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Sociologia Della Famiglia
Università di Pisa
95 pag.
Vivere sotto lo stesso tetto costituisce uno degli indicatori più semplici e ovvi dell’esistenza di una famiglia. Tale
indicatore separa la famiglia dagli altri tipi di rapporto sociale.
Non tutte le persone che vivono sotto lo stesso tetto però possono definirsi e autodefinirsi come famiglie.
L’individuazione della convivenza famigliare, e della famiglia come forma di convivenza, richiede che vengano
chiarite le regole che presiedono sia alla delimitazione dei confini della convivenza famigliare, sia la definizione dei
rapporti tra le diverse persone come rapporti famigliari. Queste regole differiscono nel tempo e nello spazio,
mostrando come la famiglia, il modo di farla e di intenderla, sia un’istituzione storico-culturale, costituita dalle norme
(culturali, sociali e religiose) e dai rapporti sociali e di potere in cui queste sono elaborate e fatte valere.
Esistono una grande varietà di forme famigliari, tanto da spingere gli antropologi alla ricerca di funzioni e
caratteristiche famigliari che fossero insieme essenziali e universali.
Molti antropologi hanno cercato di dimostrare l’universalità della famiglia, definendola come istituzione per la cura e
l’allevamento del piccoli, definita d precisi confini spaziali e relazionali e i cui membri sono legati dà particolari
vincoli affettivi.
Anche molti sociologi hanno parlato di funzioni della famiglia come di dimensioni in qualche misura naturali, o
comunque rinvenibili attraverso il tempo e lo spazio.
Questi tipi di concettualizzazioni sono state largamente criticate dagli stessi antropologi e sociologi che hanno ritenuto
un limite tutte le argomentazioni funzionalistiche. Non è possibile trovare un universalismo nella definizione delle
funzioni e dei limiti della famiglia all’interno delle diverse culture.
Più interessante appare la direzione di ricerca volta a individuare, non le funzioni, ma la struttura della famiglia.
Questo tipo di indagine è sorto in campo demografico e si pone l’obiettivo di rispondere alla domanda <<chi sta nella
famigli, chi vive con chi e secondo quali regole>>. Con struttura della famiglia non si intende il numero dei membri,
ma il tipo di vincolo che lega i membri di una convivenza, che possono essere di consanguineità, di matrimonio, di
discendenza e via dicendo.
La struttura della famiglia quindi, altro non è che il modo in cui le persone che la compongono si collocano lungo i
due assi, verticale ed orizzontale, dei rapporti di sesso e dei rapporti di generazione.
Gli studi del Gruppo di Cambridge ha portato all’elaborazione di una tipologia di strutture famigliari lungo questi due
assi.
Sulla base dell’esistenza o meno di una coppia coniugale e/o generazionale essi distinguono quattro categorie
fondamentali di strutture di convivenza:
Anche il criterio del vivere sotto lo stesso tetto, come individuante la convivenza famigliare rispetto agli altri legami
parentali, non è sempre così chiaro e discriminante. Molte ricerche hanno dimostrato come il confine dell’abitazione
non sempre coincida con quello della divisione del lavoro, dell’accesso al cibo e dei rapporti sessuali.
Vivere sotto lo steso tetto è un confine visibile e non superficiale, ma il grado e la direzione della sua permeabilità è
altrettanto importante per la definizione della convivenza famigliare.
Il Gruppo di Cambridge ha mosso serie critiche nei confronti dell’opinione che sosteneva che nel passato le famiglie
fossero per lo più a struttura multipla, e che avessero attraversato nel tempo un processo di progressiva contrazione,
che le aveva portare dalla famiglia multipla a quella coniugale. In questo processo l’industrializzazione avrebbe avuto
un ruolo cruciale, favorendo appunto la nascita della famiglia nucleare.
Le ricerche del Gruppo di Cambridge sembrarono per l’appunto ribaltare questo resoconto, in quanto mostrarono che
già diversi secoli prima dell’industrializzazione la struttura di famiglia coniugale era prevalente nei diversi paesi del
Nord Europa.
La nuclearizzazione della famiglia occidentale, più che essere una conseguenza, appare come una delle circostanze
favorevoli all’industrializzazione, nella misura in cui questa si era sviluppata prima nelle zone dove prevaleva questo
modello.
Come conseguenza di questo dibattito la famiglia europea si presenta diversificata nelle sue strutture nel passato e nel
presente; questa sembra segnata da confini e destini diversi, tra città e campagna, tra ceti sociali e tra forme di accesso
e distribuzione della proprietà.
Per quanto riguarda l’Italia, Barbagli ha tracciato un profilo delle strutture famigliari del Centro-Nord, e delle loro
trasformazioni nei secoli, trovando forti diversificazioni tra regioni e tra campagna e città. In particolare egli ha
dimostrato che non è assolutamente vero che nella società tradizionale italiana precedente all’industrializzazione
prevalesse ovunque la famiglia multipla a tre generazioni.
Non prevaleva sicuramente in Meridione dove il modello produttivo a coltura estensiva, il grosso frazionamento e la
dispersione della proprietà, avevano favorito l’affermazione del modello nucleare già precedentemente
all’industrializzazione.
Non prevaleva nemmeno nelle città del centro-nord, dove prevaleva sempre un modello nucleare.
N.B. Il caso italiano mostra una varietà di strutture famigliari in ogni epoca e processi non lineari di trasformazione.
Anche se ha finito con il prevalere, sotto la spinta dell’industrializzazione, la struttura di tipo nucleare anche nelle
campagne.
Il grado di casualità a cui erano sottoposte le famiglie del passato era molto più elevato di quello di oggi, infatti le
strategie messe a punto venivano continuamente scompigliate da eventi imprevisti più o meno catastrofici. Questo
aveva conseguenze molto rilevanti, non solo sui destini individuali, ma anche sulla stessa composizione della famiglia
e sulla possibilità di sopravvivenza come tale.
Nonostante carestie ed epidemie avessero cominciato a ridursi, nell’ottocento i tassi di mortalità erano ancora molto
alti. In quegli anni infatti erano comune la dispersione della famiglia nella parentela o nell’emigrazione solitaria, o
viceversa la ricomposizione di una nuova famiglia, tramite un nuovo matrimonio del genitore rimasto vedovo.
Le variabili del sesso e dell’età sembrano cruciali nei destini sia individuali che famigliari. Le donne, a differenza di
oggi, avevano più possibilità di morire giovani per cause legate alle gravidanze. I figli quindi potevano rimanere
orfani fin dalla nascita e quindi erano costretti a cresce con le matrigne.
Da questo punto di vista quindi sembrerebbe che la famiglia del passato fosse più instabile e soggetta a disgregazione
rispetto a quella contemporanea.
Potremmo quasi dire di trovarci di fronte a quelle che oggi si definiscono famiglie ricostruite, dove figli di più letti si
trovano a convivere sotto lo stesso tetto. Questo ovviamente poteva produrre tensione sia tra fratelli e sorelle sia tra
figlio e matrigna/patrigno.
Un altro fenomeno di instabilità della convivenza famigliare nel passato era costituito dai fenomeni migratori. Questi
coinvolgevano soprattutto le famiglie contadine che tentavano di mantenere l’equilibrio economico facendo emigrare
alcuni dei propri membri.
I fenomeni migratori coinvolgono soprattutto i figli eccedenti, cioè coloro che non sono designati ad ereditare.
C’era inoltre la mobilità forzata dei contadini non proprietari, allorché il padrone disdiceva i contratti di mezzadria, o
di affitto, costringendo la famiglia a spostarsi altrove per cercare lavoro.
C’era infine la mobilità connessa allo stesso lavoro. I pastori ad esempio migravano ogni stagione, e come loro anche
tante altre figure lavorative.
Secondo alcuni studiosi la diminuzione della mortalità, l’aumento e la diversificazione delle risorse disponibili agli
individui e alle famiglie a livello locale, avrebbero favorito una maggiore stabilità della famiglia lungo il ciclo di vita.
I recenti fenomeni di instabilità andrebbero quindi letti nel contesto di questo lungo percorso di stabilizzazione delle
strutture famigliari.
Come già detto precedentemente i processi di nuclearizzazione famigliare erano già presenti, in alcune aree, già prima
della rivoluzione industriale; senza dubbio però questa ha consentito una rapida diffusione del modello nucleare anche
in quelle zone dapprima caratterizzate da un altro modello famigliare.
Nella fase dell’industrializzazione non è tanto la famiglia contadina a trasformarsi, quanto gli strati rurali che in
inurbano e divengono proletari rurali. Chi rimane in campagna mantiene gli stesi modi di organizzazione famigliare.
Aumentano tuttavia i casi di economia famigliare mista, con alcuni membri che vanno in fabbrica mentre altri
rimangono in campagna. Questi fenomeni cambiano la possibilità di controllo famigliare sulla propria forza lavoro,
ma soprattutto muta la collocazione di classe di interi gruppi sociali, in quanto muta lo stesso sistema di stratificazione
sociale.
Altro discorso è quello che riguarda gli artigiani e i lavoratori urbani, che vedono trasformato il proprio lavoro e il
proprio modo si produzione famigliare.
In alcune situazioni la creazione di un nuovo mercato del lavoro tramite lo sviluppo della manifattura favorì la
stabilizzazione e persino l’allargamento della famiglia. I figli infatti iniziarono a rimanere di più in famiglia
contribuendo con il proprio salario alle finanze famigliari; la parentela divenne importante, non solo per l’inserimento
nel mercato del lavoro, ma anche come messa in comune delle risorse.
L’introduzione del sistema di fabbrica modifica anche la divisione del lavoro famigliare. Non tutti infatti possono
accedere al salario di fabbrica, sono soprattutto i maschi adulti e i giovani di ambo i sessi a poter lavorare in fabbrica;
mentre le donne con figli si collocano nell’area del lavoro agricolo o dei mille servizi informali che sostengono la vita
urbana.
Proprio da questa nuova divisione del lavoro emerge la necessità di uno spazio domestico vero e proprio, non
mescolato allo spazio di lavoro. Emergono anche necessità di cura per i bambini, che non possono più essere accuditi
sul luogo di lavoro.
Questo spazio domestico però può svilupparsi appieno solo con l’aumento reale dei redditi e dei consumi.
Si sta delineando, proprio in questi anni, una più netta divisione dei compiti e degli spazi per uomini e donne. La
maternità colloca le donne al di fuori dei luoghi di lavoro, mentre gli uomini passeranno più tempo al di fuori della
famiglia.
Un secondo fenomeno riguarda i rapporti tra le generazioni nelle famiglie. L’accesso a un salario favorì
l’individualizzazione, anche se comunque la solidarietà economica famigliare rimase un cemento fortissimo, in quanto
se si mettevano insieme il salario e il lavoro domestico le risorse erano sufficienti.
Un terzo fenomeno riguarda la transizione demografica, cioè il complesso fenomeno che comportò il passaggio
dall’alto tasso di mortalità e di fecondità, a un bassa mortalità e una bassa fecondità.
L’abbassamento della mortalità è dovuto i miglioramenti delle condizioni sanitarie e igieniche.
Questi fenomeni ebbero un andamento diverso nei vari paesi. Secondo alcuni studiosi, durante la prima fase di
industrializzazione, la riduzione del controllo delle famiglie e della comunità sui giovani favorirono anche le unioni
libere e le nascite di figli illegittimi. Altri studiosi non sono molto d’accordo con quanto sopra detto, tuttavia non si
può negare il fatto che molte usanze matrimoniali cambiarono in quanto erano cambiate le basi economiche per la
costruzione della coppia.
• famiglie unipersonali;
• coppie senza figli;
• coppie o singoli con figli;
• famiglie estese e famiglie multiple.
Per definire l’unità di convivenza famigliare l’istituto di rilevazione rimanda alla definizione anagrafica secondo cui:
N.B. L’ultimo requisito è sparito a metà degli anni ottanta, in quanto la legge ha eliminato il requisito del bilancio
comune come identificatore della famiglia, prediligendo l’abitualità del domicilio e l’esistenza di rapporti affettivi.
La definizione è assai ampia e apparentemente flessibile, tuttavia questa è legata a procedure amministrative da cui
dipende lo stato di accesso ai diritti politici e sociali. I censimenti infatti hanno la funzione di fornire dati sulla
distribuzione della popolazione, ai fini di allocazione delle risorse, progettazione delle politiche sociali ed elettorali, e
così via.
In altri paesi non è la legalità della convivenza a costituire criterio di base per l’individuazione censitaria, bensì la
coresidenzialità e la condivisione di fatto delle risorse.
Va osservato che le definizioni di famiglia utilizzate dagli organi di rilevazione sono variate nel tempo. Inoltre in uno
stesso periodo di tempo l’istituto può individuare diversamente l’unità famigliare di riferimento, a seconda del tipo di
indagine che vuole svolgere.
D’altra parte queste disomogeneità dimostrano la difficolta a tracciare in modo netto i confini della famiglia e prima
ancora a definire i criteri in base ai quali farlo.
Va infine detto che i concetti statistici devono essere letti nel contesto da cui sono derivati e per i quali sono pensato.
Le definizioni statistiche altro non sono che convenzioni che devono essere interpretate in rapporto ai contesti
sociopolitici nazionali.
Le Nazioni Unite negli ultimi anni hanno cerato di attuare una crescente omogeneizzazione delle definizioni
statistiche di famiglia e struttura famigliare. Dal 1991 hanno proposto la seguente definizione di famiglia ai fini della
rilevazione e comparazione statistica:
<< Ai fini censuari la famiglia dovrebbe essere definita nel senso stretto di nucleo famigliare, cioè le persone entro un
aggregato domestico che sono tra loro legate come marito e moglie, o genitore e figlio celibe o nubile. Perciò un
nucleo famigliare comprende una coppia sposata senza o con figli nubili/celibi di qualsiasi età, o un genitore solo
senza o con figli nubili/celibi di qualsiasi età. L’espressione coppia sposata dovrebbe includere ove possibile coppie
che dichiarano di vivere in unione consensuale e, dove è possibile, si dovrebbero dare dati distinti sulle coppie
legalmente sposate e quelle consensuali.
Uno donna che vive con i propri figli celibi/nubili dovrebbe essere considerata come facente parte dello stesso nucleo
dei figli, anche se essa stessa è nubile e se vive con i genitori. Lo stesso vale per l’uomo nell’analoga situazione.
Per figli si intendono anche i figli del coniuge/convivente e i figli adottivi, ma non i figli in affidamento >>.
Tale definizione non è stata recepita in toto da tutti i paesi in quanto diventa davvero difficile affiancarla a modelli
culturali di famiglia presenti.
È davvero difficile, data la natura complessa delle relazioni famigliare, tracciare così netti ed esclusivi. Per questa
ragione qualcuno ha sostenuto che le definizioni di famiglia possono essere solo di tipo operativo, legate cioè ai
concreti problemi di indagine che ci si pone di volta in volta.
N.B. Questa disomogeneità tra composizione famigliare ufficiale e composizione reale non va sottovalutata in quanto
può essere la spia di effetti perversi delle politiche sociali ed amministrative.
Dal primo dopoguerra ad oggi si è assistito a un aumento del numero delle famiglie superiore all’aumento della
popolazione, a una riduzione dell’ampiezza delle famiglie e a una diversa distribuzione percentuale dei vari tipi di
struttura di famiglia. Questi fenomeni sono la conseguenza sia di comportamenti individuali e famigliari, sia di
processi demografici, diversi.
L’aumento delle famiglie non è più dovuto alla maggiore accessibilità al matrimonio da parte delle classi sociali che
prima ne erano escluse. I tassi di nuzialità si sono prima stabilizzati e poi sono diminuiti. L’aumento del numero delle
famiglie tra l’altro è stato maggiore rispetto all’incremento della popolazione. Questo aumento del numero delle
famiglie è da ricercarsi soprattutto nella tendenza verso la nuclearizzazione della famiglia e anche nell’allungamento
della durata della vita. Inoltre la riduzione delle nascite, che modifica l’ampiezza della famiglia, rende più evidente lo
squilibrio tra incremento della popolazione e incremento delle famiglie.
La riduzione delle famiglie estese porta a modifiche nel ciclo di vita famigliare. Sempre più coppie iniziano la loro
vita famigliare da sole, dal punto di vista della convivenza; sempre più anziani terminano la propria vita famigliare e
personale vivendo per conto proprio.
Va sottolineato che l’invecchiamento della popolazione, insieme all’aumento dell’instabilità matrimoniale, sta
producendo in alcuni contesti una riresa delle famiglia allargate; questo accade nella misura in cui una coppia di
mezza età accoglie in caso il proprio genitore rimasto vedovo o divenuto fragile. Si parla in questi casi di
ricoabitazione, intendendo con ciò che si tratta di due famiglie che dopo un periodo in cui hanno vissuto per conto
proprio, sono tornate ad abitare insieme.
Il fenomeno della ricoabitazione non segnala il semplice persistere della struttura famigliare multipla, ma al contrario
segnala un trasformazione del ciclo di vita stesso, nel combinarsi di trasformazioni demografiche e mutamento dei
comportamenti famigliari e individuali.
L’instabilità del rapporto di coppia e l’invecchiamento della popolazione sono i fattori responsabili della
diversificazione delle strutture famigliari e più specificamente della diversificazione dei cicli di vita della famiglia
(famiglie che si separano e danno luogo ad altre famiglie ricostruite).
È l’intrecciarsi per di questi fenomeni che in tutti i paesi le indagini di tipo statistico segnalano una costante
diminuzione della quota della famiglie coniugali nucleari, specie di quelle con figli.
Le indagini mostrano come vivere in una famiglia che comprenda anche dei figli, è un’esperienza variabile a seconda
della fasce d’età e si riduce notevolmente nella fascia d’età più matura, in cui aumenta l’esperienza di vivere da soli.
La situazione è variabile geograficamente, infatti nelle aree settentrionali vivere in una famiglia con figli è
un’esperienza minoritaria, viceversa nei paesi meridionali succede il contrario.
Il mutamento nella distribuzione dei vari tipi di famiglia corrisponde a mutamenti nelle probabilità di vivere in un
determinato tipo di famiglia e di avere specifici ruoli generazionali secondo l’età.
In Italia è tipico il fenomeno della tardiva uscita del figlio dalla famiglia. Bisogna comunque dire che recentemente
questo sta accadendo anche in quei paesi caratterizzati da un’uscita più precoce. L’uscita tardiva caratterizza
comunque in modo netto i paesi del sud e dell’est Europa.
Una delle ragioni per cui in Italia è presente questa uscita tardiva è da ricercarsi nei modelli culturali di famiglia e di
responsabilità tra le generazioni e soprattutto alle politiche di sostegno per i giovani. Occorre comunque sottolineare
che una parte di queste lunghe convivenze dei figli coi genitori nasconde fenomeni più complessi (es. studenti fuori
sede che mantengono residenza ma vivono altrove).
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N.B. Gli anziani italiani, rispetto a quelli degli altri stati, a motivo della lunga permanenza dei figli in famiglia, vivono
una parte della loro vita anziana avendo ancora in casa i figli.
Nelle regioni settentrionali italiane la percentuale degli anziani soli e in coppia è più consistente rispetto al
mezzogiorno. Questo è dovuto maggiormente all’invecchiamento della popolazione e alla riduzione della nascite.
Entrambi questi fenomeni sono iniziati prima del Nord Italia e pertanto hanno segnato sia la struttura per l’età della
popolazione che la composizione delle famiglie.
Le nuove famiglie
L’espressione nuove famiglie è stata usata frequentemente in modo ambiguo, nella misura in cii serve sia a indicare la
diffusione di nuovi modi di fare famiglia dal punto di vista delle regole e dei valori, sia l’emergere di nuove fasi nel
ciclo della vita individuale e famigliare.
L’aumento delle famiglie unipersonali, ad esempio in Italia, no è solo frutto delle scelte personali ma nella maggior
parte dei casi è conseguenza dell’invecchiamento della popolazione e della possibilità di rimanere vedove per un
periodo più lungo.
Le famiglie mono genitore in passato erano diffuse a causa degli alti tassi di mortalità; oggi però sono spesso
conseguenza di scelte intenzionali. Lo stesso avviene per le coppie non coniugate.
Le famiglie con un solo genitore sono un fenomeno in crescita in tutti i paesi sviluppati anche se vi sono delle
variazioni fra i vari paesi. Le cause che danno origine a questo fenomeno sono di vario tipo, vanno dalla vedovanza
alla procreazione al di fuori del matrimonio, dalla separazione al divorzio. Recentemente le cause più influenti sono la
separazione e il divorzio.
