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In una società sempre più frenetica e competitiva, l’ansia è il fenomeno che più

condiziona negativamente la vita emozionale, lavorativa e sociale delle persone.


Appoggiandosi alle più recenti ricerche in campo neuroscienti co e all’apparato
teorico dell’intelligenza emotiva, Michele Cucchi – psichiatra specializzato nello
studio e nella cura dei disturbi emotivi – descrive le principali di coltà vissute da
chi so re d’ansia e spiega come a rontare le molteplici forme che questo
fenomeno può assumere: dall’ansia generalizzata alla timidezza patologica, dalla
paura di trovarsi in pubblico ai disturbi causati da traumi speci ci, dagli attacchi di
panico alle ossessioni, l’autore indaga i disagi più di usi nella nostra società e o re
indicazioni pratiche per intraprendere un e cace percorso di cura. Grazie ad
agevoli spiegazioni ed esempi concreti tratti dalle esperienze dei suoi pazienti,
Cucchi ci insegna a governare e scon ggere quel malessere quotidiano che
paralizza le vite di molti, aiutandoci a ritrovare l’equilibrio necessario ad a rontare
al meglio la vita.
Michele Cucchi, medico chirurgo specialista in psichiatria, è consulente
dell’Ospedale San Ra aele, è stato professore a contratto presso l’Università Vita-
Salute della stessa struttura. Nel giugno 2011 ha fondato Virtus Medicalis, una
start-up che o re servizi psichiatrici e psicologici a tari e contenute. Da giugno
2012 è Direttore Sanitario del Centro Medico Santagostino.
MICHELE CUCCHI

VINCERE L’ANSIA
CON L’INTELLIGENZA EMOTIVA
Proprietà letteraria riservata
© 2013 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-58-65836-9

Prima edizione digitale 2013 da edizione BUR Varia: settembre 2013

Art Director: Francesca Leoneschi


Grafica e illustrazione: Andrea Cavallini
per theWorldofDOT

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Vincere l’ansia
con l’intelligenza emotiva
Presentazione e ringraziamenti
Cos’è che ci provoca ansia? Le responsabilità? I ritmi frenetici, le
aspettative, le convenzioni sociali? La paura di perdere il
controllo? Qualche forma di squilibrio neurobiologico?
Viviamo in una società che genera ansia: sembra un
paradosso, ma così come è migliorata la qualità della vita, sono
aumentati anche i motivi per sentirci fragili. E quindi in ansia.
Imparare a utilizzare la nostra intelligenza emotiva può rivelarsi
una potente risorsa.
Tutti possiamo andare nel pallone in vista di una
presentazione davanti a un pubblico di venti persone. Tutti noi,
ogni giorno, possiamo essere presi dal panico, da un senso di
agitazione profonda, e per a rontare questo disagio mettiamo in
atto puerili meccanismi ossessivi che però hanno il potere di
rassicurarci molto.
L’ansia è sopra ogni altra cosa uno stato mentale. Occorre non
dimenticare che il confine fra un problema clinico e la normalità
è spesso una mera convenzione culturale e può capitare a
ciascuno di noi di essere chiamato a gestire alcune delle nostre
reazioni emotive che ci causano un profondo disagio soggettivo.
A noi la scelta, a un certo punto non fondamentale, di de nirla
patologia o momentanea di coltà. Il benessere, comunque, sarà
dato da un costante e paziente lavoro sulla propria capacità di
convivere, accettare, gestire e utilizzare le emozioni e le
sensazioni che ne fanno parte.
Fermiamoci e ri ettiamo, prendiamo consapevolezza di ciò
che accade dentro di noi, senza subirlo nel tentativo di
controllarlo, semplicemente ascoltiamolo e comprendiamolo, ci
indicherà la strada da seguire. Abbiamo tempo!
Recuperiamo le sensazioni, trasformiamo la tachicardia, una
pancia tesa e contratta, una postura curva e ingessata, in segnali
interpretabili.
Non sono spie di guasti che si accendono sul cruscotto della
nostra auto; risaliamo a ciò che li genera, non facciamoci
spaventare da queste sensazioni e riprendiamo saldamente in
mano la cloche: possiamo scegliere! Troviamo un’alternativa per
emozionarci con intelligenza. Impegniamoci nella ricerca di una
strada che ci permetta un equilibrio fra disagio, benessere ed
efficacia.

Questo libro è espressamente dedicato a voi, a ciascuna persona


che mi ha concesso il privilegio di condividere la propria
intimità, le proprie paure, che si è a data a me. Se con queste
pagine potrò aiutare qualcuno a sentirsi un po’ meno in balia
delle proprie emozioni, indicando la via per trovare dentro di sé
la risposta, sarà solo grazie a voi: i miei pazienti. Il mio modo di
conoscere la vita, il mondo e il nostro cervello emotivo passa
attraverso le ore che abbiamo trascorso insieme. E grazie anche
perché gli esempi che faccio nel testo appartengono a voi e alle
vostre storie, dalle quali ho preso spunto.
Spero di avervi aiutato almeno un po’. Mi rammarico al
pensiero di quanti non ho saputo aiutare veramente. Un
rammarico che non trova pace, ma che allo stesso tempo
alimenta la passione con cui tutti i giorni noi, «tecnici del vostro
disagio», cerchiamo soluzioni più convincenti per esservi utili.
Un ringraziamento speciale va alla mia famiglia: essa è il
punto di partenza e il punto di arrivo sulla strada della felicità. E
a tutti coloro che mi hanno insegnato quel poco che so del
disagio emozionale: grazie Professore, grazie Giampaolo, grazie
Paolo!
Sono in ne riconoscente anche a Trenitalia: queste pagine
sono state scritte nei chilometri che ho trascorso in vostra
compagnia, a tutte le ore del giorno e della notte, sempre
coccolato e supportato dal vostro calore!
Disturbi d’ansia e intelligenza emotiva:
la ricerca del benessere
fra disagio e malattia
Noi e l’ansia

L’ansia non è un nemico. Fa parte della vita di tutti noi e, anche


se la subiamo spesso come una disgrazia, imparare a
controllarla, e a usarla per no, ci rende più forti. Come tutte le
emozioni, l’ansia è una risorsa. Proprio così! Ma è normale
averne paura, se non la si conosce. Il genere umano ha acquisito
una miriade di conoscenze – siamo andati sulla Luna, abbiamo
diviso l’atomo, creato la tecnologia –, ma sappiamo ancora poco
di come funzionano il nostro cervello e, in generale, la nostra
vita emotiva. Ciò vale sia per gli «addetti ai lavori» sia per la
gente comune. Questo libro vuole aiutarci a capire cosa sono
l’ansia e le emozioni, che ruolo hanno nella quotidianità e come
la in uenzano. E, addirittura, a scoprire come possono servirci
per scon ggere il disagio, la malattia e migliorare la qualità delle
nostre esistenze.
Imparare a utilizzare le emozioni con intelligenza è uno dei
segreti per godere appieno di ogni istante di magia che la vita ci
può dare.
Un lavoro, un esame, l’arrivo di un glio, un matrimonio,
l’amore, una novità, un viaggio: tutto può diventare motivo
d’ansia o… essere vissuto con naturalezza.
Per imparare a liberarci dall’ansia, a vivere felici, ci vogliono
impegno, pazienza e costanza. Ma il risultato ci ripagherà di
tutte le nostre fatiche.
Quanto tempo trascorriamo ad allenare il nostro corpo per
stare meglio? Per sentirci più in forma? Per essere più belli? Be’,
ammettiamolo: tanto, a giudicare dal proliferare di palestre e
attività di tness! Quanto tempo, invece, dedichiamo ad allenare
il nostro cervello emotivo? Troppo poco, se consideriamo che il
disagio emozionale e lo stress sono la prima causa di malattia e
che possono incidere notevolmente sul nostro stato di salute,
anche sico, e sulla qualità della vita, oltre che sui principali
indicatori di successo.

Cerchiamo di rispondere ad alcune semplici domande: che cosa


sono le emozioni? Che cosa è l’ansia? Esiste un’ansia sana o c’è
solo quella patologica? Che di erenza c’è fra disagio e malattia?
Cos’è il benessere e in che rapporto si pone con la salute? I
disturbi d’ansia si possono curare? L’intelligenza emotiva ci può
aiutare?

Benessere e super benessere

Partiamo dal concetto di benessere e dal suo rapporto con la


salute.
L’Organizzazione mondiale della sanità definisce la salute «una
condizione di perfetto benessere sico, mentale e sociale».
Quindi se l’obiettivo di un medico è preservare la salute del suo
paziente, non dovrà puntare solo alla cura di un’eventuale
malattia ma anche al raggiungimento di una condizione mentale
e sociale soddisfacente.
Ciò rimanda anche a un livello soggettivo, basato sulla
percezione personale: il benessere, appunto. Rispetto a una
cinquantina di anni fa, quando ci si rimetteva alle cure del
medico con cieca ducia, quasi fosse uno stregone capace di
curare ogni male, ora le cose sono cambiate: non ci
accontentiamo di constatare l’assenza o il rallentamento della
malattia, ma esigiamo molto di più. Pretendiamo il benessere.
Ma cos’è il benessere?
Concetto piuttosto complicato e pressoché ine abile, in e etti,
al punto che nei secoli ne sono state proposte diverse definizioni.
Sin dai tempi dell’antica Grecia loso e scienziati, fra i quali
Aristotele, identi cavano il benessere come l’obiettivo utopico di
un percorso di autode nizione; traguardo non solo di
sopravvivenza e autoconservazione, ma anche di « oritura» della
persona. Questo approccio è in sintonia con quello proposto dalla
psicologia positiva, una prospettiva teorica speci camente
dedicata allo studio del benessere e della qualità di vita. Il
benessere, in questa accezione, è un obiettivo, un valore da
perseguire, che determina una tensione verso qualcosa.
Una variante sul tema della psicologia positiva è rappresentata
dalla teoria della maturazione, secondo la quale il benessere è il
punto di arrivo di un percorso innato, connaturato all’essenza
stessa dell’individuo, se vogliamo reso possibile da meccanismi
biologici, attraverso il raggiungimento di tappe quali
l’identi cazione, l’intimità, la riproduzione, l’integrità. Ne deriva
un’interpretazione del benessere come saggezza, alla quale si
perviene con l’esperienza. Questo approccio è supportato dai
dati scienti ci che suggeriscono come il nostro cervello si
«rimaneggi» grazie all’esperienza nel corso della vita. Questo
rimaneggiamento – possibile grazie a quella che viene chiamata
«neuroplasticità» ovvero la facoltà del sistema nervoso di
modi care la sua struttura in risposta a una serie di fattori
intrinseci o estrinseci – permette la maturazione delle funzioni
più nobili e complesse del nostro cervello emotivo.
Esiste un approccio di erente al benessere, più vicino ad
alcuni aspetti centrali della cultura a noi contemporanea: in un
mondo più antropocentrico, come il nostro, l’uomo si prende
maggiormente cura di sé, la salute diventa un valore e il
benessere un vissuto imprescindibile, una percezione soggettiva
della propria condizione rispetto alle proprie aspettative: «Non è
felice chi non pensa di esserlo» scriveva già lo scrittore latino
Publilio Siro.
L’altissimo potenziale curativo della medicina e l’allungamento
della vita media pongono dunque il tema della salute non più
solo come assenza di malattia ma anche in termini di qualità
della vita, quindi di benessere.
Di fatto la civilizzazione e il progresso delle scienze ci hanno
portato sulla strada del «super benessere»: la presa di coscienza
della nostra autonomia e la prerogativa di decidere del nostro
destino hanno come conseguenza un aumento smisurato delle
nostre aspettative personali, anche andando, se necessario,
contro natura. Non ci basta lottare contro le malattie, ormai
miriamo a sovvertire il principio naturale dell’invecchiamento.
L’innalzamento delle aspettative circa l’e cienza della
macchina-uomo definisce un principio non più solo di cura della
disfunzione ma anche e soprattutto di potenziamento della
funzione.
Chi non presenta condizioni cliniche de nibili come
patologiche, oltre alla prevenzione primaria e secondaria,
pretende sempre di più: si cerca la soluzione biologico-organica
per rendere al massimo in ambito lavorativo, per avere la mente
più lucida, per non invecchiare, per essere e cienti nel corpo
ed esteticamente più gradevoli, per non risentire dello stress
psicologico che fa parte della quotidianità a causa di ritmi
sempre più frenetici e di aspettative socio-lavorative sempre più
alte. A questo si può aggiungere il benessere emotivo, quello che
ci permette, in ogni momento, di vivere con gioia e in armonia
con l’universo. Ciascuno di noi cerca di instaurare un rapporto
salutare con il proprio corpo e la propria mente, nel tentativo di
individuare la strategia vincente per l’autorealizzazione.
Il super benessere è diventato un valore della nostra società e
forse, potremmo aggiungere, coincide sempre meno con la
condizione di salute, anzi, a volte propone scelte in contrasto con
essa.
Però l’innalzamento delle aspettative genera ansia…
La nostra società è una struttura assolutamente evoluta, ma
non sempre evoluzione è sinonimo di armonia, equilibrio,
benessere. Diciamo che per certi versi abbiamo creato mostruosi
circoli viziosi che ormai sfuggono al nostro controllo: lavoriamo
troppo per stare meglio ma niamo per stare peggio, siamo
stressati, vittime dell’ansia, non riusciamo quasi mai a essere
felici…

Le «malattie» delle emozioni

L’alchimia è tutta lì: come si fa a essere davvero felici? Come


possiamo difenderci da noi stessi? Come si può vivere meglio?
Dominare le nostre ansie? Sconfiggere il disagio emozionale?
Questi aspetti culturali e sociali in uenzano profondamente
anche l’approccio alla salute, alla malattia e alle cure. Oggi la
salute è un bene in cui la gente è disposta a investire. La malattia
è invece una condizione sempre peggio tollerata, una limitazione
inaccettabile, siamo pressoché «allergici» al dolore, alla
so erenza e al sacri cio. Quasi paradossalmente viviamo in un
tempo in cui combattiamo senz’altro meglio la malattia ma
attentiamo alla nostra salute nell’a annosa ricerca del benessere
che determina, a ben guardare, un alto livello di disagio.
L’argomento si complica ancora di più quando si parla di
malattie delle emozioni, come i disturbi d’ansia, perché in
quest’ambito il con ne fra disagio soggettivo e malattia è molto
più labile. Questo rende imprescindibili alcune scelte di campo
nell’approccio ai disturbi d’ansia e a coloro che ne soffrono.
Sempre più persone chiedono aiuto. Devono fare i conti con
un malessere al quale non sanno far fronte. E non ne sanno
nulla, non lo capiscono, lo subiscono e basta… loro malgrado.
Non è facile né de nire cosa sia un’emozione, né cosa sia una
malattia distinguendo il patologico dal fisiologico.
Il nocciolo della questione sta tutto nella complessità della
materia in oggetto: il sistema nervoso e la funzione che emerge
dal suo operato, la mente, sono un sistema complesso. Proviamo
a capire in che senso.
Un aereo, per esempio, è senza dubbio una macchina
complicata, il risultato dell’assemblaggio di un’in nità di pezzi.
Se lo smontiamo, tuttavia, ogni elemento mantiene la sua forma e
il suo signi cato anche quando è a sé stante, non combinato con
gli altri. Per quanti pezzi lo compongano, e per quanto faticoso
possa essere, rimontarli è possibile e l’aereo, debitamente
ricomposto, riacquista la normale funzionalità.
Un sistema complesso, invece, è un insieme di elementi che
vengono in uenzati sia nella forma sia nella funzione dalla
reciproca interazione e mantengono memoria della «storia» di
questa interazione. Se divisi, i singoli componenti perdono la loro
capacità funzionale e non è più possibile rimetterli insieme,
almeno non nella stessa forma funzionale. Per descrivere e
studiare questo concetto, in statistica, si utilizzano le reti neurali,
che sono appunto un sistema di calcolo del rapporto di
complessità fra pezzi di un sistema. La rete di Matrix, il famoso
film, è un sistema complesso.
Ma torniamo al nostro cervello: alla nascita sono già presenti
tutte le componenti, ma con il tempo le interconnessioni e le
funzioni che esso è in grado di esprimere si evolvono e
maturano. Quindi nasciamo già dotati emotivamente ma
abbiamo bisogno di sviluppare le potenzialità di cui disponiamo
per diventare esseri emotivamente intelligenti.
A livello clinico, ancora oggi è impossibile stabilire un
rapporto di causa-e etto fra i nostri neuroni, la loro
organizzazione, la loro disfunzione e i sintomi del disagio
emozionale. I disturbi emotivi, e quindi anche quelli d’ansia,
sono malattie come le altre, ma per comprenderli no in fondo
dobbiamo fare un salto concettuale.
Tutta la medicina si basa su un modello ben preciso: il
paziente manifesta dei sintomi, il clinico li esamina e formula
delle ipotesi sulla causa che li genera, quindi ne cerca un
riscontro obiettivo; questo approccio governa anche il principio
della cura.
Facendo un esempio banale: in presenza di febbre e tosse, il
medico ausculta i polmoni, esegue l’esame obiettivo, indaga con
attenzione descrivendo i sintomi, formula l’ipotesi che ci sia un
batterio che si sta riproducendo nei polmoni, ovvero ci sia
un’infezione. Esegue una lastra e un esame del sangue. Dalla
prima risulterà che in una parte dei polmoni non c’è aria ma
un’in ammazione, infezione e catarro, il secondo dirà quale tipo
di batterio è presente nel corpo.
A quel punto il medico sarà in grado di prescrivere una
terapia mirata.
Quando ci troviamo di fronte a un disagio emozionale, come
attacchi di panico, depressione, fobie, o altri disturbi simili, il
modello medico si rivela ine cace. La mente umana, infatti, è
una macchina così tanto evoluta da essere più di cile da
studiare e le nostre conoscenze in merito al suo funzionamento e
alle patologie che possono minarlo sono ben lontane da quelle
che abbiamo, per esempio, circa fegato, polmoni o intestino.
Questo comporta, nel formulare una diagnosi, la necessità di
seguire un iter di erente da quello usato per scoprire una
polmonite. Non è possibile fare una diagnosi eziologica, ovvero
basata su esami clinici, perché né un esame del sangue e
nemmeno una lastra al cervello rileverebbero l’ansia patologica.
Non possiamo quindi, riprendendo il paragone con la polmonite,
a ermare con certezza che un dato sintomo è causato da un
preciso batterio per il quale si prescrive una cura speci ca. La
diagnosi di un disturbo emotivo si può, al più, formulare in
questi termini: il disagio manifestato è su cientemente
indicativo di una sindrome che chiamiamo depressione per la
quale può essere somministrato un antidepressivo, ma non
possiamo individuare la causa precisa del disturbo né sapere
come funziona l’antidepressivo. Tuttavia siamo certi che
funziona, è efficace.
Questo fa sì, purtroppo, che la clinica dei disturbi emozionali,
la psichiatria e la psicologia clinica rappresentino ancora una
terra di confine non ben delimitata fra dati scientifici e teorie.
L’intrinseca di coltà nel processo diagnostico si inserisce
innanzitutto nella nosogra a – vale a dire la descrizione – dei
disturbi emozionali. La classi cazione è un’esigenza
fondamentale per ogni disciplina e costituisce una prima forma
di conoscenza; è, di fatto, un’operazione necessaria che permette
la comunicabilità di dati e fenomeni che altrimenti
risulterebbero caotici e poco fruibili a chi si occupa di tali
discipline. In sostanza dobbiamo provare a de nire, nel modo
più univoco e chiaro, cosa sia un disturbo d’ansia e quali siano le
sue caratteristiche.
La diagnosi categoriale, oggi alla base della nosogra a
psichiatrica, ha precisamente lo scopo di rispondere a queste
esigenze. Si fonda non su un principio eziopatogenetico, quello
cioè che studia le cause e l’insorgere di una malattia, ma sulla
probabilità statistica di aggregazione di sintomi: se il paziente
dorme male, è triste per la maggior parte del tempo, fatica a
concentrarsi e ha perso l’appetito, è molto probabile che sia
depresso. Questa probabilità diventa un criterio diagnostico. È
un po’ come se, tornando all’esempio della polmonite, non fosse
possibile e ettuare l’esame del sangue per stabilire la natura
dell’infezione: al medico non rimarrebbe altro che prendere atto
dei sintomi (tosse, febbre, debolezza ed espettorato) e
concludere che ci sia un’alta probabilità di polmonite in corso.
La diagnosi categoriale delle malattie emozionali è, di fatto,
una convenzione a cui tutti si attengono: la ricerca, l’istanza
giuridico-legale e quella clinico-terapeutica, anche a livello
internazionale. Però presuppone il cosiddetto «riduzionismo
comunicativo».
Quindi i disturbi d’ansia, e più in generale le malattie mentali,
sono malattie come tutte le altre, indotte da un cambiamento
neurobiologico di cui però sappiamo in e etti molto poco, al
punto di non aver identi cato cause certe per alcuna malattia.
Quindi, oggi, a ermare che una persona ha una data malattia
mentale, glia di una diagnosi, vale a dire che abbiamo
osservato un aggregato di sintomi che statisticamente ci dà una
maggior plausibilità diagnostica, ma non ci dice molto sul
funzionamento patologico effettivo di quella persona.
Se esiste un problema di comunicabilità, esiste però anche e
soprattutto un problema di adeguatezza della diagnosi nella
predizione del benessere: in un percorso di cura mirato alla
soluzione dei sintomi, questi migliorano e la sindrome scompare,
ma non necessariamente la persona migliora del tutto. Si tratta,
sembrerebbe, di un equivoco epistemologico: mancando
l’eziopatogenesi, la diagnosi e la terapia non trovano una
direttrice di ragionamento universale. A volte capita quindi di
guarire dalla diagnosi categoriale – dopo la cura non sussistono
più i criteri per essere de niti malati –, sebbene persista un
disagio soggettivo riconducibile a un modo di erente di vivere e
gestire le emozioni. La psichiatria non si limita più al
tamponamento acuto del comportamento deviante ma mira al
recupero funzionale dell’integrità emotiva del soggetto che soffre.
Quali regole bisogna seguire in questo processo? Ecco alcuni
spunti pratici.
Innanzitutto e sopra ogni cosa, ci si deve attenere a un criterio
di «utilità» in ogni situazione clinica: le decisioni verranno prese
in base alla loro e cacia, empiricamente dimostrata, e non alla
minore o maggiore corrispondenza a un modello teorico astratto
delle malattie.
È inoltre opportuno sviluppare un nuovo approccio culturale e
considerare che le manifestazioni patologiche operano una serie
di trasformazioni nella psicologia dell’individuo determinandone
una nuova omeostasi, ovvero un equilibrio diverso. Solo così si
può agire sulla malattia mentale, attraverso l’estrapolazione
dall’esperienza soggettiva, fatta di reazioni psicologiche e
dissoluzione funzionale globale dell’individuo, di vissuto e di
malattia. Ciascuna di esse costituisce un modo particolare in cui
la persona ammalata è costretta a vivere.
Bisogna tenere presente che, più che un insieme di sintomi, la
malattia mentale è un sistema alternativo in cui prevalgono modi
di «essere diversamente», meno e caci, la cui punta dell’iceberg
è il sintomo, ma la cui estrinsecazione nel quotidiano è
soprattutto una «incompetenza emotiva». L’esistenza del paziente
sarà determinata dalle necessità e dalle norme che reggono il
disturbo stesso e, conseguentemente, il suo modo di essere ne
risulterà influenzato.
Chiunque si trova di fronte a questo tipo di disturbi deve
tenere conto che la propria esperienza di vita nel mondo dei
«sani» non riesce adeguatamente a comprendere il malato. È per
questo che si dice che per essere un buon clinico bisogna
provare sulla propria pelle l’esperienza della malattia,
dell’«essere diversamente». Solo così si entra in contatto con un
mondo di erente, con una propria coerenza e fragilità. Questa è
la malattia. E l’ansia patologica non fa eccezione. L’intuizione
dell’«essere diversamente» va oltre la comprensione dei sintomi:
la mente sembra riorganizzare il proprio funzionamento intorno
ai sintomi e produce un nuovo equilibrio.
Bisogna ricordarsi quindi che la cura della persona malata non
è soltanto la cura del sintomo, ma la cura di tutti i cambiamenti
emozionali, cognitivi e relazionali che la nuova omeostasi
determina.

T ra il fisiologico e il patologico

Non bisogna però perdere di vista la relazione fra il normale e il


patologico, che a volte sono strettamente correlati e si muovono
entro una linea di con ne molto labile: il disagio soggettivo.
Come esistono le emozioni nella loro gamma siologica e anche
nella controparte patologica, così esistono un’ansia siologica e
un’ansia patologica.
L’ansia siologica è una risorsa, un dono, costituisce un
meccanismo basilare per l’ottimizzazione delle capacità sia
siche sia mentali in caso di reale necessità. Lo stato d’ansia da
normale, siologico, diventa patologico quando invece di
migliorare le nostre p erformances le peggiora, si manifesta senza
una vera utilità, o quando è il disagio soggettivo a organizzare la
nostra vita a prescindere da quanto l’ansia la in uenzi in modo
oggettivo.
Le emozioni fisiologiche che attivano, mantengono e dirigono il
comportamento costituiscono un fondamentale vettore
dell’attività dell’essere umano. L’intelligenza emotiva è l’abilità
individuale di percepire, comprendere e gestire le emozioni in
sé e negli altri, e ha una potenzialità adattiva. È a tutti gli e etti
una forma di intelligenza perché si tratta di un insieme di
capacità mentali de nibili come sub-abilità. Le emozioni sono
una dote che il nostro cervello è in grado di utilizzare per
orientarsi in modo e cace nella vita di tutti i giorni. Se non le
avessimo sarebbe come ritrovarsi in mezzo al nulla senza Gps:
non avremmo la consapevolezza di ciò che stiamo vivendo. In
quest’ottica anche l’ansia è utile: è sia un’attivazione sica, fatta
di sensazioni e reazioni viscerali, che ci preparano all’azione, sia
un’esperienza, quindi una percezione, che ci comunica il
significato di ciò che ci accade.
Facciamo un esempio banale ma calzante:
«Domani c’è l’esame di matematica: mi serve essere
concentrato, reattivo e scattante. Mi serve essere in ansia.» Chiaro
esempio di ansia fisiologica.
«Domani c’è l’esame di matematica: mi sento vuoto, sudato e
schiacciato da un senso di oppressione. Non riesco a
concentrarmi, quindi, per forza di cose, non renderò al meglio.»
L’ansia è troppa, un ostacolo all’esame. Questa è ansia patologica.
C’è poi chi riesce a essere vincente in ogni occasione, ad
abbattere qualsiasi ostacolo, a imporsi sugli altri, e su se stesso.
Queste persone usano l’ansia come un motore interno, sembrano
non rilassarsi mai e riescono a sfruttare al meglio le loro risorse:
ma perché? Traggono bene cio da questo modo d’essere? Lo
scelgono consapevolmente? Ebbene, anche loro vivono un
disagio spesso logorante, ma è il prezzo che sono disposti a
pagare per usare l’ansia come arma.
«Domani ho un esame, non sopporto l’attesa: andrà bene? Ce
la farò? Mi sento pronto ma… Se solo riuscissi a fregarmene di
come andrà…» È questo il modo in cui il nostro rapporto con
l’ansia oscilla fra il mondo della patologia, l’esperienza del
disagio e l’utilità di un’emozione.
A cosa serve l’intelligenza emotiva

Esiste in questo senso un problema di cura e ettiva del malato.


