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Che cos'è la filosofia sociale?

La filosofia sociale è quel settore disciplinare della filosofia che si occupa del sociale, indagando le
forme delle nostre pratiche e istituzioni sociali, e quindi le nostre forme di vita sociali.
Uno dei problemi più discussi nelle nostre società moderne riguarda il lavoro, ossia il destino di una
società di lavoratori senza lavoro. La lettura filosofico-sociale di questo problema si differenza da
quella fatta dalle altre scienze sociali, in quanto non solo lo affronta dal punto di vista descrittivo,
ma anche normativo e valutativo, ossia analitico e ontologico sociale. Non solo come i rapporti di
lavoro siano articolati; si domanda anche sul piano concettuale e valutativo che cosa siano il lavoro
e i rapporti sociali da esso co-determinati e come l'organizzazione sociale del lavoro dovrebbe
essere strutturata.
La fil. sociale fa parte della filosofia pratica, ossia una disciplina che si occupa dei comportamenti
umani. Più difficile, infatti, risulta differenziare la fil. sociale dalle altre discipline che fanno parte
della fil. pratica e che includono sia la fil. politica che quella morale.
La fil. morale può essere definita come focalizzata sul versante di quelle relazioni individuali che,
nel quadro di specifiche relazioni di lavoro, comportano la degradazione delle persone coinvolte.
Dalla prospettiva della fil. politica, orientata verso le questioni relative la teoria della giustizia, si
stagliano problemi inerenti, ad es., al diritto di ricevere un reddito di cittadinanza.
Ma queste due prospettive non ci dicono se il lavoro sia sensato o non alienato. Ed è questo che
permette alla fil. sociale di distinguersi da questi due approcci, poiché essa punta l'attenzione su
questa distinzione tra lavoro sensato ed alienato: il lavoro viene analizzato come una istituzione
sociale e come una delle pratiche sociali che realizza delle qualità umane. Per un verso, la fil.
sociale prende in considerazione le modalità con cui una vita individuale, o collettiva, riuscita
dipende dalle forme di queste istituzioni e pratiche; per un altro verso, essa analizza le patologie del
lavoro.
Un altro problema delle nostre società è la mercificazione, la commercializzazione di ambiti di vita
che ancora non erano stati assoggettati alla logica del mercato. La questione la possiamo affrontare
dal punto di vista della fil. politica, secondo la quale la trasformazione di beni pubblici in merci
acquistabili riproduce le disuguaglianze sociali, dal momento che non permette più a tutti di
usufruire di tali beni. Dalla prospettiva della fil. morale, si può tentare di ri-orientare la questione a
pratiche, quali l'utero in affitto come forme di strumentalizzazione, che sfruttano la debolezza
sociale per soddisfare gli interessi altrui. Ma per la fil. sociale questi due approcci non sono
esaustivi: anche se queste disuguaglianze venissero appianate da una distribuzione di risorse più
equilibrata, resta la questione se le nostre pratiche sociali e l'integrità dei beni pubblici siano mal
interpretate, deformate, nel momento in cui vengono intese come merci sottoposte alla logica di
mercato. La fil. sociale, allora, anche in questo caso, non si limita alla descrizione della
problematica, ma anche al problema della forma delle istituzioni, delle pratiche e auto-
interpretazioni sociali.
La fil. sociale si occupa dei comportamenti collettivi; essa indaga le forme più adatte affinché
istituzioni e pratiche possano favorire una vita riuscita, una vita buona. Secondo questi due autori,
gli esseri umani agiscono sempre all'interno di precondizioni sovraindividuali. Il sociale è la
condizione costitutiva dell'individualità e dello sviluppo della libertà. Non ci sono individui isolati
che poi entrano in diversi tipi di relazione, essa non prende avvio dal desiderio di riconoscimento
dell'individuo, cioè dal riscontro con l'altro; l'individuo non è un essere mancante. Quello che hanno
in mente è una fil. sociale che ha come focus un meccanismo interattivo degli agenti sociali, fondato
su una reciprocità di ruoli diversi.
La fil. sociale si occupa delle forme di vita sociale attraverso un taglio normativo, valutativo, che
mantiene anche nella sua funzione diagnostica della società. Si chiede, ad es., come dovrebbe essere
strutturata l'organizzazione del lavoro per non produrre alienazione. Si chiede quali siano gli
sviluppi distorti intorno a noi che ci impediscono di condurre una vita buona. Per tanto, una prima
differenza tra fil. sociale e sociologia è da vedere nel taglio normativo. La fil. sociale si occupa
anche di questioni di ontologia sociale, ossia lo studio dell'essere nella realtà sociale. Essa diventa
una meta riflessione: mentre, invece, la sociologia studia, ad es., i rapporti di lavoro, la fil sociale si
chiede anche come dovrebbero essere.
Il campo di applicazione della fil. sociale è più ampio rispetto a quello della fil. politica (campo
politico-istituzionale) ed anche l'approccio è diverso. questi due autori prendono anche la distanza
dalla fil. normativa di John Rolls, che si pone l'interrogativo della società giusta a prescindere dal
contesto. Ma una questione della giustizia non può trascendere il contesto sociale: la normatività
dev'essere ancora ad una dimensione immanente.
I due autori, per sviluppare un profilo più nitido della fil. sociale e attribuirle un compito più
specifico, prendono in considerazione la posizione di Horkheimer e di Honneth. Hork., in un
articolo del 1931, all'inizio dell'anno accademico sociale, quando prese le redini dell'ist. di
Francoforte, definì il compito della fil. sociale come l'interpretazione filosofica del destino degli
uomini come membri di una comunità. Essa deve occuparsi solo dei fenomeno che possono essere
compresi con la vita sociale degli uomini. la definizione del compito si evince anche dalla
prospettiva che Hork. propone: si tratta di una prospettiva olistica. Per l'olismo sociale la società è
una totalità non riducibile alle singole componenti: non è un mero aggregato di individui, essa è una
realtà sui generis, di per sé. Questo approccio olistico si rifà ad Hegel e si contrappone alla
prospettiva individualistica di Kant. Secondo Hork. bisogna distingue tra approcci pre-hegeliani e
hegeliani. Nei primi, le relazioni sociali sono relazioni fondate a partire dal singolo che si mette in
relazione. Nei secondi, gli individui sono anche dominati dalla realtà sociale: ciò che un individuo
fa nella società, o gli accade, può essere compreso solo alla luce di un ampio universale. Gli
individui non sono solo parte attiva della società, ma anche dominati da essa: solo alla luce di
questa libertà si può comprendere quello che ognuno di noi fa e può fare. Hork., però, fa anche delle
critiche ad Hegel: ha fallito nel contrapporre le analisi filosofiche alle scienze empiriche; infatti,
Hork. ha intuito di voler costruire una ricerca di fil. sociale che abbia un forte legame con la
sociologia empirica (approccio interdisciplinare). L'antropologia continua a restare lontana da questi
studi.
Il metodo della fil. sociale per Hork. è un metodo ibrido, che prevede un momento descrittivo
(com'è costituita la società) e uno valutativo (come dovrebbe essere costituita). Mentre i
normativisti e gli empiristi vorrebbero che questi due momenti fossero separati.
L'altro autore di riferimento è Alex Honneth, nato nel 1949. Per lui la fil. sociale è una disciplina
autonoma che serve a diagnosticare gli sviluppi distorti della società: le patologie. Scrisse un saggio
intitolato Patologie del sociale, dove espone la sua idea della fil. sociale come disciplina che ha per
obiettivo la vita buona. Parte dagli ostacoli che impediscono di condurre una vita buona, secondo le
proprie concezioni, e analizza le condizioni sovraindividuali necessarie a questa realizzazione.
Quando dice patologie del sociale si riferisce a tutte quelle sofferenze che non si lasciano
comprendere in termini di giustizia e che costituiscono sviluppi distorti all'interno della società. Ad
es. il lavoro alienato. Marx ce ne parla nel Capitale: la cura non può passare solo per un aumento di
salario, c'è bisogno di una trasformazione qualitativa del lavoro stesso, che implica tutta una serie di
pratiche ed istituzioni in cui sono collocati i lavoratori. Alcune ricerche hanno evidenziato che
modificando le condizioni di lavoro vi fossero delle trasformazioni positive: i lavoratori stavano
meglio. La qualità dei legami tra imprenditori e lavoratori è fondamentale: una buona qualità
aumenta la produttività.
Se Hork. guardava ad Hegel, Honneth guarda più a Rousseau (almeno nella sua prima fase).
quest'ultimo, ad es. ha osservato le conseguenze della divisione del lavoro: la quale ha portato ad
una lotta per il prestigio e al riconoscimento pressante; l'altro elemento intravisto da R. è stata
l'istituzione e il rafforzamento della proprietà privata (maggiore disuguaglianza). Honneth già negli
anni 80-90 del XX sec. inizia a segnare questa via: la realizzazione individuale si fonda si premesse
sociali sovraindividuali. Non significa che per realizzare una vita buona gli individui abbiano
bisogno necessariamente dell'istruzione e formazioni data dalle istituzioni, ma che il sociale sia
concepito come condizione dell'individualità in senso forte: la propria realizzazione non può
avvenire senza vincolo sociale.
Per individuare le patologie vi sono due modi:
-il primo è porre la questione in termini etici: stabilire dei criteri etici che permettano di realizzare
una vita buona;
-il secondo riguarda la fil. della storia. Nella storia vi è uno sviluppo definito come progressivo e
lineare, un progresso che porta verso una maggiore realizzazione . le città che seguono questa via
sono buone e progrediscono, le altre che non lo seguono sono regressive. Una storia progressiva
deve corrispondere a certi criteri che se assenti non si potrà giungere alla realizzazione di una vita
buona. Secondo i due autori, né il primo né il secondo modo sono in grado di condurre ad una vita
buona. Questi due autori tentano una terza strada: studiare le patologie con un taglio di ontologia
sociale, che si focalizza sulle esperienze interne di una società. Partono dal valutare i criteri etici: da
un lato accettano la prospettiva di Honneth (compito diagnostico che, però, non vogliono sviluppare
secondo il metodo dell'Honneth della prima fase, che individua le patologie basandosi su criteri etici
che trascendono il contesto storico, ossia come una perdita rispetto all'autoconservazione e
compassione). Due criteri trascendentali che non sono desunti dall'esperienza. Honneth cerca criteri
etici non troppo sostanziali e propone nel 1994 l'antropologia debole, che fornisce indicazioni
riguardo le condizioni da adottare per promuovere una vita buona. Sulla base di queste indicazioni
possiamo valutare le eventuali patologie di una società. Tali criteri li evince partendo da esperienze
di disconoscimento: ad es., da forme di mal trattamenti presenti in società. sia psichiche che fisiche.
Honneth raggiunse l'idea di antropologia minima partendo da una analisi delle forme di
disconoscimento minime. Ad es., famiglie dove si vive male. Quando accadono cose di questo
genere, le persone che le subiscono ricevono una serie di violenze: non solo dolore fisico e psichico,
ma una vulnerabilità più profonda: si è esposti all'altro che vuole controllo sulla vita psichica e
fisica della persona. Chi riceve ciò si sente sfiduciato e umiliato. Honneth dice che da ciò si può
comprendere una cosa: una persona per costruire la propria identità ha bisogno di cure, di
incoraggiamento, di legami affettivi, di amore. Il bambino o l'adulto mal trattato fanno
un'esperienza di mancato riconoscimento, che porta alla luce la condizione ideale che è venuta
meno, ossia l'esperienza di riconoscimento, di amore che permette di sviluppare la propria identità.
(Honneth della prima fase). Parte da esperienze di disprezzo etico e morale verso esperienze di
apprezzamento e di amore. Partire dai criteri etici in base ai quali valutare se gli individui possono
realizzarsi. Individuare questi criteri etici significa usare un'antropologia minima, che descriva le
condizioni minime perché una persona possa realizzarsi. Procede così perché questo è un modo
dialettico di procedere. Cominciare da una descrizione del disconoscimento per poi concentrare
l'attenzione sul riconoscimento: le esperienze d'amore danno corpo alle rappresentazioni di vita
etica che stavamo cercando. Solo una società in grado di favorire un'esperienza di riconoscimento
come l'amore può permettere alle persone di realizzarsi; altrimenti no. Cercare criteri etici minimi
per misurare le patologie sociali: un individuo non può essere se stesso se viene privato d'amore.
É per questo che lo stato cerca di ovviare a queste carenze. La prima forma di riconoscimento è il
diritto e la solidarietà, che, per Honneth, sono le esperienze elementari affinché una persona possa
fiorire. Condizioni ideali rispetto a cui valutare le condizioni reali della società.
Nella seconda fase, H., si avvicina di più ad Hegel e inizia a considerare la fil. sociale come uno
spirito oggettivo: un momento dell'eticità che rinvia a norme incarnate nella realtà storico sociale,
cioè ricavate dalla società stessa a partire dalla sedimentazione di processi di libertà, di
istituzionalizzazione, avvenuti in quella società. Non estratte indipendentemente dal contesto, come
avviene con la fil. morale e come fece L'H. della prima fase con l'antropologia minima.
I tentativi che mettono appunto questi due autori sono:
-la fil. sociale ha un campo di applicazione e prospettiva che condivide parzialmente con le altre
discipline;
-É caratterizzata da un momento descrittivo e uno valutativo, momenti di analisi, di valutazione e
critica. I suoi concetti fondamentali non sono mai solo descrittivi ma anche valutativi. Le norme
sono sviluppate in modo immanente e non sono stabilite indipendentemente dalla società in cui si
sviluppano;
- é una disciplina distinta che lega la riflessione critica sulla patologia alla teoria sociale e
all'ontologia sociale.
Una volta stabilita una teoria di questo tipo si può stabilire meglio quali siano gli ostacoli interni
alla società.
Alienazione