Viceversa sono diminuiti i genitori soli a causa delle vedovanze.
In tutti i paesi, parallelamente ai tassi di instabilità coniugale, ci sono stati due mutamenti successivi nei criteri per
l’affidamento dei figli.
Il primo mutamento ha riguardato i criteri di individuazione di quale genitore meriti di più l’affidamento dei figli. Tale
individuazione progressivamente è stata orientata dal criterio del migliore interesse del figlio; ciò ha comportato un
affido quasi monopolistico della madre, ritenuta più adatta a soddisfare i bisogni del minore. Successivamente questo
criterio ha iniziato a essere modificato e si sono istituite forme di affidamento congiunte.
Tra l’altro, dal punto di vista dei figli che vivono i queste famiglie, la definizione di famiglia con un solo genitore può
nascondere varietà di situazioni possibili; vi può essere ad esempio una tempestiva interruzione dei rapporti con l’altro
genitore, oppure i rapporti possono essere mantenuti.
Un analogo problema di confini si pone nel caso della famiglia ricomposta, quando essa include figli nati da un
matrimonio precedente. Come per le famiglie mono genitore, anche quelle ricostruite erano già esistenti nel passato
nella misura in cui un vedovo/a si risposavano con altre persone.
Oggi giorno si parala di famiglia ricostruita quando almeno uno dei due coniugi proviene da un matrimonio
precedente. Dal punto di vista della struttura, se non ci sono figli di un matrimonio precedente, questa famiglia è del
tutto assimilabile a una nuova famiglia. Se viceversa ci sono dei figli la struttura appare più complessa; coppia
Una sorta di famiglia che presenta specificità non tanto dal punto di vista della struttura, ma piuttosto dal punto di
vista della legittimazione è la convivenza more uxorio. Qui la coppia coniugale non è legittimata dal matrimonio ma
dalla scelta del vivere assieme. Il suo statuto dal punto di vista sia legale che culturale in molti paesi è controverso.
Naturalmente bisogna distinguere tra convivenze eterosessuali e convivenze omosessuali; nel caso delle prime
ovviamente è l’assenza di matrimonio a motivare eventuali giudizi sulla scarsa legittimità. Nel caso delle convivenze
omosessuali è proprio il tipo di sessualità che pone il problema del contrasto con la visione tradizionale della famiglia.
È la relazione omosessuale a sfidare l’idea di famiglia basata sul patto di solidarietà con finalità riproduttiva.
Problemi culturali e valoriali rispetto al riconoscimento delle convivenze etero e omosessuali sono stati sollevati in
tutti i paesi europei.
In Italia ad esempio una convivenza etero o omosessuale è una famiglia dal punto di vista anagrafico, se le persone
risiedono sotto lo stesso tetto. È tale anche per alcuni aspetti del codice penare e del diritto assicurativo, tuttavia non lo
è dal punto di vista del codice civile, del diritto ereditario e del sistema pensionistico.
Per quanto riguarda le convivenze eterosessuali, si identificano quelle giovanili e quelle tra adulti. In quasi tutti i paesi
sono in aumento e prime rispetto alle seconde, in quanto costituiscono il primo modo di una coppia di provare a vivere
insieme. Solo nei paesi scandinavi le convivenza tra adulti costituiscono un fenomeno consistente, confermando un
vero e proprio modo alternativo di fare famiglia.
Il diffondersi delle convivenze giovanili, in Italia, ha modificato in parte le caratteristiche delle coppie conviventi non
sposate. Negli anni addietro la scelta alternativa al matrimonio, si presentava come una convivenza di necessità, in cui
i due membri della coppia magari erano in attesa del divorzio. Ma attualmente non si può sostenere che le motivazioni
del passato caratterizzino anche le scelte del presente.
È più difficile avere dati sulle convivenze omosessuali. Dato che non in tutti i paesi queste hanno avuto un
riconoscimento, la loro presenza non viene rilevata a livello statistico.
Nel dibattito pubblico si parla di nuove famiglie anche in relazione alle famiglie di migranti o a quelle miste. La
diversità di queste famiglie sta nel fatto che queste rendono visibile modi diversi di intendere la famiglia, i rapporti
uomo-donna, i rapporti genitori-figli, famiglia e parentela, rispetto ai modi vigenti nella società di accoglienza.
Un altro caso di cui si parla poco è il modello della comune: un tipo di convivenza in cui non sono necessariamente né
i rapporti di sesso né quelli di generazione a essere decisivi, ma è la condivisione di un progetto di vita comune ad
essere il fulcro della struttura.
Sono importanti da considerare anche le forme famigliari basate sul mutuo soccorso: giovani che si mettono assieme
per condividere le spese, anziani e giovani che condividono l’abitazione e scambiano forme di sostegno, e così via.
In Francia ad esempio esistono i PACS, che sono stati pensati inizialmente per fornire un riconoscimento alle coppie
omosessuali, ma in seguito sono stati allargati a tutte le coppie a prescindere dal sesso.
Oggi più di un tempo è necessario guardare al modo di organizzarsi e formarsi delle famiglie in una prospettiva
temporale, che ne delinei le regole di formazione non solo in un punto temporale dato, ma nello snodarsi delle loro
storia, e sia attenta alle vicende degli individui che le compongono.
La delimitazione dei confini della convivenza famigliare rispetto alla parentela rappresenta uno dei fattori principali
del dinamismo della struttura famigliare stessa lungo il ciclo di vita (persone entrano nella famiglia portando con sé
nuovi legami o ne escono). Questo dinamismo è espresso dalla stessa instabilità e insicurezza del linguaggio con cui
sia assegna lo statuto di membro della famiglia o membro di parentela.
Lo studio della parentela è stato lasciato per lungo tempo agli antropologi. Anche gli storici della famiglia vi hanno
dedicato scarsa attenzione. Per quanto riguarda la sociologia la mancanza di studi è motivata da un giudizio a priori di
irrilevanza della stessa come fenomeno sociale.
Lo stesso Durkheim aveva formulato la legge della contrazione, secondo la quale la famiglia, che nel passato aveva
origine nella parentela e in un patto tra parentele, progressivamente si sarebbe enucleata, fino a giungere in epoca
contemporanea alla famiglia nucleare. La parentela quindi sembra nascere dalla famiglia nucleare, e non viceversa (la
parentela fa nascere la famiglia nucleare). Le relazioni parentali pertanto sarebbero deboli e marginali rispetto alla più
forte struttura famiglie coniugale.
Tuttavia le cose non stanno proprio così ed esistono delle variazioni a livello nazionale e locale all’interno delle
società occidentali sviluppate.
Perché ci sia una famiglia occorre he altre due rinuncino a un membro ciascuna (Lévi-Strauss).
E questo fatto mentre modifica le relazioni tra coloro che hanno vincoli di sangue, instaura contemporaneamente
nuovi vincoli sociali.
In senso stretto la parentela designa il rapporto che deriva dalla comune appartenenza a una genealogia, a un sistema
di discendenza. In senso ampio viceversa ingloba, oltre ai consanguinei, anche coloro con cui si entra in rapporto
direttamente o indirettamente tramite il matrimonio. La parentela infatti è costituita dall’intreccio di questi due vincoli.
Non tutti i vincoli di sangue infatti danno luogo a vincoli famigliari e di parentela.
Una prima differenziazione della rilevanza dei legami di sangue ha a che fare con l’appartenenza di sesso. In molte
società infatti il sesso costituisce un criterio basilare per definire categorie distinte e specifiche di relazioni tra
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Un terza possibilità di struttura della parentela è quella indifferenziata o cognatica. In questo caso l’appartenenza a un
gruppo di parenti non è più una funzione del sesso e ciascun discendente di un particolare individuo fa parte del
medesimo gruppo di parentela e può ereditare da qualsiasi dei suoi ascendenti. Si tratta del modello che prevale nelle
società contemporanee.
È importante sottolineare che un parente consanguineo è un individuo definito tale da una società data e i legami di
sangue in senso genetico possono non entrare nulla in tale definizione, anche se nella maggior parte della società
questi due tipi di vincoli tendono a confondersi.
L’adozione è il classico esempio dell’attribuzione solo sociale, e non genetica, della consanguineità.
La parentela è sostanzialmente un vocabolario sociale tramite il quale sono definiti spazi e flussi di relazioni, confini
tra gruppi sia nel senso di separazioni che di conflitti, e contemporaneamente ciascun individuo si colloca all’interno
di questi.
Grazie agli studi degli antropologi, emergono cinque grandi tipi di terminologie di parentela, designati sulla base dei
gruppi cultural in cui sono stati individuati per la prima volta.
Questi sono:
• Eskimo;
• Hawaiano;
• Irochese;
• Omaha;
• Crow;
• Sudanese.
Quello più diffuso in occidente è il primo modello. In questo troviamo un sistema di filiazione tendenzialmente
indifferente e nessuno dei due sessi prevale nella definizione della parentela
(esempio. Usiamo la parola zio per definire i parenti sia paterni che materni).
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Uno degli indizi delle asimmetrie che strutturano e attraversano i legami di parentela è l’uso e la trasmissione dei
cognomi. Il cognome infatti ha la funzione fi fornire all’individuo e al gruppo famigliare una identificazione sociale
chiara e fissa nel tempo.
Sono stati dapprima i ceti aristocratici a darsi e a fissare un nome di famiglia, in seguito poi questo verrà imposto
anche ai ceti bassi per esigenze di controllo.
La funzione del cognome quindi, era quella di autoidentificazione di una linea parentale, che esprime un vincolo e uno
spazio relazionale in cui tale linea esercita un controllo e un potere.
L’intervento dello stato in materia, consisterà nell’imposizione di un ordinamento delle identità sociali degli individui
e dei gruppi. Questi inoltre rafforzerà la patrilinearità, che annulla del tutto la presenza sociale della madre e della
linea materna nella discendenza.
Lignaggi e parentele
Il problema della definizione dell’identità e dell’appartenenza a un gruppo definito parentale, di continua a riproporre.
Tramite il lignaggio, il gruppo domestico si trova collegato alla catena di coloro che lo hanno preceduto e gli
succederanno nel medesimo luogo, e tramite la parentela all’insieme dei parenti con i quali persegue tutto ciò che a la
trama della vita sociale. Considerata sotto questo secondo aspetto la parentela sembra rappresentare un’articolazione
fondamentale della vita sociale nel modo tradizionale. Essa è costituita da una fitta rete di scambi reciproci, che
durano al di là del tempo di un nucleo famigliare, vincolando e collegando le generazioni.
Mentre la continuità del cognome è regolata dalla dal criterio patrilineare, la continuità della vita quotidiana e dei
legami intergenerazionali non è così facilmente individuabile.
Molte ricerche hanno dimostrato come la parentela sia stata una grossa risorsa rispetto ai fenomeni di mutamento,
consentendo di farvici fronte e assorbirli (esempio negli anni dell’immigrazione – famigliari necessari per la vita nel
nuovo paese).
L’industrializzazione, così come è stata ritenuta causa della nuclearizzazione della famiglia, è stata ritenuta causa
anche della perdita di forza sociale della parentela.
In questi anni i legami di parentela erano ritenuti residuali e appannaggio delle classi sociali meno evolute socialmente
e politicamente. Sono infatti le popolazioni arretrate a trattenersi in legami ritenuti disfunzionali per il raggiungimento
della libertà individuale. Tali legami infatti non garantirebbero l’autonomia individuale e darebbero luogo a forme di
nepotismo e anarchia sociale (familismo amorale).
In realtà, la perdita di forza della parentela, la si può ritrovare anche nell’idea della potenziale conflittualità che poteva
crearsi all’interno della famiglia per via degli status che andavano formandosi. Pertanto, per non danneggiare i nuovi
rapporti famigliari, si sceglieva la formazione di una nuova famiglia, legata a quella di origine solo da legami di
affetto e non più da legami economici.
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Anche l’invecchiamento della popolazione ha sollecitato una maggiore attenzione agli scambi e ai rapporti
intergenerazionali.
Le ricerche recenti sulla famiglia contemporanea, dimostrano come questa vive all’interno di una fitta rete di rapporti
e scambi tra parenti. Il termine rete sta a indicare un intrecciarsi di rapporti e di scambi non sempre diretti e lineari ma
anche un’attività di sostegno e protezione.
I rapporti parentali oggi giorno vengono mantenuti nonostante vincoli geografici, differenze di collocazioni
professionali e di status. Inoltre ciò che caratterizza il rapporto parentale attualmente è la possibilità di scelta
relativamente alle persone con cui mantenere i rapporti e su quale piano.
Va anche sottolineato che oggi le linee di parentela vengono complicate dalle possibilità offerte sul piano sia
normativo che tecnologico (vedi divorzio – crea e taglia rapporti di parentela).
Forme di parentela non solo di fatto, ma anche legali, non mediate dalla consanguineità, sono messe in moto
nell’adozione. Lo stesso vale per la procreazione medicalmente assista con donatore.
Chi è privo di un rete di parentela si trova più solo e più indifeso rispetto ai rischi connessi alla sua partecipazione
nella società. Ha minore risorse per muoversi con successo nel mercato del lavoro, è più esposto ai rischi di povertà
connessi alla disoccupazione, e via dicendo.
Da quando si è iniziato a studiare in modo comparativo la parentela, si è cominciato a distinguere tra mantenersi in
contatto e fornire sostegno all’interno della parentela. Nel caso dei contatti è emerso che questi rimangono frequenti
tra parenti stretti. Tuttavia esistono delle differenze tra i vari paesi, e tra le varie classi sociali. La famiglia
mediterranea, ancor oggi, sarebbe più di altre caratterizzata dal suo essere inserita in una fitta rete di rapporti di
parentela.
La cosa è un po’ diversa rispetto al flusso di sostegni scambiati entro la parentela. Recenti ricerche hanno confermato
la notevole consistenza di scambi entro la parentela, soprattutto lungo le linee generazionali, in tutti i paesi europei, a
prescindere dal modello culturale di famiglia e dal tipo di welfare state. Il flusso di aiuti economici, nella società
contemporanea, generalmente va dalle generazioni più anziane a quelle più giovani; mentre il flusso degli aiuti in
termini di cura, va dalle generazioni di mezzo a quelle già anziane e quella più giovani. Solo ne paesi più poveri
l’aiuto economico nei confronti degli anziani da parte dei giovani ha ancora un ruolo significativo.
Le differenze in termini di aiuto emergono tra paesi del nord e paesi del sud, soprattutto in ambito di un più alto
elevato numero di ore prestato.
Vi sono inoltre differenze per classe sociale. Nelle famiglie di ceto medio il flusso sembrerebbe quasi esclusivamente
di tipo unidirezionale, con famiglie di origine in funzione attiva di donatrice. Si va dall’aiuto nel trovare lavoro,
all’aiuto finanziario diretto all’aiuto sotto forma di servizi. Lo scambio di servizi sembrerebbe prevalente nella rete
parentale dei ceti meno abbienti, nella misura in cui questi hanno meno risorse di capitale economico e sociale da
redistribuire.
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Vi studiosi che hanno documentato i mutamenti che sono intervenuti nell’ambito dei sostegni parentali. Tali studiosi
infatti sostengono che per quanto cruciale sia la parentela nella quotidianità degli anziani, questi non possono più fare
conto, in modo né esclusivo né prevalente, sulla presenza della parentela per motivi di lontananza geografica, impegni
di lavoro, e così via.
Oltre a cambiarsi visite e sostenersi dal punto di visa affettivo e psicologico, tra parenti ci si scambia la maggior parte
degli aiuti materiali, forniti gratuitamente fuori dalla propria famiglia.
Queste reti di aiuto informale sembrano essere più attive nel nord-est e nei centri di medie dimensioni, mentre nel
mezzogiorno e nei piccoli centri sono più contenute.
Infine anche le forme di solidarietà parentale hanno un genere. Sono soprattutto le donne nelle età centrali a dare aiuto
nella cura. Gli uomini sono più presenti per lavori di tipo burocratico.
Oltre a parlare delle dimensioni pratiche della rete famigliare, è necessario non sottovalutare l’intensità dei rapporti
affettivi. L’affettività è, più che la causa, la legittimazione che sottostà agli scambi parentali.
Il valore e l’aspettativa dell’affettività è così forte, che tende a celare agli occhi degli stessi protagonisti, gli aspetti
strumentali della parentela (valore economico, sociale e pratico degli scambi).
Nella società contemporanea il rapporto genitori-figli è talmente importante da coprire lo spazio della parentela, e ciò
vale anche per il rapporto coi nonni, in ragione al fatto che anni fa la durata media della vita era bassa pertanto vi
erano poche possibilità per i nonni di crescere i propri nipoti.
Il rapporto tra cugini ha in generale un peso diverso a seconda dell’età. Se spessi i cugini abitano vicino costituiscono
il principale mondo affettivo e sociale, al punto da condizionare anche il loro rapporto da adulti.
Anche il rapporto con gli zii e le zie possono assumere grande rilevanza nel processo di identificazione a una
appartenenza famigliare. Questi costituiscono una potenziale risorsa non solo per il mondo affettivo, ma anche per il
processo di elaborazione di una identità personale.
Le ricerche hanno segnalato anche la perdurante importanza delle strutture di genere, cioè delle diverse posizioni che
i due sessi occupano all’interno della parentela.
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Le donne inoltre si trovano più direttamente coinvolte negli aiuti di tipo domestico, che richiedono un lavoro
continuativo. Quando un membro della famiglia sta male sembra ovvio che la cura spetti alle donne della famiglia.
Parliamo qui di biografie morali, in quanto è opinione comune e sembra un fatto del tutto naturale che le donne
debbano svolgere il lavoro di cura e quello domestico.
Nel passato il nesso tra famiglia, lavoro ed economia era esplicito e non costituiva un problema concettuale. Per la
maggior parte della popolazione appartenenza famigliare e attività lavorativa coincidevano. Poiché la famiglia era
l’attività produttiva principale, la divisione del lavoro era innanzitutto divisione del lavoro entro la famiglia, e la stessa
gerarchia sociale era una gerarchia tra le diverse famiglie.
Anche nella famiglie aristocratiche e della borghesia vi era un’intesa attività produttiva ed economica. Il padre di
famiglia era un amministratore della casa come impresa, e i trattati economici consideravano l’economia domestica e
l’economia commerciale come un continuum.
Weber stesso sosteneva che l’economia moderna, così come la famiglia moderna, nascono dalla separazione
dell’economia domestica dall’economia dell’azienda di famiglia.
Questa separazione avviene prima nei ceti aristocratici e borghesi; la famiglia borghese infatti nasce come famiglia
privata, sottratta a responsabilità pubbliche insieme con disponibilità di spazi e risorse private.
Per le famiglie delle classi lavoratrici questa separazione tra pubblico e privato è avvenuta in modo molto lento e
meno netto. A lungo i membri delle famiglie lavoratrici sono state percepite come organi di un’economia famigliare
complessiva, cioè ancora come lavoratori famigliari. Per quanto i redditi guadagnati siano individuali, il diritto a
spenderli e amministrarli è collettivo, della famiglia.
Fino a poco tempo fa si poteva vedere come in molte famiglie i salari dei figli venivano consegnati ai genitori, che li
amministravano per il bene comune.
Non tutti i membri all’interno della famiglia salariale erano uguali rispetto sia alla necessità della solidarietà sia alla
decisione di come spendere il denaro della borsa comune. I conflitti sul denaro mostrano come nell’economia salariata
si distingueva nettamente tra chi guadagnava e chi no, e chi guadagnava denaro e chi guadagnava indirettamente
tramite il lavoro domestico.
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La famiglia, non essendo più unità produttiva, sembrava essere diventata un luogo degli affetti e dei processi di
socializzazione primaria e secondaria (come da definizione di Parsons).
A partire dagli anni settanta in poi la complessità degli intrecci tra lavoro, famiglia ed economia ha cominciato a
riemergere e ad essere considerata dagli studiosi.
Fino agli anni settanta si considerava principalmente la famiglia in termini di collocazione nella stratificazione sociale.
Si parlava quindi di ceto medio o operaio, di famiglie urbane e rurali, sulla base della posizione della collocazione del
capofamiglia nella stratificazione occupazionale.
Le categorie e le classificazioni fatte consideravano la famiglia come un’unità omogenea, la cui posizione veniva fatta
derivare unicamente dalla posizione occupazionale del maschio capofamiglia. Anche in quelle famiglie in cui esisteva
più di un occupato veniva considerata solamente la posizione del maschio capofamiglia.
