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Il rinascimento dell’LSD.

La scommessa psichedelica
della nostra epoca
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Matteo Saltalamacchia 15 marzo 2021

Evviva! È uscito per Quodlibet La scommessa psichedelica, il potenziale best-seller


sul cosiddetto “rinascimento psichedelico” degli ultimi anni. Il fatto è che da poco è
tornato legale l’uso delle droghe allucinogene in terapie psichiatriche sperimentali e un
po’ alla volta si è riaccesa la curiosità generale. Soprattutto hanno ripreso coraggio i tanti
appassionati di tutte le estrazioni sociali che per cinquant’anni li hanno usati
clandestinamente. Perché gli allucinogeni circolano nella nostra società: la gente
ne fa uso in psicoanalisi clandestine, in cerimonie sciamaniche, in feste, raduni e
soprattutto come droga di strada. E parallelamente, nonostante gli anni di stigma e di
divieti, hanno continuato a parlarne scienziati, filosofi e uomini di cultura e il tema ha
dilagato nell’arte, fino a insinuarsi nel linguaggio colloquiale e nell’estetica popolare.
Il libro dà voce a una cultura sommersa che ha vissuto nell’ombra dei media
underground per quasi mezzo secolo e azzarda una scommessa: superare i limiti – e in
certi casi l’ipocrisia – di un approccio esclusivamente psichiatrico, per mettere in luce le
sfide e le connessioni più ampie della psichedelia. Quattordici autori (scrittori,
giornalisti, politici, critici letterari, raver e memer, tutti appassionati osservatori e
operatori della cultura contemporanea) ci raccontano in altrettanti articoli un pezzettino
di questa storia, si pongono alcune domande e non sono per niente d’accordo sulle
risposte.

Mano a mano che ci si addentra nel libro, si intravedono le stratificazioni della


scommessa psichedelica a seconda dell’ampiezza delle vedute ma anche, più
prosaicamente, del dosaggio delle assunzioni. Una delle novità del rinascimento è infatti
la tendenza a usare dosaggi minimi (microdosing), che non stravolgono lo stato di

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coscienza ordinario con le caratteristiche distorsioni percettive. Al contrario, con una dose
sufficiente il vissuto può svilupparsi in vario modo: dalle semplici visioni geometriche e
cubiste, all’immaginazione cosciente e vivifica di ricordi e fantasie, fino a intuizioni e
cambiamenti dei significati delle cose e a visioni mistiche, con uno sgretolamento delle
categorie dell’intelletto e dei paradossi della ragione.
Anche fra gli articoli che puntano su quell’esperienza più profonda e significativa
che parte dalla distorsione sensoriale ci sono diversi gradi di apertura e di
scommessa, a partire da quella più modesta che punta su un uso individuale per poche
persone, fino a quella massima che punta su una diffusione sempre più ampia, con
ricadute su tutta la società. La puntata minima prevede un utilizzo squisitamente medico
rivolto unicamente a persone con disagi psichici: la mente sana è unicamente quella
conscia e va turbata solo se necessario, il primo rilancio è quello di coloro che
aggiungerebbero alla platea anche persone sane, con scopi di indagine intellettuale o
psicoanalisi, ma sempre sotto supervisione medica (si fermano a questo punto gli articoli
di Ilaria Giannini, Agnese Codignola e Marco Cappato).