La psichiatria si pone sempre meno come mera cura dei sintomi
per farsi carico del disagio, tentare di de nire un cammino verso
il benessere e il recupero funzionale della persona: l’istanza
assistenziale diventa sempre più un processo terapeutico di
recupero del funzionamento cognitivo ed emotivo. Usare le
emozioni in modo intelligente è la chiave per trovare l’equilibrio
fra malattia, limite funzionale e disagio percepito. La cura di
queste condizioni può dare ottimi risultati ma di certo non è
paragonabile a un intervento chirurgico. La si può proficuamente
paragonare a un percorso di allenamento in palestra: la fatica
quotidiana e reiterata concorre a migliorare la gestione delle
emozioni in un continuum che potenzialmente non ha mai un
vero punto di arrivo. Imparare a gestire meglio la rabbia, ridurre
la depressione, usare l’ansia in modo proattivo, accettare la
vergogna: tutto è possibile, seguendo percorsi di allenamento,
più che di cura, in cui si intersecano l’e etto di farmaci speci ci
– quelli sì, a volte comparabili agli interventi chirurgici e spesso
altrettanto indispensabili – e l’e etto di terapie psicologiche
mirate sui sintomi, che funzionano in modo simile alla
sioterapia, ma anche a un allenamento intensivo per rendere
chi so re di certi disturbi emotivamente intelligente. Ciò
comporta diventare più consapevoli, osservatori attenti delle
proprie emozioni, dei propri comportamenti, renderci capaci di
scegliere ciò che siamo e non subire gli atteggiamenti
«automatici» che spesso ci caratterizzano.
È questa la strada che conduce al benessere e passa attraverso
la consapevolezza. L’esperienza dei pazienti ci dimostra che la
terapia migliore è quella che insegna ad a rontare gli stati
d’ansia come un viaggio su una strada che già conosciamo e
pertanto riusciamo ad anticiparne le curve, sappiamo quel che ci
aspetta e quindi come affrontarlo. E questo è molto rassicurante.
È un percorso che si può intraprendere a prescindere
dall’etichetta diagnostica che viene a bbiata, sano o malato,
malattia o fragilità, disfunzione o disagio soggettivo: il segreto per
vivere felicemente è al traguardo. Il primo passo da fare è
accettare la realtà dei fatti: la fragilità è, in misura diversa, parte
di tutti noi. Accettare l’ansia non deve farci sentire sconfitti, anzi,
vincenti! Perché il coraggio è un privilegio dei consapevoli, e la
forza non è di chi si sente invincibile, ma di chi riconosce le
proprie fragilità.
La vera essenza della clinica dei disturbi emozionali consiste
dunque nella cura del paziente nella totalità della sua persona:
non si rivolge alla sola malattia, ma passa sempre attraverso il
dialogo attivo con il malato.
I concetti di salute mentale e di terapia clinica, quindi,
investono la persona nella sua globalità, dunque la sua
individualità, l’identità strutturale, la sua anima sociale e
comunitaria, e la sua malattia. La salute mentale non è solo
l’assenza di una patologia, ma comprende anche il recupero
funzionale dalla malattia – che non sempre può dirsi raggiunto
quando si manifesta la remissione della sintomatologia clinica
alla quale si perviene attraverso programmi terapeutici
speci camente dedicati – e il recupero delle competenze
emotive che ci rendono «socialmente abili». La cura della
malattia diventa quindi la riabilitazione della persona.
L’intelligenza emotiva (IE ) è a tutti gli e etti un aspetto
dell’intelligenza. Le funzioni che fanno parte della IE hanno
caratteristiche di abilità paragonabili a quelle che rientrano nella
de nizione tradizionale di intelligenza: cognitiva e accademica.
Secondo la de nizione più accreditata, quella dell’americano
Peter Salovey, l’intelligenza emotiva è un’abilità costituita da
quattro aree che demarcano domini distinti.
La prima è la percezione delle emozioni, ovvero la capacità di
avvertire le emozioni proprie e altrui.
C’è poi la facilitazione del pensiero: il riuscire a comunicare la
propria esperienza emotiva o impiegarla in altre attività cognitive
superiori; l’essere capace di «utilizzare» il proprio stato emotivo
potrebbe aiutare una persona a risolvere problemi in modo
creativo, per esempio.
Il terzo dominio della IE è la comprensione delle emozioni:
l’attribuzione di significato a uno stimolo emotivo, il riconoscere i
nessi reciproci tra di erenti stati e termini emotivi, la
comprensione del sé, delle proprie motivazioni e dei propri
bisogni interiori e il mettersi in relazione con il «non sé», ovvero
con gli altri.
In ne, ma non ultima per importanza, la capacità di gestire le
emozioni, di viverle senza reprimerle e allo stesso tempo
utilizzarle senza farcene dominare, governandole senza
imbrigliarle e snaturarle. Usare la rabbia, senza cedere
all’impulsività, ma senza nemmeno sopirla, altrimenti ci
scoppierà dentro! Ascoltare l’ansia dosandola: troppa ci
so ocherebbe, troppo poca ci indurrebbe ad assumerci rischi
fuori misura.
L’IE può essere quindi considerata la capacità di sfruttare le
nostre risorse mentali superiori attraverso la gestione della nostra
emotività: che è poi l’essenza dell’essere umano.
Intelligenza emotiva e neurobiologia
del cervello emotivo
In principio fu l’intelletto…

Prima di iniziare a parlare dei vari stati d’ansia, varrà la pena


so ermarci un po’ su quella macchina prodigiosa che è il
cervello umano. Nell’alchimia del suo funzionamento – del
quale, come abbiamo detto, sappiamo tuttavia ancora troppo
poco – potremo trovare molte informazioni utili per
comprendere i nostri comportamenti, le nostre emozioni, e
provare a capire cosa scatena la nostra ansia e come allenarci al
benessere.
Fino a non molti anni fa la comunità scienti ca non prestava
particolare attenzione alle emozioni e allo studio dei meccanismi
cerebrali che ne sono alla base e, ancor meno, al ruolo che
queste giocano nella comprensione delle patologie psichiatriche.
Per lungo tempo, infatti, le emozioni sono state oggetto di
studio quasi esclusivo delle scienze sociali e della psicologia. È
solo da pochi decenni – dopo le prime pionieristiche
osservazioni di matrice neurobiologica e ettuate da alcuni
studiosi intorno all’inizio del Novecento – che un notevole
numero di lavori ha contribuito a chiarire, almeno in parte, i
substrati neurali che mediano questi processi.
Il percorso delle scienze, d’altro canto, è stato guidato per
molto tempo dalla loso a, a causa dell’impossibilità del sapere
scienti co di anticipare o capovolgere, con il proprio metodo di
indagine, le teorie da essa elaborate. È stato così anche per lo
studio delle emozioni. La contrapposizione tra la razionalità, la
cognizione – ovvero il buono – e l’emotività, la passione – ovvero
lo sbagliato, l’incomprensibile – a onda le sue radici in una
visione filosofico-esistenzialista formulata diversi secoli fa.
È dalla nascita della loso a, con Aristotele, e in particolare
dal razionalismo di matrice cartesiana, infatti, che ci deriva la
distinzione tra emozione e ragione come aree separate e
antagoniste, postulato che perdurerà per secoli.
Le emozioni sono state a lungo considerate l’equivalente dei
peccati e delle tentazioni alle quali si doveva resistere con la
forza della ragione e della volontà.
Nella tradizione razionalista del Diciassettesimo secolo,
l’emozione era giudicata un fattore di distorsione e di disturbo
del comportamento razionale e dunque ritenuta priva di
interesse scienti co. Poiché l’attività razionale era la
caratteristica dalla quale partire per spiegare il comportamento
umano, l’emozione, insitamente perturbante, assumeva
un’accezione spregevole, non razionale, nell’esistenza fisica. La si
considerava anzi una categoria di stati e di esperienze proprie
dell’animalità dei primati non umani, e dunque di ostacolo al
rigore metodologico.
Sulla scia di simili preconcetti, dunque, la prima funzione
complessa del cervello studiata dai neuroscienziati è stata
l’intelligenza, funzione considerata per anni sganciata o
addirittura «disturbata» dall’emotività.

… poi venne l’emozione

Nei secoli, tuttavia, il progresso nelle tecniche d’indagine ha


permesso all’uomo di comprendere empiricamente ciò che
prima poteva essere ipotizzato solo in via euristica.
Il primo a sovvertire la dimensione del rapporto emozione-
ragione fu Charles Darwin, il celebre naturalista britannico, il
quale considerò l’emozione – al pari del comportamento e della
vita mentale degli animali – come un elemento di adattamento
per la sopravvivenza della specie e, in quest’ottica, la inserì nella
logica evoluzionistica. L’emozione riacquista così il signi cato di
elemento portante del comportamento, perché lo condetermina.
Dal razionalismo di Cartesio molti progressi sono stati fatti
rispetto alla comprensione dell’interazione fra razionale ed
emotivo, giungendo oggi a considerarla indispensabile al
«funzionamento» ideale dell’essere umano.
Le neuroscienze hanno dimostrato che i meccanismi cerebrali
e funzionali alla base delle emozioni presentano caratteristiche
oggettivabili, replicabili e comuni. Il postulato clinico che
esprime compiutamente questa teoria trova espressione nel
modello bio-psicosociale del funzionamento emozionale, sia
siologico sia patologico: la mente umana si sviluppa
nell’interazione fra il corpo – ovvero la «struttura» organica – e
l’ambiente psicosociale in cui vive. Secondo questo modello lo
sviluppo relazionale dell’organismo acquista un rilievo
imprescindibile: se resta fondamentale un approccio biologico e
genetico, che de nisce il plasma della nostra soggettiva natura, è
tuttavia innegabile che il nostro essere «speciali», emotivamente
intelligenti, sia frutto del «riarrangiamento» che l’ambiente
familiare, le nostre esperienze nei primi anni di vita, la qualità
dei nostri a etti determinano su di esso. Noi siamo ciò che siamo
anche sulla base delle esperienze che abbiamo vissuto, siamo il
«filtrato», attraverso di esse, delle nostre caratteristiche innate.

Intelligenza emotiva ed evoluzione delle specie: perché siamo


diversi dagli animali
Cosa rende così speciale l’essere umano? Gli altri animali sono
anche loro emotivamente intelligenti? Come vivono le emozioni?
Vediamo cosa condividiamo con loro e cosa ce ne differenzia.
La nostra «superiorità» emotiva non viene di certo dalle
dimensioni del nostro hardware, il cervello. Gli esseri umani,
infatti, possiedono il cervello più grande fra i primati, ma la tesi
viene smentita se si prende come riferimento l’intera classe dei
mammiferi. Ed è sbagliato anche pensare che il volume del
cervello umano sia più grande, in termini relativi, in
proporzione alla massa corporea: il nostro cervello ne occupa il
due per cento, una percentuale molto inferiore rispetto, per
esempio, ai piccoli roditori, nei quali misura circa il dieci per
cento. Anche usando questo parametro, quanti cato mediante il
cosiddetto quoziente di encefalizzazione, risulta, a ogni modo,
che siano gli uomini, fra i primati, ad avere il più elevato
rapporto fra massa del cervello e massa corporea. Nemmeno la
dimensione della corteccia cerebrale segue un rapporto lineare
con le dimensioni del cervello: il settantaquattro per cento del
cervello delle scimmie, per esempio, è costituito da neocorteccia
– la sede delle correlazioni sensitive e dei centri di associazione
– contro il sessanta per cento nelle altre specie di mammiferi.
L’aumento di volume della corteccia è il risultato dell’interazione
di vari processi: la crescita di volume del cervello e quindi della
super cie corticale, e l’aumento di spessore della corteccia
stessa. A ciò non corrisponde un aumento di numero di neuroni,
che anzi sono diminuiti in presenza per unità di volume. Questa
diminuzione di densità di neuroni coincide con uno speculare
aumento di sostanza bianca, assoni, dendriti e rami cazioni
sanguigne-circolatorie.
Il nostro cervello, quindi, è speciale soprattutto in virtù del
numero e del tipo di connessioni fra le cellule nervose. I cetacei
hanno un cervello più grande e una corteccia più estesa degli
esseri umani: dovrebbero quindi essere più intelligenti o avere
capacità di coscienza superiori? Assolutamente no: quello che
conta non è il numero di neuroni di per sé ma il numero di
sinapsi, le connessioni che i neuroni o i dendriti possono
supportare, oltre che il grado di plasticità sinaptica.
Dal punto di vista logenetico è rimarchevole l’evoluzione che
il cervello ha registrato negli ultimi tre-quattro milioni di anni,
da quando è comparso il genere «ominide».
Un elemento di assoluto interesse è la velocità con cui «il
plasma di partenza», quello che abbiamo detto essere
condizionato dal nostro patrimonio biologico e genetico, si
rimaneggia nel corso della vita dell’individuo, nonché le
tempistiche globali di questo processo.
La maturazione strutturale, cognitiva ed emotiva è più o meno
completa a due anni per le proscimmie e a sei-sette per le
scimmie, mentre per l’uomo dura no ai vent’anni. Una fase
critica sembra corrispondere a ciò che succede all’età di due
anni e mezzo. In questa fase di crescita i piccoli di uomo si
emancipano cognitivamente ed emotivamente dal
comportamento delle scimmie: il periodo di crescita e di
riarrangiamento della corteccia si conclude e prende inizio un
periodo di implementazione dei collegamenti ni fra cellule
nervose della corteccia.
Il «prodotto nito» ci distingue dal resto del mondo animale
per due grandi aree di funzionamento emotivo: la
consapevolezza degli stati emotivi e il libero arbitrio.
Anche gli animali provano delle emozioni, persino una forma
di ansia: è risaputo, per esempio, che molti cani siano spaventati
dai temporali. Quando sentono l’avvicinarsi della pioggia, di
tuoni e lampi, hanno tachicardia, a anno respiratorio,
inquietudine motoria. Possiamo dire che «agiscono» l’ansia, ma
ovviamente se provassimo a chiedere a uno di loro «come ti
senti?» non saprebbe nemmeno intuire il signi cato della
domanda, perché il suo hardware non gli permette di vivere
l’esperienza dell’ansia. La nostra capacità di esplicitare i
contenuti mentali, di compiere azioni deliberate è senza dubbio
una prerogativa assoluta degli uomini.
Noi esseri umani siamo in grado, inoltre, di piani care il
futuro e le nostre azioni in funzione di un repertorio di bisogni,
sentimenti e valori, in un modo che ci rende unici,
determinando un’assoluta libertà di scelta individuale, talvolta
anche contro il principio di autoconservazione. Il mondo
animale invece è più che altro governato da istinti, il che rende i
loro comportamenti maggiormente prevedibili. Noi umani siamo
imprevedibili, anche e soprattutto perché siamo emotivamente
intelligenti.

La casa di emozioni e sentimenti: il cervello emotivo

Possiamo dire che l’architettura del nostro cervello emotivo porta


inscritta in sé la storia dell’evoluzione delle specie; è possibile
reperire all’interno della struttura del nostro cervello una dote
logenetica di cui i nostri antenati, dai più prossimi ai più
lontani, ci hanno fatto omaggio.
Il modello teorico più conosciuto e utilizzato per descrivere
come il cervello dell’essere umano contenga nella propria
struttura la storia delle specie, è la teoria del cervello tripartito di
Paul D. McLean, che lo suddivide, dal basso all’alto, in rettiliano,
limbico e neocorticale.
Questo modello è oggigiorno sostenuto anche dagli studi di
genetica molecolare che suggeriscono come specie molto vicine
all’Homo sap iens sap iens – la nostra –si caratterizzino, nella scala
logenetica, per un patrimonio genetico di ragguardevole
somiglianza. Per esempio il Dna cromosomico degli scimpanzé
sarebbe sovrapponibile con quello degli esseri umani al
novantanove per cento. Questo dato ci conduce a un evidente
paradosso: a fronte di tanta somiglianza genetica, sussiste
un’altrettanto ampia diversità nelle capacità emotive, nelle
tipologie di relazioni implementabili e nell’organizzazione
sociale fra la specie Homo sap iens sap iens e le scimmie
antropomorfe.
La crescita logenetica della struttura del cervello non è una
semplice sovrapposizione di livelli uno sopra l’altro; la funzione
implementata dal livello superiore sfrutta le strutture sottostanti
come parti integranti del proprio circuito anatomo-funzionale. In
questo modo per esempio la capacità di intuire e ipotizzare cosa
l’altra persona pensa e cosa si nasconde dietro a un certo
comportamento, chiamata capacità di teoria della mente – una
delle più a ascinanti competenze dell’intelligenza emotiva –, è
sostenuta da un sistema di neuroni, detto specchio. L’essere
umano può esercitare questa facoltà perché sfrutta competenze
strutturalmente e filogeneticamente più semplici, la percezione e
l’azione, integrandole con livelli di organizzazione neurale
superiori, implementando così una funzione sociale assai
complessa, ovverosia la capacità di percepire il movimento come
intenzione all’azione. La teoria della mente non sarebbe possibile
in presenza dei soli neuroni specchio, senza la loro interazione
sinergica con il comparto motorio.
Ma vediamo un po’ più nel dettaglio come è composto il nostro
cervello, secondo la tripartizione di McLean, e in cosa si
differenzia dalla specie animale.

Il cervello rettiliano (omeostatico)


Lo compongono il tronco encefalico, l’ipotalamo, il talamo e i
nuclei della base. I principali motivatori delle azioni delle specie
animali che possiedono solo questo tipo di cervello sono
rappresentati da predazione (l’innata capacità di cacciare e
aggredire la preda per sopravvivere), territorialità (ovvero la
spontanea inclinazione a demarcare il proprio territorio con
segnali di varia natura, come l’urina o altri odori, e la
propensione a rimanere nel proprio territorio) ed esplorazione
(la naturale tendenza a compiere ricognizioni nei territori
limitro per avere una propria mappa dei pericoli e delle risorse
presenti). Le principali funzioni cognitive di questa
organizzazione cerebrale sono la percezione e la memoria di tipo
procedurale, quella dei gesti e dei comportamenti automatici,
che permettono l’organizzazione delle attività senso-motorie tese
al soddisfacimento dei bisogni fondamentali, come
l’alimentazione e l’accoppiamento. Sono esigenze pre-
determinate, pre-cablate potremmo dire, che questi animali
soddisfano con comportamenti stereotipati, che seguono una
procedura iscritta nel loro genoma e dunque non richiedono fasi
di apprendimento ontogenetico. L’attività funzionale del cervello
rettiliano viene detta «a ciclo» in quanto segue i ritmi e le fasi
oscillatorie perpetue dei cicli ormonali; è tanto «silenziosa»
quanto automatica ed essenziale per la nostra sopravvivenza. È
noto per esempio che il desiderio di accoppiarsi di questi
animali è legato a particolari stagioni e fasi dell’anno.
Gli esseri animali dotati unicamente di questo cervello non
mostrano comportamenti che lascino presupporre una capacità
di riconoscere animali della propria specie e infatti sono animali
che non vivono in branco; non sono quindi in grado, né a loro
occorre, di provare emozioni, se non quelle – come la rabbia e la
paura – necessarie per interagire con l’ambiente circostante
basandosi sul parametro «pericolo-non pericolo», indispensabile
per l’autoconservazione.
Quando il cervello rettiliano si ammala si osservano «sintomi»
assimilabili a quelli degli attacchi di panico spontanei: l’ip er
arousal – ipervigilanza – emotivo ricorda molto la tachicardia di
cui so rono i pazienti ansiosi. Il cervello rettiliano è la sede delle
sensazioni anomale, che ci crescono nel petto, nelle orecchie e ci
tolgono l’armonia con cui percepiamo il rumore delle nostre
emozioni.

Il cervello limbico

È localizzato nella parte centrale e profonda del cervello. Le


spinte ad agire che queste specie animali hanno in più rispetto a
quelle che possiedono solo il cervello rettiliano sono
l’attaccamento (la naturale propensione a legarsi a dandosi a
gure più mature del proprio branco), l’accudimento (cioè
l’istinto di dare protezione e a etto ai cuccioli della propria
specie a nché possano crescere e diventare autonomi),
l’agonismo (l’inclinazione a lottare per un ruolo di supremazia e
comando nel gruppo) e la cooperazione (la tendenza a cercare e
dare collaborazione per ottenere risultati comuni con maggiore
e cacia). Questi sistemi di regole interpersonali presuppongono
una crescita qualitativa dal punto di vista funzionale, rispetto alla
più semplice organizzazione del cervello rettiliano. Possiedono la
capacità di riconoscere che quello speci co animale della
propria specie è un individuo, come se avesse un’identità
nominale con un nome e un cognome: per esempio, la mamma
riconosce sempre il proprio cucciolo e nella coppia la femmina e
il maschio si identi cano senza possibilità d’errore; sono presenti
dinamiche di conflitto e lotta sia su base di meccanismi ormonali
e comportamenti stereotipati sia su base di spunti emotivi
occasionali, nalizzati alla supremazia sociale, alla lotta di rango
e all’accoppiamento sessuale. Sono inoltre presenti, in questi
animali, rudimentali comportamenti cooperativi-coalittivi, nella
logica del gruppo, del branco. Questa struttura di competenze
emotive e relazionali non è basata sul meccanismo a ciclo, ma è
centrata sull’episodicità, ovvero la capacità di mettere in atto uno
speci co comportamento scegliendolo fra i più vari, in funzione
delle speci che caratteristiche di quel dato momento di
interazione sociale, non per forza vincolato a ritmi ormonali ma
soggettivo e individualizzato sulla situazione.
Il cervello di questi animali è in grado di generare le emozioni
primarie, intese come schemi di percezione e movimento pre-
cablati, che funzionano alla stregua di archi ri essi, nalizzati
alla segnalazione del signi cato dello stimolo, e allo stesso tempo
deputate alla risposta allo stimolo stesso. Sono stati psico sici,
hanno la caratteristica di esperienze veloci e transitorie, sono
logeneticamente legate a stimoli speci ci: forniscono
informazioni in merito a come il nostro organismo valuta lo
stimolo e al contempo contribuiscono a rispondervi
adeguatamente. Nell’uomo le emozioni primarie si manifestano
secondo p attern senso-motori in modo assolutamente identico
rispetto a quello che si osserva nelle altre specie animali. Quello
che cambia è la possibilità di associare «l’arco ri esso»
emozionale non solo mediante vincoli congeniti, ma anche
grazie a ben precisi stimoli cultura-dipendenti e individuo-
specifici.
Nell’essere umano le emozioni primarie, oltre che reazioni,
diventano anche esperienze consapevoli, quindi non solo agiamo
ma proviamo anche le emozioni che viviamo. Questa forma di
comunicazione orienta sia l’individuo sia gli altri animali del suo
branco ad agire in vista di uno scopo, permettendo per esempio
strategie di caccia di gruppo in cui ci si coordina proprio grazie
a questi segnali comunicativi. Le emozioni semplici costituiscono
quindi un sistema di comunicazione innato, fatto di segnali a
valore adattivo, selezionati dalla logenesi, decodi cabili ancor
prima di avere sviluppato un’esperienza individuale. Questo
repertorio è universalmente condiviso da tutte le specie animali
a prescindere dalla cultura del soggetto e del gruppo. Le
emozioni primarie sono entità discrete che hanno non solo uno
speci co correlato neuro siologico, ma uno sionomico facciale
e corporeo. Sono stati ben tratteggiati p attern di mimica facciale
e, sebbene non esista un criterio di classi cazione univoco per le
emozioni semplici, quello maggiormente utilizzato e validato è
quello dello psicologo statunitense Paul Ekman, che distingue sei
emozioni primarie: gioia, tristezza, paura, rabbia, disgusto e
sorpresa. Una delle competenze chiave del nostro cervello
emotivo è proprio la capacità di riconoscere le espressioni
emotive facciali; molti studi hanno approfondito le basi neuro-
anatomiche di questa competenza che non sembra essere unica
ma speci ca per ciascun p attern emotivo. Fragilità o errori
sistematici pertinenti a questa competenza emotiva sono stati
associati a vari fenomeni psicopatologici (schizofrenia,
depressione, fobia sociale), a caratteristiche individuali (per
esempio l’attaccamento) e a indici di buon funzionamento socio-
lavorativo (come la gestione dello stress, la leadership ). La
capacità di percepire e riconoscere le emozioni espresse dai volti
sembra dunque essere un requisito fondamentale per un
soddisfacente «funzionamento» sociale.
Il valore che ha reso necessaria l’emozione semplice è la vitale
esigenza, per i primi tre anni di vita, dell’attaccamento del
bambino alla gura di accudimento per eccellenza, la mamma.
All’interno del rapporto di attaccamento, la sintonizzazione tra i
bisogni del bambino e il bisogno di far crescere ma anche
proteggere e svezzare il proprio cucciolo costituisce la palestra
essenziale nella quale noi tutti abbiamo imparato ad associare
sensazioni a stati emotivi con significato sociale.
Il comportamento agonistico tipico degli animali dotati di
cervello limbico oltre che rettiliano è principalmente teso a
difendere l’esclusività di accesso alla mamma – da cui derivano
successivamente i comportamenti di gelosia, soprattutto nella
fase di socializzazione adolescenziale con i coetanei – e serve a
determinare il proprio ruolo in un gruppo di persone che avrà
gerarchie e ruoli di potere.
Gli animali con un cervello fatto dalla sovrapposizione del
sistema limbico al cervello rettiliano sono caratterizzati, alla
nascita, da una sorta di immaturità somatica che rende le cure
materne necessarie per la sopravvivenza, in termini di
soddisfacimento dei bisogni primari, come cibarsi ed essere
protetti dai predatori.
Quando si ammala il cervello limbico, e in particolare
l’amigdala – un piccolo nucleo di sostanza grigia che è un po’ la
centrale operativa del nostro sistema emotivo –, l’intero sistema
emotivo ne risente. Fobie, de cit emotivi di gestione della
rabbia, di riconoscimento delle emozioni, di abnormità del
vissuto di certe sensazioni, trovano riscontro in anomalie della
funzione di questa importante parte del nostro sistema emotivo.
Talvolta ci sono rotture funzionali che generano l’assenza di
ansia, che è pericolosa quanto il suo eccesso. È il caso della
cristallizzazione e del blocco funzionale di alcune parti
dell’amigdala che determinano una mancanza di paura:
immaginate una giornata senza la giusta circospezione nei
confronti degli estranei, senza il timore di farci male toccando il
fuoco, senza la cautela nell’attraversare la strada. Potrebbe essere
compatibile con la vita?
Il cervello neocorticale

Comprende il telencefalo, detto anche corteccia cerebrale. È la


struttura più giovane del nostro cervello. La storia del cervello
neocorticale è la storia dell’evoluzione del genere «Homo», che
copre circa gli ultimi 1,5 milioni di anni. Le motivazioni ad agire
che sono tipiche ed esclusive di questo cervello sono l’alleanza
con individui della propria specie per ottenere vantaggi legati a
un particolare ambiente o insieme, così come l’a liazione a
gruppi nei gruppi, che caratterizza questi animali per
un’appartenenza ideologica.
I tre passaggi logenetici del genere Homo sono scanditi
dall’aumento della complessità e della ra natezza di queste
regole interattive.
Con l’Homo erectus nasce l’attitudine a mimare: la capacità di
produrre una comunicazione simbolica attraverso il corpo,
attribuendo un gesto a un determinato oggetto. È in questa fase
del processo evolutivo che si sviluppa la capacità teorica della
mente. L’Homo erectus è in grado di piani care e progettare
attività gruppali, per esempio la caccia, la prima traccia di
piani cazione del futuro mediante l’interazione con i propri
simili, una forma di decision making governata dall’interazione
fra cognizione ed emozione. La necessaria esperienza e
conoscenza di simili «rituali» per la sopravvivenza del gruppo
determina l’importanza dell’anziano, il più saggio ed esperto. Le
dinamiche di rango si modi cano in funzione di questo
cambiamento biologico del cervello: si assiste a un
avvicendamento al vertice del gruppo nella posizione di leader.
Il più virile, fisicamente aitante, quello a capo della gerarchia del
branco dei mammiferi non primati, cede il posto al più vecchio
e quindi saggio, come accade nell’organizzazione sociale del
genere Homo.
Le funzioni emotivo-cognitive che supportano una si atta
organizzazione sociale sono le emozioni secondarie o complesse,
la teoria della mente e la capacità di gestione delle emozioni, in
una loro prima forma grezza. Le emozioni secondarie sono per
esempio la vergogna, il senso di colpa, l’orgoglio, la gelosia, la
erezza: sono risposte organizzate, acquisite e non innate, verso
stimoli interni o esterni; potremmo dire che, come le emozioni
primarie, le emozioni secondarie migliorano la sopravvivenza
ma con parametri di progettualità a medio-lungo termine. Sono
elementi della competenza emotiva sociale che dipendono dalla
cultura, sia nella loro espressione sia nella loro attribuzione di
significato.
Circa duecentomila anni fa, ha fatto la sua comparsa l’Homo
sap iens, con il quale nasce il linguaggio vero e proprio, risultato
dell’allenamento alla produzione simbolica e del parallelo
aumento di capacità di fonazione vocale. Crescono e si ra nano
anche le capacità di pianificazione e di processo decisionale.
Questi animali, iniziando ad avere una percezione dello
scorrere del tempo, maturano il bisogno di dare una spiegazione
alla propria presenza nel mondo e di comprendere cosa ne sarà
del sé dopo il mondo, dopo la morte, intuendo infatti, in virtù
delle capacità di questa organizzazione cerebrale, la finitezza del
proprio tempo. Nasce quindi la mitologia.
Solo cinquantamila anni fa ha avuto origine, grazie alla cultura
e alla scrittura, la prima forma di dialogo interiore, ed è così che
nasce la coscienza autori essiva. Si sviluppa prepotentemente
anche il libero arbitrio e l’individuo è padrone, nel bene e nel
male, di perseguire una logica egocentrica, fatta di scelte talvolta
contro il gruppo, talvolta anche contro il proprio spirito di
autoconservazione. Non solo «cogito ergo sum», ma anche
«rifletto, medito quindi scelgo».
Lo sviluppo cognitivo e la nascita della cultura si associano alla
forma più ra nata di empatia: quella basata su una modalità di
analisi controllata, non automatica né volta alla mera
sopravvivenza, ma cultura-dipendente, più legata ai sistemi
motivazionali della cooperazione, dell’a liazione e del
riconoscimento individuale del conspecifico.
I più comuni disturbi emotivi che si associano a difetti
funzionali del cervello neocorticale sono quelli che determinano
di coltà di controllo dei nostri istinti, di coltà di piani cazione
e organizzazione, che ci impediscono un utilizzo saggio delle
emozioni, e talvolta ci rendono nebulosa la lettura dei nostri e
degli altrui stati emotivi. Un difetto in queste aree in uenza a
ritroso anche tutta la precedente architettura funzionale delle
emozioni e l’esperienza emotiva, di conseguenza, cambia in tutte
le sue manifestazioni.