Vi sono studiosi che tutt’ora sostengono che, data la diversa collocazione si professionale che rispetto al potere, mariti
e mogli non possono essere ricondotti alla stessa classe di appartenenza, e quindi solo l’individuo po’ essere
considerato l’unità di base della stratificazione sociale. Altri invece sostengono che la famiglia non venga
rappresentata adeguatamente dalla sola collocazione sociale del marito; questi propongono modelli di stratificazione
sociale che tengano conto sia della posizione del marito che di quella della moglie.
Un dibattito su questi temi è stato ripreso in Italia all’interno del primo importante studio sulla mobilità sociale.
Barbagli e Shizzerotto propongono due diverse soluzioni sull’individuazione della posizione nella stratificazione
sociale di una famiglia in cui il marito e la moglie hanno due posizioni diverse su base occupazionale.
_ Barbagli----- individuare una categoria di famiglie cross class, che avrebbero sia risorse che comportamenti specifici
e intermedi tra due le due classi di appartenenza individuale.
_ Schizzerotto -----assumere la classe di chi, moglie o marito, si trova nella posizione sociale dominante.
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Uno dei campi in cui viene esplorato il nesso tra famiglia e stratificazione sociale è quello della mobilità sociale,
quindi dell’impatto dell’origine sociale sulle opportunità di successo e di mobilità delle giovani generazioni.
Negli anni cinquanta e sessanta l’interesse per le conseguenze della differenziazione e disuguaglianza sociale
sull’organizzazione famigliare si appuntava da un lato sui modelli di relazione coniugale e dall’altro sui modelli di
socializzazione del bambini e gli stili educativi.
Ricerca sui ceti operai statunitensi modello di relazione coniugale fondato sulla solidarietà più che sull’affettività;
divisione dei ruoli e delle sfere di competenza piuttosto che intimità.
Questo studio mostrò anche un divario tra le aspettative delle moglie e dei mariti, da imputare ai modelli culturali
dominanti.
Tali divergenze inoltre emergevano soprattutto nei ceti a basso reddito, dove il funzionamento quotidiano della
famiglia si reggeva su una precisa divisione dei ruoli e prestazioni lavorative.
Le coppie facenti parte del ceto medio sono più che altro compagni di lavoro e il modello della reciprocità trova in
questo caso un forte limite.
Di converso le mogli dei ceti medi erano le prime beneficiarie della rivoluzione tecnologica, che alleggeriva loro il
lavoro domestico; queste quindi avevano più tempo per dedicarsi alla cura dei propri figli.
Per quanto riguarda i modelli di socializzazione e gli stili educativi vi è una ricerca che ha dimostrato che i genitori
insegnano i figli i valori e i comportamenti che sperimentano come efficaci da adulti, nella propria esperienza di classe
e di professione.
I genitori operaio quindi insegneranno obbedienza e solidarietà, mentre i genitori professionisti e dirigenti insegano
autonomia e individualismo.
Mentre quest’ultimi insegnano immagini dei ruoli sessuali più flessibili, i primi trasmettono e insistono su una netta
differenziazione dei ruoli sessuali, adulti e non.
Si sono aperti in seguito a queste ricerche dibattiti in merito agli effetti dell’appartenenza di classe sulla struttura della
personalità ed in particolare del rendimento scolastico.
Una ricerca inglese ha dimostrato che gruppi sociali in condizione diversa adottano modi di comunicazione verbale
differente, che consentono a loro volta competenze nel rapporti interpersonali e nell’agire sociale differenti.
Coloro la cui esperienza quotidiana e di vita è circoscritta a situazioni e rapporti noti, utilizzano un codice verbale
ristretto, di tipo colloquiale-famigliare. Coloro invece che l’esperienza quotidiana e di vita espone più facilmente a
situazioni non del tutto note, a rapporti con persone non famigliari, utilizzano un codice ristretto ma anche un codice
più elaborato concettualmente.
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Anche per quanto riguarda l’interazione verbale sono state notate differenze nei diversi ceti. Nelle famiglie di ceto
medio, dove prevale il modello dell’eduzione tramite la persuasione e l’interiorizzazione dei valori e dei modelli di
comportamento, il linguaggio può diventare una forma potente di controllo sociale. Contemporaneamente può
mascherare rapporti di forza effettivi entro la famiglia (manipolazione dell’affetto).
Ulteriori ricerche inoltre hanno dimostrato il ruolo determinate che ha l’istruzione dei genitori per lo sviluppo di
competenze e motivazioni cognitive del bambino fin dalla tenera età.
Un approccio teorico e di ricerca sui processi di trasmissione intergenerazionale delle differenze di classe più attento
alle dinamiche sociali è quello che si occupa del rapporto tra mobilità sociale e istruzione.
A fronte dell’opinione diffusa a seguito dell’espansione della frequenza scolastica negli anni settanta, secondo la quale
l’accesso all’istruzione di massa avrebbe scompigliato i meccanismi di riproduzione della stratificazione sociale,
studiosi americani hanno dimostrato che la sola scolarità non riesce a controbilanciare le diseguaglianze di
provenienza famigliare.
Bourdieu è uno dei primi sociologi a sostenere che la famiglia mantiene il controllo della mobilità tramite la
trasmissione non solo di risorse economiche, ma anche di un vero e proprio capitale sociale e culturale.
In questo senso si può parlare di eredità intergerazionale delle disuguaglianze.
Anche la ricerca sulla mobilità sociale in Italia segnala come l’origine di classe famigliare, e le disuguaglianze di
classe di partenza, segnino fortemente le chances di mobilità degli individui.
Ancora nel 2012, nonostante il notevole aumento della scolarità, le possibilità di laurearsi per il figlio di un operaio
con la sola licenza media sono notevolmente inferiori a quelle di un figlio di un laureato.
L’Italia è uno dei paesi sviluppati in cui l’origine famigliare conta di più per le chances di vita individuali, in primis
sul piano del reddito e della ricchezza.
Uno dei motivi per cui la famiglia continua a essere l’intermediazione della collocazione nella stratificazione sociale
e nella trasmissione delle disuguaglianze è che anche nelle società sviluppate la famiglia rimane la principale fonte di
redistribuzione sia del reddito che di cura.
Questo ruolo della famiglia può essere in parte maggiore o minore attenuato dal welfare state attraverso alcune misure
e servizi volti a sostituire la famiglia nei momenti in cui essa non riesce ad adempiere al proprio compito.
L’appartenenza famigliare è molto importate in quanto il diritto al consumo e il diritto al reddito è mediato da questa;
quanto vale un reddito sicuramente dipende dal suo potere d’acquisto, ma anche da quanti sono coloro che di quel
reddito devono vivere, o viceversa, quanti redditi si aggiungono ad esso ne bilancio famigliare.
Oltre al reddito in famiglia si redistribuisce anche cura e prestazioni di lavoro non pagato (lavoro domestico), nei
confronti di coloro che non possono provvedere a se stessi, ma anche nei confronti di persone teoricamente in grado di
badare a se stesse che tuttavia delegano parte del lavoro di cura ad altri (es. alla madre, alla sorella).
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È perché l’accesso al reddito è mediato dalla famigli che l’appartenenza famigliare è così importante nella definizione
non solo della collocazione sociale delle persone, ma del loro stile di vita, a prescindere dalla loro collocazione
professionale.
La distribuzione dei redditi non avviene solo all’interno delle mura domestiche, ma alcune ricerche hanno dimostrato
l’esistenza di rilevanti fenomeni di redistribuzione di reddito e di capitale tra le generazioni che va al di là della fase di
allevamento.
Tale ruolo sembra essere più forte in paesi come l’Italia, in cui i trasferimenti pubblici a favore delle generazioni più
giovani sono pressoché inesistenti. Ciò da una parte ha l’effetto di rafforzare a solidarietà intergenerazionale, ma
dall’altra parte ha l’effetto di accentuare le disuguaglianze sociali in quanto si tratta di una forma di redistribuzione
particolaristica.
Il concetto di reddito disponibile è molto importante, in quanto non si riferisce al reddito individualmente posseduto,
bensì a quello a cui un individuo ha accesso. Questo concetto risulta importante per analizzare il livello di vita e le
risorse di una famiglia in cui sono presenti diversi percettori di reddito, ma allo stesso tempo rischia di nascondere le
disuguaglianze interne alla famiglia in termini di effettivo accesso al reddito e al consumo. Possono infatti esistere
forti disparità nell’accesso al reddito all’interno della famiglia.
Alcuni studiosi hanno segnalato l’esistenza di povertà di donne e bambini in famiglie che apparentemente hanno un
redito adeguato, a causa del fatto che taluni procacciatori di redito si riservano una quota sproporzionata di risorse
famigliari.
Indagini effettuate sia in Italia che in altri stati hanno dimostrato che esistono modalità diverse di gestione del denaro
nelle coppie e nelle famiglie a seconda di chi lo guadagna e quanto ne guadagna.
La famiglia è anche un’importante unità di consumo; per questo motivo essa è un importante attore sia sul mercato dei
beni sia su quello dei servizi.
È a livello famigliare che si modificano le abitudini alimentari, igieniche e di abbigliamento.
È stata perciò la famiglia la grande protagonista delle trasformazioni non solo economiche, ma anche culturali, che
vanno sotto il nome di società dei consumi. Tali trasformazioni non possono essere lette solo in chiave di adattamento
passivo degli individui e delle famiglie alle offerte e alle pressioni del mercato, ma vanno intese come decisioni prese
in termini di scelte.
Con il crescere e il diversificarsi dei consumi, i membri della famiglia tendono a comportarsi come consumatori
individuali. I consumi diventano così un modo per affermare la propria autonomia, o la propria appartenenza a gruppi
di riferimento diversi. Questo è evidente nei consumi giovanili, nell’abbigliamento e soprattutto nel tempo libero, che
tendono sempre più a essere decisi ed effettuati al di fuori della famiglia.
Anche se mediati dalla redistribuzione famigliare i consumi sono sempre meno esclusivamente famigliari, anche se
l’abitazione e in parte gli alimenti rimangono spese famigliari per eccellenza.
Dal dopoguerra in poi si assiste a una graduale individualizzazione e ad un’autonomia nei consumi. Questo fenomeno
produce modifiche rilevanti sotto molti aspetti che vanno dai rapporti tra le generazioni e le identità sociali dei giovani
e degli adolescenti, ai rapporti tra i sessi e le identità sociali maschili e femminili.
Non solo le donne trovano nei modelli di consumo risorse per progettare e attuare identità diverse; anche gli uomini
sviluppano modalità di consumo che esprime una diversificazione su diversi piani.
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Famiglia e povertà
La famiglia è un ambito che può proteggere dalla povertà, o viceversa rendere vulnerabili ad essa. Come si è già
precedentemente detto molti redditi individuali, se non venissero integrati dalla partecipazione al bilancio famigliare,
sarebbero insufficienti a garantire una vita dignitosa. Diventa pertanto difficile definire una categoria di lavoratore
povero in quanto non tutti i lavoratori a basso reddito sono poveri dal punto di vista del reddito loro disponibile.
Il fatto di confluenza dei redditi individuali in quelli famigliari potrebbe portare, a lungo andare, a situazioni di
dipendenza economica, che non solo vincolano l’autonomia, ma che hanno conseguenze negative quando per qualche
motivo la mediazione famigliare non funziona più.
Può avvenire anche il contrario rispetto alla situazione sopra espressa. Può succedere infatti che un reddito sia
adeguato qualora la persona viva sola, ma diventa inadeguato quando deve essere redistribuito tra più persone.
Fino agli anni ottanta in tutti i paesi sviluppati le famiglie a maggior rischio di povertà erano gli anziani, in quanto
molti arrivavano in età anziana senza aver maturato una storia contributiva adeguata. Dal momento in cui si sono
diffusi i sistemi pensionistici la loro vulnerabilità si è progressivamente attenuata.
Sono emerse invece nuove famiglie povere: le famiglie monogenitore, le famiglie numerose e quelle famiglie
composte da persone adulte che vivono sole. Nel primo caso la povertà è la conseguenza della rottura del legame
redistributivo e della solidarietà coniugale. Nel secondo caso si tratta di uno squilibrio tra reddito famigliare e numero
di consumatori, non adeguatamente compensato da meccanismi redistributivi come gli assegni per i figli. Nel terzo
caso si tratta di persone a basso reddito individuale che non viene integrato dal fatto di vivere con altri e di poter
accedere quindi al redito altrui.
La crisi economica iniziata nel 2007 ha acuito queste specifiche vulnerabilità ed ha anche indebolito famiglie ed
individui che precedentemente erano al sicuro.
In Italia sono le famiglie anziane e quelle numerose (con più di tre figli) ad essere più sposte al rischio di povertà. Il
nostro paese inoltre è uno dei paesi europei in cui la quota dei poveri che rimangono tali da un anno ad un altro è la
più elevata. Ci troviamo in un paese in cui c’è poco ricambio tra i poveri e la povertà non è un fenomeno occasionale
ma è persistente. Questo vuol dire che chi nasce in una famiglia povera rischia di essere vittima di quel destino di
povertà e non riuscire ad avere altre opportunità.
Il matrimonio e la coppia
L'unico elemento che si ritrova in maniera uniforme nelle varie culture è la condizione che tra le unità che
compongono la famiglia devono esserci sia uomini che donne: se non tali biologicamente, definiti tali socialmente. Il
matrimonio appare il principale istituto per l'attribuzione della posizione dei singoli entro la struttura sociale di genere:
sulla base della loro appartenenza sessuale, ma anche a prescindere da questa. Inoltre queste due figure appaiono non
avere collocazione sociale equivalente. Si tratta di una struttura complementare e asimmetrica.
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Accanto alla filiazione legittima, il matrimonio esprime un’altra finalità: alleanza fra gruppi. Levi-Strauss parla di
matrimonio come scambio delle donne e tramite questo ogni gruppo dà e riceve probabilità di sopravvivenza ed
inoltre stabilisce legami di interdipendenza tra i gruppi stessi. Tramite questo rapporto tra i sessi si costruiscono
rapporti asimmetrici: gli uomini scambiano, le donne circolano. Questa caratteristica rimane visibile anche nelle
società storiche in cui si può parlare di strategie matrimoniali come vere alleanze politiche e economiche. Entro
“queste strategie, la coppia ha una posizione strumentale e il rapporto tra i due ha rilevanza solo in quanto consente
proseguimento dell’alleanza tra gruppi. Nelle famiglie artigiane e contadine questo rispondeva prima di tutto a
necessità di lavoro; ogni finalità di matrimonio aveva conseguenze sull’età degli sposi.
È in questa duplice dimensione di alleanza insito nel istituto matrimoniale che secondo taluni studiosi motiva le
caratteristiche sia di stabilità che di complementarietà del rapporto matrimoniale, comunque esso venga declinato. Vi
sono inoltre studiose che ritengono che il matrimonio sia fondato sulla specializzazione dei ruoli sessuali tra i partener.
La costruzione sociale delle differenze avrebbe come scopo implicito la costruzione di una complementarietà e di
un’interdipendenza tra i due sessi, che riguarda sia le competenze pratiche che i bisogni affettivi.
Lo stesso Simmel, con gli studi in riferimento alla cultura borghese, osserva che la divisione del lavoro sociale forzava
uomini e donne in una specializzazione unilaterale delle loro facoltà, che di conseguenza li spingeva a cercare gli uni
nelle altre compensazione nella complementarietà. Questo inoltre aggiungeva che si trattava di una complementarità
entro un rapporto di subalternità del femminile rispetto al maschile.
Il matrimonio corrisponde a un’operazione sociale ad alto rischio: da un lato è uno strumento accrescitivo e
rafforzativo sia dei gruppi sociali come dei singoli, dall’altro accoppiarsi può significare essere degradati, aver meno
di quanto ci si poteva attendere (sposarsi significa degradarsi). Per questo duplice aspetto, il matrimonio è ambito di
intensa regolamentazione, ma anche di conflitti di competenza e di autorità tra parentele, famiglie, chiesa e stato.
A partire dal XII secolo in Europa il controllo normativo passa dall'impero alla chiesa cattolica; si inizia così a
dibattere sulla sacramentalità del matrimonio, che verrà decisa in senso positivo dal Concilio di Trento. La Chiesa
sostiene la validità e la sufficienza del consenso degli sposi perché il matrimonio possa avvenire e sia legittimo,
prescindendo dal controllo e consenso delle parentele. Ciò ha effetto destabilizzante e introduce possibilità conflitto
tra chiesa e famiglie e disordine nelle strategie di alleanze famigliari e nei modi di riproduzione dei ceti e dei
patrimoni. La chiesa diviene partner forte nel processo matrimoniale: può favorire il matrimonio contro parere parenti,
ma può anche favorire un’alleanza piuttosto che un'altra. Per questo il conflitto di sposta da chi deve dare il consenso
sull’età in cui individui possono esprimerlo liberamente. Il Concilio decide 30 per i maschi e 25 per le femmine. Si
tratta di età elevate rispetto all’età media dei matrimoni e ciò, quindi, lascia la possibilità alle famiglie di combinare
matrimoni, elaborare le proprie strategie e alleanze, con il consenso della chiesa.
Se la definizione dell'età è il compromesso con le famiglie, la stabilizzazione del rito è una forma di controllo da parte
della chiesa, tesa a contrastare l’usanza di stipulare matrimoni di fatto. Il sacerdote appare sempre più come colui che
fa il matrimonio, non ne è solo testimone al punto da trasformando così il libero consenso in un atto non più
reversibile. Il matrimonio di liberi individui diviene così indissolubile. Il rito matrimoniale diviene più importante
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L'obbligatorietà del rito e la sua pubblicità costituiscono perciò strumento per far entrare anche i matrimoni dei ceti
subalterni in un quadro istituzionale normato. In ogni caso la normativa della chiesa che precede di molto l'intervento
dello stato moderno nella regolazione delle forme e istituti della vita quotidiana e della riproduzione sociale. Gli stati
nazionali cercano poi di sostituirsi alla chiesa nella regolamentazione del matrimonio, facendone prevalere i tratti di
contrattualità e di rilevanza sociale (patrimoni e eredità). Ciò ha fatto sì che la regolazione statale riguardasse
innanzitutto i matrimoni aristocratici e dei possenti. Infatti momento cruciale si ha nel Codice napoleonico. Con esso il
matrimonio è un contratto patrimoniale che fonda la gerarchia fra sessi. Qui l’irreversibilità del consenso riguarda non
tanto il vincolo, quanto la dipendenza della moglie come esito della libera scelta di contrarre il matrimonio.
La società borghese è innanzitutto società di capofamiglia dove i maschi sono tendenzialmente svincolati dalla tutela
parentale, mentre e femmine possono esprimere liberà solo nel passaggio da una tutela all'altra (dal padre al marito).
Questo tipo di regolamentazione, inizialmente si riferiva ai ceti borghesi, ma in un secondo momento si è diffuso a
tutti i ceti sociali, giungendo a compromessi con quella ecclesiastica.
I tassi di nuzialità, così come l’età del matrimonio, hanno a che fare con strategie familiari, che non riguardano solo
alleanze ma la possibilità di sopravvivenza delle famiglie stesse. Anche i modelli di trasmissione delle eredità possono
incidere, sia sull’età che sulla possibilità stessa di sposarsi, per gli uomini; mentre la disponibilità o meno di una dote,
e la sua consistenza incidono sulla possibilità di sposarsi delle donne. Questi fattori differenziano non solo i membri
delle famiglie dei diversi ceti, ma anche figli/e della stessa famiglia. Come ad esempio i figli cadetti e le ragazze senza
dote, sono casi non limitati alle famiglie povere o all’aristocrazia impoverita, ma rischi di ogni famiglia. A questi
rischi si faceva forte attraverso la scelta del sacerdozio, dell’esercito o del servitore per i ceti più bassi. In ogni caso la
condizione di celibe/nubile solo raramente corrispondeva a una scelta di vita, e più spesso era invece condizione di
debolezza nel mercato matrimoniale.
Per tutto il XIX secolo il modello matrimoniale prevalente nell’occidente europeo era caratterizzato da un’età elevata
e un’alta proporzione di persone che non si sposavano mai (donne 26-27 anni) soprattutto al Nord perché richiesta era
l’autosufficienza economica della coppia. Nell’Europa meridionale (Italia) il matrimonio avveniva in età più giovane
anche in ambiente rurale (24-25 anni), comunque più elevata che nelle regioni orientali e asiatiche. Anche la
percentuale di chi non si sposava, benché più bassa che al nord, era più alta dell’Europa orientale.
Medie che comunque nascondono differenze fra città e campagna e tra ceti sociali.
