e di investimento economico.
Il «decennio del cervello» è stato
sponsorizzato dalla Library of Congress e dal
National Institute of Mental Health (NIM H),
che hanno organizzato una serie di convegni
e incontri tra neuroscienziati di fama
internazionale e hanno consentito la
pubblicazione di alcune opere a
testimonianza di questo sforzo scientifico:
The Adaptable Brain (Il cervello flessibile),
volto alla descrizione dell’abilità del cervello
di adattarsi e di modificare la propria
struttura e funzione; 1 Discovering Our Selves:
The Science of Emotion (Scoprire noi stessi: la
scienza dell’emozione); 2 Neuroscience,
Memory, and Language (Neuroscienze,
memoria e linguaggio). 3
Come si può dedurre dai titoli, si tratta di
lavori finalizzati allo studio e alla
comprensione non tanto di specifici disturbi
del cervello, come Alzheimer o ictus, quanto
di meccanismi fisiopatologici di base, in
grado di determinare i cambiamenti del
cervello (plasticità sinaptica) e soprattutto le
funzioni cognitive superiori (memoria e
linguaggio) e quelle emotive (la scienza delle
emozioni). In quegli stessi anni, la Charles
Dana Foundation iniziava a organizzare la
«Settimana della consapevolezza sul cervello»
(BAW , Brain Awareness Week), un meeting
annuale che coinvolge oltre 300
neuroscienziati «leader» e numerosissime
società nazionali di neurologia o
neuroscienze. L’ultima BAW si è svolta nel
marzo 2016 e ha dedicato grande spazio alla
salute mentale, in particolare ai problemi
legati all’addiction (dipendenza da sostanze),
ai disturbi dell’umore e alla schizofrenia.
Contemporaneamente si sono moltiplicate
le iniziative volte all’approfondimento dello
studio del cervello: nel 2013 è stato lanciato lo
Human Brain Project (Progetto sul cervello
umano), con sede dapprima a Losanna e poi a
Ginevra: si tratta di un progetto
internazionale, prevalentemente europeo,
fondato sull’alleanza di 135 istituzioni
partner, e con un budget previsto di 1000
miliardi di euro, metà dei quali verranno
dalla Commissione europea, e l’altra metà da
altri paesi, in particolare dalla Svizzera, o
istituzioni partecipanti.
Come in un duello programmatico-
scientifico, nello stesso anno, il presidente
degli Stati Uniti ha proclamato l’avvio dello
US Brain Research Through Advancing
Innovative Neurotechnologies (Ricerca
americana sul cervello attraverso
neurotecnologie innovative) in grado di
competere con l’europeo Human Brain Project.
Barack Obama ha annunciato la nascita di
questo progetto di ricerca sul cervello
dichiarando in modo suggestivo: «Noi
uomini possiamo identificare galassie
lontane anni luce e studiare particelle più
piccole di un atomo, ma non abbiamo ancora
risolto il mistero racchiuso nelle tre libbre di
materia che stanno tra le nostre orecchie».
Come abbiamo visto nel capitolo I, nel
2010 la rivista «Nature» aveva profeticamente
affermato che stava iniziando il «decennio dei
disturbi psichiatrici»; come a dire che dal
decennio del cervello si sta gradualmente
passando al «decennio del funzionamento
mentale».
Perché tutto questo interesse per il cervello
e per la salute mentale? Alcune risposte le
avremo dai tanti convegni che saranno
organizzati dalle diverse istituzioni
internazionali: il NIM H, l’Organizzazione
mondiale della sanità, la World Bank e
l’International Monetary Fund. Tutti questi
incontri cercheranno di spiegare come mai la
depressione abbia determinato una ricaduta
economico-sociale pari a 800.000 miliardi di
dollari nel 2010, una cifra che, secondo le
stime, è destinata a raddoppiarsi nel 2030. Ma
il fatto più importante è il riconoscimento
della necessità di studiare il funzionamento
del cervello.

… ma non tutto è nel cervello


La complessità della ricerca sulla
depressione, alla luce dell’origine
multifattoriale del disturbo, richiede di
acquisire o approfondire alcune moderne
nozioni relative sia al funzionamento
cerebrale sia al rapporto tra sviluppo del
cervello, ambiente e ciclo di vita. È necessario
conoscere i concetti di «mente relazionale»,
«mentalizzazione» e «intersoggettività» per
capire meglio come la depressione, secondo il
modello bio-psico-sociale, nasca
dall’interazione fra questi diversi livelli. I
termini «ambiente» e «relazione» segnano
percorsi di studio affascinanti; basti pensare,
come vedremo in dettaglio, all’ambiente
materno in cui nasce e cresce il bambino e a
quanto la relazione madre-bambino
influenzi, fin dall’inizio della vita, la crescita
bio-psichica dell’individuo.
Lo sviluppo del cervello non segue una
traiettoria unica, ma è determinato da
un’interazione tra diversi fattori, legati al
patrimonio genetico e inerenti all’ambiente
esterno, familiare, sociale, geografico, ecc. In
questo senso, parafrasando il titolo di
«Newsweek», potremmo affermare che è vero
che «tutto ha inizio nel cervello», ma «non
tutto è nel cervello», dal momento che lo
sviluppo di questo organo dipende in gran
parte dall’influenza dell’ambiente esterno,
dalle esperienze di vita, dalle emozioni e
dagli affetti vissuti.
La fisiologia del cervello è un tema di
studio ambizioso, in continua revisione. Il
raggiungimento di conoscenze sempre più
innovative, talvolta in contraddizione con
quelle ritenute assodate dalla comunità
scientifica fino a poco tempo prima, è una
caratteristica tipica di questo campo di
ricerca. Quello che possiamo affermare è che
il cervello possiede un proprio percorso
maturativo che si esprime in termini di
densità sinaptica, materia grigia,
mielinizzazione e metabolismo cellulare.
Evidenze sempre più solide in termini
neurofisiologici, e raggiunte con le
acquisizioni provenienti dalle
neuroimmagini, testimoniano come gran
parte dello sviluppo cerebrale si completi
entro i 15-16 anni.
Questo non implica che lo sviluppo si
arresti durante l’adolescenza, anzi: i
fenomeni di plasticità sinaptica sono ormai
inducibili e osservabili anche nel cervello
anziano. È indubbio però che, in quei primi
15 anni di crescita, il nostro cervello raccoglie
gran parte delle informazioni e sviluppa gran
parte dei circuiti che poi determineranno, tra
le varie cose, il nostro comportamento. Non
solo, modifica anche la propria morfologia,
con una progressiva «lateralizzazione» che
include, per esempio, un’importante
asimmetria sinistra per quanto riguarda le
aree del linguaggio. Con il passare degli anni,
la perdita di tale asimmetria e la riduzione
della densità della materia grigia, con
conseguente slargamento dei ventricoli,
segnano l’invecchiamento.
Conoscere la fisiologia del cervello umano,
o almeno alcuni aspetti fondamentali,
permette di capire, o di avvicinarsi di più, al
significato che hanno, in termini
neuroanatomici e funzionali, determinate
scoperte sul cervello delle persone colpite da
depressione.

Il «cervello depresso»
Bisogna partire da una premessa: i dati di
ricerca disponibili, nonostante consentano
una visione più dettagliata dei meccanismi
cerebrali della depressione, sono
«incompleti», nel senso che non permettono
di effettuare una diagnosi di depressione
sulla base di referti cerebrali. È molto
lontano, e forse non arriverà mai, il momento
in cui la diagnosi di depressione si potrà
basare su referti di risonanza magnetica,
anziché su un’attenta valutazione clinico-
anamnestica-psicopatologica. Inoltre, i
meccanismi di rapporto causale tra un dato
strutturale/funzionale e lo stato clinico di un
paziente non sono ancora noti e, dunque, non
ci è possibile stabilire con sufficiente certezza
se il dato neurobiologico rappresenti la
conseguenza o la causa di un certo disturbo.
Le patologie psichiatriche non rispondono
alla legge causa-effetto, ma seguono le vie
della multimodalità bio-psico-sociale. Di
conseguenza, al fine di ridurre la complessità
dei risultati delle ricerche e poter fornire al
lettore non tecnico un resoconto fruibile e
aggiornato, correremo il rischio del
«riduzionismo esemplificativo».
Fatte queste premesse, cosa possiamo dire
riguardo a come si presenta il cervello di una
persona depressa? Per semplicità,
esaminiamo cosa accade nelle tre aree
cerebrali principali durante un episodio
depressivo.

1. Le aree limbiche fanno parte del sistema


in grado di regolare i circuiti emozionali:
ci riferiamo, in particolare,
all’ippocampo, coinvolto nella memoria,
alla parte mediale del talamo, coinvolta
nella percezione emotiva, e all’amigdala,
che svolge un ruolo chiave nella risposta
neuronale a stimoli negativi. Queste
strutture limbiche, durante la
depressione, non vengono regolate
sufficientemente dalle aree corticali
superiori. È quindi possibile ipotizzare
che un’anomalia delle connessioni tra la
corteccia frontale e le aree limbiche causi
una disregolazione nel processamento
delle emozioni e sul tono dell’umore.
2. Il default mode network (DM N) , di cui
abbiamo già parlato nel capitolo IV,
consiste in una rete (network) che
coinvolge diverse aree cerebrali che si
attivano durante le condizioni di riposo
del cervello e al contrario si «deattivano»
in presenza di uno stimolo che richiede
un compito attentivo. Questo network
coinvolge diverse strutture cerebrali
come la corteccia mediale prefrontale, la
corteccia cingolata posteriore, le cortecce
parietali medie, laterali e inferiori.
Esistono dati molto robusti in letteratura
che dimostrano, durante gli stati
depressivi, un’alterazione delle
connessioni tra le regioni che formano
questo network in condizioni di riposo.
3. Grazie alla mole di dati acquisiti
attraverso gli studi di neuroimaging,
sappiamo che il cervello dei pazienti
depressi presenta, a livello delle aree
prefrontali (le aree anteriori), differenze
tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro.
Nelle persone affette da depressione,
l’emisfero sinistro, a livello della
cosiddetta area dorsolaterale prefrontale
(DLPFC , Dorso-Lateral Prefrontal Cortex), è
meno attivo rispetto ai soggetti sani, al
contrario la regione corrispondente
nell’emisfero destro risulta più attiva.
Questo sbilanciamento destro-sinistro ha
spinto i ricercatori a cercare terapie
innovative per riequilibrare questa
alterazione, basate su metodiche non
invasive di stimolazione selettiva
cerebrale (vedi capitolo X).

Depressi si nasce o si diventa?


IL MODELLO GENE-AMBIENTE
La vecchia idea che i geni da soli provochino
una malattia come la depressione è da
considerarsi ampiamente superata. In
medicina, il concetto di interazione gene-
ambiente (G × E, Gene × Environment) ha
superato il modello monofattoriale di
malattia, nel quale un singolo fattore sarebbe
in grado di determinare lo sviluppo di un
quadro patologico. Il modello G × E, adotta il
paradigma della complessità, ritenendo che
sia l’interazione tra diversi fattori a provocare
la patologia e superando così l’idea di un
meccanismo causale predeterminato.
Numerosi sono i «fattori di rischio» che
possono incidere, a vari livelli, sulla funzione
cerebrale attraverso il meccanismo interattivo
di scambio tra genoma e ambiente, come
l’urbanizzazione, la migrazione, la
disoccupazione, il tasso di criminalità, l’uso
di cannabis.
Come si colloca la depressione all’interno
del modello gene-ambiente? La depressione è
un disturbo solo in parte «ereditario», 4 con
un rischio stimato di malattia nei familiari di
primo grado tre volte maggiore rispetto alla
popolazione generale; altri studi hanno
segnalato addirittura un incremento pari a
dieci volte. 5 Complessivamente, la
depressione ha un tasso di ereditarietà
intorno al 40%, inferiore a quello di altri
disturbi psichiatrici, quali schizofrenia e
disturbo bipolare, ma superiore al disturbo
d’ansia. I geni «candidati» a un maggior
rischio di depressione sono quelli associati a
tratti di personalità e tratti temperamentali
come il neuroticismo, l’impulsività, la ridotta
capacità di apertura alle relazioni e al mondo,
la ruminazione. Questo dato è
particolarmente importante, in quanto
sottolinea come l’ereditarietà genetica non sia
«aspecifica», ma coinvolga l’espressione e lo
sviluppo dei disturbi clinici correlati al
quadro depressivo.
Un concetto ancora più innovativo è quello
dell’«epigenetica», che induce modificazioni
ereditabili che influenzeranno il possibile
sviluppo di depressione. In termini tecnici,
l’epigenetica studia la regolazione
dell’espressione di un gene attraverso
modificazioni dirette sul D N A o su proteine
associate al DNA.
Un esempio molto importante è quello
della metilazione del DNA, il legame di un
gruppo metile [-CH 3] a una base azotata del
DNA. I ricercatori hanno individuato dei
collegamenti tra un alterato grado di
metilazione e lo sviluppo di malattie diverse
tra loro come i tumori o le malattie
autoimmuni. Negli studi su pazienti
psichiatrici, è stato riscontrato che gli
individui depressi presentano differenti
profili di metilazione, iper- o ipometilazione,
in specifici «loci genici». Un esempio
fondamentale al riguardo è quello del
«fattore neurotrofico cerebrale» (BDNF, Brain
Derived Neurotrophic Factor). Ormai sempre
più dati mostrano che i pazienti affetti da
depressione hanno ridotti livelli di BDNF, a
loro volta associati a un’alterata metilazione a
livello di specifici segmenti di DNA relativi
alla produzione di BDNF.
Diverse ricerche stanno studiando le
varianti genetiche che, combinandosi con
eventi avversi nelle primissime fasi della vita,
predispongono allo sviluppo di depressione.
Per esempio, il polimorfismo del gene che
codifica per il trasportatore della serotonina
(S ERT, Serotonin Transporter), interagendo con
alcuni fattori di rischio particolari, quali il
maltrattamento in età infantile, favorisce
l’insorgenza di sintomi depressivi o di
tentativi di suicidio. Un altro gene in grado di
modulare l’impatto dello stress sulla
vulnerabilità all’insorgenza di depressione è
il BDNF. Il BDNF è una neurotrofina
ampiamente espressa nel cervello, dove è
implicata nella crescita neuronale, nella
plasticità sinaptica e nella sopravvivenza
neuronale, e svolge un ruolo importante nelle
anomalie strutturali cerebrali osservate negli
individui depressi, come per esempio un
ridotto volume ippocampale. Un
polimorfismo all’interno del gene
«promotore» del BDNF è in grado di ridurre
l’attività della proteina BDNF ed è associato a
deficit della memoria, a una riduzione del
volume cerebrale e a un’alterazione della
comunicazione intercellulare.
Nel 2011 Ann Gardner e Richard Boles,
due ricercatori rispettivamente del Karolinska
Institutet di Stoccolma e della University of
Southern California, hanno pubblicato un
articolo dal titolo fortemente evocativo,
Beyond the Serotonin Hypothesis, oltre l’ipotesi
della serotonina. 6 In realtà, i due studiosi si
sono fatti portavoce di quella che era ormai
divenuta un’opinione sempre più diffusa, non
solo tra i ricercatori, ma anche tra gli
psichiatri, che sono spesso i testimoni più
consapevoli dell’andamento delle varie
terapie e della realtà clinica della
depressione.
Per molti anni, l’ipotesi prevalente sulla
depressione è stata che essa fosse causata da
un deficit assoluto o relativo di monoamine,
tra cui la serotonina sembrava l’imputato
principale. Tutto era partito dall’osservazione
casuale che la reserpina, un anti-ipertensivo
che provoca una deplezione di serotonina nel
cervello, causa depressione come effetto
collaterale.
Recentemente il «New York Times» ha
pubblicato online il documentario Prozac:
Revolution in a Capsule, sulla rivoluzione
provocata, alla fine degli anni Ottanta,
dall’introduzione della fluoxetina nel
trattamento della depressione. Per citare le
parole usate dai giornalisti americani, il
Prozac era stato considerato «la pillola del
miracolo», un farmaco in grado di
«preservarci dalle acque profonde
dell’angoscia mentale». Veniva ritenuto la
«star» di una nuova classe di farmaci, ancora
oggi ampiamente utilizzata e validata: gli
inibitori selettivi della ricaptazione della
serotonina (S S RI , Selective Serotonin Reuptake
Inhibitors). Alla base di questa «rivoluzione»
scientifica, ma anche culturale e sociale, c’era
la convinzione, molto diffusa anche a livello
mediatico, che la depressione potesse essere
ridotta a una carenza dei livelli di serotonina
e che quindi bastasse riequilibrare questi
livelli per recuperare la felicità perduta.
Oggi sappiamo che le cose sono meno
semplici di come potevano apparire
trent’anni fa, e che gli stessi S S RI hanno
un’azione molto più complessa rispetto al
riequilibrio serotoninergico. Inoltre, siamo a
conoscenza del fatto che esistono altri
neurotrasmettitori coinvolti nella regolazione
dell’umore, come la noradrenalina e la
dopamina. Quest’ultima gioca un ruolo
fondamentale nella rimodulazione dei circuiti
legati al piacere e alla gratificazione, per cui
sono stati sviluppati dei farmaci che mediano
la regolazione dopaminergica con un
meccanismo a «rilascio prolungato».
Le ricerche più recenti stanno valutando il
ruolo del glutammato come sostanza chiave
nell’eziopatogenesi della depressione, e
anche la ricerca in campo farmaceutico si sta
orientando in tal senso. In realtà, l’ipotesi
monoaminergica è stata definitivamente
messa in discussione: non è lo squilibrio di
un neurotrasmettitore a provocare la
depressione, ma una complessa interazione
tra fattori genetici, inclusi, tra gli altri, i
fattori in grado di modificare la trasmissione
dei neurotrasmettitori. Per quanto riguarda i
fattori ambientali, sono molti quelli che
possono contribuire alla vulnerabilità alla
depressione: l’esposizione a infezioni durante
la vita uterina, la mancanza di specifici
nutrienti, lo stress materno, le complicazioni
perinatali, lo svantaggio sociale, il vivere in
un contesto urbano, l’appartenenza a
minoranze etniche, il maltrattamento
infantile, l’essere oggetto di bullismo o di
eventi traumatici, l’esposizione allo stress
cronico e l’utilizzo di cannabis.
È importante sottolineare che spesso la
depressione si associa anche a una
dipendenza. I pazienti depressi spesso fanno
uso di sostanze psicotrope, come alcol o
cannabis, nel tentativo di controllare o
trattare la loro depressione. Ma l’utilizzo di
queste sostanze contribuisce a provocare
eventi di vita «negativi» che acuiscono la
sintomatologia depressiva. Sia l’alcol sia la
cannabis sono sostanze ad altissima
diffusione nella nostra società. Il 10-15% dei
pazienti con depressione fa uso di alcol e il
tetraidrocannabinolo (THC ), il principio attivo
della cannabis, a lungo termine compromette
sia il sistema serotoninergico sia altri
neurotrasmettitori, determinando
l’insorgenza di sintomi depressivi. È
interessante notare come questi fattori di
rischio siano legati alla specificità del
contesto storico: l’appartenenza a una
minoranza etnica, lo svantaggio sociale (la
perdita del lavoro o la precarietà della
situazione lavorativa), l’urbanizzazione e
l’uso di cannabis sono fattori di rischio
ambientale proprio del contesto attuale.
È verosimile ipotizzare che all’interno di
un modello dinamico come quello gene-
ambiente, le variabili in gioco possano
modificarsi nel tempo ponendo nuove sfide
ai ricercatori. In questo senso, il modello
gene-ambiente rappresenta un framework di
riferimento costante all’interno del quale
potranno cambiare i singoli elementi.

IL MODELLO DEL TRAUMA


Il modello del trauma si basa su un’idea
molto semplice, così schematizzabile: la
depressione insorge in relazione diretta a un
«avvenimento» che la precede di poco, o è
ricollegabile ad «avvenimenti» accaduti in
passato, in particolare nei primi anni di vita.
Abbiamo preferito utilizzare il termine
generico «avvenimento» per raggruppare
diverse nozioni: «trauma», «life events»,
«vulnerabilità», «resilienza», «adattamento».
Tutti questi concetti presentano punti di
intersezione e interazione reciproca per la
comprensione dello sviluppo e
dell’andamento della depressione nel corso
della vita. È necessario definire il processo
dinamico che si viene a creare quando un
evento con potenzialità traumatiche, come un
lutto, la perdita del lavoro o l’insorgere di
una malattia, colpisce l’individuo, il quale
potrà rispondere utilizzando le proprie
risorse adattive, che gli permetteranno di
superare gli eventi critici, oppure adottando
modalità disadattive, con conseguente
evoluzione psicopatologica. Cerchiamo di
capire cosa può accadere quando un life event
si trasforma in trauma, e come mai non tutti
gli eventi stressanti diventano traumi e non
tutti i traumi causano malattia.
I life stress events, gli «eventi di vita
stressanti», sono cambiamenti significativi
che accadono lungo l’arco dell’esistenza e
modificano l’assetto precedente. I più comuni
sono collegati alla «perdita» (vedi paragrafo
successivo), come un lutto, una separazione,
un trasferimento, la perdita del lavoro, e sono
metabolizzati e superati nel tempo. L’evento
stressante si confronterà con le capacità
adattive del soggetto che lo vive di mettere in
atto «strategie di coping», cioè meccanismi
difensivi che salvaguardino l’equilibrio
psichico.
Il termine «trauma» viene dal greco
traúma, che significa «colpo, ferita,
perforazione, traccia indelebile». In
psicopatologia, il trauma è un evento che
modifica radicalmente, in modo brusco e
violento, la vita psichica. Il trauma colpisce la
persona sia direttamente, tramite l’evento, sia
indirettamente, ponendola in una condizione
di impotenza, terrore, minaccia di fronte al
pericolo. Aspetto particolarmente
interessante è che questi sentimenti si
possono sviluppare anche all’interno di una
relazione interpersonale, come quella madre-
bambino o nel rapporto di coppia, tanto che è
possibile parlare di «trauma relazionale».
Il DS M -5 definisce il trauma come:
«Qualsiasi evento/i che può/possono causare
o costituire una minaccia di morte, di ferite
gravi o violenza sessuale a un individuo, a un
membro della famiglia o a un amico
intimo». 7
È stato dimostrato che i traumi infantili,
inclusi l’abuso emotivo, l’abbandono e il
vivere atmosfere di violenza familiari, o
violenza assistita, influenzano le funzioni
affettive e cognitive, con un rischio maggiore
di depressione. Si è visto, però, che non tutti i
bambini traumatizzati, anche provenienti
dalla stessa famiglia, diventeranno depressi,
e questo viene spiegato tramite le diverse doti
di «resilienza», cioè la capacità di superare in
modo adattivo lo stress e le avversità, pur
mantenendo normali funzionalità
psicologiche e fisiche.
Secondo l’American Psychological
Association, la resilienza è «il processo che
permette un buon adattamento di fronte ad
avversità, traumi, tragedie, minacce o nei
confronti di importanti fonti di stress, come
problemi familiari e di relazione, gravi
problemi di salute o presenza di eventi
stressanti sul luogo di lavoro e stress
finanziari». 8 La resilienza è ordinaria, non
straordinaria: essere resilienti vuol dire
affrontare con successo le prove a cui si è
sottoposti. La parola «resilienza» deriva dal
latino resalio, iterativo del verbo salio, che in
una delle sue accezioni originali indicava
l’azione di risalire sulla barca dopo che
questa era stata capovolta dalle onde. Il
termine «resilienza» è la metafora di un
fenomeno misurabile in fisica, dell’attitudine
di un corpo a resistere senza rotture, in
seguito a sollecitazioni esterne, brusche o
durature.
In ambito psicologico, la resilienza è la
capacità di evolversi, di riorganizzarsi in
modo positivo, anche in presenza di fattori di
rischio. È una caratteristica che si sviluppa
nel corso della vita, soprattutto grazie a una
rete di supporto e a una base sicura. La
resilienza del bambino si formerà grazie alla
capacità di stabilire legami di attaccamento e
di chiedere aiuto, di regolazione emozionale,
di risposta allo stress e di gratificazione.
Essere resilienti non significa essere
immuni alla sofferenza. La persona resiliente
può saper affrontare situazioni critiche e
difficili da sopportare, e andare ugualmente
incontro alla depressione, oppure essere
resiliente solo in alcune aree, come il lavoro, e
vulnerabile in altre, come gli affetti familiari.
Recentemente è stato proposto un modello
eziopatogenetico della depressione legata al
trauma, l’ABC model: il trauma, anche se
risolto e superato, può lasciare tracce
neurobiologiche e psicologiche indelebili, che
costituiscono una vulnerabilità permanente a
sviluppare disturbi psichiatrici. 9 Quando il
trauma evolve verso la depressione, uno degli
effetti permanenti potrà essere lo sviluppo di
una «memoria» della disregolazione affettiva,
per cui la depressione tenderà a ritornare
anche in assenza di altri episodi traumatici.
Molti dei «fattori protettivi» che si
contrappongono alla cronicizzazione degli
effetti del trauma e alle sue sequele
psicopatologiche sono di natura
«relazionale».
È ormai chiaro, quindi, il rapporto di tipo
«quantitativo» fra la gravità delle esperienze
avverse in età infantile e lo sviluppo di
episodi depressivi nell’arco della vita.
Le avversità in età infantile sono associate
a un aumento del rischio di suicidio in diversi
momenti del ciclo vitale: infanzia,
adolescenza, età adulta. È importante
ricordare che, sebbene le esperienze
stressanti in età precoce abbiano un impatto
certo sulla vulnerabilità alla depressione,
nessuna di esse, da sola, conduce a disturbi
psichiatrici in tutti gli individui esposti.

IL MODELLO NEURO-INFIAMMATORIO
All’interno del modello gene-ambiente, una
delle ipotesi eziopatogenetiche più
interessanti per spiegare l’insorgenza di uno
stato depressivo è il cosiddetto modello
neuro-infiammatorio. Studi recenti hanno
mostrato come i soggetti depressi mostrino
livelli ematici incrementati di una varietà di
biomarker periferici rispetto alla popolazione
non depressa. Questi dati sono stati spesso
interpretati come la dimostrazione che
persino la depressione possa essere
considerata una malattia infiammatoria tout
court. 10 L’interazione tra polimorfismi genici
tipicamente candidati allo sviluppo di
depressione (come il BDNF e il S ERT) e
polimorfismi deputati alla sintesi di proteine
infiammatorie, citochine quali
l’«interleuchina 10» e l’«interleuchina 8», può
concorrere allo sviluppo di resilienza o
vulnerabilità a eventi di vita stressanti
sperimentati in età adulta. Questo pattern
genetico determina in sostanza la plasticità o,
al contrario, la rigidità di un soggetto nel far
fronte agli eventi avversi. La vulnerabilità o,
per meglio dire, la rigidità e la mancanza di
resilienza, concorreranno allo sviluppo di
quadri clinici depressivi che si tradurranno
da un lato in un aumento dei livelli ematici
delle citochine infiammatorie e del cortisolo,
dall’altro in una riduzione dei livelli dei
fattori di crescita neurotrofici (BDNF) e delle
monoamine (serotonina, dopamina,
noradrenalina).

Perdita, attaccamento e mente


relazionale
In questo paragrafo ci occuperemo di come
gli eventi della vita, per esempio la perdita,
possano plasmare le capacità relazionali della
mente, agendo attraverso modifiche
neurofisiologiche cerebrali che, a loro volta,
influenzano la funzionalità delle relazioni
interpersonali, in un meccanismo circolare. A
questo meccanismo si può far risalire il
formarsi dello stato depressivo.
Con il termine «mente relazionale» si
intende porre l’accento sul rapporto tra
meccanismi neuropsichici di funzionamento
interni e meccanismi esterni legati alle
relazioni: entrambi determinano la risposta
alla perdita. La mente è qualcosa di
sovraordinato rispetto all’organo cervello, da
cui nasce e da cui dipende. È il particolare
funzionamento della mente che influenzerà il
modo di reagire di ciascun individuo nelle
diverse situazioni della vita. È la perdita che
attiverà la mente relazionale, innescando
meccanismi riparatori, laddove si è
sviluppata la «possibilità» di crearli, o
bloccandosi in una «reazione di resa». Freud
per primo aveva colto il rapporto tra l’evento
del lutto e la malinconia; possiamo ancora
oggi affermare che la depressione è legata
alla perdita, reale o simbolica, di un legame o
di un «oggetto» emotivamente significativo.
Non solo la morte reale di un genitore in età
infantile è stata a lungo al centro delle teorie
psicologiche della depressione, ma
soprattutto la «perdita» intesa come non
disponibilità emotiva da parte delle figure
affettive di riferimento. La separazione della
coppia genitoriale, la malattia grave, fisica o
mentale, di un genitore sono fattori capaci di
determinare una scarsa capacità di
sintonizzarsi con i bisogni emotivi dei figli.
Altri eventi come il maltrattamento, la
trascuratezza, l’abuso e il trauma possono
interferire con il normale sviluppo del
cervello e delle sue funzioni, provocando, a
seconda della fase dello sviluppo in cui si
verificano, alterazioni cognitive, affettive ed
emotive che potranno compromettere in vario
modo la nascente capacità di formare
relazioni interpersonali e la qualità
dell’attaccamento, determinando
vulnerabilità che permangono per tutta la
vita. L’attaccamento insicuro e specialmente
quello disorganizzato sono fattori di rischio
che, per vie diverse, possono favorire
l’insorgenza di disturbi psicopatologici nella
vita adulta.
Nella depressione si verifica un’alterazione
affettiva «relazionale», dovuta alla qualità
della relazione perduta e alle capacità di
riparare la perdita e la ferita. Ripetiamo, il
concetto base è che, nella depressione, la
perdita del legame sarà influenzata in modo
determinante dalla qualità del legame
perduto.
Stringere relazioni è la base della nostra
sopravvivenza individuale e di specie, in
senso evolutivo. Tale capacità è regolata da
una quota genetica, specie-specifica, e da
un’altra epigenetica, plasmata dall’ambiente
in cui l’individuo nasce, cresce e si sviluppa.
Capire l’altro è premessa fondamentale per
instaurare una relazione, e capire se stessi è
premessa per capire l’altro. Come hanno
messo in luce gli studi di John Bowlby, la
formazione di un legame di attaccamento
sicuro è lo strumento attraverso il quale
questa capacità si può realizzare, ed è uno dei
principali compiti evolutivi del primo anno di
vita del bambino, attraverso le sue prime
relazioni, in genere con la madre. 11 Il
bambino sviluppa, all’interno del legame di
attaccamento con la madre, la capacità di
costruire dei «modelli operativi interni», idee
su di sé e sull’altro, relativi alla disponibilità
emozionale, alla possibilità di affidarsi, alla
capacità di separarsi e di essere autonomo e
autosufficiente.
A seconda della qualità della prima
relazione caregiver-bambino, sono stati
descritti quattro stili di attaccamento:
«sicuro», «insicuro evitante», «insicuro
resistente», «disorganizzato».
Nell’attaccamento «sicuro», che è quello che
consente la formazione di una
intersoggettività sana e di una buona capacità
di mentalizzazione, il bambino percepisce la
madre come disponibile emotivamente e
sintonizzata con lui, si affida a lei e
contemporaneamente impara ad avere
fiducia in se stesso, a separarsi e a essere
autonomo.
Negli attaccamenti insicuri, «evitante» e
«resistente», la madre è vissuta come
desintonizzata o inaffidabile a vari livelli, il
bambino non si sente di affidarsi con
sicurezza e può «scegliere» di non rivolgersi
più a lei e di sviluppare una «compulsiva
fiducia in se stesso» oppure di continuare
disperatamente a farlo, rinforzando la sua
dipendenza e diventando incapace di
autonomia perché dominato dal desiderio di
farsi accettare e, dunque, alla continua ricerca
di conferme. L’attaccamento «disorganizzato»
è una forma molto frammentata e instabile di
relazione, in cui il bambino percepisce la
madre contemporaneamente disponibile ed
evitante, sintonizzata e assente, accudente e
respingente.
In questo caso, le emozioni relazionali si
strutturano in maniera disorganizzata, spesso
dissociata, e la relazione con l’altro verrà
percepita come instabile e mutevole, dando
luogo ad atteggiamenti contraddittori ed
emozionalmente poco o per nulla controllati.
La capacità relazionale si costruirà in un
paradosso tra la ricerca spasmodica, e spesso
drammatica, dell’altro e la sua
contemporanea svalutazione ed espulsione
violenta.
Il cervello è l’organo preposto alla
regolazione di queste funzioni, attraverso lo
sviluppo di reti neurali la cui architettura si
forma, si complessifica e si attiva per
garantire gli aspetti più essenziali della
sopravvivenza: la procreazione, il nutrimento
e la difesa della prole, il sistema
dell’attaccamento alle figure più forti in
grado di fornire difesa e protezione,
l’esplorazione per procacciarsi il cibo, la
formazione di un sistema di difesa, la
resilienza. Ognuna di queste funzioni ha una
base relazionale, ovvero prevede un rapporto
tra almeno due individui, che condividono lo
stesso obiettivo, la sopravvivenza appunto.
È utile precisare che parlando di
sopravvivenza ci si riferisce innanzitutto a
quella fisica (il bambino senza la madre non
può sopravvivere), ma anche a quella mentale
(il bambino senza la madre non avrà uno
sviluppo psichico fisiologico). Proprio su
quest’ultimo punto è necessario fare una
riflessione: se è vero che lo sviluppo psichico
fisiologico segue una traiettoria basata in
parte sulle regole biologiche della specie
umana e in parte sulla qualità e sul timing
della relazione madre-bambino, qual è la
tipologia di distorsione dell’attaccamento che
può predisporre alla depressione nella vita
adulta? O anche nella vita del bambino e
dell’adolescente, dal momento che la
depressione colpisce tutte le età della vita?
Che cosa altera in maniera specifica lo
sviluppo fisiologico della traiettoria
relazionale del futuro depresso?
Per citare le parole di Bowlby: «… poiché i
sistemi comportamentali in gran parte si
sviluppano e si organizzano quando
l’individuo è immaturo, vi sono moltissime
occasioni in cui un ambiente atipico può farli
deviare da uno sviluppo di tipo adattivo».
Tre sono le condizioni che analizziamo per
fornire un modello generale di comprensione
del rapporto tra perdita e depressione. 12 Le
«atipie» che consideriamo come modelli per
capire la vulnerabilità depressiva sono: la
morte della madre, la depressione della
madre, il maltrattamento. Va precisato che la
vulnerabilità depressiva determinata da
queste condizioni si deve sempre combinare
con altri fattori bio-psico-sociali per dare
luogo al disturbo depressivo.
All’inizio della sua vita, e per lungo tempo,
l’ambiente del bambino è la madre e pertanto
le «atipie» materne possono essere
responsabili di varie deviazioni dello
sviluppo psichico. La perdita è la
caratteristica distintiva della depressione, ma
ha effetti diversi a seconda dell’età in cui si
verifica. Per esempio, se una perdita come la
morte della madre si verifica prima dei 10
anni di età determinerà un certo quadro
depressivo, diverso da quello che si avrà se la
morte si verifica più tardi. Nel primo caso, la
depressione sarà il risultato di non aver fatto
in tempo a formare completamente
l’architettura e la fisiologia dei circuiti
neuronali della mente relazionale; nel
secondo caso, l’eventuale esito depressivo
sarà in funzione della capacità di tale mente
di «riparare» la perdita.
Nella sua trilogia sull’attaccamento,
Bowlby ha ben demarcato la differenza tra
«separazione» e «perdita», ma nella
depressione i due termini sono quasi sempre
sinonimi. Infatti, nella persona depressa, non
c’è la speranza che la separazione possa
essere reversibile (hopelessness), e neppure la
speranza di poter essere aiutati di fronte al
dolore causato dalla separazione irreversibile,
(helplessness). Se alcuni bambini recuperano
gli effetti devastanti della perdita della madre
abbastanza rapidamente, altri più lentamente
e altri ancora non lo fanno mai, la differenza
è nel legame e non nella perdita in sé per sé.
Un legame che non consente la possibilità di
riparare le rotture, le separazioni e di poter
sopravvivere da soli avvierà alla depressione.
L’attaccamento dell’essere umano, oltre
alle caratteristiche che condivide con quello
delle altre specie animali (per esempio,
l’inclinazione a fornire accudimento e
protezione), ne ha una peculiare, forse il suo
principale vantaggio evolutivo: il legame con
l’«intelligenza sociale» e con la
«mentalizzazione». L’attaccamento, attraverso
la formazione del legame con la figura di
riferimento e la comunicazione con essa,
getta le basi neuronali, affettive ed emotive
per lo sviluppo della cognizione sociale.
Inoltre, la capacità della madre di pensare
alla mente del figlio, o di «avere in mente la
mente del suo bambino», chiamata mind-
mindedness o «capacità di insight» o «funzione
riflessiva», è uno degli elementi che rende
sicuro l’attaccamento e promuove lo sviluppo
della mentalizzazione. Mentalizzare la mente
del figlio significa, per la madre, intuire
quello di cui lui ha bisogno e poter
corrispondere alle sue richieste. Quel
bambino maturerà, con il tempo, la
sensazione di «essere visto», capito,
corrisposto, che gli consentirà di costruire
egli stesso tale capacità. Tutto questo avviene,
attraverso il tatto, lo sguardo, la
comunicazione facciale: «Nelle interazioni
vis-à-vis gli sguardi e le espressioni affettive
facciali costituiscono modalità di
comunicazione fondamentali». 13

Spesso i bambini, per sapere se un cibo è


buono e se possono mangiarlo, chiedono:
«Mamma, mi piace?». Uno studio pubblicato
su «Nature» 14 chiarisce perché fanno spesso
questa domanda. Gli autori hanno osservato
che, nello scegliere cosa mangiare, si fanno
guidare dalla ricerca del «gusto», «del piacere
goloso», attivando un’area cerebrale chiamata
corteccia prefrontale ventro-mediale.
Tuttavia, contemporaneamente a questa
regione cerebrale, si attiva un’altra area (la
corteccia prefrontale dorso-laterale) dove i
bambini «codificano» in modo implicito le
preferenze materne nella scelta del cibo.
Quest’area normalmente si attiva nel cervello
adulto durante una scelta culinaria dettata da
motivi «legati alla salute», alla «buona
qualità» del cibo, e non al gusto. In qualche
modo, è possibile ipotizzare che i bambini, di
fronte alla scelta di cosa mangiare, da un lato
siano guidati dal gusto, attraverso
l’attivazione di una regione cerebrale
specifica, dall’altro siano influenzati dalle
preferenze materne attraverso l’attivazione di
un’area cerebrale dove sono proiettate le
scelte della madre. Fin da piccoli
interiorizzano il controllo materno in modo
implicito, contrastando così il loro impulso
dettato dal gusto e dalla golosità.
Il processo di mentalizzazione continua
anche durante l’adolescenza. La sua riuscita
fisiologica dipende dalle capacità mindful
della coppia genitoriale e del sistema
familiare, e svolge una funzione di primo
piano soprattutto nel momento di passaggio
dall’infanzia all’adolescenza, quando
attraverso l’attaccamento e la
mentalizzazione il bambino costruisce la sua
intelligenza sociale, la facoltà che rende
capaci di vivere insieme agli altri (Figura 2).