Anche l’intelligenza emotiva cresce

È possibile identificare una traiettoria di maturazione del sistema


nervoso in senso grossolanamente caudo-craniale. Le diverse
funzioni del sistema nervoso sono l’espressione dell’attività dei
suoi diversi livelli gerarchici, livelli la cui strutturazione matura
è vincolata alla dimensione evolutiva del sottostante livello
gerarchico. In questa prospettiva le strutture dei livelli inferiori
sono già su cientemente mature alla nascita da poter garantire
un inizio di vita mentale.
Le strutture dei livelli superiori raggiungeranno, al contrario,
la maturazione solo durante la tarda adolescenza, al termine,
quindi, di una lunghissima fase evolutiva che vede anche ridursi
la plasticità neuronale e sinaptica, grazie alle esperienze
maturate sul campo. Ciascuna funzione emotiva verrà
implementata con un grado di complessità maggiore rispetto a
quanto avviene negli animali, perché la comparsa nel tempo di
una nuova funzione superiore determina una parziale
trasformazione delle funzioni che evolutivamente la precedono.
Facciamo un esempio: la gestione dell’emozione rabbia. Sin
dai primi mesi di vita, i bambini si arrabbiano se gli si sottrae il
cibo, un gioco, li si allontana da ciò che vorrebbero fare. E
mostrano una rabbia stereotipata: gridano, si divincolano,
arricciano il naso e fanno una faccia davvero cattiva. Nel tempo
quel neonato imparerà che in certi contesti la rabbia così
espressa può essere ra nata e congiunta ad altre emozioni
primarie, come il disgusto, originando un’altra emozione ancora,
il disprezzo, il cui ghigno tipico è a metà strada fra un sorriso a
denti stretti e l’espressione di ribrezzo che facciamo, per
esempio, quando sentiamo un cattivo odore. Il disprezzo ha una
valenza morale, sociale, non animale in senso stretto.
Il neonato diventerà un ragazzino e imparerà che ci sono
alcune regole sociali che rendono inappropriato manifestare
rabbia, ma inizialmente non saprà contenerla e quindi si metterà
in situazioni che gli creeranno disagio, dovrà a rontare
discussioni e punizioni. Poi però capirà come gestirla e
utilizzarla per sprigionare energia. Solo più avanti nel tempo, e
non sempre, la rabbia si manifesterà con minore assiduità
perché con l’avanzare dell’età i motivi per provarla – trattandosi
di un’emozione faticosa, impegnativa – diventano sempre meno
frequenti. Nella vecchiaia la rabbia trova poco spazio e il nostro
corpo reagisce con meno impeto e maggiore equilibrio.
Ansia come stile di vita:
l’ansia generalizzata
T utto sotto controllo?

Tutti noi abbiamo, nel nostro repertorio di immagini iconiche, la


gura della nonna apprensiva, quella che si preoccupa di tutto,
la cui giornata è scandita da consolidate e immutabili abitudini,
quella che si ricorda di tutto, che sembra sempre avere qualcosa
da fare, un buon motivo per agitarsi, quella che quando le
comunichiamo di aver preso un cane per i nostri gli alza gli
occhi al cielo e si dispera perché i cani sono pericolosi,
mordono, sporcano e poi «come farò a portarlo fuori per fare i
bisogni».
La mitica nonna che, per esempio, quando si andava in
vacanza insieme in estate, viveva le fasi di preparazione al
viaggio come una via crucis, tentando di prevedere ogni cosa, in
preda al panico per l’evenienza di un qualsiasi imprevisto. Quasi
un malessere contagioso, ma del quale fa fatica a liberarsi perché
fa parte di lei, ed è il suo modo di dimostrare l’a etto ai suoi
cari, di rendersi utile.
Per queste icone, potremmo quasi de nirli archetipi, l’ansia è
tutto: è uno stile di vita.
«Il mio problema, dottore, è che mi dicono che sono
insopportabile, che sono ansiosa, preoccupata. Sembro sempre
stressata. E, in e etti, tutto mi stressa, ma non saprei come altro
fare: se non me ne preoccupo io, chi lo farà?»
«Ieri sera, mio glio, non tornava mai… sempre in giro con
quel motorino! Mi aveva assicurato che sarebbe tornato alle
diciotto e io, alle diciotto in punto, ero lì che aspettavo, ma non
lo sentivo arrivare. Quando succede così poi io lo chiamo ma
lui… lui non risponde mai al telefono, dice che lascia la
vibrazione e che non lo sente. Ma questa cosa mi agita ancora di
più.»
«Il mio medico di base, che mi conosce molto bene, mi ha
suggerito di venire da lei, dottore. Io di lui mi do. Quindi
eccomi qua. Ma non so lei cosa possa fare per me: io so ro di
sudorazione, tremo, mi sembra di avere sempre una specie di
motorino acceso dentro… Io pensavo fosse la tiroide ma lui dice
che no, non c’è nulla che non va negli ormoni. Quindi… Se lei
riuscisse a farmi dormire bene, senza svegliarmi venti volte a
notte, a farmi smettere di tremare ma… io non sono depressa
quindi… non so proprio cosa possa fare lei.»
«Ogni mattina inizia una nuova giornata, ci sono da fare tante
cose, mi ricorderò di tutto? Forse sì, sicuramente ho già sistemato
tutte le pratiche al lavoro; ma poi bisogna correre a prendere
Samuele a scuola, sì dovrei farcela, e se poi però piove? Certo,
meglio prendere un ombrello. Mai lasciare nulla al caso. Poi
dovevo venire da lei, dottore: questa cosa mi ha agitato molto,
non ero mai stata in questa zona di Milano, non la conoscevo e
così ieri ho guardato su internet dov’era il suo studio. Sono
partita prima, però, perché avevo paura di non trovare
parcheggio.»
Mi viene in mente Il sab ato del villaggio, la splendida poesia
di Giacomo Leopardi che ci esorta a godere dell’attesa del «dì di
festa», perché il giorno più bello è proprio il sabato, che ci
permette di assaporare, centellinandola, quella incredibile
sensazione di piacere mista all’incertezza che rende così magico
quel momento… Ecco, certe persone non credo riescano a
«sentire» l’esperienza che l’autore voleva comunicare. Perché per
loro il sabato è un incubo, è il giorno della piani cazione, del
«Potrebbe essere che…», «Sicuramente accadrà anche questo»,
«Oddio non mi devo dimenticare di…», «Forse farei bene a…».
Quando una persona è a etta da disturbo d’ansia
generalizzata, lo si capisce anche da come si comporta in una
sala d’attesa. Arriva sempre prestissimo: fra il timore della visita,
la paura di non saper raggiungere lo studio del medico, lo
spauracchio del tra co e del parcheggio, parte sempre con largo
anticipo. Trasuda agitazione da tutti i pori, guarda l’orologio,
sfoglia nervosamente una rivista, si muove a scatti, non riesce a
«leggere» più di qualche minuto senza alzare la testa per
controllare cosa le accade intorno. Ogni movimento sembra
sospetto.
«In u cio, dottore, mi chiamano “il bulldozer”: io sono
precisissima, l’imprevisto mi genera ansia, le scadenze sono
fonte di stress, così io cerco di organizzarmi bene e nisce che
mi preoccupo anche di cose che non mi competono. Io non so
come facciano, loro, sembra che se ne freghino, ma io ho una
memoria incredibile e mi ricordo anche delle loro pratiche.
Certo, non sa che fatica, arrivo a casa che sono esausta. Ma poi si
ricomincia: dopotutto anche a casa ci sono un sacco di cose da
fare.»
«Dottore, mio marito è un uomo eccezionale, si è sempre fatto
in quattro per gli altri, al lavoro tutti lo stimano tantissimo, ma
ora lei gli deve restituire il sorriso. Da quando gli hanno dato una
promozione aumentando ancora di più il suo carico di lavoro è
diventato una scheggia impazzita: non esce mai prima delle
undici di sera, si sente perennemente in a anno perché è
incapace di dire di no, non riesce a non preoccuparsi, vive tutto
come una catastrofe se non è assolutamente sotto controllo e fatto
con precisione come dice lui. Ha sempre paura che succeda
qualcosa di imprevisto, e questo lo sta distruggendo. Credo sia
depresso…»
L’ansia è un’amica, una risorsa, un’arma per vivere meglio,
che ci aiuta a difenderci dalle insidie e ci sprona a fare sempre
di più. Ma bisogna stare attenti: dobbiamo poter «scegliere» di
essere in ansia. Quando, invece, diventa una prerogativa
imprescindibile in ogni istante della nostra esistenza, senza che
siamo noi a decidere di farci guidare da lei, quando la normale e
necessaria imprevedibilità delle cose diviene fonte di costante
malessere e viviamo nell’angoscia che il peggio è sempre in
agguato, quando siamo attanagliati dalla paura di ciò che
potrebbe essere e l’ansia diventa generalizzata, è a quel punto
che dobbiamo fare uno sforzo e staccarci dal bisogno di certezza,
di sicurezza, imparare a gestire quel motorino che sembra avere
un minimo regolato troppo alto, ci rende il respiro a annoso e ci
fa stare costantemente in tensione. Vuol dire che è il momento di
intervenire.
A volte le persone, dopo essersi sottoposte a terapia ed essere
guarite, chiedono preoccupate che ne abbia fatto la loro
famigerata memoria, quella per cui un tempo si ricordavano
tutto: scadenze, compleanni, cose da comprare al supermercato,
cose da dire, commissioni da sbrigare. Quasi sembrano
rimpiangere quel modo di essere, che le rendeva super
a dabili, programmate per essere meglio di un’agenda
elettronica. Allora bisogna spiegare loro che tenere tutto a mente,
non perdere di vista nulla, cercando di estendere la cosiddetta
«memoria di lavoro» all’inverosimile, è la principale fonte della
loro ansia, quella per cui avevano chiesto un aiuto, e che la
risposta sta nell’equilibrio.
Un elemento cardine della vita di queste persone è la visione
catastro ca e la sensazione tangibile dell’imminenza di un
imprevisto; ovvero una cosa possibile ma poco probabile, e
comunque di cilmente prevedibile e scongiurabile, diventa una
cosa sicura, un evento atteso, quindi fonte di imbarazzante
angoscia visto che, per l’appunto, non è così facile scegliere
strategie che lo escludano.
Altro elemento caratteristico è l’intensità delle risposte: è come
se il loro corpo fosse un instancabile segnapassi, un metronomo
esasperante, che non si ferma mai, e il cui ticchettio è talmente
forte da diventare spesso l’unico rumore udibile. Si crea una
sorta di attesa apprensiva. Allarme e ipervigilanza rendono loro
la vita impossibile.
Senso di freddo, mani appiccicose, eccessiva sudorazione (non
da calura, o rabbia, ma da viso sciupato, da notte prima degli
esami), episodi di dissenteria, bocca secca e alta frequenza della
minzione. Spesso queste persone lamentano uno sfarfallio
sottopelle in alcune zone, tipicamente la palpebra. L’ansia
consuma, brucia energie e la sensazione è quella di essere
sempre stanchi, spossati.
Dal punto di vista pratico dobbiamo partire dal presupposto
che chi conduce uno «stile di vita» ansioso ha di coltà a
controllare l’ansia e da qui derivano tutta una serie di tentativi –
più o meno miopi – di gestire e cercare di placare le proprie
preoccupazioni.

Intelligenza emotiva e apprensione

«Ciò che distingue e tormenta l’uomo non è la realtà in quanto


tale, ma l’opinione e l’idea che egli stesso se ne fa.» In questa
massima di Epitteto, losofo greco vissuto a cavallo tra il I e il II
secolo d.C., mi pare di cogliere la caratteristica peculiare
dell’essere umano, una «macchina» dotata di estrema
intelligenza e forza emotiva, e che pure può cadere in devianze
davvero fastidiose, come l’ansia generalizzata.
L’apprensione cambia il modo di analizzare le informazioni
che dall’esterno giungono al nostro cervello: la percezione di
pericolo e perdita gioca a sfavore di una visione possibilista e
positivista così come si sottostima la probabilità di conseguire
con successo i propri obiettivi. Questo atteggiamento induce
spesso a interfacciarsi con gli altri in modo remissivo, poco
assertivo e talvolta brusco, rovesciando addosso a chi ci sta
accanto secchiate di agitazione.
Queste persone riportano maggiore intensità dell’impulso
emozionale, ma non risultano né più emotivamente espressive
né più attente ai propri stati d’animo. Hanno bisogno di imparare
a bilanciare le proprie emozioni e vagliare strategie alternative di
regolazione a ettiva, insieme alle tradizionali terapie che
intervengono sugli schemi mentali per arginare la
preoccupazione eccessiva. Tutto ciò comporta che nel tempo
queste persone non solo vivano un senso di prostrazione sica,
come se fossero tutti i giorni travolte da un tir in corsa, ma
arrivino a manifestazioni siche di vere e proprie malattie
organiche come l’ulcera, l’ipertensione, patologie cardiache.
«Dottore, è una vita che rimango in attesa di eventi
catastro ci… Se riuscissi a razionalizzare, come mi dice mio
glio, mi renderei conto che, di fatto, non se ne è veri cato
nemmeno uno. Ma non conosco altro modo di vivere se non
preoccupandomi delle cose, e ogni cosa, anche la più piccola, è
sempre motivo di apprensione. Certo… dovrei imparare a capire
quando ciò è sensato o meno…»
L’ansia, specchio dell’apprensione in questa tipologia di
persone, sembra soggiacere a un’istanza morale che le obbliga a
responsabilizzarsi, a farsi carico di tutto, a doversi garantire cose
che in realtà già possiedono, ma che niscono per sembrare
sfuggenti o transitorie.
Solitamente queste persone, quando poi si trovano a gestire
imprevisti o situazioni che sono fonte d’ansia, reagiscono in
modo e cace ed e ciente. Come fanno? Be’, non è certo merito
del loro continuo arrovellarsi! In quelle situazioni agiscono e
basta. Pensano poco. La vita non si può ridurre a un’equazione
matematica, come loro cercano di fare per abbassare i loro livelli
d’ansia e prevedere l’imprevedibile. La vita contempla sempre
una parte di incommensurabile, imponderabile. Ma questo non
deve disorientare; bisogna ricercare la propria sicurezza nella
ducia aprioristica in se stessi e allenare il cervello a non
rimuginare costantemente su pensieri di natura ansiosa. Per fare
questo le tecniche di gestione dell’ansia, quelle di rilassamento e
di aumento della consapevolezza – come la mindfulness –
possono essere di enorme aiuto.
A volte è meglio non pensare troppo: l’immaginazione può fare
brutti scherzi e pre gurarci scenari catastro ci a dir poco
irrealizzabili. Le cose invece vanno come devono andare e molto
spesso non serve a niente cercare di piani carle nei minimi
dettagli per tenerle sotto controllo!
Inoltre non bisogna dimenticare che essere ansiosi e
apprensivi non signi ca essere deboli e incapaci. Anzi: se solo
queste persone smettessero di rimuginare e si guardassero
intorno, potrebbero scoprire che, al di là dell’estrema dedizione
in ciò che fanno e del loro continuo a annarsi, sono davvero
brave e affidabili. E che gli altri lo riconoscono.
Vivere con una spada di Damocle
sulla testa: panico e paura della paura
Un angoscioso «come se»

«Mi sentivo morire, non so da dove sia arrivato ma all’improvviso


un nodo alla gola mi impediva di respirare, un’oppressione al
petto mi stringeva i polmoni, mi sentivo svenire. Avevo paura
fosse un infarto, sentivo il cuore battere all’impazzata, sudavo e
tremavo, stavo perdendo il controllo. Da allora la mia vita è
cambiata… Per sempre.»
«Sono nita al pronto soccorso: avevo paura fosse qualcosa di
grave, non mi sentivo più le gambe, mi formicolavano le mani e
mi sentivo girare la testa. Arrivata in ospedale mi sono subito
sentita meglio e i medici, con l’Ecg normale in mano, mi hanno
rassicurata: “Non è niente, è ansia!”. “Dottore, ma allora perché
sto così male? Perché non riesco a non pensarci?”»
«Mi sento fragile, debole, non ho più il controllo su di me.
Questo peso sul cuore mi opprime, sono sempre in allerta e
quando mi trovo in mezzo alla gente mi sento so ocare. Mi porto
dietro una bottiglietta d’acqua, che mi permette di respirare
meglio, ma in metrò e sui mezzi pubblici non ci posso più salire:
mi manca l’aria.»
A volte, nella vita, può capitare di provare l’esperienza di non
sentirsi più padroni di se stessi, all’improvviso, senza motivo.
L’impressione è quella di collassare, di perdere il controllo sul
proprio corpo, come se il cuore impazzisse, e con lui noi, ci
sentiamo vulnerabili e dobbiamo chiedere aiuto. Come arriva dal
nulla, così in pochi minuti questo ciclone se ne va. L’esperienza
drammatica del «come se»: come se avessi un infarto, come se
avessi un collasso, una crisi respiratoria, la sensazione di non
presenza e di perdita del controllo si impadronisce di noi per
qualche minuto e poi passa.
L’attacco di panico non va necessariamente considerato come
un disturbo da curare: è un fenomeno privo di reale rischio per
la salute della persona, «un come se», dicevamo, ma nulla di ciò
che sembra è reale. Queste crisi possono presentarsi in un
periodo di eccessiva stanchezza sica, di tensione emotiva, in
cui dormiamo poco, o abbiamo modi cato le nostre abitudini
quotidiane e il nostro corpo si deve adattare a nuovi ritmi.
Talvolta quest’esperienza si associa ai cambi di stagione o a
particolari fasi ormonali, come i giorni che precedono il ciclo
mestruale.
Questi episodi possono essere la diretta conseguenza
dell’assunzione di sostanze attive sul sistema nervoso centrale
come la cocaina, la cannabis, la marijuana, l’alcol o di alcuni
farmaci.
Non è però possibile identi care un nesso di causa-e etto fra
situazioni esterne e genesi dell’attacco di panico; quelli con
periodi, stati d’animo e particolari condizioni psico siche, sono
associazioni. L’attacco di panico in sé va considerato come un
fenomeno del tutto spontaneo la cui eziopatogenesi, ovvero
l’origine causale, quella che chiaramente identi chiamo invece
per le malattie organiche come l’infarto per esempio, è tuttora
incerta.
Ma niente panico! Così come una rondine non fa primavera
anche un attacco di panico non fa un disturbo clinico di cui
preoccuparsi. Quello che realmente conta e ciò che
quell’esperienza signi cherà per la persona che l’ha vissuta,
ovvero come sarà metabolizzata dal nostro sistema emotivo.
Infarto? No, solo un po’ d’ansia

Per capirci meglio, torniamo in pronto soccorso. Quella notte


una giovane donna di trentacinque anni, senza alcun precedente
di malattia o acciacco sico, si è svegliata di soprassalto con la
sensazione di so ocare, in un bagno di sudore, il cuore che le
martellava nel petto e la netta sensazione di essere sul punto di
collassare. Con lei è stato ricoverato un signore sulla cinquantina:
si conoscono, lui abita sopra il tabaccaio all’angolo. L’uomo è
sempre con la sigaretta in bocca e cammina come se la vita lo
fiaccasse. Anche lui arriva in ospedale con gli stessi sintomi della
donna, ma il suo elettrocardiogramma e i suoi esami del sangue
mostravano qualcosa di diverso: la sua diagnosi è un leggero
infarto cardiaco! Quanto alla donna, invece, la dottoressa si è
avvicinata alla sua lettiga con un sorriso bonario, riuscendo quasi
a farla sentire in colpa, e, dando qualche colpetto al tubicino
della ebo di ansiolitico attaccata al suo braccio, le ha
comunicato la lieta notizia: «Non è niente, è ansia!».
Si rivedono dopo due mesi, lei e quel signore, scoprendo di
condividere anche un’altra cosa: il medico di famiglia. Nella sala
d’attesa, lui si ricorda di lei e le rivolge un sorriso complice nella
comune condizione di malato che aspetta di essere visitato; le
dice, palleggiandosi un pacchetto di sigarette fra le mani, che ha
ridotto ma… non ce la fa a smettere, però ora è più attento a
tavola e ha perso già tre chili. «Beata te, che era solo un po’ di
stress!» esclama. Eppure a lei sembra un incubo! A lui, l’infarto
non gli ha cambiato la vita; a lei, invece, lei con la sua ansietta,
che nessuno riesce a capire, che tutti liquidano con una pacca
sulla spalla, a lei quell’ansietta le ha stravolto l’esistenza. Il
dottore le ha dato delle gocce di tranquillante da prendere in
caso di bisogno, quando avverte la tachicardia, e le ha anche
detto mille volte di non preoccuparsi ma, sotto sotto, l’idea che ci
sia qualcosa che non va nel suo cuore a lei non gliela leva
nessuno. Si aggira come un’anima in pena, sempre con le gocce
in tasca: senza si sente persa! Di viaggiare non se ne parla più.
Ogni giorno vive con la paura della paura: il timore che una crisi
possa tornare da un momento all’altro e che nulla più di quelle
crisi la possa far sentire in balia degli eventi.
Si sente fragile.
Una spada di Damocle puntata sulla testa.
Nulla è più come prima, nulla le sembra più facile, naturale.
A volte ha la sensazione di essere stata catapultata in un lm, si
sente stordita, disorientata, assente, come se vivesse una non-
realtà, la testa perennemente ovattata. E molti posti sono
diventati per lei out of limits: mangiare al ristorante è un incubo,
gli ascensori, la metropolitana, i supermercati le danno fastidio.
Anzi: solo all’idea di entrare in metrò sta già male.
«E sono qui, nella sala d’attesa del mio medico, che sembra
essere anche un po’ spazientito dalle mie continue lagne, dalle
mie insinuazioni, “Non sarà meglio rifare un Ecg?”; “Io, dottore,
mi sentirei più tranquilla a fare una visita cardiologica… queste
palpitazioni cosa sono?”. E lui mi guarda, sorride, con il suo
pacchetto di sigarette in mano, che aspetta il suo turno, paziente,
serenamente rassegnato. Io invece sono qui che mi arrovello su
come si possa curare ciò che sembra ma non è.»
Come dicevamo, un attacco di panico non fa primavera, op s,
non fa un disturbo.
Il disturbo arriva dopo, se questa esperienza riesce a far
breccia nel vissuto della persona, che da lì in poi si sente fragile,
in balia degli eventi. Il suo spazio mentale è pervaso dalla paura
della paura, dal costante stare in allerta con la certezza che
ritornerà, dalla volontà di doversi difendere, ma di non poterlo
fare. A quel punto si evitano luoghi, situazioni sociali che di
norma ci espongono a spazi chiusi, a ollati, come cinema,
autobus, ascensori, aerei, viaggi in macchina in autostrada, il
tra co, la coda alla posta, il supermercato. Tutto dà la
sensazione di soffocamento e intrappolamento.
Si ha l’impressione di avere un problema sico, molto
concreto, ed è frustrante che nessun medico riscontri cosa non
va. Stando alle statistiche, tra l’esordio del disturbo e la richiesta
di un aiuto specializzato ed e cace passano in media due anni:
due anni di peregrinaggi fra cardiologi, neurologi, medici di
base, otorinolaringoiatri, gastroenterologi, ma nulla… Qualcuno
si sottopone a Tac, risonanze magnetiche al cervello,
elettrocardiogrammi, holter pressori. Niente… Nel frattempo ci si
arrangia come si può e ciascuno trova la propria «coperta di
Linus»: oggetti, persone, vademecum magici che danno la
sensazione che, in caso succeda qualcosa, si possa chiedere
aiuto, cercare protezione.
A ciascuno il suo.