Vi è stato un dibattito vivace sulla presenza o meno di rapporti d’amore tra coniugi nella società del passato e sulla
presenza di fattori nella scelta del coniuge non riconducibili a valutazioni di opportunità strategiche. I giudizi storici
sono difformi. Anche per quel che riguarda quando e in quali ceti sia emersa prima la dimensione affettiva nei rapporti
di coppia.
L’analisi e la valutazione di questi fenomeni sono complicate dal fatto che i codici espressivi erano diversi dai nostri.
L’età elevata del matrimonio segnala anche possibile conflitto tra generazioni: giovani adulti la cui possibilità di
sposarsi dipende dalle risorse e decisioni familiari. Questi dovevano dilazionare entrata nello status adulto ma anche la
piena espressione della sessualità. C’era infatti uno iato di dieci anni fra pubertà ed età del matrimonio.
I tassi di nascite illegittime potrebbero essere indicatori del grado di disobbedienza giovanile o consenso famiglie
corteggiamento che prevedeva relazioni sessuali. Dalla metà XVII sino alla metà del XVIII secolo, essendo presente
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Un tempo regola per la scelta del coniuge era quella della omogamia, per cui si sposava il simile socialmente così da
garantire stabilità ed equilibrio al rapporto per la sua efficacia. Regola in tensione con l'esogamia che impone di uscire
dal proprio gruppo per allearsi con altri.
Nella società del passato il matrimonio rappresentava un strategia di alleanze familiari, la regola dell’omogamia
matrimoniale si traduceva in scelte obbligate nel gruppo professionale e ceti sociali omogenei. Solo in periodi di
transizione e trasformazione sociale, le strategie si aprono a matrimoni fra ceti diversi. Il timore dato dai rischi sociali
e familiari nel caso di rottura delle regole non riguardava solo famiglie aristocratiche e borghesi, ma anche contadine,
anche se ognuno per realizzare regola omogamia usava risorse diverse. I ceti urbani spingevano a cercare coniugi
anche molto lontano, mentre i ceti rurali contemplavano anche l'endogamia (matrimoni fra consanguinei e affini). Tra
il '500 e il '600 pare scelta di necessità in situazioni in cui i non parenti disponibili sono pochi e perciò il mercato
matrimoniale è stretto. Ciò coinvolge in modo diverso uomini e donne. L'uomo è raro e la donna abbonda. Per le figlie
va bene allora chiunque, mentre uomini possono scegliere.
Oltre che una necessità, l'endogamia rappresenta anche valore attribuito alla scelta del simile: ideale è colui che è
parente, vicino e amico così da rinsaldare legami e unificare terreni e ridurre rischi dispersione e intervento estranei.
Maggior mobilità geografica e sociale consentita dai fenomeni di industrializzazione e urbanizzazione della seconda
metà dell'800 contribuirà all’aumento della possibilità di sposarsi e di sposarsi prima e modificherà criteri scelta
coniugale aprendo mercati matrimoniali. Il Criterio della somiglianza verrà modificato e non sarà più lasciato
all'ascrizione ma anche all'acquisizione.
Il matrimonio oggi
Nella cultura del matrimonio contemporaneo ci si incontra per caso, ci si sposa per amore e per amore si resta sposati;
così come per mancanza di amore si può lasciare matrimonio.
La centralità dell'ideologia dell'amore come fondante il matrimonio rappresenta un modo storicamente specifico di
riconosce e fare i conti con la dimensione sentimentale presente in ogni società. Ogni società istituisce forme di
controllo di questa dimensione per impedirne o incanalarne gli effetti distruttivi o asociali.
Nelle società tradizionali i matrimoni non sono lasciati alla decisione dei singoli e il sentimento viene negato per il
valore dato al rapporto coniugale.
Nelle società occidentali contemporanee è al contrario la mancanza d'amore a costituire aberrazione, perciò gli
individui vengono socializzati ad innamorarsi e a farsi guidare da questo sentimento nella scelta del coniuge.
Il controllo delle famiglie e degli adulti si esercita indirettamente, controllando relazioni informali, ambienti in cui i
figli possono incontrare simili.
Il fenomeno di dating: il formarsi di coppie in età adolescenziali è infatti una forma di apprendimento/socializzazione
sia ai ruoli sessuali che alla cultura dell'innamoramento. Fornisce ai singoli indicazioni sulle caratteristiche
desiderabili e desiderate dei possibili partner. Permane omogamia sociale ed endogamia geografica; tuttavia la
mobilità matrimoniale, specie per donne e coppie eterogenee dal punto di vista dello status professionale non
mancano. La questione della somiglianza fra coniugi è infatti complessa: necessario è il riconoscimento non solo dello
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L’ideologia amore romantico costituirebbe "mediatore simbolico" delle richieste e delle tensioni contrastanti sottese
alla scelta del partner in situazioni di bassa normatività e controllo; allo stesso modo consentirebbe di smussare le
dimensioni di razionalità e di calcolo costi benefici, che pure sono sottesi nello stesso modello.
L'amore come fonte di legittimazione dunque porta a conseguenze alla struttura delle relazioni sociali e di parentela:
Ciò è reso possibile prima di tutto dalla relativa autonomia spaziale, economica, sociale della coppia rispetto alla
parentela. Quanto più ridotto spazio parentela, tanto più focalizzato e intenso è spazio della coppia, dell'intimità e del
cameratismo come modelli di relazione matrimoniale. Modello che presuppone parità e reciprocità affettiva, che può
però nascondere e legittimare subalternità di interessi e asimmetria di potere. Costituisce un passaggio obbligato in
una cultura e organizzazione sociale in cui le relazioni familiari non possono istituzionalmente valere come forma di
collocazione sociale. Sposarsi per amore è codice legittimo di separazione e automatizzazione dalla propria famiglia,
costituendosi come rito di passaggio all'età adulta.
L'ideologia con connotati erotici e sessuali costituisce inoltre rafforzamento della libertà dei giovani nella società e
nelle famiglie
I passaggi storici e culturali che hanno portato a questo modello sono diversi.
Lo spazio dell'affettività (de-erotizzata) di coppia è rimasto scisso in un primo tempo da quello dell'erotismo e della
sessualità, esprimendosi nel progetto educativo e affettivo nei confronti dei figli e nelle forme di rispetto dovute alla
donna.
Si è infatti creato "posto della donna" con sfere d'esperienza e simboliche separate dalle maschili. Trovando anche
nell'immaginario cattolico sposa come madre e nel valore della verginità e castità conferme. Le stesse donne crearono
la propria identità familiare attorno sistema morale domestico che aveva tratti di ascetismo e restrizione sessuale, per
civilizzare uomini e autodifendersi in un periodo ancora privo di contracettivi.
Il passaggio all'unità di coppia anche erotica è successivo alla creazione delle sfere separate. Rappresenta tentativo di
superare questa separazione fornendo terreno di incontro ed esistenza per la coppia. Se prima è stata la borghesia ad
essere protagonista dell'innovazione culturale, in questo secondo passaggio sono i ceti medi a spingere verso
rinnovamento.
Il terzo passaggio porta dalla fusionalità e alla negoziazione: l’amore romantico incontrandosi con le trasformazione
dei costumi e con l'emancipazione femminile dà luogo a un nuovo modello di matrimonio: negoziale in cui
l’autonomia è un valore e la base intimità della coppia.
L'industrializzazione, con l'aumento dei matrimoni e anche abbassamento età media matrimoni, porta a considerare i
primi decenni del XX secolo "età d'oro della nuzialità". Anche l’Italia è coinvolta in questo processo anche se con
ritardo e minore intensità. Forse per la più lenta industrializzazione, anche se poi c'è stata progressiva
omogeneizzazione età primo matrimonio. Anche se l’età oro è stata una stagione breve: a partire da anni '70 c'è stato
un rallentamento sia della propensione al matrimonio che un abbassamento dell'età nello stesso.
Questi fenomeni danno vita a nuovi modelli di convivenza e a nuove fasi del ciclo di vita individuale. L’abbassamento
dell’età del matrimonio avviene insieme all’abbassamento dell’età dei primi rapporti sessuali, sancendo così non solo
separazione tra sessualità e procreazione ma anche tra sessualità e matrimonio, tra sessualità e status adulto che erano
tipici del modello europeo occidentale.
La separazione è diventata netta in tutte le direzioni, sconvolgendo le sequenze attese e poi non più obbligate. Dietro
ciò vi sono cause molteplici e non lineari: diffusione amore romantico, crescente autonomia nei comportamenti e nei
consumi delle giovani generazioni, aumento scolarizzazioni, emancipazione femminile. Questi stessi fenomeni che
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L’Ideale della parità fra i sessi e allargamento sfere azione e opportunità donne hanno portato a trasformazioni del
processo di formazione coppia e nel modo di concepirla. L'amore e il sesso sono concepito come la base della coppia,
a prescindere dal matrimonio. La coppia si costruisce in un processo di verifica e negoziazione con passaggi che prima
erano autorizzati solo nel matrimonio. Kaufmann parla di coppia a piccoli passi accentuando il carattere di potenziale
reversibilità al di là del divorzio.
Ma non solo nella sessualità si gioca parità fra i sessi; l’innamoramento è sempre meno processo fusionale e
asimmetrico, al contrario nel matrimonio attuale l'obiettivo è mantenere dualità; parliamo quindi di matrimonio
conversazionale, dove il rapporto di coppia è continuamente costruito e riscritto. Non più la fine della favola, ma gli
attori decidono ogni giorno se continuare a stare insieme. Si ha democratizzazione della vita privata che ha al centro la
persona con dimensioni di riflessione ed intenzionalità.
Comunque nella realtà contemporanea diversi modelli di matrimonio coesistono, permettendo il confronto non solo
fra paesi, ma anche fra gruppi sociali all'interno della medesima società. Ogni coppia può costruire il proprio
matrimonio con pezzi di modelli diversi.
Il matrimonio si costruisce e modifica nel tempo, secondo regole e stimoli che non derivano solo dalle aspettative e
dai comportamenti dei coniugi. E' influenzato dalla presenza o meno dei figli, dalle vicende professionali, dalle
circostanze economiche; gli equilibri interni, le aspettative e i patti non solo devono considerare i mutamenti delle
circostanze e responsabilità date dalla convivenza e condivisione, ma anche le risorse e aspettative esterne. I modelli
culturali interiorizzati forniscono criteri guida per affrontare mutamenti nel tempo, possono trasformare e ciò non
avviene sempre allo stesso modo in entrambi i coniugi.
La prevalenza del rapporto rispetto alla dimensioni istituzionali e di responsabilità sociale è stata letta anche come
secolarizzazione: venir meno dimensione metaindividuale e metafamiliare del matrimonio; così le modifiche
normative propongono un matrimonio più simmetrico e più aperto a conflittualità e negoziazione, non più
irreversibile.
In Italia ciò ha avuto conseguenze sullo stesso rito, sul riconoscimento e legittimazione sociale degli sposi. Si assiste
ad un aumento del rito civile. Questo fenomeno che non riguarda solo divorziati, ma in misura crescente anche i primi
matrimoni.
La concezione secolarizzata e reversibile del matrimonio dai prima anni '80 in poi appare la più condivisa dalla
popolazione, parallelamente all'accettazione delle convivenze more uxorio, fondate non su matrimonio ma intenzione
comune di stare insieme. Dati mostrano la somiglianza degli atteggiamenti della popolazione italiana, che si
differenzia rispetto altri paesi riguardo comportamenti quali: matrimonio visto come ingresso autonomia abitativa e
vita adulta.
L’elevata età con cui si accede al matrimonio infatti, non solo prolunga permanenza dei figli a casa dei genitori, ma
amplia anche lo scarto fra sessualità attiva e autonomia nella vita quotidiana.
Per questo motivo sempre di più si sceglie di vivere in una coppia LAT (living alone together), piuttosto che in quella
convivente.
Le coppie di fatto
I matrimoni diminuiscono e le convivenze di fatto sono in aumento. Queste non sono un’invenzione recente, ma
nuovo è il significato che viene loro attribuito come il grado di riconoscimento e legittimazione.
La convivenza è ormai comportamento normale, e in molti paesi prima forma di vita di coppia. Non è più un rito di
passaggio, ma un rito di conferma (riconoscimento a posteriori).
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Le convivenze prematrimoniali sono, sia matrimoni di prova che forme di convivenza che non porteranno a
matrimonio, ma che costituiscono una forma organizzativa vita quotidiana e sentimentale. La convivenza
prematrimoniale non sembra segnare più un passaggio all'età adulta, quanto una fase dell'età giovanile; può coesistere
anche con forme di dipendenza economica dalla famiglia d'origine e condizioni non lavorative.
In situazioni di incertezza circa il proprio futuro le persone tenderebbero a non impegnarsi con una prospettiva di
lungo periodo neppure nella coppia. Si tratta però di una spiegazione parziale che non considera come la diffusione di
queste convivenze sia precedente alle trasformazioni sul mercato del lavoro e maggiormente diffuse in quei paesi dove
gli ammortizzatori sociali sono più forti ed efficaci.
Accanto convivenze giovanili vi sono anche quelle di persone in età centrali spesso con figli. Sono persone mai
sposate o con matrimoni alle spalle nella prospettiva di un'ulteriore unione matrimoniale. Non diffuse con stessa
intensità in tutti i paesi; queste si sono diffuse prima nei paesi secolarizzati nel Nord Europa, Inghilterra e Francia, poi
in quelli tardivamente secolarizzati e dove le reti familiari hanno maggiore importanza.
In Italia le convivenze prematrimoniali sono aumentate così come la durata delle stesse; come in altri paesi assumono
sempre più caratteristica di fase della vita di coppia con propria autonomia, che può o meno sfociare nel matrimonio.
Considerando inoltre i tempi fra separazione e divorzio sono aumentate quelle fra due matrimoni.
Ci sarebbe maggiore autonomia reciproca fra partner e maggiore negoziabilità dei rapporti, anche se ciò in parte
dipende dalla classe sociale. Comunque non necessariamente i matrimoni preceduti da convivenza sono più stabili di
altri. Ci sono anche dei rischi, in quanto hanno minore stabilità rispetto ai matrimoni. Sia per il fatto d'essere
sperimentazioni nel passaggio all'adultità, sia per il loro carattere negoziale che comporta aspettative e soglie di
tollerabilità diverse da un matrimonio. Non avendo riconoscimento legale e normativo il rischio è che le parti deboli in
caso di scioglimento non trovino alcuna protezione istituzionale.
Il divorzio deve essere considerato una valvola di sfogo per le tensioni, e viene utilizzato in circostanze e con
conseguenze diverse. Questo differisce da altre soluzioni quali annullamento o poliginia.
Nel tempo è cambiata la motivazione ritenuta legittima per richiedere divorzio. Ciò dipende dal modello di
matrimonio; infatti se in alcune società può essere sterilità della donna o infedeltà a motivare richieste divorzio, in
altre possono essere valide motivazioni meno specifiche relative alla qualità del rapporto di coppia: incompatibilità,
mancanza amore; mentre in alcune può avvenire solo per colpa in altre può avvenire per scelta e consenso.
Nelle società dove si è avuto aumento della durata della vita, le tensioni del vivere in coppia sono aumentate. La
possibilità d'adattamento e di conflitto infatti aumentano nel corso della vita ed inoltre ci sono mutamenti sociali e
scansioni interne.
Le conseguenze sulla struttura della famiglia sono simili nel caso della vedovanza e del divorzio, ma le conseguenze
sulle relazioni non sono identiche.
Il lutto per morte o rottura hanno possibilità diverse di elaborazione e superamento. Lutto per genitore perduto o
lontano non si possono assimilare. Specifiche sono complicazioni nella coppia e fra generazione nel caso in cui il
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In Italia il divorzio arriva tardi, nel 1970, prima ci si poteva separare ma non era possibile rendere reversibile lo stato
coniugale e quindi accedere a nuovo matrimonio.
Prima del XX secolo in Europa e USA i tassi di separazione legale e divorzio erano relativamente bassi, con la fine
degli anni '60 e soprattutto '70 iniziano a salire rapidamente. Aumentano divorzi e si dimezza la durata dei matrimoni,
e ciò accade in tutte le coorti matrimoniali a prescindere dalla durata dei matrimoni e dalla diversa età dei coniugi;
quindi persone che hanno costruito matrimonio in un contesto con modelli diversi.
Il divorzio si inscrive nella nuova logica del matrimonio: se ci si sposa, ci si sceglie per amore dunque il rapporto non
può più essere costrittivo e non può esistere al di fuori del principio che gli dà origine. La legislazione cambia perché
anacronistica rispetto a comportamenti e modelli culturali diffusi; e a sua volta il mutamento legislativo rende più
normali e legittimi quegli stessi comportamenti. Il rapporto tra divorzio e legislazione non è quindi univoco e diretto.
L’Italia si caratterizza per la tardività nell’introduzione del divorzio ed anche nell’esistenza di due processi. Vi sono in
Italia anche dimensioni contenute del fenomeno di instabilità coniugale.
In Italia continuano a separarsi e a divorziare i ceti più istruiti del centro nord, ma negli ultimi anni si diffonde anche
negli altri ceti e nelle regioni meridionali portando a una democratizzazione delle separazioni come soluzione al
conflitto.
La maggiore stabilità nel Mezzogiorno e nei ceti sociali più bassi, non significa meno tensioni nei rapporti, ma la
soluzione del divorzio è meno diffusa e magari si accettano rapporti insoddisfacenti, abbandoni, poliginia e così via.
L'accettazione del divorzio consensuale, e non per colpa, implica infatti una visione dei rapporti come simmetrico/
egualitari, una capacità negoziale che valorizza sia amore che il benessere individuale mentre sottace il valore del
sacrificio rispetto al rapporto coniugale.
L'esistenza di differenza comunque rimanda anche a tradizioni e culture diverse, e a risorse differenti con cui si
costruisce la relazione. Là dove tradizioni culturali prevedono la divisione del lavoro e l’asimmetria nel controllo
risorse economiche e sociali, il funzionamento e la continuità della coppia possono apparire vantaggiosi per entrambi
i coniugi, anche in presenza di conflitti.
In particolare il soggetto più debole può valutare gli svantaggi che potrebbero derivagli dalla rottura del rapporto.
Differenze inoltre si notano in base alla classe sociale ed alla collocazione territoriale: sono più conflittuali le
separazioni delle coppie con più basso livello di istruzione, al punto che ricorrono più facilmente al lungo processo di
separazione coinvolgono figli e minori capacità gestionale degli stessi.
Culture di genere che distinguono maggiormente le competenze e le aspettative lasciano maggiormente gli ex coniugi
senza strumenti per gestire separazione.
Si nota un aumento dell’instabilità coniugale quando la donna ha un’attività professionale: quando ha lavoro e reddito
che la rende autonoma, ha maggiore possibilità di negoziare nel rapporto coniugale e di sciogliere un rapporto che non
corrisponde più alle aspettative.
Il divorzio egualitario può essere costoso per donne e bambini che cadono in povertà perché se gli uomini investono
sul lavoro, le donne sulla famiglia e quando avviene la rottura coniugale si hanno effetti diversi per mariti e mogli. I
costi sono più gravi per chi ha meno risorse e meno forza negoziale.
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Questo fenomeno non è nuovo, ma già nel passato era reso possibile solo da vedovanza.
Oggi invece il divorzio rimette sul mercato matrimoniale una popolazione doppia. Anche se è più probabile che un
divorziato sposi una nubile piuttosto che una divorziata sposi un celibe. E se ci sono bambini le probabilità di
risposarsi diminuiscono ancora. Gli uomini divorziati hanno infatti più possibilità di risposarsi delle divorziate. Tale
differenza che non appare negli altri paesi. Inoltre in Italia tra i divorziati si risposano coloro che hanno titolo di studio
elevato.
A livello di senso comune sembra che si parli veramente di famiglia solo quando ci sono figli, mentre il matrimonio
appare necessario ma non sufficiente al costituirsi della famiglia.
Molti dichiarano che scopo del matrimonio è la procreazione; avere un figlio è ritenuto un’esperienza importante cui
solo una minoranza è disposta a rinunciare.
Il numero medio di figli che si pensa di avere è due, in contrasto però con la realtà, laddove il tasso di fecondità è
ampiamente al di sotto. Però segnala la persistenza dell'ideale della famiglia con figli e della generazione come
dimensione importante del fare famiglia.
In alcune culture non avere figli è causa sufficiente per lo scioglimento del matrimonio. Anche per la dottrina cattolica
il matrimonio è strumentale alla procreazione. Solo con il Concilio Vaticano II (1970) al fine procreativo si è
affiancato il benessere e le relazioni di reciprocità nella coppia, però il fine della sessualità coniugale rimane
comunque la procreazione.