Figura 2. Il diagramma illustra il grado di


intersezione concettuale tra la mentalizzazione e 4
concetti o funzioni mentali (rappresentati da
altrettanti cerchi) a essa collegati quali la
m indfulness, la disposizione mentale/psicologica,
l’empatia e la coscienza affettiva. La
mentalizzazione interseca perfettamente al centro i
4 cerchi in quanto si serve di queste funzioni al fine
di «comprendere gli stati mentali propri (sé) e altrui
(altro).
Fonte: adattata da Lois W. Choi-Kain, John G.
Gunderson, Mentalization: Ontogeny, Assessm ent,
and Application in the Treatm ent of Borderline
Personality Disorder, in «Am J Psychiatry», 165,
2008, pp. 1127-1135.

Nella relazione di attaccamento, anche


sicuro, non sempre tutto va bene; possono
verificarsi desincronizzazioni,
incomprensioni nella comunicazione madre-
bambino, che inducono insoddisfazione,
rabbia e ansia reciproca in entrambi, fino a
vere e proprie rotture del rapporto. In queste
«crisi di relazione» sono la sensibilità della
madre, la sua empatia e la sua capacità di
mentalizzare che possono riparare la
relazione, rassicurando il figlio e riportando il
rapporto alla sua omeostasi. In questo modo,
il bambino comincia a costruire degli
strumenti per la gestione dello stress, le
strategie di coping, che entreranno a far parte
del più complesso sistema di resilienza che si
svilupperà con le esperienze future.
Tutto ciò che nella madre impedisce il
normale svolgimento di queste funzioni può
indurre una deviazione dalla traiettoria
evolutiva fisiologica, distorcendo le capacità
relazionali in via di sviluppo e la formazione
delle strategie di coping e di resilienza che
consentono al bambino, e in seguito
all’adulto, di vivere socialmente, formare
relazioni significative e rispondere allo stress,
anche quello generato dalla separazione o
dalla perdita.
La depressione della madre, durante la
gravidanza in un modo e nel postpartum in
un altro, se non viene diagnosticata e trattata
adeguatamente, può avere ricadute negative
sullo sviluppo neurocognitivo del feto e sulla
formazione del legame di attaccamento, che
comincia già in gravidanza e prosegue fino ai
due anni di vita del bambino.
Il peripartum, termine con il quale ci si
riferisce alla gravidanza e al postpartum
congiuntamente, è un periodo di transizione,
durante il quale, attraverso una metamorfosi
biologica, neuroendocrina, psicologica,
sociale e fisica, la donna si prepara e si adatta
alla maternità. Nel peripartum il cervello
della madre si modifica sia strutturalmente
sia nelle sue funzioni, in relazione ai compiti
gestazionali prima e dell’allattamento poi. Il
cervello modifica il suo volume e la
distribuzione delle cellule nervose diventa
più fitta in alcune aree cerebrali, coinvolte in
diversi aspetti del comportamento materno,
rispetto a quanto si osserva nelle nullipare. Si
modifica la sensibilità dei recettori per alcuni
neurotrasmettitori che svolgono ruoli
importantissimi in questo periodo. Stiamo
parlando, in particolare, del recettore alfa per
gli estrogeni, responsabile del
comportamento di licking & grooming
(sistemare e accudire il bambino), e del
recettore per l’ossitocina, anch’esso
responsabile delle cure materne.
Le influenze dell’ossitocina si manifestano
lungo tutto l’arco della vita dell’individuo: nel
periodo della nascita (parto e allattamento),
nell’infanzia (attaccamento con entrambi i
genitori e riconoscimento delle espressioni
facciali dell’altro), nell’adolescenza (prime
interazioni sociali), nell’età adulta
(comportamento sessuale, modulando
l’eccitamento sessuale sia nelle donne sia
negli uomini, empatia e comportamento
aggressivo/competitivo). Gli effetti
dell’ossitocina sul comportamento umano
riguardano la sfera dei comportamenti
«prosociali» e di quelli «non sociali».
Inoltre, a un livello non relazionale,
l’ossitocina condiziona l’insorgenza di ansia e
depressione: basse concentrazioni
plasmatiche sono state associate con la
depressione maggiore, in tutte le fasi della
vita e nel peripartum. 15 Come sia possibile
che un ormone composto da soli nove
amminoacidi sia responsabile di funzioni
umane così variegate e specifiche non è
ancora del tutto chiaro. La risposta va
ricercata in una questione ancora più ampia,
quella del rapporto tra mente e corpo.
L’empatia, l’affetto, l’attaccamento per gli altri
individui della nostra specie, alla base dei
rapporti di coppia e filiali, sono una
questione di corpo o di anima? Come
suggerisce l’epigenetica, l’ormone e la
relazione interpersonale sono tra loro in un
rapporto circolare, in cui l’uno influenza
l’altro. Nella madre che allatta è presente, in
condizioni normali, una riduzione fisiologica
dei livelli di ansia, e, contemporaneamente,
un aumento dell’aggressività funzionale alla
difesa della prole, entrambe utili a una
maggior cura del bambino.
Tutte le modificazioni che avvengono nel
cervello e nella neurofisiologia della donna
durante il peripartum hanno una ricaduta sul
comportamento, sulla relazione di coppia, sui
rapporti coi propri genitori (soprattutto la
madre), che vengono rielaborati, e,
naturalmente, sulla nascente relazione
madre-bambino e madre-padre-bambino. La
depressione e l’ansia che molto spesso si
associa a essa producono delle alterazioni
significative su questo delicato nuovo
equilibrio neurofisiologico e, di conseguenza,
sulle manifestazioni comportamentali che
esso sottende.
La depressione e lo stress materno
inducono un aumento dei livelli di cortisolo
circolante nella placenta, esponendo gli
organi fetali in formazione a uno stress
eccessivo, con effetti negativi non solo sul
neurosviluppo, ma anche sulla crescita fetale
e sul sistema endocrino, con conseguente
possibile diabete e alterazioni dell’attività
cardiaca. L’aumento delle citochine
proinfiammatorie, producendo stress
infiammatorio che si va ad aggiungere allo
stress da ipercortisolemia, aggravano il
rischio di ansia e depressione nel nascituro.
Molti studi hanno evidenziato che i figli di
madri depresse nel peripartum hanno un
rischio maggiore di sviluppare depressione
sia nell’infanzia sia nell’adolescenza sia
nell’età adulta.
Studi di neuroimmagine condotti nel
postpartum, durante i quali vengono
mostrate immagini di bambini che piangono
o ridono, attestano come nelle madri
depresse le connessioni tra la corteccia
prefrontale, responsabile della traduzione in
significato esplicito degli stimoli emozionali,
e l’amigdala, dove tali stimoli sono generati,
sono molto ridotte rispetto alle madri non
depresse. Questo si traduce in una minore
capacità di comprensione dei messaggi
emozionali che provengono dal bambino e,
conseguentemente, nel rischio di una
formazione distorta del legame di
attaccamento e della sintonizzazione tra
madre e bambino. Parlando della sua infanzia
con una madre depressa, una paziente, a sua
volta depressa, ricordava piangendo: «Era
sempre tutto no. Sempre vestita di nero dopo
la morte del padre. La casa era vecchia,
trascurata… Non si poteva accendere la
televisione, sentire la musica… Ero una
bambina, volevo giocare, uscire… Diceva
sempre di no, non rideva mai, mi guardava,
ma i suoi occhi non mi vedevano… Non mi
capiva».
L’ultima «anomalia» relazionale che
prendiamo in considerazione come possibile
antecedente di un’alterazione della
formazione della mente relazionale, e quindi
deficit di intersoggettività, nella depressione
è il maltrattamento. Esistono molte forme di
maltrattamento nell’età infantile, di tipo sia
fisico sia psichico; tutte determinano delle
distorsioni nella relazione di attaccamento,
nella formazione dell’idea di sé e dell’altro,
nella capacità di comprendere la mente altrui,
nella formazione dell’intelligenza sociale. Il
maltrattamento non si manifesta unicamente
in violenze, percosse, abusi sessuali, gli
effetti dei quali sono facilmente intuibili. Più
difficile è capire che cosa accade in una
relazione di attaccamento «trascurante» o di
abbandono, ovvero in una situazione in cui la
figura di riferimento non si prende cura del
proprio bambino, da un punto di vista
cognitivo ed emozionale (cognitive and
emotional neglect).
La trascuratezza, molto più frequente ma
spesso molto più difficile da individuare
rispetto ad altre più macroscopiche forme di
maltrattamento, può essere definita come
l’«assenza di esperienze di organizzazione
importanti durante fasi fondamentali dello
sviluppo». 16 Non prendere in braccio, non
baciare, accarezzare e coccolare, non lavare e
vestire, non nutrire, non immergere il
bambino nel cosiddetto «bagno
somatosensoriale» che gli fornisce gli stimoli
appropriati per consentire la massima
realizzazione delle sue potenzialità genetiche
nel formare e mantenere relazioni sane – cioè
la «trascuratezza globale» – ha effetti
altrettanto potenti del non considerare le
richieste del bambino, dell’ignorare le sue
emozioni, del non accudirlo nello sviluppo
delle sue capacità cognitive, non parlargli,
non esporlo al contatto sociale con gli altri, la
cosiddetta «trascuratezza caotica».
Nel cervello in formazione la trascuratezza
induce anomalie dello sviluppo neuronale,
che sul piano dell’attaccamento
corrispondono a un attaccamento insicuro,
più spesso disorganizzato. In altre parole, il
maltrattamento disorganizza il sistema
dell’attaccamento, disaggregando perciò
anche le nascenti funzioni della
mentalizzazione e le future capacità
relazionali. I bambini maltrattati presentano
ritardi di vario grado nella comprensione
delle emozioni e della teoria della mente,
oltre a deficit della cognizione sociale: ritardi
e deficit che, nel loro insieme, contribuiscono
a generare una sorta di «cecità mentale» che
compromette precocemente la
comunicazione tra genitore e figlio e
successivamente, se non intervengono fattori
riparativi precoci, le capacità comunicative e
sociali dell’adulto.
Queste osservazioni sono sostenute da una
mole crescente di studi di neuroscienze e di
neuroimaging, cominciati nei primi anni 2000
e sempre più numerosi negli ultimi anni, che
mostrano alterazioni gravi, se non addirittura
il parziale o totale mancato sviluppo delle
aree cerebrali preposte alla intersoggettività:
riduzione del metabolismo nel giro orbito-
frontale, nella corteccia prefrontale
infralimbica, nell’amigdala e nella parte
rostrale dell’ippocampo, nella corteccia
laterale temporale e nel tronco encefalico.
Tutte aree cerebrali le cui funzioni appaiono
maggiormente compromesse nel «cervello
depresso».
Studi recentissimi mostrano alterazioni
della «connettività» tra i due emisferi
cerebrali: persone con attaccamento
disorganizzato, ascoltando la lettura di un
questionario all’interno del quale si fa
esplicito riferimento alle esperienze vissute
nella prima infanzia con le figure di
attaccamento, durante
l’elettroencefalogramma mostrano «silenzio»
all’interno di ciascun emisfero cerebrale e
anche tra l’emisfero destro e il sinistro, al
contrario di soggetti di controllo in cui,
durante la lettura, gli emisferi si «accendono»
di attività elettrica. 17
Il cervello di un adulto che da bambino è
stato gravemente maltrattato è un cervello
«spento», che nel momento in cui viene
messo a confronto con le emozioni
dell’attaccamento, per lui penose, discordanti
e spesso profondamente angoscianti, si
difende aumentando la sua condizione
freezed, congelata, immobile, inerte. Il
maltrattamento, a seconda della sua intensità
e della sua durata, della resilienza di chi lo
subisce e dei fattori protettivi che gli si
contrappongono, può dare origine, quando
non viene metabolizzato, a diverse forme di
psicopatologia. Tra queste la depressione, la
cui caratteristica principale è la reazione di
internalizzazione, di rallentamento generale
dell’attività psico-fisica, di perdita della
speranza (hopelessness). In particolare,
quando è preceduta da maltrattamenti o
trascuratezza nell’età evolutiva, la
depressione è improntata al senso di
disperazione rispetto alla propria capacità di
gestire la relazione con l’altro e di essere
amabile per l’altro.
Nell’infanzia dei bambini trascurati che
poi diventeranno depressi, l’effetto
maggiormente destrutturante è
rappresentato dal ritiro emotivo della madre
di fronte ai segnali di disagio: questo
compromette la nascente coerenza emotiva
del figlio, che ha bisogno della conferma
materna per sentire che non ha sbagliato a
parlare con lei, o meglio che non «è»
sbagliato per lei. L’interruzione del feedback
emotivo madre-bambino genera in
quest’ultimo un senso di incapacità e di
impotenza, il senso di non essere un agente
attivo nell’interazione con l’altro, la perdita
del senso di agency. Se il bambino si trova a
dover affrontare situazioni di vita stressanti o
stress relazionali e affettivi con significato di
separazione, questa vulnerabilità può
costituirsi fattore di rischio di depressione,
con profondi sentimenti di indegnità e
incapacità, helplessness e hopelessness,
inermità di fronte al vissuto di perdita e della
propria totale inadeguatezza a sopravvivere.
Oltre alla sensazione di aver perso la
relazione con l’altro, il depresso si sentirà
colpevole di tale perdita, per non essere stato
capace di impedirla, facendosi amare
dall’altro.

Memoria e depressione
«Bisogna cominciare a perdere la memoria,
anche solo ogni tanto, per comprendere che
la memoria è ciò che riempie la nostra vita. La
nostra vita senza memoria non è vita … La
nostra memoria è la nostra coerenza, la
nostra ragione, il nostro sentimento, persino
la nostra azione. Senza di lei, non siamo
niente.» 18 Questa affermazione del regista
spagnolo Luis Buñuel stimola riflessioni
psicopatologiche sull’importanza
«esistenziale» della memoria e sul ruolo che
può svolgere nell’insorgenza di uno stato
depressivo. Per esempio, in un’intervista a
Oriana Fallaci («L’Europeo», 1963) Totò dice:
«Forse vi sono momentini minuscolini di
felicità, e sono quelli durante i quali si
dimenticano le cose brutte. La felicità,
signorina mia, è fatta di attimi di
dimenticanza».
Parlare di memoria e, in particolar modo,
parlare di memoria nella depressione è
necessario se vogliamo comprendere i
meccanismi di funzionamento e mal-
funzionamento della nostra mente. Freud nel
1909 diceva, in modo per certi versi profetico:
«I nostri malati isterici soffrono di reminiscenze
… non solo ricordano le esperienze dolorose
del loro remoto passato, ma sono ancora
attaccati a esse emotivamente; non riescono a
liberarsi del passato e trascurano per esso la
realtà e il presente». 19
Per Freud, non erano solo le esperienze ad
avere effetto traumatico, ma il loro riviverle
come ricordo, dopo che il soggetto aveva
varcato la soglia della maturità sessuale:
«Quasi tutti i sintomi erano sorti come
residui – “sedimenti” si potrebbe dire – di
esperienze cariche di affetto, che perciò più
tardi abbiamo chiamato “traumi psichici” …
Essi erano, per usare un termine tecnico,
determinati dalle scene di cui rappresentavano
i residui mnestici». 20 Siamo agli albori della
psicoanalisi e Freud, negli Studi sull’isteria, 21
arriva alla conclusione che l’isterico soffre di
reminiscenze, ossia di ricordi dolorosi e
spiacevoli di natura traumatica. È vero che i
ricordi traumatici sono sepolti nell’inconscio,
ma rimangono una forza attiva che modifica
il comportamento: i ricordi traumatici sono di
per sé patogeni, ossia in grado di
condizionare negativamente la vita psichica e
fisica del soggetto.
Come tradurre l’intuizione freudiana in
termini moderni, alla luce del bagaglio di
conoscenze che si sono accumulate negli
ultimi decenni? Un dato ormai consolidato è
il fatto che il volume ippocampale, quello
della regione cerebrale primariamente
coinvolta nella memoria, sia ridotto nei
soggetti depressi e che tale riduzione sia però
reversibile dopo adeguato trattamento
antidepressivo. Questo risultato è stato
replicato in studi diversi e conferma, tra
l’altro, quanto detto precedentemente circa la
plasticità sinaptica. Sappiamo inoltre che a
livello dell’ippocampo viene prodotta la
neurotrofina BDNF, tra i principali fattori in
grado di modulare la plasticità sinaptica.
Come abbiamo già visto, numerosi studi
hanno rivelato come i livelli di BDNF siano
ridotti nei soggetti depressi, salvo
normalizzarsi, anche in questo caso, dopo
adeguato trattamento antidepressivo. Questi
dati confermano il ruolo centrale occupato
dai sistemi della memoria e dai circuiti a essi
sottostanti.
Nella depressione non c’è una vera perdita
dei ricordi, né recenti né antichi, ma piuttosto
una difficoltà nel rievocarli. L’amnesia che
spesso si osserva nei soggetti depressi è
legata alla difficoltà di prestare attenzione
agli stimoli che ci circondano e ci consentono
di rievocare ricordi. Uno studio ha mostrato
un dato estremamente interessante: nei
pazienti affetti da depressione si osserva una
ridotta attivazione dell’amigdala (regione
cerebrale coinvolta nell’espressione delle
emozioni) durante il richiamo autobiografico
di esperienze passate positive. 22 In altri
termini, i pazienti depressi sono
particolarmente angosciati nel rievocare
eventi spiacevoli, mentre restano per lo più
indifferenti di fronte a ricordi positivi. Gli
autori dello studio hanno concluso come
questo particolare funzionamento
dell’amigdala rappresenti un fattore centrale
nel meccanismo eziologico cerebrale della
depressione.

«Andavo a scuola senza pranzo»


Rosa, una signora depressa di circa 60 anni,
diceva, con molto dolore, di non essere stata
amata dai suoi genitori, in quanto ultima di tre
sorelle, una delle quali gravemente disabile.
Raccontava che il padre, alla sua nascita, non era
neanche andato in ospedale, perché era deluso per
il fatto che fosse nata un’altra figlia femmina.
Tutte le attenzioni della mamma erano per la
sorellina malata.
A riprova di tutto ciò, Rosa portava il suo
ricordo più doloroso, quello del «pranzo» per la
scuola. Ogni volta che lo raccontava piangeva,
come se fosse successo da poco e non oltre
cinquant’anni prima: «Andavo a scuola
dall’altra parte della città e dovevo portare il
pranzo da casa. Il più delle volte, però, mia
madre non aveva il tempo di prepararmelo, e
andavo a scuola senza pranzo». Un giorno, Rosa
arrivò in seduta tutta trafelata e visibilmente
sconvolta: «Mia sorella, la più grande, mi ha
sgridato… Dice che quello che mi ricordo del
pranzo di scuola è completamente falso: lei
ricorda che nostra madre, a metà mattinata,
usciva di casa e attraversava la città per portarmi
il pranzo caldo, appena cucinato. Come è possibile
che io lo abbia dimenticato?».
Rosa, grazie al lavoro della psicoterapia, riesce
ad accettare la frase della sorella e collegarla con
quanto stava elaborando internamente. L’idea di
essere stata sempre non voluta e non considerata
si stava riducendo, così da consentire alle parole
della sorella di trovare spazio dentro di lei. Tutto
questo può sembrare semplice e, nel momento in
cui accade, lo è veramente. Ma arrivare a quello
che tecnicamente si chiama insight,
consapevolezza, richiede tempo e un continuo
sforzo di riflessione sulle proprie emozioni. La
memoria di Rosa, fortemente inquinata dai
vissuti negativi di non sentirsi considerata, può
finalmente diventare permeabile e includere altri
ricordi meno persecutori. Anche in passato la
sorella aveva raccontato a Rosa come erano
andate veramente le cose, ma era stato come
scrivere sulla sabbia: nella memoria non riusciva
a trattenere nient’altro oltre alla certezza di
essere stata rifiutata.

La personalità depressiva
Il problema psicopatologico da sempre
dibattuto da clinici e ricercatori, nel momento
in cui si affronta la discussione sulla
personalità depressiva, è se le caratteristiche
di personalità possano costituire l’elemento
che favorisce l’instaurarsi della depressione,
cioè se il carattere sia l’elemento che
determina lo sviluppo della depressione o se
tra la depressione e il carattere non vi sia
alcun collegamento. «Temperamento»,
«carattere», «personalità» sono termini che,
nel linguaggio comune, vengono usati spesso
in modo equivalente per descrivere sia
l’insieme e l’integrazione di quegli aspetti
psicologici, percettivi, affettivi, emotivi,
umorali che contraddistinguono il nostro
particolare modo di essere, le cosiddette
«caratteristiche personologiche», sia le
modalità comportamentali messe in atto in
risposta agli eventi della vita. Tecnicamente,
però, i tre vocaboli hanno significati diversi.
«Temperamento» è stato il primo termine a
essere impiegato per indicare l’indole di una
persona, basandosi su una teoria somatico-
costituzionalistica. L’origine latina del
vocabolo rimanda al significato di «umore»:
come abbiamo visto nel capitolo I, l’idea
antica era che gli umori regolassero
fisiologicamente i tratti emotivi della
persona. Il termine «carattere» deriva del
greco e significa «incisione»; viene usato per
descrivere aspetti del comportamento
considerati stabili e tipici della persona. «Ha
un buon carattere… Ha un brutto carattere»
sono espressioni usate per sottolineare
caratteristiche psicologiche e relazionali che
abitualmente guidano le risposte
comportamentali e affettive agli stimoli
esterni.
La «personalità» rappresenta invece il
risultato delle interazioni tra disposizioni
innate, bisogni, impulsi, desideri e la capacità
di adattamento all’ambiente e alle situazioni
della vita. Secondo Umberto Galimberti, per
personalità va inteso quell’«insieme di
caratteristiche psichiche e modalità di
comportamento che, nella loro integrazione,
costituiscono il nucleo irriducibile di un
individuo che rimane tale nella molteplicità e
diversità delle situazioni ambientali in cui si
esprime e si trova a operare». 23 Lo sviluppo
della personalità adulta è il risultato
dell’interazione dinamica tra le
caratteristiche personologiche individuali e le
situazioni ambientali, come le esperienze
sociali, scolastiche, lavorative e relazionali,
che l’individuo affronta durante la vita.
Numerose ricerche hanno cercato di
spiegare il rapporto tra personalità,
vulnerabilità depressiva e depressione,
considerata come una «risposta abnorme» a
un determinato stimolo. È possibile stabilire
quattro tipi di collegamento tra personalità e
depressione: a) predisposizione, b) legame
subclinico-sottosoglia, c) deterioramento-
distorsione, d) legame patoplastico. La
personalità depressiva potrebbe
rappresentare un tratto premorboso lungo il
continuum dello spettro depressivo. Questo
tratto sarebbe un «elemento di
predisposizione» per lo scatenarsi della
depressione. Mentre la «forma depressiva
subclinica-sottosoglia» costituirebbe una
forma attenuata, per intensità e pervasività,
della depressione. Avere una personalità
depressiva rende la persona «cronicamente
giù», assonnata, triste, insicura, debole, pigra,
pessimista. L’insicurezza e la scarsa
autostima, aggravate dalla cronicità delle fasi
depressive, influenzerebbero negativamente,
attraverso una «distorsione cognitivo-
affettiva», la spinta vitale e, con il passare
degli anni, si ridurrebbero sempre di più
iniziative e vita di relazione. 24 Infine, per
«patoplastia» va intesa la modalità con cui la
personalità può incidere nell’espressione
soggettiva della forma depressiva.
L’abbinamento tra cultura, storia personale,
ambiente di vita e stile di personalità
individuale dà forma patoplastica ai
fenomeni del quadro depressivo.
Facendo riferimento al concetto di
temperamento, quello depressivo è il più
frequente nei pazienti con depressione.
Diversi sono, però, i tipi di temperamento
che si possono mettere in collegamento con
la depressione: temperamento «inibito» con
spiccata introversione e timidezza,
un’eccessiva sensibilità al rifiuto
interpersonale e una tendenza alle
manifestazioni somatiche che mascherano la
sintomatologia depressiva; temperamento
«irritabile», con estrema reattività agli stimoli
esterni, che causano esplosioni di rabbia,
aggressività, lamentosità, insofferenza e
atteggiamento ipercritico verso gli altri;
temperamento «ipertimico», che corrisponde
a un livello elevato di energia, vitalità,
volizione, tendenza a impegnarsi in attività
diverse; temperamento «ciclotimico», che
appartiene agli individui che cambiano
improvvisamente umore, oscillando in modo
imprevedibile tra stati di euforia e repentini
momenti di disperazione. 25 Ogni tipo di
temperamento determinerà difficoltà di
adattamento, con possibilità di grave
sofferenza personale e rischio di depressione.
Il temperamento condiziona in modo
determinante anche la risposta al trattamento
antidepressivo: si ritiene che le cosiddette
difficult-to-treat depressions, le depressioni
difficili da trattare, siano correlate al
temperamento ciclotimico. 26
Il DS M preferisce non far menzione dei
temperamenti, appoggiandosi
esclusivamente sul concetto di personalità.
Secondo la definizione del DS M , la
personalità corrisponde a «modalità durature
di percepire, rapportarsi e pensare a se stesso
o all’ambiente». 27 La personalità può essere
definita da quei tratti emotivi e
comportamentali che caratterizzano una
persona nella vita quotidiana, in condizioni
ordinarie. Quando è «sana» è relativamente
stabile e capace di flessibilità, per adattarsi
alle variazioni ambientali e sociali, e per avere
un buon funzionamento in famiglia e sul
lavoro. Si parla, invece, di «disturbo di
personalità» se l’insieme dei tratti emozionali
e comportamentali si allontana da quelli che
sono considerati i «limiti della normalità»,
cioè i comportamenti che si osservano nella
maggior parte delle persone; tali tratti,
quando diventano rigidi, maladattivi,
provocano sofferenza soggettiva e causano
alterazioni funzionali. Il DS M -5 definisce il
disturbo di personalità come un «pattern
costante di esperienza interiore e di
comportamento che devia marcatamente
rispetto alle aspettative della cultura
dell’individuo, è pervasivo e inflessibile,
esordisce nell’adolescenza o nella prima età
adulta, è stabile nel tempo e determina
disagio o menomazione». 28
Poiché l’approccio categoriale ai disturbi di
personalità ha mostrato diverse carenze, non
ultimo il fatto che una persona può
soddisfare i criteri per più di un disturbo di
personalità, nel D S M -5 è stato proposto un
modello alternativo. Le novità di questo
modello riguardano la valutazione della
compromissione del funzionamento di
personalità, la presenza di tratti di
personalità patologica come l’affettività
negativa e tutto lo spettro di sentimenti ed
emozioni negative, l’ansia, la depressività,
l’angoscia di separazione, la labilità emotiva e
l’ostilità.
Si è parlato di personalità depressiva anche
per indicare un disturbo, fortemente
correlato con la depressione, tipico degli
individui pessimisti, con poche speranze, che
trovano difficoltà a essere «felici», che hanno
scarsa autostima e sono piuttosto autocritici e
sprezzanti. Akiskal ha descritto sette gruppi
di tratti di personalità depressivi: 1) calmo,
introverso, passivo e non assertivo; 2)
malinconico, pessimista, serio e incapace di
divertirsi; 3) autocritico, autobiasimante e
autosprezzante; 4) scettico, critico degli altri e
poco simpatico agli altri; 5) coscienzioso,
responsabile, disciplinato; 6) meditabondo e
tormentato; 7) timoroso degli eventi negativi,
con sentimenti di inadeguatezza e di
insufficienza personale. 29
Tutti i disturbi di personalità sono
elementi di vulnerabilità per lo sviluppo della
depressione poiché possono influenzare in
maniera radicale le modalità individuali di
reazione, relazione, percezione e pensiero, in
modo così profondo da causare
disadattamento e psicopatologia. Ogni tipo di
personalità patologica provocherà la reazione
depressiva a seconda delle proprie
caratteristiche.
Per esempio, gli individui con disturbo
borderline di personalità sono
«esistenzialmente in crisi»; possono essere
polemici, si lamentano di essere «depressi»
per colpa del partner che li ha abbandonati o
per l’atteggiamento di opposizione
dell’ambiente familiare e lavorativo. La
tendenza prima a idealizzare e
successivamente a disprezzare il partner
viene ritenuta un meccanismo di difesa nei
confronti dell’angoscia di poter essere
rifiutati o abbandonati in qualsiasi momento.
Per evitare l’abbandono, possono ricorrere a
gesti eclatanti, come tentativi di suicidio,
nella speranza di essere salvati «dall’oggetto
di amore» da cui dipendono.
Chi soffre di un disturbo narcisistico di
personalità può andare incontro a penosi
sentimenti di umiliazione e di vergogna,
dovuti al riconoscimento dei propri limiti,
della propria imperfezione oppure al
mancato raggiungimento dei propri desideri.
Molte persone con questo disturbo di
personalità non invecchiano bene: costrette a
inseguire fantasie di eterna giovinezza,
cercano relazioni extraconiugali o ricorrono a
trattamenti estetici. Alla fine si ritrovano soli,
con la devastante sensazione di non essere
amati perché, come diceva Benjamin
Franklin, «chi ama se stesso non avrà rivali».
Gli individui con disturbo istrionico di
personalità attribuiscono grande valore alle
loro inclinazioni e capacità seduttive. Con il
passare degli anni, il naturale cambiamento
del «fascino» potrà predisporre alla
depressione, più frequentemente
«mascherata», in cui i sintomi fisici
sostituiscono quelli emotivi. Le
caratteristiche personologiche teatrali degli
istrionici si manterranno nell’espressione dei
fenomeni depressivi, drammatizzati per
attirare l’attenzione. Gli effetti di un farmaco
potranno essere misconosciuti tanto in senso
positivo, vantando una prematura efficacia,
quanto in senso negativo, esagerando nel
riportarne gli effetti collaterali.
I soggetti con disturbo ossessivo-
compulsivo sono persone dedite all’ordine, al
perfezionismo, al controllo ipercritico di sé e
degli altri. Soffrono per mancanza di
autostima e di fiducia in se stessi, e la ricerca
estenuante della perfezione mimetizza il
disperato tentativo di ottenere approvazione
dagli altri. La personalità ossessivo-
compulsiva è ad alto rischio di depressione,
soprattutto durante la mezza età, quando ci si
rende conto dell’impossibilità di raggiungere
i propri ideali.
La personalità dipendente è definita
astenica, inadeguata, autosvalutativa, passiva,
incapace di decidere in modo autonomo e
debole di volontà. I propri bisogni sono
subordinati al timore di essere abbandonati;
l’incertezza riguardo le proprie capacità può
portare, in mancanza di sostegno, allo
sviluppo di depressione che spesso si
complica con abuso di sostanze in grado di
attenuare l’ansia, come le benzodiazepine e
l’alcol.
La personalità evitante è tipica di chi prova
un timore esagerato di venir giudicato dagli
altri. Il nucleo psicopatologico risiede nella
timidezza e nella vergogna. La vergogna e la
paura di essere umiliati nelle situazioni
sociali porta a evitare i rapporti
interpersonali. L’isolamento, scatenato dal
convincimento di essere inferiori agli altri, ha
conseguenze devastanti sul piano sociale e
psicopatologico con quadri depressivi spesso
correlati con esperienze di rifiuto in età
infantile. La preoccupazione di svelare la
propria natura si ripercuote anche sul
trattamento psicoterapeutico, che risente del
timore che questi pazienti hanno di
esprimere bisogni eccessivi o inappropriati e
di soffrire per la mancanza di adeguate
risposte da parte del terapeuta.
Infine, le persone con disturbo paranoide
di personalità, «permalose e sospettose»,
fanno della diffidenza e del timore di essere
danneggiati la regola inconfutabile delle
relazioni interpersonali. Non amano essere
smentiti, in quanto ritengono che nulla
accada a caso e che tutti siano nemici. Si
offendono con facilità, sono rivendicativi e
ostili per paura verso il prossimo. Nel corso
della vita, potranno precipitare nella
depressione, che sarà sempre ritenuta colpa
degli altri, dei torti subiti, dell’invidia, della
cattiveria e della malafede altrui.
VI
Depressione e ciclo di vita

L’enigma della Sfinge


Affrontare la depressione applicando il
concetto di «ciclo di vita» rappresenta un
radicale cambio di prospettiva rispetto al
passato. Significa dividere il continuum
esistenziale in periodi diversi – età evolutiva,
età adulta, età involutiva – inframmezzati da
«stati di passaggio» tra le varie fasi. Questo
schema di riferimento teorico, basato su stadi
di sviluppo, consente di effettuare
contemporaneamente una valutazione
«sincronica» (osservazione in quel momento
specifico della fase di vita) e una valutazione
«diacronica» (osservazione longitudinale e
prospettica) sia dell’evoluzione della persona
e dell’ambiente in cui vive, sia dell’eventuale
disturbo di cui soffre.
Il concetto di ciclo di vita affonda le sue
radici nella storia dell’umanità. L’enigma che
Edipo risolve riguarda, non a caso, le tappe
dell’esistenza umana. William Shakespeare,
in Come vi piace, descrive poeticamente il ciclo
vitale con queste parole: «Tutto il mondo è un
palcoscenico, e gli uomini e le donne sono
soltanto attori. Hanno le loro uscite come le
loro entrate, e nella vita ognuno recita molte
parti, e i suoi atti sono sette età. Prima,
l’infante che miagola e vomita in braccio alla
nutrice. Lo scolaro poi, piagnucoloso … E poi
l’innamorato, che ti sospira come una fornace
… Poi, un soldato, armato dei moccoli più
strambi … E poi il giudice … L’età sesta …
L’ultima scena infine a chiudere questa storia
strana, piena di eventi, è la seconda infanzia,
il mero oblio …». 1
La scienza moderna ha tentato di fissare le
tappe del ciclo vitale sulla base di valutazioni
biologiche ed esistenziali-sociali, legate anche
agli importanti cambiamenti culturali ed
economici che contraddistinguono i difficili
periodi che le nostre generazioni stanno
attraversando. Va considerato in senso
flessibile e non rigidamente collegato all’età
della persona; determinato da un
interscambio fra identità, legami di
attaccamento, stimoli emotivo-affettivi del
mondo interno e sviluppo del Sé. La struttura
bio-psico-sociale della persona deve
permettere di integrare in modo funzionale,
nei diversi periodi della vita, l’unicità della
propria storia, la personalità, le risorse e le
capacità individuali, i meccanismi di difesa
acquisiti, l’esperienza degli eventi di vita, gli
stimoli vitali interni. La valutazione
cronologica del ciclo vitale non può essere
dunque un sistema rigido di lettura del
processo evolutivo dell’individuo, ma
rappresenta una modalità dinamica e
articolata di comprensione della nostra vita
nel «palcoscenico del mondo».
La depressione si verificherà
probabilmente in quei particolari momenti di
criticità, di passaggio da una fase all’altra del
ciclo di vita, in cui i cambiamenti personali,
socio-lavorativi e ambientali, interagendo con
fattori di vulnerabilità biologica, possono
determinare delle cadute depressive.
Il primo studioso a concettualizzare l’Io
come entità dinamica, tenendo conto di tutte
le fasi del ciclo vitale, è stato Erik Erikson
(1902-1994). A partire dalle fasi di sviluppo
psico-sessuale di Sigmund Freud, Erikson ha
individuato otto stadi evolutivi, ciascuno
caratterizzato da una precisa «crisi psico-
sociale»; il passaggio da uno stadio dello
sviluppo allo stadio successivo avviene ogni
volta che l’individuo, nell’interazione con la
realtà esterna, riesce a superare una «crisi
evolutiva», realizzando in questo modo la
costruzione dell’integrità dell’Io.
Gli otto stadi descritti da Erikson sono: 1)
infanzia, 0-1 anno (fase orale-respiratoria),
fiducia/sfiducia; 2) prima infanzia, 1-3 anni
(fase anale-uretrale), autonomia/vergogna e
dubbio; 3) età genitale, 3-6 anni (fase
infantile-genitale), iniziativa/senso di colpa;
4) età scolare, 6-12 anni (fase di «latenza»),
industriosità/inferiorità; 5) adolescenza, 12-20
anni (pubertà), identità e
contestazione/diffusione di identità; 6) prima
età adulta, 20-40 anni (genitalità), intimità e
solidarietà/isolamento; 7) seconda età adulta,
40-65 anni, generatività/stagnazione e
autoassorbimento; 8) vecchiaia, dai 65 anni in
poi, integrità dell’Io/disperazione. In questi
stadi è prevista sia l’evoluzione positiva sia il
suo fallimento.
Pur essendo rappresentato come un
cammino «a tappe», il ciclo di vita deve essere
inteso come un continuum.