T ipologie di panico

Le crisi di panico sono per de nizione degli accessi improvvisi,


inattesi, dei fulmini a ciel sereno, che possono presentare
sintomi di erenti, anche se con alcune analogie: la paura di
morire, di perdere il controllo o impazzire. Ci sono persone che
hanno manifestazioni prevalentemente gastroenteriche, in questo
caso uno dei sintomi è il timore di dover correre in bagno e di
avere scariche diarroiche: queste persone vivono in funzione
della presenza di servizi pubblici e bagni per loro accessibili.
Altri hanno attacchi di panico caratterizzati da disturbi più
tipicamente vestibolari. Questi si recano più volte da
otorinolaringoiatri lamentando vertigine soggettiva – ovvero la
sensazione illusoria di movimento del corpo –, instabilità, molto
spesso favorita da ambienti illuminati al neon e dalle ampie
pavimentazioni piastrellate di bianco, come quelle dei centri
commerciali (è un e etto ottico che viene riprodotto anche negli
ambulatori medici mediante speci che tavole a scacchi per
testare la stabilità del sistema dell’equilibrio).
Ma l’attacco di panico per antonomasia è quello respiratorio,
che insiste sulla sensazione di so ocare, di mancanza di aria,
d’inceppamento del cuore e del sistema cardiocircolatorio.
Di regola in una persona ricorre sempre la medesima tipologia
di attacco.
Può succedere che basti un solo attacco, una sola esperienza
di questo genere, per mettere in moto la macchina mostruosa del
disturbo; talvolta invece è necessaria una ricorrenza di attacchi.
Come le scosse di assestamento di un terremoto, le crisi si
susseguono nell’arco di giorni, settimane o mesi: se la prima può
essere superata con relativa facilità, dopo la seconda il panico ci
assale e ci lascia con il ato sospeso. La ricorrenza di questi
episodi genera inevitabilmente l’angoscia.
Vale la pena ricordare che, in un certo senso, l’attacco di
panico in sé non sarebbe un grosso problema. Dal punto di vista
medico ci sono esperienze oggettivamente molto più
problematiche: le crisi di emicrania, le crisi epilettiche, gli
attacchi cardiaci. È però pur vero che chi lamenta queste
patologie in genere trova il modo, dentro di sé, per vivere senza
farsi soverchiare dalla paura della paura. Nonostante l’evenienza
di una crisi epilettica al ristorante, di un infarto su un’isola
esotica in estate potrebbe comportare qualche problema
oggettivo, queste persone sembrano riuscire a ridimensionare il
loro problema. Chi sviluppa il disturbo di panico (DP ) invece
non ce la fa: la sensazione di allerta spadroneggia e ha la meglio.
È nell’esperienza di molti pazienti che, prima della
manifestazione conclamata del problema, è possibile rintracciare
nel passato una certa predisposizione al disagio in luoghi chiusi
e a ollati, esperienze di simil-so ocamento, una sensazione di
disagio in ambienti troppo illuminati, cose che lì per lì non
avevano lasciato strascico alcuno.
Esistono tre grossolane forme di attacco di panico: il panico
spontaneo, il panico situazionale e quello predisposto. Tale
distinzione è importante perché la cura di queste tre
manifestazioni ha esigenze di erenti e un piano di terapia ideale
per coloro che ne soffrono deve tenerne conto.
Il panico spontaneo è quello della ragazza che si è ondata in
pronto soccorso svegliata nel cuore della notte dalla tremenda
sensazione di mancamento d’aria e di morte imminente. Questi
attacchi, si dice in gergo tecnico, «mantengono il disturbo», e ciò
signi ca che la loro ricorrenza tiene accesa l’allerta e la
convinzione della catastrofe imminente nella vita mentale delle
persone che ne so rono. Non permettono mai di abbassare la
guardia.
Ci sono poi gli attacchi di panico situazionali. Dopo
l’esperienza degli attacchi di panico spontanei la persona associa
il panico a luoghi, situazioni, momenti. Solo all’idea di fare una
determinata cosa, di andare in un certo luogo, la persona inizia a
stare male: i pensieri si a astellano nella sua mente, la paura
chiama paura, e questa catena di pensieri ed emozioni scatena il
panico che, in questo caso, arriva come una marea montante.
Gli attacchi situazionali colpiscono anche le persone che
riescono a razionalizzare l’evento «panico»: di fronte al
supermercato, nonostante la testa dica che si può stare tranquilli
e non c’è nulla da temere, il corpo si accende e l’allerta inizia,
monta l’ansia e la sensazione di perdere il controllo. Come se la
pancia ammutinasse la mente, il corpo reagisce a luoghi e
situazioni, provocando una sorta di repulsione idiosincrasica.
Anche se la spiegazione di questo fenomeno non è del tutto
chiara, le teorie neurobiologiche più attendibili si rifanno al
paradigma dell’apprendimento per condizionamento classico per
illustrare il «condizionamento alla paura» che caratterizza questo
tipo di attacchi di panico. Noi tutti apprendiamo, in gran parte,
per meccanismo di condizionamento: impariamo cioè, più o
meno consapevolmente, ad associare una cosa a un’altra, stimoli
a reazioni, problemi a soluzioni, emozioni a comportamenti. È
una forma di apprendimento fra le più arcaiche e caratterizza
anche il funzionamento mentale di molti animali. È famoso
l’esperimento dello scienziato Ivan Pavlov sul suo cane, relativo
all’associazione fra il ri esso della salivazione e la vista di cibo. È
un dato di fatto che il cane, come l’uomo e molti animali,
quando vede del cibo, senza deciderlo, inizia a salivare. Anzi,
notiamo che più il cibo è appetitoso e più intensa è la
salivazione: ci viene «l’acquolina in bocca»!
L’applicazione della teoria del condizionamento classico alla
clinica del DP suggerisce che gli attacchi di panico situazionali
siano una reazione assimilabile alla salivazione del cane di
Pavlov: anche se non compare il cibo, ovvero non c’è nulla da
temere, al pensiero di trovarsi in una determinata situazione o
luogo, o a una semplice sensazione (come la tachicardia), il cane
saliva e la persona reagisce con un attacco di panico
situazionale, condizionato, appunto, alla situazione. È questa
l’ipotesi neurobiologica più accreditata per spiegare un
fenomeno che spesso è una caratteristica peculiare di chi so re
di questo disturbo: l’agorafobia. Seppur etimologicamente il
termine indichi la paura degli ampi spazi aperti, l’agorafobia sta
a indicare anche la paura, altrettanto tipica di queste persone,
dei luoghi chiusi.
Altra natura hanno gli attacchi di panico predisposti: in genere
sono legati a situazioni o esperienze che «sulla carta» la persona
che ne so re non riconosce come panico-geniche ma, basta un
clic, un «e se ora stessi male?», o un’accelerazione del battito
cardiaco a far ingenerare la paura della paura. In questo caso,
dunque, non esiste un’associazione aprioristica fra luogo,
situazione e reazione spropositata d’ansia; l’associazione viene
creata dalle condizioni mentali e dal contesto emotivo che la
persona vive in quel momento.

La quotidianità delle persone con disturbo di panico è però


caratterizzata anche da una sensazione che non è sempre
parossistica, acuta, spontanea o legata a stimoli e situazioni, ma è
soprattutto un sottofondo che sembra non andarsene mai. La
sensazione è quella di aver perso il siologico rapporto con il
proprio corpo. È come se qualcuno avesse alzato senza motivo il
volume dello stereo e tutte le sensazioni somatiche – dei visceri,
del cuore, della pelle, della percezione dell’esterno – si
ampli cano drammaticamente e assumono una valenza
minacciosa. La letteratura scienti ca non ha ancora appurato se
questo fenomeno sia dovuto al fatto che «l’orecchio» di questi
pazienti è più teso verso il proprio corpo o se è invece «il
volume» delle sensazioni del corpo a essere regolato troppo alto:
eppure queste persone avvertono sensazioni che vivono come
allarmanti, inevitabilmente insidiose, tossiche. Una persona
qualunque tende a normalizzare la tachicardia indotta per
esempio dallo sforzo sico, dalla calura estiva, non si preoccupa
sentendo un sussulto del cuore, non perché ha studiato siologia
e sa che le extrasistoli sono normali e non c’è da agitarsi, ma
perché è connaturato nel suo animo, nella sua forma mentis, di
tollerare quella cosa, senza arrovellarsi, doverla monitorare,
capire. Chi ha il panico no: non può evitare di preoccuparsi.
Molti autori ricorrono al termine «marcia» per indicare
un’escalation di eventi che nel tempo si susseguono dopo il
primo attacco di panico e nella loro sequenza concorrono a
determinare la sindrome che attanaglia la vita di queste persone.
A partire dall’esperienza di un attacco di panico, l’insorgere
del disturbo vero e proprio prevede infatti, come abbiamo già
detto, lo strati carsi, sull’attacco di panico, di altri fenomeni
psicopatologici: l’ansia anticipatoria, la paura della paura, la
tendenza a catastro zzare la situazione e il pensiero
ipocondriaco, ovvero il terrore delle implicazioni mediche
dell’attacco o delle sue conseguenze, nei termini di
compromissione della sopravvivenza sia fisica che psichica.
Molto spesso la componente della marcia del panico che
disturba maggiormente i pazienti non sono gli attacchi in sé,
bensì gli altri tasselli. Queste persone, infatti, sono preda di
angosce di natura ipocondriaca, l’esagerazione delle possibili
conseguenze di un sintomo fisico: in questo caso la tachicardia, il
nodo alla gola, i formicolii e i giramenti di testa non sono sintomi
d’ansia bensì il preludio di una vera e propria malattia sica
grave, vissuta come una catastrofe per il proprio futuro, divorati
dal pensiero di «non farcela da soli» ad a rontare un
avvenimento di tale portata. Queste persone sono alla perenne
ricerca di approfondimenti diagnostici che possano confermare
la loro certezza di fondo, quella di avere una qualche terribile
malattia.
La paura della paura, la catastro zzazione e l’ipocondria
conducono a strategie naïf per fronteggiare la condizione ansiosa,
quali l’evitamento fobico, ossia il rinunciare a vivere per evitare
di provare paura, il limitarsi nella propria libertà d’azione
concedendo terreno alla malattia nell’erronea convinzione di non
poter fare altrimenti, alimentando sempre più il senso di
fallimento dell’autoe cacia. Non è infrequente osservare
l’instaurarsi della cosiddetta demoralizzazione secondaria, una
condizione che assomiglia molto alla depressione, con tristezza
perenne, crisi di pianto, cambiamento di appetito (che
tendenzialmente si riduce, con «senso di chiusura dello
stomaco»), cattivo riposo («Non riesco più a riposare bene, mi
sembra di non dormire e mi sveglio più stanco di quando mi
sono coricato») e visione pessimistica delle cose.
So ocati dalle continue turbolente sensazioni che provengono
dal proprio corpo, queste persone cercano risorse esterne per
dominare il loro senso di perdita di controllo. Vengono così
identi cati «compagni fobici», le coperte di Linus, veri e propri
talismani, viventi e non, dotati della capacità magica di tenere
lontano il senso di precarietà. Entrano così in scena la bottiglietta
d’acqua, che permette di aiutare la deglutizione e allontanare il
so ocamento, il cellulare, che può servire per telefonare in caso
di bisogno, la moglie o il marito, da cui non ci si separa mai e
senza i quali ci si sente persi, in balia di onde altissime e
ina rontabili. Capita anche, a volte, di trovare sollievo nella
musica e in lando le cu ette dell’iPhone o cose del genere:
insomma, ci si immerge in un mondo che sembra immune
dall’ansia.
Talvolta purtroppo si scopre che con l’alcol la sensazione di
malessere si attenua e si cerca «aiuto» in qualche bicchiere di
troppo, correndo tuttavia il rischio di trasformare il disturbo
d’ansia in un disturbo da abuso. È, inoltre, frequente rilevare
condotte di uso/abuso di farmaci con e etto ansiolitico come le
benzodiazepine, che vengono utilizzate per contrastare
situazioni fobiche. La sostanza agisce come calmiere e, nella
quiete delle sensazioni che viene indotta nel corpo, la mente è
più libera e la persona «osa» s dare i tabù agorafobici, riuscendo
anche a dimenticare per qualche momento i ricorrenti pensieri
ipocondriaci.
A volte tali condizioni diventano così pervasive da non
permettere di sentirsi al sicuro nemmeno a casa propria, se non
insieme a qualche compagno fobico. Molte persone non riescono
più a dormire da sole a casa.
Ma perché tutto questo?
È la domanda, per così dire – spread e in azione permettendo
–, da cento milioni di dollari, per la cui risposta i pazienti
pagherebbero oro: avrebbe un valore imponderabile, per loro,
possedere una certezza in questo caos di fragilità.
È il quesito dal quale tutti gli psichiatri e psicoterapeuti,
d’istinto, si lasciano ingolosire e al quale vorrebbero dare una
inequivocabile risposta teorica: «Questo accade per il tale
motivo». Molti di loro, ahimè, partono per la tangente – convinti
che si tratti di una vera e propria autostrada –, adducendo la
colpa, di volta in volta, alla qualità del rapporto avuto da piccoli
con la mamma, a traumi subiti nella vita, o alla biochimica di
alcuni nostri neuroni, dove alcuni sostengono che sia tutto scritto
chiaramente. In realtà nessuno sa davvero cosa succede e,
inoltre, non è possibile generalizzare: spesso queste condizioni,
seppur caratterizzate da elementi di assoluta somiglianza, sono
di natura sostanzialmente diversa.
Davanti a questa domanda, alla quale è impossibile dare
risposta, inizia però la rincorsa del senso di benessere e il
cammino verso il recupero della leadership sulle proprie
emozioni. Noi professionisti della salute dobbiamo aiutare i
nostri pazienti a concentrarsi su un’altra domanda: «Cosa
possiamo fare?». Perché quello che chi so re di tali disturbi può
fare è davvero molto.

Panico, senso di fragilità e intelligenza emotiva

La cura del DP è tutta nel riuscire a dare un signi cato di erente


all’esperienza degli attacchi, recuperando padronanza e
familiarità con le proprie sensazioni. Questo è possibile grazie al
supporto di clinici esperti ma non può prescindere, come
vedremo più avanti, da un ruolo più che attivo dei pazienti.
Certo, il cervello emotivo di queste persone ha un
funzionamento caratterizzato da elementi di fragilità che spesso
sono prototipici, e anche nel loro vissuto e nelle loro anamnesi si
ritrovano avvenimenti ricorrenti. Tuttavia si tratta di
associazione, correlazione, non vincolo causale. Almeno, a oggi,
questo è quello che possiamo affermare.
Prima di parlare del cervello emotivo delle persone a ette da
disturbi di panico, è opportuno ricordare che le emozioni sono il
risultato del lavoro di un sistema complesso, il cervello appunto,
e che la comprensione del suo funzionamento non può giungere
da un’analisi «pezzo per pezzo», ma passa sempre attraverso una
visione d’insieme.
La presenza di un disturbo clinico produce nel cervello, dal
punto di vista funzionale, lo stesso e etto di un sasso lanciato in
uno stagno, ovvero alterazioni «sincronizzate» ovunque.
I pazienti con problemi di panico presentano anomalie
funzionali nel sistema emotivo sia nelle aree più antiche, quelle
posizionate più in basso in senso cranio-caudale, sia nelle aree
più giovani e so sticate, quelle composte dalla neocorteccia,
collocata nei lobi frontali e nella connessione di questi ultimi con
le aree direttamente sottostanti.
Queste anomalie hanno ripercussioni sul comportamento della
persona provocando problematiche inerenti la respirazione, la
sua regolazione, la comprensione delle proprie emozioni, la
trasformazione della percezione delle sensazioni in esperienza
emotiva, la verbalizzazione delle emozioni.
Inoltre queste persone hanno spesso un senso di insicurezza
che viene alimentato da una disregolazione del sistema deputato
a coordinare la nostra modalità di stare con gli altri.
Respirazione e panico

La respirazione e le regolazioni omeostatiche del sistema emotivo


sembrano avere un ruolo fondamentale in questo disturbo
clinico: il panico risulta essere innanzitutto il disturbo delle
emozioni ancestrali.
A livello dei meccanismi ancestrali di regolazione
dell’omeostasi corporea presieduti dalle strutture del tronco
encefalico – la parte allungata che costituisce il «collo» su cui
poggiano cervello limbico e cervello razionale –, i pazienti a etti
da disturbo di panico mostrano disfunzioni nella regolazione dei
ritmi della respirazione, che determinano una maggiore
irregolarità e «caoticità» del p attern respiratorio (gli aspetti
qualitativi-quantitativi del respiro).
Chi è a etto da DP , inoltre, risulta ipersensibile all’inalazione
di miscele arricchite con anidride carbonica (CO2 ), sostanza che
costituisce uno dei principali stimoli alla ventilazione per il
nostro sistema respiratorio. Poiché sono proprio i pazienti con
una più elevata irregolarità respiratoria a sembrare più sensibili
all’inalazione di CO2 , è stato ipotizzato che questa caratteristica
possa di fatto influenzare il manifestarsi degli attacchi di panico.
Terapie farmacologiche con comprovata e cacia clinica
antipanico si sono mostrate idonee a ridurre sia l’ipersensibilità
all’inalazione di CO2 che l’irregolarità respiratoria nei soggetti
a etti da disturbo di panico; ciò ha suggerito che la modulazione
della funzione respiratoria potrebbe essere uno dei percorsi
attraverso cui ottenere la remissione clinica degli attacchi.
Nell’esperienza quotidiana di queste persone il controllo della
respirazione rappresenta un grosso problema. La sensazione
riferita più spesso è che il respiro non sia più un atto automatico,
spontaneo, impercettibile, bensì una fatica da rinnovare con
apprensione in ogni istante. I pazienti descrivono la sensazione
di un peso che opprime il petto, la presenza di un nodo alla
gola; per non parlare delle sensazioni respiratorie che si
scatenano durante un attacco vero e proprio. Il senso di
so ocamento è il sintomo più tipico di questo disturbo. Durante
le crisi la paura di so ocare induce a compiere respiri rapidi e
super ciali. Questa modalità respiratoria produce
l’iperventilazione, un meccanismo biologico che induce tremori,
giramenti di testa, formicolii, o uscamento della vista e, in
sostanza, auto-mantiene la sintomatologia dell’attacco arrivando a
provocare anche lipotimia (una sensazione di debolezza che
però non comporta la completa perdita di coscienza) e, solo
raramente, veri e propri svenimenti.
Uno degli elementi centrali della terapia antipanico è proprio
la rieducazione respiratoria: con strategie pratiche si insegna ai
pazienti a recuperare la sensazione di familiarità con l’atto
respiratorio, e ettuando esercizi che sono sia uno strumento per
rilassarsi, sia una prima forma di allenamento a sentire il proprio
corpo in modo di erente, recuperando il siologico contatto con
l’esperienza di essere, in ogni momento, una macchina ben
oliata.

Nebbia emotiva e consapevolezza di sé: alessitimia e panico

La di coltà di vivere la propria corporeità, tipica di queste


persone, non si ferma al problema della respirazione. Esse
hanno un modo di vivere le emozioni tutto particolare:
tendenzialmente fanno fatica, o sono imprecise, nel sentire,
descrivere e gestire i propri stati d’animo; confondono le
sensazioni con le emozioni, chiamano infatti i sentimenti con gli
stati fisici che li compongono.
«L’altro ieri Giovanni e io abbiamo discusso. Non posso stare
così… Questo panico mi fa sentire stupida: lui voleva andare a
mangiare la pizza e ha iniziato a dirmi che il cinese era una
pessima idea, che io ho sempre questa ssa del cinese… che era
stufo. Improvvisamente mi sono sentita… la tachicardia, la testa
che mi girava, non capivo cosa mi stesse succedendo, per
fortuna c’era lui, anche se sbu ava perché mi era venuta
l’ennesima crisi.»
Spesso queste persone vivono con allarme sensazioni
siologiche, normali, faticano nel dare il nome a un sentimento,
hanno una rappresentazione sfuocata e scarsa consapevolezza
del proprio vissuto. In questi casi si parla di alessitimia, dal greco
a-léxis-thymós, «emozioni senza parole».
Molto è stato detto circa questa caratteristica emotiva che si
associa a numerose condizioni cliniche, ma in particolar modo ai
disturbi d’ansia e nello specifico al disturbo di panico, e che anzi
sembra avere un ruolo determinante nel passaggio dalla
presenza di attacchi di panico a disturbo di panico.
La capacità di avere consapevolezza degli stati d’animo, del
proprio essere interiore, di avere una chiara rappresentazione
delle emozioni che proviamo, è una caratteristica tutta
dell’essere umano. Infatti, sebbene anche gli altri animali non
umani vivano le emozioni, non ne hanno coscienza. Quando il
vostro cane vede il gatto del vicino e inizia ad abbaiargli
ringhiando, vive la rabbia, ma non ne ha la consapevolezza: la
esterna e basta.
Molto del tempo che i terapeuti dedicheranno a queste
persone dovrà essere incentrato sulla riabilitazione di questa
caratteristica emotiva: è davvero difficile vivere con la sensazione
di essere in un ampli catore dove veniamo inondati da un
insieme di suoni che non riusciamo a percepire in modo
distinto. Questa è la condizione matrice della generale diffidenza
che questi pazienti hanno nei confronti del proprio corpo,
vivendo questi segnali come minacce assordanti. Il mondo del
soggetto alessitimico è un mondo concreto, senza un livello di
astrazione sul «qui e ora», è fatto di sensazioni, concentrato sui
minimi particolari esterni, impossibilitato a trasformare la
percezione corporea in stato a ettivo e, di conseguenza,
incapace di utilizzare gli a etti come segnali. Queste persone,
quando interrogate sulle emozioni provate rispetto a un evento
stressante, tendono a dare una descrizione dettagliata
dell’evento, senza alcun riferimento ai propri sentimenti,
aiutandosi con un linguaggio che si potrebbe de nire organico,
corredato da gesti volti a «colorare» il racconto, come a voler
completare la valenza a ettiva di quello che stanno descrivendo
e che però non riescono a tradurre in parole.
Questo caratteristico stile di pensiero non è individuabile solo
in chi è a etto da un disturbo clinico conclamato, ma lo si può
riscontrare anche in persone in assenza di franca patologia: esso
determinerà il loro stile comunicativo e relazionale creando
spesso di coltà, facendole vivere in un mondo in cui è di cile
spiegare agli altri le proprie emozioni e interpretare le situazioni
sulla base di quello che ci hanno fatto provare.
In un recente studio abbiamo valutato la presenza di questo
caratteristico de cit emotivo nei familiari sani dei pazienti e in
soggetti che hanno sperimentato l’attacco di panico senza mai
sviluppare un vero e proprio DP . Ci siamo infatti chiesti come
mai, se ben due soggetti su dieci provano nella vita l’esperienza
di un attacco di panico, solo una piccola percentuale sviluppi un
e ettivo disturbo di panico. Quello che abbiamo osservato è che
i familiari sani dei pazienti, più esposti rispetto alla popolazione
generale all’esordio del DP , sembrano avere un livello di
alessitimia vicino a quello dei pazienti, suggerendo che questa
sia una caratteristica anche delle persone che sono a rischio di
sviluppare il disturbo. Al contrario, quanti hanno avuto un
attacco ma non l’hanno trasformato in disturbo, e che quindi
sembrerebbero esserne immuni, hanno livelli di alessitimia
molto bassi, facendo ipotizzare che questa caratteristica li abbia
protetti dallo sviluppo del disturbo conclamato.

Io e la mamma: i legami affettivi dell’infanzia

Anche la storia dello sviluppo relazionale del cervello emotivo di


queste persone ha una caratterizzazione peculiare, rilevando
comportamenti disfunzionali, particolari eventi di vita, speci ci
contesti familiari.
Gli studi su persone che hanno sviluppato il DP in età adulta
hanno individuato alcuni fattori «di rischio» presentatisi in
giovane età: eventi di separazione come morte o divorzio dei
genitori; comportamenti suggestivi per la sindrome ansiosa da
separazione; un caratteristico stile di accudimento iperprotettivo
da parte dei loro genitori e, in ne, una particolare modalità di
relazione che prende il nome di «attaccamento insicuro».
Secondo John Bowlby, psicologo e psicanalista inglese del
Ventesimo secolo, un attaccamento insicuro, nello speci co un
attaccamento ansioso (ovvero la paura dell’abbandono,
l’incertezza rispetto alla reale vicinanza della gura di
attaccamento), sarebbe la base ontologica della peculiare
preoccupazione per le sensazioni fisiche caratterizzante i soggetti
a etti da disturbo di panico. Un attaccamento ansioso, secondo
questa teoria, si assocerebbe a una di coltosa attenuazione
dell’ansia da separazione del bambino. Le relazioni di
attaccamento precoce di tipo sicuro sarebbero alla base del senso
di controllo e prevedibilità dell’esperienza di sé (esperienza
delle sensazioni corporee) e del non sé (esperienza del milieu
sociale), che ciascun individuo sviluppa e grazie al quale non
interpreta come minacciosi gli stimoli interni di natura ambigua.
Questo disequilibrio renderebbe i soggetti con DP
particolarmente sensibili sia alla perdita di autonomia sia alla
perdita di protezione.
Alcuni autori suggeriscono che, oltre a essere importante per
lo sviluppo del senso di controllo e prevedibilità dell’esperienza
di sé, la relazione madre- glio nella primissima infanzia sia
fondamentale anche per lo sviluppo della capacità di meta-
rappresentazione delle emozioni: mediante il rispecchiamento
delle espressioni emotive con il suo caregiver – la persona che si
prende cura di lui – il bambino impara ad avere una visione
consapevole dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Se il
genitore non è in grado di esercitare tale funzione o se fornisce
risposte incoerenti, esistono forti probabilità che il bambino
sviluppi una consapevolezza limitata rispetto a una vasta gamma
di a etti ed emozioni, mostrando quindi un de cit alessitimico
nonché uno stile di attaccamento insicuro.
Il disturbo di panico si contraddistingue per una particolare
tipologia di reazione emotiva alla patologia, caratterizzata dalla
sensazione di help lessness – impotenza – e da condotte di
evitamento nel tentativo di schivare, di «evitare», appunto, ciò
che non sente di poter gestire in autonomia. Il paziente si sente
impotente davanti alla propria malattia e cerca un supporto,
accudimento, qualcuno a cui appoggiarsi. Questa reazione
determina una oggettiva «limitazione», innescando un circolo
vizioso che ostacola il processo di cura. Questo circolo vizioso è
sostenuto da alcuni de cit nella regolazione delle emozioni:
l’impossibilità a controllare la propria risposta emotiva nel tempo
e nell’intensità. Ciò alimenta la sensazione di non gestibilità delle
proprie reazioni, motivo per cui sembra scontato ai pazienti
doversi affidare.
Questo aspetto determina una peculiare forma di interazione
medico-paziente, che talvolta si traduce in una spirale viziosa.
Queste persone hanno un disperato bisogno di a darsi, di
sentirsi accudite e non sono per nulla sicure di meritarsi e di
poter trovare comprensione da parte dell’altro. Ciò le rende
persone estremamente sensibili, fragili; spesso la terapia e in
p rimis il terapeuta diventano un guscio in cui rifugiarsi, che le fa
sentire sicure, ma il prezzo che si paga è la non-autonomia e la
cronicizzazione del problema se non si costruisce, insieme al
terapeuta, un percorso di cura che miri a recuperare il senso di
leadership attiva sulle proprie sensazioni e nelle relazioni.
Rosso pomodoro: la fobia sociale
Momenti imbarazzanti

«Cosa pensano di me quando tremo? Che sono ansioso? Pazzo?