Più audaci ancora si dimostrano gli altri autori,


tutti concordi che un’eccessiva medicalizzazione
degli psichedelici ne penalizzerebbe le prospettive
politiche. Sembra infatti che costoro ne abbiano
fatto esperienze positive e significative in ambito
extra-medico, spesso da giovani e che come la
generazione degli anni Sessanta le abbiano
condivise con i propri amici, collegandole alla
fantasia, agli ideali e alla voglia di
cambiare il mondo e non vogliano pensarle
ridotte a «ingegneria clinica». L’articolo di
Francesca Matteoni sull’ayahuasca e la coscienza
ecologica, per esempio, insieme a quelli di Chiara
Baldini e del curatore Federico di Vita sui nuovi
rituali di musica elettronica, reclamano un uso
dionisiaco degli allucinogeni (ricollegandosi a
nobili radici culturali, dai misteri dell’antica
Grecia fino alla sindrome di Stendhal dei
romantici). Come certe frange dei Figli dei fiori,
questi tre autori pongono la loro fiducia nel
singolo individuo e puntano su una rivoluzione interiore che di riflesso dovrebbe
fecondare tutta la società.
Un ulteriore rilancio arriva infine da quelli che – oggi come allora – vorrebbero invece che
l’esperienza psichedelica provocasse piuttosto una presa di coscienza collettiva in
vista di una rivoluzione esteriore: quel rinnovo della società che allora avrebbe
superato la guerra fredda e che oggi sogna, con Mark Fisher, di oltrepassare il realismo
capitalista. Si pongono in questa prospettiva Vanni Santoni, Dal Dosso e Nicolaus,
Camurri e Magini, fino alla puntata più estrema di Andrea Betti e Carlo Mazza Galanti,
che se la prendono con i teorici della rivoluzione psichedelica come pratica

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ad uso elitario, oppure condannata alla manipolazione del narcocapitalismo.
Il cuore del libro batte in fondo su questo antico dilemma: già Hoffmann (lo scopritore
dell’LSD) e Huxley (il profeta delle Porte della Percezione) mettevano in guardia i
divulgatori come Leary, che nel ’62 somministrava acidi ai suoi studenti in università.
Secondo Leary, quando quattro milioni di giovani americani avessero provato l’LSD si
sarebbe innescata un’escatologica rivoluzione. A quanto pare si sbagliava: limitando il
ragionamento a parametri quantitativi-materiali (il dosaggio, la diffusione, ecc.), dava per
scontata e universale la qualità dell’esperienza.

La qualità però non può essere ridotta a parametri


quantitativi-materiali: in un contesto negativo, o
con una predisposizione contraria, è possibile che la
percezione aumentata dei colori dovuta al
microdosing innervosisca e basta, come è possibile
assumere una dose elevata e non capirci
semplicemente nulla, o ancora è possibile che una
dose media ti spedisca per mesi nel magico mondo
dei rettiliani (perché è vero, in rari casi l’LSD può
portare a squilibri mentali). Un conto infatti è
sostenere che ci si debba affidare alla scienza per la
sicurezza medica, un altro è chiedere alla scienza di
dimostrare la bontà di certi atteggiamenti nei
confronti della vita. Se sono i ricercatori stessi a
sottolineare che i risultati benefici sono da ascrivere
all’interpretazione e non alla sostanza, significa che
dietro al dito delle immagini ematoencefaliche della
neurologia non possiamo più nascondere l’enorme
luna dell’inconscio.
Questo vale sia per l’esperienza individuale sia per quella collettiva. Alcuni degli
autori mostrano infatti come già nel vissuto del singolo le questioni significative esondino
dal piano quantitativo-materiale e finiscano nell’universo estetico-qualitativo di
immagini, sensazioni, suggestioni:

«Verso la quarta o quinta faticosissima ora di trip… osservavamo i resti del nostro
accampamento… Credemmo tutti e quattro di riconoscere delle reliquie sacre di un tempo
molto antico. I taralli erano atavici, l’uva spiaccicata era il frutto prezioso di cui si nutrivano
i nostri antenati nel Mediterraneo. E le formiche… creature benedette che compivano il loro
nobile dovere millenario» (Peppe Fiore).