Il posto che ha la procreazione e i figli nel ciclo della vita nella famiglia è un potente indicatore di cosa sia una
famiglia in una determinata epoca e società.
Gli studiosi di Ariès sul posto dell’infanzia nelle famiglia dell’Occidente Europeo indicano come l’immagine della
famiglia moderna, fatta d'affetti costituenti una sfera privata, sia nata dapprima come famiglia genitoriale educante e
poi come coppia coniugale amorosa.
La famiglia affettiva nasce da una ridefinizione del posto dei figli, prima che delle relazioni di coppia: da anelli della
catena generazionale che perpetua lignaggio a centro affettivo e simbolico. Si modificano così relazioni, scansione età
e percorso di crescita. Questo processo è accompagnato da una trasformazione quantitativa che vede diminuire il
numero di figli per famiglia man mano che la loro importanza affettiva aumenta, modificando esperienza di essere
figli e quella di essere genitori ed anche sessualità di coppia.
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Non si può perciò dire che nel passato la fecondità fosse del tutto incontrollata. Il fatto che fosse più alta dell'attuale è
dovuto non solo a mancanza di strumenti contraccettivi efficaci, ma anche a modello culturale e familiare in cui i figli
erano una risorsa, non solo per continuità generazionale ma anche sopravvivenza dei singoli.
Il lavoro minorile è stato a lungo una risorsa familiare importante e legittima, e se oggi provoca disagio e scandalo è
perché è appunto mutato il posto del bambino nell'ordine simbolico familiare e nell'economia domestica. I figli si
trovavano in una posizione paradossale: di rischio (costi alimentari, morte della madre…) ma anche di garanzia
(ammortizzatore dei rischi economici, forza lavoro…). Ciò si mostra con la presenza di servi, figli in eccesso che
potevano essere scambiati o assunti.
E' nelle famiglie aristocratiche e possidenti che i figli rappresentavano più visibilmente un costo: solo la dote e
l'eredità potevano garantir loro un futuro adeguato. Le pratiche di controllo per ridurre il numero figli ammessi
all'eredità suggerisce come fosse sconosciuta l'idea uguaglianza fra figli, contrapposta alle salde gerarchie di potere e
precedenze.
Figli e figlie erano precocemente inseriti in mondi differenziati tramite la divisione del lavoro, dei comportamenti
legittimi, dei saperi.
Le società preindustriali, avevano nella distinzione materiale e simbolica dei sessi, un potente ordinatore; e vivere gli
uni in costante presenza degli altri, senza spazio per l’intimità, non impediva che tali distinzioni mancassero. Una
società così apparentemente promiscua prevedeva anche nel comportamento esteriore la segnalazione delle differenze
di status e genere.
L'abito diveniva il primo segnale di appartenenza, dopo il periodo indifferenziato dell'infanzia. Usciti dall’infanzia vi
era un precoce addestramento ai ruoli adulti e alla socialità, secondo sesso e ceto. Irrilevante era l'età e non la quantità
di prestazioni attese. Ci si attendeva che prendessero presto parte alla vita adulta e precocemente erano considerati
responsabili dei propri atti (bambini in prigione, ai lavori forzati).
Figli e figlie venivano anche “spesi” in modo diverso: le figlie erano più spendibili sul mercato del servizio domestico
urbano mentre i figli su quello dell’emigrazione stagionale.
L'avere persone a servizio ha fatto parte delle strategie familiari di tutti i ceti, tranne quelli più poveri. I figli
conoscevano fin da piccoli i servi della propria famiglia e spesso avevano più rapporti con loro che con i genitori, per
sostituirli o andare a loro volta a servizio una volta grandi.
Le persone di riferimento per i giovani erano adulti-intermedi: servitori o fratelli/sorelle maggiori con cui passavano
molto tempo e da cui erano accuditi ed addestrati. I più grandi esercitavano quindi autorità e potere sui più piccoli.
L'esperienza di crescita era perciò segnata dalla presenza di persone numerose e diversificate per età, posizione,
competenze e autorità.
Così anche nelle famiglie aristocratiche, era la servitù che allevava i bambini mentre con i genitori si avevano rapporti
più cerimoniali e circoscritti. L'affidamento c'era fin dall'inizio (balie). Ciò rimase così per molto tempo e vi erano
precise gerarchie relative a compiti, sfere d'influenza sul fanciullo, con progressive separazione con il procedere
dell'età.
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Il fatto che il raggiungimento dell’età adulta dipendesse da decisioni della generazione più vecchia per gestione delle
risorse, poteva essere fonte di conflitti in famiglia. Ma questa collocazione era riconosciuta dalla società anche se non
considerava età e i bisogni legati a periodo sviluppo.
La graduazione per età intesa come graduazione dello sviluppo individuale, è un fenomeno relativamente recente e
sviluppatosi poco a poco. L’invenzione della giovinezza e dell’adolescenza come fasi dello sviluppo individuale
avviene solo verso la fine dell’800, quando il prolungamento e l’istituzionalizzazione dei processi formativi resero
visibile queste fasce di età riconosciute di conseguenza come distinte nella vita individuale. La scuola diviene lo
strumento principe di identificazione e graduazione dei non adulti secondo la loro età.
Nascita della famiglia moderna: figli, madri, padri
All’origine della famiglia moderna come ambito privilegiato dell’affettività sta il processo di privatizzazione della
famiglia stessa, il suo ritiro dallo spazio pubblico, conseguente all’affermazione dello stato moderno. Prima furono gli
aristocratici, borghesi e poi vi fu una contaminazione e un miglioramento del tenore di vita anche gli altri ceti.
Dalla seconda metà del ‘600 i figli divengono sempre più oggetto di attenzioni e strategie educative. L’infanzia si
prolunga ed emerge una lunga età dello sviluppo che va normata, protetta, controllata. Questa nuova esigenza produce
una serie di figure e spazi ad hoc, graduati secondo l’età. L’emergere dell’infanzia come età specifica è un lento
processo, che si realizza compiutamente solo nell’Ottocento, per poi diffondersi in modi differenti.
Ha conseguenze diverse per ragazzi e ragazze, poiché l’istruzione formale differenzia i percorsi maschili e femminili,
separando anche gli spazi.
Prodotto di questo nuovo modello di famiglia dei sentimenti e dell’educazione è anche la maternità. La famiglia
moderna si costruisce intorno alla madre e al bambino ed esprime nuova attenzione familiare verso i piccoli. Il
programma educativo e morale che trasforma figli da strumento a fine, riguarda anche la madre: come educatrice, ma
anche come soggetto da educare alla propria “naturale” vocazione (l’allattamento al seno diventa responsabilità
materna, altrimenti forma di indifferenza anche se spesso erano padri che per poter avere rapporti sessuali decidevano
di mandare figli a balia).
Il padre sembra mantenere caratteristiche di potere e autorità sociale della forma familiare precedente, ma da un altro
punto di vista è egli a farsi promotore entro la propria famiglia dei nuovi modelli pedagogici e igienico- sanitari nei
confronti dei figli e delle mogli. Il ruolo appare prescrittivo, di testimone piuttosto che interattivo.
Tutto questo si accompagna alla prima rivoluzione contraccettiva: modalità di regolazione che ha lo scopo di
contenere le nascite. Si diffondono forme di contraccezione “naturale” che modificano la visione della sessualità, dei
rapporti tra i coniugi e l’atteggiamento verso la procreazione e i figli. Più attenzione verso di loro. Dalla fine del XVIII
secolo la fecondità coniugale inizia a ridursi, anche per la diffusione dell’allattamento; dapprima nei ceti benestanti,
per poi diffondersi nelle classi urbane. Si tratta di una contraccezione eminentemente maschile: l’uomo controlla la
sua pulsione sessuale (coito interrotto).
Avviene una ridefinizione dei rapporti uomo-donna e dei ruoli di sesso. Il rapporto tra i coniugi è sempre più
improntato all’etica del rispetto che sul principio di piacere. La repressione sessuale può essere letta come una
strategia di coppia che consente maggior investimento nei figli e libera donna da coazione alla riproduzione. Si
capiscono campagne contro ubriachezza e atteggiamenti classi borghesi verso comportamenti sessuali delle classi
subalterne viste come non civilizzate. Anche se le donne di queste finivano per essere vittime degli uomini borghesi.
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L’educazione della madre era un progetto di disciplinamento morale: con norme di igiene e alimentazione, di
rispettabilità e di educazione a massaia. Progetto che diverrà interiorizzato solo quando ci saranno risorse per una vita
domestica vera e propria (sviluppo dell’edilizia, delle infrastrutture igienico-urbane) e quando ci sarà la possibilità di
garantire ai figli una vita migliore (una formazione più lunga per un lavoro meglio remunerato). Quando il calcolo dei
costi/benefici diviene possibile anche in questi ceti si diffonde il controllo della fecondità. Questo mutamento
chiamato dai demografi prima transizione demografica modifica l’ampiezza della famiglia e la composizione per età
della popolazione.
In Italia la diffusione di questi fenomeni è tardiva: la popolazione rurale predomina e mantiene il modello di famiglia
produttiva e feconda, dove i figli sono una risorsa famigliare. C’è tuttavia una forte differenziazione territoriale. Il
declino della fecondità iniziò nel complesso alla fine del XIX secolo con in testa le città e il Nord, inoltre in alcuni ceti
è probabile che sia iniziato prima che in altri, vista la diffusione della nuova cultura della domesticità e dell’infanzia.
In ogni caso man mano che mutano circostanze delle famiglie, i comportamenti riproduttivi divengono sempre più
oggetto di strategie esplicite, segnalando mutato posto dei figli nella società.
Anche gli usi linguistici a cavallo del XX secolo riflettono un mutamento nei rapporti tra i coniugi e le generazioni, in
direzione di una maggior legittimazione della espressione dell’affettività e della parità.
La stessa storia del pensiero pedagogico italiano costituisce indicazione processo formazione cultura dell’infanzia
divenuta soggetto e fase vita da educare. Nella seconda metà dell’800 il bambino è collocato già dalla prima infanzia
in un percorso di apprendimento e sviluppo controllati, che istituisce spazi educativi ad hoc e valorizza la funzione
educativa della famiglia e soprattutto della madre. Emerge l’immagine della donna-madre come soggetto da educare
ed educante.
Le iniziative per la custodia e istruzione dei figli di classe operaia fanno maturare bisogni di formazione, rendendo
visibile età formativa e dopo regolamentando il lavoro minorile e la frequenza scolastica obbligatoria. Nel XX secolo
comincia ad instaurarsi un rapporto inverso tra ricchezza della famiglia e fecondità: nel passato erano i più ricchi a
fare più figli (maggior sopravvivenza), ora sono i poveri a farne di più.
Dal 1950 il fenomeno della riduzione della fecondità è andato progressivamente omogeneizzandosi in tutti i Paesi.
Nella maggior parte dei paesi europei occidentali il tasso scende sotto il livello di sostituzione, ovvero sotto i 2 figli
medi per donna.
In Italia dopo il 1965 la caduta delle fecondità sembra operare in due tempi: una prima fase di declino relativamente
lenta fino al ’74 e una seconda caduta che non si interrompe, al contrario degli altri paesi dove si registra una stasi.
Fino agli anni ’70 sembrava ci fosse un rapporto diretto tra bassa occupazione femminile e alta fecondità, invece dai
’90 tale rapporto si è invertito: i paesi a più alta occupazione femminile hanno tassi di fecondità più alti. Le
spiegazione ruotano attorno al modo in cui le diverse società reagiscono all’aumento della scolarità e dell'occupazione
femminile, e al modo in cui sostengono il costo dei figli o ne promuovono l'autonomia economica.
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La diminuzione della fecondità in tutti i paesi non segnala solo una difficoltà economica e organizzativa alla presenza
dei figli, ma in primo luogo un mutato posto della filiazione nel ciclo di vita individuale e coniugale. Il
ridimensionamento del modello ideale di famiglia (dai 4 figli ai 2 figli) porta gli studiosi a parlare di una seconda
rivoluzione contraccettiva che avrebbe portato ad una seconda transazione demografica: una situazione in cui lo stato
normale della coppia è quello della non procreazione. Che avverrebbe solo come precisa conseguenza di un atto di
volontà essendosi prima interrogati su quanto, come e perché. All'origine di questa svolta ci sarebbe lo sviluppo delle
tecnologie contraccettive chimiche e meccaniche, tipicamente femminili in quanto inibiscono la fecondità femminile:
così sessualità e procreazione si scindono completamente. Se perciò la prima rivoluzione contraccettiva era
tipicamente dell’uomo (coito interrotto) questa seconda tocca direttamente le donne. Impone atteggiamento di calcolo,
data la sessualità liberata dai vincoli della procreazione e dalla necessità di auto repressione (e anche collocazione in
vincolo coniugale). Ma i motivi della forte riduzione della fecondità sono molto più complessi: scelte, motivazioni,
vincoli individuali si combinano con strategie procreative di coppia, a loro volta influenzate da situazione esterne e
cultura. In Italia il calo della fecondità è avvenuto nonostante l'assenza di conoscenza/uso di strumenti contraccettivi e
la presenza di una cultura a lungo pronatalista. I metodi contraccettivi si sono spostati da strumenti di contenimento a
strumenti di non procreazione contrattati diversamente all’interno della coppia.
Il mutamento di codice nel legittimare strategie di fecondità produce diverso contesto in cui si procrea e si hanno
rapporti fra generazioni; producendo effetti sia sull'esperienza di essere figli che su quella di essere genitori. La cultura
della responsabilità nei confronti dei figli si affianca alla cultura della scelta: si procrea solo e perché si è voluto. Il
figlio è percepito come un bene in sé, deve dare piacere e corrispondere al desiderio dei genitori. Se un tempo si
potevano deludere attese familiari oggi si è esposti al rischio di deludere le attese più profonde dei genitori. Allo stesso
tempo il valore attribuito al singolo figlio in quanto voluto ed insostituibile, fa sì che la morte sua appaia non solo
ingiusta, ma insostenibile. Non perché siamo più sensibili e affezionati ma perché siamo meno preparati alla morte
fuori dall'età anziana e consideriamo il figlio come un progetto di vita per sé e per i genitori il cui concepimento si ha
solo nella maturità/vecchiaia. La morte precoce appare interruzione di un percorso. Altra conseguenza è che se i figli
devono venire solo e quanto desiderati, ogni figlio desiderato deve nascere: la sterilità non appare più accettabile, non
solo perché non consente la piena realizzazione dell'identità sociale adulta o la continuità familiare, ma perché non
consente di dar corso a un desiderio. “Sterili per scelta” e “genitori ad ogni costo” sono le due nuove figure sociali
estreme di questo processo di ridefinizione della procreazione nella famiglia e nel corso di vita adulto.
Inoltre la famiglia essendo luogo privilegiato d'affettività ancora più può divenire luogo di violenze atroci sia fisiche
che psicologiche.
Nelle famiglie contemporanee la presenza di un o al massimo due figli offre una differenziazione delle età e delle fasi
della vita meno articolata di quella che si trovava nella famiglia numerosa ed è sempre più difficile quindi per un
bambino imparare dai fratelli/sorelle e affrontare le tappe della propria crescita perché sperimenta unicità della propria
età e posizione senza possibilità di confrontarsi e anche i genitori hanno ridotto ventaglio di esperienze da cui
attingere ed imparare. Inoltre si produce una più netta scansione del ciclo di vita familiare per quanto riguarda la
dimensione generativa. Oggi le famiglie sembrava attraversare stesse fasi dei figli e ciò porta a far sì che incontrino
altre famiglie che sono nella stessa fase senza esperienza delle altre. Chi ha scansione diversa può addirittura avere
difficoltà nei rapporti. Ciò è invece possibile entro la parentela: sperimentare ed entrare in rapporto con un raggio di
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Figli della scelta e genitori per scelta designano così nuovi rapporti e investimenti familiari in cui sono ridefinite
maternità e paternità. La maternità è quella più coinvolta. La media di due figli riempie il tempo femminile sia
materno che socialmente atteso e necessario.
Nelle società tradizionali le donne adulte con carichi familiari lavoravano forse più di oggi ed avevano una fecondità
elevata. Oggi può essere che le donne che intendono investire nel lavoro sono meno motivate di coloro che hanno un
maggiore orientamento alla famiglia. Il nesso fra fecondità e lavoro non è univoco.
Il rapporto causa-effetto può essere espresso anche in termini di coorte: in Italia la figura della madre a tempo pieno è
divenuta esperienza di massa solo alla fine dei ’50, quando le madri vivevano già in famiglie più piccole dove i
genitori erano ancora abbastanza giovani. I ’60 sono inoltre gli anni della crescita della domanda e dell’offerta di
lavoro femminile. Perciò, se la riduzione della fecondità può aver avuto effetti inattesi su organizzazione tempo donne,
per le loro figlie questa riorganizzazione può essere entrata a far parte di strategie consapevoli. Circa la paternità i dati
dimostrano che, anche se c’è un forte squilibrio di divisione del lavoro familiare, le attività di cura e di rapporto con i
figli sono rivendicate come proprie dai padri più giovani.
La riduzione della fecondità avviene e interagisce con una serie di eventi e trasformazioni sociali che definiscono lo
statuto reciproco di genitori e figli.
La scuola gioca un ruolo importante nel definire lo statuto di figlio e il curriculum di genitore: definisce il tempo della
formazione, di dipendenza dei figli e gli obblighi dei genitori. Essa fa emergere tappe evolutive come l’adolescenza e
la giovinezza e scandisce l’età adulta facendola coincide con la fine della scuola e l’ingresso nel mondo del lavoro.
Ma agisce anche come strumento di modificazione e rafforzamento della stratificazione sociale, differenziando le
generazioni e le esperienze di genitori e figli nei vari ceti e classi. Essendo inoltre cruciale nella definizione del
destino dei figli, la scuola si configura come banco di prova dell'efficacia sociale ed educativa dei genitori, quindi base
di giudizio sui genitori stessi: sulle loro capacità e disponibilità a investire effettivamente nei figli e a offrire loro le
migliori chances. Questo è particolarmente evidente con l'instaurarsi dell’obbligo scolastico, che definisce un periodo
di in cui sia i figli che i genitori hanno doveri. Ricerche recenti segnalano che il capitale culturale dei genitori ha un
effetto pervasivo sullo sviluppo delle competenze cognitive dei figli. Analogo discorso per le differenze tra i sessi, sul
diverso investimento su figli e figlie: la scuola costituisce un potente elemento di differenziazione sociale tra i sessi e
avvicinamento alle diverse opportunità; è insieme una modalità di comunicazione di aspettative differenti nei
confronti di figli e figlie da parte dei genitori.
La permanenza scolastica ha favorito anche l'emergere di contesti di esperienza orizzontali, tra coetanei, nel tempo
libero e nel consumo: è divenuto normale vivere quotidianamente tra coetanei e in spazi extrafamiliari.
Si è parlato addirittura di segregazione per età, tale che sottolineare discontinuità tra età adulta e non comunicando
inutilità sociale dei più giovani.
In realtà i gruppi dei pari in età adolescenziale e giovanile sono molto eterogenei fra loro, omogenei solo
esteriormente. Sono differenziati gli uni dagli altri, per condizione sociale di provenienza e condizione individuale dei
partecipanti. Ciò rappresenterebbe un'ulteriore conferma del ruolo di rafforzamento delle stratificazioni sociali da
parte della scuola. La distinzione degli spazi per età favorisce un processo di individuazione dei figli rispetto alla
famiglia. L'esperienza della crescita si gioca in un equilibrio tra appartenenza e individuazione. Con l'età
contemporanea sono venuti a formarsi spazi ad hoc per i giovani, alcuni istituzionali e altri meno. Questa esistenza di
un altrove più o meno legittimato, costituisce un terreno nuovo per le relazioni e i conflitti tra genitori e figli.
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Le diverse forme di ridefinizione e riconoscimento degli statuti di età e delle classi di età intervenuti in particolare dal
dopoguerra ad oggi, sono per molti versi disomogenee ed hanno contribuito a ridefinire rapporti tra generazioni nella
famiglia. L'età adulta è definita diversamente a seconda dell'ambito di vita.