Un debole? O che sono stupido?»
Tutti sappiamo cosa sia la timidezza, quel senso di imbarazzo
che proviamo nel metterci in relazione con l’altro: perché è una
persona che non conosciamo, con cui abbiamo poca con denza,
o perché ne temiamo il giudizio o ne riconosciamo l’autorità.
Sappiamo anche cosa sia la vergogna, la sensazione di aver fatto
una brutta gura, qualcosa di ridicolo, di moralmente illecito o
socialmente riprovevole.
E conosciamo tutti l’ansia legata all’esporci davanti a un
pubblico più o meno vasto, più o meno giudicante.
Sono tutte reazioni emotive che fanno parte della nostra vita
relazionale, sono segnali che ci aiutano a essere animali sociali
più e cienti, più reattivi nei confronti dell’altro, che rendono
ragione di quanto sia importante per noi l’accettazione nel
gruppo dei nostri conspecifici.
L’essere accettati e godere di credibilità nei confronti degli altri
è fondamentale perché noi siamo idiosincraticamente animali
sociali e rivestire un ruolo nel «branco» è una delle più comuni
fonti di ansia. Che si tratti della paura di essere ri utati, non
considerati all’altezza o per no di non essere notati, del timore
di non essere apprezzati per quello che facciamo e di non essere
in grado di soddisfare le aspettative dell’altro, o ancora di
manifestare segni di fragilità (come l’ansia), l’essere umano è
costantemente in tensione per il giudizio dell’altro.
«È sempre la solita storia: quando facciamo le riunioni non c’è
preparazione che tenga, posso leggere e rileggere quei fascicoli
all’in nito ma quando mi passano la parola tremo come una
foglia, ho la salivazione azzerata, mi limito a dire che concordo
anche io con loro e, quelle volte che riesco a dire quel che penso,
lo faccio con un tono di voce talmente basso che forse nemmeno
si accorgono che sto ancora parlando; ma magari meglio così
perché sono momenti davvero imbarazzanti.»
A chiunque può capitare, in una condizione in cui è
particolarmente rilevante l’esito dell’interazione sociale ed è
riposta grande aspettativa sull’accettazione da parte dell’altro, di
temere che gli altri scorgano segni o manifestazioni della nostra
ansia. Lo «stupido è chi lo stupido fa» – reso celebre dal lm
Forrest Gump – applicato al mondo dell’ansia potrebbe essere
parafrasato come: «ansioso è chi teme di perdere il controllo
sulla propria ansia». Una sorta di cane che si morde la coda.
Ci sono però forme di esasperazione di questi stati emotivi che
risultano invalidanti. Situazioni nelle quali la paura di mostrare
reazioni d’ansia quali rossore, tremore, sudorazione, incertezza
nel tono della voce, ci gioca brutti scherzi, paralizzandoci e
facendoci vivere come un incubo le situazioni in cui dobbiamo
esporci al giudizio altrui.
Il problema si pone quando, a prescindere dal pensiero, dal
livello di coinvolgimento emotivo e dalla rilevanza sociale
dell’interazione, il nostro corpo reagisce in maniera intensa, e
sproporzionata, alla «prova» di giudizio cui siamo sottoposti.
In una condizione di normalità, durante la singola esposizione,
e a maggior ragione nel caso di esposizioni ripetute in lassi di
tempo ristretti, la persona che si preoccupa del giudizio dell’altro
in modo non fobico imparerà dall’esperienza e si rilasserà,
prendendo dimestichezza con la situazione e riducendo – quasi
a livello inconscio – lo stato di tensione. Questo non succede ai
fobici, che al contrario rimangono in costante tensione e il cui
malessere nisce spesso per consolidarsi e radicarsi oltremodo. Il
corpo si imbizzarrisce e non è più possibile domarlo. Talvolta
anche la medesima capacità di ri ettere sull’evento è distorta e
la «catastro zzazione» delle conseguenze del giudizio e della
manifestazione sica dell’ansia diventa, nella mente della
persona, un fatto reale, non più uno scenario ipotetico.
Siamo in ansia perché abbiamo paura che gli altri ci vedano in
ansia! E più siamo in ansia più il pensiero va in corto circuito e il
nostro spazio mentale si riduce, creando vuoti di memoria, senso
di stordimento e tutti quei correlati siologici dell’intensa
agitazione: bocca secca, nodo allo stomaco, nausea, mani sudate
e fredde, pallore, labbra tese.
Una semplice rma in posta diventa una montagna da scalare:
«Oddio, mi tremerà la mano, chissà come farò, chissà cosa
penserà l’impiegato»; «Oddio, tutti si accorgeranno che mi trema
la voce, non potrò più guardarli in faccia». E più questi pensieri
si innescano nella mente più il corpo si abitua a reagire in modo
intenso e inappropriato: sudiamo, ci riempiamo di chiazze, ci si
infuoca la pelle del viso con la sensazione di diventare una
bistecca poco cotta che sta bruciando sulla graticola…
La fobia sociale è il risultato di un mix di due elementi.
Innanzitutto può essere il corpo che «batte in testa» e manifesta
reazioni inusitate, come una macchina che appena le si dà gas
parte sgommando o un antifurto che scatta per ogni minima
cosa: il corpo di queste persone è ipersensibile, interpreta a suo
modo le situazioni sociali e va in corto circuito impedendo la
lucidità mentale e bloccando le funzioni cognitive superiori. Alla
persona non resta che cercare di minimizzare i danni e starsene
in disparte, non prendere parola, sottrarsi all’attenzione dell’altro
che potrebbe accorgersi di quell’imbarazzante stato di
agitazione.
In secondo luogo, un simile stato d’ansia può essere mosso
anche da convinzioni, pensieri, atteggiamenti mentali, cui
risponde una reazione intensa del corpo. In questo caso non è il
terminale «somatico» a essere difettoso, ma è l’attribuzione di
significato alla situazione a generare la reazione disadattiva.
Sovente la realtà corrisponde a un mix perfetto di queste due
componenti.

Un nemico da rivalutare

Il fatto che le situazioni temute siano spesso legate alla presenza


di estranei, persone con cui si ha poca con denza, non è né la
regola né un aspetto fondamentale di questo disturbo. La paura
del fobico sociale, infatti, non è modulabile sulla base del livello
di con denza con l’altro perché non presuppone di concentrarsi
su «cosa l’altro pensa di me», ma implica il non avere il controllo
sulla propria reazione emotiva ansiosa nei contesti relazionali,
quindi, se opportunamente preparata a livello mentale, è a
prescindere dall’altro ma strettamente connessa alla paura della
paura, l’ansia anticipatoria.
Questa fobia può determinare una signi cativa limitazione nel
quotidiano e la persona che ne è a etta evita quelle situazioni
che le sembrano particolarmente ostiche. Il disturbo si propaga a
macchia d’olio in tutta la sfera sociale della persona e ben presto
ci si ritrova a temere una semplice chiacchierata dal giornalaio.
Alcuni aspetti di questo comportamento sociale non sono
necessariamente negativi e la loro valenza non è sempre
associata al concetto di umiliante imbarazzo, ma piuttosto a una
compita attenzione per il prossimo. È il caso, per esempio, della
riservatezza e della cerimoniosità che caratterizzano le
convenzioni sociali della cultura giapponese.
In modo trasversale, la sintomatologia dell’ansia sociale ha una
stretta correlazione con il livello di autostima: chi si sente
insicuro di sé, indegno di rispetto e attenzione, faticherà nelle
interazioni temendo il giudizio altrui e mostrerà una forte
inibizione.
Non è una bassa autostima, però, il pilastro della fobia sociale,
quanto invece l’incontrollabile reattività sica e la paura di non
essere in grado di gestirla. Un fobico è anche un
catastro zzatore, perché ad aggravare la sua sintomatologia
interviene l’ansia relativa a cosa penseranno gli altri osservando
quei sintomi, senza riuscire a vivere con leggerezza la propria
condizione, della serie: «Anche se mostro sintomi d’ansia non è
poi così grave».
Di fatto stiamo parlando di un circolo vizioso.
Un’elevata autostima ci porta a mettere in atto comportamenti
che, in genere, ci rendono desiderabili agli occhi degli altri;
avvia una catena di eventi che ci permette di vivere ogni
situazione con serenità e felicità.
L’autostima non è però un ri esso, una variabile direttamente
correlata al valore degli individui, alla loro capacità di fare o di
saper essere; le persone con una bassa autostima, quelle che
spesso cadono nella trappola dell’ansia del non saper fare, non
sono per nulla inadeguate. Anzi: quasi sempre l’attenzione che
ripongono nel giudizio dell’altro le rende persone empatiche,
con cui è piacevole stare, da cui ci si sente accuditi e
considerati, alle quali si tende a voler con dare le proprie ansie,
sentendoci accolti. L’ansia sociale, come spesso per altre forme di
ansia, vale la pena ribadirlo, non è un nemico e non è del tutto
disfunzionale: dobbiamo imparare a governare questa
caratteristica del nostro modo di essere per valorizzarla, senza
avere paura.
T imidezza patologica e autostima

La fobia sociale è quindi un’entità clinica che in un continuum fra


patologico e siologico sfuma in condizioni di disagio che hanno
diversa natura pur assomigliandosi per le manifestazioni
comportamentali. Esistono infatti numerose entità di erenti sia
nosogra che che fenomenologiche che ruotano attorno all’ansia
sociale.
Ci sono costituzioni caratteriali, connotate da profonda
insicurezza e disistima, che si caratterizzano per la paura della
mancata accettazione come soggetto degno di attenzione e di
inclusione in un gruppo sociale così come nelle relazioni
interpersonali intime. È questo il caso di persone particolarmente
premurose, remissive, empatiche e disponibili a esaudire
desideri e aspettative altrui. Qui il disagio deriva dalla di coltà
di conciliare i propri desiderata con le aspettative del mondo su
di sé che, spesso, proprio perché si manifesta verso gli altri una
disponibilità pressoché illimitata, diventano sempre più alte. La
disfunzione è dovuta al fatto che in realtà un approccio di questo
genere nisce con il far avverare le più grandi paure della
persona che ne so re: non riuscendo mai a negoziare la propria
posizione, nisce per vivere una condizione di perenne
frustrazione che sembra avvalorare la tesi del «non sono degno
dell’attenzione di nessuno». L’ansia in questo caso è una
siologica reazione emotiva a un si atto punto di vista. La cura
non è una terapia per l’ansia ma un intervento psicoterapeutico
sul carattere.
Ci sono poi invece persone che sentono il bisogno di un
riconoscimento particolare da parte degli altri. Esse vivono, in
tutti i contesti, come se fossero in perenne competizione, quasi ci
fosse sempre un giudizio o un esame da a rontare. Animate da
questo spirito «agonistico» vivono l’ansia sociale come diretta
conseguenza del non potersi permettere non solo, e non tanto,
una brutta gura, bensì una p erformance anche solo su ciente,
che per loro non è mai un obiettivo desiderabile ed è comunque
fonte di frustrazione. Questi individui possono manifestare ansia
quando si sentono al centro dell’attenzione e si aspettano di
o rire una prestazione di alti livelli, quindi l’aspettativa è
massima. I sintomi possono assomigliare molto a quelli di un
fobico sociale – colui che teme di arrossire e balbettare davanti
agli altri –, tuttavia le persone che avvertono uno smodato
bisogno di successo possono avere un inizio incerto ma, una
volta rotto il ghiaccio, tendono a sciogliersi per poi diventare
di cili da fermare nella loro interazione sociale. Non è a atto
detto che siano comunicatori più bravi dei fobici o di coloro che
temono di non valere, semplicemente si sentono tali e quindi «si
impadroniscono della scena».
I differenti livelli di autostima si associano in modo diverso alle
fragilità caratteristiche del funzionamento emotivo. Le persone
con un profondo senso di insicurezza hanno una visione del
proprio mondo emotivo o uscata, mostrano evidenti di coltà
nell’interpretare le proprie emozioni e dare loro un nome; spesso
chiamano tutto ansia, si spaventano per le sensazioni siche,
faticano a mettere in relazione i pensieri con le emozioni e
subiscono alcuni precostituiti assunti – «questa cosa è così per
questo dato motivo» – rileggendo tutto come una conferma dei
propri fallimenti.
Le persone con elevate aspettative su di sé sono abituate, nei
contesti sociali, ad ascoltare poco i bisogni altrui, a osservare
l’altro come «mondo da capire», semplicemente aspettandosi di
vedere in chi sta loro davanti un rispecchiamento di sé. Oltre a
non esserci abituate sono anche poco brave in questo compito di
«lettura» delle emozioni e dei pensieri di individui diversi da sé.
Spesso, inoltre, restano ferme sulle proprie posizioni, tendono a
essere percepite come aggressive perché, aprioristicamente
assertive, per loro consuetudine negoziano poco con gli altri le
proprie opinioni.
Quando però vengono contraddette in un contesto in cui si
sentono fragili, possono manifestare anche segni di profondo
imbarazzo. Sono persone che associano comportamenti e
manifestazioni di ansia sociale a reazioni aggressive e prepotenti.

Possibili approcci terapeutici

La terapia dell’ansia sociale, che cura i soggetti a etti da una


vera fobia sociale, si basa su due cardini.
Il primo è l’allenamento alla lettura delle proprie emozioni,
alla loro esternazione e comunicazione agli altri, e ai
comportamenti proattivi all’inclusione sociale. Questa parte della
terapia richiede un’alfabetizzazione emozionale di tipo teorico e
un approccio pratico alla sintonizzazione fra l’aspetto
esperienziale, mentale, di certe condizioni emotive, e il loro
aspetto somatico viscerale. Questo lavoro è molto importante
perché spesso l’ansia sociale esegue dei veri e propri «sequestri
emotivi» della mente delle persone che ne so rono e la
componente somatica diventa una specie di martello pneumatico
che impedisce la concentrazione su ciò che si sta vivendo e sulla
sintonizzazione dei pensieri con gli stati emotivi.
Il secondo cardine è il ripristino di una normale reattività
somatosensoriale. Questo obiettivo è perseguibile attraverso due
canali di intervento, che non si escludono a vicenda ma, anzi,
possono essere utilizzati insieme.
Da un lato è possibile ricorrere alla terapia farmacologica:
l’utilizzo di Ssri (gli inibitori della ricaptazione della serotonina)
produce in un buon numero di casi una normalizzazione delle
abnormi risposte emotive, che non sono più assordanti come
nella fase acuta del disturbo. La persona ne ricava la sensazione
di avere la mente nalmente sgombra e di poter fare
considerazioni, ri essioni su ciò che vive e confutare idee, false
credenze e opinioni poco funzionali al benessere e all’e cienza.
Non va mai dimenticato che, anche in un caso del genere, la
farmacoterapia è accessoria: il paziente deve essere un
protagonista attivo e credere in sé e nel suo ruolo al ne di poter
modi care la propria interazione all’interno dei contesti sociali
che gli provocano disagio.
È possibile ottenere buoni risultati anche con l’applicazione di
tecniche di rilassamento e b iofeedb ack– ovvero retroazione
biologica – sulla risposta somatica alle situazioni ansiose: si tratta
di esercizi pratici in cui viene insegnato, sulla base del
meccanismo di apprendimento «per condizionamento» (cioè
l’associazione di una data reazione automatica a un contesto-
signi cato), a modulare la propria risposta viscerale, a non
esasperarsi percependola come una disgrazia inemendabile, ma
valorizzandone il signi cato di segnale e risposta adattiva, insito
nella natura di tutti gli stati emotivi.
Strane manie:
ossessioni, bizzarrie e dintorni
Intrusi invadenti

«Una volta mi sentivo libero di fare ciò che mi andava, ogni gesto
era facile, naturale; ora è tutto così complicato. Passo tanto
tempo a controllare. Controllare di aver chiuso la porta a chiave,
di aver spento il gas, che tutto sia allineato sulla scrivania, di
aver riposto le scarpe in perfetto ordine nella scarpiera… Lo so,
ne ho consapevolezza, è già tutto a posto ma… È più forte di me:
quei tre colpi che do alla maniglia hanno il potere di
rassicurarmi. Solo così mi sento meglio.»
Il disturbo ossessivo compulsivo (acronimo DOC) rappresenta
una s da per il professionista della salute mentale; è una
patologia che rientra nel novero dei disturbi d’ansia, ma ha una
sua fenomenologia ben de nita che la di erenzia dagli altri
fenomeni ansiosi: contestualmente a una fenomenologia
uni cante, i pazienti a etti da DOC rappresentano una
popolazione del tutto eterogenea. Questa eterogeneità si
rintraccia anche, e soprattutto, nella prognosi delle persone che
ne so rono: molte di esse sono purtroppo destinate a una
cronicizzazione della problematica e spesso questo avviene in
p attern fenotipici ben de niti non solo da determinate
caratteristiche cliniche, ma anche da certe peculiarità del loro
cervello emotivo.
Inoltre, la s da della cura di persone a ette da DOC sta nel
fatto che, al di là della sintomatologia evidente (il loro agire
reiterato e compulsivo), le loro vite sono sostanzialmente
invalidate da una spesso totale incompetenza emotiva che rende
ragione della loro disfunzionalità sociale.
La fenomenologia che caratterizza questi pazienti è tutta nella
forma del pensiero ossessivo: è lì che vanno rintracciate le radici
e l’identità del disturbo. Intrusività, ripetitività, incoercibilità ed
estraneità sono le caratteristiche fondanti del fenomeno
psicopatologico «ossessione». È sorprendente come questa
fenomenologia si ripeta puntualmente in persone tanto diverse
fra loro. Tale eterogeneità permette di «suddividere» i pazienti
sulla base di numerose variabili di di erente pertinenza: i
contenuti del pensiero ossessivo, la storia di vita dei pazienti,
l’età di esordio del disturbo, il funzionamento neuropsicologico,
le competenze emotive, lo stile relazionale, il profilo genetico.
«Vede, dottore, prima il problema era che quando guidavo – si
ricorda vero? – dovevo sempre ritornare indietro per
convincermi di non aver commesso incidenti. Sì lo so, era
surreale, ma per quanto ci stessi attento, e ogni semaforo fosse
una tesi di laurea, poco dopo mi sembrava di aver dimenticato
qualcosa, di non averlo fatto con la dovuta attenzione e… tornavo
indietro. Ma ora… ora mi sembra ancora più grave. Alla sera
mentre sparecchio la tavola e carico la lavastoviglie mi sembra di
sentire delle voci fuori sul balcone, delle grida di aiuto… è una
sensazione ma per quanto mi sforzi di dirmi che non è vera,
devo uscire a veri care che non ci sia nessuno in pericolo che
grida aiuto. Ho coinvolto anche mia moglie, quello mi rassicura;
lo chiedo anche a lei, se le ha sentite. Lei ci ride sopra, ma poi
quando vado avanti anche delle mezz’ore a chiedere
rassicurazioni nisce che litighiamo perché lei si spazientisce…
È un disastro, dottore.»
In genere queste persone sono attanagliate da pensieri, dubbi,
paure, talvolta vere e proprie immagini intrusive, lastrocche e
ritornelli di canzoni, che ronzano loro in testa come un disco
incantato. Si bloccano lì, irrazionali ed estranei, perché non sono
frutto di un ragionamento e non sono voluti, anzi sono per
l’appunto degli intrusi che prepotentemente richiamano
attenzione ed energie, occupando gran parte del loro spazio
mentale. Il problema è proprio qui: generano un’ansia atavica,
angoscia, senso di impotenza che sfuggono del tutto al loro
controllo.
«Come faccio a lavarmi le mani? Come faccio a capire che
sono pulite? In realtà, dottore, il discorso vale anche un po’ per
tutta l’igiene del corpo: seguo un ordine preciso quando mi lavo.
È un rito, la cui corretta esecuzione mi rassicura, solo così mi
sento a posto. Prima solo con l’acqua, con un gesto circolare di
una mano sull’altra, poi le insapono accuratamente, e mentre lo
faccio conto, conto per regolarmi con la giusta quantità di
passaggi. Solitamente arrivo a diciotto, a volte però, se vengo
interrotto… mia madre non capisce mai e mi chiama sempre per
sapere se va tutto bene, ma questo mi disturba… be’, in quei casi
o ricomincio da capo o vado a un multiplo di tre e di solito, se la
giornata è positiva, mi fermo a ventisette.»
Da lì nascono dei gesti, rituali spesso a connotazione
scaramantica, che se eseguiti correttamente (come se ci fosse
una specie di libretto delle istruzioni), hanno il magico potere di
placare l’ansia. Ma la quiete dura poco: dal nulla rispunta ancora
quel dubbio, quella paura, che rapida diventa una certezza e
ricomincia tutto da capo.
«Per me esistono i giorni sì e i giorni no. Nei giorni sì, posso
fare una serie di cose. Nei giorni no, non posso fare nulla: ho
paura di essere contaminato. Anche la scelta del bar dove
comprare la bottiglietta d’acqua per inghiottire le pillole che mi
ha prescritto, dottore, è di cile. È come se dovessi controllare
che il nome del bar non sia collegabile in nessun modo alla lista
di “nomi no”, quelli che temo. Funziona così: se io faccio una
cosa, qualsiasi cosa, senza rispettare questi parametri di
sicurezza… ho paura di essere contaminato, di diventare come
quelle persone che non stimo… Lo so, è un pensiero assurdo ma,
mi creda, ieri ho girato due ore per trovare un bar che mi
ispirasse ducia. I numeri poi sono un’ossessione. È un incastro
magico per cui devo cercare combinazioni, multipli o
filastrocche che mi rassicurino.»
«Lei, dottore, non sa che angoscia sia per me prendere il treno
alla mattina per andare all’università. Tutta quella gente stipata,
non parliamo poi della metropolitana: ho sempre paura che
qualcuno, urtandomi, possa contaminarmi. Lo so che è
impossibile, ma è come se avessi la sensazione sica di
appiccicoso, sento gli occhiali appiccicosi, e anche il naso mi
sembra sporco di colla. Ho sempre l’idea che qualcuno
toccandomi mi contagi con il Bostick; sì, so che è irrazionale ma
non riesco a gestirla. È terribile perché non ammetto quella
sensazione di imperfezione… questo mi mette di un umore nero
e quando torno a casa sono costretto a lavarmi tutto. E lei,
dottore, sa bene cosa vuol dire per me lavarmi tutto!»
Quello che mi ha sempre a ascinato di questo lavoro è lo
sforzo per comprendere il comportamento altrui. Quando ci si
confronta con la bizzarria, la deviazione dalla norma, la non
naturalezza di certi atteggiamenti o comportamenti, se ne può
avere paura, di denza. Questa reazione, se vogliamo, è
normale, perché è normale che quello che non conosciamo ci
faccia paura. Ma si tratta solo di guardare «sotto» ai
comportamenti e, se si conosce la grammatica giusta, le
spiegazioni si trovano e anche le stranezze più assurde diventano
comportamenti in un certo senso prevedibili.
È proprio questo il caso dei sintomi ossessivo compulsivi. La
loro natura è quella ansiosa. Nulla di più.
Tutti noi da piccoli abbiamo familiarizzato con la
scaramanzia: piccoli gesti portafortuna che sottendevano il
pensiero «se faccio questo allora quella cosa mi andrà bene», e
tutti noi ci siamo compiaciuti di aver messo in minuzioso ordine
la nostra scrivania, il nostro armadio, o ci siamo so ermati, per
vezzo, a ri lare la barba più volte, a ricercare una specie di
perfezione nascosta, irraggiungibile. Tutti noi, quando siamo in
ansia o in un periodo un po’ stressante, tendiamo ad avere il
dubbio di non aver chiuso la macchina o la porta di casa,
sentendo la necessità di ricontrollare per essere rassicurati.
Immaginiamo ora, però, che il vezzo si trasformi in regola,
irrinunciabile, inemendabile, improcrastinabile. È quello che
capita tutti i giorni a chi so re di disturbo ossessivo compulsivo.
L’aggravante per queste persone è che si sentono strane, ma
hanno vergogna di aprirsi e chiedere aiuto, hanno paura di
essere giudicate pazze. In e etti ci sono forme di anomalia del
pensiero che rappresentano, nell’immaginario collettivo, l’attività
mentale del folle: per esempio sentire le voci, avere convinzioni
deliranti, come pensare di vivere in un’altra epoca o di essere in
contatto telepatico con gli extraterrestri. Queste persone però non
vivono così angosciosamente la loro condizione perché, si dice in
gergo tecnico, sono «sintonici con questo mondo», ne fanno parte
in maniera totalizzante.
Coloro che presentano sintomi ossessivi, invece, percepiscono
l’intrusività delle loro «manie», e ne sono angosciati proprio
perché mantengono sempre un piede nella realtà, avvertendo in
modo tangibile l’anomalia di questi loro pensieri bizzarri che
però sono soverchianti e annichilenti.

Sentirsi diversi

«Dottore, credo di essere depressa. Non avrei mai detto che un


giorno mi sarei rivolta a uno psichiatra. Ho sempre pensato che
dallo psichiatra ci andasse gente che non lavora, che fa cose
strane, i matti insomma. Però ora sono qui, e non le nascondo
che un po’ stranina mi sento, anzi… Vede è bruttissimo, credo
che tutto sia collegato a questi strani pensieri. Non saprei come
descriverli, o meglio: più che pensieri sembrano degli istinti, ma
lo so che non sono miei, e questa cosa mi angoscia. Insomma,
sono spesso presa dal dubbio di essere attratta dalle donne. Non
ho mai avuto nulla contro l’omosessualità, anzi, ho molti amici
omosessuali, ma ora sembra che debba convincermi di non
esserlo. Ogni volta che vedo delle ragazze poi passo del tempo a
osservare le mie reazioni siche per vedere se provo qualcosa,
se… insomma, mi capisce no? Talvolta mi sento come attratta a
mo’ di calamita e mentre parlo con la mia capa sul lavoro ho
paura di schioccarle un bacio, ma, mi creda, non mi piace. E lo
so per certo. Però, è quella sensazione tipo impulso… è il dubbio
da dover fugare che mi distrugge. Tutto ciò mi s nisce, mi
angoscia, non ci dormo la notte!»
Quindi, seppure siano anche questi disturbi d’ansia, le
persone che ne sono affette si sentono spesso dei «diversi».
Cosa succede, e perché questo accada, nessuno lo sa bene.
Esiste una grandissima varietà di ossessioni e compulsioni.
Spesso nella stessa persona se ne possono osservare diversi tipi. Il
bisogno di mettere a posto le cose in modo simmetrico, seguendo
uno schema rigoroso, il dubbio di non aver compiuto azioni tutto
sommato consuete come chiudere porte, nestre, il gas, non aver
portato con sé chiavi, portafogli, e così via. Ma anche il timore di
aver fatto del male ad altri: dall’angoscia di aver eseguito una
manovra azzardata e tornare indietro a ricontrollare che vada
tutto bene, alla paura di far del male ai bambini, il che implica
la necessità di stare lontani da loro temendo di poter perdere il
controllo e fare cose tipo strozzarli, farli cadere volontariamente
per terra.
Ci sono anche ossessioni che appartengono alla sfera religiosa
come la paura di voler gridare una bestemmia o la sensazione
che questa «ci scappi» dalla bocca come un istinto prevaricante;
da ciò ne consegue il bisogno di dire preghiere e compiere gesti
religiosi per esorcizzare così il pensiero impuro. Ci sono poi le
manie di accumulo, all’insegna del «Non si sa mai, magari mi
potrebbe servire»: gente che accumula giornali, scontrini,
incapace di buttarli perché forse un giorno ne avrà bisogno, una
considerazione irrazionale, certo, ma meglio stare tranquilli e
assecondare la mania. Ed esistono anche quelle che riguardano
la sessualità, come la paura di essere omosessuale. Chi ne è
a etto non ha alcun problema con lo stigma o giudizio morale,
ma avverte l’esigenza stringente di dover veri care (pur
essendone intimamente già convinto) la propria inclinazione
sessuale.