UN PERCORSO A TAPPE
A partire dagli anni Ottanta, la psicopatologia
dello sviluppo ha approfondito il tema del
ciclo di vita. La prospettiva della
multicausalità, e delle traiettorie (pathways)
attraverso le quali operano i meccanismi
responsabili dello sviluppo di quadri
psicopatologici, non può prescindere da un
approccio di studio in senso evolutivo,
dall’infanzia all’età adulta, centrato
sull’osservazione del corso «normale» dello
sviluppo psicologico e biologico
dell’individuo, confrontato con lo sviluppo
«patologico». La questione nasce dal rapporto
fra i disturbi dell’età adulta e quelli dell’età
infantile: da un lato se ne riconosce
l’unitarietà, dall’altro si discute sull’esistenza
di un rapporto di antecedenza dei disturbi
dell’età infantile rispetto a quelli dell’età
adulta.
Nel 2013 il DS M -5 ha abolito la distinzione
«classica» tra disturbi dell’infanzia e disturbi
dell’età adulta, introducendo la nuova sezione
dei «Disturbi del neurosviluppo» al posto di
quella dei «Disturbi solitamente diagnosticati
per la prima volta nell’infanzia, nella
fanciullezza o nell’adolescenza» e
impostando in senso evolutivo tutte le altre
categorie. Con l’introduzione di questa nuova
categorizzazione, il DS M ha posto l’accento
sul fatto che i vari disturbi vanno inquadrati
secondo un approccio prospettico lifetime.
Queste considerazioni sottolineano la
mancanza di una chiara distinzione tra i
disturbi dell’età infantile e quelli dell’età
adulta – con una possibile variabilità nell’età
di esordio dei vari disturbi – e la possibilità
che un disturbo già presente in età infantile
venga diagnosticato solo in età adulta. Infine,
viene avanzata l’ipotesi della «continuità»,
ossia della possibilità di applicare all’adulto
criteri diagnostici dell’età infantile o
adolescenziale e viceversa.
Il concetto di «continuità» tra le prime fasi
dello sviluppo, l’adolescenza e l’età adulta è
riferito sia allo sviluppo normale, quello in
cui non vi sono modificazioni rispetto ai
livelli standard di adattamento, sia a quello
patologico, la cosiddetta «continuità
psicopatologica», che indica il permanere
della malattia nel corso della vita. Il concetto
di «discontinuità» descrive il passaggio,
nell’arco della vita, da una condizione di
normalità a una condizione psicopatologica o,
al contrario, l’interruzione della malattia e il
recupero di uno stato di benessere.
Sin dal 1969, Bowlby ha parlato di sentieri
evolutivi alternativi, «linee di sviluppo»,
deviazioni dal percorso principale idealmente
considerato «sano». Il verificarsi di
condizioni ambientali favorevoli
consentirebbe di proseguire il proprio
cammino evolutivo all’interno di uno
sviluppo fisiologico; condizioni sfavorevoli
comporterebbero invece una deviazione dalla
«normalità» tanto più ampia quanto più
precoci sono gli eventi negativi. Fino alla
metà degli anni Settanta, esistevano poche
evidenze sia sugli outcome in età adulta dei
disturbi mentali del bambino, sia sugli
antecedenti infantili dei disturbi mentali
dell’adulto.
Lo studio dei collegamenti tra disturbi
dell’età infantile e dell’età adulta permette di
individuare diversi tipi di continuità di una
traiettoria psicopatologica. Un primo tipo è la
«continuità longitudinale», riferita al
mantenersi di un disturbo, nella stessa
persona, dall’infanzia all’età adulta; un
secondo tipo è la «continuità
transgenerazionale», riferita alle possibili
modalità di trasmissione ai figli del disturbo
psicopatologico dei genitori (vedi paragrafo
«La trasmissione transgenerazionale della
depressione»).
All’interno della continuità longitudinale,
è possibile distinguere una forma
«omotipica», caratterizzata dalla stabilità nel
tempo di uno stesso quadro psicopatologico,
per esempio la depressione in età giovanile e
in età adulta, e una forma «eterotipica»,
caratterizzata dalla modificazione del
disturbo nella transizione dall’infanzia all’età
adulta. L’importanza di questo concetto
consiste nel porre grande attenzione alla
depressione in età giovanile come segnale di
una possibile manifestazione di disturbi
diversi in età adulta.
Nel 1984 lo studioso italo-americano Dante
Cicchetti ha definito quale obiettivo
principale della Developmental
Psychopathology (psicopatologia dello
sviluppo) il riconoscere le deviazioni delle
traiettorie evolutive fisiologiche per poterne
prevedere le conseguenze psicopatologiche. 2
In altri termini, riuscire a valutare quali siano
le manifestazioni dei disturbi precoci del
comportamento correlabili a una evoluzione
di tipo depressivo nell’età adulta.

ANCHE IL CERVELLO INVECCHIA


Il cervello ha le sue «età» e i suoi «acciacchi».
Non che si possa ridurre la nascita, la
crescita, la morte di un individuo a quella del
suo cervello, ma il cervello rappresenta
indubbiamente una gran parte di ciò che
siamo e di ciò che sentiamo nel corso della
vita. Lo sviluppo del cervello (vedi capitolo V,
paragrafo «Il modello gene-ambiente») è
determinato dall’interazione tra il patrimonio
genetico personale e l’ambiente esterno:
familiare, sociale, geografico, culturale, ecc.
L’evoluzione del cervello si esprime in
termini di materia grigia, densità sinaptica,
mielinizzazione e metabolismo cellulare.
Chiare evidenze in campo neurofisiologico
testimoniano come gran parte dello sviluppo
cerebrale si completi entro i 15-16 anni,
questo non significa che si conclude con
l’adolescenza: infatti, i fenomeni di plasticità
sinaptica sono inducibili e osservabili anche
nel cervello anziano. È indubbio però che, nei
primi anni di vita, il nostro cervello acquisisca
molte delle informazioni necessarie e
sviluppi gran parte dei circuiti neuronali che
determineranno il nostro comportamento
futuro. Con il passare degli anni, la perdita
della fisiologica asimmetria emisferica e la
riduzione della densità della materia grigia,
con conseguente slargamento dei ventricoli,
costituiranno dei marker di invecchiamento
cerebrale.
Il cervello dell’uomo anziano subisce un
declino funzionale e strutturale. Compaiono
le placche «senili»; le pareti arteriose si
irrigidiscono, con riduzione del flusso
sanguigno e dell’ossigenazione cellulare; a
livello sinaptico diminuisce l’affinità dei
recettori per i neurotrasmettitori, i
meccanismi di regolazione della
neurotrasmissione diventano meno efficienti,
l’attività degli enzimi deputati
all’eliminazione dei neurotrasmettitori
subisce un’accelerazione e conseguentemente
ne risentono la trasmissione sinaptica e il
funzionamento cerebrale.
La ricerca ha chiarito in modo più
approfondito la differenza tra
invecchiamento fisiologico e invecchiamento
patologico. Il «punto di non ritorno»
corrisponde al momento in cui viene perduta
la capacità di riparazione del DNA. Stress
ambientali, alimentazione, esposizione ad
agenti chimici e scarsa attività fisica,
unitamente a fattori di stress «molecolari»,
determinati dai polimorfismi genici,
influenzano in modo negativo la capacità di
autoriparazione del DNA. La perdita di
sinapsi o di arborizzazione dendritica,
associata a meccanismi di infiammazione
cronica, può determinare una rapida
degenerazione che sfocia in un
invecchiamento cerebrale patologico. La
sintesi di queste informazioni è che il
rapporto tra depressione e cervello nelle varie
età della vita è in combinazione cronologica
con i mutamenti psico-organici presenti in
quel determinato momento dell’esistenza.
Mutamenti che determinano le risorse
cerebrali «disponibili» in quella fase della
vita e che potranno modulare le differenti
espressioni del quadro clinico depressivo.
Assunto di base è, quindi, la nozione di
circolarità: le caratteristiche del cervello
influenzano la depressione, la depressione
influenza il cervello.
Tale madre, tale figlio?
Si può trasmettere la depressione da madre o
da padre in figlio? È corretto dire «tale
madre, tale figlio»? Per rispondere a queste
domande, dobbiamo distinguere due diverse
possibilità: la prima, oggi molto studiata, che
una madre depressa in gravidanza (vedi
capitolo VIII) possa «trasmettere al figlio» la
depressione; la seconda, che la scarsa serenità
dell’ambiente familiare, gravi conflittualità
relazionali-coniugali, induca nel figlio il
disturbo.
Di questa seconda possibilità abbiamo già
parlato nel capitolo V. In questo caso,
utilizzare il concetto di «trasmissione
transgenerazionale» non è propriamente
corretto, anche se non è del tutto sbagliato.
Per esattezza, bisognerebbe riservare il
termine «trasmissione transgenerazionale»
esclusivamente al caso in cui un genitore
affetto da depressione la «trasmette» al figlio,
e non quando il suo stato depressivo
rappresenta solo un fattore di rischio.
Sviluppiamo, quindi, il discorso sulla
depressione perinatale, disturbo molto
diffuso che, se non opportunamente trattato,
può diventare invalidante anche per i figli.
Una madre depressa può compromettere
la salute psichica del nascituro già durante la
vita fetale.
Il cervello del feto è particolarmente
vulnerabile agli stimoli provenienti dal
maternal milieu, l’ambiente materno;
l’alterazione dell’ambiente intrauterino
fisiologico è il primo passo della continuità
psicopatologica transgenerazionale (dalla
madre al neonato, al bambino e,
successivamente, all’adulto). Dopo il parto,
invece, la trasmissione tra le generazioni
avviene soprattutto attraverso la relazione, il
legame madre-bambino. Una madre
depressa, per esempio, potrà essere distante,
indifferente ai bisogni emotivi del neonato,
pregiudicandone uno sviluppo psichico
sano. 3
I meccanismi della trasmissione
transgenerazionale in gravidanza non sono
ancora stati chiariti completamente. La
ricerca scientifica ha mostrato che la
depressione materna è associata a
complicanze ostetriche, come il basso peso
neonatale e il ritardo di crescita intrauterina.
Negli ultimi anni, l’interesse degli studiosi si
è rivolto anche alla relazione tra la
depressione e la «programmazione» del
sistema nervoso fetale che avviene nel
periodo prenatale.
Gli studi più recenti depongono per una
complessa interazione tra l’ambiente materno
e la placenta, e quindi sul cervello fetale, in
periodi particolarmente sensibili delle prime
fasi della gravidanza. Lo stress materno
indurrebbe modificazioni epigenetiche nel
nascituro, influenzando così le traiettorie
evolutive del cervello del bambino, in modo
diverso a seconda che sia femmina o maschio.
Gli studi hanno messo in evidenza il
coinvolgimento di vari sistemi e mediatori
biologici; tra questi, i meccanismi
dell’infiammazione centrale e periferica,
attraverso l’azione delle citochine
proinfiammatorie (gli ormoni dello stress, il
glucosio, l’insulina, l’acido folico e gli acidi
grassi). 4
La depressione materna colpisce il
neurosviluppo fetale anche nelle fasi finali
della gravidanza. Sappiamo che il feto non è
in uno stato di deprivazione sensoriale; a
eccezione della vista, le sue capacità
sensoriali possono essere stimolate
dall’ambiente esterno. Nell’ultimo periodo
della gravidanza, il nascituro si prepara ad
affrontare la vita dopo la nascita e diventa
particolarmente sensibile agli stimoli, in
particolare alle carezze e alla voce della
madre, della quale sembra percepire anche i
sentimenti. Per esempio, se la madre è
depressa o ansiosa, la reattività allo stress,
misurata attraverso la frequenza cardiaca
fetale, sarà aumentata. Ricerche effettuate
utilizzando il Maternal Fetal Attachment
Style, un test che misura i comportamenti di
attaccamento materno-fetale, come
accarezzarsi la pancia o parlare con il
bambino, mostrano che la qualità
dell’attaccamento promuove lo sviluppo
cerebrale nei primi due anni di vita.
Uno degli studi più importanti sulla
trasmissione intergenerazionale della
depressione, l’Avon Longitudinal Study of
Parents and Children (ALS PAC ), realizzato su
oltre 14.000 donne al terzo trimestre di
gravidanza e sui loro figli, seguiti fino
all’adolescenza, ha dimostrato che la
depressione materna prenatale determina
effetti negativi duraturi sui figli. Questo
fenomeno sarebbe dovuto all’innalzamento
dell’ormone dello stress, il cortisolo, che è
stato misurato a 10, 13 e 16 anni. È stato
stimato che fino al 10-15% dei disturbi del
neurosviluppo infantile dipendano dallo
stress che il feto ha percepito nella vita
prenatale, anche se la madre non ha sofferto
di altri episodi di depressione nel corso della
vita. 5
La trasmissione transgenerazionale della
depressione in relazione alla depressione
post partum, come già detto, sarebbe
soprattutto il risultato di una carente
interazione madre-bambino, compromessa
dalla mancanza di fattori protettivi e dalla
presenza di fattori di rischio nel contesto di
vita del bambino. Le capacità empatiche della
madre, pregiudicate dallo stato depressivo,
svolgerebbero il ruolo di mediatore tra
depressione materna e funzionamento
emotivo del bambino, favorendo l’instaurarsi
di un clima relazionale caratterizzato da
insensibilità e non responsività ai bisogni del
bambino. Molte ricerche, che hanno
riprodotto con situazioni sperimentali
l’interazione tra il bambino e la madre
depressa, hanno confermato questi effetti
dannosi. Il paradigma Still Face, o «del volto
immobile», in cui la madre rimane
impassibile, non sorride e non comunica con
il figlio di 4-5 mesi nel momento in cui lui
cerca la sua attenzione, mimando così
involontariamente una sorta di depressione,
ha messo in luce nel neonato lo sviluppo
prevalente di emozioni negative, differenti tra
maschi e femmine, predisponenti a disturbi
psichiatrici futuri. 6
L’insieme delle risposte materne, intese
come disponibilità, cura e comprensione,
facilita invece nel bambino la costruzione di
una autostima adeguata e di un modello di
caregiver affidabile. Di conseguenza, la
qualità dell’interazione precoce con la madre
ha ripercussioni sulla formazione dello stile
di attaccamento che indirizzerà, nel bambino,
le future capacità relazionali e di risposta agli
eventi esterni, in una catena generazionale a
lungo termine. Se il bambino sperimenterà
emozioni negative connesse alla percezione
della scarsa affidabilità e disponibilità della
figura di attaccamento rappresentata dalla
madre depressa, potrà acquisire il sentimento
di impotenza, che sarà il nucleo centrale della
sua futura depressione. Inoltre, la sua
esperienza di inaiutabilità, farà sì che i futuri
eventi di vita stressanti saranno percepiti
come incontrollabili e lo renderanno più
vulnerabile alla depressione.
La maggior parte degli studi finora
effettuati ha esplorato principalmente
l’effetto della psicopatologia materna sulla
trasmissione transgenerazionale della
depressione, ma evidenze crescenti
suggeriscono che anche la salute mentale dei
padri condiziona lo sviluppo psicopatologico
della prole. Gli esperimenti sui modelli
animali dimostrano che lo stress postnatale
dei padri può provocare alterazioni
epigenetiche del DNA dei figli. Nell’uomo, la
depressione paterna postnatale aumenta il
rischio di depressione nei figli fino all’età di
18 anni.
Tra i fattori che proteggono dalla
trasmissione transgenerazionale della
depressione, le evidenze più solide
riguardano gli effetti riparatori del parenting
style, lo stile genitoriale, concettualizzato
come un insieme di atteggiamenti, finalità e
comportamenti che favoriscono un clima
emozionale positivo e una relazione
supportiva. Un intervento terapeutico efficace
sulla coppia e sulla relazione genitore-
bambino può riuscire a invertire il percorso
patologico innescato dalla depressione. In
particolare, il «calore» dell’atteggiamento
genitoriale protegge lo sviluppo emotivo,
comportamentale e cognitivo del bambino,
riducendo i rischi provocati dalle avversità
future.
VII
La depressione in età evolutiva

C’era una volta…


Probabilmente i primi ad affrontare il tema
della depressione infantile sono stati gli
scrittori di fiabe, anche se è difficile che nei
racconti per l’infanzia si narrino
esplicitamente storie di depressione o si
descrivano bambini depressi. La bravura di
chi scrive questi testi è quella di stimolare
paure evolutive, senza spaventare e
angosciare i piccoli lettori. Le paure evolutive
sono quelle che abbiamo vissuto tutti nei
primi anni di vita e riguardano un aspetto
particolare dello sviluppo, collegato al
superamento dell’ansia di separazione. «Le
favole descrivono attraverso immagini senza
tempo il faticoso cammino che porta un
bambino a diventare adulto, illustrano le
difficoltà legate all’infanzia che devono
essere superate… ma trasmettono il coraggio
di credere al diritto di vivere la propria vita
senza paure e sensi di colpa» (Eugen
Drewermann). 1
Le fiabe, anche quando raccontano storie
tristi, hanno sempre il fine di «insegnare» che
alla tristezza e allo sconforto si può e si deve
reagire. I sentimenti rappresentati nelle
favole sono la paura, l’abbandono, la
solitudine, la delusione, l’inganno:
esperienze che i bambini incontrano nel loro
processo di crescita e che devono imparare a
superare «sconfiggendo la depressione». La
tristezza delle favole è una via per scoprire la
speranza, mentre la depressione nega
speranza e prospettive future, blocca la vita.
Si può parlare di depressione nei
bambini?
Per molto tempo si è preferito non parlare di
depressione infantile, anche perché non è
mai stato facile distinguere la soglia limite tra
i normali sentimenti di tristezza, che possono
accompagnare la crescita nei periodi critici, e
la presenza di veri e propri sentimenti
depressivi. Nel bambino è molto complicato
valutare se c’è equilibrio tra il tono basale e i
cambiamenti critici dell’umore e se le
variazioni dell’umore sono espressione di un
meccanismo adattativo o se, invece, sono già
la manifestazione di un esito depressivo. 2 Un
tempo si riteneva che i cambiamenti
dell’umore, che non interferivano con lo
sviluppo e con le aspettative dell’ambiente,
potessero essere considerati solo aspetti del
carattere e che non dovessero destare
particolare preoccupazione.
L’espressività sintomatologica della
depressione infantile, anche quando
costituisce un disturbo vero e proprio, non è
uniforme e stabile, come invece avviene per
l’adulto, ma rispecchia l’età e la fase di
sviluppo del bambino ed è fortemente
condizionata dalle situazioni familiari e
socio-ambientali che egli vive. In età
evolutiva, i disturbi depressivi sono delimitati
da confini incerti ed è più corretto pensare
che esista un continuum di sentimenti di
tristezza, apatia, pessimismo e depressione.
Possiamo immaginare che questo continuum
sia costituito da un’unica gamma di
sentimenti della sfera depressiva, il cui
manifestarsi sarà determinato, di volta in
volta, dalle situazioni ambientali sfavorevoli,
dalle caratteristiche di personalità, dal grado
di maturità acquisita, dall’educazione e dal
contesto sociofamiliare. Per riconoscere la
depressione clinica in età evolutiva è, quindi,
necessario che siano presenti specifiche
caratteristiche psicopatologiche.
Come abbiamo visto nel capitolo II,
secondo l’American Psychiatric Association
la diagnosi di disturbo depressivo maggiore
richiede un netto cambiamento dell’umore,
«pervasivo e stabile», con tristezza o
irritabilità, perdita di interesse e/o di piacere
per almeno due settimane. Vi deve essere
anche una chiara compromissione del
funzionamento sociale e cambiamenti di
alcune caratteristiche fisiologiche, come la
perdita dell’appetito, l’insonnia e, negli
adolescenti, il calo del desiderio sessuale.
La frequenza della depressione in età
evolutiva viene stimata intorno al 2,8% per i
bambini al di sotto dei 13 anni, con un
rapporto di 1 a 1 tra maschi e femmine, e
intorno al 5,6% per i ragazzi di età compresa
tra i 13 e i 18 anni, con una frequenza doppia
per le femmine rispetto ai maschi. Inoltre, la
depressione non sempre si configura come
un quadro clinico autonomo: nel 40% dei casi
è presente in associazione con un secondo
problema di tipo psichiatrico, come la
distimia, i disturbi d’ansia, i problemi del
comportamento; oppure si manifesta in
associazione con alcune patologie dello
sviluppo, come i disturbi della motricità, le
difficoltà cognitive, i disturbi specifici
dell’apprendimento, ed è conseguenza dei
problemi di sviluppo che si affrontano
durante la crescita. Infine, la depressione può
accompagnare, o addirittura precedere, altre
forme psicopatologiche e la presenza di
sentimenti depressivi, a volte, è soltanto la
modalità di esordio di un disturbo di altro
tipo. La depressione in età evolutiva può
svolgere un ruolo di «semaforo», indicando il
passaggio da un’organizzazione
psicologica/psicopatologica a un’altra.

VOLER CRESCERE NON BASTA


Nei bambini, il processo di conoscenza viene
descritto secondo diversi punti di
osservazione: come «pulsione
epistemofilica», cioè ricerca di conoscenza del
corpo della madre e della scena primaria
originaria (Melanie Klein); 3 come un
processo di assimilazione e accomodamento,
rivolto a scoprire e integrare
sistematicamente le nuove esperienze di
conoscenza nella propria organizzazione
cognitivo-affettiva (Jean Piaget); 4 come una
ricerca di stimoli per realizzare
comportamenti soddisfacenti, motivati dalla
ricerca del risultato (Sybille Escalona). 5
Inoltre, con la crescita e con la
maturazione delle funzioni comunicative del
linguaggio e del senso di Sé, il bambino
interagisce in modo sempre più complesso e
sofisticato con le figure parentali e
sperimenta la relazione interpersonale
attraverso il processo del rispecchiamento
con l’altro e attraverso la produzione delle
prime forme di comunicazione verbale. In
questo processo di scambio comunicativo con
l’adulto e di scoperta progressiva del mondo
circostante, si inserisce, già a partire dalla
seconda metà del primo anno di vita, il
fenomeno del gioco che funge da ponte tra
l’attività esplorativa e quella di relazione.
Proprio in ragione del fatto che il bambino
si distingue dalla persona adulta per il suo
bisogno vitale di crescere e di scoprire il
mondo che lo circonda, fino a pochi anni fa è
stato difficile per gli studiosi capire se i
bambini, soprattutto i più piccoli, potessero
davvero sperimentare un autentico stato
depressivo. In realtà, le osservazioni condotte
sul comportamento del bambino, già a
partire dai primi mesi di vita, hanno messo in
luce la comparsa di importanti variazioni del
tono dell’umore che possono esitare in un
stato depressivo, anche molto grave, che si
sviluppa in evidente contrasto con i bisogni
vitali e non trova giustificazione in altre
forme di disturbo. In età evolutiva, quando si
instaura un processo depressivo, tutti i
passaggi dello sviluppo biologico, psicologico
e affettivo possono essere colpiti e alterati nel
loro normale svolgimento sino ad arrivare,
nei casi più gravi, a una sospensione e a un
arresto della crescita armonica.
Il bambino irritabile e il bambino
apatico: due facce di uno stesso
problema
In generale si ritiene che i disturbi
psicopatologici che si manifestano in età
evolutiva siano il risultato di un’esperienza
traumatica di separazione dalle figure
genitoriali e che ogni disagio psichico
dell’infanzia possa essere interpretato alla
luce della profonda sofferenza che
sperimenta il bambino per il vissuto di
perdita, reale o fantasmatico, della persona
amata. La depressione, secondo
un’interpretazione psicodinamica, è da
mettere in relazione a esperienze di perdita,
reali o simboliche, che minacciano la
formazione di un Sé maturo e fiducioso e
producono nel bambino una «ferita
narcisistica», carica di sentimenti di colpa e di
inadeguatezza. La paura di aver perso la
persona amata, o di averla in qualche modo
danneggiata con la propria rabbia, alimenta
nel bambino un profondo senso di colpa
inconscio che non solo non trova pace, ma fa
nascere in lui insoddisfazione, paura e
inadeguatezza, insieme a richieste interne
sempre più rigide ed elevate, definite
«superegoiche», che lo espongono a una
crescente sfiducia in se stesso.
Il bambino depresso può presentarsi
secondo due quadri psicopatologici opposti: o
fortemente irritabile e aggressivo, che agisce
comportamenti di grande disturbo all’interno
del gruppo, ma la cui aggressività va
interpretata come una «disperata manovra
difensiva» per proteggere un Sé percepito
come molto fragile; oppure spento, apatico,
che cerca di comprimere, nascondere,
devitalizzare le proprie emozioni, per tenersi
al riparo da un coinvolgimento emotivo
troppo intenso che teme di non essere capace
di sostenere. Entrambi i comportamenti,
iperattivo e aggressivo o apatico e inibito,
sono il risultato di meccanismi di difesa
utilizzati in modo eccessivo e abnorme, che
stravolgono il normale andamento della
crescita psicologica. Il bambino si protegge
da paure e angosce sia con difese maniacali
sia con difese melanconiche e talvolta si
assiste a un’alternanza o a una simultaneità
nell’uso delle difese maniacali e di quelle
melanconiche.

I fattori di rischio
In età evolutiva i disturbi depressivi possono
avere caratteristiche diverse e presentare
differenti livelli di gravità, in quanto sono il
risultato di diversi elementi che interagiscono
tra di loro: la fase di sviluppo del bambino, le
sue caratteristiche temperamentali, le
dinamiche familiari e le condizioni
ambientali in cui il disturbo si sviluppa. Il
costituirsi di uno stato depressivo
clinicamente rilevante riflette la presenza di
numerosi fattori di rischio collegati alla
famiglia e all’ambiente circostante. In sintesi,
studiosi e ricercatori ritengono che la
psicopatologia dell’età evolutiva non possa
mai essere valutata al di fuori del contesto
socio-ambientale in cui si manifesta.
I fattori di rischio vengono suddivisi in tre
tipologie: fattori di ordine biologico,
psicologico e ambientale. Tra i fattori
biologici ricordiamo una storia familiare di
depressione, i cambiamenti ormonali durante
la pubertà, gravidanze precoci, la presenza di
malattie organiche debilitanti come asma e
diabete mellito o di disturbi del sonno. I
fattori psicologici comprendono forte
dipendenza emotiva, bassa autostima,
immagine corporea negativa, presenza di
negative affect, basso rendimento scolastico,
idee di suicidio, uso di sostanze. I fattori
ambientali, infine, sono costituiti da
mancanza di un gruppo sociale di riferimento
adeguato, presenza di una forte conflittualità
familiare, povertà di rapporti familiari
significativi, presenza di eventi traumatici
quali incidenti, abusi fisici e sessuali. In
particolare, è importante sottolineare
all’interno dei fattori di rischio socio-
ambientale i conflitti della genitorialità, in
quanto producono disturbi significativi
dell’attaccamento madre-bambino e
costituiscono un elemento determinante
nella patogenesi delle forme di depressione
cronica in età evolutiva. In questo caso,
l’autostima del bambino viene minata da
identificazioni proiettive «deformanti» che la
madre effettua sul bambino «difficile». Gli
studiosi ritengono che il bambino diventi
difficile – difficile da calmare, da consolare,
da comprendere – perché si esprime in modo
confuso, in quanto assorbe dentro di sé le
immagini negative e cariche di aggressività
trasmesse dai genitori: il risultato è che ha
un’idea squalificata di se stesso e sente una
bassa stima di sé. In queste circostanze, la
persona di riferimento, generalmente la
madre, non riconoscendo la natura aggressiva
e colpevolizzante delle proprie proiezioni, si
identifica con l’immagine di una madre
vittima o indegna, aggredita dal suo
bambino.
Per altri contesti familiari, il nucleo
principale della depressione infantile si può
ricollegare a uno stile di comportamento
appreso. Il bambino risente di un rapporto
affettivo genitoriale in cui prevalgono
sentimenti depressivi o interpretazioni
depressive della realtà. Il bambino depresso
vive sotto il segno dell’inadeguatezza e
finisce con il coartare i propri sentimenti,
scegliendo una posizione depressiva. Sembra
un bambino spento, che non si arrabbia mai,
che evita ogni possibile conflitto emotivo, un
bambino che cerca di devitalizzare le proprie
emozioni.
Tra i principali fattori di rischio ambientale
vi sono poi le esperienze di natura traumatica
(vedi anche capitolo II), a cui molto
frequentemente si trovano esposti bambini di
ogni fascia di età, spesso senza che l’adulto se
ne renda conto. Tutti gli studiosi sono
concordi nel sostenere che le esperienze
traumatiche hanno un impatto fortemente
negativo sul benessere fisico ed emotivo del
bambino e condizionano, oltre al
comportamento, anche lo sviluppo cognitivo.
La vulnerabilità al trauma è diversa da
soggetto a soggetto: naturalmente dipende
dall’età e dalla storia personale, ma quanto
più il bambino è piccolo, tanto maggiore è il
rischio che possa essere sopraffatto da eventi
che sull’adulto, o su ragazzi più grandi,
potrebbero non avere effetto. L’intensità del
trauma è definita, quindi, non soltanto
dall’evento in sé, ma anche dalle
caratteristiche bio-psicologiche del bambino
e dal suo contesto di vita. La risposta
all’evento traumatico sarà diversa a seconda
delle caratteristiche dell’evento stesso,
dell’intensità e del tempo di esposizione al
trauma, e anche dell’età del bambino, della
sua malleabilità e resilienza e delle risposte
ambientali, protettive o non, che possono
attivarsi.
In sintesi, nel bambino piccolissimo, cioè
entro l’anno di vita, poiché le capacità
motorie e verbali sono ancora molto limitate,
si può osservare una risposta al trauma che si
manifesta come chiusura e isolamento, una
sorta di torpore psico-fisico attuato come
difesa di fronte a un disagio non più
tollerabile, una versione primitiva della
dissociazione. In età prescolare, la risposta a
uno stress eccessivo può presentarsi sia
attraverso un comportamento iperattivo e
irritabile con pianti esasperati poco motivati
sia, all’opposto, attraverso un comportamento
di estrema chiusura, con rifiuto del gioco e
delle persone care o, ancora, attraverso
comportamenti regressivi o la presenza di
incubi notturni. Segni di evidente malessere,
che si palesano soprattutto quando accade
qualcosa che richiama alla memoria del
bambino l’esperienza traumatica.
Le manifestazioni depressive
nell’infanzia
Gli stati depressivi della prima infanzia
hanno caratteristiche cliniche molte diverse
da quelle delle forme di depressione che si
sviluppano nelle età successive. Soltanto
nella depressione dell’adolescente si
ritrovano alcune caratteristiche della
depressione dell’adulto, come la tristezza e
alcune forme di dolore mentale.
Il decorso della depressione in età
evolutiva può avere diverse evoluzioni.
Ovviamente se vi saranno fattori favorevoli e
positivi per la crescita i sintomi depressivi
potranno regredire ed essere riassorbiti
all’interno di uno sviluppo regolare. Al
contrario, il prevalere di esperienze negative
potrà creare sia una cronicità del disturbo, sia
una vulnerabilità alla depressione che si
presenterà nuovamente nel corso della vita in
risposta a situazioni esistenziali sfavorevoli.
NEL BAMBINO PICCOLO
Le manifestazioni cliniche della depressione
si manifestano in modo diverso nel bambino
piccolo, al di sotto dei 2 anni e mezzo di età, e
nel bambino tra i 2 anni e mezzo e i 6. In
entrambi i casi, la sintomatologia risente in
modo importante delle pressioni conflittuali
esercitate dagli avvenimenti dell’ambiente,
soprattutto dalle situazioni che protraggono i
vissuti di privazione, di perdita e di
separazione e dai conflitti della genitorialità,
che disturbano la conservazione di un senso
di sicurezza e di autostima nel bambino. 6
Possiamo riconoscere l’esistenza di due
forme depressive nei bambini piccoli. La
forma acuta compare nei primissimi mesi di
vita, quando il bambino subisce una
separazione precoce e repentina dalle figure
parentali di attaccamento. Il neonato cade in
una condizione depressiva gravissima,
descritta da René Spitz nel 1946 e chiamata
«depressione anaclitica», che comporta la
perdita progressiva di tutte le funzioni
vitali. 7 La sindrome si manifesta,
inizialmente, con pianti inconsolabili
accompagnati da disturbi dell’appetito e del
sonno, e progressivamente si aggrava
seguendo tre fasi principali (protesta per la
perdita, disperazione, apatia e isolamento)
fino a raggiungere una regressione
irreversibile dello sviluppo. Questa forma,
ormai rara e presente quasi solo nelle
situazioni di grave degrado socioeconomico,
può recedere soltanto nelle prime due fasi, se
si ricostituiscono condizioni ambientali
adeguate o se sopraggiungono nuove figure
di attaccamento, in grado di supplire in modo
efficace ai bisogni affettivi del bambino.
Tra i 2 e i 6 anni di età può verificarsi una
forma cronica di depressione denominata
anche «fredda» o «vuota» (Léon Kreisler) 8
per le sue particolari caratteristiche
sintomatologiche. La manifestazione clinica
principale è un comportamento di inibizione
con riduzione delle attività esplorative,
povertà e ritardo nello sviluppo del
linguaggio, riduzione degli scambi
comunicativi con la madre e con tutte le
principali figure di attaccamento. Il bambino
appare apatico, serioso, scarsamente
empatico, con distacco affettivo, fino a
manifestare un ritiro relazionale. Si
accompagnano a questa forma di depressione
infantile anche sintomi di tipo somatico quali
perdita di appetito, difficoltà di
alimentazione, disturbi del sonno, infezioni
frequenti alle vie respiratorie.
Altre volte la sintomatologia depressiva è
espressa da modificazioni del
comportamento, che diviene iperattivo,
oppositivo, fortemente instabile con
manifestazioni poco comprensibili come crisi
di rabbia e pianti irrefrenabili. Questo
disturbo cronico dell’umore si ricollega a un
disturbo dell’attaccamento. Nelle sue forme
più lievi, la depressione fredda può provocare
disturbi dell’attaccamento per cui il bambino
viene descritto dai genitori o come «capace di
andarsene con il primo venuto», o come
incapace di separarsi dalle figure genitoriali.
Mancano in queste forme depressive il
vissuto di colpa e la perdita della stima di sé.

DOPO I 6 ANNI
Le caratteristiche della depressione infantile
iniziano a strutturarsi intorno ai 6 anni di età
quando il bambino ha internalizzato i sistemi
di valori genitoriali e ha raggiunto una
primaria conoscenza di sé e del mondo
circostante. A questa età il bambino possiede
un sistema di convinzioni e di aspettative
verso se stesso e il mondo esterno che lo
induce a colpevolizzarsi quando le sue
aspettative non vengono soddisfatte. Le
reazioni alla perdita e alla frustrazione sono
molto intense e i sentimenti di inadeguatezza
più vividi. Accanto a modificazioni stabili
dell’umore, vi sono sentimenti di tristezza e
di insoddisfazione che non vengono
facilmente mitigati da fattori esterni o da
rassicurazioni dell’adulto. Il comportamento
è molto variabile e oscilla tra atteggiamenti di
inibizione e di chiusura e comportamenti di
marcata instabilità, profonda irritabilità e
aggressività verso gli adulti e i coetanei. Vi
può anche essere riduzione della curiosità e
dei comportamenti esplorativi, mancanza di
piacere per ogni forma di gioco, richiesta
continua della presenza di una figura di
riferimento in tutte le situazioni
extrafamiliari come la scuola, le feste dei
coetanei, lo sport. L’allontanamento
dell’adulto provoca reazioni incontrollabili di
ansia. A volte questi bambini dimostrano un
interesse precoce per i temi inerenti la morte
e una particolare sensibilità rispetto a
fantasie di scomparsa delle figure di
attaccamento. La principale difesa consiste
nella diffidenza e nella chiusura di fronte alle
nuove relazioni e alle nuove esperienze, a cui
cercano di sottrarsi inibendo ogni forma di
curiosità.
«Vorrei avere indietro i miei giocattoli»
«Vorrei avere indietro i miei giocattoli» dice Luigi
alla madre, dopo aver offerto spontaneamente
agli amici i nuovi giocattoli che il padre gli ha
portato la sera prima. Luigi frequenta la seconda
elementare; a scuola, viene considerato «timido»:
la maestra dice che «si fa mettere sotto e togliere
tutto» dai compagni. A essere preoccupata per
Luigi è soltanto la madre, la quale ha notato nel
bambino reazioni di forte irritazione; per esempio,
se mentre gioca da solo con le costruzioni non
riesce a trovare il pezzo giusto, «butta tutto
all’aria… si mette a urlare ed è impossibile
calmarlo». La madre riconosce che in quei
momenti lei stessa diventa ansiosa; mentre il
padre replica con sarcasmo: «Tu strilli insieme a
lui… Con me invece si calma»; e aggiunge,
banalizzando le preoccupazioni della madre:
«Tutti i bambini fanno scherzi e li subiscono,
allora quando farà il militare…», alludendo al
fatto che il figlio deve maturare. Luigi ha una
sorellina di circa un anno e, sebbene le sia molto
affezionato, quando la madre è presente la
maltratta e si lamenta ripetutamente di essere
trascurato. La notte fatica a addormentarsi e
resta a lungo sveglio «a fantasticare», ma
ultimamente la madre ha dovuto togliere dalla
stanza tutti i giocattoli, «perché la notte gli
sembravano dei mostri che venivano a
spaventarlo». Da alcuni mesi, Luigi fa molte
domande sull’universo e sulla vita, e manifesta
una grande preoccupazione per i genitori: «Ha
paura che si possa morire». Il suo gioco preferito è
mascherarsi: «Prende foulard, cappelli, sciarpe e
inventa dei personaggi». Talvolta gioca da solo e
non vuole essere visto; altre volte coinvolge
madre e sorella, le traveste e immagina di dover
fare insieme a loro un lungo percorso, pieno di
difficoltà e pericoli da superare (draghi,
trabocchetti, muri altissimi) allo scopo di
raggiungere «il tesoro». Ma il gioco non finisce
mai, e al tesoro non si arriva mai. Il padre
commenta, in aperto disaccordo con la moglie, che
«il gioco è solo una scusa per non studiare». La
madre a sua volta accusa il marito di essere
disattento nei confronti dei figli, concentrato solo
sul lavoro che lo tiene lontano da casa. Luigi
domanda spesso il motivo delle loro discussioni.
Nel mondo di Luigi emergono due dimensioni
di pensiero parallele. Una è reale, piena di paure,
preoccupazioni, lamentele: paura di non essere
visto (dal padre), paura di non essere amato
(dalla madre e dalla sorella), paura di non
soddisfare mai l’altro (gli amici), paura di
perdere tutto (angoscia di morte). L’altra è una
dimensione immaginaria, carica di emozioni e
aspettative, in cui Luigi si rifugia, portando con
sé anche gli affetti più cari, la madre e la sorella,
alla ricerca del «tesoro». Purtroppo la strada è
lunga, piena di pericoli e di prove da superare e
non si raggiunge mai la fine. In altre parole,
Luigi non raggiunge mai la soddisfazione, la
rassicurazione di cui avrebbe bisogno, spera che al
di là delle difficoltà che deve affrontare con la
crescita alla fine possa essere ricompensato, e
trovare il «tesoro»; ma il percorso è difficile e
forse deludente, «… manca sempre un pezzo», e
tutto, con rabbia, «finisce di nuovo in pezzi». La
speranza che gli amici siano più buoni, soddisfatti
dai suoi giochi, ricorda la mitologia del sacrificio
agli dei, che devono essere costantemente
gratificati per ottenere la loro benevolenza.