Le transizioni rilevanti un tempo avvenivano su un arco di età molto più ampio, era difficile individuare una precisa
età normativa. Negli anni '70 emergono età modali per queste scansioni, così nette da suggerire formazione di modelli
normativi e le sequenze sembravano divenire lineari. Ma questo modello di scansione sembra di nuovo essere mutato
per tornare al precedente. Confini d'età che nell'ultimo secolo erano divenuti netti, si sono fatti di nuovo confusi,
costringendo genitori e figli a negoziare continuamente una definizione dei reciproci diritti e doveri rispetto a
comportamenti ed esperienze. Si designano così nuovi modelli di relazioni familiari, dove la famiglia diviene comunià
di adulti di varia età o di adulti con quasi adulti, cui sono riconosciuti ampi gradi di autonomia entro magari rapporti di
dipendenza economica senz aun chiaro modelli di autorità. Fenomeno più accentuato in paesi come lItalia dove la
convivenza con i genitori si prolunga oltre il raggiungimento della maggiore età anche se autonomi economicamente.
Si parla di famiglia lunga del giovane adulto, non sempre per necessità ma per mutua convivenza affettiva e pratica.
Diversa è la situazione in altri paesi europei in cui non è il conflitto ma il raggiungimento di una soglia d'età a
motivare aspettative e richieste di autonomia, sia da parte dei genitori che dei figli, disegnando così modelli di
solidarietà diversi fra generazioni.
Pur con queste differenza anche la legislazione ha progressivamente ridisegnato e rafforzato i diritti dei figli: il diritto
di famiglia si è spostato dall'autorità alla responsabilità genitoriale e dai doveri ai diritti dei figli. Così da diffondere
nuovo modello rapporto genitori/figli anche se non omogeneo fra società. Per questo il diffondersi di processi
migratori in tutti i paesi può consentire omogeneizzazione esperienze ma anche essere fonte di conflitto interculturale
per le diverse interpretazioni sui modelli di relazione, aspettative e comportamenti. Alcuni entrano in contrasto con
legislazione nazionale anche se rispondono a bisogni di sopravvivenza della famiglia, coinvolta in questo complesso
intreccio fra cambiamento e continuità.
Differenze ci sono anche fra generi, infatti le figlie presentano comportamenti e forme di autonomia maggiormente
conflittuali in quanto segnano rottura maggiore rispetto al passato.
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Il formarsi di una famiglia ricostituita invece ha effetti meno lineari: da un lato rischia di ridurre ulteriormente i
rapporti tra padre non convivente e i propri figli, dall'altra moltiplica le figure genitoriali, la fratria e la parentela. Ne
nascono reti parentali complesse che non hanno ancora riconoscimento sociale. Appare dunque come separazione,
divorzio, nuovi matrimoni o di coppia ha mutato i contorni e le dinamiche della genitorialità e l'esperienza dei figli,
distinguendo le dimensioni biologiche, genealogiche e domestiche.
Il prolungamento della durata della vita ha aperto una nuova fase sia nella vita dei genitori che nella vita dei figli,
laddove essere genitori o figli è una condizione che tende a durare per un arco di vita molto lungo e diversificato,
senza quella alternanza tra i due ruoli di altre epoche.
Gli anziani sono i primi ad affrontare durata lunga della vita in cui la transizione è normata socialmente: è l'età al
pensionamento che definisce gli individui come anziani. Ciò implica rapporti familiari diversificati nel tempo anche in
relazione al significato delle posizioni generazionali: la distanza di età fra genitori e figli può essere risorsa o limite
nel corso della vita. Sono stati effettuati studi circa il ruolo dei nonni nella rete parentale e nell’esperienza dei nipoti.
Si è visto come sono una risorsa di cura non indifferente, soprattutto le nonne, e che i rapporti di affetto e confidenza
maturano man mano che il nipote cresce e il nonno invecchia.
La separazione coniugale può rappresentare una discontinuità nella genealogia affettiva: i legami tra padre e figlio si
allentano, la madre non si preoccupa di mantenerli e si rompe anche il legame con i nonni della linea del genitore non
affidatario (per lo più paterni); così i minori rischiano di perdere il senso della propria appartenenza multipla.
La lunga durata della vita inoltre fa sì che l'attesa della malattia e della morte si concentrino sulle generazioni anziane,
che faticano maggiormente ad accettare la propria morte come per gli adulti appare illegittimo che essa colpisca un
membro più giovane
Le coorti nelle età centrali sono invece le prime a sperimentare come normale l'essere figli adulti e genitori di figli
adulti: sono al centro del flusso di comunicazione e scambio tra le diverse generazioni. Alcuni parlano infatti della
generazione di mezzo come fase di compressione tra i bisogni della generazione più giovani e di quella più vecchia,
soprattutto per le donne. Liberate dal tempo della procreazione viene loro richiesto di fare da madre ai propri genitori
se e quando questi non siano autosufficienti.
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Fin dagli anni settanta si era iniziato a parlare di interdipendenza tra organizzazione famigliare e organizzazione del
lavoro remunerato. A parte dagli anni novanta, in seguito alle trasformazioni della famiglia e del mercato del lavoro,
l’interferenza e l’interdipendenza che esiste tra ambito lavorativo e ambito famigliare sono state concettualizzate in
termini di problemi di conciliazione tra famiglia e lavoro.
La divisione del lavoro, l’attribuzione di compiti, responsabilità, competenze diverse agli adulti dei due sessi
costituisce uno degli elementi chiave di questa interdipendenza strutturata, che tuttavia non è affatto statica e sempre
uguale.
Un contributo importante allo studio dell’economia della famiglia (approccio dell’economia dell’aggregato
domestico) è stato dato dalle ricerche sulle donne con carichi famigliari, in particolare donne sposate con figli.
A seguito anche dei diversi movimenti femministi la condizione delle donne è divenuta oggetto di ricerca specifica
soprattutto su due temi cruciali: la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e il lavoro domestico, inteso
come lavoro necessario e specifico.
Queste ricerche, introducendo una prospettiva di genere nello studio della famiglia, hanno consentito di mostrare quali
sono i meccanismi pratici e culturali che uomini e donne mettono in atto quando fanno famiglia, per rispondere ai
bisogni di reddito e di cura che questa presenta.
All’inizio degli anni settanta uno studio ha mostrato come la presenza di uomini e di donne nel mercato del lavoro
fosse speculare alla loro diversa presenza nel lavoro famigliare: uomini nel fiore dei loro anni tutti massicciamente
impegnati nel mercato del lavoro, donne nel fiore dei loro anni tute fuori dal mercato del lavoro, a pieno tempo nella
famiglia.
Sostanzialmente appariva uno specifico modello di rapporto famigliare che consisteva nella divisione del lavoro tra i
coniugi.
La pienezza della presenza maschile nel mercato del lavoro richiedeva un’analoga pienezza della presenza delle donne
nel lavoro famigliare.
La mancanza di servizi per l’infanzia aveva innescato quindi in Italia questa forzata divisione del lavoro famigliare;
questo però non avveniva negli altri paesi europei dove erano previsti meccanismi differenti di presenza nel mercato
del lavoro. Si parla in questo caso di lavoratrici part time o anche di lavoratrici di ritorno, cioè donne che una volta
finita la fase più intensa di lavoro famigliare ritornano sul mercato del lavoro.
Anche queste due figure indicano la forte interdipendenza che vi è fra lavoro remunerato e lavoro domestico. In
pratica il permanere della necessità del lavoro domestico consente l’emergere di altre figure di lavoratori remunerati
entro la famiglia.
È proprio rispetto a questo che negli anni cinquanta si inizia a parlare di donne con due ruoli, o con due lavori.
Da un analisi svolta per comprendere il modo in cui entro la famiglia si decide chi e come si presenta sul mercato del
lavoro, emerge che il lavoro domestico viene quasi esclusivamente effettuato dalle donne; il lavoro per l’autoconsumo
viene svolto dagli anziani e dai ritirati dal lavoro; il lavoro nero viene svolto quasi esclusivamente dai giovani e dalle
donne.
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Negli ultimi decenni, in tutti i paesi industrializzati, in stretta relazione all’aumento dell’investimento nell’istruzione
da parte delle donne, la partecipazione femminile nel mercato del lavoro è aumentata.
Il tasso di attività femminile comincia a crescere nella maggior parte dei paesi occidentali alla fin degli anni sessanta,
ma diviene un fenomeno di massa solo un decennio più tardi. In Italia invece, contrariamente a ciò ce accade altrove,
la partecipazione femminile nel mercato del lavoro diminuisce nel corso degli anni sessanta e nella prima metà degli
anni settanta, per iniziare a crescere solo alla fine degli anni settanta.
Le variazioni nella partecipazione femminile al mercato del lavoro sono connesse a fattori legati alle caratteristiche
della domanda di lavoro.
La presenza delle donne nel mercato del lavoro può essere incoraggiata dalla disponibilità di lavori atipici, in
particolare della diffusione del part time. Le differenze nella partecipazione femminile nel mercato del lavoro sono
tuttavia legate anche alle caratteristiche dell’offerta di lavoro.
In altre parole, l’offerta di lavoro si forma nell’ambito di una struttura di opportunità e di vincoli in cui sono prese le
decisioni degli individui e delle famiglie. È dunque condizionata dai fattori connessi al più ampio contesto socio
istituzionale.
Un ruolo cruciale è giocato anche dal welfare state: dal modo in cui promuove sia il modello di divisione del lavoro
tra i generi e le generazioni, sia particolari modalità di divisione della responsabilità tra pubblico e privato, tra
famiglia, stato, terzo settore e via dicendo.
Nonostante negli ultimi anni la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro è aumentata, rimangono delle
differenze nei vari paesi, sia in termini di livello che di come e quali donne partecipano lungo il corso di vita.
Permane, nella maggior parte dei paesi, una netta distanza tra la partecipazione maschile e quella femminile, visto che
la chiusura del gap di genere è avvenuta solo nei paesi scandinavi.
Va inoltre segnalato che in tutti i contesti nazionali si osservano non solo disuguaglianze di genere, ma anche
differenze tra donne, in relazione al tipo di occupazione e di contratto di lavoro, alla collocazione nei lavori tipici, alla
partecipazione al lavoro nel corso della vita e in corrispondenza ad alcuni eventi. Tali differenze sono in larga misura
determinate dal livello di istruzione.
Le responsabilità famigliari continuano a condizionare l’accettabilità del lavoro retribuito proprio in corrispondenza di
alcune fasi della vita.
Va tra l’altro segnalato che in tutti i paesi, a seguito del progressivo aumento della scolarità femminile,
dell’indebolimento del legame matrimoniale e della perdita di sicurezza dei posti di lavoro, il gruppo di donne che ha
aumentato i tassi di partecipazione è proprio quello delle madri di figli piccoli.
Molte ricerche hanno documentato come donne con carchi famigliari riescano a gestire l’interferenza tra lavoro
remunerato e responsabilità famigliari nel corso della vita. Una studiosa americana aveva individuato almeno otto
modi di combinare lavoro remunerato e lavoro famigliare lungo il ciclo di vita delle donne, dal dividere nettamente i
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L’Italia, a differenza degli altri paesi, ha un gap di genere nei tasi di occupazione più elevato ed anche un divario tra
donne a basso e altro titolo di studio. Il fatto che in Italia la proporzione di occupate con alta istruzione è elevata
spiegherebbe la prevalenza del modello della continuità.
La rilevanza dell’istruzione nel mercato del lavoro indica anche che siamo in presenza di un processo di
polarizzazione all’interno dell’universo femminile, che contribuisce a rafforzare le disuguaglianze sociali nella
distribuzione del reddito tra famiglie. La partecipazione femminile al mercato del lavoro oggi è diventata cruciale
anche per la lotta alla povertà.
Differenze tra donne si trovano non solo tra occupate e non, ma anche tra occupate a tempo pieno e a tempo parziale.
Il ricorso al part time rappresenta una modalità di lavoro prettamente femminile. Il part time consente, o meglio
dovrebbe consentire alle donne, soprattutto in assenza di alternative di cura di qualità, di conciliare il lavoro
professionale con le responsabilità famigliari. Proprio per questo motivo generalmente il part time viene utilizzato
dalle donne che hanno figli ancora piccoli. A volta la scelta di questo modello di lavoro è volontaria altre invece viene
imposto come mancanza di alternative.
Le decisioni interne alla famiglia, su chi, quando e come ci si debba inserire nel mercato del lavoro, hanno
conseguenze sulla stessa domanda di lavoro. Questo a suo volta retroagisce sulle possibilità occupazionali offerte ai
membri delle famiglie, confermando ancora una volta l’interdipendenza tra organizzazione famigliare e mercato del
lavoro.
In particolare la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro costituisce un moltiplicatore della domanda di
servizi, quindi della domanda di lavoro in questo campo. Viceversa la scelta di internalizzare una serie di servizi nella
famiglia, indebolisce la capacità di produzione di reddito in quanto le donne sono costrette a rinunciare al lavoro
remunerato. In seguito all’internalizzazione si riduce la domanda di lavoro, aumentando i rischi di disoccupazione.
I dati empirici sembrano confermare questa ipotesi in quanto i tassi di disoccupazione più alti si trovano nei paesi
dove vi è un basso tasso di partecipazione delle donne nel mercato del lavoro.
L’aumento dell’occupazione femminile e l’invecchiamento della popolazione e delle reti parentali ha fatto sì che
l’interferenza e famiglia non sia confinata solo nella fase del corso di vita dove sono presenti figli minori.
L’interferenza della vita lavorativa su quella famigliare mostra i suoi effetti anche quando si cessa di lavorare nel
mercato del lavoro. Basti pensare agli anziani pensionati che devono riorganizzare la propria vita quotidiana!
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Parsons e funzionalisti sostengono la necessità della divisione dei ruoli all’interno della famiglia in quanto questo
consentiva di non giungere a conflitti di status. Il maschio, male breadwinner, si dedicava al lavoro remunerativo,
mentre la donna si dedicava al lavoro domestico ed educativo.
Questa rigida divisione del lavoro nella famiglia e nel mercato del lavoro, oggi come oggi rappresenta un costo che
non è più sostenibile.
I vincoli maggiori alla possibilità di realizzare la doppi partecipazione al mercato del lavoro derivano dalla rigidità dei
tempi del lavoro remunerativo. La nuova partecipazione delle donne nel mercato del lavoro ha significato il crollo
della figura del male breadwinner, almeno per quanto riguarda il procacciamento del reddito.
Dal secolo scorso la coppia dual-earner è il modello di famiglia maggioritario. Anzi a seguito della crisi economica
iniziata nel 2007, vi è stato un aumento delle coppie in cui la donna è la principale, o unica, produttrice di reddito. In
questo caso il reddito della donna non si aggiunge, ma si sostituisce a quello del coniuge.
La doppia partecipazione non significa che entrambi i coniugi lavorino a tempo pieno, ma può indicare anche che uno
dei due coniugi lavori a tempo parziale (one and half earner).
In Italia la famiglia a doppia partecipazione rappresenta un modello in crescita; nel nostro caso però si tratta per lo più
di due lavoratori a tempo pieno in quanto nel nostro paese non c’è una grande diffusione del part time.
La famiglia in cui entrambi i coniugi sono impiegati nel mercato del lavoro è sottoposta a forti tensioni, che possono
riguardare il sovraccarico di ruoli oppure i conflitti sul tempo. Dalle ricerche emerge che le mogli riescono più
facilmente a riorganizzare le proprie priorità per andare incontro alle richieste provenienti dalla famiglia; gli uomini
tendono a privilegiare le richieste provenienti dal lavoro.
Il grado di accettazione sociale della figura di madre lavoratrice è differenziato nei diversi contesti sociali, politici e
culturali. Una ricerca mostra che i figli della generazione che ha agito la rivoluzione di genere (18-30 anni), credono
che essere cresciuti in una famiglia dove la madre lavorativa sia stata l’opportunità migliore i genitori potevano offrire
loro.
Uno studio dedicato al tema della conciliazione tra famiglia e lavoro ha rilevato importanti differenze tra paesi e tra
uomini e donne. Gli uomini nordici mostrano un livello di conflitto tra famiglia e lavoro molto basso rispetto ad altri
paesi, dato che hanno anche orari di lavoro più brevi. Viceversa le donne dei paesi nordici sperimentano tensioni
maggior rispetto alle altre donne, oltre che agli uomini del loro paese, perché sono in prevalenza occupate a tempo
pieno, pur mantenendo la responsabilità famigliare.
C’è inoltre un’altra interferenza importante da considerare, si tratta dell’influenza che hanno sulla famiglia le vicende
lavorative del singolo, in termini di tempi e modi di carriera, di mobilità geografica e via dicendo.
Parsons stesso aveva affrontato il tema sostenendo ce l’assenza del lavoro remunerato della moglie avrebbe reso più
facile la disponibilità del marito non solo a viaggiare per lavoro, ma anche a trasferirsi portando la famiglia con sé.
Col tempo l’espressione lavoro domestico è stata sostituita da quella di lavoro famigliare. Questo comprende tutti i
lavori necessari alla riproduzione e alla creazione quotidiana della famiglia: dal lavoro domestico in senso stretto, al
lavoro di cura nei confronti dei famigliari non autosufficienti, al lavoro di consumo, che non comprende solo
l’acquisto e l’eventuale trasformazione di beni, ma anche il lavoro necessario per utilizzare i servizi pubblici e privati,
e infine al lavoro di rapporto (si riferisce all’attività di mantenimento dei rapporti entro la famiglia e la rete parentale).
Qualcuno ha definito il lavoro famigliare come lavoro d’amore; questi è un lavoro che fa sì che il suo prodotto sia
diverso da ogni altro: appunto esseri e rapporti umani.
L’analisi sul lavoro domestico e di cura ha fatto riemergere come la divisione del lavoro famigliare sia sostanzialmente
riferibile a una netta divisione di genere. Il lavoro famigliare è un insieme necessario ma questi è allocato non solo in
modo squilibrato, ma bensì a priori.
Nonostante i cambiamenti avvenuti nella partecipazione femminile nel mercato del lavoro, il lavoro famigliare,
domestico e di cura, continua a essere svolto prevalentemente dalle donne, nel loro ruolo di mogli e madri, anche
quando lavorano.
L’aumento della partecipazione delle donne nel mondo del lavoro remunerato non ha avuto come contropartita un
analogo aumento di partecipazione dei padri e mariti nel lavoro domestico.
Le diverse ricerche effettuate in campo dimostrano come le donne, anche quando occupate a tempo pieno, destinano al
lavoro di cura e al lavoro famigliare quasi il doppio del tempo degli uomini. Questo divario è ancora più accentuato
nel caso italiano.
La diminuzione dell’orario di lavoro domestico in alcuni paesi non è dovuta a una maggiore collaborazione dei mariti,
ma a una autoriduzione effettuata dalla donne stesse; questa autoriduzione viene attuata vuoi tramite la riduzione del
numero dei figli, vuoi tramite il mutamento degli stili di vita.
Ciò può indicare trasformazioni nella abitudini famigliari e nella stessa organizzazione della vita quotidiana, proprio
nelle coppie due entrambi lavorano.
Concludendo si può dire che, anche nelle coppie dove la donna lavora, parte del lavoro famigliare è svolto dalla
componente femminile. Le donne che lavorano nel mercato diminuiscono il lavoro famigliare, in particolare quello
domestico e non quello dedicato ai figli (che risulta persino superiore al tempo dedicato dalle madri casalinghe).
I padri sono più collaborativi rispetto al passato anche se la loro presenza nel quotidiano è molto selettiva, cioè essi
privilegiano le attività ludiche e di socializzazione piuttosto che quelle d cura.
La famiglia e il diritto
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Progressivamente negli stati moderni nell’ambito del diritto civile si è andato consolidando un corpus di norme
riguardanti proprio i rapporti famigliari: il diritto di famiglia.
Sono principalmente tre le relazioni di cui si occupa il diritto di famiglia: le relazioni di coppia; le relazioni tra genitori
e figli; le relazioni tra membri del nucleo famigliare e quelli appartenenti alla rete parentale.
Inizialmente è stato solo il codice civile la fonte di regolazione dei rapporti famigliari. In un secondo momento con
l’ampliarsi dei settori di intervento e di produzione normativa da parte dello stato, i diritti e i doveri derivanti da tali
relazioni sono stati oggetto anche di altri istituiti normativi quali la Costituzione Nazionale, il diritto penale, il diritto
amministrativo, la stessa giurisprudenza. Sono entrate in gioco anche fonti normative europee, come la Carta dei diritti
dell’uomo, la Carta dei diritti del fanciullo, la Costituzione europea.
All’origine della regolazione giuridica della famiglia possiamo individuare due modelli:
• CODICE NAPOLEONICO (Code Napoléon, 1804): questo venne introdotto nei paesi occupati dalle truppe
napoleoniche ed ha fatto da modello a gran parte degli ordinamenti di diritti scritto (civil low) introdotti in Europa nel
XIX secolo.