Un perfezionismo che ingabbia

Ci sono alcune caratteristiche nel modo di pensare di queste


persone che ricorrono nelle loro storie e caratterizzano i
principali errori con cui la mente le inganna.
Spesso esse sono davvero tenaci, hanno un modo di ragionare
molto rigoroso, possono avere un forte senso della morale, un
radicato attaccamento ai valori; tendono a responsabilizzarsi
molto, più del dovuto, e a procrastinare le cose. Fanno fatica a
iniziare le attività per una sorta di inerzia che vivono come una
sensazione di stanchezza mentale. Sono lente e precise,
metodiche talvolta in modo eccessivo, quando cioè il rigore del
metodo è ne a se stesso, per un compiacimento del dettaglio
non necessariamente da amante della perfezione, ma da bisogno
di de nizione, di regola assoluta. Quando iniziano a fare una
cosa tendono a smarrirsi nei meandri dei particolari e degli
approfondimenti, perdendo la visione d’insieme, la concretezza
e l’e cienza. Intendiamoci: tutti questi aspetti possono essere,
come sempre abbiamo detto, dei valori aggiunti. Essere fatti così,
in ambito lavorativo, è rassicurante, è indice di a dabilità,
ispira serietà e autenticità. Essere precisi e ordinati è senz’altro
motivo di ammirazione. Il problema è che le persone a ette da
DOC non «scelgono» standard di riferimento così de niti ed
elevati ma sono costrette ad attenervisi da una base di ansia. Non
conoscono altro modo di fare, sono infastidite dall’imperfezione e
dal non controllo e si costringono a faticare di più per fare le
cose con rigore. Tutto questo però non riesce a renderle sicure al
cento per cento e spesso si appoggiano a parametri esterni
perché non si fidano di se stesse.
«Come faccio a sapere quale metodo di studio mi preparerà a
su cienza per l’esame?» Noi tutti rispondiamo – o abbiamo
risposto a tempo debito – a questa domanda con
un’approssimazione che ci viene quasi dalla pancia più che dalla
testa: sentiamo che «così va bene». Gli ossessivi hanno bisogno di
de nire un parametro: numero di ripetizioni, un chiaro
protocollo, un tot di parole chiave per pagina da ricordare, no a
stabilire che anche «imparare tutto a memoria non mi rassicura».
Talvolta si avvalgono della gura di un «garante», un giudice
esterno al quale rimettono l’onere della responsabilità di
decidere se una cosa è giusta o sbagliata.

«Dottore, le devo parlare di mio glio: è un ragazzino di


diciannove anni, è un bravo ragazzo, è sempre stato un po’
preciso ma ora sono preoccupata… A casa così non si può più
vivere. È come se avesse sempre paura di essere sporco…
contaminato. Ogni volta che torna a casa da scuola deve togliersi
tutti i vestiti in garage, mi fa lavare tutto e, dopo che ho nito,
anch’io mi devo lavare le mani e “decontaminarmi”. Lui poi non
può toccare nulla, dice di aver paura che sia appiccicoso, che ci
sia la colla. Vede, dottore… anche sua sorella è giovane, ha
diciassette anni e, sa, è un’adolescente. Vorrebbe stare in bagno
a truccarsi ma Mauro lo tiene occupato per ore. Io non so cosa ci
faccia là dentro, so solo che si lava le mani talmente tanto che
sono diventate rosse e screpolate. Eppure lui non sembra mai
soddisfatto.»
I pazienti a etti da disturbo ossessivo compulsivo, in e etti,
tendono a vivere in un mondo dicotomico: o tutto o niente, o
bianco o nero, o giusto o sbagliato. Non riescono a concepire vie
di mezzo, compromessi o sfumature. O una cosa è fatta bene, e
per bene intendiamo praticamente perfetta, o è fatta male,
ovvero impresentabile. Sono persone che vorrebbero costruirsi
un mondo di certezze, fatto di linee geometriche, de nite e
squadrate; in parte se lo ricavano, ma per la maggior parte è un
artefatto di miopia, e, quando se ne rendono conto, vengono
pervase da un senso di smarrimento.
Pensano che la perfezione sia un parametro de nibile e
concreto, al quale puntano ma non necessariamente come forma
di ambizione, quanto piuttosto come bisogno di de nizione, di
finitezza.
In questo senso lavarsi le mani come tutti noi facciamo,
secondo una convenzione che più o meno le rende pulite in
pochi minuti, è per loro inaccettabile; seguire un rituale che
dura di più e ha parametri rigorosi li rassicura con la certezza
della pulizia assoluta. Pur essendo anche questa
un’approssimazione, per loro è fonte di totale sicurezza.
Tutto questo ha a che fare da un lato con una di coltà con la
responsabilizzazione e il senso di colpa, dall’altro con una
idiosincratica incapacità di scegliere.

Va’ dove ti porta la pancia: marcatore somatico, scelte


problematiche e intelligenza emotiva

Come abbiamo detto, l’essere umano rappresenta, dal punto di


vista dell’architettura funzionale della mente, la massima
espressione dell’evoluzione del mondo animale. Possiamo dire
che questo sia vero proprio perché possiede una capacità
particolarmente evoluta di integrare emozione e ragione. Questa
strutturazione gli permette di agire con libero arbitrio, di avere
consapevolezza dei propri stati emotivi e di prendere decisioni
in maniera e cace. Gli altri animali, al contrario, di cilmente
hanno la facoltà di scegliere davvero e il loro comportamento è la
risultante di istinti e «ri essi» predeterminati. Il mondo della
persona ossessiva, invece, è spesso caratterizzato dalla difficoltà a
prendere decisioni in modo efficace, anche su questioni di scarsa
rilevanza. L’essere umano vive in un sistema sociale molto
complicato; anche questo è un risultato dell’incredibile potenza
della macchina-mente, seppur in questa complessità si annidino
anche aberrazioni comportamentali. A tal proposito mi viene in
mente una vignetta che ho visto una volta proiettata su una
diapositiva durante un corso sull’intelligenza emotiva in cui un
omino diceva: «Istintivamente sono intelligente… poi prevale la
ragione».
A fronte della necessità di velocità, reattività e prontezza, la
mente si trova a dover risolvere situazioni in cui le possibili
combinazioni di eventi nel determinare la scelta sono
potenzialmente in nite. E qui subentrano le emozioni. Infatti le
scelte che operiamo non sono del tutto razionali, spesso abbiamo
la netta sensazione di essere guidati da una sorta di istinto,
quando ci sforziamo di capire razionalmente il contesto e
risolvere il problema che ci si pone davanti come fosse
un’equazione matematica, ci scontriamo con l’evidente
incapacità della nostra mente di risolverla: troppe variabili,
troppe combinazioni per poter essere dipanate, quanto meno in
un tempo utile. A quel punto scopriamo di essere animali
emotivamente intelligenti: dandoci della nostra pancia
riusciamo sempre a trovare la soluzione più funzionale, basta
ascoltare il nostro corpo.
Il de cit emotivo dei pazienti a etti da DOC si potrebbe legare,
dunque, per lo più a un problema di decision making che
coinvolge questi meccanismi.
Com’è possibile questa alchimia e cosa si altera
sistematicamente nei DOC?
Le attuali possibilità di studio neuro-funzionale del sistema
nervoso centrale ci permettono di sostenere che esistono dei veri
e propri p attern di anomalie neurobiologiche correlati alla
fenomenologia ossessivo compulsiva e alla diagnosi di DOC. Da
un punto di vista neuropsicologico, l’integrità del circuito
orbitofronto-striato-talamo-corticale – uno speci co network
funzionale di stazioni che collegano la corteccia frontale alle
parti più «basse» del cervello – è vista come speci catamente
connessa alle funzioni cognitive de nite esecutive. Sono le
funzioni esecutive che ci permettono di piani care azioni future,
monitorare il nostro comportamento, modi carci in risposta a
determinati feedb ack e cambiare a seconda delle contingenze
ambientali. Studi neurobiologici hanno evidenziato che pazienti
a etti da DOC mostrano de cit nelle funzioni esecutive fra cui
insu ciente essibilità cognitiva, propensione al rischio e scarsa
capacità di procrastinazione della grati cazione nei compiti di
decision making. I pazienti ossessivi sembrerebbero essere
incoraggiati dalla prospettiva di un’immediata ricompensa,
mostrandosi meno sensibili riguardo alle conseguenze future
delle loro scelte.
Le stesse aree corticali prefrontali sono ritenute importanti per
la cognizione sociale.
Nel corso degli anni, sono stati studiati numerosi pazienti con
lesioni cerebrali funzionali in queste aree anatomiche. Essi
sviluppavano gravi menomazioni nel processo decisionale
personale e sociale, nonostante preservassero in gran parte le
capacità intellettive. Questi pazienti, prima di subire danni
focali in queste aree del cervello, erano intelligenti, brillanti,
creativi, socialmente ben inseriti. Dopo il danno, mostravano
di coltà a piani care le loro giornate lavorative e il loro futuro,
facevano fatica a scegliere le amicizie, i p artners e le attività, pur
continuando a essere intelligenti. Le azioni che tendevano a
perseguire spesso portavano a perdite di vario ordine, per
esempio nanziarie o sociali, anche nel ristretto ambito di
familiari e amici. Le loro scelte non erano più vantaggiose ed
erano molto diverse da quelle che avrebbero compiuto prima
delle loro lesioni cerebrali. Questi pazienti spesso decidevano
contro il loro interesse. Non erano in grado di imparare dagli
errori precedenti, com’è risultato dalla reiterazione di decisioni
che portavano a conseguenze negative.
Alcuni autori hanno ipotizzato che esista una specie di
«marcatore somatico», una memoria di coloriture emotive che
legano sensazioni, stati mentali ed emozioni a situazioni,
avvenimenti, contesti problematici, in cui il corpo deve aiutare
la mente a risolvere un problema.
Dal punto di vista anatomico sembrerebbe essere la corteccia
prefrontale quella coinvolta nell’accoppiare stimoli complessi
provenienti dal mondo esterno con lo stato somatico, l’attivazione
emotiva interiore, di solito innescato in associazione con le
medesime esperienze. Quando una situazione che interessa
questi stimoli complessi si ripresenta, una particolare regione del
nostro lobo frontale, la corteccia prefrontale ventro-mediale,
riattiva lo stato somatico precedentemente associato a quella
esperienza. Nel contesto dei processi decisionali, l’attivazione
dello stato somatico produce segnali preferenziali che
attribuiscono valori di erenti alle diverse opzioni possibili,
guidando verso la corretta decisione tra le varie alternative.
Privata di questo marcatore somatico, la decisione diventa
dipendente da una lenta analisi del costo-bene cio delle tante e
con ittuali possibilità decisionali: tali opzioni possono risultare
troppo numerose o l’analisi può essere troppo lenta da non
consentire un’appropriata e rapida decisione.
Secondo l’ipotesi del marcatore somatico, il decision making è
un processo guidato dalle emozioni, che funzionano da segnali
bio-regolatori nalizzati a ottenere l’omeostasi e ad assicurare la
sopravvivenza. Un de cit nell’analisi delle emozioni determina
una scarsa capacità di decision making, in particolare nelle realtà
personali e sociali, e conseguenti di coltà nell’adattamento alla
vita di tutti i giorni.
Sulla base di tale ipotesi quando un individuo deve operare
una scelta, ogni alternativa elicita uno stato psico siologico che
costituisce una sorta di «marker» somatico; esso agirebbe a vari
livelli di consapevolezza, sia in modo conscio sia in modo
inconscio. Dunque il processo di decision making si realizzerebbe
adeguatamente quando le funzioni di ordine superiore, più
cognitive, e le funzioni di ordine inferiore, più emotive, si
integrano: il decision making, quindi, prevede il «corretto
utilizzo» da parte della cognizione dei segnali emotivi, intesi
come risposte bio-regolatrici per il mantenimento dell’omeostasi
e della sopravvivenza. Ne consegue che danni ai sistemi che
coinvolgono il sistema emotivo possono compromettere l’abilità
di prendere decisioni vantaggiose.
Il marcatore somatico è in grado di in uenzare il
comportamento e può essere vissuto come un segnale che
permette di scegliere un comportamento piuttosto che un altro;
questo segnale emotivo viene avvertito e utilizzato nel processo
decisionale ancor prima che il soggetto ne sia consapevole e sia
conscio della motivazione che lo ha portato a scegliere quella
data strategia. Citando il titolo di un famoso libro di Susanna
Tamaro, potremmo dire che questo è un po’ il meccanismo
neurobiologico che sostiene la bontà del consiglio «Va’ dove ti
porta il cuore».
Numerosi studi indicano come i pazienti a etti da DOC
abbiano un de cit proprio nel funzionamento di questo
meccanismo. In sostanza, non si dano più del loro istinto e
devono trovare parametri di scelta alternativi. Vivono
l’intolleranza per l’approssimazione, per la sempli cazione;
sentono di aver bisogno di regole chiare e con ni netti. All’atto
pratico, però, pur non avendone la percezione, niscono per
sostituire la ducia nel marcatore somatico con l’adesione a un
modello di regole arti ciose e riduzioniste, delle vere e proprie
sempli cazioni farraginose che, però, nella loro convinzione,
hanno un valore di assoluto.
Il marcatore somatico è uno dei dispositivi neuropsicologici di
base dell’intelligenza emotiva, sostenendo l’uso delle emozioni
nella guida del comportamento umano. I risultati di alcuni studi
presenti in letteratura hanno supportato questa ipotesi
suggerendo che il sistema neurale che sottende il marcatore
somatico, se danneggiato, in uenzi negativamente la
p erformance nei test di valutazione dell’intelligenza emotiva. Uno
studio ha inoltre rilevato che, in presenza di lesioni alle aree
cerebrali importanti per il funzionamento del marcatore
somatico, il livello di intelligenza emotiva e l’abilità nel prendere
decisioni risultano entrambe deficitarie nel medesimo paziente.
I pazienti affetti da DOC sembrano avere una scarsa capacità di
decision making: nonostante abbiano una facoltà intellettiva
assolutamente nella norma, mostrano una tendenza – come
abbiamo già accennato – a prediligere decisioni che assicurano
ricompense nell’immediato futuro, trascurandone le
conseguenze negative nel lungo termine, e non sembrano in
grado di modulare le loro decisioni sulla base dei precedenti
errori. Evidenze cliniche hanno messo in luce che soggetti a etti
d a DOC spesso presentano interazioni interpersonali
disorganizzate e di coltà ad assumere punti di vista di erenti e
non rigidi rispetto al contesto, circostanze, queste, che
costituiscono l’essenza degli aspetti interpersonali
dell’intelligenza emotiva.

Possibili approcci terapeutici

Il mondo degli ossessivi è davvero vario – per tipologia, gravità,


struttura personologica, caratteristiche individuali – e ci sono
numerose categorie di persone che, di conseguenza, possono
giovarsi di trattamenti e supporti completamente di erenti fra
loro. Quindi la prima cosa giusta da fare è pensare che la terapia
sia costruita come un abito su misura.
Anche la risposta alle terapie tradizionali può essere molto
di erente da persona a persona. Sebbene siano stati raggiunti
risultati molto brillanti con la terapia farmacologica in certe
situazioni, esistono casi di totale resistenza al trattamento
farmacologico: anche a fronte di manifestazioni cliniche
analoghe, persone di erenti possono rispondere al medesimo
trattamento in maniera completamente dissimile.
Lo stesso discorso vale per il trattamento psicologico.
Bisogna però intendersi su cosa aspettarsi dalle varie armi
terapeutiche. I farmaci, tendenzialmente quelli di base suggeriti
dalle linee-guida internazionali, sono gli antidepressivi a dosaggi
pieni, soprattutto alcuni di essi. Queste molecole pare abbiano
una latenza di azione maggiore rispetto a quella che mostrano
nel trattamento della depressione: se dopo 2-3 settimane
inducono un parziale miglioramento nei casi di episodi
depressivi, in quelli di disturbo ossessivo bisogna attendere
alcuni mesi, di norma almeno tre, per valutare le potenzialità di
quella data molecola in quella persona. Ciò che si aspetta è che
l’ossessione si assopisca, che il disco rotto in testa smetta di
battere, il loop – il rimuginio – sia rallentato, non più
soverchiante, che si senta di meno la necessità di assecondare la
compulsione. Spesso, però, i cambiamenti a livello
comportamentale richiedono un altro specifico intervento. Inoltre
il modo di pensare rigido, perfezionista, dicotomico, non cambia
se non si interviene psicologicamente su di esso. Quello che però
si nota è che prima della terapia farmacologica la rigidità è
assoluta, inscal bile, al contrario, dopo un adeguato tempo di
somministrazione farmacologica, il paziente ossessivo sembra
più malleabile, quanto meno a parlare di questi temi, e riesce
con maggiore facilità a prendere in considerazione ipotesi
alternative alla scelta ossessiva.
Il trucco sta nel far apprezzare la capacità di darsi della
propria pancia, non come forma di totale perdita di controllo,
ma anzi come ri uto dell’apparente regola perfetta ossessiva –
che tanto perfetta non è –, accettando l’imperfezione non come
compromesso ma come regola funzionale, dirigendo l’attenzione
sulla pancia più che sulla regola matematica.
La cura del paziente ossessivo è una grande s da, proprio
perché implica un approccio su tutte queste sfaccettature del
disagio: la terapia farmacologica e quella psicologica hanno un
primo target che è la fenomenologia del pensiero ossessivo e la
liberazione dal comportamento compulsivo. Il paziente a etto da
DOC non riuscirà, però, a recuperare un’adeguata qualità di vita
se non si trova il modo di riabilitare la persona in quelli che sono
gli elementi di fragilità del suo funzionamento emotivo. Spesso si
ha la sensazione che i due ambiti di intervento, sintomatologico
ed emotivo, possano dare risultati solo se prevedono un recupero
armonico e parallelo: il risultato su uno dei due versanti,
dunque, sembrerebbe dipendere largamente dal risultato
ottenuto nell’altro e viceversa, suggerendo una mutua interazione
propedeutica.
Episodi che segnano una vita:
il disturbo post-traumatico da stress
Rivivere il trauma

Raccontare questa storia è davvero di cile. La prima volta che si


parla con qualcuno che ha subito un trauma si fa un’esperienza
molto forte, cruda. Si ha la sensazione che quella persona veda e
senta, in quello stesso istante, qualcosa che noi non riusciamo
neanche a immaginare. Eppure, trasportati dalla sua risonanza
fisica, siamo in grado di percepire il suo dramma interno.
Era lì, davanti a me, gentile ed educato, rispettoso quasi al
limite dell’ossequioso; non appena entrato nello studio ha
appoggiato le mani sulla scrivania, e ha iniziato a contorcersi
una mano sull’altra, le braccia distese e il movimento delle dita
ritmico ma angosciato, e angosciante. Si capiva che le mani
erano fredde e sudaticce. Guardava in basso a sinistra, in un
punto non ben precisato del pavimento, ogni tanto alzava gli
occhi su di me, sguardi che si obbligava a regalarmi in segno di
cortesia. Ma quello contro cui stava lottando era più forte di lui,
sentiva il bisogno di scappare, come se stesse vedendo qualcosa
dentro di sé che non riusciva a controllare. Parlava con la testa
inclinata di lato, quasi a voler accarezzare le parole che uscivano
dalla sua bocca. Lentamente, con pause tra una frase e l’altra. Si
vergognava di quello che stava raccontando ed era turbato da
quello che stava provando.
Mi raccontò che una volta aveva avuto una crisi d’ansia dopo
due tiri con uno spinello, ma tutto era iniziato quella notte,
quando rientrando in tram dalla discoteca aveva incontrato
quelle persone. Lo avevano inseguito, se ne era accorto già da
come lo guardavano nella carrozza. Aveva incassato qualche
pugno, un taglio sulla fronte ed ematomi su diverse parti del
corpo, dove lo avevano preso a calci. Per fortuna il conducente e
i suoi amici erano scesi dal tram e lo avevano soccorso,
mettendoli in fuga. Tutto in un lampo. Da allora faticava a uscire
alla sera, la penombra lo infastidiva, la notte dormiva con la luce
accesa, era in costante allerta e quando si trovava in mezzo alla
gente era sempre terrorizzato da ciò che avrebbero potuto fargli.
Ma la cosa era peggiorata quando una volta suo cugino, che è
sempre stato un po’ un tipo strano, una testa calda, aveva perso il
controllo di sé. Erano in macchina, stavano discutendo e il
diverbio degenerò in una lite. Suo cugino era alla guida, ma
pareva essersene dimenticato: era girato verso di lui, che era
seduto sui sedili posteriori, e gli lanciava minacce di morte. Io,
come medico, avevo la sensazione di poter quasi toccare i
pensieri che Marco mi raccontava di aver avuto in quei
momenti: la chiara percezione di essere in balia degli eventi, la
vita appesa a un lo, la macchina lanciata a forte velocità e la
netta sensazione che suo cugino avesse completamente perso la
testa, che avrebbe potuto fare davvero qualsiasi cosa. Un enorme
senso di fragilità, prevaricante, totalizzante. Annichilimento. E
ora tremava, il suo corpo era ancora là, in quella macchina, in
quell’attimo di straordinaria follia.

Come Rambo

Tutti noi abbiamo visto i lm di Rambo, e tutti noi abbiamo


deplorato l’ingiustizia con cui un reduce del Vietnam veniva
trattato nel momento di reintegrarsi nella società. Ma forse non
tutti ci siamo so ermati per provare a capire cosa avesse quell’ex
soldato. Rivedeva il passato e, come imprigionato in una sorta di
viaggio nel tempo, non riusciva a scacciare i fantasmi di
avvenimenti drammatici. Sogni a occhi aperti, reazioni siche
sproporzionate, momenti – ai quali abbiamo già accennato – di
«come se», come se l’evento traumatico stesse ricapitando, a volte
basta un sapore, un odore, un colore, una determinata ora del
giorno che riconduca a quell’istante per sembrare di riviverlo.
Il ricordo di avvenimenti tragici, di so erenze siche e stati
emotivi al limite dell’intensità massima sopportabile, è scolpito
dentro John Rambo, ma non solo nella mente – come un album
fotogra co da aprirsi a piacimento e da richiudersi a comando –,
bensì anche nel corpo, in una tempesta di attivazioni sensoriali
incontrollabili e dolorose perché lo riportano a quelle situazioni
come se si stessero riproponendo davvero. Sono ricordi non più
vissuti come eventi che appartengono al passato, ma come se si
stessero svolgendo proprio ora, con in più l’aggravante della
consapevolezza di un finale inevitabilmente drammatico.

«La notte, dottore, non chiudo occhio perché sono terrorizzato


dall’idea di sognare nuovamente quello che mi è successo,
perché lo sento ancora, come se fosse ora, quel dolore. Mi capita
di dover evitare strade che mi ricordano quella curva…
All’imbrunire, il colore del tramonto mi inquieta, tutto ciò che fa
parte di quel ricordo mi inquieta, il mio corpo scatta e reagisce
inducendomi una sensazione di profondo malessere.»
Il disturbo post-traumatico da stress (DPTS) è l’insieme delle
forti so erenze psicologiche che derivano dall’aver vissuto un
evento traumatico, catastro co o violento. Annoveriamo attacchi
terroristici, guerre, bombe, incidenti aerei, stermini di massa,
naufragi ma anche terremoti, inondazioni e altri eventi tragici:
incidenti stradali, aggressioni siche, violenze sessuali. C’è un fil
rouge che collega tutte queste situazioni: l’e etto sul cervello
emotivo dei sopravvissuti, dei loro familiari e conoscenti.
La diagnosi di questo disturbo implica che i sintomi siano, per
l’appunto, conseguenza di un evento critico. Va da sé che non
tutti quelli che vivono una simile esperienza sviluppano un
disturbo post-traumatico da stress. Anzi la maggior parte delle
persone manifesta solo delle reazioni emotive transitorie,
de nibili come reazioni normali a eventi anormali, che, seppur
dolorose, raramente sfociano in un vero e proprio disturbo. Al
contrario ci sono persone che, anche in seguito a un evento in sé
non particolarmente devastante, sviluppano una sintomatologia
post-traumatica invalidante.

Il coinvolgimento nell’esperienza traumatica

Talvolta anche un’esposizione non diretta può determinare


condizioni di reazione patologica che rientrano nel novero di
queste sindromi: è il caso di persone che seguono con singolare
partecipazione emotiva fatti che coinvolgono, per esempio, il
proprio Paese o la propria città, anche solo attraverso i media.
Tali considerazioni spostano l’attenzione su come la reazione a
eventi traumatici dipenda anche e soprattutto dalla propria
resilienza, ovvero la capacità di reagire a situazioni di questa
natura incassando il colpo ma senza disintegrare la propria
funzionalità. Ciò è correlato anche al livello di intelligenza
emotiva che caratterizzava il soggetto prima del trauma.
Detto questo però non si può certo a ermare che la sindrome
post-traumatica colpisca le persone più «deboli» o «fragili». Anzi,
è vero piuttosto il contrario; spesso individui apparentemente
«fragili» riescono ad a rontare senza grosse conseguenze eventi
traumatici di un certo rilievo, mentre persone «solide» si trovano
in di coltà dopo eventi che hanno un signi cato personale o
simbolico di cile da elaborare. Questo perché il concetto di
forza, coraggio, aitanza sica e sociale, non ha una correlazione
diretta con il concetto di resilienza emotiva. Come già abbiamo
avuto modo di rilevare, ansioso non signi ca debole e forte non
vuol dire intelligente emotivamente.
Alcuni fattori che contribuiscono allo sviluppo di reazioni
patologiche a eventi traumatici sono da ricercare nella storia
medica e psichica dei singoli individui. Per esempio, in persone
che hanno manifestato in passato sintomi d’ansia, come attacchi
di panico (anche se in forma lieve) e agorafobia, questi sono
fattori predittivi negativi di una risposta disfunzionale a un
evento traumatizzante.
Al contrario alcuni studi documentano come soggetti con alti
punteggi di intelligenza emotiva riportino meno sintomi
emozionali relativi all’esperienza traumatica.
La reazione patologica è comunque influenzata in modo diretto
anche dall’intensità e pervasività dell’evento e dal maggiore o
minore coinvolgimento diretto nell’esperienza traumatica.
Il disturbo post-traumatico può manifestarsi già a poche
settimane dall’evento e perdurare molto a lungo; sintomatologie
similari possono prodursi anche dalle prime ore successive pur
non potendo necessariamente essere considerate reazioni gravi o
durature perché potrebbero avere una natura transitoria. In altri
casi il disturbo emerge a una certa distanza di tempo dall’evento,
talvolta anche dopo diversi mesi.
Questa sindrome può colpire anche i familiari, i testimoni, i
soccorritori coinvolti in un evento traumatico.
Per converso, le persone a ette da DPTS presentano di coltà a
controllare le emozioni, irritabilità, tendenza ad accessi di
rabbia improvvisa, frequenti momenti di confusione emotiva, in
cui faticano a mettere a fuoco il proprio vissuto emozionale, e
spesso sviluppano vere e proprie sindromi a ettive come episodi
depressivi e stati d’ansia, per esempio il disturbo di panico.