Per Hegel libertà e socialità non devono essere visti come due concetti contrapposti. Concepita
come "essere presso di sé nell'altro", la libertà significa trovarsi in una relazione significativa e di
identificazione con gli altri, e nel potersi realizzare nelle istituzioni e nelle pratiche con le quali ci si
identifica. in questo senso la libertà è l'opposto dell'alienazione. Quest'ultima è indifferenza,
impotenza e assenza di relazioni nei confronti di sé e di un mondo che viene concepito come
estraneo. Quindi, incapacità di porsi in relazione con gli altri, con il mondo oggettivo, e, mediante
ciò, anche nei confronti di sé stessi. è una relazione deficitaria che si ha con sé stessi, con il mondo
e con gli altri. dalla prospettiva della filosofia sociale il concetto di alienazione rimanda a delle
forme di illibertà, che sono patologie del sociale. Tale concetto è un concetto chiave della filosofia
sociale e della sua diagnosi della modernità. Nell'opera di Marx l'alienazione ha un ruolo molto
importante e, a fianco della linea teorica che da Hegel conduce a Marx, vi è una seconda linea
critica, di impronta esistenzialistica, che da Kierkegaard arriva a Sartre attraverso Heidegger. nel
corso del XX sec. queste due linee si sono intrecciate in modo significativo.

Da Rousseau a Marx via Hegel.

In Rousseau non troviamo il concetto, quanto piuttosto il problema dell'alienazione come problema
filosofico-sociale. Quando nel suo Discorso sull'origine della disuguaglianza (1755) Rousseau si
lamenta delle deformazioni operate dalla società sull'uomo, egli lo presenta come scisso dalla sua
natura ed estraniato dai suoi bisogni. Assoggettato al diktat della società, l'uomo viene a dipendere
dall'opinione degli altri. Questa dipendenza dell'uomo civilizzato, e l'illimitatezza dei suoi bisogni,
conducono nel contempo alla disuguaglianza, all'illibertà e alla perdita di autenticità. "Ognuno
cominciò ad avere considerazione degli altri e a voler essere tenuto in considerazione a sua volta, e
la stima pubblica divenne un valore. Colui che cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte , il
più abile, divenne il più apprezzato; e questo fu il primo passo verso la disuguaglianza e, nello
stesso tempo, verso il vizio: da queste prime preferenze nacquero da un lato la vanità e il disprezzo,
e dall'altro la vergogna e l'invidia; e il fermento di questi stimoli portò a combinazioni funeste della
felicità e dell'innocenza". Stando al quadro delle società moderne, l'alienazione per Rousseau non
sarebbe superabile e la sua critica sociale, da questo punto di vista, sembra essere asociale. Ma egli
è convinto che una forma radicalmente diversa delle relazioni sociali e politiche e di educazione
degli individui sarebbe in grado di ricucire lo strappo tra l'essere autonomi e autentici e la società.
Rousseau abbozza questa forma di vita comune e di educazione qualche anno dopo il Discorso
sull'origine della disuguaglianza, nel suo Contratto sociale e nel trattato pedagogico Emilio. il
superamento dello strappo può avvenire solo se gli uomini vivono in una forma comunitaria
autodeterminata, cioè in istituzioni politiche che possono esperire come proprie. Per un verso
l'uomo alienato perde se stesso, nella misura in cui si è legato agli altri; per un altro verso, però, egli
può riconquistare il proprio sé mediante la società. L'alienazione, allora, per Rousseau ha una
doppia determinazione: in quanto alienazione nel sociale e alienazione dal sociale.
L'opera di Hegel è cruciale per lo sviluppo della teoria dell'alienazione da due punti di vista. Hegel
lega la sua diagnosi della scissione moderna al problema che aveva posto Rousseau, ossia come
potessero essere riconciliate libertà e socialità, e di come gli individui potessero far proprie le
istituzioni sociali. Hegel si era riservato la possibilità di concettualizzare filosoficamente l'idea qui
emergente di una "auto-realizzazione nell'universale". Anche per Hegel, infatti, la modernità è
caratterizzata da fenomeni di alienazione. Per lui, non è la perdita di sé degli individui nella società
a costituire il problema, quanto la frattura tra individuo e società. Secondo Hegel, l'alienazione è
eticità deficitaria. Con questo termine non intende l'integrazione sostanziale delle comunità
premoderne, ma piuttosto il fatto di rispettare il diritto dell'individuo alla sua determinatezza.
Viceversa, l'anti-atomismo di Hegel si basa sull'idea che gli individui si trovino già da sempre entro
relazioni sociali, la cui realizzazione appartiene alle precondizioni della loro libertà. Se quindi
Hegel riprende la problematica delineata da Rousseau, ma ne trasforma l'approccio in una
condizione della libertà quale eticità, allora: siamo liberi entro e mediante le istituzioni
sovraindividuali nelle quali possiamo realizzarci, innanzi tutto in quanto individui. Hegel, nel suo
La fenomenologia dello spirito, ripercorre il movimento di estraniazione dello spirito nel suo essere
altro, e la scissione di soggetto e oggetto in quanto movimento di alienazione e di superamento
dell'alienazione. è un processo esperienziale che si dischiude nello spirito assoluto. e quindi in
quelle forme di conoscenza di sé, che secondo Hegel si articolano in modo paradigmatico nella
religione e nella filosofia. Qui l'alienazione si delinea come momento di sviluppo necessario.
Diviene comprensibile in quanto movimento di un soggetto che si estranea nel mondo, che diviene
reale perché pone se stesso in rapporto agli altri, e che quindi si riferisce a sé mediante il mondo che
ha imparato a concepire quale prodotto della sua propria attività oggettivante. Marx riprende il
tema Hegeliano della scissione etica, ma critica aspramente la soluzione hegeliana del problema. la
scissione tra borghese e cittadino, così concepita, ovvero tra uomini in quanto borghesi
nell'economia e cittadini nello stato, dunque tra economia e politica, per Marx è espressione di
un'alienazione che egli ritiene si possa superare solo grazie a una radicale emancipazione umana che
abbracci anche la sfera economica. nella sua teoria dell'alienazione Marx distingue 4 aspetti del
fenomeno del lavoro alienato nel capitalismo nascente: primo, esso aliena il lavoratore dal prodotto
del suo lavoro; secondo, lo aliena dalla sua propria attività; terzo, lo aliena dall'ente genetico (ossia
da se stesso, in quanto essere libero che dovrebbe svolgere un'attività libera); quarto, lo aliena dagli
altri uomini. l'alienazione, allora, è il disturbo dei rapporti che si dovrebbero avere con sé stessi e
con gli altri, nel mondo sia sociale che naturale.
Nei deficit definiti da Marx, possiamo individuare due dimensioni: da un lato, l'incapacità di avere
controllo su ciò che si fa, cioè essere soggetti delle proprie azioni (impotenza); dall'altro,
l'incapacità di identificarsi con ciò che si fa e con coloro con cui lo si fa. Quindi abbiamo una
perdita di controllo e di espropriazione: i lavoratori alienati non possono usufruire del frutto del loro
lavoro, è un qualcosa che non gli appartiene e che viene scambiato in un mercato e sotto condizioni
che loro non controllano. Per un altro verso, l'alienazione dall'oggetto è intesa come oggetto che
appare frammentato agli occhi dei lavoratori: i lavoratori non alcun rapporto con il prodotto del loro
lavoro nella sua interezza.
Marx parla anche di lavoro limitato e ottuso, perché, infatti, non è caratterizzato solo dal fatto che
qualcun altro si impadronisce del frutto del loro lavoro, ma anche dal fatto che non ha uno scopo
intrinseco e non può essere esercitato per il proprio volere. il lavoratore nel suo lavoro non si
afferma, ma si nega, non si sente soddisfatto e sfinisce il suo corpo e distrugge il proprio spirito. Al
contrario, il lavoro non alienato inteso come appropriazione produttiva del mondo sarebbe la
precondizione per sviluppare un rapporto adeguato con se stessi, con il mondo oggettuale e con gli
altri. Ciò comporta un ordine sociale qualitativamente diverso. A differenza di Hegel, la diagnosi di
Marx implica che l'ordine istituzionale esistente sia una forma di illibertà strutturale che può essere
superata solo nel quadro di una trasformazione strutturale, ossia rivoluzionaria.