Se fosse stato presente uno scienziato, cosa avrebbe osservato, limitandosi a parametri
quantitativi-materiali? La pressione, la temperatura, la respirazione. Avrebbe potuto
eseguire uno scan encefalico e poi inserire il caso in una statistica sulla base di
questionari, ma non avrebbe potuto notare nulla riguardo ai significati inconsci di questa
visione, né osservare i collegamenti tra questa esperienza e la sua formazione sociale,
psicologica e politica. Non è un mistero ricavato solo dalla ricerca psichedelica che la
scienza occidentale sia molto brava col microscopio, ma si perda quando si tratta di

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guardarsi negli occhi, magari allo specchio.
Anche per le più ampie scommesse sociali, non è possibile inculcare l’esperienza tramite
una somministrazione meccanica secondo parametri meramente quantitativi. Ci avevano
già provato gli antagonisti della rivoluzione culturale degli anni Sessanta, i famigerati
agenti della CIA che provarono a utilizzare l’LSD per il lavaggio del cervello nel progetto
MK-ULTRA. Ma senza risultati: ad accanirsi, la mente può essere distrutta con diversi
processi farmacologici, ma sembra difficile ricostruirla a piacere.
Al contrario, l’esperienza con queste sostanze è un viaggio in quell’universo
estetico che abita ognuno di noi, che non è controllabile come il mondo materiale, e
con cui hanno più dimestichezza i mistici, gli artisti, i pazzi, i veggenti. È il mondo del
significato inconscio delle azioni, dei giudizi, delle associazioni, che coinvolge – sotto alle
certezze dogmatiche della scienza applicata – le sfere più intime della cultura, dove
resistono l’arte e la religione come baluardi della libertà cognitiva. All’interno di questa
linea, i due articoli del libro che si concentrano direttamente sul piano estetico e simbolico
– quello di Edoardo Camurri dal titolo Gnosticismo Acido, e quello di Silvia Dal Dosso e
Noel Nicolaus su LSD e memi di Internet – sono i più significativi e anche i più difficili. I
loro articoli ci mostrano dinamiche che si svolgono tra diverse idee, diverse culture: lo
scontro di simboli e significanti diventa uno scontro magico e alchemico tra forze
estetiche, che si ripercuote sul voto americano come sulle allucinazioni del singolo
individuo.

Autori come Hoffmann e Huxley, più


prudenti dei nostri contemporanei
rinascimentali, e altri ancora come
Jung o Bateson, che hanno lottato
contro il paradigma materialista, ci
avvisano che se davvero è arrivato il
momento di ripensare il nostro
rapporto con l’inconscio e riprendere
confidenza con le parti più profonde
e irrazionali della nostra esperienza,
dovremmo allora concentrarci
sui sogni, la mitologia, l’arte e le
religioni, la bellezza, la natura,
le altre culture, la musica e i
rituali. Questo perché le esperienze
psichedeliche possono diventare un
ottimo ancoraggio per chi ha già una certa propensione e un certo rinforzo sociale, ma
non possono aggiungere nulla in modo meccanicamente e materialisticamente
determinato. L’esperienza ci può anche essere, ma sprechiamo la puntata se la giochiamo
al tavolo del materialismo. Possiamo giocarcela invece al tavolo delle idee, per esempio
proprio nella scelta delle metafore che utilizziamo.

Il rinascimento di tipo divulgativo è galvanizzato dalla metafora dell’esperienza


psichedelica come un computer che si riavvia. Questa metafora materialista è però assai
pericolosa, perché quando riavviamo il computer compiamo un’azione puramente