Sintomatologia

I sintomi tipicamente rintracciabili in chi so re di un disturbo


post-traumatico da stress possono essere suddivisi in tre grandi
categorie.
Innanzitutto i cosiddetti «episodi di intrusione»: ricordi
improvvisi che si manifestano in modo molto vivido e sono
accompagnati da emozioni dolorose e dal rivivere il dramma,
talvolta in modo così drammatico da far sembrare all’individuo
coinvolto che l’evento traumatico si stia ripetendo.
Ci sono poi le manifestazioni di evitamento: il traumatizzato
cerca di evitare contatti con chiunque e con qualunque cosa che
sia riconducibile al trauma. In un primo momento, questo si
accompagna a uno stato emozionale di disinteresse e di distacco,
con riduzione della capacità di interazione emotiva. In seguito la
mancata elaborazione emozionale determina spesso l’emergere
del senso di colpa: in genere quella di essere sopravvissuti o di
non aver potuto salvare altri individui. Dal punto di vista
prettamente sico, si manifesta con dolori al torace, capogiri,
problemi gastrointestinali, emicranie, indebolimento del sistema
immunitario.
Un gruppo di sintomi particolarmente importante è quello
dell’ipersensibilità e ipervigilanza: chi le manifesta si comporta
come se fosse costantemente sotto minaccia, in perenne stato di
allerta e apprensiva attesa. A di erenza di chi so re di un
disturbo d’ansia generalizzata, però, in questo caso non ci si
aspetta un danno ipotetico con potenziali conseguenze
catastro che: si tratta di una sorta di «attesa del condannato», il
cui stato emotivo è pervaso da una nefasta certezza. Un po’ come
i cani che temono i temporali e li sentono arrivare.
Queste persone hanno seri problemi di attenzione selettiva:
non riescono a concentrarsi, hanno vuoti di memoria. A volte,
per alleviare il proprio stato di dolore, utilizzano a mo’ di
automedicazione sostanze ansiolitiche e anestetizzanti come
l’alcol.

T raumi infantili e anestesia emotiva

Occorre ricordare che gli eventi traumatici non sono solo quelli
eclatanti nora accennati: esiste anche tutta una vasta gamma di
micro-esperienze traumatizzanti che possono in uenzare non
tanto una reazione patologica a esse direttamente correlata, bensì
la orida e armoniosa crescita del sistema emotivo, diventando
un vero e proprio fattore di rischio a tutto tondo sulla patologia
medica: dall’infarto cardiaco ai disturbi d’ansia, passando per
tumori, diabete, asma e tante altre patologie.
Per eventi di vita traumatizzanti si intendono abusi sici,
emotivi e sessuali, assenza di supporto, cura e protezione sia
emotiva sia sica, condizioni di fragilità familiare domestica
come il maltrattamento della gura materna, l’abuso in famiglia
di sostanze stupefacenti o alcol, la presenza di malattie mentali,
separazione o divorzio dei genitori, incarcerazione di membri
della famiglia.
A prescindere dalla valenza medica di queste variabili, dal
punto di vista emotivo le persone che hanno vissuto queste
esperienze – pur facendo la dovuta tara dell’in uenza genetica
sul comportamento e lo sviluppo emozionale – tendono di base
ad avere di coltà nelle relazioni interpersonali, mostrandosi
sempre insicure e preoccupate di trovare a etto, manifestano
scarsa capacità di interpretazione dei propri stati emotivi,
possono avere problemi nella gestione bilanciata della rabbia,
che viene o soppressa o liberata senza freni; in certi casi possono
essere come «anestetizzate» emotivamente nei confronti degli
altri, e manifestare scarsa empatia. Sono persone che spesso
possono sembrare introverse, pensierose, perse nel loro mondo.
Anche quando non si rileva traccia di eventi traumatici o non
ci si trova in presenza di una vera e propria sindrome post-
traumatica, se interagiamo con individui che mostrano disturbi
d’ansia, dell’umore o somatoformi va sempre indagata la
presenza di un’infanzia traumatizzante. Spesso, infatti,
l’anestesia emotiva di queste persone può essere curata,
migliorando così la prognosi del disturbo clinico per il quale
richiedono aiuto.

Possibili approcci terapeutici

Aiutare le persone che hanno subito traumi violenti può essere


molto di cile. Bisogna valutare con attenzione la tempistica e le
modalità.
Poter intervenire tempestivamente, già nelle ore successive
all’evento, risulta essere di grande utilità. In questo caso viene
suggerito un intervento psicologico che prende il nome di
deb riefing, una serie di incontri, spesso di gruppo, mirati a
infondere un senso di sicurezza, di rilassamento, e a instillare
ottimismo attraverso la condivisione dell’esperienza. Questo tipo
di approccio riduce la probabilità che si manifestino sintomi
post-traumatici a distanza di tempo.
L’intervento farmacologico può rivelarsi fondamentale con
alcuni pazienti e molto meno fruttuoso con altri. Viene
comunque suggerita la somministrazione di un farmaco Ssri la
cui efficacia risulta più rilevante nel trattamento delle donne e in
certe tipologie di trauma: incidenti stradali, abusi sessuali e altri
eventi traumatizzanti «interpersonali».
Esiste una particolare procedura che sta dando buoni risultati
nel caso di pazienti a etti da DPTS: prende il nome di Emdr,
acronimo dell’inglese Eyes movement desensitisation and
reprocessing. Oltre a un intervento di natura psicologica il
paziente viene invitato a compiere, in varie sedute, movimenti
oculari sincronizzati con indicazioni visive guidate dal terapeuta.
Questa sorta di «giochino ipnotico» ha una valenza neurologica
eccezionale. L’Emdr, più che concentrarsi sulla reazione del
paziente all’evento disturbante, si focalizza sul ricordo stesso,
ssato nella memoria in modo non funzionale. L’obiettivo è che
dopo il trattamento, gli stessi ricordi diventino immagini meno
disturbanti, pensieri più positivi e con una emotività più
adeguata. È a ascinante osservare come la trasformazione
neurobiologica dell’informazione e del ricordo traumatico indotta
dall’Emdr – considerabile come una vera e propria
rielaborazione adattiva della memoria – produca e etti positivi
anche sulla struttura cognitiva, sul comportamento e
sull’emotività di queste persone. Una volta rielaborati i ricordi
speci ci, migliorano soprattutto il senso di autostima e di
autoe cacia. I cambiamenti provocati da questa tecnica si
manifestano in tempi relativamente brevi, a prescindere da
quanto sia trascorso dall’evento traumatico.
Se per altre situazioni cliniche si cerca di agire sulle fragilità
emotive dei pazienti con un intervento psicologico mirato
all’allenamento emotivo, nel caso di disturbi post-traumatici la
natura della causa del limite funzionale è di erente, e si
ottengono sensibili miglioramenti, anche sulle componenti
emotive, con il presidio farmacologico.
Ma ci si può curare?
Le terapie disponibili:
quando, come e perché
La presa in carico del paziente ansioso

Guarire dall’ansia sembra facile, ma in realtà non lo è: non basta


limitarsi alla mera cura del sintomo «attacco di panico»,
«ossessione», «fobia», ma bisogna provare a indurre un
cambiamento nel funzionamento delle fragilità del cervello
emotivo n qui descritte, che favoriscono l’organizzazione del
disturbo a partire dall’esperienza dei fenomeni ansiosi. Si tratta
spesso di rivoluzionare in maniera radicale lo stile di vita di chi
ne è affetto.
Spesso ci si trova ad a ollare gli ambulatori del proprio
medico di ducia, in genere il medico di base, in cerca di una
rassicurazione rispetto alla natura del proprio disagio.
La prima aspettativa è quella di essere soddisfatti nel bisogno
di accudimento e «presa in carico». Per ottenerlo si passa
attraverso una fase che in gergo si chiama «restituzione e
psicoeducazione», nella quale le capacità del professionista si
mescolano alle sue facoltà empatiche, umane. L’obiettivo che ci
si pone è far sentire il paziente compreso, chiarirgli la sua
condizione, come se nalmente i pezzi di un puzzle venissero
messi in ordine.
È poco frequente riscontrare la necessità di un ricovero
ordinario; questa evenienza si veri ca solo quando la sindrome
clinica comporta un blocco totale delle funzioni socio-lavorative,
quando sussiste una complicazione clinica – come la copresenza
di un problema di abuso di sostanze, cui spesso si fa ricorso
come forma di automedicazione dell’ansia –, o quando la
sensazione di impotenza indotta dal cambiamento della
condizione clinica è tale da richiedere uno stacco dal quotidiano.
Molto più di frequente la tipologia di intervento è quella
ambulatoriale, di certo adeguata, nella maggior parte dei casi,
all’impostazione di un piano di cura completo.
Sovente, chi so re d’ansia non trova un interlocutore
adeguatamente preparato e tecnicamente pronto a quei trenta
minuti dedicati al «far capire che ti capisco» e ricorre al «fai da
te», ricavando informazioni da giornali, riviste e siti internet, che
spesso hanno valenza più pubblicitaria che davvero
psicoeducativa e terapeutica. L’ansia rimane allora un «oggetto
non meglio identi cato», gestito con metodiche, e da
professionisti, di varia natura – delle più disparate a dire il vero
–, talvolta supportati da una base medico-scienti ca poco solida
e con risultati sconfortanti. Il paziente rimane quasi uno
spettatore, con la sensazione che qualcuno gli stia ristrutturando
la casa delle emozioni senza avergli sottoposto il progetto.

Allenarsi alla guarigione

Dunque ci si può curare? La risposta è: assolutamente sì! Certo,


ci sono alcune condizioni da porre, perché curarsi bene non è
così facile. Questo tipo di disturbi è spesso sottovalutato e
a rontato super cialmente, quando invece un trattamento
speci co potrebbe portare a un reale, e duraturo, cambiamento
della qualità della vita. È usuale cadere in un grande
fraintendimento: la rassicurazione indotta dalla sensazione di
essere compresi e curati diventa il risultato su cui ci si siede,
magari complice anche una terapia ansiolitica, il famigerato
tranquillante, la coperta di Linus. Invece è necessario un
ulteriore step , quello in cui ciascuna persona matura i propri
anticorpi rispetto all’ansia, impara a emozionarsi con e cacia,
intelligenza, gestendo le emozioni negative, utilizzandole senza
subirle. La rassicurazione e il senso di ducia indotti dall’«essere
in cura» sono solo il presupposto mentale su cui poggiare il
cambiamento.
La persona a etta da un disturbo d’ansia deve prendere
consapevolezza del fatto che la cura della propria condizione
debba necessariamente implicare un percorso, che non è come
entrare nello studio di un medico lamentando un sintomo e
uscirne che ne è stata «rimossa» la causa: «Buongiorno dottore,
mi fanno male i denti, proprio lì». «Okay, facciamo
un’otturazione…» «Ah fantastico: ora sì che sto meglio, mi sento
come nuovo!»
Qui la storia è tutta diversa. Succede solo di rado che il
trattamento di un disturbo d’ansia si concluda in qualche
settimana – come se fosse una cura antibiotica – e tutto nisca
dissolvendosi nel nulla così come dal nulla era arrivata la
sintomatologia. Si tratta di casi di disturbi speci ci (talvolta
capita con l’attacco di panico), che presentano precise
caratteristiche cliniche, per esempio un’elevata componente di
squilibrio chimico e una bassa destabilizzazione emozionale di
base. Ma non è la regola, anzi.
Il trattamento, come abbiamo già detto, può essere assimilato a
una palestra dove ci si allena per migliorare le proprie
p erformances. La prima fase è quella che riduce i sintomi più
evidenti e ci permette di tornare, per così dire, in carreggiata.
Per sentirsi veramente liberi, per sviluppare gli «anticorpi» per
combattere l’ansia, però, la strada da fare è un po’ più lunga.
Non è impraticabile, ma non sono ammessi perditempo! Bisogna
rimboccarsi le maniche e predisporsi a un duro allenamento,
imparare a pensare in modo di erente, trovare approcci ai
problemi con strategie diverse, sviluppare un maggior
autocontrollo, una maggiore autostima. I compagni di viaggio in
questo allenamento sono la costanza, la gradualità e la tolleranza.
Un serio percorso clinico non può prescindere da questi tre
livelli:

1. Alleviare i sintomi
2. Modi care la percezione di ciò che la condizione di
malattia e il presentarsi dei sintomi signi cano per chi ne
soffre
3. Armonizzare il proprio sistema emotivo.
I tre livelli possono essere a rontati in modi e tempi di erenti, a
seconda della persona. Non esiste da questo punto di vista la
scelta giusta sempre e comunque. È imperativo che il paziente
capisca che la scelta del percorso di terapia va personalizzata,
condivisa e quindi de nita insieme al proprio professionista. Non
deve mai essere subita come una prescrizione.
Quanto al primo e al secondo livello, la «tecnica» terapeutica
viene stabilita in larga parte dalle linee-guida scienti che
internazionali. Sul terzo livello di cambiamento – quello che
interviene sulla fragilità di sottofondo –, poco è stato detto e poco
si sa. In assoluto non possiamo escludere che forme di approccio
molto dissimili fra loro possano pervenire a risultati simili, in
persone di erenti. Le emozioni, la loro natura, il modo di viverle
e utilizzarle intelligentemente, o meglio di essere intelligenti
emotivamente, diventano l’argomento fondamentale, la cornice
di riferimento; è imprescindibile sentirsi su un percorso
individualizzato e personalizzato, come quando si va da un sarto
per realizzare un vestito su misura.
Porsi questo ne sposta l’attenzione dal modello medico,
concentrato sull’attenuazione dei sintomi, alla prospettiva della
persona nella sua globalità. Sembra una sciocchezza ma di fatto
quando ci si reca da un medico per un problema come questo
non si hanno le idee chiare su cosa ci si aspetta e su cosa
desiderare. Questo perché si tende a vivere il ruolo del «malato»
basandosi sul paradigma della malattia («devo raccontare i miei
sintomi») e non della persona («posso raccontare il mio disagio»).
La natura e la qualità delle manifestazioni della malattia possono
essere comprese, e adeguatamente a rontate, solo se ci si
addentra nella propria vita emotiva, acquisendo la capacità di
trovare felicità, salute e benessere nel coltivare un rapporto
armonico con le proprie esperienze emotive.

«Se lo conosci non lo temi»

La prima tappa terapeutica deve essere, come abbiamo


accennato poc’anzi, la psicoeducazione, ovvero una sorta di
«corso didattico formativo» sul disturbo. Nel nostro caso il
famigerato detto «Se lo conosci lo eviti» può essere adattato e
trasformato in «Se lo conosci non lo temi». La profonda angoscia
che vive chi è a etto da simili disturbi nasce proprio dal fatto
che si è consapevoli di avere un problema, lo si teme, ma non lo
si capisce e non si sa cosa sia davvero. Spesso si pensa a una cosa
grave, potenzialmente letale; ci si vergogna e ci si a igge per la
bizzarria di certe sue manifestazioni. Questo avviene proprio
perché, pur essendo «esperti» del proprio disagio, non lo si è
certo della propria malattia! La non comprensione non permette
di vivere il problema in modo adeguato a ridurre il disagio. Ciò
di cui stiamo parlando, qui, non è dell’accettazione, pur
importante: bisogna comprendere che il primo aiuto che
possiamo dare a noi stessi è condividere una spiegazione e poter
dare un signi cato di erente a ciò che si prova. Teniamolo a
mente: il malato è l’esperto del disagio, il clinico è l’esperto della
malattia, e una fusione di queste due esperienze è già di per sé
cura. Anzi, un pezzo fondamentale della cura. In questo senso la
psicoeducazione è comprensione.
Certo, non basta: la psicoeducazione è anche, a un primo
livello più basico, rassicurazione. Avere qualcuno che ci
comprende, che anticipa le nostre parole nel descrivere quello
che proviamo è molto tranquillizzante. La rassicurazione è una
«stampella» potentissima nei confronti delle problematiche
ansiose, ma non bisogna abusare di questa risorsa. All’inizio
aumenta eccezionalmente la comp liance e la fiducia nella terapia
e nel terapeuta, ma potrebbe diventare, a lungo andare, una
trappola e fonte di rallentamento del cambiamento.
Da ultimo, ma non per importanza, la psicoeducazione è il
primo gradino sulla scala della consapevolezza; veicola
informazioni che permettono una migliore messa a fuoco di ciò
che si vive, è come rivedere un lm insieme a un critico
cinematogra co che ci fa notare alcuni dettagli tecnici, visitare
una mostra d’arte con una guida che ci illustra il signi cato di
alcuni particolari che, magari, non avremmo mai colto, e,
all’improvviso, ogni cosa sembra più chiara, più plausibile, tutto
torna e tutto si lega in una visione d’insieme. È un’esperienza
entusiasmante perché infonde speranza: entriamo nello studio
del medico carichi di dubbi, perplessità, bisognosi di a darci a
lui e ne usciamo con una sensazione di leggerezza, di essere
nalmente sulla strada giusta, di aver ridimensionato quella che
credevamo essere una nostra peculiare stranezza in una cosa
piuttosto comune.

Un percorso condiviso

Dopo la fase di psicoeducazione sul disturbo, il paziente si deve


immergere nella dimensione della «previsione condivisa». Non
bisogna illudersi di trovarsi di fronte professionisti che, con fare
taumaturgico, asseriscono di avere tutto sotto controllo e,
imponendo le mani, profetizzano una mistica redenzione
dall’ansia. Medico e paziente «condividono» quelle che saranno
le tappe di un percorso, de nendo obiettivi e strumenti. Questa
fase ha tre risvolti fondamentali: riduce le aspettative sugli e etti
«magici» che si possono avere riguardo a farmaci o altri presidi
terapeutici, aumenta la sensazione di intraprendere un percorso
concreto e poco fumoso, responsabilizza il paziente su alcuni
aspetti della cura che lui solo può realizzare.
Le persone con un disturbo d’ansia, che ne so rono da tempo
e lo vivono come una condanna ghettizzante, hanno bisogno di
credere di nuovo in se stesse e di convincersi che, con un valido
supporto, ce la possono fare. La condivisione della previsione ha
l’obiettivo di creare i presupposti perché ciò avvenga.
Il ragionamento che va condiviso tra medico e paziente deve
comprendere la domanda: «Qual è il risultato che si vuole
ottenere?».
È fondamentale, infatti, il signi cato che si dà alla cura. La
cura è sia la pillola, sia la psicoterapia, sia il medico stesso: tutti
e tre sono presidi di cura. È imprescindibile, per imparare a
stare bene, capire a chi, o a cosa stiamo attribuendo, o crediamo
di poter attribuire, il cambiamento. Deve però essere chiaro che
il protagonista attivo del cambiamento è il malato. Questo non
vuol dire «aiutati che il ciel ti aiuta». Signi ca che il trattamento,
per sortire un e etto davvero e cace, duraturo e completo sullo
spettro dei sintomi che vuole curare, deve passare attraverso la
maturazione nella gestione delle proprie risorse emotive e degli
strumenti di terapia.
Il cammino di cura

Risultati terapeutici a breve-medio termine, periodo


tradizionalmente quanti cabile nei primi sei mesi di cura,
ottenuti con approcci «gold standard», ovvero quelli
raccomandati dalle linee-guida scienti che internazionali, sono
più che soddisfacenti con percentuali di remissione della
sintomatologia del disturbo attorno al novanta per cento. È
possibile a ermare che, da un punto di vista pratico, le
manifestazioni del disturbo possono essere ridotte e pressoché
azzerate nella quasi totalità dei pazienti. Certo, per ottenere
questo risultato inizialmente la strada è abbastanza obbligata e
passa attraverso un approccio combinato di farmaco più terapia
psicologica specialistica.
Gli ingredienti da ricercare per garantirsi i risultati in questa
fase sono tre: la corretta scelta del farmaco, il giusto approccio
psicologico, un adeguato rapporto medico-paziente.
La scelta del farmaco è fondamentale. Ci sono tre regole da
conoscere quando si assumono farmaci per questi disturbi:

1. I farmaci sono stupidi e fanno sempre la stessa cosa, non


esiste che una volta funzionino e una no, che funzionino a
intermittenza o in maniera differente in momenti diversi.
2. I farmaci vengono assunti per risolvere un problema
speci co. In una ricetta culinaria, non potrebbero essere
paragonati al sale, senza il quale il piatto è scialbo, e
nemmeno al prezzemolo, ché «una spolverata sopra non fa
mai male»; sarebbero invece un ingrediente speci co e
insostituibile della ricetta come la pancetta nella carbonara:
il piatto si mangia comunque senza, ma solo con la pancetta
il sapore è davvero completo, seppure la pancetta da sola non
ne implichi il successo.
3. L’utilizzo sintomatico dei farmaci dovrebbe essere bandito
perché concettualmente è come curarsi una polmonite con la
Tachipirina: stiamo meglio ma non ci cura l’infezione, non
risolve il problema.

Vediamo cosa aspettarci veramente dalla terapia farmacologica.


Il farmaco ha come obiettivo quello di spegnere la sintomatologia
orida dell’ansia, quella che di cilmente una terapia
psicologica, mediante una di erente interpretazione e gestione
delle emozioni, permette di risolvere. L’intervento farmacologico
si focalizza sull’abnormità del fenomeno «emozioni», non tanto
sulla sua adeguatezza in termini di corretta pertinenza con
l’evento che si sta vivendo e che le genera. Per esempio i farmaci
agiscono in modo speci co sulla ricorrenza degli attacchi di
panico spontanei, i «fulmini a ciel sereno», diminuiscono il
volume della cassa di risonanza delle sensazioni corporee,
l’anomalo livello dell’arousal emotivo; riducono la pervasività e la
violenza del pensiero ossessivo, a evolendolo, ripristinano una
normalità nel vissuto degli eventi traumatici inibendo i ash
back.
I farmaci di riferimento sono gli antidepressivi della categoria
Ssri. Il loro «giusto» dosaggio va trovato incrementando
gradualmente l’assunzione e trovando il limite a cui il farmaco
ottiene l’effetto desiderato.
In genere, dopo quattro settimane di assunzione della terapia
corretta, si percepisce un miglioramento notevole di armonia con
le emozioni. È un avvenimento talmente catartico che bisogna
stare attenti a non glori carlo troppo, perché è solo un primo,
super ciale, per quanto sostanziale, cambiamento. In queste
quattro settimane però bisogna avere pazienza, si devono
aspettare i bene ci a fronte di un possibile, seppur non scontato,
piccolo peggioramento dei sintomi indotto dal farmaco: è come
se questi prodotti all’inizio tendessero a mandare ancor più fuori
giri il motore, e per un lasso di tempo ristretto la sensazione può
essere quella di peggiorare.
La terapia psicologica deve permettere di prendersi la rivincita
sulla «paura della paura» e recuperare la libertà di muoversi
ogni giorno senza pensare: «E se poi mi viene l’attacco?»; «Come
faccio a gestire le mie ansie?»; «Come faccio a non controllare
tutte quelle volte di aver spento il gas?». È una fase della terapia
di cile ma fondamentale; si basa sulla capacità da parte del
professionista a cui ci si a da di conferire al paziente la
sensazione di poter gestire e capire le proprie sensazioni, senza
appoggiarsi troppo su aiuti esterni, come il compagno fobico, la
terapia ansiolitica, l’evitamento.
Il metodo di intervento psicologico dimostratosi più e cace e
speci co in questa fase è quello che prende il nome di «cognitivo
comportamentale». In sostanza è una strategia basata sul mettere
in evidenza i pensieri, le convinzioni e le emozioni provati nei
momenti critici di disagio e discuterne l’appropriatezza. Non
esiste un pensiero o un’emozione giusta o sbagliata: si tratta di
trovare la «retta via». Questo metodo permette di imparare a
identi care le emozioni che per varie caratteristiche – intensità,
tempismo, adeguatezza – sono fuorvianti e vanno re-indirizzate.
Una componente fondamentale di questo metodo è però anche la
parte comportamentale, quella che si basa sull’a rontare l’ansia
in modo pratico, esponendosi alle situazioni che la generano e
imparando, con l’esperienza, a gestire la propria reazione
interna trasformandola in una risorsa.
La terapia comportamentale si basa, come tutto il percorso di
cura, sui tre pilastri già citati: gradualità, costanza e tolleranza.
La gradualità è indispensabile perché nell’imparare a
fronteggiare le situazioni che creano disagio si deve partire dal
confrontarci con ridotti livelli di ansia; in una scala da 0 a 10,
dove 10 è il massimo dell’ansia che immaginiamo di poter
provare, gli esercizi di terapia comportamentale prevedono di
a rontare quote d’ansia del livello di 3-4 massimo. Anche in
questo caso parliamo di esercizi: la terapia comportamentale si
basa, proprio come un allenamento, sulla costanza della
ripetizione nel tempo dell’esercizio. Il recupero del benessere,
quindi, non necessita solo di un cambiamento teorico di
prospettiva ma anche di una nuova abitudine a «essere
diversamente».
È qui che interviene il terzo pilastro: la tolleranza. Si deve
tollerare l’idea di dover dedicare tempo e impegno ad a rontare
situazioni che magari si avvertono come sottodimensionate in
termini di ansia generata e ci si sentirebbe pronti a «fare di più»,
a strafare, quando invece ci si deve attenere alla scaletta di
gradualità concordata nella terapia.
I problemi arrivano dopo che queste due fasi della terapia sono
state concluse, e qui le linee-guida aiutano meno.
Dobbiamo confrontarci con alcuni avversari non da poco: il
décalage farmacologico – ovvero la lenta e graduale riduzione del
dosaggio del farmaco assunto, no alla sua totale sospensione –,
le ricadute, il senso di fragilità. Qui approcci clinici diversi
possono dare risultati parimenti ottimali; si deve lavorare sul
sistema emotivo e sulle fragilità che mantengono il senso di
allerta e di paura dell’innominabile, e questo lavoro va
individualizzato in un percorso che tenga conto delle risorse
emotive, delle fragilità e dei punti di forza di ciascun paziente.
L’obiettivo nale al quale si punta è arrivare a dire: «Comunque
vada, anche se dovesse ricapitarmi, sarei capace di gestirmela da
solo». È in questo senso che si rivela fondamentale lavorare per
vivere in modo intelligente l’esperienza emotiva.