L’idea di famiglia presente è quella di una famiglia forte in uno stato forte. Il compito di comando all’interno della
famiglia è demandato all’uomo, il quale detiene la potestà paterna, nei confronti dei figli, e quella maritale, nei
confronti della moglie. La filiazione era basta sulla legittimità, quindi sulla distinzione tra figli legittimi e illegittimi.
Con il codice napoleonico lo stato avoca a sé totalmente la disciplina del matrimonio, intesa in senso laico e civile.
Esso non era visto più come una scelta individuale, ma come un affare di famiglia dipendente dall’autorità paterna e
da quella maritale.
Una grande innovazione introdotta dal codice napoleonico fu quella del divorzio, il quale non veniva ammesso per
volontà individuale ma bensì come sanzione, fondato sulla colpa, concesso solo per adulterio, eccessi, sevizie, ingiurie
gravi o per condanna o anche per mutuo consenso;
• MODELLO NEGLI ORDINAMENTI DI COMMON LOW: contrapposto al Codice napoleonico vi è il
modello ritracciabile nei paesi anglosassoni. Questi paesi sono caratterizzati dalla mancanza di legislazione organica e
unitaria. Anche nell’ambito del diritto di famiglia i paesi di common low si caratterizzano per la scarsità di
normazione giuridica. In questi paesi veniva regolata solo in parte la relazione di coppia, mentre mancavano delle
leggi chiare in materia di filiazione e sugli obblighi dei genitori verso i figli, che venivano considerati di natura morale
più che giuridica. La famiglia era concepita più come un’istituzione morale e religiosa, privata e impenetrabile dalla
giustizia; nonostante non fosse disciplinato la divisione dei ruoli per genere ed età all’interno della famiglia, così come
le relazioni gerarchiche basate sulla paternità, erano ben chiare. I rifermenti alla famiglia sono spesso ricorrenti nelle
POOR LOWS inglesi, che proprio alle famiglie attribuivano l’obbligo di assistere gli indigenti.
Nonostante le diverse tradizioni sopra elencate vi sono autori che sostengono che il diritto di famiglia di quegli anni si
occupava principalmente della classi medie, ispirandosi a una famiglia liberal-borghese. Al contrario le prime leggi
pubbliche a carattere assistenziale e amministrativo erano rivolte innanzitutto al ceto popolare e, in primis, alle
famiglie povere e operaie. Le prime legislazioni a tutela dei minori miravano quindi a normalizzare le famiglie
operaie.
Gli ordinamenti giuridici europei hanno iniziato ad assumere l’aspetto attuale solo a partire dalla fine degli anni ’50
fino agli anni ’60 del novecento. Le riforme presentate nel secondo dopoguerra hanno ridotto le differenze esistenti
precedentemente nel diritto di famiglia, in una tendenza che va verso la sostanziale convergenza. Altri invece
sostengono il permanere delle differenze soprattutto sia per quanto riguarda le relazioni famigliari, sia per quanto
riguarda le nuove forme di famiglia.
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Dall’Unità al fascismo
Nel periodo antecedente all’unità d’Italia ogni stato aveva le sue leggi in materia di diritto famigliare. Nonostante
questo vi erano dei comuni denominatori tra le varie regolamentazioni della famiglia consistenti nel duplice privilegio
per il primogenito maschio e dell’inuguale distribuzione dei diritti fra i figli maschi e le figlie femmine, e tra marito e
moglie.
La prima regolamentazione postunitaria è il cosiddetto Codice Pisanelli (1865), che si ispirava al Codice napoleonico
sia per quanto riguardava la limitazione dell’autorità paterna sulla prole adulta (patria potestà), sia nel riconoscere
uguali diritti ai figli di fronte alla successione, sia nell’attribuire ulteriore autorità al marito attraverso il principio
dell’autorizzazione maritale.
Il divorzio, che era stato riconosciuto da alcuni stati precedentemente all’unione, non venne riconosciuto nel Codice
Pisanelli e la separazione fu concessa solo in caso di adulterio, per colpa di uno dei coniugi. La colpa per adulterio
però era differente tra il marito e la moglie; al marito si riconosceva un diritto alla trasgressione maggiore rispetto alla
moglie. A questi inoltre era riconosciuto un illimitato potere disciplinare sia per quanto riguarda la moglie che i figli.
Le leggi che disciplinavano le relazioni famigliari rimasero immutate fino a quando non venne approvato, nel 1930, il
Codice penale (Codice Rocco), e in seguito il Codice civile fascista. Per questi due Codici la famiglia era un istituto
sociale e politico. Il Codice fascista inoltre rafforzò l’autorità del marito/padre sancendo nel contempo la
subordinazione degli interessi famigliari rispetto a quelli nazionali (la famiglia veniva dopo la nazione).
Il Codice fascista rimase in vigore anche durante i primi decenni della Repubblica; la parte riguardante la famiglia è
stata modificata solamente con la riforma del diritto di famiglia del 1975.
L’influenza degli ideali fascisti era stata molto forte anche in ambito famigliare, favorendo una forte attività legislativa
a diversi livelli: attraverso il CONCORDATO (istituzione del matrimonio concordatario che unificava il matrimonio
civile a quello religioso) e attraverso norme che incoraggiavano il matrimonio e la fecondità, punivano l’aborto e
scoraggiavano il lavoro extradomestico delle donne sposate. L’intervento del regime fascista sulla famiglia si realizzò
anche attraverso la creazione di politiche sociali volte a scongiurare il declino della fecondità e a mantenere quella
idea di famiglia autoritaria e patriarcale.
Sotto questo aspetto anche la Chiesa cattolica era totalmente in accordo con le politiche e la concezione di famiglia
proposta dal regime; secondo la chiesa cattolica la famiglia era essenzialmente composta dall’uomo adulto,
procacciatore di risorse e capofamiglia, e la donna, che ricopriva il ruolo di madre e di moglie, e il suoi compiti si
limitavano al lavoro domestico e al lavoro di cura dei figli.
La struttura gerarchica della famiglia che il regime proponeva era stato ereditato dal vecchio Codice Pisanelli e fu
anche influenzata dalla definizione di matrimonio e famiglia contenute nella legge canonica che disciplinava il
matrimonio religioso.
“Chi stipulava un matrimonio concordatario entrava, pertanto, dentro una struttura giuridica e simbolica che
enfatizzava una gerarchia doppia: tra i sessi e le generazioni.”
Ne è un esempio la fissazione di diverse età minime per accedere al matrimonio: per i ragazzi 16 anni e per le ragazze
14.
42
Il riconoscimento della famiglia a livello costituzionale non è un fenomeno peculiare solo nel nostro paese. Anche gli
altri paesi europei tutelano la famiglia e la considerano come istituzione fondamentale della società. In realtà però, più
che la famiglia, molte costituzioni, tutelano l’istituto matrimoniale, introducendo nel sistema rigidità che non
consentono al legislatore ulteriori aperture sia legali che culturali.
In sede costituzionale emersero come oggetto di discussione fondamentalmente cinque questioni attinenti alla
famiglia:
1. La definizione e il posto della famiglia nella Costituzione;
2. La parità tra i coniugi e la rappresentazione del ruolo della donna nella famiglia e nella società;
Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia
dell'unità familiare.”
La formulazione del primo comma ha aperto dibattiti in merito al fatto se questo intenda dare una definizione univoca
di famiglia oppure intenda sottolineare il fatto che lo stato sia obbligato a riconoscere questa famiglia come una bene
da salvaguardare.
Nel secondo comma viene sancita la parità tra i coniugi, tuttavia questa può essere temperata allo scopo di garantire
l’unità della famiglia.
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le
condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre
e al bambino una speciale adeguata protezione.”
Sostanzialmente il principio di parità tra i coniugi viene messo in contrasto con altri due principi: quello dell’unità e
quello della solidarietà.
Uomini e donne sono uguali, salvo nel caso in cui sia in questione l’unità famigliare.
Lo stesso vale anche per la sfera extra famigliare. Se è vero che l’articolo 3 sancisce l’uguaglianza tra i sessi e
l’articolo 37 il diritto a uguale trattamento retributivo tra uomini e donne, è anche vero che lo stesso articolo 37
stabilisce che l’occupazione delle donne non deve interferire nell’adempimento della loro essenziale funzione
famigliare.
“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio.
Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.
La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri
della famiglia legittima.”
In base a questo articolo filiazione e matrimonio vengono in parte disgiunti e possono creare costellazioni famigliari
differenti.
Con la riforma del diritto del 1975 sarà possibile riconoscere anche i figli nati fuori dal matrimonio ma questi
rimarranno sempre in posizione inferire, in tutti gli aspetti giuridici, rispetto ai figli legittimi,
Per una totale equiparazioni e tra figli nati fuori dal matrimonio e figli legittimi bisognerà aspettare il 2012.
Durante tutti gli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta le tensioni tra i principali contenuti della
Costituzione e le relazioni famigliari erano ancora regolate dalle leggi fasciste; questo permise ai giudici di aderire
sempre di più ai principi che sancivano la priorità dell’unità famigliare e la protezione della famiglia legittima.
Fino al 1968 l’adulterio della moglie e del marito erano puniti in maniera differente. Il marito veniva punito solo
quando l’adulterio si trasformava in concubinaggio visibile; per la moglie invece bastava solo il semplice sospetto.
Anche la contraccezione e l’aborto erano regolate da leggi punitive, fino all’approvazione nel 1978 della legge
sull’interruzione della gravidanza.
Si dovrà attendere il 1975 per raggiungere la piena uguaglianza tra i coniugi e una definizione di famiglia più
democratica.
Alla fine degli anni sessanta e all’inizio degli anni settanta, in seguito ai diversi movimenti sociali, in quasi tutti i paesi
occidentali i rapporti tra i due sessi divennero più paritari.
Con l’introduzione del divorzio nel 1970 e infine con la riforma del diritto di famiglia del 1975 si giunge a un
definitivo tramonto di quella che era la concezione tradizionale di famiglia.
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Per quanto riguarda i rapporti di filiazione vi è il riconoscimento della parità tra figli nati fuori e dentro il
matrimonio, anche se limitatamente ai diritti nei confronti dei genitori. Si afferma il principio di prioritario interesse
per il minore. Viene inoltre sancita la differenza tra gli obblighi di mantenimento e gli obblighi di cura ed educazione.
In caso di separazione e occorre sentire obbligatoriamente il parere del minore qualora questo abbia almeno 16 anni
(portato ora a 12 anni).
La legge sull’interruzione della gravidanza risale al 1978. Nello stesso anno inizia, da parte de movimenti
femministi, una lunga e dura battaglia per la legge sulla violenza sessuale che si concluderà solo nel 1996.
Oggi nel nostro ordinamento la parità tra i coniugi sembra quasi perfetta tranne che per due aspetti:
• l’esercizio della potestà genitoriale (ora responsabilità genitoriale): la legge infatti prevede che quando si tratti
di prendere decisioni urgenti nei confronti dei figli e non vi sia tempo di ricorrere al giudice, la decisione spetta al
padre;
• il cognome di famiglia: il codice civile stabilisce che la moglie aggiunge al suo cognome quello del marito e i
figli assumono il cognome del padre.
Negli ultimi anni quasi ovunque sono state approvate riforme del diritto di famiglia. Queste sembrano essere
accomunate dal prediligere un orientamento volto a regolare il conflitto coniugale, soprattutto nel caso ci siano minori,
più che a imporre schemi rigidi di comportamento coniugale.
Continuano comunque a permanere alcune differenze tra i diritti presenti nei diversi paesi. Questo è dovuto
sostanzialmente ai differenti retaggi culturali, politici, religiosi e sociali presenti nei diversi stati europei.
Per quanto riguarda la relazione stato – famiglia si può osservare un restringimento dell’intervento del diritto di
famiglia per quanto riguarda le relazioni di coppia e un più incisivo intervento per quanto riguarda la
regolamentazione delle relazioni tra genitori e figli. Contemporaneamente vi è stata una dilatazione dell’intervento
pubblico attraverso politiche sociali: dalla legislazione sui diritti delle madri lavoratrici, all’espansione dei sussidi
monetari a sostegno delle famiglie, allo sviluppi dei servizi di cura per l’infanzia.
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La natura e la forma che può assumere il matrimonio è simile nei vari paesi, ma ciò che li differenzia è le conseguenze
derivanti, dal punto di vista patrimoniale, dalla separazione, dal divorzio o dalla morte del coniuge.
In Italia ad esempio fino alla riforma del diritto di famiglia il regime patrimoniale normale era la separazione dei beni;
questo presumeva che in mancanza di diversa convenzione tra i due sposi, questi rimanevano proprietari ciascuno
delle sue cose, acquisite prima o durante le nozze. Con la riforma invece si è stabilito come regime patrimoniale
normale la comunione dei beni, anche se la coppia può sempre optare per la separazione, previa dichiarazione.
Entrano in comunione i beni e le proprietà acquistate dai coniugi all’interno del matrimonio.
N.B. Il regime di comunione dei beni è quello più favorevole per il coniuge economicamente più debole, in caso di
separazione, di divorzio o in caso di vedovanza.
Divorzio
In Italia per molti anni l’unico rimedio previsto per il fallimento del matrimonio è stata la separazione legale. Il
divorzio è stato introdotto nel 1970.
I tutti i paesi influenzati dal Codice napoleonico e anche negli ordinamenti di common law il divorzio veniva intesto
come una sanzione, cioè veniva concesso solamente per colpa di uno dei coniugi e su richiesta del coniuge
incolpevole.
Col passare degli anni si è passati quindi dalla concezione del divorzio-sanzione a quella di divorzio-rimedio.
Fu la California a introdurre per la prima volta il divorzio senza colpa. In base a questo principio si poteva ricorrere al
divorzio anche senza la colpa di uno dei due coniugi. Bastava che differenze inconciliabili fossero causa della rottura
del matrimonio.
Influenzati dalla California anche gli altri stati americani ed europei hanno introdotto il divorzio-rimedio, ma
rimangono comunque delle differenze tra i diversi stati.
Il modello a cui si ispirò la legge del 1970 fu quello del rimedio al conflitto coniugale, piuttosto che della colpa. Il
divorzio può essere concesso quindi qualora:
• il matrimonio non è stato consumato;
• uno dei due coniugi sia stato condannato per un lungo periodo di detenzione;
• i coniugi siano stati legati e separati da almeno 5 anni (portati successivamente a 3).
Negli anni successivi all’entrata in vigore della legge potevano richiedere la separazione anche i coniugi che erano
separati di fatto da almeno 7 anni.
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Con la riforma del 1987 il numero di anni per accedere al divorzio, tramite la separazione, è passato da cinque a tre.
A differenza di quando accade negli altri stati, in Italia il divorzio continua ad essere un processo lungo e faticoso.
In tutte le legislazioni, sia quella italiana che quelle degli altri paesi, l’interesse dei minore è stato considerato un
principio preminente.
L’interesse del minore è diventato il principio a cui devono ispirarsi tutte le legislazioni nazionali sin dalla
Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959.
Sul significato da attribuire ai principio d’interesse del minore, definito, a seconda dei contesti, superiore, prevalente
ed esclusivo, si sono aperti molti dibattiti. C’è chi sostiene che il significato di questo sia troppo indeterminato ed
elastico e quindi non consente di farne una applicazione oggettiva. La concreta determinazione di questo principio è
assai complessa e dipende in parte dai valori e dalla cultura sia dei legislatori che dei giudici.
È proprio sulla base di questo principio che, negli anni settanta, i figli nati fuori dal matrimonio sono stati equiparati a
quelli nati all’interno del matrimonio. Fino alla legge 219 del 2012 però i figli nati fuori dal matrimonio non erano
totalmente equiparati ai figli legittimi nei diritti. Questi avevano una parentela legale pressoché inesistente; il loro
diritto a subentrare per via ereditaria ai genitori nella proprietà di beni immobili e imprese era subordinata al diritto
prioritario dei figli legittimi. Inoltre in caso di rottura della coppia era il tribunale dei minori e non quello civile a
intervenire, stante l’inesistenza della coppia in quanto tale. Il genitore non convivente e non affidatario aveva meno
diritti di quello separato in analoga situazione e non poteva aspirare all’affidamento congiunto.
Il riconoscimento di paternità è il vincolo legale di mantenimento, educazione e istruzione che i genitori hanno nei
confronti dei figli. In tutti i paesi una volta stabilito il vincolo legale di filiazione i genitori sono obbligati a provvedere
al mantenimento e alle spese di educazione dei figli. In ogni paese il diritto al mantenimento varia con l’età; nel caso
italiano il mantenimento può essere riattivato ogni volta che il figlio si trova in condizioni di bisogno.
Genitorialità biologica e genitorialità legale e sociale non sempre coincidono. Qui ci troviamo nel caso dell’adozione
o del ricorso a tecniche di riproduzione assistita. Il riconoscimento legale di un rapporto di filiazione non esaurisce i
possibili modo di diventare genitore. Ai può essere madri o padri sociali, come nel caso della famiglie ricostruite, così
come si può essere genitori adottivi o genitori affidatari.
Così come ci sono casi in cui è impedito essere riconosciuto genitore (caso dei bambine nelle coppie omosessuali), ci
sono anche casi in cui un genitore non intende essere tale e quindi non vuole essere rintracciato. Mentre in alcuni paesi
è obbligo per la madre dichiarare il nome del padre ai servizi pubblici. In Italia una donna può scegliere di partorire
anche nell’anonimato qualora non voglia mantenere il bambino. Il diritto inglese invece proibisce l’anonimato, in
nome del diritto del bambino di conoscere le proprie origini.
Un altro tema al centro di numerosi dibattiti è stato in materia di procreazione medicalmente assistita. In molti
paesi, fino a pochi anni fa, era garantito l’anonimato ai donatori. Le differenze nei vari paesi in materia di
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La responsabilità genitoriale in caso di separazione e divorzio – a partire dagli anni novanta in poi la potestà sui
figli è stata estesa a entrambi i genitori, così come ambedue devono assolvere i loro doveri di mantenimento,
istruzione ed educazione dei figli.
Negli ultimi anni poi, si è diffuso nel nostro paese sempre di più l’idea che nonostante la separazione i figli debbano
mantenere costanti rapporti con entrambi i genitori. Per questo motivo è stato previsto l’affidamento condiviso, che
consente la piena condivisione della responsabilità genitoriali ed un esercizio congiunto della potestà anche dopo la
separazione o il divorzio.
In Italia l’affidamento condiviso è rimasto a lungo poco diffuso e l’affidamento esclusivo alla madre è stato il modello
prevalente, anche se negli ultimi anni i giudici si stanno spingendo sempre di più verso l’affidamento condiviso.
La legge 54/2006 sancisce per l’appunto, il diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con
entrambi i coniugi anche dopo la separazione e stabilisce che il giudice valuti prioritariamente la possibilità che i figli
siano affidati ad entrambi i genitori.
Vi sono state comunque delle discussioni in merito all’affidamento condiviso in quanto si ritiene essere difficile nei
casi di forti conflittualità tra i genitori ed inoltre sono stati previsti davvero pochi strumenti per mettere gli ex partener
in condizione di co-genitori.
L’adozione e l’affidamento famigliare in Italia – in molti paesi si è affermata l’idea che i bisogni del minore debbano
essere prioritariamente soddisfatti nell’ambito della famiglia d’origine, e in caso di incapacità di quest’ultima, è
necessario trovare una famiglia sostitutiva.
In Italia, già prima della riforma del diritto di famiglia, era stata introdotta la legge di adozione speciale, che
permetteva anche agli adulti che non potevano avere figli di soddisfare questo desiderio e consentiva ai bambini senza
famiglia di averne una. La successiva riforma del 1983 ha reso questo modello di adozione normale.
L’adozione legittimante è entrata nel nostro ordinamento come un istituto che avrebbe potuto soddisfare differenti
aspettative, ma in primo luogo avrebbe diminuito il numero di minori che vivevano in istituto.
La legge 184 del 1983 ha inoltre introdotto l’istituto dell’affidamento famigliare. L’adozione e l’affidamento sono
pronunciati dall’autorità giudiziaria, che interviene in condizione di disagio famigliare talmente gravi da richiedere
l’allontanamento del minore dalla sua famiglia. Nell’affidamento l’allontanamento è provvisorio mentre nell’adozione
è definitivo.
L’affidamento è stato previsto per diminuire il numero di minori che stanno in istituto, ma che non sono in stato di
adottabilità. La legge prevede due forme di affidamento: quello attivato attraverso accordo consensuale (la famiglia
acconsente) e quello stabilito dal tribunale per i minori. A differenza dell’adozione che è riservata solo alle coppie
sposate, possono ricevere in affidamento un minore anche i singoli o le comunità.