QUANDO IMPARARE È DIFFICILE


Nel mondo delle favole sono numerosi i
racconti in cui si parla di bambini che non
vogliono andare a scuola. Non riescono a
seguire le regole imposte dagli insegnanti e
faticano a imparare. A questo proposito
possiamo ricordare due personaggi che tutti
conoscono, Pinocchio e Gian Burrasca. Sono
storie che raccontano il disagio, l’insofferenza
e talvolta anche la noia dei protagonisti verso
la scuola che, aggiungiamo, spesso non li sa
accogliere.
Anche nella realtà accade qualcosa di
simile. Alcuni bambini seguono con
difficoltà, imparano molto lentamente e, se
non vengono aiutati in tempo, accumulano
un ritardo importante nell’apprendimento.
Ma chi sono questi ragazzi? E perché non
riescono a studiare come gli altri? La risposta
non è semplice; i bambini che vanno male a
scuola sono circa il 2% della popolazione
scolastica e costituiscono un gruppo
eterogeneo. Sono ragazzi con difficoltà
cognitive (lievi o medie), difficoltà percettive
(ipoacusia, disturbi visivi), disturbi motori
(disprassia, paralisi cerebrali), difficoltà
linguistiche (dislalia, disfasia), problemi di
attenzione e iperattività (ADHD ), disturbi
specifici di apprendimento (DS A, dislessia,
disgrafia, discalculia) e, infine, con difficoltà
emotive (ansia, depressione, fobie). La
depressione in età evolutiva, oltre a essere
una delle cause primarie dell’insorgenza di
problemi nell’apprendimento, è anche un
disturbo che spesso accompagna e aggrava le
altre patologie dello sviluppo.
La capacità di imparare e di studiare,
quando si frequenta la scuola, viene
fortemente inibita e/o ritardata dalla
presenza di vissuti depressivi e il calo
dell’umore in età evolutiva può assumere la
forma di una scarsa capacità di applicarsi
nello studio, con riduzione dell’attenzione,
apatia, distraibilità, e povertà dei risultati
scolastici. I sentimenti depressivi
aggrediscono non solo la capacità di studiare,
ma limitano anche altre aree dello sviluppo,
compresa la vita di relazione. Spesso questi
ragazzi diventano chiusi, isolati, tendono a
sottrarsi al rapporto con i coetanei, rispetto ai
quali si sentono inadeguati, preferiscono la
compagnia dei familiari o degli amici più
piccoli, con cui possono instaurare un
rapporto più semplice e condividere un
mondo infantile che percepiscono ancora
sicuro, perché conosciuto e al riparo da nuove
frustrazioni. L’apprendimento è un’attività
molto complessa, non solo per le difficoltà
inerenti lo studio, ma anche perché veicola
forti emozioni indotte dalla situazione di
apprendimento in quanto tale. Scrive Isca
Salzberg-Wittenberg, una psicoterapeuta
dell’età evolutiva: «… l’apprendimento sorge
in una situazione in cui noi non conosciamo
ancora, o siamo ancora incapaci di ottenere
ciò a cui aspiriamo. Inevitabilmente ciò
implica incertezza, un certo grado di
frustrazione e delusione. Questa esperienza è
dolorosa e, se lo è troppo rispetto a ciò che
può essere tollerato, allora si cerca di
evitarla». 9

«Non so scrivere»
Mattia ha 6 anni e frequenta la prima
elementare. Trascorsi i primi giorni di scuola,
mostra subito delle difficoltà: tiene la matita
stretta nella mano chiusa a pugno e la fa scorrere
con fatica sul foglio; il tratto è grossolano e
pesante; a volte accade che involontariamente
buchi il foglio. Le prime lettere che cerca di
tratteggiare sono deformi, troppo grandi, poco
intellegibili. Mattia si confronta con i compagni e
si rende conto che scrivere, nonostante il suo
impegno, è davvero molto faticoso e senza alcuna
soddisfazione; l’insegnante lo riprende in
continuazione e guarda sempre con
disapprovazione il suo quaderno.
Mattia non riesce a coordinare correttamente e
velocemente i movimenti delle mani
(«disprassia»), perciò per lui scrivere è
un’attività motoria molto complessa che richiede
tempo ed esercizio, e quasi mai porta a dei
risultati soddisfacenti («disgrafia»). Tutte queste
difficoltà, con la delusione che ne consegue,
producono nel bambino un sentimento di
frustrazione e di inadeguatezza che non trovano
comprensione nell’insegnante che, invece,
persevera in un atteggiamento di disapprovazione
e rimprovero. Il comportamento di Mattia
gradualmente si modifica: il bambino diventa
svogliato, disattento, irrequieto, litigioso con i
compagni, facilmente frustrabile, e sviluppa
comportamenti aggressivi (picchia i coetanei,
butta le sue cose per terra) o di grande disagio
emotivo (scappa dalla classe, piange
ripetutamente, rifiuta di scrivere, chiede di
tornare a casa). Risulta evidente che Mattia
risponde con atteggiamenti di rabbia depressiva
alla delusione di non sapere scrivere e di avere
vicino adulti incapaci di capire il suo vero
problema: la difficoltà a coordinare i movimenti
necessari per farlo. Un insegnante avrà un’idea
semplice, ma molto efficace; superando la
«convenzione» di dover sempre usare una penna,
lo farà scrivere con un computer. Ciò renderà
Mattia un bambino allegro, liberato dal dolore
del fallimento.

«Rimanevo sempre indietro»


Emilia ha 13 anni e, da ormai un anno, effettua
regolari visite psichiatriche. Durante la visita,
non vuole ricordare il periodo passato, quello dei
ricoveri, del pronto soccorso, delle prolungate
assenze da scuola, delle ferite che si procurava e
che doveva mostrare a medici, infermieri,
psicologi. Ogni ferita era un marchio, una
rappresentazione concreta e indelebile di un
momento di angoscia, di scoramento, di
frustrazione che non trovava altro sbocco o altra
soluzione se non il «taglio». Forbici, lamette,
coltelli, tagliaunghie, qualsiasi cosa potesse
essere usata per tagliare era all’improvviso
diventata un pericolo per Emilia. I suoi genitori
vivevano nel terrore di non poter lasciare la figlia
da sola; si erano impegnati nella missione
impossibile di doverla controllare senza essere
invadenti, non potevano più concedersi spazi
propri senza domandarsi, centinaia di volte, come
potesse essere successo che la seconda figlia
cadesse nel precipizio di quello che gli psichiatri
definiscono «depressione». «Dove abbiamo
sbagliato?» è la domanda che Livio, il papà, e
Marina, la mamma, rivolgono ai vari specialisti.
Anche prima della depressione, a detta dei
genitori, Emilia era una bambina «un po’
diversa, soprattutto rispetto alla sorella
maggiore». Alla scuola materna, l’inserimento
non era stato semplice. La madre ricorda ancora i
pianti prolungati e disperati, quando la
accompagnava dalle suore a 3 anni. Spesso era
costretta ad andare a riprenderla prima
dell’orario o a tornare indietro poco dopo averla
lasciata. In quel periodo, Emilia faceva fatica a
dormire e aveva ricominciato a fare la pipì a letto.
I genitori non sapevano spiegarsi questa
«regressione», visto che la bambina aveva già
raggiunto la propria autonomia nei bisogni
personali prima della scuola materna. «È ansia»,
aveva detto il pediatra, consigliando alla madre
di non essere troppo presente e di abituare la
bambina a «cavarsela da sola». Di fatto, però,
Emilia aveva impiegato un anno esatto a
rimanere a scuola da sola senza angoscia, e ad
ambientarsi con le sue amiche. Quando si trattò
di iscriverla alla prima elementare, i genitori
erano terrorizzati che si ripresentassero le stesse
difficoltà. Invece erano rimasti sorpresi nel notare
il livello di autonomia, indipendenza e serenità
mostrato sin dal primo giorno. Emilia aveva fatto
subito amicizia, era integrata con gli altri
compagni, aveva costruito il suo gruppetto. Nel
secondo quadrimestre, le maestre avevano però
notato una certa pigrizia nel leggere, nonostante
la vivacità del carattere e la spigliatezza nel
parlare. «Emilia deve impegnarsi di più» era il
giudizio delle maestre durante la seconda
elementare, ma lei continuava a leggere a fatica,
a impiegarci più tempo delle altre e soprattutto a
«scambiare le parole». Genitori e insegnanti
esercitarono una maggiore pressione, ed Emilia
alla fine dell’anno sapeva ormai leggere in tempi
«quasi normali», ma continuava a invertire
vocaboli, a saltare le parole, a scrivere male, con
una grafia non comprensibile, non allineata al
rigo del quaderno.
Questa volta il pediatra suggerisce di farla
visitare da una psicologa, la quale,
inaspettatamente, non insiste sulla mancanza di
impegno o di volontà di Emilia, ma chiede il
parere di un logopedista e poi di un
neuropsichiatra, il quale diagnostica un Disturbo
specifico di apprendimento (DSA ).
Questo disturbo complica le cose a scuola e non
le permette, soprattutto nelle materie letterarie,
di essere alla pari coi compagni. «Rimanevo
sempre indietro» è la frase che Emilia dice
ricordando quel periodo. Da bambina distratta e
che si impegna poco a bambina «dislessica», il
salto è grosso. Il piano didattico personalizzato
proposto dalle insegnanti, l’aiuto a casa nei
compiti e le ore di logopedia non bastano tuttavia
a proteggerla dalle difficoltà di apprendimento.
Emilia, a 13 anni, riporterà il suo vissuto di
«bambina indietro» rispetto ai suoi compagni,
dapprima da rimproverare per il suo scarso
impegno e poi da aiutare. Non sempre i bambini
riescono a elaborare tutto.
Emilia ha chiaramente un rapporto difficile
con la scuola: i voti non brillanti rispetto alla
sorella più grande, l’imbarazzo nel leggere ad
alta voce, i compagni di classe che non hanno ben
capito come mai avesse difficoltà a scrivere in
modo leggibile.
Marina e Livio ricordano che intorno ai 9 anni
inizia a essere un po’ insofferente a certe regole.
Alle volte, non vuole lavarsi, «trascina i compiti
fino a tardi». Non era ribelle, non alzava mai la
voce, solo che bisognava «dirle le cose tante
volte».
Arrivano le medie. Le difficoltà nelle materie
letterarie sono in parte recuperate, la logopedia è
un ricordo, anche se è necessario avere i certificati
da presentare a scuola e, quindi, fare delle visite
ogni tanto. I compagni di classe sono simpatici, a
parte qualcuno che «alza spesso la voce». I
compiti sono difficili e la svogliatezza non aiuta.
Alla fine della prima media Emilia viene
promossa con voti sufficienti. «Non ti impegni» le
viene ribadito nuovamente. «Essere dislessici non
vuole dire non impegnarsi, nascondere i compiti o
arrendersi di fronte alle prove orali.» I genitori le
stanno vicino, ma non sanno come comportarsi
quando alla fine della seconda media Emilia
comincia a mangiare di meno. Salta i pasti e
perde qualche chilo. Poi arrivano le vacanze
estive e la ragazza riprende a mangiare
normalmente. Marina e Livio si informano su
Internet: non dovrebbe essere anoressia, perché al
mare le cose dovrebbero peggiorare per la paura di
esporsi. Ma Emilia non ha problemi a mettersi in
costume e l’appetito sembrava essere ritornato.
A settembre inizia la terza media ed Emilia
chiede di uscire il sabato coi compagni. Non è
semplice dirle di no, perché lei si arrabbia e
strilla, raggiungendo facilmente il suo obiettivo. I
genitori non capiscono bene perché, ma a ottobre
ricomincia a mangiare poco e chatta
frequentemente con un ragazzo più grande. A
dicembre, Emilia confida alla sua amica del cuore
che si è procurata dei tagli sulle gambe. Si ferisce
quasi ogni giorno per due settimane, poi smette,
dicendo «che i tagli erano l’unica cosa che la
faceva stare bene».
Ha smesso di tagliarsi perché nemmeno i tagli
bastano più. Di fronte allo psichiatra, è
arrabbiata, confusa, dice di non essere «matta»,
ma che ha continui sensi di colpa «perché non
vale niente». Racconta che il ragazzo con cui
chattava è sparito da tempo. Vorrebbe dormire,
ma non riesce; un misto di rabbia, paura, sfiducia
la attanaglia, ma non sa spiegarselo; racconta
solo «che non è matta», ma «non ce la fa più», che
tanto «non vale niente» e che i genitori
«sarebbero contenti se lei non fosse nata». Dopo
un anno di lavoro psicoterapeutico, svoltosi con
incontri sia familiari sia individuali, Emilia è
riuscita ad affidarsi alla propria psicoterapeuta,
confidandole paure, ansie, desideri. Questo le ha
consentito di poter finalmente comunicare le
proprie emozioni, sia positive sia negative, e
accettare i momenti di difficoltà senza sentirsi un
fallimento. Ormai, la frase «rimanevo sempre
indietro», che aveva ripetuto a se stessa troppe
volte, era un ricordo.

Le manifestazioni depressive
nell’adolescenza
In adolescenza i molteplici cambiamenti
corporei, cognitivi, affettivi, relazionali che i
ragazzi devono affrontare segnano l’ingresso
in una fase di ulteriore maturazione, ma
anche l’inizio di un periodo di particolare
vulnerabilità. L’umore è variabile e può
essere l’indice tanto di un comportamento
normale, quanto «mascherare» uno stato
depressivo sottostante. In adolescenza, molti
atteggiamenti e tratti comportamentali che
potrebbero far pensare a uno stato
depressivo patologico possono essere parte di
un quadro emozionale di relativa normalità
del processo di crescita: «L’adolescente oscilla
costantemente tra una condizione che tende
alla depressione ma che non è patologica ed è
dotata anzi di valenze strutturanti, e il
pericolo rappresentato dalla caduta in un
vero e proprio stato depressivo» (Vaneck). 10
I sintomi più frequenti della depressione
adolescenziale sono molteplici e spesso si
presentano mescolati tra di loro. Tra essi
troviamo il rallentamento psicomotorio,
caratterizzato da un rallentamento della
motricità, dell’ideazione, dell’espressione
verbale e della percezione del tempo, i
disturbi fisici, come disturbi alimentari e
disturbi del sonno, gli stati emotivi di
tristezza, sentimenti di noia, perdita di
interesse, stanchezza fisica e senso di
affaticamento, senso di impotenza e di
inefficacia. Infine, possono insorgere
comportamenti auto ed eteroaggressivi, con
ideazioni e condotte suicidarie.
Il suicidio in adolescenza è un fenomeno
gravissimo e drammatico, non sempre
determinato dalla depressione ma legato a
una molteplicità di fattori. 11 I ragazzi
possono metterlo in atto come estremo
tentativo per fuggire da un dolore mentale
insopportabile, alimentato da sentimenti di
colpa o dall’incapacità dell’Io di raggiungere
mete ideali rispetto alle quali si sentono
inadeguati. Tra i diversi fattori implicati
bisogna considerare anche la forza dei
sentimenti di vergogna, «come ci si sente
fatti»; il sentirsi diversi fisicamente e
psicologicamente dagli altri compagni può
determinare il ritiro dai rapporti con i
coetanei, una solitudine così estrema da
diventare intollerabile. Altro elemento
considerato determinante negli accadimenti
suicidari sono le qualità relazionali familiari:
la difficoltà o la mancanza di dialogo tra
genitori e figli può sia aumentare la
negatività dei pensieri dei ragazzi sia non
costituire un elemento di difesa di fronte al
desiderio di fuga dalla vita.
Un fenomeno oggi particolarmente e
pericolosamente diffuso è quello del
bullismo, messo in atto non solo
direttamente nelle relazioni di gruppo, ma
anche attraverso i social network. 12 Il
cyberbullismo, in questi anni, è diventato una
delle forme più frequenti di bullismo. A
questo proposito, è importante osservare che
lo spazio virtuale della rete è un luogo in cui
ognuno può assumere personalità diverse
rispetto alla propria e, approfittando della
«copertura virtuale», mettere in atto forme di
aggressività che non si avrebbe il coraggio di
attuare nella realtà. 13 La depressione è una
conseguenza dell’essere vittima di bullismo,
del sentirsi «circondati» senza speranza e
pensare di non poter ricevere aiuto. A volte, si
preferisce allontanare i ragazzi dall’ambiente
in cui sono vittime di bullismo, ma questo
deve essere fatto con grande attenzione in
quanto, se non adeguatamente elaborata,
questa esperienza lascerà sentimenti di
frustrazione, di inadeguatezza e scarsa
autostima che, nel corso della vita, potranno
essere fonte di vulnerabilità alla depressione.

«Ha tutto… non le manca niente»


Maria ha 20 anni e grandi aspettative. Studia
all’università e appartiene alla generazione
«Erasmus», quella che compie una parte dei
propri studi all’estero. Ed è proprio in Spagna che
ha cominciato ad avvertire difficoltà a
concentrarsi nello studio e un senso di sfiducia
verso possibilità future che lei aveva sempre
ritenuto realizzabili. Affronta gli esami con
fatica, si sente sempre stanca: «Respiro male, ho
il fiato corto, la mente offuscata, mi innervosisco
per niente e mi sento stressata, senza voglia di
fare. A volte reagisco, e riesco a studiare e a stare
con gli amici. Non credo di essere depressa, però
non sono mai soddisfatta».
La madre la accompagna al colloquio; ha 50
anni e ha sofferto di una forte depressione intorno
ai 30. Racconta ancora con grande paura il
periodo della depressione: «Non riuscivo più a
fare niente, ero bloccata. La casa era abbandonata,
stavo malissimo, non andavo a lavorare». La
terapia l’ha aiutata a superare questo stato, ma
non ha mai smesso di prendere farmaci per
l’ansia. Nel presentare la figlia al medico dice
subito: «È bella, è sana, non le manca niente, non
capisco perché sta male; quando io sono stata
male, ero veramente depressa».
Maria racconta la sua vita e descrive un
periodo particolarmente difficile tra i 13 e i 15
anni, quando ha subìto diversi episodi di bullismo
a scuola, tanto che i genitori hanno deciso che era
il caso di cambiarle istituto. Già allora aveva
molte aspettative e, apparentemente, la difficile
esperienza del bullismo non aveva intaccato la
sua determinazione.
Nel periodo trascorso in Spagna, Maria ha
avuto una relazione sentimentale che poi si è
«indebolita»: «Ero sicura di aver trovato il
ragazzo giusto ma poi mi sono accorta che forse
non era così, guardavo con curiosità altri
ragazzi».
Possiamo ipotizzare che Maria stia avvertendo
delle incertezze sulla sua autostima, insicurezza
rispetto alle scelte affettive e professionali
intraprese, che prima viveva con grande
entusiasmo, ma che oggi comincia a dover
valutare in maniera più realistica, viste le
difficoltà e le problematiche della vita.
Curiosamente, anche Maria dice: «Non capisco
perché sto male… Ho un ragazzo, studio
all’università, ho tutto, non mi manca niente».
Nei suoi sogni spesso compaiono scene legate al
periodo del bullismo, che Maria commenta
sorprendendosi di come oggi quegli avvenimenti
le provochino dolore e paura che non aveva
provato allora. Soprattutto ha paura di non
essere all’altezza di affrontare la vita, perché non
si sente più sicura di se stessa.
Se nel periodo del bullismo l’idealizzazione di
sé e delle sue conquiste future le aveva permesso
di difendersi dagli attacchi di alcuni compagni,
ora il passaggio a un’età più adulta e con
maggiori responsabilità richiede l’utilizzo di
risorse e di sicurezze emotive adeguate: «Mi sento
troppo vulnerabile, ho paura di non farcela».
Dopo una breve terapia con farmaci
antidepressivi che l’aiuteranno a ritrovare le
energie e a riprendere lo studio, il lavoro
psicoterapeutico le permetterà di recuperare
l’autostima, di riconoscere le sue capacità e il suo
valore, scalfito dai traumi adolescenziali. Maria
supererà il senso di isolamento, il disagio psichico
e il malessere fisico che la paralizzano ogni volta
che pensa al futuro. Sconfiggere i fantasmi del
passato le servirà per recuperare un suo
equilibrio, acquisendo fiducia in se stessa. La
relazione terapeutica le darà gli strumenti e il
coraggio per affidarsi di nuovo agli altri.
Per riflettere
Le favole non raccontano mai la depressione
dei bambini, ma raccontano le loro paure: la
paura di perdere l’altro, la paura di restare
soli, la paura di non avere abbastanza risorse,
la paura di non raggiungere mai la meta.
Sono, queste, le stesse paure contenute nei
sentimenti depressivi che vivono i bambini,
anche i più piccoli.
La favola di Pollicino è una storia
emblematica che racconta dell’angoscia di
separazione e della paura di essere
abbandonati. I genitori di Pollicino non si
sentono più in grado di sfamare i propri figli
e decidono dolorosamente di abbandonarli
nel bosco, nella speranza che qualcuno li
trovi e si prenda cura di loro. Pollicino, il
figlio più piccolo, per età e anche per statura,
spesso svalutato dai genitori proprio per la
sua altezza, è l’unico dei fratelli che non si
arrende alla paura e alla disperazione ed
escogita diverse strategie per ritrovare la
strada di casa (sassolini, briciole di pane); alla
fine della sua avventura riesce a portare i
fratelli al sicuro, nella casa dei genitori,
avendo anche sconfitto l’orco cattivo e trovato
il denaro per superare la povertà.
In questa favola, la depressione appartiene
al mondo degli adulti e i bambini, sebbene
restino soli a dover affrontare situazioni
davvero spaventose, come la fame, il freddo,
la presenza di un orco, alla fine riescono a
sopravvivere. La metafora contenuta nel
racconto ci permette di dire che, quando la
reazione dei genitori è di tipo depressivo, si
genera nei figli una profonda angoscia a cui è
possibile reagire in modo ugualmente
depressivo (nella favola i fratelli piangono di
paura) oppure mettendo in atto meccanismi
di difesa utili a superare le difficoltà. La
sottigliezza della favola è che le soluzioni
trovate da Pollicino sono tanto semplici
quanto onnipotenti, capaci di risolvere i
problemi di tutti. I percorsi ricostruiti con i
sassolini o con le briciole di pane esprimono
il desiderio dei bambini di potersi
riavvicinare agli adulti dopo essersene, più o
meno volontariamente, allontanati, cioè di
avere la certezza di saper ritrovare sempre la
strada di casa.
Anche altri personaggi di fantasia, come i
Supereroi o i Transformers, possono essere
interpretati come l’espressione del pensiero
onnipotente dei bambini, che vogliono
credere che tutti i problemi possano essere
risolti, anche attraverso l’aiuto magico di un
protagonista dotato di poteri speciali. Il
mondo dei Supereroi esprime il bisogno di
fantasticare per individuare una via d’uscita,
per trovare una risoluzione grandiosa che
annulli la paura della sconfitta. Ma non si
tratta semplicemente di immaginare
soluzioni efficaci che permettano di sfuggire
e/o mistificare la realtà: i bambini, attraverso
questi racconti fantasiosi, esprimono il
bisogno vitale di credere alla possibilità di
contrastare, almeno dentro di sé, la paura
della sconfitta, dell’insicurezza e della
frustrazione; in altre parole, il rischio di
sperimentare sentimenti depressivi di perdita
e di abbandono.
L’angoscia principale nella depressione in
età evolutiva riporta, quindi, all’ansia di
separazione, al senso di colpa per essersi
allontanati, alla paura di perdere l’altro, alla
vergogna, alla frustrazione di fronte
all’insuccesso. Tutti i comportamenti che i
bambini mettono in atto, dall’inibizione e
chiusura verso le nuove esperienze,
all’aggressività, all’eccitazione, all’iperattività,
alle reazioni onnipotenti per negare e
contrastare le difficoltà, sono reazioni
difensive verso la paura del distacco e la
perdita dell’amore dell’altro.
Per concludere, le favole non sono un
inganno per i bambini, non sono un modo
per misconoscere i problemi e i pericoli della
realtà, o per far credere loro che è possibile,
sempre e subito, risolvere ogni cosa. Le
favole, piuttosto, raccontano desideri
meravigliosi e onnipotenti che i bambini
fantasticano per proteggersi da una
percezione troppo diretta e aspra, a volte
crudele, della realtà. Le favole svolgono il
compito di aiutare i bambini durante la
crescita; e poter fantasticare di soluzioni
magiche e straordinarie consente loro di
percepire i problemi della vita come più
tollerabili, «perché la delusione attuale è
mitigata da visioni di future di vittorie … la
capacità di concepire fantasie estese oltre il
presente è il nuovo progresso che rende
possibili tutti gli altri: infatti essa rende
tollerabili le frustrazioni esperimentate nella
realtà». 14
Scrive a questo proposito Susan Isaacs,
psicoterapeuta infantile: «… così il piccolo
continua ad amare le sue fiabe, e ad avere un
grande bisogno del loro snodarsi fantastico,
anche quando capisce la realtà effettiva delle
cose che lo circondano e che avvengono
intorno a lui». 15
I «Peanuts». Una lettura ironica della
depressione
Che la depressione sia uno dei temi più discussi e
affrontati in tutti i campi, sia scientifici sia
sociali, è testimoniato dalla lettura di qualsiasi
mensile o quotidiano. Anche i fumetti si occupano
spesso di rappresentare la depressione. Diverse
sono le vignette che i Peanuts dedicano all’essere
depressi. Charlie Brown, in particolare, descrive
la sua depressione «latente», in tanti modi.
In una delle sue più celebri vignette dice:
«Quando sei depresso, non vorresti far niente.
Tutto quello che vuoi fare è appoggiare la testa al
braccio… Se sei eccezionalmente depresso devi
perfino cambiare braccio». Tecnicamente, Charlie
Brown dovrebbe raccontare una depressione
infantile, ma quello che realmente fa è
rappresentare in modo ironico e autoironico la
condizione umana dell’essere depresso.
Quando Charles Schulz ha detto: «Se potessi
fare un regalo alla prossima generazione, darei a
ogni individuo la capacità di ridere di se stesso»,
probabilmente ignorava quanto i suoi fumetti
avrebbero contribuito a far sorridere chi
nascondeva la depressione e a far riflettere chi
non la conosceva. Da un certo punto di vista, si
può dire che i Peanuts abbiano avuto il merito di
«sdoganare» la depressione, rappresentandola in
modo semplice e delicato come una delle possibili
gradazioni dell’animo umano, a volte
un’inclinazione, un peso da tollerare con divertita
saggezza. Charlie Brown rappresenta la
depressione in modo realistico ma le dona una
logica comprensibile a tutti, arricchendola con
aspetti del vivere quotidiano nei quali è più facile
riconoscersi. La depressione è messa in scena da
un gruppo di bambini con cui è facile identificarsi,
perché se Charlie Brown non si sente amato e si
chiede il perché della sua esistenza, Linus dice che
«nessun problema è tanto grande o complicato che
non gli si possa sfuggire». Viene offerto al lettore
un aiuto che va oltre il fumetto, mettendosi in
sintonia con i bisogni umani più semplici, quelli
relazionali di condivisione, amore e
comprensione. Le voci di un gruppo di bambini
dipingono la sofferenza e il vivere depressivo in
modo tanto naturale che anche il lettore più
disincantato diventa partecipe, rispecchiandosi
nel bambino depresso, in quello indolente, nel
saputello o nell’alleato capace di offrire supporto
e protezione, di riparare o di provocare a seconda
delle situazioni.
È realistica persino la rappresentazione dei
sintomi: Charlie Brown è apatico, pessimista,
senza speranze e iniziative; perde sempre, perché
«se perde è disperato ma, se vince, si sente in
colpa». In alcuni momenti sembra bloccarsi,
rimanendo ancorato alle sue indecifrabili
incertezze e alle sue paure come quando dice:
«Anche le mie ansie, hanno l’ansia!». Ciò
nonostante, può esibire un ottimismo eroico,
ingenuo, un’ironia e una propensione per l’altro
che lo rendono impacciato, buffo ma soprattutto
trasparente e umano. Dopotutto ciò che conta è
tentare, verrebbe da dire, dimenticandosi
fallimenti e tormenti e puntando al rapporto
umano, al dialogo con un pubblico silenzioso che
inconsapevolmente viene guidato nel vissuto
della depressione e ne diventa parte.
VIII
Depressione e ciclo riproduttivo

Differenze di genere
Negli ultimi anni la rivista «Time» ha
dedicato copertine suggestive e provocatorie
alla salute mentale delle donne. «Come i
primi nove mesi della tua vita condizionano il
resto della tua vita» è la frase stampata sopra
la fotografia del corpo di una donna incinta,
per sottolineare come la salute della madre in
gravidanza sia determinante per la crescita
del figlio. La domanda «Quanto sei
mamma?», accanto alla fotografia di una
donna che allatta un bambino di quasi 8 anni,
vuole rappresentare il pericolo di un
attaccamento morboso che, a sua volta, evoca
il fantasma di una madre depressa e il
presagio di un figlio problematico.
L’intenzione dell’articolo è stimolare ogni
mamma a chiedersi che tipo di relazione ha
con il proprio figlio: se è una mamma con un
attaccamento morboso, come suggerisce
l’immagine della copertina, o se è una
mamma che riesce a separarsi dal figlio.
Sappiamo che una madre depressa potrà
avere un attaccamento eccessivo al figlio, per
ricostituire un «tutto» che pensa di aver
perduto, o, viceversa, potrà essere una madre
distaccata, con scarsissima affettività, una
madre lontana dai bisogni del figlio e
incapace di occuparsi amorevolmente di lui.
Diversi personaggi dello spettacolo, come
per esempio Gwyneth Paltrow e Angelina
Jolie, hanno parlato pubblicamente della loro
depressione perinatale e hanno prestato la
loro immagine per campagne di
sensibilizzazione negli US A e in Europa.
Durante una puntata dello show di Oprah
Winfrey, Brooke Shields ha raccontato di aver
sofferto di una grave depressione post
partum che l’avrebbe condotta sull’orlo del
suicidio. Nel 2005 ha scritto il libro E poi
venne la pioggia, in cui ha descritto la sua
tragica battaglia contro la depressione,
raccogliendo il consenso di milioni di donne
e uomini. 1
Negli ultimi anni, la comunità scientifica si
è impegnata sempre di più per far conoscere i
rischi della depressione di genere. La Task
Force on Women’s Reproductive Mental
Health nell’ottobre 2015 ha pubblicato un
editoriale sull’«American Journal of
Psychiatry» in cui è stata ribadita l’estrema
importanza delle ricerche scientifiche sulla
depressione femminile che hanno
documentato l’effetto negativo delle
fluttuazioni degli ormoni riproduttivi, in
grado di causare depressioni premestruali,
perinatali e perimenopausali. La depressione
perinatale, che colpisce mediamente il 15%
delle gestanti, è considerata la complicanza
più comune della gravidanza. 2
Le donne sono diverse dagli uomini in
termini biologici, comportamentali, sociali,
affettivi e cognitivi. Queste «differenze di
genere» si evidenziano molto presto durante
lo sviluppo e sono «evolutive», cioè si
modificano con lo scorrere della vita, delle
esperienze personali e delle relazioni con gli
altri (intersoggettività). Tali differenze
interessano sia lo sviluppo fisiologico del
cervello sia le sue disfunzioni patologiche. Si
può dire che le differenze di genere
interessino le più importanti malattie
mediche, come quelle cardiovascolari,
metaboliche e tumorali, con una spiccata
predilezione per le malattie psichiatriche, in
particolare la depressione.

La depressione è donna?
Gli studi di Ronald Kessler hanno messo in
rilievo che le differenze di genere
nell’incidenza della depressione cominciano
durante l’adolescenza e terminano nella
quinta decade di vita: una finestra temporale
che abbraccia l’intero ciclo riproduttivo
femminile, dal menarca alla menopausa. 3 Il
tasso di depressione nelle donne dopo la
pubertà è il doppio di quello degli uomini. Il
Sequenced Treatment Alternatives to Relieve
Depression (S TAR*D ), uno dei più importanti
studi sull’efficacia dei trattamenti
antidepressivi, ha mostrato che i pazienti
depressi di età compresa tra i 25 e i 35 anni
erano per il 66% donne e per il 34% uomini.
Secondo un altro studio di popolazione, lo
Study of Women’s Health Across the Nation
(S WAN), questa enorme differenza si riduce
dopo la menopausa. Pubertà, gravidanza e
menopausa rappresentano fasi critiche di
vulnerabilità, caratterizzate da veri e propri
sconvolgimenti ormonali capaci di mettere a
repentaglio la salute mentale della donna.
Le complesse interazioni tra gli ormoni
riproduttivi e le cellule cerebrali
dell’ippocampo, della corteccia e delle aree
associative principali rendono conto della
diversa maturazione neuronale di uomini e
donne e della maggiore incidenza di
depressione in momenti salienti del ciclo
vitale femminile. L’epoca del menarca è ormai
quasi invariabilmente anticipata rispetto alla
transizione di ruolo femminile, al
superamento della fase infantile e soprattutto
alla maturità psichica. I cambiamenti
ormonali e gli eventi legati ai cicli
riproduttivi, come il ciclo mestruale, i
contraccettivi ormonali, la fecondazione
assistita, la gravidanza, l’aborto, il parto,
l’allattamento, la menopausa e la terapia
ormonale sostitutiva possono facilitare la
comparsa di depressione, qualora
interagiscano con fragilità personali, latenti o
manifeste, o con eventi di vita stressanti o
traumatici.
La depressione femminile si presenta con
caratteristiche cliniche peculiari: apatia,
irritabilità e ipersensibilità al giudizio degli
altri. L’area neurovegetativa è colpita in modo
tipico; viene riferito un cambiamento delle
abitudini alimentari con aumento
dell’appetito, la spinta a consumare cibi
«consolatori» e ricchi di calorie, come dolci e
carboidrati, fino a veri e propri disturbi del
comportamento alimentare. Il desiderio
sessuale è inibito; comunemente, si
registrano fastidi e dolori «somatici»,
stanchezza cronica e mancanza di
concentrazione. Uno dei dati più
preoccupanti riguarda il rischio di suicidio: è
stato ampiamente dimostrato che le donne
commettono più tentativi di suicidio rispetto
agli uomini. Anche il decorso è diverso: la
depressione dura di più e guarisce di meno.
Secondo l’«ipotesi riproduttiva» della
depressione femminile, deve essere
chiaramente riconoscibile un collegamento
tra l’inizio dei sintomi depressivi e le
fluttuazioni ormonali dei cicli riproduttivi.
Questa coincidenza temporale dovrebbe
ripetersi in modo tipico nel ciclo vitale. Le
donne che sperimentano cambiamenti
significativi dell’umore prima dei cicli
mestruali o quando assumono contraccettivi
ormonali dovranno preoccuparsi di una
possibile futura depressione legata alle
gravidanze e alla menopausa. Solo di recente
le depressioni del ciclo vitale femminile sono
entrate nelle classificazioni «ufficiali» dei
disturbi mentali. Storicamente, il primo
accenno compare nel DS M -II , in cui si descrive
la «psicosi da parto»; fino al DS M -IV si parlava
di depressione perinatale solo quando
l’esordio avveniva dopo il parto, escludendo
di fatto tutto il periodo della gravidanza. Il
DS M -5 estende invece la specifica di esordio
della depressione perinatale anche ai nove
mesi della gravidanza, sostituendo il termine
post partum con quello di peripartum. Inoltre,
il disturbo disforico premestruale viene
inserito tra i disturbi psichiatrici, lasciando
fuori dalla classificazione la depressione della
transizione menopausale.
Considerando quindi le fasi riproduttive e
le età di sviluppo, la depressione nel ciclo
vitale femminile può manifestarsi come:
disturbo disforico premestruale, depressione
perinatale, depressione della perimenopausa.

QUEI GIORNI…
Il «disturbo disforico premestruale» è
caratterizzato da una modificazione
patologica del tono dell’umore che colpisce
una donna su dieci e i cui sintomi si
manifestano a cavallo dei cicli mestruali.
Tipicamente l’umore è irritabile (vedi
capitolo I) più che depresso. Gli altri sintomi
possono essere fisici (cefalea, dolore),
cognitivi (disattenzione), affettivi (tristezza,
rabbia, ansia) e comportamentali
(aggressività, eccessiva sensibilità
interpersonale) e si manifestano ciclicamente
in corrispondenza con la fase luteale del ciclo
mestruale, prima della mestruazione vera e
propria, risolvendosi rapidamente in
corrispondenza con la fase follicolare, pochi
giorni dopo la mestruazione. Il disturbo
disforico premestruale spesso si associa a un
disturbo del comportamento alimentare, per
esempio la bulimia nervosa.
L’esordio può avvenire in qualsiasi
momento dopo il menarca e ricomparire in
menopausa con la terapia ormonale
sostitutiva. Il termine «sindrome
premestruale» viene invece usato quando i
sintomi sono più lievi e non compromettono
la vita e il benessere soggettivo. Circa il 70-
90% delle donne in età fertile ha una
sindrome premestruale, mentre solo il 20-
40% considera i sintomi così fastidiosi da
interferire con il funzionamento quotidiano.