Dopo Marx

Gia Hegel e Marx legano il concetto di alienazione a quello di reificazione, in seguito questo
legame si ritrova nell'opera del filosofo Luckàcs, Storia e coscienza di classe. qui è centrale la tesi
dell'universalità della forma di merce quale caratteristica della società moderna. Per Luckàcs sono
determinanti i fenomeni dell'indifferenza, della quantificazione e astrazione che si accompagnano
all'espansione dell'economia di scambio capitalistica in tutti i rapporti vitali e i modi di espressione
della società. l'universalità astratta e la calcolabilità pervadono l'intera struttura della società
capitalistica, deformando così anche i rapporti quotidiani vitali e le relazioni intersoggettive.
Weber parlava di gabbia d'acciaio, nella quale gli esseri umani sono imprigionati dalla società
capitalistica burocratizzata. E Simmel aveva descritto la tragedia della cultura nella quale i prodotti
della libertà umana si erano autonomizzati, presentandosi agli uomini come qualcosa di oggettivo, e
aveva analizzato la perdita della libertà rispetto all'estensione dell'economia monetaria. questi referti
diagnostici caratterizzano i fenomeni osservati da L., che li riconduce alle trasformazioni dei
rapporti con se stessi degli individui così come ai rapporti sociali determinati dallo scambio delle
merci di tipo capitalistico: attraverso questo fatto strutturale, all'uomo viene contrapposta la propria
attività, il proprio lavoro, come qualcosa di oggettivo e di indipendente, che lo domina mediante
leggi autonome che gli sono estranee: sorge un mondo di cose già fatte e di rapporti tra cose
regolato da leggi, le quali si contrappongono a gli uomini come forze che non si lasciano
imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione.
Gli stessi motivi giocano un ruolo importante soprattutto negli autori della Scuola di Francoforte.
Adorno diagnostica un'alienazione di ampia portata, che penetra negli angoli più riposti della
soggettività. In una direzione simile si muove Marcuse, con il discorso "l'uomo a una dimensione".
Nella sua diagnosi afferma che il concetto di alienazione sembra diventare discutibile quando gli
individui si identificano con l'esistenza che è loro imposta e trovano in essa compimento e
soddisfazione, ma, dato che la realtà stessa è già alienata, essa è diventata completamente oggettiva,
pertanto la soddisfazione soggettiva integrata in questi rapporti oggettivamente alienati è da
interpretare come falsa coscienza che resiste alla propria falsità. in questo modo, però, diventa
immune alla confutazione anche la teoria di Marcuse dell'alienazione.
la seconda linea critica dell'alienazione è di taglio esistenzialista parte dall'etica dell'esistenza di
Kierkegaard. la riflessione di K. risponde alla perdita di determinatezza dell'uomo moderno e al
divenire se stessi in quanto appropriazione delle proprie azioni e della propria storia, come processo
nel quale si coglie se stessi praticamente e dove si prende possesso della legge estranea: contro il
conformismo della sfera pubblica, l'individuo deve sforzarsi di diventare un singolo isolato. questa
idea viene ripresa da Sartre nella contrapposizione tra l'illusione e un rapporto libero con se stessi: il
cameriere perde la distanza dal suo ruolo e si identifica con le richieste esterne e così perde la
propria volontà.
mentre la critica marxista-hegeliana dell'alienazione viene vista come alienazione dal mondo
sociale, per l'esistenzialismo, al contrario, il fatto di essere posti in un mondo pubblico sembra
essere la fonte dell'alienazione. in questo K. vede la perdita di autenticità dei soggetti come
livellamento prodotto dalla sfera pubblica. secondo Heidegger il dominio del si porta
all'inautenticità, questo genera una forma di auto-alienazione che deriva dal conformasi agli altri
anonimi e da cui è difficile che l'esserci riesca ad emanciparsi.

Alienazione e appropriazione

La critica dell'alienazione presuppone una determinazione della vera essenza umana da cui
l'alienazione ci ha allontanato. una tesi interessante è quella proposta da Sennett nel suo L'uomo
flessibile, secondo cui il capitalismo minaccerebbe l'identità dei singoli e della coesione sociale.
Diventano più forti i timori rispetto alla mercificazione di ambiti vitali e l'accelerazione sociale con
i suoi effetti alienanti ne sono un segnale. Ogni tentativo di ricollegarsi all'alienazione deve
affrontare tre compiti. Primo, va dimostrato che è possibile una ricostruzione non essenzialistica del
concetto di alienazione. Rispetto all'accusa di paternalismo, va inteso che la critica dell'alienazione
non si contrappone alle esigenze moderne di autodeterminazione, ma le assume come precondizioni
sociali. Terzo, dalla critica dell'alienazione consegue una concezione del mondo umano e
dell'interpretazione del sé che non si lascia ingannare dall'idea che un rapporto non alienato
consisterebbe in una trasparenza e controllo assoluti. L'alienazione indica la qualità di una
relazione, essa è una relazione di mancanza di relazione: le cose dalle quali si è alienati sono al
contempo proprie ed estranee.
Nella critica dell'alienazione si intrecciano due diagnosi: per un verso quella della perdita di potere,
per un verso quella della perdita di senso. Se l'alienazione è una relazione di mancanza di relazione
il suo superamento è anche una relazione, un rapporto di appropriazione.
Si tratta di analizzare il carattere della relazione: sono le diverse forme di disturbo dei rapporti di
appropriazione che possono essere diagnosticate mediante il concetto di alienazione. Il rapporto di
appropriazione deve essere concepito come un rapporto produttivo e come un processo aperto. Da
ciò discende anche quel legame tra alienazione e libertà: nella misura in cui la libertà presuppone
che si possa far proprio quanto si fa, e le condizioni entro cui lo si fa, allora il superamento
dell'alienazione è una precondizione per la realizzazione della libertà.
Doni intesi e malintesi nelle Antille.

quello che nella letteratura antropologica veniva definito come primo contatto era avvolto da
un'aura piuttosto drammatizzante, non sempre giustificata. il riconoscimento verso cui il dono tende
può, in realtà, diventare misconoscimento, con delle conseguenze imprevedibili per tutti. Per questo
Sarnelli parte dal più classico degli incontri tra sconosciuti, quello che comincia il 12 ottobre 1492 a
largo di un'isola dei Caraibi.
Viene trattato l'incontro di Colombo e degli spagnoli con diverse tribù che popolavano quelle che si
credeva fossero le Indie, attraverso la testimonianza di Las Casas. si parte dall'incontro con gli
indiani Lucayo, un sottogruppo degli indiani Taino, nell'isola di Guanahani, ribattezzata San
Salvador. C'è da dire che Las Casas, attraverso al ricostruzione di questi incontri, abbia volutamente
riportato una versione per certi versi diversa per poter liberare i suoi compatrioti dai pregiudizi
negativi nei confronti degli indiani. Infatti, la versione del figlio dell'ammiraglio, Ferdinando Colon,
riporta una versione un po diversa. ancora diversa è anche la versione di Pietro Martire d'Anghiera
che, non solo ha avuto la possibilità di leggere direttamente una copia del diario originale di
Colombo, ma anche quella di incontrare personalmente molti dei uomini che erano con Colombo in
quel primo viaggio e in quelli successivi. Nelle sue decadi de l'Orbe Novo, il primo incontro tra i
nativi e spagnoli a cui fa riferimento è quello in cui i nativi alla vista degli stranieri sconosciuti
fuggono:

"La prima cosa che fecero i nativi alla vista di questi stranieri fu quella di rifugiarsi. Gli Spagnoli
presero una donna e la portarono alle navi dove le diedero da mangiare e la vestirono, dopo di che la
liberarono. Dopo che la donna tornò dagli altri nativi, fece sapere loro di com'era stata trattata bene
ed essi accorsero tutti a gara pensando che fosse gente inviata dal cielo. Nuotando portarono alle
navi oro. se gli spagnoli davano un campanello, un ninnolo, un pezzetto di vetro, loro invece
offrivano tanto oro."