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meccanica e il computer non deve certo interpretare quello che gli sta succedendo. Ne
propongo quindi una differente: all’Università di Pisa hanno indotto l’esperienza
mistica stimolando i recettori della volta nasale tramite un puff di aria compressa
insufflato con il ritmo lento della respirazione Pranayama. Studiando il sistema nervoso
durante questo stato, hanno osservato come il flusso di informazioni nella corteccia
cerebrale si inverta, andando non da funzioni superiori a funzioni inferiori (come avviene
normalmente nello stato di veglia), ma viceversa (come nel sogno).
Questa inversione può essere efficace per rappresentare il grande dilemma della
scommessa psichedelica. A un tavolo si giocherebbe la partita sul piano materiale, dove gli
psichedelici verrebbero utilizzati per provocare nella società dei cambiamenti prestabiliti
(sia esso il tentativo di costruire il soldato obbediente ma allo stesso modo anche quello di
creare l’ecologista post-liberale), andando così dalle funzioni superiori della coscienza a
quelle inferiori degli istinti. Ma se fosse proprio questa pretesa di utilizzare le parti più
profonde e inconsce della nostra mente per i nostri scopi materiali a costituire l’essenza
della magia nera, quando al contrario la magia bianca è quella che le ascolta, senza
pretendere di utilizzarle?
Al tavolo materialista della macchina algoritmica universale hanno sempre
vinto violenza e totalitarismo. Se guardiamo agli allucinogeni come l’ultima fish da
giocare su quel tavolo (come fanno e come hanno fatto certi interpreti del «comunismo
acido»), che chance potremmo avere? Ma è possibile cambiare tavolo. A quest’altro tavolo
la partita si giocherebbe invece su di un piano estetico-ideale, dove il flusso di
informazioni va dalle funzioni inferiori a quelle superiori: in questo caso, mentre nel
profondo della società si diffondono certi cambiamenti, riusciremo via via sempre più a
integrare e a ritualizzare coscientemente i benefici (anche medici e scientifici) di queste
pratiche.

Chiudo con un ricordo personale di Giulio Giorello, filosofo e matematico libertario


di quelli che preferisco, che uniscono l’amore per il rigore metodologico a quello per le
eresie e i pensieri alternativi. Alla mia tesi di laurea, mentre parlavo dell’uso sperimentale
e terapeutico che la psichiatria del Novecento aveva fatto dell’LSD, citai la nota frase di
William James (già ripresa dagli Alcolisti Anonimi e abusata dal movimento
psichedelico): «L’unico rimedio che conosco contro l’alcolismo è la religiomania».
Giorello si intromise sorridendo: «Sappiamo anche che viceversa l’unico rimedio
conosciuto per certi deliri religiosi è una buona bevuta di vino».
Lontano mille anni luce dal materialismo dogmatico delle chiese accademiche, l’ateismo
metodologico di Giorello insegnava quella spiritualità laica che non lascia spazio a
nessuna scorciatoia soprannaturale e a nessuna rivelazione. Dove spiritualità laica
significa che il nostro rapporto col mondo, col nostro corpo e con la nostra mente, è
irriducibile a qualsiasi verità universale, tanto meno al materialismo che ce le presenta
come cose da utilizzare. E qui sta la differenza tra la laicità bianca di Giorello e il
nichilismo nero della pillola mistica. Giorello citava il vino non tanto per campanilismo
tradizionale, né solo per rovesciare la citazione di James, ma perché il vino è parte di una
cultura libera, disinteressata, passionale, profonda, che non si lascia ridurre e mettere i
piedi in testa dai protocolli medici e dalle cerimonie dei preti e nemmeno dai capi di stato
e dai rivoluzionari. Forse, affinché il rinascimento non si riveli solo un fuoco di paglia (o
diventi addirittura una restaurazione), abbiamo bisogno di una cultura che sappia

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accogliere e integrare la libertà cognitiva, i limiti del pensiero logico, le sue scienze,
le sue manifestazioni rituali, le raccomandazioni degli antenati e le spinte dei
giovanissimi.
Il fatto è che, come il vino e più in generale l’alcool, anche gli psichedelici sono già usati in
riti di passaggio da una piccola percentuale della popolazione occidentale nella fascia di
età dai 15 ai 25 anni. E se dicessimo che l’esperienza psichedelica (come altrimenti
sognare, bere, pregare, fare musica o l’amore) è un po’ come diventar matti, ed è proprio
questo a renderla un’esperienza forte, profonda, che può essere mistica, spaventosa,
divertentissima, creativa, paranoica? Per questo il libro di Quodlibet ha una marcia
in più: oltrepassando gli aspetti puramente medici e storici traccia a grandi linee il ritratto
di una cultura forse ancora acerba, ma finalmente contemporanea.

Immagine di copertina: illustrazione di Rebecca Fritsche

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