LA MATERNITÀ NON È SEMPRE UNO STATO


DI GRAZIA
La «depressione perinatale», che colpisce le
donne nel periodo della maternità, è stata per
decenni nascosta culturalmente, diventando
spesso un segreto familiare tramandato di
madre in figlia. Soffrire di depressione
durante la gravidanza veniva visto come una
colpa, una debolezza, un’incapacità a essere
madre, insomma qualcosa da nascondere.
Anche il bambino veniva ritenuto
«colpevole», infatti era spesso considerato
nervoso, insonne, malaticcio o piagnucoloso.
Oggi sappiamo che la depressione
perinatale è una forma ricorrente, insidiosa e
pericolosissima che colpisce in modo quasi
indiscriminato le madri di tutte le età, razze e
religioni, con ripercussioni sulla salute
mentale dei figli, anche a distanza di anni. Il
periodo perinatale, che comprende il
concepimento, la gravidanza, il puerperio e si
protrae fino a un anno dal parto, è una fase
cruciale per la vita della donna che, attraverso
una metamorfosi biologica, neuroendocrina,
psicologica, sociale e fisica, sarà condotta
verso un’esperienza unica e irreversibile: la
maternità.
Daniel Stern ha parlato di «costellazione
materna» per indicare il cambiamento della
vita psichica nelle rappresentazioni di sé
come figlia, donna, partner e ora madre,
intendendo un processo che si struttura
gradualmente nei nove mesi della gravidanza
grazie alla trasformazione corporea, alle
fantasie, ai desideri e ai sogni, e che si integra
con il vissuto della nascita e della crescita di
un figlio. 4 La futura madre vive
contemporaneamente emozioni legate alla
sua storia di figlia e costruisce attraverso la
relazione con il proprio bambino la sua
identità materna. Far crescere un bambino
all’interno del proprio corpo stimola la
ricerca di un nuovo equilibrio psico-fisico.
Grete Bibring ha individuato una «crisi
maturativa» costituita da due momenti
cruciali: la prima parte della gravidanza, in
cui l’embrione deve essere accettato come
«parte di sé», e la seconda fase, in cui è
necessario rappresentare e individuare il feto
come «altro da sé» e prepararsi alla
separazione che avverrà alla nascita. 5 Il
divenire madre è quindi un processo che si
definisce e si ridefinisce in più momenti e
contesti di vita, e non deve essere considerato
un meccanismo automatico.
La maternità è stata tradizionalmente
considerata come uno «stato di grazia», una
fase sacra, in cui la madre è immune,
protetta, inaccessibile al disturbo psichico. Le
ricerche moderne evidenziano invece che è
un momento di grande delicatezza e fragilità,
in cui «non bisogna abbassare la guardia»,
valutando attentamente i fattori di rischio per
la depressione. Secondo lo psicoanalista
Donald Winnicott, l’assetto psichico della
donna nel periparto, la cosiddetta
«preoccupazione materna primaria», è l’unica
malattia «normale». 6 In questa fase, che
inizia durante la gravidanza e si protrae sino
a poche settimane dopo il parto, la madre
sviluppa uno stato psichico di particolare
preoccupazione e sensibilità, che le
consentirà di sintonizzarsi precocemente con
i bisogni, anche inespressi, del neonato. In
una transizione di ruolo sana, dopo il parto,
la madre accetterà di essere
«sufficientemente buona» e di commettere
piccoli errori che il neonato potrà sopportare.
Spesso la depressione si sviluppa a partire
da strutture di personalità vulnerabili che
diventano disadattive per la transizione di
ruolo materno. Le personalità caratterizzate
da scarsa autonomia e autostima soffriranno
il peso emotivo insostenibile del giudicarsi
madri inadeguate e incapaci, con il rischio di
diventare depresse. Le madri più impulsive e
instabili affettivamente e a livello
interpersonale avranno difficoltà a
sintonizzarsi con i bisogni emotivi del figlio,
vissuto come un persecutore, oscillando fra
estremi di trascuratezza e abbandono, di
ostilità e maltrattamento.
La relazione madre-bambino (a metà
strada tra il bambino reale e quello
immaginario-rappresentato) è
profondamente influenzata dall’elaborazione
delle relazioni affettive primarie, cioè quelle
con i propri genitori, in particolare la madre.
Altri elementi di vulnerabilità, slatentizzati
durante la transizione materna, sono
rappresentati da esperienze di vita stressanti
o traumatiche, che possono ostacolare
l’organizzazione dell’identità materna,
favorendo lo sviluppo di depressione.
È facile intuire che la depressione
perinatale è caratterizzata da una
fenomenologia complessa e multiforme,
anche in termini di gravità del quadro clinico.
I sintomi non si differenziano da quelli della
depressione tipica: labilità emotiva,
fluttuazioni del tono dell’umore, difficoltà di
concentrazione, insonnia, alterazioni
dell’appetito, vissuti di inutilità, colpa,
inadeguatezza; la sfera del pensiero è
colorata da contenuti specifici riguardanti le
difficoltà a identificarsi nel ruolo di madre e a
interagire con il bambino, il timore di
perdere il controllo, la sensazione di
limitazione della propria libertà, sintomi
ossessivi riguardo la paura o l’impulso di fare
del male a se stessa o al neonato.
Il quadro clinico si può aggravare nei casi
di violenza domestica e di abuso di alcol e
sostanze, situazioni in cui si presenta anche
un aumento del rischio di suicidio. Il
resoconto del National Violence Against Women
Survey (NVAWS , 2000) e la più recente
inchiesta condotta in Gran Bretagna
confermano che la violenza domestica
(Intimate Partner Violence, IPV ), violenza fisica,
sessuale o psicologica perpetrata da parte del
partner, rappresenta la prima forma di
violenza contro le donne. Secondo
l’Organizzazione mondiale della sanità, nel
2013 dal 13 al 61% delle donne, fra 15 e 49
anni, ha subìto una violenza fisica dal partner
almeno una volta nella vita; tra il 6 e il 59%
riferisce un abuso o un tentativo di abuso
sessuale da parte del partner; tra l’1 e il 28%,
un abuso sessuale da parte del partner
durante la gravidanza. La violenza fisica in
gravidanza spesso consiste in aggressioni
dirette verso la pancia della madre, con
intenzioni lesive specifiche. 7
Nonostante l’entità e l’impatto della
depressione perinatale sulla donna, sui figli,
sulla famiglia e sulla maternità, si calcola che
in circa la metà dei casi il disturbo venga
misconosciuto o non trattato. Questo aspetto
così preoccupante è il risultato da un lato
della tendenza delle donne a minimizzare o
tacere la malattia per senso di colpa,
ignoranza o vergogna, dall’altro,
dell’inadeguatezza dei programmi di
screening, che si traduce in un ritardo
nell’attivazione delle cure. Le ultime linee
guida del National Centre for Health and
Clinical Excellence (NICE, 2015)
raccomandano, infatti, di effettuare uno
screening per la depressione perinatale in
gravidanza e di ripeterlo 4-6 settimane e 3-4
mesi dopo il parto.
Oltre alla depressione perinatale, nei
primissimi giorni dopo il parto le puerpere
possono avere sintomi «eccitativi», non meno
allarmanti da un punto di vista clinico.
L’euforia, l’iperaffaccendamento, l’estrema
loquacità, l’accelerazione del pensiero, il
diminuito bisogno di sonno, la distraibilità e
l’irritabilità nelle neomadri possono essere
confuse con la normale felicità che
accompagna la nascita di un figlio. Il dormire
di meno può essere scambiato per un
cambiamento normale conseguente ai nuovi
ritmi imposti dal bambino. Non è difficile
immaginare come questi sintomi possano
inizialmente sembrare un vantaggio per la
nuova madre. La dimensione «eccitativa»,
tuttavia, non va sottovalutata perché può
evolvere in un disturbo ancora più grave
come la psicosi post partum.
«Mi dava fastidio sentirlo muovere»
Alessia rimane incinta per la seconda volta a 35
anni. È al quinto mese di gravidanza, si sveglia
piangendo ogni mattina e durante tutta la
giornata vive un’angoscia continua. Ha paura che
possa accadere qualcosa di tremendo, spesso le
sembra che le manchi l’aria e di non riuscire a
respirare, ha la fortissima sensazione di essere in
trappola. Quando ha scoperto di essere incinta «le
è crollato il mondo addosso» e il suo primo
pensiero è stato quello di non voler portare avanti
la gravidanza. La psicologa le ha detto di cercare
uno psichiatra, «la psicoterapia non basta più»,
lei si è sentita persa, come se da sola non potesse
più andare avanti. Ha pensato che ormai fosse
tutto finito.
Alessia sembra una bambina, la voce è dolce,
lo sguardo è smarrito. È magrissima e non
sembra nemmeno incinta, mentre parla non si
tocca mai la pancia: «Sono angosciata, non riesco
a provare emozioni, mi sento vuota, come se lui
mi svuotasse, sono una bambina cattiva, una
madre cattiva; provo solo rabbia, rabbia che non
posso esprimere; urlerei se qualcuno mi sentisse.
Ho paura di fargli del male, lo amo e lo odio; mi
hanno abbandonato tutti, mi sento tradita, sola.
Il bambino non lo voglio, non lo sento mio. Non
sono riuscita a stabilire un contatto con lui.
Incolpo me stessa, per essere stata irresponsabile
e disattenta. Do la colpa anche a mio marito,
come se quello che mi è successo dipendesse da lui.
Do la colpa alla mia famiglia perché, quando
volevo abortire, mi hanno detto che era una fase e
che sarebbe passata. Ma non è passata. Il
bambino non lo sento mio, mi dà fastidio sentirlo
muovere nella pancia. Non riesco neanche a
toccare la pancia o farmela toccare, cerco di
nasconderla, non voglio che gli altri la vedano.
Ho il terrore dei mesi futuri quando la pancia si
vedrà ancora di più, e ci saranno altri
cambiamenti nel mio corpo. Non posso pensare a
quando dovrò partorire. Mi viene da piangere in
continuazione, non ce la faccio più. A volte vorrei
solo non risvegliarmi più. Il momento peggiore è
la mattina, quando mi sveglio e penso che dovrò
affrontare ancora un altro giorno in queste
condizioni, anzi, che sarà sempre peggio…».
Alessia è sposata, ha una bambina di 3 anni,
lavora tutto il giorno in un ufficio e non ha amici.
Sua madre, 65 anni, è un’insegnante in pensione
e un anno fa le è stato diagnosticato un carcinoma
all’utero. «Quando l’ho saputo sono impazzita,
mi tremavano le gambe e non riuscivo più a
pensare ad altro… Era come se dovessi morire
io.»
Il padre, 78 anni, è sempre stato severo. «Con
lui non ho mai parlato, è come se tra di noi ci
fosse sempre stato un muro.» Ultimamente sta
male, è aggressivo, tocca appena il cibo perché dice
che è avvelenato. Sta facendo accertamenti
neurologici, ma Alessia crede che non
«porteranno a nulla di buono».
Ha una sorella più grande, sposata e con figli,
che vive all’estero e vede di rado e un fratello più
piccolo di tre anni, morto suicida dieci anni fa,
considerato il genio della famiglia.
Alessia si descrive come una persona timida,
schiva e poco propensa ad affrontare situazioni
nuove per paura di essere giudicata. Ha trascorso
un’infanzia poco serena; era presa in giro dai
compagni di classe, i genitori litigavano spesso in
modo violento e il clima familiare non era mai
tranquillo. La madre di Alessia la criticava per il
suo aspetto fisico. Non le faceva mai un
complimento e rimarcava tutti i suoi difetti,
definendola continuamente «poco femminile». Ha
fatto ginnastica ritmica in modo agonistico fino ai
15 anni, affrontando le gare con grande disagio:
«Mi dava fastidio indossare il body senza calze ed
essere al centro dell’attenzione».
A 18 anni Alessia si trasferisce a Roma per
studiare psicologia. Dopo tre anni la segue il
fratello che studia matematica. Quando lui
muore è sconvolta, non riesce a parlare con
nessuno per mesi, si sente in colpa. I genitori la
criticano perché non riprende la vita di prima; lei
lascia l’università. Dopo un paio d’anni inizia a
lavorare come segretaria in un ufficio, dove
conosce il futuro marito, e con lui inizia la sua
prima storia sentimentale.
All’età di 27 anni ha il primo attacco di
panico, improvvisamente, a casa dei futuri
suoceri, in occasione di uno dei primi incontri tra
la famiglia del compagno e la sua: «Mentre gli
altri parlavano, di colpo mi è arrivato il cuore in
gola, le gambe erano bloccate e avevo il terrore di
svenire e che gli altri si accorgessero che stavo
male; con una scusa sono corsa in camera e mi
sono sdraiata sul letto, non so cosa avranno
pensato e cosa avrà detto mia madre». Inizia un
percorso psicoterapeutico che la aiuta a gestire le
crisi di panico e a sentirsi un po’ più sicura con
gli altri.
Quattro anni dopo, si sposa e resta subito
incinta. La prima gravidanza è vissuta con la
preoccupazione di non essere all’altezza; si sente
ancora troppo vincolata al ruolo di figlia ed è
spaventata dal confronto con la madre da cui si è
sentita trascurata. Ricorda di aver iniziato a
vomitare dopo il parto, per alleviare la tensione,
dimagrendo sempre di più fino alla scomparsa del
ciclo mestruale.
Quattro mesi fa, quando scopre di essere
nuovamente incinta rimane sconvolta: aveva
pensato che non sarebbe più accaduto. Sente di
non avere via d’uscita, piange spesso, è sempre
stanca, la notte ha incubi. Cerca la comprensione
del marito che, invece, è entusiasta di avere un
altro figlio; non capisce il suo dramma e la
convince a non abortire. Riversa in modo morboso
il suo bisogno di affetto sulla figlia; la stringe, la
coccola, dorme con lei. Quando scopre che avrà un
maschio, la situazione precipita. Il senso di colpa
verso la figlia le fa credere che il loro rapporto sia
rovinato per sempre, si sente in pericolo come se il
bambino, nascendo, potesse ucciderle entrambe:
«Mia figlia non avrà più le attenzioni di prima,
dovrà dividere spazi e genitori con quest’altra
persona… Lo odio, a volte penso che lui è il
demonio». Vive questa gravidanza come una
disgrazia e accusa la psicologa di non averla
sostenuta nella decisione di abortire. Immagina
che il figlio nasca morto, e d’impulso prenderebbe
un coltello per colpirsi la pancia. Sembra
spaventata, ma al tempo stesso distaccata da ciò
che sta vivendo.
Con il sostegno dei familiari, comincia un
percorso psicoterapeutico, al quale inizialmente
partecipa anche il marito. La terapia si è
focalizzata sulla depressione perinatale e sul
ruolo di madre ma, andando avanti, Alessia ha
dovuto affrontare il senso di inadeguatezza che
sembra accompagnarla da sempre. Nella
relazione terapeutica, la svalutazione di se stessa
si è spesso sovrapposta alla svalutazione del
lavoro clinico. Alessia ha pensato che non servisse
a niente e ha avuto la tentazione di interrompere
tutto. La svolta si è verificata nel momento in cui
ha percepito di avere fiducia nel terapeuta, cosa
che le ha permesso di avere fiducia anche in se
stessa. Il percorso terapeutico è stato difficile, ci
sono stati molti momenti di crisi e per un periodo
Alessia ha preso dei farmaci perché l’angoscia e
la depressione erano troppo intense. Il percorso
terapeutico ha avuto successo. La terapia
integrata, psicoterapia e farmaci, è durata un
paio d’anni, alla fine dei quali Alessia è
finalmente uscita dalla depressione, felice di
avere due splendidi bambini e di giocare con loro
assieme al marito.
QUANDO LE COSE NON FINISCONO BENE
Una trattazione a parte meritano l’aborto
spontaneo e la morte intrauterina,
complicanze della gravidanza in grado di
causare alle donne un notevole grado di
sofferenza psichica e di depressione. Come
nelle altre esperienze di perdita, la reazione
somiglia a quella del lutto per la perdita di
una persona amata. L’indomani dell’aborto è
un momento esistenziale unico: non esistono
memorie tangibili del figlio perduto, spesso
raffigurato e ricordato solo secondo le
aspettative ideali e i sogni materni.
Generalmente, il comportamento della madre
ricorda il lutto non complicato: un periodo
iniziale di shock e incredulità, seguito da
sentimenti di tristezza, colpa, vergogna,
disperazione e impotenza. Il tutto si risolve
gradualmente nel giro di sei mesi. In alcuni
casi, invece, i sintomi persistono più a lungo,
ricalcando completamente lo schema del
lutto complicato che, a poco a poco, può
diventare una vera e propria depressione o
un disturbo da stress post-traumatico e
facilitare l’abuso di alcol o di sostanze nel
tentativo di dimenticare.
Per quanto riguarda l’interruzione
volontaria di gravidanza, sappiamo che
l’Italia ha un tasso di abortività tra i più bassi
nei paesi industrializzati, anche se la
crescente presenza di donne straniere ha
fatto registrare recentemente un leggero
aumento. In ogni caso, l’interruzione di
gravidanza è quasi sempre un grande fattore
di rischio per la salute psichica della donna.

IL NIDO VUOTO
Uno dei falsi miti sulla depressione è che le
donne in menopausa normalmente siano un
po’ depresse. La depressione in questa
delicata fase del ciclo vitale femminile non
dovrebbe mai essere vista come un fenomeno
normale, ma ricevere la giusta attenzione. La
depressione della transizione
perimenopausale si presenta in un arco
temporale che va tra i 45 e i 54 anni e che
comprende: il periodo della premenopausa,
con i primi cambiamenti ormonali e i sintomi
fisici che anticipano la menopausa; la
menopausa, che corrisponde al termine dei
cicli mestruali e della fertilità, e la post
menopausa, fino a un anno dalla fine dei cicli
mestruali. Durante la perimenopausa, che
può durare da pochi mesi a due o tre anni, la
prevalenza di depressione oscilla tra il 15 e il
24%, con un rischio aumentato sia di episodi
depressivi de novo sia di ricorrenze
depressive. Le donne sono più a rischio
quando hanno già sofferto di depressione,
oppure quando hanno avuto altri tipi di
depressioni femminili, come la disforia
premestruale e la depressione perinatale.
L’esordio dei sintomi, in genere, avviene nel
periodo di maggiore vulnerabilità, la
premenopausa, quando cominciano i
cambiamenti ormonali. Sintomi «minori»
come insonnia e vampate di calore sono
molto comuni e, se isolati, poco preoccupanti.
In alcune donne, i sintomi aumentano o
diventano più gravi, fino a una vera e propria
depressione. Oltre ai disturbi del sonno e ai
sintomi vasomotori, compaiono palpitazioni,
cefalea, infezioni o dolori vaginali,
stanchezza, labilità emotiva, ansia, irritabilità,
tristezza e ridotta capacità di concentrazione.
I cambiamenti ormonali, la riduzione degli
estrogeni e l’aumento del testosterone
causano le vampate di calore, la sudorazione
notturna e la secchezza vaginale, che possono
essere fonte di grande disagio psichico e
relazionale per la donna. In particolare, i
sintomi vasomotori notturni disturbano il
sonno, il calo del desiderio sessuale e la
dispareunia possono avere effetti negativi
sulla sessualità, influenzando l’intimità
coniugale.
La perimenopausa, come la pubertà e il
periparto, è una fase di cambiamenti cruciali
nella vita della donna, fisici, psichici ma
soprattutto sociali. In quest’età della vita
sono più frequenti le esperienze di perdita
come i lutti o l’indipendenza dei figli, e
spesso la donna conclude definitivamente
capitoli fondamentali della sua esistenza,
come la vita lavorativa.
Il campanello d’allarme può essere la
cosiddetta «sindrome del nido vuoto», uno
stato di disagio psichico che può colpire la
madre quando tutti i figli lasciano la casa
genitoriale, facendola sentire abbandonata e
inutile. Un aspetto importante e delicato si
evidenzia nella crisi dell’appeal femminile,
nel sentirsi meno attraente, meno donna
rispetto al passato, con un corpo modificato
dalla menopausa. Il confronto con le donne
più giovani può essere difficile, non
riuscendo più a identificarsi in determinati
attributi e stereotipi. Un altro rischio è legato
alla percezione della fine della capacità
riproduttiva che, specialmente quando non è
stato realizzato il desiderio di maternità, può
associarsi a diminuzione dell’autostima e a
una visione pessimistica del futuro. Alcuni
eventi di vita non sono legati alla menopausa
di per sé ma si manifestano con maggior
frequenza in questa età: l’invecchiamento dei
genitori, vedere persone care ammalarsi,
soffrire di disturbi fisici sono tutte situazioni
che possono agire da fattori scatenanti.
È interessante ricordare che la menopausa
non è un’esperienza vissuta allo stesso modo
da tutte le donne. L’ambiente sociale e il
contesto culturale hanno un ruolo
determinante nel modularne gli effetti. Nelle
tribù africane Bantu o nella casta induista
Rajput, le donne in menopausa godono di un
grande rispetto, ricoprono ruoli sociali più
elevati e raramente si ammalano di
depressione.
Nel mondo occidentale non è codificato
nessun modello sociale per affrontare questo
cambiamento e ciò rende ancor più difficile
per la donna adattarsi alla nuova condizione.
Alcune volte, un aumentato senso di
solitudine unito alla percezione di un grande
disagio psico-fisico può indurre l’insorgenza
della depressione, ma soprattutto può
portare a compiere scelte drastiche, come
quella di rivolgersi alla chirurgia estetica per
cercare di ritardare gli effetti del passare
degli anni.
Sono stati ipotizzati tre modelli causali per
spiegare l’insorgenza di depressione durante
la perimenopausa. Il primo è legato alla
riduzione degli estrogeni che, agendo a vari
livelli (sistema serotoninergico,
dopaminergico, endorfine), faciliterebbe la
comparsa della depressione. Anche nel
secondo modello, detto dell’«effetto
domino», si considera la diminuzione degli
estrogeni: questi, però, non agirebbero
direttamente sui sistemi neurobiologici, ma,
causando sintomi fisici insopportabili per la
donna (vampate, insonnia, difficoltà di
concentrazione), la farebbero sentire inerme,
precipitandola in una spirale depressiva. Le
teorie della vulnerabilità ormonale delle
donne alla depressione, anche se confermate
dalle evidenze scientifiche, non sembrano
tuttavia sufficienti a spiegare il fenomeno
della depressione perimenopausale. Pertanto,
il modello esplicativo più complesso, di tipo
bio-psico-sociale, sembra essere il più
attendibile. 8 Le influenze reciproche tra la
vulnerabilità ormonale, le risorse personali di
adattamento e il supporto sociale, la
percezione di benessere soggettivo e gli
stimoli o gli stressor ambientali agiscono in
sinergia a scapito della donna, spesso
catapultata in una realtà nuova, diversa e
inaspettata.
A livello terapeutico, questo tipo di
depressione è l’unica per la quale, sin dagli
anni Settanta, è stata documentata l’efficacia
della terapia ormonale a base di estrogeni o
di combinazioni estro-progestiniche. Tuttavia,
la complessità del vissuto della donna
durante la perimenopausa rende conto del
perché la terapia ormonale sembra essere
d’aiuto soltanto nei casi di sintomi depressivi
più lievi, risultando invece ben poco efficace
nei quadri clinici più severi o quando c’è una
storia di depressione di lunga data. In molti
casi è opportuno iniziare una terapia con
antidepressivi, eventualmente unita a un
percorso psicoterapeutico. I tipi di
psicoterapia più indicati sono la terapia
interpersonale, che focalizza l’attenzione sul
ruolo del contesto interpersonale nella
depressione, la terapia cognitivo-
comportamentale, mirata a individuare e
modificare i pensieri, le emozioni e i
comportamenti depressivi e infine, la terapia
psicodinamica, che permette di esplorare le
emozioni e i sentimenti vissuti in questa fase,
elaborando all’interno della storia personale
le criticità emotive attraversate. La
psicoterapia funziona in modo più graduale
rispetto ai farmaci antidepressivi, ma riesce a
inquadrare il vissuto depressivo della donna
nei suoi aspetti salienti, rispondendo in
modo più completo ai suoi bisogni di
guarigione.
Uomini e padri
L’idea che la gravidanza e il parto siano una
questione esclusivamente femminile ha fatto
sì che pochissime ricerche si siano occupate
della salute psichica paterna. Probabilmente
questo è avvenuto a causa dell’atteggiamento
culturale che da sempre vede nella donna
debolezze e carenze. I dati scientifici ci
dicono invece che più del 10% dei padri soffre
di depressione perinatale, un disturbo che
può presentarsi anche indipendentemente
dalla depressione materna. Il momento più
rischioso è tra il terzo e il sesto mese dopo il
parto, quando la madre torna al lavoro. 9 La
giovane età, la disoccupazione, i problemi
coniugali, sono tutti fattori di rischio
accertati. Un ulteriore elemento di
complessità è rappresentato dalla particolare
relazione padre-bambino, che nei primi mesi
dopo la nascita può essere più difficile e
meno intensa rispetto a quella madre-
bambino: un esempio classico è il bambino
che continua a piangere quando viene preso
in braccio dal padre, innescando sentimenti
di rabbia e rifiuto che predispongono alla
depressione paterna.
La depressione può avere un effetto
dannoso sul benessere soggettivo del padre,
sulla relazione di coppia e sullo sviluppo
psichico del bambino, con un aumento del
rischio di disturbi comportamentali (disturbo
oppositivo-aggressivo), affettivi (ansia e
depressione), cognitivi (disturbo da deficit di
attenzione e iperattività, ritardo
nell’apprendimento del linguaggio e nella
lettura). Il benessere psicologico dei padri è
determinante per la crescita emotiva dei figli
soprattutto se concomitante alla depressione
della madre. I motivi della depressione nei
padri sono diversi e riguardano la storia
personale e il cambiamento esistenziale
determinato dalla nascita del figlio. In ogni
caso si deve affrontare una modificazione
esistenziale, in cui si ha il passaggio da una
relazione duale alla presenza del figlio, che
modifica le geometrie della coppia o della
famiglia.
È necessario studiare di più il fenomeno
della depressione paterna, per poterla
prevenire a tutela della famiglia e della
crescita dei figli.

«Sono stato un illuso a pensare di essere


un buon padre»
«Io e mia moglie eravamo così felici di avere un
figlio… Le nostre famiglie e gli amici non
smettevano di congratularsi con noi e ci
riempivano di regali. Ero emozionato e
orgoglioso.» Con queste parole, Carlo, un
imprenditore di 40 anni, inizia il racconto della
sua depressione perinatale.
«Mi dicevano frasi del tipo: “Le bambine sono
innamorate del papà, lei sarà al centro della tua
vita, non avrai più voglia di uscire, di giocare a
calcetto e di vedere gli amici… vorrai solo stare
con lei…”.
«Tra le tante parole di incoraggiamento solo
mia madre aveva provato a metterci in guardia:
“Dormite adesso più che potete perché dopo non
avrete più tempo… È duro diventare genitori…
Niente sarà più come prima”. Solo lei mi era
sembrata preoccupata, ma era stata
immediatamente rimproverata da mio padre che
le aveva detto di andarci piano. Parlando di mia
moglie dicevano: “Elena è splendida, luminosa;
la gravidanza l’ha resa ancora più bella, si vede
che è felice”.
«Anche se qualcuno mi avesse avvisato, mi
avesse sbattuto in faccia altre storie, altre brutte
esperienze, non gli avrei dato importanza. Sono
stato un presuntuoso, uno sciocco presuntuoso.
“Gli altri avranno sbagliato qualcosa” mi dicevo.
“Io no, io saprò quello che devo fare.” Mi sono
preparato a diventare padre come ho sempre fatto
quando stava per partire un nuovo progetto di
lavoro. Ho letto i libri sulla paternità, mi sono
aggiornato sulle ultime scoperte della
puericultura, ho accompagnato mia moglie a
tutte le visite mediche e mi sono emozionato
vedendo le ecografie. Sapevo quanto fosse
importante per un bambino avere un padre
presente e premuroso.
«Incarnavo la nuova generazione di padri che
vogliono partecipare alla crescita dei figli. Con
spavalderia aspettavo la nascita di mia figlia, mi
sentivo forte, capace, informato, sensibile e pieno
di risorse. Io sarò un padre generoso, sarò un
padre presente.
«Finalmente è nata. Già dai primi momenti di
vita della mia Caterina, ho subito sentito che non
avevo mai capito niente.
«Dopo la nascita della bambina non riuscivo
nemmeno a leggere il giornale, a fare una
telefonata; quello che mi faceva impazzire era il
fatto che non avevo più la mia privacy. La casa
era invasa di persone, babysitter, pediatri,
parenti, nonni… e poi? Andavano via tutti sul
più bello. Mia moglie era sempre nervosa, mi
trattava come un bambino. Solo lei sapeva cosa
provasse Caterina, io non capivo niente, io ero un
buono a nulla. Se stavo con la bambina mi
controllava, mi sgridava, c’era sempre qualcosa
che non avevo fatto alla perfezione. Eravamo
sull’orlo di una crisi di coppia.
«I primi mesi dopo la nascita di mia figlia mi
hanno distrutto: ero solo, esausto, mi sentivo
indifeso e in trappola. Caterina non dormiva la
notte e io ero ormai uno zombie. Alcune volte
continuava a piangere, qualsiasi cosa io facessi; e
più lei piangeva, più io mi sentivo perso.
«Mi sono chiesto spesso come facesse il mondo
a essere così popolato e come una coppia potesse
decidere di avere più di un figlio! Ci sono stati
anche momenti in cui mi sono sentito più sicuro e
grato di essere un padre, ma l’idea prevalente è
che ero stato un illuso a pensare di essere un buon
padre.
«Diventare genitori può sembrare un’impresa
impossibile: medicine, vaccini, vitamine,
pannolini, creme, esperti che dispensano consigli
sull’alimentazione e sulle ninne nanne… Molte
volte vorresti scappare, vorresti poter tornare
indietro.
«Dopo una giornata durissima ho chiamato un
mio amico e gli ho detto: “Odio mia figlia”.
Perdonami Caterina, perdonami Elena, perdono
amori miei! Non sono contento come dovrebbe
essere un padre… Mi vergogno. Comunque, ho
capito che stavo andando in pezzi e per la prima
volta ho pensato che avevo bisogno di un aiuto.
«Ho seguito una psicoterapia di gruppo nella
quale ho tirato fuori tutta la rabbia, la
frustrazione, la delusione e ho superato la
vergogna di non essere stato all’altezza delle mie
aspettative. Mi sono confrontato, e ho condiviso
la mia storia con quella degli altri padri. Ho
iniziato a essere più indulgente con me stesso, a
imparare e ascoltare gli altri senza cercare di
tenere tutto sotto controllo. Piano piano non ero
più solo, mi sono sentito compreso,
incoraggiato… Stavo meglio.»
IX
La depressione in età adulta

L’età di mezzo
Crisi di transizione o depressione? È una
domanda che, a partire dagli anni Ottanta, ci
si è posti sempre più spesso perché,
nonostante le condizioni di vita siano andate
nettamente migliorando, sempre più persone
ne soffrono e, tra queste, anche molti
personaggi di successo. Qualche anno fa la
giornalista Margaret Drabble ha scritto sul
quotidiano «The Guardian»: «La depressione
è la notizia di questi giorni. Amiamo leggere
e scrivere di depressione». 1 L’articolo traeva
spunto dalla confessione – outing, per usare
un termine di moda – di soffrirne, o di averne
sofferto, fatta da diverse personalità della
cultura britannica, tra cui Alastair Campbell,
Stephen Fry, Lewis Wolpert e la scrittrice
Marian Keyes. Quest’ultima aveva scritto sul
proprio sito di non riuscire più a mangiare, a
dormire, a scrivere, a leggere o a parlare con
le altre persone a causa del proprio stato
depressivo, suscitando molto scalpore e
un’ondata di commenti favorevoli: finalmente
si parlava pubblicamente, senza vergogna, di
questo disturbo. Il clamore suscitato aveva
indotto la Drabble a domandarsi se la
depressione fosse ancora un tabù, qualcosa di
non menzionabile o, invece, stesse
diventando un motivo di distinzione o
addirittura un fatto di moda. L’articolo ebbe il
merito di dare il via al dibattito sulla
«depressione di mezza età».
La depressione nell’età di mezzo ha
un’incidenza minore, anche se,
generalmente, è più grave. L’impatto sociale è
maggiore in termini relazionali (rischio di
essere lasciati dal partner) e lavorativi
(perdita del posto di lavoro). Importanti sono
anche le conseguenze sullo stile di vita e sulle
malattie mediche che possono comparire in
questa fascia d’età. I dati sul suicidio sono
particolarmente preoccupanti; in Gran
Bretagna, oltre un terzo dei morti per suicidio
nel 2013 era costituito da uomini di mezza
età.
Tornando alla domanda di partenza –
depressione o crisi di transizione –, proviamo
a dare una risposta con un esempio tratto dal
cinema: American Beauty, di Sam Mendes,
interpretato magistralmente da Kevin Spacey.
All’inizio, può sembrare la storia felice di una
tipica famiglia statunitense, ma basta poco
per capire che le cose non sono piacevoli e
armoniose come sembrano. Il film tratta,
portando provocatoriamente i toni
all’eccesso, della frustrazione di un
quarantaduenne che vede calare l’attrazione
sessuale per la moglie e comincia a guardare
con un interesse «diverso» le compagne di
scuola della figlia. Ma non è solo questo.
Kevin Spacey, frustrato pubblicitario, è
stanco, sull’orlo di un esaurimento. Stanco di
abitare nella tipica casa americana, stanco
della routine lavorativa, stanco della moglie
insoddisfatta e del rapporto di coppia: «Il
nostro matrimonio è solo una farsa, uno spot
su quanto siamo normali quando in realtà
siamo tutt’altro». Cerca allora di cambiare la
sua vita, abbandona il lavoro, compra l’auto
dei suoi sogni giovanili, fa palestra per
tornare a essere attraente, fuma marijuana
con il giovane figlio dei vicini di casa. «Mia
moglie e mia figlia mi vedono come un
colossale perdente… e hanno ragione! Ho
perso davvero qualcosa. Non sono del tutto
sicuro di cosa si tratta, ma… so che non mi
sono sempre sentito così “posato”. Però,
volete saperlo?!, non è mai troppo tardi per
tornare indietro.» Nell’istante in cui viene
colpito alla testa da un proiettile esploso dal
vicino di casa, paranoico e ossessionato da
timori omofobici, Kevin Spacey recupera
parte della propria esistenza e del senso della
vita, smarrito di fronte alle frustrazioni della
classe media e alle aspirazioni giovanilistiche,
arrivando a concludere che «è difficile restare
arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel
mondo».
Nel film, vincitore di 5 premi Oscar, si
possono individuare alcuni elementi che
rappresentano i tipici segnali di una crisi di
transizione dell’età di mezzo: il desiderio di
cambiare lavoro o dare una svolta alla propria
carriera; la tendenza a esplorare nuove
esperienze religiose o spirituali; il desiderio
di essere in forma fisicamente; la ricerca di
nuove forme di espressione creativa, come la
musica, la scrittura, l’arte; la frustrazione per
la propria vita relazionale vissuta come un
fallimento; l’acquisto di cose che possano
dare benessere (nuovi vestiti o una nuova
macchina). Questi elementi costituiscono
talvolta i segnali prodromici di un possibile
cambiamento dell’umore.
Una «crisi di transizione», se può essere un
segnale esistenziale da non trascurare, non va
confusa con lo sviluppo di una depressione
vera e propria. Com’è una depressione
nell’età di mezzo? Oltre alla tristezza, quali
sono gli altri elementi caratteristici?
Proviamo a elencarli: modificazioni radicali
nelle abitudini alimentari; sensazione di
essere sempre stanchi o esausti; difficoltà a
dormire; sentimenti di colpa o perdita di
fiducia nel futuro; irritabilità; voglia di
fuggire dalle proprie responsabilità; tendenze
compulsive all’alcol o alle sostanze; perdita
del desiderio e dell’ambizione.

I FATTORI DI RISCHIO
La depressione nell’età di mezzo è legata a
modificazioni nello stile di vita, per esempio
cambiamenti lavorativi, pensionamento,
trasformazioni dell’assetto familiare, e alla
presenza di comorbilità di carattere medico,
che entrano in una relazione bidirezionale
con lo sviluppo di sintomi depressivi: la
depressione influenza l’andamento di una
patologia medica e a sua volta questa
peggiora il quadro depressivo. Più avanti
spiegheremo come è possibile questo
interscambio.
Il genere, maschile o femminile, esercita
un ruolo chiave in quanto esistono fattori di
rischio di natura medica diversi nell’uomo
rispetto alla donna. Negli uomini di mezza
età i sintomi depressivi si associano al
sovrappeso, al diabete e all’insulino-
resistenza. Questi, a loro volta, rappresentano
dei fattori di rischio per lo sviluppo di
disturbi affettivi. La depressione influisce
sugli stili di vita, comportando ridotta attività
fisica, iperfagia, insonnia e incremento
dell’abitudine al fumo, con alterazioni di tipo
metabolico. Il diabete e l’insulino-resistenza
incrementano il rischio di depressione,
favorendo la formazione di lesioni
microvascolari di tipo aterosclerotico, con
rischio di danno cerebrale. Tali alterazioni
non solo predispongono alla depressione, ma
peggiorano l’outcome e la risposta ai
trattamenti farmacologici. È questo un
concetto importante, che spiega come mai
alcuni interventi farmacologici siano risultati
parziali.
Nella popolazione femminile, uno dei
fattori di maggiore impatto sullo sviluppo di
sintomi depressivi è legato alla menopausa,
di cui abbiamo parlato precedentemente.

«Sono sceso dal treno della vita»


Quando si rivolge allo psichiatra, Giorgio,
professore di filosofia in pensione, decide di farsi
accompagnare dalla sorella, che dopo tante
insistenze era riuscita a convincerlo ad andarci.
Giorgio pativa la stessa intensa sofferenza
psichica e morale, vissuta tanti anni prima in
occasione della scomparsa della madre
ottantenne, quando aveva provato un «dolore
psicologico» che andava «ben oltre quanto avrei
mai potuto immaginare». «In quei mesi,
ascoltavo spesso una famosa canzone della mia
giovinezza, Wish You Were Here (Vorrei che tu
fossi qui) dei Pink Floyd.» La perdita della
madre, che negli anni precedenti aveva cercato di
colmare il vuoto affettivo lasciato precocemente
dal padre, per far sì che a lui e alla sorella
Beatrice «non mancasse nulla», aveva
determinato in Giorgio una condizione di «deserto
affettivo», di solitudine esistenziale che nessuna
avventura sentimentale era riuscita neanche in
parte a compensare. A Giorgio le donne non erano
mai mancate, ma la sua allergia alla vita di
coppia aveva impedito la costruzione di legami
solidi: le donne si alternavano senza che nessuna
di esse occupasse un posto stabile all’interno
della sua vita. Dopo la morte della madre, era
rimasta solo la sorella a interessarsi a lui e ad
aiutarlo per i suoi primi «acciacchi fisici».
Raggiunta l’età di 63 anni, Giorgio decide di
ritirarsi dal mondo del lavoro, acquista una casa
in un piccolo paese umbro dove dedicarsi alla sua
grande passione: la campagna. Lasciare il caos
della grande città e sentirsi libero di occupare il
tempo leggendo, scrivendo poesie e interessandosi
alla coltivazione del frutteto era sempre stato il
suo sogno. All’inizio, Giorgio sente di essere
riuscito a realizzare quella condizione di «buen
retiro», quello stato di benessere epicureo, di
serenità d’animo, che da buon insegnante di
filosofia aveva definito «atarassia». Finalmente
si sente libero da vincoli e obblighi sociali e dal
doversi impegnare nel raggiungere degli obiettivi.
La «libertà da tutto e da tutti» era ciò che
sembrava soddisfarlo più di qualsiasi altra cosa.
Però, più passavano i mesi più in questa
«libertà» si facevano spazio altri pensieri e
sensazioni: Giorgio ripensava spesso ai suoi
alunni, al fatto che ora non aveva più la
possibilità di osservare la loro crescita e i loro
cambiamenti. Avvertiva la mancanza e il vuoto
delle confidenze che gli facevano, «Non si
confidavano più con me, non mi raccontavano
delle loro difficoltà e io non potevo più dare
consigli». La sensazione non era più quella di
aver raggiunto il «buen retiro», ma di essere
diventato, senza accorgersene, uno spettatore del
mondo, un escluso, di essere «sceso
volontariamente dal treno della vita», senza
essersi reso conto di quanto la solitudine sia
dolorosa e insopportabile. Allo stesso tempo, gli
ritornavano in mente i giorni della morte di sua
madre, quando avvertiva il vuoto e quella
insopportabile sensazione di «deserto affettivo».
Paradossalmente, quello che Giorgio aveva
chiamato «la libertà» era diventato un
fallimento. La sua sofferenza era costituita dal
«sentirsi fuori dal mondo», affettivamente solo,
in preda all’angoscia, insonne, senza speranza
per il futuro della vita.
Quando la sorella va a trovarlo in campagna,
trova una casa abbandonata, in cui regnano
sporcizia e disordine. Giorgio è dimagrito di dieci
chili e nel vedere la sorella varcare la porta si
sente colpevole delle scelte fatte, ma
contemporaneamente percepisce che qualcuno lo
può aiutare di nuovo. Accetta di andare da uno
psichiatra e di iniziare una terapia
antidepressiva: proprio lui che non aveva mai
preso nessun farmaco! Nei primi giorni di
trattamento, lamenterà leggeri fastidi
gastrointestinali e sarà tentato di interrompere
tutto. Nella relazione con lo psichiatra Giorgio
comincerà a sentire che è possibile affidarsi
all’altro e ad accettare che curarsi non vuol dire
essere deboli e incapaci. Il passaggio successivo
che Giorgio metterà in atto sarà quello di
cominciare una psicoterapia nella quale il primo
elemento psicologico da affrontare sarà superare
la resistenza a riconoscere che fare la psicoterapia
non è segnale di debolezza ma, al contrario, è un
impegno, che richiede determinazione e forza,
verso il cambiamento. Giorgio capirà che i
sentimenti di onnipotenza erano difese che
mascheravano le sue paure di aver bisogno di una
relazione con gli altri. A poco a poco, sentirà che è
possibile vivere degli affetti e che le relazioni
comportano dei rischi, ma sono necessarie alla
vita.