Qui ritroviamo gli spagnoli che si qualificano come primi donatori, sia pure dopo un rapimento.
molte delle popolazioni che gli spagnoli incontrano sembrano aduse a forme di interscambio con
stranieri. la relativa facilità con cui si stabiliscono sembra attestare una preesistente attitudine alla
relazione interculturale che le fonti spagnole possono aver magari enfatizzato, ma non inventato ex
nihilo. la documentazione di cui si dispone, inoltre, sembra indicare che questi traffici non avessero
natura prettamente commerciale e che un ruolo importante fosse giocato da fattori di tipo simbolico-
cerimoniale. ovviamente quello che ebbe luogo sull'isola di Guanahani, non poteva avere ancora
quella dimensione di cerimoniale formalizzato che ci descrivono le cronache portoghesi. neppure in
seguito sarà facile distinguere un dono da ciò che non è. una distinzione che gli spagnoli hanno ben
presente, mentre per i Taino è possibile fare solo delle supposizioni. L'unica eccezione sarà
costituita dai doni diplomatici che hanno corso tra Colombo e i rappresentanti locali del potere, i
caciques: in questo caso le transazioni di beni vengono descritte come regali e non si parla di
baratto o di compravendita.
quello che per gli indiani poteva configurarsi come dono reciproco, agli spagnoli poteva apparire
come un normale baratto, che però tanto normale non sarà quasi mai.
Il motivo per cui gli spagnoli si adeguavano a fare doni era per favorire un contatto con le
popolazioni e creare quella fiducia che spesso non si può avere con chi non si conosce. infatti, i
nuovi arrivati non sempre venivano accolti a braccia aperte. Colombo si interroga molto sul perché
quelle tribù fossero così propense a donare. inizialmente pensa si tratti di una generosità naturale. il
dono indiano acquisisce la valenza di una diversità esotica e questo porta Colombo a pensare ai
problemi che ciò può porre al mondo culturale dal quale proviene. queste tribù non conoscevano
l'istituto della proprietà, né quello della moneta. da qui sorge l'ambivalenza di questi doni che, nello
stessi tempo, avvicinano e allontanano perché vengono fatti corrispondere ad una distanza culturale.
per uscire il più pulito possibile da una tale situazione, Colombo in questi scambi, cerca di
ricambiare sempre ciò che gli viene donato; anzi, da inizio ad una pratica di dono unilaterale presso
le isole che visita. Ma, ovviamente, l'ammiraglio con una mano da e con l'altra prende. prende di
tutto per poter giustificare l'utilità della sua impresa ed attestare che sia giunto in Oriente. prende
anche altro, quando pensa di agire per conto dei reali di Spagna che considera come sovrani di
queste terre. prende anche dei nativi, sequestri di breve durata per raccogliere informazioni e che
poi diventano permanenti quando l'ammiraglio capisce che ha bisogno di dotarsi di interpreti locali
che parlino il castigliano. alcuni di questi saranno al suo fianco nel trionfale rientro in Spagna, per
essere esibiti come esotica curiosità. nel secondo viaggio, i rapimenti diventeranno deportazioni di
massa, rendendoli manodopera schiavizzata. si appropria dei nativi sia che essi siano o no
consenzienti. di questo Las Casas lo rimprovera sempre. ma ciò a cui Colombo puntava erano gli
sfruttamenti commerciali su larga scala.
Non c'è incontro più emblematico di quello avvenuto forse nel quarto ed ultimo viaggio con gli
abitanti dell'isola di Cariai. In questo caso il nulla di fatto sembra discendere da un disaccordo di
fondo rispetto a ciò che significhi donare: alla fine ciascuno rifiuta ciò che l'altro vuole dare, perchè
rifiuta in modo in cui l'altro vuole dare. anche lo scambio di doni mancato si presenta come
ambivalente: è un atto che avvicina, perché la relazione resta amichevole, ma nello stesso tempo
allontana perché genera una distanza culturale di cui stavolta sono i nativi a prendere atto, restando
fermi sulle loro posizioni. Nella lettera a Santangel, scritta sulla via del ritorno, Colombo etichetta
queste tribù in maniera sprezzante: la gentilezza con cui offrivano era frutto di stupidità, mancava di
quel grado minimo di civiltà da permettere a queste tribù di apprezzare ciò che possiedono.
Colombo si rende conto di alcune diversità che intercorrono tra le popolazioni che incontra: ad es.
gli abitanti dell'isola di Fernandina maneggiano armi e sono più avveduti nelle transazioni, non
danno via tutto ciò che hanno indistintamente ma, anzi, sono piuttosto abili negli scambi
commerciali. nonostante fossero solo da tre giorni su quell'isola, la voce si era già sparsa e anche i
regali che loro avevano fatto a queste tribù erano state immesse all'interno del circuito locale degli
scambi: questi beni venivano utilizzati dai nativi per rinforzare le relazioni tra loro. gli spagnoli,
inoltre, alcuni ritenevano di essere stati immessi in questo circuito locale in maniera speciale, ossia
inizieranno a pensare che la gentilezza di queste tribù sia dovuta al fatto di essere visti da loro come
divinità. il più esplicito a dire ciò, tra le testimonianze, è il figlio di Colombo. mentre i doni
orizzontali presuppongono una relazione tra pari, i doni verticali creano una disparità tra chi ricopre
una posizioni inferiore, che offrirà per obbligo, e chi ricopre una posizione superiore che ricambierà
quando, quanto e come vorrà. inizialmente Colombo e gli altri spagnoli pensavano che queste tribù
fossero privi di un culto e passerà del tempo prima di affibbiare loro l'idolatria. allora, a rendere
particolarmente importanti i sonagli e le perline di vetro agli occhi dei Taino è il presentimento di
una epifania transitoria di esseri divini che poi se ne andranno e di loro resteranno solo i doni
ricevuti. Ma a ben guardare, è possibile che l'importanza degli spagnoli, agli occhi dei Taino, sia
stata determinata dagli oggetti che questi avevano offerto loro: era a partire da essi che i Taino
avevano pensato agli spagnoli come figure di rango più elevato. Fatto sta che nel diario di bordo
ritroviamo da parte di Colombo molti riferimenti all'idea che queste tribù li trattassero come dei
discesi dal cielo, baciando loro i piedi e prostrandosi al loro cospetto. Inutile constatare che
Colombo, non conoscendo affatto la lingua parlata da queste tribù, abbia probabilmente romanzato
ciò che questi dicevano, avvalorando la visione positiva che i nativi avevano di questi invasori. Per
Colombo quest'impresa era una sorta di disegno divino. Di questa deificazione del colonizzatore
europeo ci saranno altri esempi che possono essere quello di Cortés in Messico o Pizarro tra gli
Inca, del capitano Cook nelle isole Hawaii. tutti casi che sono stati oggetto di dibattito, come quello
che ha opposto Obeyesekere e Sahlins. Obeyesekere vede la vicenda di Colombo come un ciclo di
miti coloniali, accomunati dalla tendenza etnocentrica a rappresentare le popolazioni native come
infantili e irrazionali. Secondo Obeyesekere, invece, i nativi erano datati delle risorse cognitive,
forme di ragione pratica, che gli consentivano di distinguere senza difficoltà i rappresentanti di un
popolo straniero da una divinità del pantheon autoctono. questa nozione di provenienza celeste
sembra d'altra parte abbastanza comune e diffusa in molte culture amerindie per riferirsi
genericamente a ciò di cui si ignorava natura ed origine. secondo quanto ipotizzava Roget, i taino ad
un certo punto sarebbero arrivati alla conclusione che gli spagnoli provenissero in realtà da
Coaybay (la terra dei morti), luogo verso il quale cercavano di rimandarli in quanto, secondo le
leggende locali, si riteneva che gli spiriti dei defunti potevano condurre un'esistenza parallela a
quella dei vivi finché non si decidevano a rientrare nel luogo al quale erano destinati. Gli spagnoli,
per tanto, si pensava che fossero spiriti di persone morte. quando gli spagnoli cercavano
informazioni sulle rotte che li avrebbero portati all'oro, venivano quindi indirizzati verso meno
allettanti destinazioni. una forse più attendibile testimonianza della concezione che i nativi avevano
degli spagnoli ci viene fornita da Ramon Panè, monaco eremita che aveva seguito Colombo nel
secondo viaggio e che era stato incaricato da questi di studiare la religione degli indigeni di Haiti.
nell'isola di Hispaniola Panè raccoglierà una profezia. la profezia sembra attestare una assimilazione
degli spagnoli con degli stranieri come carib, da cui deriverà il termine cannibale. questo
spiegherebbe certe fughe dei Taino, indotte da un altro familiare che credono di riconoscere e con il
quale gli scambi sono sempre possibili, ma non esenti da rischi.
Dalla vicenda dello scambio di doni possiamo trarre delle indicazioni più risolutive laddove entra in
scena l'élite locale dei cosiddetti cacicchi. L'arrivo all'odierna Haiti è piuttosto minaccioso. Gli
indiani li accolsero in maniera festosa andando loro incontro con le loro navi o anche a nuoto.
offrirono loro cibo e acqua, ma anche pappagalli, tessuti di cotone e oggetti d'oro in quantità
superiore rispetto a quella abituale. Gli spagnoli ricambiano con le perline di vetro, i campanelli di
ottone. la zona nella quale avvengono questi scambi è sotto la giurisdizione del Guacaganarì, uno
dei sei cacicchi fra i quali è ripartita l'autorità sull'isola. di quest'uomo Colombo avrà notizia dagli
emissari che il cacicco stesso ha inviato per invitare Colombo a rendergli visita. Ci saranno diversi
incontri di Colombo con il cacicco, tra il 23 dicembre e il 2 gennaio. L'unico che può aiutare
Colombo a trovare i giacimenti d'oro è il cacicco della regione di Marien. Ma, quest'ultimo, guarda
a Colombo come un potenziale alleato molto potente, al pari degli altri cacicchi. tra i doni che
Colombo riceve da questo cacicco sicuramente il più importante è la guaiza, dono molto personale.
si trattava di una maschera d'oro. Colombo ricambia con doni altrettanto personali: la sua camicia,
le sue scarpe, i suoi guanti, etc.
Quello che avviene, allora, è uno scambio orizzontale di una relazione fra pari: Colombo non era il
re degli spagnoli, ma neanche il cacicco era il re di Marién probabilmente, dato che era tributario di
altri cacicchi. Le guizas erano dei manufatti piuttosto piccoli, che potevano a stento adattarsi alla
testa di un gatto, stando a Las Casas. erano l'ornamento centrale di una cintura di cotone, che
doveva essere situata all'altezza del petto o dell'ombelico, parte del corpo importante per i taino,
oppure come diademi situati sulla fronte. tutto lascia pensare che esse fossero destinate ad un uso
pubblico. possono anche, per un altro verso, ritrovarsi somiglianze con le maschere mortuarie
tipiche dell'America centrale, ma questa assimilazione non trova riscontro nei ritrovamenti
archeologici. pertanto, nella loro interpretazione las guisas avrebbero potuto rappresentare quelle
vere facce del vivente che sono sempre presenti, occultate da uno strato di carne e che vengono allo
scoperto solo nella fase liminale della decomposizione. ovviamente, è solo un'ipotesi fra le tante. Le
guizas, anche se hanno delle caratteristiche comuni, ciascuno è un pezzo unico, intimamente
connesso con la persona che la possiede e con le funzioni che è chiamata ad esercitare. ad es.
indossare una guiza con gli occhi lacrimanti attribuiva al possessore il potere speciale di interagire
con le forze che controllavano le piogge, di vitale importanza per quelle popolazioni sedentarie. La
guiza, la sua proprietà peculiare, consisteva nel fatto che anche se donata avrebbe sempre
continuato ad avere un legame con il suo possessore iniziale. per tanto, la scelta di donare a
Colombo delle guizas non era casuale. quasi al termine del primo viaggio il genovese riceve una
maschera dopo la scaramuccia nel golfo de las flechas, dove gli isolani prima scambiano
pacificamente con gli spagnoli e poi improvvisamente li attaccano. la reazione è energica e quelli
che Colombo sospetta essere dei carib si danno alla fuga. è il primo scontro militare tra gli spagnoli
e i nativi di cui abbiamo notizia. il giorno successivo non ci saranno altre manifestazioni di ostilità,
ma ci sarà un ulteriore scambio di doni con il cacicco. Colombo, prossimo al ritorno, porterà alcuni
indiani con se in Spagna, convinto che, una volta appreso il castigliano, questi gli potranno fornire
tutte le informazioni per raggiungere l'oro nel secondo viaggio, che ha già in progetto di fare. è
all'inizio del secondo viaggio che Colombo riceve in dono una guaiza, da quello stesso cacicco da
cui era iniziata la serie. ma sta volta le circostanze sono diverse: Colombo non era più il superstite
di una naufragio con scarse risorse, ma il comandante di una flotta di 17 navi con almeno 1500
uomini di equipaggio, provvisto di tutto quanto fosse necessario ad una colonizzazione duratura. c'è
poi l'antefatto drammatico: approdato a Hispaniola nel novembre del 1493 scopre che l'avamposto
della Nadividad è stato completamente distrutto e i suoi abitanti uccisi: nessuno degli abitanti viene
ritrovato nel fortino, ma i corpi sono sparpagliati anche in zone molto distanti. In un resoconto
molto dettagliato apprendiamo che l'incontro tra l'ammiraglio è il cacicco, è preceduto dal dono di
una maschera. Forse per far credere di non avere niente a che fare con l'attacco sferrato agli
spagnoli. Colombo ricambia i doni, ma vuole sentire cos'è successo dal cacicco. quando i due si
incontrano, guacaganarì si fa trovare giacente nel letto per i postumi di una ferita infertagli nel corso
di una battaglia durante la quale avrebbe cercato di difendere gli spagnoli dagli attacchi degli
uomini di Caonabo, signore di Maguana. la responsabilità, però, veniva fatta ricadere sugli spagnoli
che dapprima iniziarono a combattere tra loro e dopo sconfinarono nelle terre di caonabo, abusando
degli abitanti della zona. Colombo sembrò prendere per buona ciò che il cacicco gli aveva
raccontato. nonostante ci fosse una fazione tra gli spagnoli che premeva per una punizione del
cacicco, Colombo cercò di continuare a mantenersi un alleato onde evitare conflitti improvvisi con i
taino, non più così pacifici.
Neppure in questa disgraziata colonia, nella quale si sta per consumare un genocidio, l'egemonia
spagnola potrà considerarsi come il prodotto di un dominio imposto con la sola forza delle armi. I
sistemi di scambio indigeni rappresentano per gli spagnoli una risorsa strategica alternativa di cui
avvalersi ogni qual volta se ne presenti l'occasione. La cattura di Caonabo, con la quale gli spagnoli
cercheranno di troncare qualsiasi resistenza, è esemplare. Caonabo appartiene alla categoria dei re
stranieri che la mito-prassi colloca al vertice del potere politico e spirituale: è uno dei pochi che al
tempo dell'arrivo degli spagnoli possa fregiarsi del titolo di matunherì che dovrebbe significare
cacicco principale o maggiore. Quando le ostilità sono già cominciate, Colombo invia presso
Caonabo degli emissari per avviare delle trattative, ma lo scopo vero della missione è conquistare la
sua fiducia e catturarlo. È Alonso Hojeda, uno dei luogotenenti dell'ammiraglio a escogitare il
piano: presenta a Caonabo un dono speciale, ossia dei ceppi e delle catene di ferro che sono stati
lucidati fino a renderli splendenti. Gli spagnoli sanno che i taino hanno una passione particolare per
i metalli lucenti. Al cacicco viene detto che si tratta di gioielli inestimabili, indossati
dall'equivalente spagnolo del matunherì. ma gli oggetti preziosi sono anche pericolosi, per cui si
consiglia al cacicco un solitario bagno purificatore prima di prendere possesso del dono. La
precauzione è assolutamente in accordo con le credenze locali, che prevedevano una serie di
pratiche rituali prima di entrare in contatto con certe sostanze. Il dono accettato da Caonabo dovrà
vincolarlo: una volta imprigionato, il cacicco sarà condotto al cospetto di Colombo che cercherà di
strappargli informazioni sull'oro. Non ottenendo, però, nulla decide di mandarlo in Spagna come
trofeo di guerra; ma non ci arriverà mai a causa di una tempesta che Las Casas riterrà segno di una
divina provvidenza. Scoppierà così una ribellione e saranno i fratelli di Caonabo a guidarla. Gli
spagnoli avevano sottovalutato la potenziale alleanza tra i loro avversari così come anche le
capacità di resistenza degli isolani, che non esitavano a bruciare i propri depositi di cibo pur di non
permettere ai colonizzatori di cibarsene. La carestia iniziò a mietere vittime da entrambe le parti.
Gli spagnoli iniziano ad inventarsi, in questo clima di guerra civile, forsennati sistemi di
sfruttamento dei suoli e di uso schiavistico della manodopera. Si creano le premesse per uno dei più
tragici declini demografici della storia, fino all'estinzione della popolazione originaria, per
rimediare alla quale iniziano le importazioni da altre isole caraibiche e di schiavi neri dall'Africa.
Un sistema di tributi che gli spagnoli metteranno in atto sull'isola di Hispaniola verso la fine del 400
imponeva a tutti gli isolani di età superiore a 14 anni di versare ogni 3 mesi una quantità di oro e
l'unità di misura del prelievo era costituita da un campanello di ottone che doveva essere
riconsegnato pieno di polvere d'oro. Pene severe erano previste per gli inadempienti.
"Doni andati storti" è l'espressione di Nathalie Davis usata come titolo di un paragrafo del suo libro,
per riferirsi a quelle pratiche oblative che in Europa come nelle colonie sortiscono effetti perversi,
dove l'antagonismo prende il posto della cooperazione e i legami comunitari si disgregano. Siamo
nel sec. successivo, in un contesto più nordamericano che sudamericano, con i Francesi e gli
Spagnoli come rappresentanti della civiltà europea: i doni continuano ad andare storti. Ma erano
storti fin dall'inizio, erano nati storti?.. Per l'ammiraglio, la responsabilità del corso catastrofico
della colonizzazione di Hispaniola ricadeva sull'avidità irrefrenabile degli hidalgos che si erano
rovesciati sull'isola come un'orda famelica, nell'illusione di potersi arricchire subito. È probabile che
anche per Las Casas le cose stessero in questo modo. Nella concezione visionaria sia di Las Casas
che di Colombo, la scoperta dell'America era stata un dono di Dio a chi aveva creduto in una terra
promessa. A sua volta, l'ammiraglio aveva trasferito il dono ai cattolicissimi re di Spagna, sui quali
pendeva l'obbligo di rendere il dono ricevuto evangelizzando queste terre.
È il profitto economico che si cerca, a rendere possibile una paradossale conversione dei nativi che
dovranno perdere tutto, per ricevere tutto in quanto solo nella schiavitù conosceranno quella libertà
che la vera fede offre. In termini meno metafisici, è vero che i missionari si troveranno a chiedere
fondi per l'educazione religiosa degli indiani a quei comenderos le cui ricchezze erano prodotte
dallo sfruttamento selvaggio del lavoro dei nativi. il regime discorsivo frutto della combinazione di
istanze spirituali e materiali dovette godere di un grado di consenso significativo. È anche vero,
però, che questo regime non colonizza tutto l'orizzonte del pensabile e del dicibile. le critiche di Las
Casas sono le prove di quanto questo tentativo di mettere insieme la ricerca del profitto con la
diffusione della fede potesse apparire contestabile ad alcuni contemporanei: un connubio perverso
dove ciò che si guadagna su un versante, lo si perde sull'altro.
Gli scritti di Las Casas contribuirono a diffondere la cosiddetta leyenda negra, che fa
dell'espansione spagnola nel nuovo mondo il modello di un colonialismo massacratore, dal quale
l'Inghilterra, la Francia, l'Olanda e le altre forze impegnate in imprese coloniali dal XVI sec.
pretenderanno sempre di volersi differenziare. Dall'America, l'Europa del Rinascimento non
avrebbe tratto solo profitti rapidi, ma ne avrebbe anche derivato la cognizione di una propria
indiscussa superiorità culturale. Questo etnocentrismo è reso possibile dall'inattitudine degli
spagnoli a pensare alle nozioni di valore in termini che non fossero astrattamente universali o
dall'incapacità di comprendere il comportamento degli indiani all'interno di questa universalità. Ma
possiamo constatare come le perline di vetro agli occhi degli indiani fossero un tesoro altrettanto
prezioso quanto l'oro, la nozione di valore che vige presso di loro è legata all'aspetto simbolico della
cosa e non al valore materiale. Gli indiani si comportavano come il resto del mondo: avevano l'oro,
ma non avevano le perline di vetro. pertanto credevano che una collana di perline di vetro valesse di
più di una collana d'oro. Allora, se i nativi non erano stati degli stupidi, neppure gli spagnoli erano
stati degli approfittatori. stesso ragionamento si è fatto per la nozione di utilità che entra nella nostra
determinazione di ciò che può avere valore. Ad es. gli oggetto donati loro dagli spagnoli, venivano
usati con nuove funzionalità: le spille venivano utilizzate come ami da pesca, per pulirsi i denti.
Oltre alla riutilizzazione, altri oggetti venivano defunzionalizzati: i coltelli non erano usati come
strumenti di taglio, ma di ornamento. Las Casas, che sapeva dell'uso dei campanellini di legno con
dentro una pietrolina, che i nativi erano soliti utilizzare durante danze e canti, cercò di spiegare che
probabilmente il suono dei campanellini di ottone, che era più forte, li allettava maggiormente tanto
da preferirli. L'effetto acustico, in questo caso, determina il valore di quegli oggetti per i Taino.
Mentre gli spagnoli erano attratti dall'oro, i nativi lo usavano come oggetto ornamentale e per tanto
non gli attribuivano un egual valore. Ad es., all'oro puro preferivano il cosiddetto guanìn: una lega
di rame, oro e argento. le ragioni sono varie: sono localmente apprezzati perché la combinazione
dell'oro con il rame conferisce un colore rossiccio e una brillantezza all'oggetto, paragonabile solo a
quella del sole. Il giallo è possibile pensare che richiamasse il principio maschile, mentre il rosso
quello femminile. Il guanìn, infatti, non è una produzione locale nell'isola Hispaniola, dove di rame
ce n'è poco e non sono conosciute le tecniche della fonditura, ma rappresenta un bene
d'importazione dalle Piccole Antille o forse dalle coste del Venezuela. È possibile desumere che
abbastanza presto gli oggetti di ottone degli spagnoli siano stati assimilati dagli abitanti di
Hispaniola alla categoria dei materiali guanìn.
La ricchezza delle Americhe per molti di essi costituiva l'opportunità per elevare il proprio status
sociale. Ma per questo bisognerà attendere l'espansione sul continente.
Il problema del dono stava nel fatto di chiedersi che ruolo potesse avere in una situazione che in
realtà era coloniale fin dall'inizio. Nonostante gli esiti disastrosi, Las Casas, infine, invita a non
rinunciare ad immaginare un futuro diverso, a concedere agli istituti del dono un'altra possibilità.
Fil. Sociale. Hobbes