La terapia farmacologica: gli antibiotici dell’ansia


Soffermiamoci brevemente sui farmaci più utilizzati nella terapia
farmacologica dei disturbi d’ansia. Anche per la patologia
«ansia», come per le condizioni cliniche che fanno riferimento
ad altre specialità, quali per esempio le in ammazioni e le
infezioni, abbiamo a disposizione due tipologie di approccio
farmacologico. Possiamo optare per i farmaci che mitigano il
disagio, riducono il dolore o l’e etto dei sintomi – come nel caso
degli antidolori ci che spesso non eliminano la causa ma
riducono quanto meno signi cativamente la so erenza –, o, al
contrario, cercare di mirare a risolvere il problema alla radice,
recuperando l’equilibrio siologico del nostro corpo e della
nostra mente, come nel caso delle terapie antibiotiche.
Sempli cando, da un lato avremo gli ansiolitici, assimilabili agli
antidolori ci, dall’altro avremo gli antidepressivi, più simili agli
antibiotici.
Credo che tutti noi vorremmo poter curare alla radice ciascuno
dei nostri problemi; motivo per cui suggerirò un approccio di
questa natura e partirò proprio dagli antidepressivi. A volte però
ci può servire velocità di azione, tamponare la situazione,
alleviare i sintomi. In questi casi anche gli ansiolitici trovano
spazio nel nostro piano di cura.
È ormai pratica clinica comune il ricorso agli inibitori selettivi
della serotonina (Ssri), in quanto molecole di facile
maneggevolezza.
Tali composti presentano un indice terapeutico (il rapporto tra
dose letale e dose e cace) assai superiore agli antidepressivi di
vecchia generazione, i triciclici, e una notevole riduzione degli
effetti collaterali.
Nonostante ciò il loro utilizzo, soprattutto nella terapia delle
condizioni ansiose, rende indispensabili alcune considerazioni
circa le varie fasi di inserimento, mantenimento e sospensione
del composto terapeutico.
Attualmente gli inibitori del reup take – ovvero la ricaptazione
– della serotonina (Ssri) sono le molecole antiansia alle quali si
riconosce maggiore e cacia e al tempo stesso una migliore
tolleranza, per la ridotta manifestazione di e etti collaterali. Oggi
solo in caso di insuccesso terapeutico con questa categoria
farmacologica si ricorre all’utilizzo di altre classi di farmaci.
La fase di sospensione della terapia con Ssri, anche quando è
stato ottenuto l’e etto terapeutico, risulta spesso di coltosa. Nel
quarantacinque per cento dei casi si può andare incontro a
quella che viene chiamata «sindrome da sospensione». Si
lamenta la ricomparsa di sintomi caratteristici della propria
ansia, che si riducono però dopo un mese circa. La sindrome da
sospensione sembra essere piuttosto frequente anche quando la
riduzione farmacologica viene e ettuata in modo graduale e
nella fase di benessere psichico del paziente. In alcuni casi tale
sindrome può perdurare per alcuni mesi dopo la sospensione
della terapia psicofarmacologica. A rendere delicato questo
momento terapeutico sono tre elementi di carattere generale:
una forma di dipendenza psicologica dal farmaco; la possibilità
di ricaduta con ripresentazione della sintomatologia ansiosa, che,
secondo i dati presenti in letteratura, può veri carsi in circa il
sessanta per cento dei casi; la vera e propria sindrome di
sospensione della terapia con Ssri.
Questo «e etto indesiderato» non costituisce biochimicamente
una forma di astinenza ma, al contrario, sembrerebbe dipendere
da un disequilibrio transitorio a livello della trasmissione
serotoninergica, in qualche modo assimilabile al possibile
acutizzarsi della sintomatologia ansiosa nelle prime settimane di
trattamento con Ssri, al quale abbiamo accennato in precedenza.
Se non abbiamo ristrutturato la consapevolezza e la leadership
sul vissuto emozionale, sui pensieri disfunzionali che
caratterizzano l’esperienza dei fenomeni ansiosi, si tenderà a
interpretare tali sintomi sulla base delle distorsioni cognitive
tipiche del disturbo d’ansia, catastro zzando gli esiti e
percependosi dipendenti dal farmaco.
Bisogna quindi ridurre in modo graduale il farmaco per
tentare di prevenire «l’effetto da disequilibrio chimico transitorio»
e, anche in questo caso, essere informati su cosa ci aspetta
ridimensiona il senso di catastrofe imminente e condividere con
il medico una previsione su quelli che potrebbero essere gli
e etti della sospensione impedisce che si inneschino i circoli
viziosi cognitivi propri della patologia.

Non esiste la pillola della felicità

Un capitolo a parte è costituito dall’utilizzo, nella terapia di


questi disturbi, delle benzodiazepine.
La molecola benzodiazepinica, a di erenza di quelle
speci che per il blocco delle manifestazioni ansiose, come gli
Ssri, colpisce i sintomi in modo aspeci co e non può ottenere
l’obiettivo di mantenerne un miglioramento duraturo anche dopo
la sospensione del trattamento.
Questi farmaci non modi cano nulla nel processo neuro-
funzionale, né nella processazione delle informazioni emotive:
semplicemente ottundono il sensorio, abbassano il volume,
rassicurano; sentendo di avere un asso nella manica, non ci si
preoccupa più, quindi si sta meglio, ma, a dandosi del tutto al
farmaco, creando con esso una sorta di cordone ombelicale, si
rma una condanna a rimanere in un circolo vizioso che è la
vera natura della cronicizzazione.
Diverso è l’uso che si può fare di queste molecole quando ci
sono necessità impellenti di risoluzione di sintomi speci ci che
rendono poco agevole e profondamente limitante il «qui e ora»,
non potendo aspettare la latenza di e etto delle terapie
psicologiche o della terapia antidepressiva. È il caso dell’insonnia
che, quando duratura o intensa, non permette di funzionare
bene nel quotidiano; questo peggiora in tempi brevi la qualità
della vita e crea anche un problema di natura funzionale,
costringendo a dover fronteggiare non solo il disagio emozionale,
ma anche le difficoltà pratiche da esso indotte.
Le benzodiazepine in questi casi risultano essere
complementari agli antidepressivi e alle terapie psicologiche.
Questa classe di farmaci agisce riducendo l’arousal
neurovegetativo della risposta ansiosa e questo e etto ci può
essere d’aiuto, talvolta, per gestire l’iniziale rialzo dell’ansia
indotto dalla terapia «antibiotica».
Completamente errato invece è l’uso che in alcune circostanze
se ne fa per a rontare gli esercizi di esposizione graduale
comportamentale all’ansia. Il razionale, per così dire,
sembrerebbe intuitivo, ovvero si pensa: «Se mi espongo all’ansia
riducendo la mia tensione di fondo la affronterò meglio». Falso! O
meglio: è vero che se si e ettua un’esposizione sotto e etto di
ansiolitico – per esempio entrare in un supermercato o esporsi
all’ossessione dello sporco, così come quando si utilizza la
tecnica mentale della distrazione – l’ansia che si prova risulterà
attenuata. Ma non è un successo, anzi: può essere inteso come
una vera e propria forma di evitamento.
A volte può capitare che anche a fronte di un intenso disagio
soggettivo si abbia una forte resistenza al trattamento
psicofarmacologico. In e etti ancora oggi la cultura popolare
tende a demonizzare il farmaco che agisce sulla mente,
inducendo un timore aprioristico e irrazionale basato
esclusivamente sulle scarse conoscenze a riguardo.
L’informazione circa la farmacologia speci ca deve essere
divulgata in modo corretto e accompagnata sempre dall’evidenza
dei suoi limiti e delle opportunità che o re al paziente di
integrarne gli effetti con modificazioni del suo comportamento.

Cosa fare quando fra i vari sintomi della propria condizione


clinica c’è anche la paura di assumere farmaci? E quando la
barriera è una preclusione culturale circa l’utilizzo del farmaco?
Se esiste la convinzione che il farmaco sia un aiuto essenziale,
e ci sono evidenze solide che lo sia in certe speci che situazioni
per determinate manifestazioni, bisogna che l’interazione
medico-paziente porti a superare le barriere culturali ed emotive
allo scopo di potersi curare al meglio. Non c’è fretta, si deve
iniziare ad assumere un farmaco quando si è raggiunta la
corretta predisposizione mentale, prima sarebbe
controproducente. Se si riscontra una e ettiva farmacofobia,
allora bisogna a rontarla come un sintomo del disturbo, dal
momento che condivide la natura patologica del motivo per cui
si dovrebbe avviare la terapia farmacologica stessa. Dedicare
tempo, per gradi e con la massima delicatezza, al tema
dell’accettazione del farmaco è già una fondamentale fase della
terapia. Non ha molto senso che il medico assecondi
acriticamente la resistenza del paziente alla terapia
farmacologica, prospettandogli tecniche alternative che
sortiscano lo stesso e etto, né che gliela imponga. Sarebbero
entrambe soluzioni deleterie. Riuscire ad assumere un farmaco
è, in questi casi, un primo risultato che si vive come grati cante,
una tappa nel percorso verso il benessere e l’a rancamento da
tutte le forme di vincolo ansioso.
Molte volte si ha la convinzione che i farmaci di quest’ambito
abbiano poteri miracolosi, che possano cambiare il carattere,
cancellare sentimenti, o peggio determinare la tipica facies
dell’alienato: lo zombie che non può guidare la macchina, con
gli occhi sbarrati e la sensazione di essere fuori dal mondo. I
farmaci di cui disponiamo non possono fare nulla di tutto questo.
Certo, come tutti i farmaci, dosaggi eccessivi creano e etti
collaterali che spesso, in questo caso, sono la sedazione e il
rallentamento psicomotorio.

Come orientarsi nel cambiamento? T erapia psicologica e


dintorni

L’intervento di prima scelta, secondo le linee-guida


internazionali, è un approccio cognitivo-comportamentale basato
sulla ristrutturazione cognitiva delle distorsioni di natura ansiosa
e sull’esposizione graduale alle situazioni ansiogeniche, con
recupero della libertà di movimento. L’intervento cognitivo è, se
vogliamo, un tentativo di «sciogliere i nodi della mente», mentre
quello comportamentale permette di scendere in trincea e
affrontare l’ansia guardandola negli occhi.
Proviamo a spiegare cos’è e come funziona la terapia
comportamentale utilizzando l’esempio del disturbo ossessivo
compulsivo.
Se chi ha rituali compulsivi non li mette subito in atto dopo
essersi esposto allo stimolo che li innesca, si osserva un aumento
notevole del malessere e dell’impulso a eseguire il rituale. Poi
però l’ansia non peggiora, rimane piuttosto stabile e comincia
quindi gradualmente a diminuire nché il malessere quasi
scompare e si torna alla normalità.
In genere si pensa che, una volta scatenata, l’ansia non si fermi
mai aumentando a dismisura con il passare del tempo. Al
contrario, l’esperienza insegna che l’ansia, come vediamo dal
gra co, raggiunge un suo picco ma poi scende e si riduce
riportando le cose nella norma.
Se si ripete più volte questo procedimento, si constata con
sorpresa che il malessere e l’ansia iniziali diminuiscono dopo
ogni esposizione e che si abbrevia il tempo per tornare alla
normalità. Alla ne, l’esposizione allo stimolo non provoca che
una lieve punta d’ansia, che si risolve rapidamente. Questi
risultati hanno portato allo sviluppo del trattamento
comportamentale noto come «esposizione e prevenzione della
risposta». Come suggerisce il nome stesso, i due elementi di
questo trattamento sono: l’esposizione alla situazione e agli
stimoli che scatenano i rituali compulsivi e la prevenzione della
risposta (del rituale).
Ripetendo questo esercizio nel tempo il picco d’ansia risulta
essere sempre più basso e l’estinzione si ottiene sempre più
velocemente.
Reiterando più volte il procedimento di esposizione e
prevenzione della risposta si arriva al risultato che, alla ne,
quando ci si trova di fronte alla situazione che un tempo
scatenava il rituale, si prova al massimo un leggero malessere. Si
diventa cioè in grado di controllarsi anziché essere in balia del
proprio disturbo.
Questa forma di terapia non è a atto semplice come può
sembrare. Per ottenere i bene ci attesi bisogna procedere in
modo strutturato e sistematico. Chi decide di sottoporsi a questo
tipo di trattamento deve essere motivato e costante nei propri
sforzi e, ad esempio, svolgere veri e propri «compiti a casa»,
concordati durante gli incontri di terapia. Ogni di coltà va
riportata subito al terapeuta e affrontata in condivisione con lui.
Ma può ricapitare? Il falso mito delle ricadute e
l’immunizzazione

Chi è a etto da certi disturbi, e a rontando la terapia ottiene


nella prima fase ottimi risultati, si chiede: «Ma il ricordo si può
cancellare?». Purtroppo, o forse per fortuna, il ricordo, quello no,
non si può cancellare; ma ciò non è incompatibile con il
benessere. Lo scopo della terapia deve essere quello di staccarsi
dalla perenne sensazione di dover dormire con gli occhi aperti,
guardandosi le spalle dal disturbo, ancorati all’esperienza del
ricordo. Dargli un signi cato di erente è l’obiettivo da porsi.
Anche l’esperienza del percorso di cura assume una valenza di
riscatto; riuscire a mettere a fuoco che esistesse un senso di
fragilità latente, anche prima dell’esordio della sintomatologia,
ma che la malattia sia stata un’occasione per lavorare su se stessi,
sul proprio modo di gestire le emozioni e le situazioni, rende più
consapevoli, più forti, in armonia con le proprie sensazioni ed
esperienze. Il percorso di cura diventa pertanto un’occasione per
imparare a viversi meglio, ad acquisire maggiore sicurezza,
anche in tutte le altre situazioni della vita.
Queste tappe del percorso di cura non sono per nulla facili e
scontate; la riduzione dei sintomi è quasi ovvia, ma la
ristrutturazione del proprio cervello emotivo è una cosa ben
diversa. A fronte di questi dati, negli studi di follow-up i risultati
più ottimistici evidenziano che, a due anni dall’inizio del
trattamento, solo nel quarantacinque per cento dei casi si
manterrà un miglioramento clinico della sintomatologia. Nella
restante frazione si assisterà alla ricaduta, alla ripresentazione di
qualcosa di simile ai sintomi d’ansia già conosciuti che
riproporrà l’esperienza di fragilità.
La ricaduta sintomatologica si veri ca alla ne della fase di
mantenimento della terapia, ovvero quando si riducono la
terapia farmacologica e la frequenza degli incontri, diminuendo
la presenza della «stampella-terapia» nella propria vita, e ci si
trova nalmente a gestire in modo autonomo le proprie paure o
ciò che di esse rimane, riacquistando la leadership sul proprio
senso di integrità, senza più gure di sostegno emotivo e
supporto professionale. Questa «responsabilità» può spaventare.
Generalizzando, possiamo a ermare che circa nel venti, trenta
per cento dei casi si veri ca una ricaduta in concomitanza con il
décalage della terapia farmacologica. Si riaffaccia la sensazione di
disagio in certi luoghi, ritorna il dubbio «di doversi
preoccupare», ci si sente di nuovo frastornati da vertigini, senso
di testa leggera, tachicardia, nodo alla gola. È raro che tutto
riparta come era iniziato, ovvero con un attacco di panico del
tipo fulmine a ciel sereno, con un vero meccanismo spontaneo di
forma ossessiva, con una fobia speci camente associata a un
certo luogo o situazione. È invece più probabile che tutto ria ori
da situazioni di micro-disagio legate a momenti di vita vissuta, in
cui riemerge la paura della paura, ovvero la sensazione di
fragilità e di precarietà, che viene riagganciata alle vecchie
«abitudini di pensiero».
Ciò accade perché, evidentemente, il modo di processare le
informazioni non è cambiato, la vita mentale non si è ancora
liberata di quelle fragilità che continuano a caratterizzare
l’esperienza emotiva. Non si è riusciti a recuperare quindi un
buon livello di intelligenza emotiva.
L’obiettivo deve dunque essere quello di cambiare il signi cato
che l’esperienza «ansia» ha per chi ne so re, ridimensionando la
paura della paura, cancellando la sensazione di essere in balia
degli eventi.
«Dottore, è qualche giorno che sto riavvertendo quelle vecchie
sensazioni, intendo dire i giramenti di testa, il senso di non
presenza… Mi sento tutto ovattato: mi devo preoccupare?»
Questo è un esempio di atteggiamento mentale che descrive
bene il risultato a cui possiamo e dobbiamo mirare. A fronte di
sensazioni siche normali, che possono richiamare il vissuto
dell’ansia patologica, non ricolleghiamo a esse il signi cato che
le rendeva devastanti e ci impediva di non pensare ad altro se
non alla minaccia di catastrofe che per noi rappresentavano.

Prevenire è meglio che curare: indicazioni pratiche per


sviluppare la resilienza al disturbo

Di fatto il terzo livello di intervento clinico – di cui abbiamo


parlato all’inizio del capitolo –, quello che a ronta le fragilità di
chi so re di disturbi emotivi, rappresenta un modo di essere
latente in molte persone che pure non so rono in modo
conclamato di disturbi emozionali ma potrebbero «scivolarci», se
si imbattono, per esempio, in eventi di vita stressanti.
Quindi prevenire è meglio che curare, e la prevenzione va
fatta sul funzionamento emotivo e sul potenziamento della mente
relazionale, del nostro cervello sociale.
Pensiamoci: cosa ci genera ansia? Le responsabilità, i ritmi
frenetici, le aspettative, le convenzioni sociali, la paura di
perdere il controllo.
L’ansia è prima di tutto uno stato mentale. Occorre non
dimenticare che il confine fra un problema clinico e la normalità
è spesso soltanto una barriera di convenzione culturale e può
capitare a tutti, in qualsiasi momento, di essere chiamati a
gestire reazioni emotive che generano profondo disagio
soggettivo: a noi la scelta, a un certo punto non fondamentale, di
chiamarlo patologia o di coltà del momento. Il benessere circa
queste evenienze è dato da un costante e paziente lavoro sulla
propria capacità di convivere, accettare, gestire e utilizzare
queste sensazioni. Dal corretto utilizzo della nostra intelligenza
emotiva, insomma.
Bisogna convincersi che difendersi dall’ansia signi ca spesso
prendersi cura di sé, non solo curarsi da una malattia!
Dedichiamo troppo poco tempo alla ri essione,
all’introspezione, alla meditazione, tutti presi a curare il nostro
corpo, a migliorare le nostre capacità linguistiche e lavorative;
per contro nessuno ci chiede di allenarci nella nostra emotività,
come se emozionarsi fosse una cosa semplice per natura e non ci
fosse nulla da aggiungere. Sebbene l’uomo sia una macchina
concepita per essere emotivamente intelligente, la nostra
capacità di gestire le emozioni può, e deve, essere allenata, al
pari di tutto il resto del nostro corpo. Dobbiamo quindi fare
palestra emotiva per il nostro cervello così come facciamo
palestra aerobica per i nostri muscoli e la nostra «pancetta».
Per fare palestra emotiva, ci sono due vie: quella alta, della
consapevolezza, che è anche alla base di molti approcci
psicologici e in parte li caratterizza tutti; e quella bassa,
dell’implicito cambiamento di abitudine mentale, che passa
attraverso il raggiungimento di un nuovo punto di equilibrio
emotivo mediante apprendimento automatico, inconsapevole, un
miglioramento della reattività sica agli stati mentali, che può
essere ottenuto attraverso lo sport, l’esercizio aerobico e
l’abituazione agli stati paurosi.
Gli esercizi a cui ci dovremo dedicare sono quindi di varia
natura.
Innanzitutto dovremo prendere consapevolezza della
connessione fra emozioni e comportamenti: dietro ai
comportamenti si trova sempre un incrocio di pensieri ed
emozioni che si in uenzano fra loro e determinano una data
scelta operativa, più o meno consapevole. La gran parte delle
nostre azioni è basata su automatismi: siamo tremendamente
abitudinari per quanto riguarda i nostri schemi di pensiero; si
potrebbe dire che navighiamo per la maggior parte del tempo
con il pilota automatico. Tutto questo implica una grande
capacità di reazione veloce ed e cace agli stimoli. Quando però
qualcosa non va e la nostra abitudine non ci è su ciente a
superare l’ostacolo, il cambiamento, la novità che ci si pone
dinnanzi, abbiamo bisogno di recuperare la guida manuale e
trovare la rotta per raggiungere la meta.
All’inizio, quando cominciamo a chiederci il perché di certi
nostri stati interni, di certe sensazioni, di certi comportamenti, ci
sembra di avere a che fare con una scatola nera come quelle che
ci sono sugli aerei: impermeabile alla nostra comprensione. Un
primo modo per riprendere un contatto più profondo con noi
stessi è imparare a respirare e a rilassarci.
Sembra assurdo, ma un gesto così naturale come l’atto della
respirazione deve essere un punto fondamentale di partenza. Ci
accorgeremo che quando siamo rilassati, sdraiati sul lettino in
spiaggia sotto l’ombrellone, aspettando di vedere tramontare il
sole, respireremo con la pancia, ovvero utilizzando pienamente
il diaframma, gon ando e sgon ando ritmicamente il nostro
addome. Quando invece siamo immersi in una giornata di lavoro
fra riunioni, ritmi frenetici e problemi tenderemo ad alzare le
spalle in posizione «gruccia» e a respirare con il petto,
determinandoci un perenne senso di costrizione e sforzo. La cosa
sorprendente è che focalizzarci sulla respirazione e imparare a
governarla, ripristinando la «modalità di pancia», diaframmatica,
è un buon modo per recuperare serenità; in questo caso stiamo
utilizzando una modalità implicita, automatica, somatica.
Ci sono molte tecniche di rilassamento, fra le più e caci per il
nostro scopo ci sono quelle che presuppongono esercizi di
focalizzazione dell’attenzione su gruppi muscolari e strategie di
contrazione e decontrazione dei medesimi. Rilassarsi attraverso
queste tecniche ha almeno tre grandi vantaggi:
1. Permette di poterlo fare in qualsiasi momento della
giornata, in qualsiasi contesto, senza disturbare o essere
disturbati. Ricordiamoci che anche questa pratica va
assimilata all’andare in palestra più che al prendere lezioni
di guida: otterremo un risultato non tanto quando abbiamo
compreso come eseguire la tecnica, ma quando la alleniamo
quotidianamente.
2. Allena la concentrazione e l’attenzione selettiva. Rimanere
concentrati su una determinata attività mentale, focalizzando
solo un certo pensiero o argomento, senza essere intralciati
da una sorta di brusio di sottofondo di pensieri e
rimuginazioni, che tendono a diventare preponderanti nel
nostro spazio mentale, è di fondamentale importanza per non
cadere nella trappola dell’ansia.
3. Aumenta il livello di consapevolezza del nostro vissuto
somatico, a nché possiamo sentire in modo più vero e
profondo il nostro essere e connettere sensazioni a emozioni e
pensieri.

Ci sono tecniche più evolute di queste, fra cui la mindfulness, una


pratica clinica, direttamente importata dalla meditazione
tibetana, che ha come primo obiettivo recuperare la
consapevolezza di sé nel «qui e ora» allontanandosi da un
atteggiamento commentante e giudicante rispetto al nostro
sentire. Questa strategia allena alla consapevolezza e punta il
dito proprio sul ruolo ansiogeno non tanto della sensazione
«ansia» in sé, quanto sul « lm» mentale, sull’attribuzione di
significato che ne consegue.
Per gestire l’ansia, oltre a imparare a respirare e rilassarsi, il
nostro allenamento ci deve portare a:
a. Non allarmarci: spesso infatti è una risposta fisiologica.
b. Non catastro zzare: in ogni caso non è una minaccia per
lo stato di salute.
c. Non cedere alla sensazione di perdita di controllo: è la
sublimazione di paure che tutti provano ma non trova
fondamento biologico.
d. Cercare di «ascoltare» e non di controllare il nostro corpo.
e. Usare le emozioni gestendole.
f. Tenere sempre in considerazione che esiste una sostanziale
di erenza fra controllo e gestione, e che per ottenere il nostro
scopo dobbiamo perseguire la seconda.
g. Vivere le emozioni senza farci spaventare dalla loro
presenza: sono segnali e reazioni, quindi dobbiamo sfruttarle
e valorizzarle.

Spesso le persone che hanno problemi di ansia si emozionano


troppo, tendono a essere empatiche sempre e comunque,
costantemente proiettate verso l’altro nel tentativo di capire cosa
pensa, come soddisfare le aspettative che egli ripone in loro. La
sensazione è quella di dover compiacere gli altri per guadagnarsi
il loro a etto. Questa facoltà del sistema emotivo, l’empatia, è
una delle grandi armi che permettono al nostro cervello di
sostenere l’evoluta modalità di connessione tra individui, ma non
bisogna essere fagocitati da questa macchina, anzi dobbiamo
sforzarci di pensare: «Io ci sono a prescindere dall’altro». Sembra
un motto da egoisti ma in realtà è un presupposto necessario per
vivere con l’altro rispettandolo, attribuendo il giusto valore a lui e
alla relazione che con lui stabiliamo.
L’elemento che va protetto e coccolato è l’idea che «comunque
vada io ce la farò, potrò contare su me stesso e a rontare la mia
partita a testa alta». L’uomo è un animale sociale e
congenitamente dotato d’istinti che lo portano a stare in gruppo,
ad avere una relazione sentimentale stabile, a generare un
nucleo sociale autonomo e coeso, un guscio a difesa del suo
mondo e a tutela dei propri valori e della propria famiglia.
Troppo spesso però l’insicurezza, l’ansia, lo stress lo portano
lontano da questo tracciato naturale e perde l’opportunità di
vivere gli a etti e i legami in generale per quello che sono. La
comprensione dell’altro diventa allora un obbligo necessario per
modulare la paura di non essere accettati, la vicinanza a ettiva,
un compromesso per a rontare le s de che quotidianamente la
vita ci pone.
Dobbiamo allearci con le nostre emozioni; anche la paura e
l’ansia sono nostre amiche, sono poderosi segnali che ci
permettono reazioni straordinarie. La ducia in noi stessi va
cercata a partire dal recupero della con denza con i nostri stati
emotivi, con denza che non può prescindere dalla corretta
gestione del nostro corpo, un po’ come un sur sta «gestisce» la
cresta dell’onda: la cavalca, la segue, la accompagna e allo stesso
tempo la domina. La sua forza non va antagonizzata, ma
dobbiamo fare leva su di essa.
Una buona regola per raggiungere questo scopo è sapere di
avere il tempo per farlo: fermiamoci e ri ettiamo, prendiamo
consapevolezza di ciò che accade dentro di noi, senza subirlo
nel tentativo di controllarlo, ma ascoltiamolo e comprendiamolo:
ci indicherà la strada da seguire. Quasi mai c’è una scelta giusta
e una sbagliata; esiste, però, una via «funzionale», quella che ci
permette di trovare un equilibrio fra disagio, benessere ed
efficacia.
Indice

Presentazione e ringraziamenti
Disturbi d’ansia e intelligenza emotiva: la ricerca del
benessere fra disagio e malattia
Intelligenza emotiva e neurobiologia del cervello emotivo
Ansia come stile di vita: l’ansia generalizzata
Vivere con una spada di Damocle sulla testa: panico e paura
della paura
Rosso pomodoro: la fobia sociale
Strane manie: ossessioni, bizzarrie e dintorni
Episodi che segnano una vita: il disturbo post-traumatico da
stress
Ma ci si può curare? Le terapie disponibili: quando, come e
perché

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