La terza età
Non disponiamo di sufficienti dati biologici
e/o psicologici per definire un’età limite oltre
la quale è possibile parlare di terza età o età
anziana. Tuttavia, numerosi fattori di
carattere economico e sociale – basti pensare
al dibattito sull’età di pensionamento in Italia
– hanno esercitato forti pressioni sulla
comunità scientifica affinché si definisse una
«soglia» cronologica. L’Organizzazione
mondiale della sanità ha concettualizzato
l’«anzianità», in inglese elderliness, come il
momento in cui si verifica una riduzione
nella capacità di adeguarsi ai fattori
ambientali e ha posto la soglia cronologica
all’età di 65 anni. Questa definizione, fondata
sull’individuazione di una soglia temporale e
sulla valutazione di una capacità adattativa,
va tenuta in considerazione quando
investighiamo la presenza o meno di uno
stato depressivo nell’anziano e, in particolar
modo, quando dobbiamo distinguere tra una
fisiologica riduzione del funzionamento
psico-sociale, imputabile all’avanzare degli
anni, e lo sviluppo di una depressione
conclamata. La terza età è una fase della vita
nella quale dovremmo aspettarci, all’interno
di una traiettoria di sviluppo psicologico
ideale, un consolidamento dell’integrità del
sé, la comprensione di tutti gli aspetti della
vita, sia quelli positivi sia quelli negativi,
l’accettazione delle esperienze precedenti e la
fine delle paure per il futuro. L’avanzare degli
anni dovrebbe fornire maggiori strumenti, la
cosiddetta «saggezza», per fronteggiare le
difficoltà della vita.
Nel film Youth, Paolo Sorrentino propone
una riflessione sulla vecchiaia. I protagonisti
appartengono alla terza età e rielaborano le
proprie esperienze, criticando le scelte
razionali del passato. «Ho perso i migliori
anni della mia vita… Tu hai detto che le
emozioni sono sopravvalutate, ma è una vera
stupidaggine!» L’idea è che rinunciare a
provare emozioni, preferendo una vita «sotto
controllo», può dimostrarsi una scelta che
coarta la vitalità e la libertà. Forse, perciò,
meglio seguire le parole di una nota canzone:
«Voglio una vita come Steve McQueen…».
Oltre a difficoltà di carattere fisico, la terza
età si accompagna spesso a perdite, lutti o
separazioni, poiché capita facilmente di
vedere le persone care, i compagni di una
vita, ammalarsi e morire. I dati della
letteratura dicono che la depressione è uno
dei più comuni disturbi psichiatrici nella
popolazione over 65, con tassi pari al 3% circa
nel caso di disturbo depressivo conclamato e
10-15% nel caso di forme subcliniche. In
genere, si tratta di un disturbo ricorrente, che
si è già manifestato in età più precoce; in
alcuni casi esordisce per la prima volta in
questi anni.
I sistemi nosografici attuali non prevedono
criteri diagnostici specifici per la depressione
durante la terza età. Tuttavia, i dati di ricerca
e la pratica clinica mostrano che le
manifestazioni sintomatologiche osservabili
nelle persone depresse over 65 presentano
caratteristiche peculiari. Prevalgono i disturbi
medici, in particolare quelli cardiovascolari, e
i deficit cognitivi; spesso sono presenti
lamentele sulle proprie condizioni di salute e
un significativo rallentamento psicomotorio.
Gli anziani sembrano avere maggiore
difficoltà nell’esprimere i propri sentimenti, e
in particolar modo quelli depressivi. È molto
più facile che raccontino i sintomi vegetativi
(la stanchezza e il senso di fatica, la perdita
del riposo notturno, la riduzione
dell’appetito) e i sintomi somatici (la
costipazione e il dolore a livello muscolare,
osseo, gastrointestinale, ecc.). D’altro canto,
con il passare degli anni, la frequenza dei
disturbi medici aumenta e questo, spesso, si
intreccia con l’aspetto psicologico. La
percezione del dolore può essere fortemente
condizionata dal tono dell’umore, senza
contare che la depressione di per sé,
modificando gli stili di vita, può accentuare
quadri medici in comorbilità.
Uno dei sintomi più caratteristici di questa
forma depressiva riguarda l’aspetto cognitivo.
La riduzione dell’attenzione, della
concentrazione e della memoria a breve
termine sono sintomi facilmente riscontrabili
con l’avanzare dell’età, ma rappresentano un
elemento clinico di particolare gravità
durante gli episodi depressivi. A questo
proposito, è importantissimo riuscire a fare
una diagnosi differenziale tra un declino
cognitivo primario, per esempio forme
iniziali di demenza vascolare, e la presenza di
deficit cognitivi secondari a un calo
dell’umore, suscettibili di miglioramento
mediante un trattamento antidepressivo
(vedi «Demenza o depressione?»).
Abbiamo già detto che molti disturbi
medici aumentano in frequenza e in gravità
con il procedere degli anni; indubbiamente,
solitudine e necessità di aiuto rendono la vita
più problematica. Malattie cerebrovascolari,
tumori, morbo di Parkinson svolgono un
ruolo attivo nel determinare o facilitare
l’insorgenza di sintomi depressivi. Questi
disturbi esercitano un ruolo «diretto» sul
sistema nervoso centrale: per esempio, il
morbo di Parkinson e le malattie
cerebrovascolari possono produrre delle
modificazioni cerebrali capaci di indurre la
comparsa di quadri depressivi. Esistono
anche dei meccanismi indiretti attraverso i
quali alcuni disturbi medici determinano
sintomi di depressione: spesso la presenza di
patologie mediche croniche provoca
disabilità fisica e sociale, con conseguenti
ricadute sull’umore, oppure necessita di
trattamenti farmacologici con corticosteroidi
o anti-ipertensivi, che spesso provocano
effetti collaterali di tipo affettivo.
Un dato estremamente importante
riguarda la relazione tra depressione e
malattie cerebrovascolari. Queste ultime, che
possono essere conseguenza di fumo,
ipertensione e diabete, a livello cerebrale
producono alterazioni della plasticità
sinaptica, della capacità del cervello di
adattarsi e rispondere agli stimoli nocivi,
abbinate ad alterazioni microstrutturali. È
ormai ben nota la connessione tra alterazioni
delle fibre di sostanza bianca, le fibre
deputate alla connessione tra aree cerebrali
differenti, e l’incidenza di depressione con un
basso tasso di risposta a trattamenti
antidepressivi, elemento da valutare
attentamente prima di intraprendere una
terapia farmacologica.

«Non ho bisogno di nessuno, siete


cattivi»
Agnese ha 82 anni e dalla morte del marito,
avvenuta qualche anno prima, vive da sola. Negli
ultimi tempi, si lamenta con le figlie di non
sentirsi più bene, di non avere più voglia di
vivere, di non «andare a fare compere, uscire». Si
arrabbia perché non ricorda più i nomi.
«Comincio a dire una cosa e mi mancano le
parole.» Prima non era così.
Fino a qualche mese prima, Agnese seguiva
con interesse gli spettacoli televisivi: spesso
faceva tardi per vedere i talk show notturni. Si è
sempre presa cura da sola di se stessa e della
casa, facendosi aiutare solo saltuariamente per le
attività domestiche più pesanti. Quando vedeva i
nipoti, era sempre molto contenta e preparava i
loro piatti preferiti. Adesso tutto è diventato un
peso, anche cucinare per i nipoti. Agnese racconta
questo stato con sfumature di rabbia, in
particolar modo quando le figlie sostengono che
ha bisogno di «essere aiutata da qualcuno», che
«non può più stare da sola». «Mi dispiace dirtelo
mamma, ma le cose sono cambiate, tu non ti
accorgi che in quest’ultimo anno hai delle
difficoltà, a 82 anni bisogna accettare che non si
può fare tutto da soli.» A sentire queste parole
Agnese ha uno «scatto di nervi» e risponde
arrabbiata alla figlia che le dice: «Non ti si può
mai dire niente; ti avevamo detto che avevamo
trovato una donna che si voleva occupare di te e
tu l’hai cacciata dicendo che ti voleva fare del
male e che noi siamo cattive». Agnese spiega al
medico: «Non mi sento nel ruolo della vecchietta.
Sono stata una dirigente con delle responsabilità,
adesso mi vogliono far credere che non so
occuparmi neanche di me stessa».
Da un punto di vista clinico, il caso di Agnese
è una situazione ormai molto comune, visto il
prolungarsi dell’aspettativa di vita. La
depressione di cui soffre è provocata da un insieme
di fattori: lei stessa riferisce l’inizio dello stato
depressivo al momento in cui ha avuto una grave
difficoltà nel leggere i giornali, causata
dall’invecchiamento oculare; inoltre, ha
un’ipoacusia sempre più forte, che però non
ammette; ma è il calo della memoria ad aver
provocato una forte difficoltà a ricordare gli
eventi recenti, lasciando però preservati i ricordi
del passato: non riuscendo a vedersi nel presente,
né a ricordarlo, Agnese tende a valutare se stessa
rispetto a un passato che non è più.
Non solo non è più possibile che viva da sola,
ma si può ritenere che la solitudine degli ultimi
anni abbia inciso negativamente nella sua vita,
in quanto non le ha consentito di confrontarsi con
gli altri. Non è stato facile convincere Agnese ad
avere una persona che l’aiuti ma, dopo diverse
insistenze, e avendo trovato una persona adatta, i
familiari ci sono riusciti. L’aiuto di una leggera
terapia antidepressiva ha fatto il resto: Agnese ha
ritrovato un equilibrio nella sua esistenza,
recuperando delle aree di piacere, per esempio il
pranzo con i nipoti, o l’andare a messa la
domenica mattina. Con una certa ironia riesce
anche a scherzare sulla difficoltà a ricordare le
cose: «Non ho mai detto che le mie figlie sono
cattive… Forse l’ho detto, ma tanto non me lo
ricordo più».

DEMENZA O DEPRESSIONE?
L’incidenza di sintomi cognitivi nella
depressione dell’anziano è elevata. Spesso
sono presenti deficit di concentrazione,
svogliatezza e calo della memoria, e non sono
né direttamente correlabili a uno stato
depressivo né a una demenza vera e propria.
Recentemente è stata introdotta una nuova
entità diagnostica, il Mild Cognitive
Impairment (M CI ), caratterizzata da uno stato
di deterioramento cognitivo lieve. Affligge
soggetti che presentano un deficit cognitivo
maggiore rispetto a quello statisticamente
atteso in base all’età e al livello di istruzione,
ma che sono ancora in grado di svolgere le
proprie attività quotidiane. Questa
condizione presenta una oggettiva
menomazione della memoria, non ancora
riconducibile a una forma di demenza
conclamata. Il M CI è stato definito in molti
modi: «demenza incipiente», «deficit isolato
della memoria», «deficit della memoria
associato all’età», «deterioramento cognitivo
in assenza di demenza».
È interessante notare che nell’aprile 2016
sono usciti due studi, pubblicati
rispettivamente da «Lancet Psychiatry» e
«JAM A Psychiatry», sulla correlazione fra
depressione nella terza età e rischio di
demenza. Le due ricerche, una americana e
una europea, hanno studiato, in un campione
molto ampio, la probabilità che un disturbo
depressivo in età senile possa evolvere in una
forma di demenza. 2 Entrambi gli studi sono
arrivati alla conclusione che i pazienti con
sintomi depressivi più gravi hanno un rischio
maggiore di demenza rispetto a pazienti con
sintomi lievi o moderati. Quali sono i fattori
che determinano questo tipo di evoluzione in
caso di depressione grave o ingravescente? La
risposta va cercata probabilmente nella
neuroinfiammazione provocata dalla
depressione, che, a sua volta, è causa della
produzione di una serie di molecole ad
attività infiammatoria in grado di
danneggiare l’attività neuronale e quindi di
predisporre allo sviluppo di demenza. Questa
traiettoria depressione-neuroinfiammazione-
demenza può essere interrotta intervenendo
tempestivamente sulla sintomatologia
depressiva. È ben noto che i farmaci
antidepressivi sono in grado di regolare i
meccanismi neuroinfiammatori e di stimolare
la produzione di fattori neurotrofici per
preservare l’attività neuronale. Ne possiamo
trarre la conclusione che la depressione fa
male due volte: prima di tutto, come è
evidente, di per sé, poi «intossicando» il
nostro cervello. Bisogna quindi sempre
curarsi: rimandare il trattamento è una scelta
sbagliata.

«Non ricordo più le cose come prima»


Quando lo psichiatra gli chiese quali fossero i
motivi che lo avevano condotto nel suo studio,
Vittorio rispose con il cinismo e il sarcasmo che
ancora lo contraddistinguevano: «Sa, dottore, ho
preso solo 26 su 30 al Mini test…». Intendeva il
Mini Mental Status Examination (MMSE), test
volto a esaminare le funzioni cognitive di base,
che gli era stato somministrato durante una
visita neurologica.
Vittorio si era rivolto a un neurologo per farsi
aiutare a combattere i dolori «nervosi» alla
schiena, alle braccia e al collo. In passato, gli era
stata diagnosticata un’«ernia lombare», per la
quale era stato operato e aveva assunto per lungo
tempo farmaci analgesici. Ora, nonostante
l’intervento, questi dolori persistevano, «delle
fitte lancinanti, come una lama di un coltello che
mi attraversa lungo le braccia e al centro della
schiena», ed erano stati valutati dal geriatra, dal
cardiologo e, infine, dal neurologo. Neanche
quest’ultimo aveva riscontrato qualcosa che
potesse spiegare, in termini neurofisiologici, tali
sintomi e aveva concluso la sua relazione con una
diagnosi di «disturbo somatoforme in paziente
con lievi deficit cognitivi». A quel punto, gli
aveva spiegato che sarebbe stato necessario
rivolgersi a uno psichiatra.
Vittorio, 77 anni, proprietario di una ditta di
legnami, non poteva credere alle sue orecchie: «Io,
da uno psichiatra!». Proprio lui, che aveva
combattuto la fame durante la guerra, che era
cresciuto senza padre ed era stato in grado di
mettere in piedi dal nulla un’azienda milionaria!
«Proprio io, che ho combattuto tutta la vita come
un leone, che mi alzavo alle 3 di notte tutti i
giorni per andare al lavoro, adesso secondo loro
sono diventato rimbambito.»
Va detto che quando Vittorio rimase nello
studio medico da solo, senza moglie e figlio, riuscì
a raccontare tutte le amarezze della sua vita, il
lavoro che non lo soddisfaceva più, i dolori
continui, il crollo vertebrale che gli imponeva di
lavorare molto meno di prima e, quindi, di dover
delegare parte della gestione ai soci.
«Un dolore immenso…» diceva. «La mia ditta
in mano a questi banditi! Una pugnalata alle
spalle.» E poi ammetteva: «È vero… Da qualche
tempo, non mi ricordo più le cose come prima».
Durante la seconda visita dallo psichiatra,
confessò di non riuscire più a dormire come prima.
Era abituato, da oltre quarant’anni, a svegliarsi
alle 3 di notte per andare al lavoro: arrivava in
ditta e sceglieva la merce migliore da mandare
alle varie imprese. Ora non era più in grado di
sostenere un ritmo del genere; la schiena non
glielo permetteva e i medici erano stati categorici.
Ma continuava a svegliarsi alla stessa ora, in
preda a «formicolii, bruciori che correvano lungo i
nervi, come una lama che entrava tra i
muscoli…». E spesso piangeva di nascosto, per
non scalfire l’immagine di «romano vecchio
stampo» che voleva mostrare in famiglia.
Quando lo psichiatra gli spiegò che i dolori, i
formicolii, i bruciori «mascheravano» uno stato
depressivo iniziato nel momento in cui aveva
cominciato a sentirsi «vecchio» e incapace di
lavorare come prima e che un trattamento
antidepressivo adeguato avrebbe migliorato
memoria e concentrazione, capì che era il
momento di iniziare a curarsi. A patto, però, disse
allo psichiatra, di non ripetere più il «mini test»
che lo faceva sentire «ancora tra i banchi di scuola
e lo umiliava». Tempo dopo, in un successivo
controllo, Vittorio scherzava con il medico:
«Dottò, io non li capisco proprio quelli che non
vogliono prendere le medicine…».
X
La terapia

La depressione si può curare?


Basta aprire qualsiasi giornale o sintonizzarsi
su una stazione televisiva per imbattersi in
discussioni sul tema della depressione e sulla
possibilità di curarla. Questi argomenti sono
spesso trattati in modo superficiale: è più
frequente la disinformazione che la corretta
informazione. Vengono presentate speranze
di guarigioni quasi miracolose o, al contrario,
pessimistiche svalutazioni dei risultati
raggiunti dalle terapie. Il primo ostacolo da
superare è rispondere alla domanda: «Ma è
proprio necessario curarsi?»; e, subito dopo,
bisogna confutare una serie di affermazioni:
«Gli psicofarmaci fanno male… Mi fanno
ingrassare», «La psicoterapia non finisce mai;
ho già provato ma non è successo nulla»,
«Non credo nella psicoterapia», «Gli
psicofarmaci danno dipendenza: come faccio
a smettere?».
Ritorniamo sul punto: non curare la
depressione fa male due volte, sia perché si
vive una sofferenza che rovina la qualità della
vita e compromette le relazioni
interpersonali, sia perché il disturbo
depressivo di per sé provoca danni al nostro
organismo attraverso meccanismi endogeni,
per esempio quelli infiammatori (vedi
capitolo V).
Per superare le resistenze a curarsi,
bisogna sapere che esistono diversi tipi di
trattamento, ma la scelta terapeutica è
personalizzata: la cosiddetta tailored therapy,
cioè una terapia a misura della persona. Lo
scetticismo sull’efficacia dei trattamenti nasce
da pregiudizi sulla depressione, considerata
da superare con la forza di volontà, o sugli
psicofarmaci, considerati farmaci «per matti»
o che «fanno diventare matti». Molti temono
che gli psicofarmaci alterino la personalità –
«Se prendo i farmaci non saprò mai se sono
io che sto meglio» – e lo stesso termine
«psicofarmaco» viene usato in senso
spregiativo e come sinonimo di malattia
all’ultimo stadio: «Non dovrò prendere mica
gli psicofarmaci!». Frequentemente, ci
confrontiamo con paure e miscredenze sulle
cure: per esempio, i prodotti cosiddetti
naturali, pur non avendo alcuna comprovata
efficacia, vengono preferiti in quanto si
ritiene erroneamente che, «essendo naturali»,
non facciano male.
La moderna psichiatria è molto attenta al
benessere della persona, che deve riguardare
la psiche e il soma. Prima di assumere
qualsiasi terapia sarà necessario un attento
screening medico per controllare i rischi di
possibili effetti collaterali, come la sindrome
metabolica, oltre alle possibili interazioni con
farmaci assunti per altri motivi. Esistono
linee guida di trattamento per applicare
algoritmi terapeutici validati dalla ricerca per
migliorare i risultati e viene posta
grandissima attenzione all’«aderenza alle
terapie», al rispetto delle prescrizioni
mediche, elemento imprescindibile perché si
realizzi un trattamento efficace e sicuro.
La relazione terapeutica è il luogo base per
decidere il trattamento più adatto e valutare
tempi e modi della cura. La ricerca sulle
psicoterapie, con il contributo delle
neuroscienze, ha spiegato i meccanismi
attraverso i quali la parola e la relazione
psicoterapeutica possono aiutare a superare
le difficoltà dei periodi di depressione e di
ansia e a consolidare il funzionamento della
nostra personalità. Approfondiamo alcuni di
questi concetti nei paragrafi successivi per far
capire che i trattamenti per la depressione,
farmacologici e psicoterapeutici integrati,
sono equivalenti, se non addirittura superiori
per efficacia, agli interventi terapeutici negli
altri ambiti della medicina. A sostegno di ciò,
un dato estremamente significativo proviene
da uno studio nel quale gli psicofarmaci sono
risultati efficaci come i farmaci cosiddetti
«salvavita», gli anti-ipertensivi, gli
antiasmatici o gli antidiabetici. 1

Necessità della terapia


«Forse è meglio che non prenda nulla, prima
o poi mi passerà.» È ormai assolutamente
evidente che non curare non è una soluzione;
le depressioni non curate tendono a
cronicizzarsi, cioè a non passare mai; anche
quando apparentemente la persona si sente
meglio, la sintomatologia residua sarà un
elemento di vulnerabilità per nuovi episodi
depressivi e «un peso» per il benessere
psichico.
I dati statistici dicono che le cure
prevengono il rischio di ricadute del 50-70%.
Inoltre, ritardare l’avvio della terapia, ossia
allungare il periodo in cui la malattia non
viene curata, in inglese duration of untreated
illness, peggiora la futura risposta ai farmaci e
complica il decorso clinico della depressione.

Scelta della terapia


Abbiamo detto nel capitolo II che non esiste
«la depressione», ma «le depressioni», con
diversi sottotipi – «atipica», «melanconica»,
«ad andamento stagionale» – condizionati
anche dalle diverse fasi del ciclo di vita (vedi
capitolo VI).
Soprattutto, però, esiste la «nostra»
depressione. La depressione di cui soffriamo
è nostra, collegata alla nostra vita e alla
nostra storia: la sofferenza è individuale.
Tutto questo va capito ascoltando le parole
della persona depressa e individuando i
singoli elementi clinici e soggettivi sui quali
intervenire. Proprio per questo motivo le
linee guida sottolineano la necessità che il
trattamento sia «ritagliato» a misura del
paziente e delle sue esigenze (tailored
therapy). I trattamenti antidepressivi, sia
farmacologici sia psicoterapeutici, vanno
adattati alle caratteristiche della depressione
nel momento in cui viene fatta la valutazione,
basandosi sulla storia clinica e personale del
paziente.
Nel momento in cui si sceglie un
trattamento, bisogna tenere conto di alcuni
elementi, primo fra tutti la gravità dei
sintomi. Ovviamente, il livello di gravità della
sintomatologia depressiva, come per esempio
può accadere nelle forme melanconiche,
inciderà fortemente sulla scelta della terapia
e sul dosaggio dei farmaci. La presenza di
ansia, di insonnia, di irrequietezza indicano
che bisogna essere tempestivi
nell’intervenire, cercando di ristabilire il
prima possibile un equilibrio dell’umore. È
necessario, inoltre, analizzare i fattori di
stress scatenanti la depressione per decidere
la forma di psicoterapia più adatta; valutare
attentamente le preferenze e i valori del
paziente, adeguare il trattamento allo stile di
vita, discutere le paure sugli effetti collaterali
(«Dormirò tutto il giorno?», «Sarò in grado di
lavorare?», «Non voglio essere uno
zombie…»). L’alleanza terapeutica garantirà il
superamento di queste preoccupazioni e
favorirà l’assunzione regolare dei farmaci. Si
devono poi ricostruire le precedenti
esperienze terapeutiche attraverso
un’accurata anamnesi farmacologica,
considerando che i precedenti trattamenti,
che abbiano avuto un effetto positivo o che
non abbiano avuto effetto, possono fornire
uno strumento clinico prezioso. Infine, vanno
considerate le condizioni mediche generali
del paziente per evitare rischi per la sua
salute fisica. Noi riteniamo che sia
indispensabile anche coinvolgere i familiari e
le persone di riferimento per garantire
l’assunzione corretta delle cure, ossia
l’aderenza al trattamento.
Efficacia degli antidepressivi
UNA STORIA NATA PER CASO
Nei primi anni Cinquanta, alcune aziende
farmaceutiche acquistarono residui di
combustibili bellici per verificare le proprietà
antibatteriche; ne ricavarono l’isoniazide, un
farmaco antitubercolare. Nel 1952, un anno
dopo l’introduzione sul mercato
dell’isoniazide, la mortalità per tubercolosi
negli US A si ridusse drasticamente a 4 decessi
l’anno per 100.000 abitanti. Nel 1953 un
fotografo pubblicò una foto scattata al Sea
View Hospital di New York (un sanatorio per
pazienti tubercolotici), in cui alcune pazienti
erano riprese mentre danzavano sorridenti,
come durante una festa. Qualcuno notò che
questi effetti euforizzanti della terapia
sembravano un po’ eccessivi per ricondurli al
solo miglioramento clinico della tubercolosi e
nel 1957, durante un congresso dell’American
Psychiatric Association, lo psichiatra Nathan
Kline presentò i primi dati sull’efficacia
dell’isoniazide nel trattamento della
depressione. In quegli anni di grande fervore,
Paul Janssen riuscì a sintetizzare
l’aloperidolo, un antipsicotico, mentre John
Cade iniziò a utilizzare i sali di litio,
stabilizzante dell’umore.
Nel 1957, durante il congresso mondiale di
psichiatria, Roland Kuhn presentò i dati
relativi a una molecola, denominata G-223555 ,
inizialmente progettata per la cura della
schizofrenia. Kuhn aveva notato che in
generale i pazienti schizofrenici peggioravano
dopo l’assunzione di questo farmaco, ma
alcuni con umore molto depresso ottenevano
un importante miglioramento dei sintomi. Da
allora, la G-223555 , a cui fu dato il nome di
imipramina, è diventata uno dei più diffusi e
importanti farmaci antidepressivi di classe
triciclica.
Diversi anni dopo, come abbiamo visto nel
capitolo V, iniziava la «Prozac revolution»: il
Prozac era considerato «la pillola della
felicità», il più promettente farmaco mai
utilizzato per la depressione, il primo di una
nuova classe farmacologica, gli S S RI (Selective
Serotonin Reuptake Inhibitors). La nascita del
Prozac si basava sull’ipotesi scientifica,
divenuta ben presto anche diffusa a livello
sociale e mediatico, che la depressione
potesse essere spiegata esclusivamente in
termini di un deficit di serotonina. Oggi
sappiamo che le cose sono meno semplici di
come potevano apparire trent’anni fa e che gli
stessi S S RI hanno un’azione molto più
complessa. A seguire, infatti, vennero
immessi sul mercato farmaci dual action, che
svolgono un’azione sia sul sistema
serotoninergico sia su quello noradrenergico.
La ricerca sulle terapie farmacologiche è
tesa a ridurre il più possibile gli effetti
collaterali di questi farmaci, aumentando i
profili di tollerabilità e sicurezza senza
incidere sull’efficacia. Le molecole più recenti
«lavorano» nell’ottica della
multidimensionalità, cercando di migliorare
sia l’umore sia altre dimensioni della
depressione, come per esempio quella
cognitiva. Infine, la ricerca attuale si sta
concentrando su farmaci «nutraceutici», cioè
integratori alimentari come gli omega 3, la S-
adenosilmetionina e la vitamina D, necessari
per la sintesi dei neutrotrasmettitori, da poter
impiegare come strategia di potenziamento
(augmentation) delle terapie antidepressive.

LE LINEE GUIDA
Uno dei progressi della medicina attuale è
stato quello di selezionare i trattamenti
convalidati sulla base di chiare evidenze di
efficacia (medicina evidence-based).
Conseguenza di questa selezione è stata la
possibilità di formulare specifiche linee guida
per la cura di tutti i disturbi medici. Le linee
guida sono il frutto del lavoro congiunto, a
livello internazionale, di studiosi che dopo
accurate ricerche e verifiche propongono
trattamenti standardizzati. Ciò vale per tutti i
disturbi e tutte le discipline mediche, dalla
medicina generale alle specialità chirurgiche,
e quindi anche per la psichiatria. Fra le
principali linee guida in ambito psichiatrico,
ci sono quelle del britannico National
Institute of Clinical Excellence (NICE) e quelle
dell’American Psychiatric Association (APA). 2
Per le forme depressive, entrambe
consigliano un approccio integrato, una
combinazione di farmacoterapia e
psicoterapia. Un altro elemento in comune è
che gli S S RI sono i farmaci di prima scelta: il
tempo di osservazione per valutarne
l’efficacia è fra le 4 e le 6 settimane.
Successivamente sarà possibile aumentare il
dosaggio o sostituirli con un antidepressivo
di classe diversa (switching). In alternativa, le
linee guida prevedono la possibilità di
adottare una strategia di potenziamento,
come affiancare un altro antidepressivo a
quello già prescritto. La durata completa del
trattamento va dai 6 mesi ai 2 anni.
Trattamenti di breve durata, anche se
temporaneamente efficaci, non proteggono
dalle ricadute.
Le linee guida NICE e APA sottolineano
l’importanza di discutere con il paziente
alcuni dei passaggi fondamentali del
programma terapeutico; in particolare, è bene
chiarire perché si sceglie un determinato
farmaco in relazione alla sintomatologia e al
quadro clinico, gli effetti terapeutici attesi, gli
eventuali effetti collaterali e da sospensione, i
motivi per cui può rendersi necessario un
incremento della dose o il passaggio a
un’altra molecola, i rischi legati a un
sottodosaggio e a una brusca sospensione
della terapia.

Quando i farmaci non funzionano


Partiamo da un dato: i pazienti che ricevono
un corretto inquadramento diagnostico e
assumono i farmaci con regolarità, nei
dosaggi e nei tempi prescritti, rispondono
positivamente alla terapia antidepressiva.
Tuttavia, in alcuni casi non vi è una risposta
completa alla terapia, e allora si parla di
«resistenza» al trattamento. 3 «Dottore, ho
preso tutti i farmaci possibili; nessuno mi ha
fatto niente. Mi hanno detto che sono
resistente alla terapia farmacologica.» È
proprio così? Che cosa rende un paziente
«farmacoresistente»? Le risposte sono
diverse. Molto frequentemente ciò che è stato
definito «farmacoresistenza» è uno
pseudoproblema. I fattori alla base della
resistenza sono molti; tra questi ci sono
l’assunzione non corretta della terapia,
dosaggi non adeguati e tempi di assunzione
ridotti.
Sappiamo che esiste il fenomeno del doctor
shopping, ossia la tendenza di alcune persone
a cambiare spesso medico, ma esiste anche lo
«shopping farmacologico», cioè la cattiva
abitudine di cambiare continuamente terapia.
I vecchi clinici dicevano che «la depressione
arriva in aereo e se ne va in carrozza», per
indicare che i tempi di cura vanno rispettati e
non forzati dall’ansia del risultato. Prima di
decretare che un farmaco non funziona,
bisogna dargli il tempo di agire e raggiungere
la giusta concentrazione nel corpo.
La farmacoresistenza può essere la
conseguenza di un’anamnesi scorretta o
incompleta a causa della insufficiente
documentazione a disposizione del medico e
della difficoltà del paziente a ricordare tempi
e modalità dei trattamenti precedenti. Non è
infrequente ascoltare la persona riferire che
un determinato farmaco non ha prodotto
nessun miglioramento clinico sui suoi
sintomi depressivi, ma non riuscire a
precisarne il dosaggio prescritto né se era
stato assunto regolarmente («Veramente non
mi ricordo se ho preso x o y, mi ricordo solo
che finiva per ina o forse per am», «Certe
volte non mi ricordavo di prenderlo», «In una
settimana, adesso che me lo chiede, lo avrò
saltato almeno 3-4 volte»). È evidente che
un’assunzione saltuaria, con molte
dimenticanze, non permette al principio
attivo di raggiungere il valore ematico
ottimale per svolgere la sua funzione.

L’importanza della relazione medico-


paziente
Nel 1961 la rivista «The Lancet» pose un
interrogativo: What Makes the Patient Better?,
«Che cosa rende il paziente migliore?», «Che
cosa lo fa stare meglio?». La risposta fu:
l’«alleanza terapeutica». Fidarsi dello
psichiatra cui si chiede aiuto per vincere la
depressione non è qualcosa di poco conto, di
secondario, è anzi il presupposto principale
per il buon andamento di un trattamento
antidepressivo.
Alcune delle domande o dei commenti più
frequenti che vengono rivolti al medico sono:
«Ma davvero devo prendere i farmaci?»,
«Starò peggio?», «Diventerò dipendente?»,
«Non posso essere addormentato al lavoro»,
«Ma ingrasserò?», «Ho letto su Internet che
questi farmaci sono usati per le malattie
mentali, ma io non sono pazzo». Le paure
legate all’assunzione dei farmaci sono tante e
altrettanti sono i quesiti che vengono
sottoposti al medico, il quale dovrà essere in
grado di illustrare i vantaggi e i limiti di una
corretta terapia, compresa la possibilità che si
verifichino alcuni effetti collaterali. Le parole
del medico devono corrispondere al principio
della semplicità e chiarezza, nella
completezza dell’informazione. Spesso è utile
coinvolgere nella comunicazione i familiari o
le figure di riferimento che possono aiutare il
paziente nell’aderire al programma
terapeutico e nel seguire correttamente le
prescrizioni. 4
L’alleanza terapeutica è prima di tutto un
rapporto di fiducia reciproca, nel quale il
paziente, al pari dello psichiatra, svolge un
ruolo attivo e non subisce passivamente le
indicazioni del medico. È una working
alliance, un’«alleanza di lavoro», che permette
ai pazienti di essere accompagnati, sostenuti
e non «trascinati» nel processo di guarigione.
È un accordo reciproco stretto per
raggiungere obiettivi di cambiamento, è la
costituzione di un «campo terapeutico», la
base relazionale sulla quale costituire un
progetto terapeutico che consenta al paziente
e al medico di programmare insieme il
percorso di cura nei tempi e nei modi
necessari per affrontare il disturbo. 5
Il medico, in particolare, dovrà prestare
attenzione al subjective well-being, lo stato di
benessere soggettivo, e alla cosiddetta drug
attitude, la disponibilità a curarsi e ad
accettare il trattamento. Lo studio della drug
attitude è fondamentale, in quanto sappiamo
che nel 40-50% dei casi le terapie non
vengono assunte in modo regolare. 6 I motivi
alla base di questo fenomeno sono diversi:
paura degli effetti collaterali, diffidenza,
timore di introdurre nel proprio corpo
«qualcosa di estraneo» e «di non
controllabile». Una comunicazione chiara
circa gli effetti della terapia, dei suoi vantaggi
e svantaggi, nell’ambito di un rapporto di
fiducia medico-paziente, riduce fortemente il
rischio di interruzione dell’assunzione dei
farmaci e incide in maniera significativa sulla
possibilità di guarigione.

Curare con le parole


Nel film di Nanni Moretti Habemus Papam,
Sua Santità, dopo la prima seduta di
psicoterapia, dice al fornaio: «Soffro di deficit
di accudimento, ma non ho capito cos’è».
Questa scena, tra le più famose del film,
fotografa in modo ironico la difficoltà, o la
distanza, soprattutto nelle fasi iniziali di un
percorso psicoterapeutico, fra il terapeuta e il
paziente; è tanto vero che questo paziente
(addirittura il papa!) preferisce rivolgersi a
una persona non competente in medicina per
comprendere di cosa soffre. Questa
immagine offre lo spunto per descrivere la
diffidenza o la paura che si prova nell’iniziare
un percorso psicoterapeutico.
«Io non credo alle chiacchiere, solo i
farmaci mi possono aiutare», «Non vedo
perché dovrei raccontare i fatti miei a uno
psicologo o a uno psichiatra… Mi fido di più
del mio migliore amico di sempre», «Dottore,
la mia vita è un fallimento: le parole, a questo
punto, a che mi servono?», «So bene quali
sono le cause della mia depressione, non ho
bisogno che me le dica un estraneo…»
Queste sono alcune delle reazioni più comuni
dei pazienti, dopo aver ricevuto la proposta di
affrontare un percorso psicoterapeutico per
ridurre la sofferenza della depressione,
comprendere le sue cause contingenti e
quelle più profonde. La diffidenza nei
confronti della psicoterapia nasce spesso
dalla convinzione che, in fondo, «la cura con
le parole» non è efficace, che «si possono
ricevere buoni consigli dappertutto, ma il
dolore della depressione non passa».
È importante sapere che, secondo le
moderne acquisizioni delle neuroscienze, in
realtà non è così: «le parole» agiscono sul
nostro cervello e plasmano il suo
funzionamento. La narrazione delle proprie
esperienze emotive, la verbalizzazione dei
ricordi spiacevoli, la formulazione di ipotesi
causali che possano dare un senso alla
sofferenza, il rievocare durante la seduta
determinate sensazioni connesse a episodi
traumatici, innescano dei processi che
agiscono a livello neurale. Esistono una
modalità bottom-up, dal basso verso l’alto, che
parte dai processi e dalle esperienze
sensoriali o motorie, e una modalità top-down,
dall’alto verso il basso, che investe processi
più complessi collegati a conoscenze,
aspettative, bisogni, valori, credenze, e così
via. La psicoterapia è stata definita «un altro
modo di riconnettere il cervello. La terapia
non è altro che produrre potenziamento
sinaptico nei cammini cerebrali che
governano l’amigdala». 7
La psicoterapia può consentire al paziente
di comprendere e regolare le emozioni,
attraverso un meccanismo che dai centri
superiori, la corteccia, riesce a modulare le
aree deputate alle emozioni, l’amigdala. Così,
le «nostre parole» e il lavoro psicoterapeutico
riescono a modificare, a essere efficaci,
utilizzando una «via finale biochimica e
neurotrasmettitoriale».
Un’altra domanda frequente è: «Quale tipo
di psicoterapia è più adatta?». Anche in
questo caso la risposta comprende due piani.
Il primo è relativo alla qualità e alla serietà
professionale dello psicoterapeuta che si
sceglierà. Il secondo riguarda il fatto che
bisognerà privilegiare terapeuti appartenenti
a scuole riconosciute per serietà e tradizione,
come la terapia psicoanalitica e quella
cognitivo-comportamentale. Tuttavia, la
ricerca in ambito psicoterapeutico ha
introdotto negli ultimi decenni nuove
tecniche di notevole efficacia. Tra gli approcci
più innovativi, ne ricordiamo alcuni: la
«terapia interpersonale» pone l’accento sui
problemi interpersonali attuali rispetto alle
dinamiche intrapsichiche inconsce; la
«terapia di sostegno» mira a fornire un
sostegno emotivo, soprattutto nelle crisi
acute, come un lutto, la perdita del lavoro,
ecc.; la «terapia basata sulla mentalizzazione»
verte sulla capacità di concepire stati mentali
inconsci e consci in se stessi e negli altri
(Teoria della mente); la mindfulness insegna a
dirigere volontariamente la propria
attenzione a quello che accade nel proprio
corpo e intorno a sé, momento per momento,
ascoltando più accuratamente la propria
esperienza e osservandola per quello che è,
senza valutarla o criticarla; l’EM DR ,
dall’inglese Eye Movement Desensitization and
Reprocessing, facilita il trattamento di diverse
psicopatologie e problemi legati sia a eventi
traumatici sia a esperienze più comuni ma
emotivamente stressanti; la psicoterapia
sistemico-relazionale o terapia familiare
consente di indagare le caratteristiche
strutturali e le regole della famiglia nel suo
complesso come chiave di volta per
comprendere i fenomeni depressivi.
Occorre tener presente che anche nel caso
della psicoterapia vale la regola della tailored
therapy, la terapia a misura del paziente; va
decisa nel campo relazionale terapeuta-
paziente. Bisogna sempre ricordare che le
psicoterapie hanno meccanismi di
funzionamento a lungo termine e che le
difficoltà devono essere affrontate nei tempi
e nei modi adeguati, senza farsi prendere
dall’ansia dei risultati.