L'origine semantica del concetto di Filosofia sociale la dobbiamo ad Hobbes, mentre il suo
significato concettuale a Rousseau. Hobbes nella sua opera, Leviatano (1651), usa l'espressione
"Social Phylosophy". Per capire a cosa si riferisce bisogna tenere conto delle guerre di religione,
che imperversavano in Europa dal 1618 al 1648, fino alla pace di Vespalia (fine della guerra dei
30'anni). Elemento essenziale della filosofia sociale e politica di Hobbes. L'altro elemento da
considerare è la concezione dell'uomo che egli ha: sviluppa un'antropologia negativa per cui l'uomo
è lupo per l'altro uomo. questi due elementi sono all'origine della sua fil. sociale. L'uomo si trova
sempre in questa condizione di guerra latente, o implicita, dell'uomo contro l'uomo. L'emozione che
l'uomo prova nello stato di natura è la paura della morte violenta. La soluzione per uscire da tale
stato è quella di alienare la propria libertà e darla al proprio stato. Perché lo stato in cambio
protegge dalla morte violenta. Il suddito da il proprio consenso al contratto sociale che, in cambio
dell'alienazione della libertà, avrà protezione attraverso lo stato.
Il contratto sociale nasce dalla consapevolezza che gli uomini da soli non sanno convivere senza
distruggersi. Per tanto, il contratto prevede l'alienazione della propria libertà nello stato assoluto,
che ci da sicurezza. L'idea di stato di Hobbes è uno stato che evoca tutti i poteri. È uno stato rispetto
al quale i sudditi devono obbedienza assoluta. Questo stato Hobbes lo chiama Leviatan. I conflitti
presenti nella società del suo tempo non erano conflitti che analizzava in sé. Da essi doveva uscire
un mondo: servivano a far comprendere la necessità di uno stato, con una autorità assoluta, in grado
di sedare i conflitti. La paura porterebbe all'istituzione di uno stato e la fil. sociale serve a
giustificare la permanenza dello stato assoluto.

Vico

Gian Battista Vico pubblica la sua opera, La scienza nuova, nel 1725. Il confronto con Hobbes è
possibile, in quanto Vico conosceva bene ciò che Hobbes aveva scritto e non poté fare a meno di
confrontarsi con il suo pensiero. La paura è un movente che conduce alla contrattazione del
contratto sociale. Delle zone di stato di natura ci sono sempre all'interno di una convivenza civile.
Lo stato di natura è sempre presente: a volte latente, a volte più esplicito. Dentro di noi c'è
un'aggressività che se non educata può sfociare in violenza. La paura diventa un movente che
costringe a stipulare lo stato: è l'individuo ad accettare la presenza di uno stato assoluto. La
domanda che si pone Vico è la seguente:
- Questa paura è idonea a produrre un cambiamento nel senso di una pacificazione di ogni tipo di
relazione? Ma le società non dovrebbero solo arginare l'aggressività, ma trasformarla in una forza
costruttiva.
Il pensiero di Vico nasce in antitesi al pensiero di Hobbes: per lui, infatti, dalla paura non può
scaturire una forma di socializzazione umana. Egli parla di timore, che secondo lui è un'esperienza
appropriata per realizzare quello che chiama l principio della humanitas, ossia il fatto che debba
esserci una mente a guidare e nostre pulsioni. La filosofia Kantiana separa le ragioni dalle emozioni
e le trasvaluta: perché le emozioni sono come sabbia rispetto alla razionalità. In Vico non è così,
perché secondo lui le emozioni possono aiutare a sentire meglio le esperienze e, inoltre, hanno la
capacità epistemica di conoscere l'oggetto di nostro interesse. Vico, allora, non segue la strada
tracciata da Hobbes, che fa della paura un'emozione negativa. La paura è estrinseca (viene da fuori,
dall'altro), mentre il timore è intrinseco, viene da dentro, è un'auto-disciplina che gli uomini si
danno per evitare di confliggere. Per Vico il vincolo esiste e per averne cura è necessaria un'auto-
disciplina come il timore. Esso nasce dal positivo, dalla percezione che una humanitas, una
cooperazione, sia possibile tra gli uomini. mentre la paura nasce da sentimenti negativi. La vita in
società non può derivare da una pulsione negativa come la paura, ma tale regolazione deve derivare
dall'assunzione di queste pulsioni all'interno di un'energia più ampia. Una humanitas più alta che
permette di auto-disciplinarsi, affinché la vita in società sia possibile.
Nel 1979 Hans Jonas pubblica il principio di responsabilità. in questo libro la paura ha un posto
importante. L'etica lascia una dimensione che si è costituita nel tempo, troppo antropocentrica.
Bisogna allargare la riflessione filosofica anche alla biosfera, antropocene, e all'impatto che le
attività umane hanno sul pianeta. La nostra era è la prima ad essere caratterizzata da un forte
impatto delle attività umane sulla terra. Jonas definisce il nostro pianeta come un pianeta ammalato
e ciò comporta la sua distruzione e il rischio della nostra sopravvivenza. Tutto quanto gli è
funzionale per la sua proposta del principio di responsabilità. Egli parla di rischio globale,
rappresentato da questa società tecnologica e iniziato con la prima rivoluzione industriale (anche se
è con la seconda che la società tecnologica prende avvio, nel XX sec.) e che suscita paura: non solo
per noi contemporanei, ma anche per le generazioni future.