Novità terapeutiche
Fra le domande più frequenti sui trattamenti,
due sono particolarmente significative. La
prima riguarda la possibilità di prevedere la
risposta al trattamento. La seconda, se oltre
alle terapie farmacologiche e psicologiche vi
sono altre terapie possibili.

SI PUÒ PREVEDERE LA RISPOSTA A UNA


TERAPIA?
Abbiamo ampiamente detto che i disturbi
psichici, tra i quali la depressione, non si
basano su un meccanismo causa-effetto, ma
sono multifattoriali. Sono in atto diverse
ricerche volte allo studio di marker biologici
per predire la risposta ai farmaci. Per
esempio, pazienti con alterazione dei circuiti
cortico-sottocorticali o con iperattività
dell’amigdala, in seguito alla rievocazione di
ricordi spiacevoli, rispondono meglio ai
trattamenti farmacologici. Altri marker
biologici sono: la disregolazione dell’asse
ipotalamo ipofisario, con conseguente
ipercortisolemia e alterazione dei fattori
neurotrofici (BDNF) prodotti dall’ippocampo;
l’incremento dei livelli di alcune proteine
infiammatorie: proteina C-reattiva, IL-6, IL-1β ;
alcuni polimorfismi genici, in particolare del
gene BDNF, della proteina trasportatore della
serotonina (S ERT) o del citocromo P450 .
Come già accennato, è ancora prematuro
pensare a un utilizzo di questi predittori nella
pratica clinica quotidiana. La depressione è
una sindrome a elevato grado di complessità,
in cui le variabili ambientali e individuali
esercitano un peso che spesso «mette in
scacco» anche i modelli neurobiologici più
avanzati e sui quali sono stati studiati i
farmaci. La risonanza magnetica funzionale o
lo studio dei polimorfismi genici sono di
largo impiego nella ricerca ma, come
immaginabile, ancora non facilmente
utilizzabili in un ambulatorio di psichiatria. È
buona pratica clinica effettuare una risonanza
magnetica cerebrale all’inizio del
trattamento, per avere una valutazione
neuroradiologica delle condizioni di base, sia
come dato di partenza, sia come dato di
confronto nel corso dell’evoluzione del
disturbo.
Non vi è dubbio che il futuro della ricerca
farmacologica consisterà sempre di più
nell’individuazione di target neurobiologici
per permettere di fondare su basi più certe la
scelta di un trattamento.

ESISTONO TERAPIE ALTERNATIVE?


Quando si pensa alle «terapie biologiche non
farmacologiche», è facile pensare alla terapia
elettroconvulsivante (electroconvulsive therapy,
ECT ), comunemente chiamata elettroshock.
Questa tecnica, molto utilizzata in passato,
consiste nel provocare artificialmente una
crisi epilettica medicalmente controllata. Nel
1997 il Consiglio superiore della sanità ha
diramato una circolare con precise
indicazioni di utilizzo dell’ECT: la
depressione grave con rischio di suicidio o
resistente ad altre terapie, la mania grave,
alcune forme schizofreniche e la sindrome
maligna da neurolettici (una gravissima, e
spesso letale, reazione a questi farmaci).
Anche la sanità regionale ha imposto rigidi
protocolli di impiego per l’ECT.
Un’altra terapia biologica consiste nella
metodica di stimolazione magnetica
transcranica (transcranial magnetic
stimulation, TM S ). La TM S è stata messa a
punto da un gruppo di bio-ingegneri
dell’università di Sheffield, nel 1985, ed è
utilizzata in neurologia da almeno vent’anni.
A differenza dell’ECT, la TM S genera un
campo magnetico e non induce crisi
epilettiche: durante una sessione di
stimolazione, generalmente della durata di
15-30 minuti, il paziente è seduto in poltrona
e rimane sveglio, interagendo con il tecnico
che applica la TM S . Oggi, questa pratica è
stata approvata in diversi paesi, tra cui Stati
Uniti, Canada, Israele, ed è oggetto di
numerose ricerche in Italia.

Prevenire il suicidio
Esiste un momento delicato e particolare nel
colloquio con la persona depressa quando il
medico chiede: «Pensa al suicidio? Ha mai
pensato di farlo? Come?». Dalla risposta che
segue, dipendono diverse decisioni e scelte
terapeutiche. Prima di tutto, bisogna capire la
concretezza dei pensieri suicidari, il loro
grado di determinazione, e distinguere tra un
pensiero che rimarrà solo un’intenzione e
uno che si sta per realizzare. Nella
depressione, il confine tra idee di morte
(«Vorrei addormentarmi e non svegliarmi mai
più») e pensieri reali di suicidio è molto
labile.
Il suicidio è un accadimento
multifattoriale e imprevedibile; diversi sono
gli elementi in gioco che determinano il suo
realizzarsi: il sentirsi soli, senza speranze e
alternative, pensare così di risolvere tutti i
problemi e di reagire a eventi frustranti o
percepiti come tali, essere spinti da una
rabbia interna, non sentirsi né capiti né
ascoltati, non riuscire più a sfruttare le
risorse psichiche personali per resistere a un
dolore vitale insopportabile e alla «tentazione
di farla finita». «È come se, appena cercavi di
andare avanti con la tua vita, il dolore della
depressione clinica fosse tornato di nuovo. È
come se la depressione clinica fosse la canna
della pistola che ti spingeva» ha scritto il
romanziere David Foster Wallace, morto
suicida. 8
Il suicidio è visto dalla persona che ha
pensato e sta pensando di suicidarsi come
una soluzione completa e definitiva, una
liberazione da un mondo doloroso e
insopportabile. La vita è diventata inutile, la
morte è l’unica via di uscita, «tutto qui». È
quello che afferma lo scrittore giapponese
Yukio Mishima: «“Nell’istante della mia
morte, tutto scomparirà” si era detto Honda.
Quel pensiero alimentò in lui una sorta di
appagamento, simile a quello di una vendetta
consumata. Smantellare il mondo alle radici,
affondarlo nel nulla, non avrebbe comportato
alcuna difficoltà. Gli bastava morire, tutto
qui». 9
L’Organizzazione mondiale della sanità,
nel 2013 ha descritto il suicidio come una
strage, con almeno 800.000 morti all’anno.
Ogni tre secondi, qualcuno tenta il suicidio e
ogni quaranta secondi qualcuno muore
suicida. Sempre l’OM S , nel piano d’azione
«Salute 2020», ha individuato alcuni
«traguardi fondamentali» da raggiungere
entro il 2020: tra gli obiettivi prioritari c’è
quello di ridurre il tasso di suicidio del 10%.
Questo programma non nasce soltanto dalla
grave realtà dei dati epidemiologici sul
suicidio, ma anche dalla crescente necessità
di doverne ridurre l’incidenza nel mondo. 10
Il suicidio è sempre stato un argomento
tabù, di cui non parlare apertamente; il
depresso lo ritiene un segreto da nascondere
a tutti, si vergogna e ha paura di un desiderio
che è contro la vita. Non a caso, alcune volte,
decide di compierlo nel momento in cui si
sente meglio, quando nessuno si aspetta più
che lo faccia. I familiari, spesso già provati
dall’esperienza faticosa della depressione,
percepiscono la possibilità del suicidio come
un ulteriore problema che aggrava la già
dolorosa assistenza a una persona depressa.
Allo stesso medico, a volte può sfuggire la
dimensione del rischio, sia perché il depresso
nasconde la sua idea, sia perché è
estremamente complicato attuare strategie di
difesa dall’evento, che sconvolgono il
funzionamento della vita quotidiana
personale e di tutta la famiglia e richiedono
validi motivi per essere applicate.
Ribadiamo che bisogna parlare del suicidio
in modo chiaro e aperto, non averne paura; il
suicidio è un fenomeno che fa parte della
malattia depressiva, e non solo, e per
affrontarlo bisogna che siano coinvolti tutti i
livelli: individuale, familiare e medico.
Prevenire e proteggere dal suicidio significa
individuare i fattori di vulnerabilità
personale, ma anche considerare quanto la
rete familiare ristretta e allargata sia in grado
di collaborare e sostenere il familiare
depresso.
Tutto questo confluisce in due scelte
principali. La prima si chiama «rischio
accettabile e condiviso»: decidere, quando è
possibile, di non limitare la libertà della
persona sottoponendola a una condizione di
controllo (guardata a vista o ricoverata in un
ambiente protetto), dove potrebbe sentirsi
«in trappola» e senza speranze. L’obiettivo è
far capire al depresso che le idee di suicidio
fanno parte dei sintomi depressivi ma non
sono sentimenti genuini che gli
appartengono. Bisogna «tenerlo attaccato alla
vita» e la famiglia deve essere coinvolta per
proteggerlo da se stesso, senza farlo sentire
isolato e colpevole. La seconda opzione, in
base alla gravità e alla pericolosità delle idee,
è far scattare invece un sistema di controllo,
anche obbligato, che impedisca la messa in
atto del comportamento autolesivo.
I cardini su cui poggiano queste decisioni
sono la saldezza della relazione medico-
paziente, le caratteristiche e le risorse
personali del depresso, la collaborazione e il
sostegno della famiglia. Ferma restando
l’estrema difficoltà di scegliere il percorso
terapeutico più adatto nel momento in cui è a
rischio la vita di una persona, è fondamentale
che le decisioni avvengano in un clima di
fiducia reciproca tra tutti coloro che sono
coinvolti. La responsabilità delle scelte deve
essere perciò condivisa da paziente, famiglia
e medico.
In particolare, un’alleanza terapeutica
solida, sia con il paziente sia con i familiari,
serve a comprendere i diversi elementi che
possono spingere la persona a tentare il
suicidio, ma anche a proporre stimoli vitali in
grado di far emergere alternative possibili
alle idee suicidarie e rappresenta la base per
ridurre al minimo le possibilità che l’evento
accada. Aver già tentato in precedenza il
suicidio è un rischio ulteriore, e anche questo
andrà affrontato con chiarezza e non
nascosto.
Prevenire significa soprattutto parlare,
trasmettere empatia, non giudicare, non
negare, non nascondere. Le linee guida delle
società scientifiche che si occupano di
suicidio sottolineano di porre estrema
attenzione all’intenzionalità suicidaria,
esplorando apertamente, anche con domande
esplicite, il perché si vuole farlo, il come e il
quando. La comprensione e la prevenzione
del suicidio partono dall’analisi della
sofferenza individuale, dalla tollerabilità e
dal significato del dolore mentale, e dalle
circostanze alle quali è legato.
La scienza che studia il suicidio, la
suicidologia, ha definito questo dolore
psichico intollerabile psychache o «stato
perturbato della psiche», la cui risoluzione
non può essere che drammatica. Lo psychache
è un livello di sofferenza individuale non
riconducibile a un preciso disturbo mentale.
È un misto di emozioni, affettività negativa
(negative affects), ansia, rabbia, senso di
solitudine, vergogna, angoscia, dolore
psichico e somatico, peso sul cuore, nodo alla
gola. Si è incapaci di pensare in modo
costruttivo e immaginare una possibile
soluzione, presente o futura. Il pensiero
diventa «dicotomico», c’è spazio solo per due
possibilità: o tutto si risolverà in modo
magico, oppure morire sarà l’unica soluzione.
Anche le parole non lasciano scampo:
«sempre», «solo», «mai»… «La mia vita è un
fallimento completo, non voglio più far
soffrire nessuno, voglio solo morire, odio la
mia vita.»
La depressione è la condizione
psicopatologica più strettamente connessa al
suicidio, ma è un errore ritenerla l’unica, in
quanto il suicidio può essere determinato da
altre molteplici cause. Le malattie croniche, le
delusioni lavorative e sentimentali, le
difficoltà economiche possono far scattare
forti sentimenti di umiliazione, di rimorso, di
vergogna, di rabbia, di vendetta che
annichiliscono l’individuo facendogli
intravedere il suicidio come unica via
d’uscita. Tutte queste motivazioni sono state
messe in luce dall’autopsia del suicidio,
intesa come analisi a posteriori di tutte le
informazioni mediche e psichiche di chi si è
suicidato, raccolte con interviste a familiari e
medici che si sono occupati della persona che
non c’è più.
Prendersi cura delle persone segnate dal
suicidio o dal tentato suicidio di una persona
cara, i survivors, è fondamentale per alleviare
il loro dolore, elaborare il lutto, lo shock della
perdita e la rabbia verso il defunto; li aiuta a
riconciliarsi con la memoria della persona
cara oppure, se è ancora vivo, ad assisterlo. Ai
familiari dovrebbe sempre essere garantito
un aiuto, dando l’opportunità di partecipare a
gruppi di sostegno formati da persone che
hanno vissuto la stessa tragedia, o di fruire di
altri servizi psicologici o psicoeducazionali
che li aiutino a recuperare un nuovo
equilibrio emotivo e relazionale, così difficile
dopo un suicidio.
Un’ultima suggestione proviene dalle
parole di Salvatore Niffoi: «“Oh mannà! Ma
cosa dice quella voce quando chiama la
gente?” “Ajò! Preparati, che il tuo tempo è
scaduto!” Solo questo dice, Battì! Poi allunga
una mano invisibile e ti porta via». 11 Anche
nella depressione si può sentire una voce
simile, che chiama perché il tempo è scaduto,
ma nella depressione l’idea che il tempo sia
scaduto è falsa: sembra scaduto perché il gelo
depressivo ha bloccato l’orologio della vita,
ma sappiamo che si tratta di una condizione
solo temporanea e che, oltre alla mano
invisibile che ti porta via, ce ne sono molte
altre che ti trattengono alla vita.
XI
Depressione, stigma, società

Evoluzione sociale della malinconia


Che rapporto c’è tra depressione e società?
Quali sono i legami tra lo stile di vita,
l’ambiente sociale e la depressione? Perché le
relazioni sociali sono capaci di modificare il
nostro umore e di orientare il modo di
esprimere il nostro disagio? Come mai la
depressione non è solo un fenomeno clinico
individuale, ma da sempre fa parte della vita
culturale e sociale? Come mai ha fornito e
fornisce ad artisti e pensatori elementi di
creatività e riflessione? Sul fronte opposto,
come mai la depressione è colpevolizzata
nell’immagine sociale? Diversi sono gli
interrogativi, molteplici e complesse le
risposte.
Benedetto XVI, nell’udienza generale del
1° febbraio 2012, ha commentato un passo del
vangelo di Marco e si è soffermato sul
versetto 14,33, «la mia anima è triste fino alla
morte», che riprende il Salmo 43,5,
sviluppando una profonda riflessione sulla
sofferenza dell’essere umano legata alla
tristezza.
«Un dì si venne a me Malinconia / e disse:
“io voglio un poco stare teco”; / e parve a me
ch’ella menasse seco / Dolore e Ira per sua
compagnia» così scrive Dante nelle Rime, 1
facendoci comprendere la complessità dello
stato d’animo depressivo malinconico e come
questo influenzi la percezione di ciò che ci
circonda.
Omero non è da meno. Basta rileggere il
canto VI dell’Iliade, nel quale si racconta di
Bellerofonte che, a seguito della collera degli
dei, vaga solitario per la pianura
«mangiandosi l’anima, evitando l’orma degli
uomini». La forza della rappresentazione
della depressione melanconica presente nei
versi dei due poeti si rintraccia anche nei
quadri che hanno dipinto la potenza del
sentimento malinconico, a testimonianza di
come l’arte si nutra della malinconia e la
malinconia dell’arte e di come entrambe
siano rappresentative della società del
momento.
«Per il malinconico le cose sono
enigmatiche e irrelate, ognuna isolata in se
stessa, prive di autentico significato perché
egli non le guarda con quell’affettività, quel
desiderio, quella confidenza che danno loro
calore e le rendono familiari, amiche delle
mani che le toccano e le lavorano, elementi
della vita, come le stagioni, nel cui ripetersi ci
si può inserire con armonia, mentre per il
malinconico esso è solo un inutile sfiorire e
svanire.» 2 Claudio Magris commenta così la
famosissima incisione di Albrecht Dürer,
Melancolia, realizzata nel 1514, in cui l’angelo
corrucciato guarda verso l’infinito, circondato
da una serie di oggetti e strumenti definiti da
Walter Benjamin «gli arnesi della vita attiva
(che) se ne stanno inutilizzati al suolo,
oggetti di un vano rimuginare». 3 Sentimenti
presenti alla fine della vita, quando l’uomo
percepisce la presenza di un limite non più
superabile: «… poi non toccò più niente.
Saliva dalla casa alla bottega, guardava gli
attrezzi come cose morte. I rotoli di spago, le
lesine, le pelli appese, le formelle di legno, le
raspe, i martelli, le tenaglie non gli parlavano
più, erano rimasti senza voce. Non c’era più il
tanto di vivere così, non ne valeva la pena». 4
Società e depressione si influenzano
reciprocamente in maniera circolare: il
sociologo Alain Ehrenberg ha sottolineato la
necessità di capire quale senso assuma
l’essere depressi nel contesto della società
attuale e, insieme, come quest’ultima
influenzi i modi di essere e i contenuti della
depressione. 5 Secondo questa prospettiva,
nella società moderna il nucleo «sociale»
della patologia depressiva non si appoggia
più, come in epoca romantica, alla colpa
rispetto a una rigida disciplina interiore, ma
alla responsabilità e allo spirito di iniziativa,
alla capacità di decidere e di agire
autonomamente.
A giudizio di alcuni studiosi, la modernità
può essere definita come il continuo e
progressivo tendere della società verso un
futuro migliore, «un futuro radioso di
progresso e libertà, verso l’emancipazione da
un passato primitivo e irrazionale».
Nella società moderna, il cambiamento dei
modelli e dei valori sociali provoca una
modificazione dei sintomi depressivi, pur
permanendo di fondo il senso di dolorosa
inadeguatezza e di emarginazione che la
depressione produce. Le trasformazioni
socio-antropologiche della modernità
comportano una crescente richiesta di
«essere performanti», concetto sul quale
insistono diverse dimensioni quali il tempo,
lo spazio, la scienza, la tecnologia, la
comunicazione, le relazioni. In questo senso,
tra i sintomi depressivi assumono maggior
rilievo l’ansia, l’insonnia e l’inibizione, che
provocherebbero un’incapacità di stare al
passo con la velocità del cambiamento, di
sentirsi se stessi e contemporaneamente
«performanti» nei modi e nei tempi dettati
dai canoni sociali attuali.
La perdita di iniziativa e l’inabilità
all’azione tendono a sostituire i sentimenti
depressivi di tristezza e di colpa, che hanno
caratterizzato la depressione in altri periodi
storici. Non più solo «sono colpevole», ma
soprattutto «sono incapace, inadeguato». Tale
incapacità a realizzarsi accentua il senso di
solitudine, di isolamento sociale e di
emarginazione che rende ancora più pesante
la sofferenza depressiva.
La nostra cultura e la nostra società
poggiano su fondamenta di progettualità,
motivazione, comunicazione: aree fortemente
deficitarie per il soggetto depresso, che si
sente incapace di pianificare e progettare
anche semplicemente la propria giornata, per
non parlare del futuro, che appare
inimmaginabile, inesistente, fuso con la
pietrificazione del presente. Questa peculiare
dimensione del tempo si associa
all’inibizione fisica e psichica, rappresentata
dalla fatica, dalla mancanza di energia, dalla
lentezza dei pensieri e dell’azione, dallo
svuotamento delle idee e finisce per rendere
impossibile il fare progetti e muoversi,
velocemente, verso il futuro.
Il depresso si sente, ed è, un «diverso»
rispetto agli standard di vita richiesti
dall’ambiente familiare, sociale e lavorativo:
la sua è una modalità di vita inconciliabile
con i modelli culturali e con le richieste di
efficienza che la nostra società impone e, di
conseguenza, egli percepisce uno sconforto
che lo fa sentire sempre più fallito, solo,
distaccato dalle relazioni sociali, fino a
provare in modo dolorosamente cosciente la
«fatica di essere se stesso».
Si parla di «stigma depressivo» per
indicare l’atteggiamento di rifiuto della
società nei confronti di un disturbo che non
vuole capire e accettare, in quanto la
condizione depressiva è esattamente
l’opposto di quello che ci si aspetta dalle
persone nel nostro sistema sociale. A volte, si
sviluppa uno stigma internalizzato, nel senso
che il depresso si vergogna di come è, «la
depressione è quello che sono», e per questo
si emargina dagli altri. «Sono uno sfigato»
dicono i giovani depressi.
L’autostigmatizzazione avviene quando la
persona accetta, spesso inconsapevolmente, e
internalizza il pregiudizio che la società ha
nei confronti di chi, essendo depresso, non
riesce a stare «al passo» con i ritmi e le
richieste del contesto in cui vive, l’idea che
avere la depressione rifletta una debolezza
caratteriale, che la depressione sia una
malattia genetica e pertanto incurabile.
I passaggi attraverso cui avviene tale
internalizzazione sono molto sfumati, spesso
impercettibili, e pertanto difficili da
individuare. Si comincia con l’essere
d’accordo con il pregiudizio: «I depressi sono
incompetenti e assolutamente non in grado
di stare al passo con compiti molto
demanding»; nel mondo del lavoro, per
esempio, il passaggio successivo è
consequenziale: «Io sono depresso,
quindi…».
Le ovvie conseguenze sono un ulteriore
danno all’autostima e al senso di self-efficacy,
di capacità ed efficacia personale, già
deficitari nella depressione: «Sono una
persona incompetente perché ho una
malattia mentale, la depressione, perciò non
potrò mai fare bene il mio lavoro». È l’effetto
che alcuni studiosi hanno chiamato why try. 6
Perché cercare di ottenere un lavoro o una
promozione? «Non lo merito, non sono in
grado» sono le risposte del depresso.
In sintesi, la questione dello stigma si
collega a un doppio concetto che nella
depressione diventa emblematico: «Sono un
peso per gli altri, gli altri mi considerano un
peso; mi sento diverso dagli altri, gli altri mi
guardano come un diverso». Lo stigma
depressivo è un marchio che fa male e che
spesso spinge le persone a ritirarsi ancora di
più dalla vita del mondo.
Altro aspetto rilevante è il concetto di
velocità: se è vero che «la modernità è
incentrata sull’accelerazione», 7 e che «la
modernità è velocità», 8 l’inibizione e la
paralisi temporale depressiva costituiscono
un ulteriore motivo di alienazione e di
perdita del senso del proprio posto nel
mondo. Il nostro è il tempo della mobilità e
della mobilità veloce; i nostri meccanismi di
adattamento si scontrano con le esigenze di
spostamento rapido, con i due parametri,
spazio e tempo, in continua contrazione.
Questa «accelerazione sociale», se da un lato
rappresenta un elemento centrale della
modernità, intesa come velocità di scambi, di
cambiamento e di comunicazione, dall’altro,
creando maggiore mobilità e distacco dallo
spazio materiale, può creare una
«alienazione» dallo spazio fisico, ovvero dal
mondo e dalle relazioni con esso.
La vicinanza sociale, mediata dai social
network, non sempre corrisponde alla
vicinanza reale; anzi, spesso le due cose
vanno in direzioni diametralmente opposte
nell’era della «globalizzazione digitalizzata»,
in cui lo spazio e il tempo sono «svincolati». 9
Nella depressione tutto è rallentato, anzi,
inibito nella sua organizzazione, percezione e
realizzazione: il pensiero, l’affettività, la
parola, l’azione. Il depresso si sente sbalzato
fuori da un treno in corsa e, tanto più questo
treno accelera, tanto più egli rimane ai
margini e sente che non riuscirà più a
risalirci. Abbiamo già detto che il tempo della
depressione è il presente, immobile e
doloroso: non esiste la proiezione nel futuro,
perché si tratta di una dimensione del tempo
ritenuta impossibile.
La «liquefazione» dei rapporti tra gli
individui, che Zygmunt Bauman considera
centrale nella modernità, 10 un allentamento
che li rende più superficiali ed evanescenti –
come diceva un paziente: «“Ci vediamo… Ci
sentiamo…”, e poi non è detto che ci si veda
o ci si senta…» – rappresenta un ulteriore
fattore di rischio per la depressione. In una
tale liquefazione dei rapporti interpersonali,
la difficoltà di avviarli e mantenerli può
rappresentare per il depresso un compito
relazionale troppo faticoso, e un ulteriore
aumento del senso di isolamento sociale, che
tratteremo in modo più approfondito
parlando di Internet.
Un altro aspetto interessante di questa
tipologia di modernità, intesa come velocità e
performance, è il fenomeno del «razzismo
dell’età», attualmente molto discusso nei
media. Il mito del successful ageing si
aggiunge ad altri miti sociali, della medesima
natura, tutti caratterizzati dal fatto di
contenere nel nome la parola «successo».
Successful ageing non corrisponde, come si
potrebbe credere, all’«invecchiare bene»,
equivale, invece, a mantenere standard di
performance fisiche e mentali appartenenti a
fasce di età inferiori, e a volte un po’ «tirate
per i capelli». Chi non riesce a stare al passo
con tali modelli, spesso veicolati dai media,
rischia di sentirsi not successful e, di
conseguenza, un fallito. La depressione ha tra
i suoi core symptoms l’idea di fallimento: chi
ne soffre può non solo interpretare il passare
del tempo e l’invecchiamento come un
vertiginoso avvicinarsi alla morte, ma
percepire la fisiologica riduzione dei livelli di
performance come un’ulteriore prova del
proprio essere un fallito. Lo scarto che si
verifica, nel momento in cui si soffre di
depressione, tra l’immagine depressa che
uno ha di se stesso e ciò che viene
costantemente riproposto dalle immagini
pubblicitarie e dai media in generale, dove i
modelli rappresentati sono, in qualsiasi età e
in qualsiasi situazione, capaci di risolvere
qualsiasi compito o problema, segnano in
maniera sempre più marcata il senso di
inadeguatezza e la paura di non risalire sul
treno della vita.

«Non mi sento più me stesso»


Mario è un uomo sulla trentina, di bell’aspetto,
single, impiegato in una società multinazionale
con una mansione che non lo gratifica, anzi
rappresenta uno dei principali motivi di
insoddisfazione. Ha molto successo con le donne e
diversi interessi, in particolare la musica: scrive,
ha formato e coordinato, nel corso degli anni,
diverse band, con le quali si è esibito in Italia e in
tour all’estero.
Quando «non si sente se stesso», tutto questo
passa in secondo piano, e Mario non riesce più a
fare niente, o fa le cose con grande fatica, anche
quelle che ama di più, come suonare o uscire con
le ragazze. «Quando non mi sento me stesso, cioè
smart, up, simpatico, veloce, spiritoso, mi
vergogno di tutto, anche di salutare una ragazza
che conosco al bar dell’ufficio; sono paralizzato
dalla paura di non sapere che cosa dire… anche
un semplice ciao non mi viene spontaneo. Ho
paura che le ragazze capiscano quanto sono
debole e non in forma, insicuro, e non mi trovino
attraente. Penso che è colpa mia se non le
attraggo, perché non ho facilità a parlare, non ho
la battuta pronta, non so proporre niente
rapidamente. Questo non sono io, non mi
riconosco così debole e imbranato. Mi sento me
stesso solo quando sono il contrario di così.»
Si può dire che nel caso di Mario il problema
psicologico da affrontare sia il confronto tra
queste due «parti di se stesso» che possiamo
definire sinteticamente «essere tutto, essere
niente». La miscela tra questi due opposti
sentimenti è il punto di equilibrio che Mario deve
ricercare per far sì che la sua qualità di vita sia
stabile e soddisfacente: «Ha ragione; ho capito che
non è necessario, per parlare con una ragazza,
essere un cavaliere senza macchia e senza paura.
Anche la mia armatura ammaccata può avere un
certo fascino».
Grazie alla psicoterapia, Mario imparerà ad
affrontare le situazioni relazionali importanti
riuscendo a dosare quella necessità «di
conquistare sempre tutti», dando alle frustrazioni
un significato relativo e non assoluto. Il percorso
terapeutico non sarà una progressione lineare, ma
la natura psicologica del suo problema farà sì che
debba passare del tempo prima che si arrivi a una
solida stabilizzazione.

La solitudine digitale
La società moderna tratteggiata nel paragrafo
precedente, veloce, liquida, «performante»,
induce per forza di cose a doversi adeguare
alla velocità di scambio delle informazioni,
della cultura, dei dati: requisito essenziale
per non sentirsi out, isolati, soli. Dunque,
l’uso di Internet, facilitando la velocità e la
connessione, risulta uno dei modi più utili,
oltre che immediati e alla portata di tutti, per
rimanere in touch, in contatto. In maniera
piuttosto contraddittoria, d’altro canto, la
vicinanza virtuale non sempre corrisponde ad
altrettanta vicinanza reale; anzi, spesso la
sostituisce, tanto che il termine social
network, che nella sua accezione originale di
«rete sociale» si riferisce a una rete fisica e
reale, oggi è utilizzato per fare riferimento a
una rete virtuale. Quando si parla di social
network, si pensa a questo e non alla rete
sociale che ogni individuo appartenente a
una società ha, o dovrebbe avere, intorno a
sé: famiglia, amici, scuola, ambiente
lavorativo, comunità religiosa.
Per certi aspetti, e soprattutto se ciò non
desse origine a confusioni o ambiguità di
significati, questo potrebbe rappresentare
un’evoluzione culturale importante,
un’aggiunta moderna all’altra rete, che ne
amplia i confini, consentendo un
arricchimento dell’informazione e della
comunicazione, e soprattutto un nuovo
sistema di contatti, definito many to many:
blog e web community facilitano uno
scambio partecipativo di comunicazione tra
gli utenti, diverso e innovativo rispetto al
passato, in quanto ogni utente scambia con
gli altri competenze e informazioni. La rete è
un luogo di incontri in cui, per esempio, i
single cercano un partner, in cui ci si può
nascondere per non essere soli, si può essere
«altri» rispetto a se stessi.
Il cambiamento epocale introdotto nella
comunicazione dallo sviluppo dei social
network ha prodotto delle modifiche alle
interazioni sociali, traghettandole da «uno a
uno» e «vis-à-vis» a «molti a molti». Non
sempre, però, alla quantità si associa la
qualità e, soprattutto, elementi che hanno
una declinazione così soggettiva come la
comunicazione e la relazione possono essere
omologati in termini generali, «globali».
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, e
a quello che dovrebbe essere il loro scopo
primario, i siti di social network spesso
possono diventare portatori di
allontanamento invece che di connessione, o
per meglio dire di «allontanamento
attraverso la connessione».
Le persone, grazie al social network che le
connette ad ampio raggio senza limiti di
tempo, non hanno più necessità di
incontrarsi e di discutere «faccia a faccia»,
fanno prima ad accendere il pc e collegarsi.
L’idea di avere tutto a portata di mano fa sì
che le giornate siano trascorse davanti al
computer senza incontri reali. In questo
senso, la comunicazione via web invece di
affiancare e integrare i rapporti personali ne
prende il posto, in alcuni casi
completamente, riducendo drammaticamente
il potenziale comunicativo della persona.
L’esito è una progressiva disabitudine al
contatto visivo, al linguaggio non verbale, a
tutto ciò che, in una parola, rappresenta
l’implicito della relazione interpersonale, e
l’integrazione a un’intersoggettività fondata
solo sulle parole scritte o viste in video. Forse
la domanda più corretta da farsi sarebbe:
come la rete sta cambiando il nostro cervello?
E ancora: esistono delle differenze tra il
cervello «adulto», non nativo digitale, e
quello dei ragazzi nati e cresciuti nell’era di
Internet?
La rete è stata definita come «la più
potente tecnologia di alterazione della mente
mai diventata di uso comune… la più potente
arrivata dopo il libro». 11 La funzione
maggiormente interessata da questo processo
di cambiamento sembra essere l’attenzione,
che da Internet viene «catturata per poi
essere dispersa». Questo aspetto, che può
apparire paradossale, avverrebbe in maniera
diversa nei ragazzi nativi digitali e negli
adulti, «adottivi digitali». In questi, l’uso
della rete sembra innescare un processo di
rimodellamento della capacità di
approfondire, di concentrarsi, una sorta di
«superficializzazione» del pensiero che si
contrappone alla verticalizzazione in
profondità. Di questo gli adulti si rendono
conto e alcuni hanno paura di perdere il
proprio modo di pensare, di leggere, di
concentrarsi, così come, alla nascita della
scrittura, si ebbe il timore che avrebbe
causato la perdita della memoria, che non
sarebbe stata più esercitata dalla
trasmissione per via orale. Altri, al contrario,
suggeriscono che l’allenamento a mettere
insieme frammenti di informazioni possa
portare a un arricchimento e a una maggiore
articolazione della profondità dei processi di
pensiero. Il cambiamento, comunque, è
indubbio ed evidente. Ancora più evidente e
radicale nei giovani, i quali non assistono a
un viraggio da una modalità di pensiero a
un’altra, ma imparano direttamente a pensare
in un modo nuovo.
I nativi digitali sono umani multitasking,
riescono cioè a svolgere più operazioni
contemporaneamente. Questo, però, non
coincide con un aumento delle loro capacità
cognitive: i nativi digitali «distribuiscono
attenzione» su una dimensione temporale
dilatata, al punto che sembrano distratti. Come
accade anche per altre situazioni di interesse
clinico, questo cambiamento massiccio e
generalizzato nelle modalità di relazione
sociale, e non solo, può avere un effetto
«epigenetico» sul nostro cervello,
modificando permanentemente il modo in
cui i geni lavorano, con effetti sulle
performance mentali. 12
Tutto ciò corrisponde, a livello cerebrale, a
una nuova configurazione delle reti neuronali
dell’apprendimento, e, nell’adulto, a un
cambiamento dell’attività cerebrale connessa
con l’attività intellettuale, evidente
soprattutto a livello dei lobi frontali e
prefrontali. La plasticità cerebrale fa sì che il
cervello si sviluppi in modalità «funzione-
dipendente»: se la modalità di apprendere,
pensare, leggere cambia, la migrazione, le
connessioni e le reti neuronali cambieranno a
loro volta, dando vita a «cervelli differenti».
Tutto questo rende necessario definire un
«nuovo scenario delle relazioni
interpersonali». 13 Infatti, lo stesso
cambiamento che la rete induce sul «cervello
cognitivo» si verifica anche per quanto
riguarda il «cervello relazionale». Le nuove
modalità di formare rapporti sia individuali
sia di gruppo determinano cambiamenti di
struttura e funzione nelle aree cerebrali
deputate alla relazionalità, assetti endocrini
diversi, modifiche del sistema immunitario.
La diversa significatività che la presenza
della rete conferisce ai concetti di solitudine e
di socialità può creare una nuova via di
accesso alla depressione.
Pertanto, come si collegano Internet e i
social network alla depressione? Esiste un
tramite specifico che lega la depressione
all’uso e all’abuso di Internet? La rete ci può
spingere verso la depressione o la
depressione spinge a rimanere impigliati
nella rete? Se, come abbiamo visto, i
principali nuclei psicopatologici della
depressione riguardano la vergogna di
esistere e di mostrarsi all’altro, il senso di
inettitudine, di abbandono e di perdita,
Internet e i social network possono
contribuire ad alimentarla attraverso i
sentimenti di solitudine e isolamento sociale
che producono.
Possiamo dire che l’elemento condiviso tra
l’uso di Internet e la depressione è proprio la
solitudine. Va sottolineato, in modo
estremamente chiaro, che la solitudine è
l’elemento psicoesistenziale che può portare
a un uso patologico di Internet, a sua volta
capace di rafforzare la condizione
psicopatologica. La solitudine, non solo
quella reale ma anche quella percepita, è
considerata l’aspetto più propriamente
psichico dell’isolamento sociale, esprime
l’insoddisfazione soggettiva rispetto alla
qualità e all’intensità della propria vita
relazionale o la discrepanza esistente tra le
relazioni sociali che il soggetto ha e quelle
che invece vorrebbe avere.
Facebook è basato sulla «paura della
solitudine in un mondo fatto di relazioni
fragili: una risposta alla paura che le persone
hanno di essere rifiutate». 14 Questa
considerazione sembra suffragata dai
risultati di alcuni sondaggi recenti (effettuati
dall’organizzazione «Relationships Australia»
nel 2011), secondo i quali il sentimento di
solitudine percepita cresce all’aumentare
degli strumenti di comunicazione tecnologici
utilizzati (Facebook, Twitter, blog, email). È
risultato che coloro che più spesso si sentono
«soli» sono più propensi a usare Facebook
per comunicare con amici, familiari e
potenziali partner rispetto a coloro che
raramente o mai si sentono soli.
Allo stesso modo, i dati di uno studio
recente condotto su 1400 studenti di scuole
medie superiori indicano che il 47,3% di
questi è/si sente solo, e che questa solitudine
risulta correlata in maniera significativa con il
numero di amici su Facebook: più solitudine,
più amici. 15 Sicuramente per chi si sente solo
Internet rappresenta un ambiente ideale e
controllabile, emotivamente non esigente, in
cui incontrare gli altri: una fuga dal
confronto.
La solitudine cronica, definita dai
massmedia un silent killer e considerata come
uno dei più grandi problemi futuri di salute
pubblica per le proporzioni epidemiche che
ha raggiunto nella nostra società, può avere
conseguenze sulla salute mentale, generando
ansia, depressione e abuso di sostanze, oltre
a essere un fattore di rischio per le malattie
cardiovascolari.
L’uso della tecnologia come
compensazione di «qualcos’altro che manca»
emotivamente e affettivamente è un
fenomeno che va crescendo sempre di più,
soprattutto tra bambini e adolescenti. In
realtà, vale anche il contrario. Per esempio,
Facebook fa aumentare la sensazione che
nella propria vita «manchi qualcosa»: si tratta
quindi di un circolo vizioso. A maggior
ragione nel momento in cui un giovane si
troverà in una condizione depressiva, l’uso di
Internet potrà rappresentare il mezzo
attraverso il quale «mantenere» la condizione
depressiva. Apparentemente si sentirà meno
solo, meno in difficoltà, in realtà accadrà
esattamente l’opposto, perché l’uso della rete
è «patologicamente rasserenante».
Un ultimo accenno meritano alcuni
approcci psicoterapeutici moderni alla
depressione, che propongono l’utilizzo di
Internet nella terapia. Sempre più si
diffondono app per l’autogestione della
depressione. È evidente che tutte queste
applicazioni andranno valutate per
verificarne l’efficacia, in senso sia terapeutico
sia psicoeducazionale.
«Mio figlio ormai vive online»
Gianni ha 13 anni, è stato promosso in terza
media e ha un gruppo di amici con cui studia,
esce, fa sport. Il padre lo definisce un ragazzo
molto preciso e meticoloso nel programmarsi le
uscite, i divertimenti, le incombenze scolastiche:
«Ha preso dalla madre; basta guardare come è
ordinata casa nostra… nulla è fuori posto».
I problemi sono cominciati con l’inizio
dell’estate, quando ha iniziato a passare molto
tempo davanti al computer. «Da quando è finita
la scuola, ha presentato un’inarrestabile voglia
di giocare ai videogame. Se prima giocava al
massimo due ore e poi interrompeva, più o meno
spontaneamente, adesso passa davanti ai
videogiochi almeno otto ore al giorno.» Gianni ha
sviluppato una predilezione per i videogame di
guerra e le piattaforme di gioco online. I genitori
dicono che la piattaforma è costituita da un
gruppo di 4-5 persone di diversa nazionalità ed
età, sempre le stesse, che però lui non conosce.
Gianni, a poco a poco, è rimasto sempre più
attratto da questi giochi: passa sempre più tempo
a giocare, non esce con gli amici, se non per due
ore quando il gruppo di giocatori online non è
connesso. Preferisce rimanere chiuso nella sua
stanza davanti al computer piuttosto che
frequentare la scuola calcio che prima amava
tanto. Anche gli altri interessi sono scomparsi.
È irritabile, irascibile, non rispetta più le
regole della casa. Passa tutta la giornata in
camera sua; ormai si lava sempre meno e non ha
più cura dei capelli a cui prima teneva tanto.
Talvolta si siede a tavola con i genitori: dopo
essersi lamentato di quello che ha cucinato la
madre ingurgita qualcosa per poi «scappare
subito e tornare immediatamente davanti alla
consolle». Più spesso porta il piatto in camera sua
e consuma i pasti continuando a giocare.
I genitori dicono: «È diventato aggressivo…
sia verbalmente sia fisicamente. Mi ha aggredito,
facendomi anche male, quando ho provato a
interrompere il gioco». «Ha insultato la madre…
più volte… non lo aveva mai fatto… non è da lui.
Addirittura negli ultimi giorni, nei rari momenti
in cui non gioca, tende a riprodurre con le mani e
le dita i movimenti che fa con il joystick, come a
non voler perdere l’allenamento. Io e mia moglie
non ce la facciamo più… ci abbiamo provato in
tutti i modi sia con le buone sia con le cattive.
Nostro figlio ha bisogno d’aiuto, noi abbiamo
bisogno di aiuto…»
Gianni si difende: «Sono loro che non
capiscono, il gioco per me è tutto, già diverse volte
sono arrivato primo ai tornei». «Lì ho successo,
non mi annoio come quando sto con gli altri e non
rischio di fare brutte figure e di dovermi
difendere.»
Lo sforzo terapeutico sarà quello di far uscire
Gianni dalla sua stanza, portandolo a
confrontarsi con la realtà esterna che, in questo
momento della vita, rappresenta per lui una fonte
di paura. Il messaggio che i genitori e Gianni
dovranno accettare è che «ci vorrà tempo», per
superare queste difficoltà. La psicoterapia avrà
successo se sarà seguita con costanza e senza
avvilirsi nelle fasi in cui sembrerà non riuscire ad
aiutare Gianni nelle sue difficoltà relazionali.
Molto utile si rivelerà anche un intervento
riabilitativo di psicoeducazione familiare.
Ciascun membro sarà ascoltato e sostenuto nelle
proprie difficoltà e l’intero gruppo familiare
imparerà a utilizzare tecniche più funzionali per
gestire il comportamento di Gianni e ristabilire
una maggiore serenità in casa.

La depressione ai tempi della crisi


Il rapporto tra crisi economica e depressione
è apparentemente ovvio. Il fatto che una
persona viva delle condizioni economiche
svantaggiose e critiche non può che influire
negativamente sullo stato dell’umore, ma non
è detto che la tristezza, l’avvilimento e lo
sconforto si traducano in uno stato
depressivo patologico. Noi tutti possiamo
utilizzare i nostri meccanismi di resilienza
per reagire alle situazioni di grave difficoltà.
Cerchiamo ora di capire qual è il legame fra
crisi economica e salute mentale, in
particolare con la depressione.
L’ultima crisi economica, iniziata nel 2008,
oltre ad avere avuto un impatto devastante su
alcuni indici come il reddito medio pro capite
e il tasso di disoccupazione, ha avuto effetti
importanti anche sulla salute mentale, con
aumento della diffusione di disturbi psichici
e conseguenti ricadute sul funzionamento
personale, familiare e sociale. In Italia il
rischio di povertà si è attestato intorno al
28,3% nel 2015, in crescita rispetto agli anni
precedenti, e parallelamente si sta
verificando un aumento dell’incidenza di
nuovi casi di depressione e del rischio
suicidario.
Ma chi subisce maggiormente gli effetti
psicologici della crisi? E quali sono gli
elementi a essa connessi che con maggiore
frequenza e probabilità determinano un
peggioramento della salute mentale?
Per quanto riguarda l’aumento dei nuovi
casi di depressione, la maggior parte degli
studi rileva che le principali determinanti
sociali della sintomatologia depressiva sono il
reddito, il livello scolastico e la
disoccupazione. I soggetti con reddito più
alto e livello scolastico superiore hanno una
probabilità minore di essere depressi. Per i
disoccupati e i soggetti con scolarità inferiore
accade il contrario. Sul profilo di genere ci
sono opinioni contrastanti, perché alcuni
indicano un maggior rischio per le donne,
altri per gli uomini. Probabilmente, queste
differenze di genere derivano dal fatto che le
donne si «autodenunciano», cosa che gli
uomini fanno molto meno, per un
meccanismo misto di orgoglio e vergogna,
per non poter ottemperare al proprio ruolo
tradizionale di capofamiglia.
Lo stato civile diventa un’altra
determinante importante: i single hanno una
probabilità minore di soffrire di sintomi
depressivi rispetto ai coniugati. Rimanere
vedovi o essere divorziati aumenta il rischio
di depressione.
Questi dati vengono spiegati in relazione
all’importanza dei legami familiari, in quanto
la responsabilità di una famiglia può
accentuare gli effetti negativi della crisi sulla
salute mentale. I vedovi e i divorziati, invece,
si ammalerebbero perché in questo caso
entrerebbe in gioco la perdita protettiva del
legame familiare e il dover ricostituire una
nuova identità affettiva e autonomia
personale.
Relativamente al rischio di ricadute in
soggetti già affetti da disturbi depressivi, la
maggior parte dei dati indica un incremento
di depressione e di ansia anche tra chi non ha
perso il lavoro. Questo può essere messo in
relazione con diversi fattori, come
l’insicurezza di mantenere il proprio posto e
il fatto che per mantenere l’impiego spesso
bisogna accettare una riduzione dello
stipendio, con conseguenze sugli impegni
economici presi. Inoltre, bisogna tener
presente che le incertezze economiche sulle
pensioni stanno provocando una grande
sofferenza esistenziale. L’insicurezza
lavorativa e lo spauracchio della
disoccupazione determinano una perdita di
speranza e di fiducia nel futuro. Lo «status di
disoccupato» può peggiorare ulteriormente
questo scenario, aggiungendo sentimenti di
vergogna e indegnità, emarginazione ed
esclusione sociale. Tutto questo va ad
aggravare le conseguenze pratiche della
disoccupazione e può aumentare fortemente
il rischio di ricadute depressive.
In realtà, anche se nessuno studio ha mai
riscontrato una correlazione causale tra
distress finanziario e depressione, si parla di
«ciclo negativo di povertà e salute mentale».
L’ipotesi è che la condizione delle persone in
difficoltà economiche è destinata a
peggiorare, perché peggiorerà lo stato della
loro salute mentale, che a sua volta renderà
sempre più difficile mettere in atto
meccanismi di reazione per cercare di uscire
dalla condizione di difficoltà: la crisi accresce
il disagio psichico, il disagio psichico accresce
la crisi. Un altro fattore che entra nel ciclo,
contribuendo ad aggravarlo, è l’abuso di alcol,
spesso in comorbilità con la depressione. La
perdita del lavoro può favorire un incremento
dell’uso di alcol, con aumento dei sentimenti
di hopelessness, solitudine, isolamento sociale
e depressione. In caso di perdita del lavoro o
del reddito, gli uomini sono più inclini alle
ricadute rispetto alle donne.
Infine, ultima ma non ultima, rimane la
spinosa questione della correlazione tra crisi
economica e suicidio, tentato o riuscito. Se il
rapporto tra suicidio e depressione è noto,
più problematico è stabilire se nel momento
in cui la persona vive una condizione di crisi
economica, il suicidio avvenga per la
presenza dello stato depressivo, o sia
determinato da spinte impulsive non sempre
di tipo depressivo. Spesso il clamore suscitato
da questi drammatici avvenimenti crea una
tale confusione mediatica che non si riesce a
capire quali siano i diversi fattori che hanno
operato fino a determinare un gesto così
tragico.
Il suicidio legato alla crisi economica è a
prevalenza maschile. Fra le varie categorie
professionali, quelle più a rischio sembrano
essere quella del manager e
dell’imprenditore, probabilmente perché più
di altri affidano al lavoro ambizioni di
successo sociale e di soddisfazione
professionale. In questo caso, la perdita del
lavoro corrisponde alla perdita dell’identità, e
se non esistono dei «salvagente» affettivi,
sociali o delle risorse personali investite in
altri settori, il rischio di depressione, e anche
di suicidio, cresce. La reale perdita del lavoro
o il timore che ciò avvenga determinano una
voragine emotiva che non tutti sono in grado
di colmare o di riparare.
Ritorna in questo caso il sentimento di
solitudine, di isolamento sociale, osservato
anche dagli studiosi di economia: «La
solitudine di chi si trova improvvisamente
confinato in casa, privato della propria
identità ed escluso dalla rete di relazioni
nella quale ha investito buona parte della
propria affettività oltre che del proprio
impegno lavorativo». 16
Perché non tutti si suicidano? E quali sono
le «vie» che dalla crisi economica portano al
suicidio? Una è quella depressiva, come si è
detto. Un’altra è più diretta, appare legata
all’impulsività caratteriale e spesso si verifica
nelle primissime battute dopo il breakdown
economico: lo «stress economico» che
all’inizio della crisi provoca le sofferenze dei
mercati azionari, producendo fallimenti e
ingenti perdite, induce impulsi suicidari.
D’altro canto, la recessione può
determinare fallimenti economici, che
portano con sé la minaccia, o la certezza, che
si ripeteranno nel lungo periodo. Questo può
provocare suicidi legati a un altro
meccanismo meno impulsivo, che passa
attraverso il senso di indegnità, di perdita
della speranza, dello status sociale e dei
propri scopi. La disoccupazione, ancora una
volta, soprattutto quella di lunga durata, è il
fattore sociale che maggiormente si lega al
suicidio e al tentativo di suicidio, anche
indipendentemente dalla presenza di
depressione o di altri disturbi psichici. Una
ricerca inglese stima che, in un periodo che
parte dalla recessione del 2008, a ciascun 10%
di incremento annuale del tasso di
disoccupazione maschile corrisponde un
incremento dell’1,4% del tasso di suicidi nel
sesso maschile. 17
Fondamentale ago della bilancia è il ruolo
che può svolgere la famiglia. L’impatto della
crisi economica, e del sovvertimento
sociofamiliare che ne può derivare, è ben
spiegato nel modello Family Stress. Gli
stressor economici portano distress
psicologico, umore depresso e irritabilità in
tutti i membri della famiglia, con aumento
della conflittualità coniugale e, di
conseguenza, con un impatto negativo sulla
funzione genitoriale e sulla crescita dei figli.
L’effetto negativo sui bambini è considerato
alla stregua di un fattore di rischio sociale per
lo sviluppo di una futura patologia mentale.
Le donne in gravidanza, esposte a questi
sovvertimenti e conseguenti disagi
psicologici, possono trasmettere al nascituro
lo stress percepito.
Un caso particolare è rappresentato da
quelle famiglie in cui la madre, che in
precedenza si occupava full time dei figli, è
stata costretta a entrare nel mondo del lavoro
a causa di difficoltà economiche o per la
precarietà del lavoro del compagno. Alcuni
dati indicano che gli effetti negativi della
recessione economica sul sistema familiare
potrebbero indurre un aumento del tasso di
suicidi nei bambini e negli adolescenti.
Un’importante funzione tampone, che
limita gli effetti della crisi sulla salute
mentale, è svolta dal supporto sociale, che si
compone di diversi elementi e può essere di
vario genere: «strutturale», l’entità della rete
sociale e la frequenza delle interazioni sociali;
«funzionale», la percezione che le relazioni
sociali siano utili in termini di necessità di
incontro; «emozionale», l’insieme dei
comportamenti che inducono un senso di
conforto nella persona che li riceve,
rassicurandola di essere amata, rispettata e
tenuta in considerazione dagli altri;
«cognitivo», l’insieme dei consigli o delle
indicazioni operative che aiutino ad
affrontare le difficoltà. Questi diversi aspetti
sono veicolati e mantenuti da vari sistemi: la
famiglia, le comunità e le organizzazioni
nazionali e internazionali.
Così scriveva Simone Weil: «La crisi ha
spezzato tutto ciò che consente a ogni uomo
di porsi fino in fondo il problema del proprio
destino, ovvero le abitudini, le tradizioni, la
stabilità della struttura sociale, la sicurezza.
Soprattutto i giovani, appartengano essi alla
classe operaia o alla borghesia, per i quali la
crisi costituisce lo stato di cose normale,
l’unico che abbiano conosciuto, non possono
neppure immaginare un fatto che si riferisca
a ciascuno di loro personalmente… nessuno
spera di poter conservare o trovare un posto
grazie al proprio valore professionale.
Potrebbero forse cercare una consolazione
nella vita famigliare? Tutti i rapporti
all’interno della famiglia sono inaspriti dalla
dipendenza assoluta in cui si trova il
disoccupato rispetto al membro che
lavora». 18

«Mi sento in trappola»


Franco è un uomo di 35 anni, sposato, con due
figlie piccole. Ha già sofferto di depressione,
all’inizio della sua vita lavorativa. Da un paio di
anni ha perso il lavoro, e la famiglia si sostenta
con quello part time della moglie e, soprattutto,
con un grande sostegno dei genitori di Franco.
«Mi sono ridotto ad aver doppiamente paura che i
miei genitori muoiano, sia per l’affetto che provo
nei loro confronti, sia perché so che allora sarebbe
la fine per me, non potrei più pagare il mutuo,
che cosa succederebbe alle mie bambine?»
L’atmosfera in famiglia è molto tesa, Franco si
sente inadempiente e questo spesso lo rende
irritabile e verbalmente aggressivo nei confronti
della moglie e delle figlie. Soprattutto con loro
Franco si sente profondamente in colpa per quelli
che chiama «scatti immotivati»: «Sono sempre
stanco, anche se non lavoro devo badare a loro
mentre mia moglie non c’è, mi sento in trappola,
dovrei fare dei giri per una nuova attività che sto
cercando di mettere in piedi ma devo aspettare che
mia moglie torni. Per questo a volte scatto. Poi
mi sento male, mia figlia maggiore mi dice che
sono cattivo, io cerco sempre di spiegarle perché
faccio così, le chiedo scusa, ma non riesco a
trattenermi». Franco è ingrassato quindici chili
dopo la perdita del lavoro, dice che mangiare è
l’unica cosa che gli dà piacere in questo momento;
fra l’altro è un ottimo cuoco e cucinare lo rilassa
molto. Poi però l’aspetto fisico diventa un
ulteriore motivo di insoddisfazione, avendo anche
un ruolo negativo nei rapporti coniugali, già non
facili.
La moglie lo accusa di avere «buttato» i soldi
in stupidaggini, nel momento in cui le cose
andavano bene, e di non essere in grado di tenersi
i lavoretti che ogni tanto trova, a causa del suo
brutto carattere. «Si sente delusa da me, è molto
stanca perché si occupa del lavoro e della casa,
corre continuamente e vorrebbe andare in
vacanza, ma non ce lo possiamo permettere.» In
alcuni momenti Franco pensa di «farla finita», si
sente stanco di combattere ogni giorno da quando
si alza a quando va a dormire, vorrebbe non
risvegliarsi più, e questo pensiero, che vive come
«una via d’uscita», una liberazione dalla
trappola in cui sente di divincolarsi, lo fa sentire
ancora più colpevole e indegno: «Penso alle mie
bambine e mi sento uno schifo di padre, forse
starebbero veramente meglio se io non ci fossi
più».
Franco decide di tornare dalla dottoressa che lo
aveva curato per il precedente episodio depressivo.
Il rapporto di fiducia che avevano gli consente di
chiedere una visita nonostante non possa pagare.
Il lavoro psicoterapeutico consisterà nel riuscire a
separare le reali problematiche della vita dai
vissuti depressivi che investono la percezione del
mondo, rendendo tutto impossibile da affrontare e
da risolvere. La «difficoltà» non è
«impossibilità». Franco ha 35 anni e diverse
risorse interne a cui poter attingere per andare
avanti; la mancanza di fiducia in se stesso gli
impedisce di vedere le possibili vie di uscita. Del
tutto casualmente, ma «casualmente» proprio nel
momento in cui comincia a sentirsi meno
sopraffatto, inizia una nuova avventura
lavorativa, accettando di fare l’aiuto cuoco in una
trattoria. «Ho cominciato da una settimana…
Non è un grande ristorante, però mi diverto
tanto.»

«Mi sembra di soffocare»


Gloria è un’avvocatessa di successo; in passato ha
sofferto di depressione da cui è uscita aiutandosi
con una psicoterapia e con degli antidepressivi. È
una donna di grande iniziativa e spirito
battagliero; tuttavia, nel corso dell’ultimo anno,
nel suo animo si ripresentano aspetti depressivi,
legati ad alcune problematiche affettive, fine di
un rapporto, e all’organizzazione del suo studio
professionale. Ultimamente i clienti tardano nei
pagamenti, le spese aumentano, una segretaria
efficiente si è licenziata. La crisi economica ha
trasformato il lavoro, obbligandola ad accettare
tante piccole cause per sopperire alla mancanza
dei grandi procedimenti che prima
caratterizzavano la sua attività.
Gloria si sente stanca, disarmata di fronte alla
necessità di dover lavorare sempre di più,
trascurando così la sua vita personale, e non
riesce a definire una strategia per fronteggiare le
difficoltà che la vita le pone davanti. «Entro nello
studio e mi sembra di soffocare dalle pratiche,
tutto è in disordine, nessuno rispetta le scadenze.
Ho visto il mio conto in banca, non riuscirò a
pagare gli stipendi di fine mese. Mi pare di aver
sbagliato tutto, dormo male, mi sveglio di notte
pensando al mio studio vuoto e al fatto che non
ho neanche i soldi per pagare il mutuo. Forse
dovrò vendere tutto.»
Nel caso di Gloria, si sta creando un cocktail di
emozioni negative particolarmente pericoloso.
Sono presenti in lei tanto sentimenti depressivi
che le fanno vedere la situazione molto più nera
di quanto non sia, quanto problematiche
lavorative reali che costituiscono un’ulteriore
aggravante. Bisognerà intervenire rapidamente
per ricostituire un equilibrio nella vita interiore
di Gloria, che le consenta di sfruttare le sue
capacità e risorse, la sua resilienza per
contrapporsi al periodo di crisi.
In particolare, dovrà confrontarsi con un
passaggio di crescita attraverso il quale intense
fantasie infantili, come quella di vivere in un
«mondo fiabesco con principi e orchi, dove i
problemi si risolvono con la bacchetta magica»
lasceranno il posto a sentimenti più maturi.
L’angoscia di non farcela è nel suo caso
soprattutto una paura infantile che indebolisce la
«parte adulta» che si deve confrontare con gli alti
e bassi della vita.
Riflessioni finali

Alcune volte, durante la visita, i pazienti


chiedono: «Ma ha mai visto altre persone che
stanno male come me? Non credo possa
capirmi». In questo modo, cercano non solo
di valutare chi hanno di fronte, ma
soprattutto di sapere se l’intensità della loro
sofferenza è comunicabile, se chi ascolta
intuisce e rispetta il loro star male. La paura è
quella di non essere capiti, ma giudicati solo
per ciò che dicono: «Non ho appetito… Sono
stanco… Non mi va di far niente…», e alla
fine essere inquadrati in una diagnosi.
Dolore, solitudine, sofferenza, tristezza
sono quattro sentimenti legati assieme dal
mastice della depressione. La depressione è
una sorta di colla che una persona si sente
cadere addosso e che la blocca, alcune volte
completamente, impedendone i movimenti e
rallentando la spinta vitale. Questa è una
delle immagini che ho in mente quando parlo
con una persona depressa; mi chiedo allora
quale sia il solvente più adatto per sciogliere
il mastice depressivo e liberarla.
Nel tempo mi sono convinto che bisogna
fare una cosa semplice: imparare ad ascoltare,
riuscire a entrare nella vita di quella persona,
andando oltre la descrizione dei sintomi,
frequentemente riferiti in modo meccanico e
senz’anima. La depressione spersonalizza i
pensieri, che diventano molto simili in tutti i
depressi, la sintomatologia prende il posto
della capacità di pensare, non consente idee
alternative e «suona sempre la stessa triste
musica». Il problema vero è mettersi in
contatto con ciò che vi è oltre queste
manifestazioni, trovare un modo di
intendersi su cosa vuol dire per quella persona
avere la depressione.
Chi è depresso tende a rimpiangere quello
che era «prima»; ma spesso questo è un
ricordo falsato dalla depressione e dall’idea
della perdita irreparabile di se stessi. In
realtà, niente è perso; la depressione
nasconde la nostra identità, è una grande
ingannatrice che fa sparire le capacità e fa
credere di non essere più in grado di fare
niente («Mi sento scema»).
Nella depressione vi può essere l’idea che
«bisogna svegliarsi da un brutto sogno» e che
tutto passi senza doversi impegnare per
guarire. Lo schermo della sintomatologia può
essere visto come una prima trincea eretta,
inconsapevolmente, a difesa del territorio più
interno e nascosto in cui si sono arroccati gli
elementi del nucleo depressivo: la rabbia, la
perdita, la paura, la vergogna, le motivazioni
personali. Bisogna connettersi con questo
nucleo, che si trova in una zona senza campo,
evitando di dire banalità («Forza, puoi
farcela!», «È solo questione di volontà.
Reagisci…»), ma trovando il modo adatto per
farlo. Michael Jordan ha detto: «Posso
accettare di fallire, chiunque fallisce in
qualcosa. Ma non posso accettare di non
tentare». Nella depressione il primo passo da
fare è riuscire a decidere che bisogna tentare,
che qualcosa dentro di noi è ancora in grado
di reagire, che si può recuperare una capacità
di pensare. Riconnettersi con i propri pensieri
e con quelli del terapeuta è un elemento di
cura necessario.
Un altro passaggio importante è chiedersi
perché la depressione è arrivata proprio in
quel particolare momento della vita. La
depressione appartiene alla storia personale,
è collegata al mondo reale e alle vicissitudini
dei periodi della vita e in tale contesto va
collocata. Il rapporto tra creatività e
depressione si sviluppa quando si tenta di
ricostruire quello che sentiamo perso e
distrutto.
A volte, non dire nulla ma far capire di
esserci vale molto di più di tante parole inutili.
Accogliere, dare fiducia, si possono far sentire
con gesti semplici e con frasi indirette che
fanno percepire e trasmettono la
«condivisione e comprensione emotiva» di
quello che il paziente sta vivendo. La
relazione terapeutica si sviluppa partendo dal
far capire che si può lavorare insieme e che
per riemergere servirà del tempo. Il fattore
tempo costituisce un altro aspetto centrale
della cura: la depressione rallenta e dilata il
tempo, ma il depresso vuole guarire subito,
non vuole aspettare. Nella ricerca dei risultati
della terapia non bisogna mai avere fretta: è
necessario «avere un po’ di pazienza», non
avere l’angoscia del risultato. Un buon
terapeuta deve avere la forza di reggere
l’angoscia del risultato. Anche i familiari
devono rendersi conto che i cambiamenti
sono difficili da raggiungere e che il lavoro
terapeutico è lungo e pieno di difficoltà.
La depressione spinge verso una vita
subacquea, a vivere in una profondità
schiacciante. Per riemergere si deve imparare
a trattenere il fiato per poi tornare a
respirare. Scrive Tagore: «L’uomo ha dentro
di sé il silenzio del mare, lo strepitio della
terra e la musica dell’aria». La vita è tutto
questo! Da parte nostra, nel momento in cui
siamo di fronte alla depressione, possiamo
immaginare di essere davanti a un abisso che
allontana gli altri elementi vitali: terra e aria.
Per ritrovarli bisognerà risalire in superficie.
Note

I. Che cos’è la depressione


1. Simonetta Piccone Stella, Cortocircuito, Venezia,
Marsilio, 1995, p. 137.
2. Sigmund Freud, Inibizione, sintom o e angoscia
(1925), trad. it. in «Opere», Torino, Boringhieri,
1978, vol. X, p. 315.
3. Eugenio Borgna, L’indicibile tenerezza. In
cam m ino con Sim one Weil, Milano, Feltrinelli,
2016.
4. Søren Kierkegaard, La m alattia m ortale (1849),
trad. it. Roma, Newton Compton, 2004.
5. Fernando Pessoa, Libro dell’inquietudine (1982),
trad. it. Torino, Einaudi, 2014, p. 307.
6. Eugène Minkowski, Il tem po vissuto.
Fenom enologia e psicopatologia (1933), trad. it.
Torino, Einaudi, 1968.
7. Ignacio Matte Blanco, L’inconscio com e insiem i
infiniti: saggio sulla bi-logica (1975), trad. it.
Torino, Einaudi, 2000.
8. Joseph Conrad, Cuore di tenebra (1899), trad. it.
Milano, Mondadori, 1999, p. 249.
9. Yves Hersant, Mélancolies. De l’Antiquité au XXe
siècle, Paris, Robert Laffont, 2005.
10. Aldo Bonomi e Eugenio Borgna, Elogio della
depressione, Torino, Einaudi, 2011, p. 90.
11. Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi.
Depressione e società (1998), trad. it. Torino,
Einaudi 1999.
12. Il DS M è pubblicato negli Stati Uniti
dall’American Psychiatric Association. In Italia è
stato tradotto solo a partire dalla terza edizione
(DS M -III ). La traduzione dell’ultima edizione, il
DS M -5 , è stata pubblicata nel 2015 dall’editore
Raffaello Cortina.
13. J. Alonso, M.C. Angermeyer, S. Bernert et al.,
Prevalence of Mental Disorders in Europe: Results
from the European Study of the Epidem iology of
Mental Disorders (ESEMED ) Project, in «Acta
Psychiatr Scand Suppl», 2004, pp. 21-27.
14. V. Patel, D. Chisholm, R. Parikh et al.,
Addressing the Burden of Mental, Neurological e
Substance Use Disorders: Key Messages from
Disease Control Priorities, 3rd edition, in
«Lancet», 387, 2016, pp. 1672-1685.
15. «Un viaggio di 100 anni nella mente», Il forum
delle Neuroscienze, Roma, Accademia Nazionale
dei Lincei, 3 dicembre 2015.

II. La diagnosi
1. T. Insel, The N I M H Research Dom ain Criteria
(RD oC ) Project: Precision Medicine for Psychiatry,
in «Am J Psychiatry», 171, 2014, pp. 395-397.
2. G. Beard, Neurasthenia, or Nervous Exhaustion, in
«The Boston Medical and Surgical Journal», 1869,
pp. 217-221.
3. M. Greenblatt, Psychiatry: The Battered Child of
Medicine, in «New England Journal of Medicine»,
292, 1975, pp. 246-250.
4. G. Engel, The Need for a New Medical Model: A
Challenge for Biom edicine, in «Science», 196, 4286,
1977, pp. 129-136.
5. Sigmund Freud, Lutto e m elanconia (1917), trad.
it. in «Opere», Torino, Boringhieri, 1976, vol.
VIII, p. 105.
6. Kurt Schneider, Psicopatologia clinica (1946), trad.
it. Roma, Città Nuova, 1983.
7. American Psychiatric Association, Diagnostic and
Statistical Manual of Mental Disorders, DS M -II ,
American Psychiatric Association, Washington,
DC , p. 40.
8. Gaspare Vella e Alberto Siracusano, La
depressione. Dim ensioni e categorie, Roma, Il
Pensiero Scientifico Editore, 1994.
9. American Psychiatric Association, Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi m entali, quinta
edizione (DS M -5 ) (2013), trad. it. Milano,
Raffaello Cortina, 2015, pp. 185-187.
10. S. Freud, Lutto e m elanconia, cit.
11. N.E. Rosenthal, D.A. Sack, J.C. Gillin et al.,
Seasonal Affective Disorder. A Description of the
Syndrom e and Prelim inary Findings with Light
Therapy, in «Arch Gen Psychiatry», 41 (1), 1984,
pp. 72-80.
12. Altan, Tunnel, Roma, Gallucci, 2011.
13. E.I. Fried, S. Epskamp, R.M. Nesse et al., What
Are «Good» Depression Sym ptom s? Com paring
the Centrality of DSM and non-D SM Sym ptom s of
Depression in a Network Analysis, in «J Affect
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14. G. Parker, S. McCraw e A. Paterson, Clinical
Features Distinguishing Grief from Depressive
Episodes: A Qualitative Analysis, in «J Affect
Disord», 176, 2015, pp. 43-47.
15. Altan, Tinello italiano, Milano, Milano Libri,
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16. «Il Fatto Quotidiano», 1° giugno 2014.
17. «Sette», 25 novembre 2016.
18. M. Fava, A.J. Rush, J.E. Alpert et al., Difference
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Anxious versus Nonanxious Depression: A STAR*D
Report, in «Am J Psychiatry», 165, 2008, pp. 342-
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19. American Psychiatric Association, Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi m entali – Text
revision (DS M -IV-TR ) (2000), trad. it. Milano,
Masson, 2002, pp. 826-828.
20. Ibid.
21. C. Sobin e H.A. Sackheim, Psychom otor
Sym ptom s of Depression, in «American Journal of
Psychiatry», 154, 1997, pp. 4-17.
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28. Sigmund Freud, Lettere a Wilhelm Fliess (1887-
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III. Il lessico della depressione


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2. American Psychiatric Association, Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi m entali, quinta
edizione (DS M -5 ) (2013), trad. it. Milano,
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3. Ivi, pp. 965, 949.
4. Kurt Schneider, Psicopatologia clinica (1966), trad.
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5. Giovanni Gozzetti, La tristezza vitale, Venezia,
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10. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura
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11. Friedrich Nietzsche, lettera a Otto Eiser, primi di
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13. American Psychiatric Association, Manuale
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14. J.R. Crawford, J.D. Henry, The Positive and
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17. S. Freud, Lutto e m elanconia, cit., pp. 102-103.
18. Ivi, p. 111.
19. Ludwig Binswanger, Malinconia e m ania (1960),
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20. Mario Rossi Monti, Psicopatologia del presente.
Crisi della nosografia e nuove form e della clinica,
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21. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere
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1977, vol. IX.
22. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà (1929),
trad. it. in «Opere», Torino, Boringhieri, 1978,
vol. X.
23. Aaron T. Beck, Depression: Causes and
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24. H. Selye, Stress and the General Adaptation
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25. H. Selye, Stress without Distress, in
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26. Emil Kraepelin, Manic-depressive Insanity and
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27. H. Akiskal, The Prevalent Clinical Spectrum of
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IV. Paura e depressione


1. Sigmund Freud, Inibizione, sintom o e angoscia
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1978, vol. X.
2. Joseph LeDoux, Ansia (2015), trad. it. Milano,
Raffaello Cortina, 2016, p. 45.
3. Arthur Schnitzler, Opere, trad. it. Milano,
Mondadori, 1988.
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6. S. Freud, Inibizione, sintom o e angoscia, cit., p.
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7. Gaspare Vella e Alberto Siracusano, La
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8. Willard Gaylin (a cura di), Il significato della
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9. Jaak Panksepp e Lucy Biven, Archeologia della
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2014.
10. William Shakespeare, Giulio Cesare, atto II, scena
II.
11. Samuel Beckett, Murphy (1938), trad. it. Torino,
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12. Samuel Beckett, Finale di partita (1957), trad. it.
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13. Martin Heidegger, Che cos’è m etafisica? (1929),
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14. Donald Winnicott, Gioco e realtà (1971), trad. it.
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15. John Bowlby, Attaccam ento e perdita, vol. 1:
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16. John Bowlby, Una base sicura. Applicazioni
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20. Matthew D. Lieberman, Social: Why Our Brains
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21. Allan V. Horwitz e Jerome C. Wakefield, All We
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22. Zygmunt Bauman, Paura liquida (2006), trad. it.
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V. Alla base della depressione


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3. Neuroscience, Mem ory, and Language. Papers
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27. American Psychiatric Association, Manuale
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28. Ivi, p. 747.
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VI. Depressione e ciclo di vita


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VII. La depressione in età evolutiva


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VIII. Depressione e ciclo riproduttivo


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IX. La depressione in età adulta


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X. La terapia
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10. S. Leucht, S. Hierl, W. Kissling et al., Putting the
Efficacy of Psychiatric and General Medicine
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11. Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria,
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XI. Depressione, stigma, società


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2. Claudio Magris, Malinconia, in «Corriere della
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3. Walter Benjanim, Il dram m a barocco tedesco, trad.
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4. Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria,
Milano, Adelphi, 2005.
5. Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi.
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8. Thomas Eriksen, Tem po tiranno. Velocità e
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Milano, Elèuthera, 2003.
9. Anthony Giddens, Le conseguenze della
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(1990), trad. it. Bologna, il Mulino, 1994.
10. Zygmunt Bauman, Modernità liquida, trad. it.
Roma-Bari, Laterza, 2011.
11. Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? (2008),
trad. it. Milano, Raffaello Cortina, 2010, p. 144.
12. A. Sigman, Well Connected? The Biological
Im plications of «Social networking», in «Biologist»,
56, 1, 2009, pp. 14-20.
13. Howard Gardner, Katie Davis, Generazione app.
La testa dei giovani e il nuovo m ondo digitale
(2013), trad. it. Milano, Feltrinelli, 2014.
14. Zygmunt Bauman, Vita liquida (2005), trad. it.
Roma-Bari, Laterza, 2006.
15. Alberto Siracusano et al., Internet e solitudine, in
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16. Vincenzo Perrone, Careful with that axe, Eugene!
Il dram m a silenzioso dei m anager senza lavoro, in
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17. H. Cagney, Depression: An Econom ic and Moral
Case to Tackle the Crisis, in «Lancet Psychiatry»,
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18. Simone Weil, La Germ ania in attesa (1932), trad.
it. in Sulla Germ ania totalitaria, Milano, Adelphi,
1990.
Ringraziamenti

Scrivere un libro vuol dire contrarre debiti


impossibili da sanare, non solo per l’aiuto che si
riceve, ma soprattutto perché si è ritenuti in grado di
riuscire nell’impresa.
Il primo pensiero va a tutte le persone che si
affidano a me per curarsi e che mi hanno trasmesso
e mi trasmettono tanto.
Un ringraziamento particolare va alla dottoressa
Carla Parisi, esperta di neuropsichiatria infantile,
con cui ho un debito infinito.
Una persona che è stata fondamentale e alla
quale devo molto, non solo per la scrittura di questo
libro, ma per tanto altro, è la professoressa Cinzia
Niolu, con cui condivido la quotidianità nella cura
delle persone depresse e non.
Grazie a Nicoletta Lazzari, che ha avuto l’idea di
questo libro e mi ha sempre consigliato in maniera
stimolante e intelligente, e a Roberto Armani, che si
è occupato con grande attenzione della revisione del
testo.
Devo ringraziare due dottori di ricerca in
Psichiatria, dotati di qualità speciali: Emanuela
Bianciardi, «che sa mettere i puntini sulle i e i
trattini sulle t», e il «bravissimo» Michele Ribolsi,
loro è il futuro.
Grazie a Giuseppe «l’ingegnere» e a Martina «la
dottoressa», e anche a Topazia, grande
antidepressivo.
L’ultimo pensiero va a «Emiliuccia», a un’isola e
a due fratelli che vorrei fossero ancora qui.
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Risalire in superficie
di Alberto Siracusano
© 2017 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook IS BN 9788852078927

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