Rousseau

Come accennato in precedenza, ad aver dato il significato concettuale alla filosofia sociale è stato
Rousseau (1712-1778). Egli ha trovato il significato più proprio di questa disciplina. Nasce a
Ginevra e vive in Francia. È il padre fondatore della disciplina. Guarda alla società francese,
mettendo in evidenza gli sviluppi distorti che hanno portato a forme alienazione. Anche se lui non
usa la parola alienazione, la troviamo come problema sociale. Mentre a Hobbes interessava mettere
a riparo lo stato assoluto, a Rosseau, nel 18 sec. era interessato a capire l'origine di certi
comportamenti sociali, di certe degenerazioni insite nella società francese. C'era una nuova forma di
economia, il capitalismo, che iniziava a farsi strada.
Già nel 1516, nell'Utopia di Thomas More, vi erano delle critiche al primo industrialismo. Aveva
osservato le recinzioni delle terre, fatte per far pascolare le pecore per l'inizio delle industrie tessili.
Egli si accorgeva si accorgeva di come il concetto di proprietà esclusiva stesse portando a
privatizzare beni comuni. Come ad es. oggi, l'energia che è nelle mani delle multinazionali,
nonostante sia un bene comune. Il paradosso è queste centrali usano un bene comune, come l'acqua,
ma non lo pagano, lo inquinano solamente.
La differenza tra Hobbes e Rosseau è H. si muove dai disastri della guerra dei trent'anni, mentre
tutt'altro scenario è quello di Rousseau: una società capitalistica, nella quale la borghesia non aveva
ancora il potere politico, ma che aveva posto le basi per una società commerciale diffusa a livello
globale. Una borghesia pronta a rovesciare i regimi assolutistici e a dar vita a nuove istituzioni. La
modernizzazione capitalistica aveva portato a profondi cambiamenti e R. si accorse di come la
concorrenza fosse diventata un fenomeno consistente: si diffondevano nuovi comportamenti,
simulazioni, inganno, invidia. Si chiedeva se ci fosse ancora la possibilità di condurre una vita
buona. Il filosofo sociale osserva il territorio del suo tempo e si chiede se è possibile condurre una
vita buona. In cima a ciò ci sta la critica che R. muove nei confronti della civilizzazione. Lo
sviluppo di quest'ultima aveva raffinato la necessità dei bisogni, ma ciò aveva fatto aumentare la
concorrenza e l'insoddisfazione perenne: più bisogni si potevano soddisfare, più non si era mai
pienamente contenti. una dipendenza da bisogni sempre più artificiale che guasta l'individualità
dell'uomo. Sul piano collettivo il capitalismo porta alla specificazione dei ruoli, aumentano i vizi
individuali e collettivi della borghesia: lo sviluppo della civilizzazione viene interpretato come una
decadenza. Nel 1755, R. partecipa a un concorso indetto dall'accademia di Digione. La domanda del
concorso era: "se il rinascimento delle arti e delle scienze avesse contribuito al miglioramento dei
costumi". R., in questo primo discorso parla della civilizzazione come uno sviluppo che porta alla
decadenza. Quello che resta opaco sono le forme ideali alle quali riferirsi per poter leggere il
presente in senso di declino. Il bisogno è fisiologico, ma R. critica i bisogni artificiali, ossia ciò che
la società del consumo ci porta a credere sia indispensabile, ma che in realtà non lo è (ad es. un
numero elevato di auto per solo due persone). Il desiderio è come se avesse un altro incipit: come la
creatività, le esperienze artistiche, amorose, ossia un ghe-fallen, un cadere dall'alto, un piacere
inaspettato. Le esperienze che muovono dal desiderio non manifestano una mancanza negativa,
come quelle che muovono dal bisogno, ma una positiva.
Il metro di misura per definire la condizione attuale come una perdita lo ritroviamo nel secondo
discorso di Rousseau. Già nel primo discorso aveva proposto un modello ideale come quello della
polis greca. Si accorse che, per proporre una teoria critica, doveva avere in testa una forma ideale
per dire che quella attuale fosse una società decadente. Si rese conto, poi, che la polis greca fosse
troppo lontana nel tempo per costituire un modello ancora possibile e inizia a non pensare più a
forme ideali, ma costruisce una teoria che fa riferimento alla natura umana: il criterio valutativo sarà
l'uomo naturale. Le condizioni ideali per la realizzazione dell'uomo sono nello stato di natura, nelle
condizioni originarie che gli uomini hanno abbandonato per entrare in un contratto sociale.
"Le cause dell'origine della disuguaglianza" era il secondo quesito dell'accademia di Digione.
Rousseau, nel discorso sulla diseguaglianza, contestualizza ciò nella trasformazione della sociatà in
moderna: rivoluzione scientifica ed economica. L'architettura di questo discorso presenta due parti:
- la prima dedicata a chiarire lo stato di natura dell'uomo;
- la seconda punta l'attenzione sugli sviluppi distorti della civilizzazione: ingiustizia sociale,
disuguaglianza.
Nello stato naturale l'uomo viveva secondo due istinti naturali:
-l'autoconservazione;
-la capacità di provare compassione.
La prima, l'autoconservazione, l'amore per sé, è una forza primaria senza la quale l'uomo non riesce
a sopravvivere. La seconda è la compassione e Rousseau designa con ciò l'empatia che l'uomo
prova nel vedere un uomo, simile a lui, soffrire.
nel secondo discorso, da un lato descrive in cosa consiste questa civilizzazione e dall'altro dice che
per superare ciò bisogna ritornare allo stato di natura (1775). Come interagiscono dentro di noi
compassione e autoconservazione? Secondo R. sono l'uno l'accordo dell'altro, perché la lotta di
sopravvivenza nello stato di natura, spinta dall'autoconservazione, viene mitigata dalla compassione
per colui che ci sta accanto; dall'altro lato, però, il sentimento di compassione non deve soffocare
l'autoconservazione, altrimenti l'uomo naturale perderebbe sia la spinta all'autoconservazione che la
spinta riproduttiva, cioè la prole. L'autoconservazione limita se stessa difronte alla sofferenza
dell'altro, ma anche la compassione deve limitarsi perché sennò rischia di soffocare
l'autoconservazione dell'uomo e al spinta riproduttiva. L'uomo prima di ogni civilizzazione ha
vissuto in se stesso. Nello stato di natura gli uomini vanno dietro solo a bisogni naturali, senza dar
conto alle aspettative di coloro che li circondano. La relazione primaria per R. non è dialogica, con
la madre e poi con gli altri. Nello stato di natura la relazione è monologica, ossia con se stessi. Qui
si manifesta l'aspetto valutativo della sua teoria: la rottura della capacità di vivere in se stessi,
l'estraniazione da sé e la civilizzazione. La rottura della vita in se stessi tramonta già in ambito
familiare, poi con i legami con il nostro gruppo sociale più ristretto, etc.
La nascita di queste prime forme di comunità portano allo stato di natura. L'uomo comincia a
rivolgere l'attenzione presso l'altro. Le aspettative verso gli altri si tramutano in ansia, nell'ansia di
non essere all'altezza degli altri che porta a mentire, a promettere più di quanto si possa dare.
L'ansia si trasforma nell'inquietudine di fare brutta figura. la ricerca del prestigio sociale porta a
simulare talenti che, magari, non si hanno proprio per ricevere riconoscimento sociale. Nel contesto
del 18'esimo sec. ogni uomo e donna sono portatori di una domanda di riconoscimento.
questa domanda positiva di riconoscimento può subire tante trasformazioni e diventare non più
desiderio, ma bisogno narcisistico; allora, l'altro diventa uno strumento per soddisfare il proprio
bisogno di riconoscimento. La domanda, in questo caso, diventa oppressiva. Tutto ciò porta,
secondo R., alla civilizzazione caratterizzata da una lotta per il prestigio: il bisogno di schiavizzare
gli altri per far crescere se stessi. un altro elemento della disuguaglianza è caratterizzato dalla
proprietà privata: il bisogno di aumentarle sempre di più. R. si interroga su questo passaggio:
l'uomo borghese perde la sua autonomia, la sua indipendenza, ma anche la sua compassione. La
critica alla socializzazione si caratterizza in questo modo. Il selvaggio, l'uomo naturale, vive in se
stesso; l'uomo civilizzato, l'uomo borghese, vive all'infuori di se, non sa vivere che nell'opinione
altrui. Il borghese costituisce la propria identità a partire da ciò che gli altri pensano di lui. Questa
condizione di estraniazione rappresenta un limite. Ad interessarci non è tanto la sua analisi critica,
quanto il doppio debito che abbiamo nei suoi confronti: il modo di produrre la domanda. La ragione
di R. è nutrita dal cuore e non come quella delle tradizioni, che doveva essere depurata dalle
emozioni.
Doppio riconoscimento perché:
-ci ha insegnato a porci la domanda giusta: gli sviluppi di una società favoriscono la nostra
realizzazione?
-Ci da un metodo con il quale confrontarci criticamente: quali sono i criteri etici per valutare le
forma di vita di una determinata società e comprendere se si tratta di forme che danno la possibilità
all'uomo di fiorire.
Le forme individuate da R. sono la compassione e l'autoconservazione, che nella società moderna si
presentano in maniera negativa a causa dello sviluppo del capitalismo, dell'ambito scientifico, etc.
Introduzione

Cosa significa donare?

L'introduzione di questo libro inizia con un racconto di Coetzee, che narra la storia di Paul
Ryament, che viene investito da un'auto che freccia a tutta velocità per le vie di Adelaide.
L'incidente è grave e gli devono amputare la gamba. Verrà curato dall'infermiera Marijana, la quale
gli ridà l'energia e la forza di rinascere. Ella ha fatto molto di più del suo dovere, un di più che l'ha
guarito. Le parole di Levi-Strauss ritornano: nel dono c'è molto di più che non le cose scambiate.
Quel di più sono i protagonisti della storia e l'universo affettivo-relazionale che entra in gioco nel
dono e che contagia anche gli altri. L'incontro con l'infermiera nasce da uno sfinimento che si
trasforma in domanda, da un'attesa che diventa affidamento. Paul vuole ripagare la donna per il
dono ricevuto e non esita un attimo: Drago, il primogenito della donna, vuole iscriversi ad un
college troppo costoso e, così, Paul chiede ai genitori del ragazzo di accettare il suo dono, senza
condizioni. L'esperienza del dono, oltre ad istituire o rafforzare il legame, genera il desiderio di
donare a propria volta, producendo una relazione di reciprocità positiva. Quel legame è diventato
responsabilità. Mentre la relazione contrattuale si conclude con il pagamento di ciò che è stato
acquistato, il dono è diffuso, vive di rilanci, genera una catena di nuovi doni, come la bicicletta
reclinata che Drago sta costruendo per Paul.
Il dono di Paul è un dono di risposta, che ci porta a riflettere sull'esperienza che l'ha reso possibile.
Cosa spinge la donna a mettere di più nel suo lavoro? Come ci dice Mark Amspach: difficilmente si
diventa una persona generosa da soli, la generosità è una cosa che si impara. L'infermiera è così
perché è amata. Come osserva Melanie Klein, già nei primi mesi di vita proviamo gratificazione
quando i nostri bisogni corporei vengono soddisfatti. Questo amore verso la persona che ci sostiene
potrà crescere nella misura in cui lei resterà presso di noi, continuando a donarci cibo, attenzione e
consolazione: questo dono insostituibile è la sorgente della gratitudine del bambino.
Se è dalla gratitudine che scaturisce l'offerta generosa del primo donatore, è dal permanere
nell'orizzonte della gratitudine che nasce quel restituire che non è un ripagare. È nella teoria del
dono di Paul Ricoer che troviamo il motivo della centralità della gratitudine, quale forza ispiratrice
del dono. L'etica della gratitudine permette di tenere separati i due momenti del donare-ricevere e
del ricevere-ricambiare, proteggendo l'offerta del donatore dalle possibili logiche acquisitive. Il
regime di gratitudine alimenta anche il restituire del donatario, liberandolo dalla logica del ripagare
e spingendolo verso un dare generoso che costituisce un nuovo dono: un dono di risposta che
rilancia la relazione. Si crea un flusso dove la generosità dell'uno nutre quella dell'altro, in un libero
interscambio di movimenti che rinsaldano il dono.
La forza normativa del dono viene messa in luce da Marcel Hénaff, un saggio dedicato al dono
cerimoniale. egli distingue 3 figure di dono: cerimoniale, gratuito e solidale, per poi concentrarsi sul
primo. Si tratta di regali e di feste che i capi clan offrono s turno nelle società tradizionali. Secondo
il filosofo francese, a distinguere questo tipo di dono dagli altri due è l'obbligo di reciprocità, di
restituire a tempo debito. Si tratta di procedure pubbliche, che coinvolgono le intere comunità,
anche se gli scambi avvengono attraverso i rappresentanti di queste tribù. L'obiettivo è quello di
instaurare o rafforzare alleanze. Procedure pubbliche di riconoscimento tra gruppi: la cosa donata
diventa il simbolo di questo patto. Secondo Henaff queste società ci hanno trasmesso l'importanza
di questo tipo di riconoscimento che poi è stato incorporato dalla progressiva scoperta dei diritti.
Nel momento in cui queste società si sono dotate di una polis hanno delegato alle istituzioni
politiche la tutela dei diritti. In queste società il riconoscimento pubblico è assicurato
dall'ordinamento giuridico. Si è realizzata la trasformazione della reciprocità agonistica in
mutualità contrattuale per cui ciascuno si accorda con l'altro davanti ad una istanza terza.
Che cosa significa ricambiare? si chiede Anspach. L'incipit è lo scambio di doni in occasioni di
festività natalizie. Quando diamo qualcosa a qualcuno, quel dare è un dono solo se esprime un gesto
gratuito. L'idea di scambiare doni però fa pensare che la corresponsione sia implicata nel primo
dono. Ma così non esiste il pericolo che la transazione si trasformi in mercanteggiare? Anspach
difende la tradizione natalizia dal sospetto di essere una variante sublimata dello scambio
economico, estrapolando dal suo ricco bagaglio di letture il racconto natalizio di un incredibile
scambio di doni. È la storia di Della e Jim, i quali, attraverso uno scambio sfortunato, realizzano la
più grande fortuna che possa capitare ad una coppia: la conferma del reciproco affetto e la crescita
del loro legame. Per comprendere uno scambio di doni non basta guardare ai regali, componente
materiale, ma è necessario riflettere sul contenuto di senso che si istituisce tra donatore e donatario,
componente simbolica. Nella nostra direzione, il dono è una relazione tra persone che si stabilisce
attraverso la cosa donata, che interviene come mezzo simbolico. Facendo crescere la relazione poi il
dono fa fiorire anche i protagonisti, realizzando ciò che Godbout ha chiamato valore di legame. In
effetti il dono introduce nelle relazioni umane l'esperienza di legami che, privi di valore d'uso e
valore di scambio, sono in grado di avviare dinamiche di reciproco riconoscimento. Anspach resta
piuttosto nel solco tracciato da Mauss e ripreso dai fondatori del Movimento Anti-utilitarista nelle
scienze sociali (Mauss). Indicare l'importanza delle prestazioni non utilitaristiche non significa
sostenere la gratuità pura, poiché per Mauss il dono non è una prestazione senza ritorno: chi dona si
aspetta un contro-dono, attesa che è interna alla stessa struttura del donare. Le pratiche di dono da
lui esaminate prevedono sempre un dispositivo di obbligazioni. A Mauss dobbiamo la prima
elaborazione epistemologica del dono. Egli, attraverso un'indagine comparativa, individua una
costante antropologica nello scambio-dono. Il dono di ritorno differisce dalle pratiche mercantili per
la sua libertà. La libertà di donare è libertà per il legame e non dal legame, come accade nel
commercio. Il dono fa nascere una relazione, il pagamento di una merce uccide la relazione sul
nascere. IL saggio fa nascere una concezione del dono che, ponendolo tra libertà e obbligatorietà,
tra materiale e simbolico, ne fa una specie di ibrido.
Nelle società esotiche a cui guarda Mauss, il dono va a segno quando l'offerta del donatore non solo
è stata accolta, (secondo momento, ricevere) ma soprattutto trova riscontro nel dono compensatorio
(terzo momento, ricambiare). Fin dal primo momento (donare), l'iniziativa del donatore è fatta non
tanto per l'altro, quanto in vista di un ritorno: l'accettazione di sé e del proprio gruppo all'interno del
sistema di alleanze sociali. Non ricambiare significherebbe minare la relazione con il pericolo di
essere esclusi. Riguardo il terzo momento, Mauss si rifà al celebre caso dello Hau, lo spirito della
cosa donata, che vige presso i Maori della Nuova Zelanda: esiste una forza speciale che spinge colui
che riceve a ridonare a sua volta. La cosa donata possiede un'anima che la tiene legata al suo
precedente possessore. In quell'anima risiede la forza che permette alla cosa donata di ritornare dal
suo proprietario in forma originaria o equivalente. Attraverso la cosa donata si dona qualcosa di sé.
Lo spirito del dono va ricercato nell'intesa che si stabilisce tra donatore e donatario. Con Mauss e
Anspach, il paradosso dello scambio di doni viene chiarito con il ricorso allo hau, che vigila
sull'obbligo di rendere. Questo paradosso trova un'altra soluzione nella narrazione di Coetzee.
Possiamo sviluppare una teoria del ricambiare che non è presupposta all'interno del primo dono. La
risposta di Paul non è prevista dalle cure di Marijana, che rappresenta un dare senza contare. È
proprio la gratuità del dare ad essere all'origine della gratuità del ricevere. Per cui, Paul non solo
ricambia, ma da molto più di quanto riceve. M. non si aspetta nulla, ma una donna come lei, che ha
dovuto abbandonare il suo paese per andare alla ricerca di lavoro, è una donna che attende qualcosa
di migliore e Paul risponde a questo suo appello di speranza. La reciprocità che prende forma qui si
adopera per sostenere e promuovere la relazione. È possibile integrare le analisi precedenti volte a
sottolineare, con Ricouer, l'importanza di gratuità e gratitudine come momenti fondamentali per un
ricambiare in grado non solo di uscire dal recinto del sé, ma anche di eleggere l'altro come proprio
fine. Sarà proprio la gratuità dell'uno, unita alla capacità di ricevere dell'altro, a provocare il dono di
risposta e quell'esperienza di gratificazione che transita all'interno di una circolarità reciproca.
Ogni dono implica una forte dose di libertà e questo scioglie il paradosso che insito nello scambio
di doni. Ogni dono infatti per essere gratuito deve qualificarsi come gesto libero. L'agire donativo
tiene in sé due concezioni di libertà: libertà da e libertà di. Nel primo caso, dire che un dono deriva
da un gesto libero significa affermare la libertà da ogni causa determinante (libertà negativa); nel
secondo caso, il dono esprime la libertà di legarsi all'altro (libertà positiva), ossia il desiderio di un
reciproco convenire.
Nel suo studio sulle economie primitive, Sahlins mette a punto una tassonomia delle forme di
reciprocità, di cui prendiamo in considerazione il modello della reciprocità generalizzata, che
presenta una certa aria di familiarità con le dinamiche del dono. questo tipo di reciprocità si riferisce
a transazioni che sono altruistiche, modellate sull'assistenza fornita e, se possibile, ricambiata. Gli
scambi generalizzati dal punto di vista dell'utile risultano una perdita, tanto che gli attori sociali
omettono di tenere il conto del dare e del ricevere e facendo intendere, con questo comportamento,
di privilegiare il legame sociale. Sahlins distingue tre casi: il primo, quello in cui non si tarda a
rendere, può essere una forma di reciprocità vicina a quella che avviene tra Della e Jim, ossia uno
scambio diretto nel quale si offre un dono alla stessa persona dalla quale si è ricevuto un dono (A
dona a B e B dona ad A); nel secondo caso, abbiamo più di due attori, A dona a B, il quale a sua
volta dona a una terza persona C che dovrà poi chiudere il cerchio ridonando ad A (è il caso dello
scambio maori, uno scambio indiretto che prevede tre attori); il terzo caso prevede che la catena di
prestazione potrebbe anche restare aperta, infatti il dono è senza garanzia di ricambio. All'interno
dello scambio generalizzato abbiamo anche i doni trasmessi di generazione in generazione. il
legame che si stabilisce nello scambio generalizzato ha una struttura caratterizzata da apertura e
transitività. In questa costellazione la gratificazione del donatore non resta sospesa: ciascun partner
della relazione si trova nella condizione sia di donatore che donatario, in una chiamata continua alla
cooperazione. Secondo Godbout: i donatori sfuggono al principio dell'alternanza nel tempo per
accedere ad un principio in cui il tempo non interviene più.
Quando il sociologo canadese parla di alternanza nel tempo fa riferimento al principio guida delle
relazioni che praticano l'alternanza delle prestazioni, secondo la regola che prevede di dare e di
rendere puntualmente. In questo stadio relazionale, il legame che si istituisce è prossimo alla
reciprocità equilibrata studiata da Sahlins. questa seconda forma di reciprocità si realizza quando gli
attori sociali, nel dare, controllano quantità e tempistica della contropartita. In questi tipi di scambi
si vigila sull'alternanza del dare e dell'avere, sul ristabilimento dell'equilibrio, pena la disgregazione
dei rapporti. Possiamo pensare agli scambi mercantili, ai contratti.
La tassonomia di Sahlins infine prevede una reciprocità negativa: lo scopo degli scambi è quello di
aumentare quanto più i profitti. Questo tipo di scambi avvia dinamiche di disconoscimento.
Il resoconto del viaggio di Postel ci condurrà nell'universo del dono nell'Islam e all'interno della
sadaqa, ovvero il dono caritatevole.

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