Le famiglie affidatarie ricevono un contributo economico soltanto in quei comuni muniti di un organico sistema di
assistenza. La legge comunque non prevede obblighi da parte degli enti in materia di finanziamento.
Con la legge 149/2001 sono state apportate della modifiche in materia di adozione. In primis è stata elevata a 45
anni la differenza di età tra adottato e adottante; è stato riconosciuto il requisito di stabilità di coppia anche alle coppie
di fatto ma solamente dopo che queste si sono sposate e purché abbiano convissuto in modo stabile e duraturo per
almeno tre anni prima del matrimonio. Infine è stato introdotto l’obbligo per i genitori adottanti di informare l’adottato
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Obblighi intergenerazionali e di parentela – ancora oggi i confini della famiglia sono diversamente disegnati da un
paese ad un altro. In Italia ad esempio, anche dopo la riforma del diritto di famiglia, gli obblighi agli alimenti non sono
stati del tutto eliminati. L’attuale Codice civile, all’articolo 433, prevede infatti che sia i parenti che gli affini siano
tenuti, in caso di bisogno, a fornire sostegno economico gli uni verso gli altri sia in relazione al grado di parentela sia
in base alle risorse di cui dispongono. I nonni sono tenuti al mantenimento dei nipoti e dei figli qualora questi versino
in condizioni di bisogno. I fratelli e le sorelle sono tenuti gli uni verso gli altri e i figli sono obbligati verso i genitori.
Sono tenuti agli alimenti anche tutti i parenti affini: suocere, nuore e generi.
Sostanzialmente sono due i motivi per cui permangono ancora nel nostro diritto i doveri agli alimenti; in primis essi
ribadiscono l’importanza della solidarietà famigliare per il funzionamento della società. In secondo luogo gli obblighi
alimentari devono essere visti nell’ottica più ampia del principio di sussidiarietà che vige in alcuni tipi di welfare.
Quando un soggetto si rivolge ai servizi socioassistenziali per problemi economici, questi verificheranno prima se non
via sia un parente in grado di poter soddisfare tale bisogno e solo qualora non vi siano procederanno con l’intervento
di assistenza.
In Italia con l’espressione famiglie di fatto si intende una forma di vita famigliare non basata sul matrimonio.
Alla luce della deistituzionalizzazione del matrimonio, della degiurificazione della relazione di coppia e della
separazione tra status dei figli e matrimonio, anche la differenza tra famiglia basata sul matrimonio e unioni non
basate sul matrimonio tendono a ridursi.
Le norme che regolano il matrimonio sono diventate più flessibili, lasciando sempre più libertà ai coniugi sul modo di
vivere la loro relazione.
La questione delle coppie di fatto apre due ordini di problemi che sono analizzati distintamente. Il primo riguarda la
differenza di trattamento giuridico dei due tipi di coppie eterosessuali e dei loro figli. Il secondo riguarda il trattamento
giuridico riservato alle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali.
L’Europa si è mossa nella direzione dei riconoscimento dei diritti sia delle coppie conviventi che di quelle
omosessuali. Anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), attraverso l’articolo 8, ha riconosciuto il diritto
al rispetto della vita privata e famigliare; attraverso l’articolo 12 ha riconosciuto il diritto al matrimonio ed
attraverso l’articolo 14 il diritto alla non discriminazione.
Il riconoscimento legale delle coppie di fatto ha trovato differenti soluzioni da un paese all’altro, non solo in relazione
alle diverse immagini di che cos’è la famiglia, ma anche considerando il modo in cui la decisione di non unirsi in
matrimonio è stata interpretata. La decisione di convivere può essere interpretata come prevalentemente privata, cioè
non sarebbe richiesto un intervento della legge, o viceversa, può essere considerata come una scelta di interesse
pubblico, considerando importante quindi un intervento della legge che tuteli i membri della coppia in caso di rotture.
Va inoltre sottolineato che in un paese religioso come l’Italia è difficile non subire le influenze del cattolicesimo, ed è
anche per questo che finora non è stato possibile legiferare in questo ambito.
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Il riconoscimento delle unioni omosessuali di norma, in quasi tutti i paesi, è avvenuto successivamente a quello delle
unioni eterosessuali; ma ovunque si osserva che, una volta che queste sono state regolamentate, il riconoscimento di
quelle costituite da due persone dello stesso sesso è una passaggio scontato.
La prima forma di riconoscimento delle unioni omosessuali è stata la convivenza registrata o l’unione civile. Il primo
paese a riconoscere l’unione civile è stata la Danimarca, seguita a ruota dai paesi scandinavi.
Nei paesi scandinavi le convivenze registrate operavano come una sorta di quasi matrimonio, dato che si riconosceva
alle coppie che desideravano registrare la loro unione diritti pari o poco differenti rispetto al matrimonio, in termini di
dritti patrimoniali, fiscali, successori e sociali. Successivamente poi sono stati riconosciuti alle convivenze registrate
gli stessi diritti anche per quanto riguarda la genitorialità. Il modello scandinavo ha subito una svolta quando anche
alle coppie omosessuali è stato riconosciuto il diritto al matrimonio.
Un secondo modo di riconoscere le coppie di fatto sia etero che omosessuali è stato quello della Francia, con
l’introduzione dei PACS (Pacte civil de solidarité) nel 1999. Questi si differenziano dalle convivenze registrate del
modello scandinavo, non solo perché sono rivolte a tutte le coppie indipendentemente dal sesso, ma anche perché tale
istituto costituisce praticamente un patto di mutuo soccorso. Si tratta di un’unione assistenziale e solidarietà reciproca
tra i contraenti, sulla quale non incide la caratterizzazione sessuale perché non è posta alla base del rapporto; lo stesso
avviene con la convivenza, che non è nemmeno richiesta.
Con i PACS, i diritti riconosciuti alla coppia possono in parte essere decisi su misura della coppia stessa e sono
inferiori a quelli riconosciuti nel matrimonio. Questi non prevedono né l’adozione e nemmeno alcun diritti sociali
(pensione di reversibilità e successione). Nel 2013 anche la Francia e gli USA introducono il matrimonio
omosessuale.
Nel 2001 l’Olanda è stato il primo paese a introdurre il matrimonio civile per gli omosessuali. Si trattò in quegli anni
di una svolta epocale nel riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Il Belgio lo introdusse sulla base di
questo modello nel 2003, la Spagna nel 2005; i Paesi Scandinavi tra il 2009 e il 2010, il Portogallo nel 2010, in
Inghilterra e Galles nel 2013. Rimangono ancora alcune piccole differenze; il matrimonio omosessuale dà pieno diritto
all’adozione a patto che questa non sia internazionale, ciò viene deciso nel rispetto delle differenze culturali dei paesi
di provenienza dei minori.
Il rapporto di genitorialità e soprattutto quello di filiazione dei nuovi modelli familiari costituiti da coppie dello
stesso sesso è un tema che sta sollevando molte perplessità.
Il riconoscimento del diritto alla genitorialità per le coppie omosessuali è divenuto un tema saliente soprattutto da
quando il Parlamento europeo ha invitato la Commissione europea a sollecitare gli stati membri affinché rimuovessero
le barriere che impedivano alle coppie omosessuali di adottare o di prendere in affidamento un minore.
Diversi stati attualmente hanno aperto a questa possibilità, sia tramite l’adozione sia tramite il ricorso a tecniche di
riproduzione assistita con donatore/ice.
La CEDU ha espressamente dichiarato che gli stati che riconoscono ai single di adottare devono, in base al principio
di non discriminazione, assicurare anche alle persone di diverso orientamento sessuale di essere riconosciuti come
genitori.
In effetti gay e lesbiche possono diventare genitori in diverso modo. Possono avere figli da un rapporto di coppia
eterosessuale precedente e quindi mantengono il loro status di genitori. Possono diventare genitori adottivi tramite
richiesta come genitore single, o in alternativa un membro della coppia omosessuale può adottare il figlio del proprio
partner. Infine possono fare richiesta congiunta di adozione, come le coppie eterosessuali.
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Le unioni civili in Italia questa legge affonda le sue radici nel 1986, quando in Italia fu proposto un istituto giuridico
simile per iniziativa delle parlamentari comuniste e dell'Arcigay: furono, infatti, la senatrice Ersilia Salvato e le
deputate Romana Bianchi e Angela Bottari ad aprire, per la prima volta, la discussione sulle unioni civili nelle
rispettive Camere di appartenenza.
La prima vera proposta, però, arrivò soltanto due anni dopo, nel 1988, quando Alma Cappiello, avvocato e
parlamentare socialista, presentò la cosiddetta Disciplina sulla famiglia di fatto, che non fu mai calendarizzata per la
discussione perché adombrava in una certa misura il riconoscimento delle coppie omosessuali. Ma non solo: la
proposta presentata dalla Cappiello fu ribattezzata sulla stampa come "matrimonio di serie B".
Negli anni Novanta il numero di proposte di legge presentate alla Camera e al Senato si moltiplicò, così come il
numero di inviti da parte del Parlamento Europeo a parificare le coppie gay ed eterosessuali, nonché le coppie
conviventi e sposate. Tutti questi tentativi, però, si arenarono anche a causa del veto posto dalla Chiesa cattolica, che
nel corso degli anni ha continuato a influenzare inevitabilmente le forze politiche in gioco. La storia, purtroppo, si
ripete anche alle porte del nuovo millennio.
Siamo nel 2003, precisamente a settembre, quando il Parlamento Europeo approva una risoluzione sui diritti umani in
Europa in cui viene ribadita la richiesta agli Stati membri "di abolire qualsiasi forma di discriminazione - legislativa
o de facto - di cui sono ancora vittime gli omosessuali, in particolare in materia di diritto al matrimonio e
all'adozione". Tuttavia bisognerà aspettare altri tredici anni per poter parlare ufficialmente di diritti e doveri delle
coppie di fatto.
Cosa dice la Legge Cirinnà
Arriviamo a giugno 2014 quando, con la XVII legislatura, viene depositata una prima proposta di legge sulle unioni
civili da parte dell'onorevole Monica Cirinnà (Pd), nominata relatrice. Il Governo Renzi, a questo punto, interviene
con forza nel dibattito e decide di accelerare i tempi cercando l'accordo politico all'interno della maggioranza. Pertanto
il 23 febbraio 2016 viene presentato un maxi emendamento che raccoglie, quasi integralmente, il disegno di legge
Cirinnà per l'istituzione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Il nuovo testo prevede, dunque, diritti e
doveri sostanzialmente identici a quelli previsti per il matrimonio, ad eccezione della cosiddetta stepchild adoption:
sulla possibilità di adottare il figlio naturale del partner, infatti, viene posto un veto da parte dell'ala cattolica e
conservatrice della maggioranza, cruciale dopo il voltafaccia del Movimento 5 Stelle. Il testo modificato viene quindi
approvato in prima lettura dal Senato nella seduta del 25 febbraio 2016 e il disegno di legge passa all'esame della
Camera il 9 maggio dello stesso anno. Infine, la legge sulle unioni civili viene approvata in via definitiva l'11 maggio
2016.
Diritti e doveri reciproci
La Legge Cirinnà stabilisce che due persone maggiorenni dello stesso sesso possono costituire un'unione civile
mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni, scegliendo se vogliono di
assumere un cognome comune per la durata stessa dell'unione. L'atto di costituzione di quest'ultima viene registrato
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In questi anni sembra che le riforme del diritto di famiglia convergano verso direzioni comuni, queste sono:
- una progressiva separazione tra l’istituto del matrimonio e lo status di figlio;
- l’introduzione del divorzio;
- l’alleggerimento della regolazione giuridica di coppia;
- l’accentuazione della tutela e dei diritti dei figli come l’oggetto centrale della regolamentazione giuridica della
famiglia;
- la riduzione delle diversità di trattamento del diritto tra coppie sposate e coppie di fatto, con un progressivo
riconoscimento giuridico di queste ultime e la progressiva estensione del matrimonio anche alle coppie omosessuali.
Queste tendenze comuni possono essere interpretate come un indicatore di orientamenti diversi nel rapporto tra sfera
pubblica e sfera privata.
Le prime tre direzioni segnalano una progressiva deistituzionalizzazione del matrimonio, o degiuridificazione dei
rapporti famigliari, soprattutto per quanto riguarda i rapporti di coppia. Queste segnalano una restringimento
dell’intervento pubblico ed istituzionale nei rapporti di coppia.
Le ultime due direzioni possono essere invece interpretate come una resitituzionalizzazione delle relazioni famigliari.
In questi ambiti l’intervento del diritto è più incisivo.
Nonostante queste direzioni comuni il diritto di famiglia rimane un ambito di profonda diversificazione tra i vari paesi.
Le diversità non riguardano solo il riconoscimento delle coppie di fatto etero o omosessuali, ma anche le obbligazioni
tra genitori e figli, le norme sulla separazione e sul divorzio, le norme sull’adozione e sulla procreazione assistita.
La famiglia è direttamente o i direttamente oggetto di regolazione da parte dello stato, questo avviene non solo
attraverso le norme giuridiche ma anche attraverso i criteri che presiedono alle forme di redistribuzione delle risorse
pubbliche. Si deduce quindi che lo stato nel momento in cui interviene nei processi di riproduzione sociale di fatto
interviene anche nelle relazioni famigliari e nei compiti affidati alle famiglie.
Le sfere di intervento tra stato e famiglia sono aumentate nel XX secolo, parallelamente allo svilupparsi dello stato
sociale.
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L’espressione politiche famigliari è stata molto inclusiva, vale a dire che è stata utilizzata per definire un ampio spettro
di misure legislative e di sussidi monetari e servizi destinati alle famiglie.
Politiche esplicite – insieme di programmi di politica sociale interamente destinati a raggiungere specifiche finalità
riguardanti il benessere famigliare.
Politiche implicite – misure rivolte alla famiglia che sono esito di decisioni prese rispetto ad altri settori (contrasto
alla povertà, sostegno al reddito, politiche del lavoro). Queste politiche prendono in considerazione solo
trasversalmente il benessere famigliare.
La distinzione tra questi due tipi di politiche è stata viva fino agli anni settanta. Negli anni successivi sono divenute
più mescolate.
Tra i pochi paesi che hanno sviluppato politiche esplicite destinate alle famiglia vi sono il Belgio, il Lussemburgo e la
Francia.
In questi paesi allo sviluppo di generose forme di trasferimenti monetari si è progressivamente accompagnato quello
dei servizi all’infanzia, contribuendo a sostenere il doppio ruolo della donna di madre e di lavoratrice.
I paesi scandinavi si sono caratterizzati, non tanto per lo sviluppo di esplicite politiche rivolte alla famiglia, ma per la
centralità attribuita alla questione dell’uguaglianza tra i sessi w per l’attenzione rivolta ai bambini (modello della
cittadinanza sociale di tipo universale). L’obiettivo dell’uguaglianza è stato raggiunto attraverso l’introduzione di
misure sociali che permettono alle madri di conciliare vita professionale con vita affettiva.
Una terza tradizione di politiche famigliari è quella della Germania e dell’Austria. Nonostante questi paesi abbiano
adottato esplicite politiche famigliari, queste non hanno assunto un ruolo di rilievo, innanzitutto perché vi è una
limitata generosità del sistema di protezione sociale, e infine perché esiste un carattere conservatore dell’intervento
pubblico sulla famiglia. Da questo è derivata l’idea che l’intervento in ambito famigliare debba essere sussidiario
rispetto alle funzioni primarie che spettano a famiglia e società civile.
A differenza degli stati sopra descritti, in Germania è presente un idea di famiglia-istituzione, e per tale motivo sono
state elaborate politiche che incentivano la figura di moglie casalinga e vi è stato uno scarso sviluppo di servizi
pubblici e di politiche di conciliazione famiglia-lavoro.
Recentemente però anche la Germania si sta avvicinando al modello scandinavo in quanto vi è stata una forte
preoccupazione per la ridotta fecondità, dovuta alla rinuncia alla maternità da parte delle donne istruite, che trovano
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La Gran Bretagna e l’Irlanda sono caratterizzate da un modello liberale, caratterizzato da un non intervento in ambito
famigliare. La famiglia in questi stati viene concepita come una sfera privata, pertanto le interferenze del pubblico in
ambito di riproduzione sociale e cura sono state davvero minime. La politica famigliare ha assunto una natura
prevalentemente selettiva, cioè è stata rivolta alle famiglie povere e a quelle a rischio. Va comunque ricordato che in
Gran Bretagna la preoccupazione per gli alti tassi di povertà minorile ha motivato politiche di sostegno alle famiglie
povere con figli.
Un’ultima tradizione di politiche famigliari è quella dei paesi quali Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. Questi paesi si
sono distinti per non aver sviluppato nessuna politica famigliare, per avere il più alto livello di frammentarietà della
politica sociale, per il più basso livello di generosità dei trasferimenti pubblici a sostegno delle famiglie con figli e per
la natura selettiva dei trasferimenti monetari. Un altro fattore che accomuna questi paesi è la scarso sviluppo di servizi
pubblici per la primissima infanzia e la lunga assenza di politiche di conciliazione lavoro-famiglia.
L’assenza o la scarsità di politiche famigliari in questi paesi non è solo da attribuire al ritardato sviluppo del welfare,
ma anche a un insieme di fattori come la configurazione politica e religiosa e l’esperienza autoritaria che li ha
contrassegnati.
Lo scarso sviluppo di politiche famigliari in questa parte di Europa va anche ricercato nel preciso modello culturale di
famiglia presente (solidarietà famigliari e parentali). Il sistema famiglia funziona sulla base della solidarietà famigliare
e intergenerazionale lungo tutto il ciclo di vita e i compiti di riproduzione sociale e di cura spettano interamente alla
famiglia.
In tutti questi paesi l’approccio pubblico alla questione famigliare è stato quello del non intervento. Bisogna però
ricordare che in questi paesi il livello di trasferimento delle risorse è stato talmente ridotto da non permettere né di
dare pieno sostegno alla figura del maschio capofamiglia, né di assicurare un sistema minimo di sostegno per tutte le
famiglie povere.
A partire dagli anni ottanta si è compresa l’importanza che la famiglia riveste per il funzionamento più complessivo
del welfare state.
Gli studi sulla relazione tra forme pubbliche e private di produzione di welfare hanno permesso di vedere come sia
appropriato analizzare lo stato sociale moderno in termini di economia mista (welfare mix) nel quale lo stato, la
famiglia, il mercato e il volontariato ricoprono ruoli diversi e complementari in un contesto storico.
Ma è solo con l’introduzione di una prospettiva di genere che ci si è resi conto che gli interventi di politica sociale
presenti non sono neutrali e che i loro effetti sono visibili non solo in termini di classe sociale e di forma di famiglia,
ma anche di genere.
Tutti i moderni stati sociali si sono basati su un modello di famiglia fondato sul breadwinner. Tale modello si forma
sull’idea di una divisione del lavoro tra uomini e donne, sull’attribuzione all’uomo del ruolo di procacciatore di risorse
e alla donna del lavoro di cura non retribuito. Questi presupposti si sono tradotti in politiche sociali che hanno
sostenuto i ruoli diversi attribuiti a uomini e donne.
Alcuni sistemi di welfare hanno cambiato, strada sostenendo modelli d famiglia dual-earner o dual-breadwinner, in cui
si è incoraggiata la presenza degli uomini e delle donne nel mercato del lavoro attraverso lo sviluppo di diritti sociali
di tipo individuale.
Un altro contributo essenziale offerto dall’analisi di genere è venuto dalle riflessioni sul lavoro di cura; questo
sostanzialmente può essere un lavoro non retribuito, che generalmente si svolge in famiglia, oppure può essere svolto
in modo remunerativo, in servizi pubblici o privati, oppure in rapporti di lavoro individuale.
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Le politiche sociali incidono anche sui rapporti che devono esistere tra le generazioni, nella misura in cui danno per
scontato, e talvolta prescrivono, interdipendenze, solidarietà e obbligazioni di tipo intergenerazionale, entro la
famiglia di residenza e anche entro la parentela.
Nel quadro europeo possiamo individuare sistemi di welfare che vedono un’assunzione pubblica ampia di
responsabilità e funzioni che nel passato appartenevano alla famiglia o alla comunità, e viceversa sistemi che vedono
una presenza ridotta dello stato sociale.
La questione del costo dei figli richiama in particolare due tipi di responsabilità che vanno tenute distinte dal punto di
vista analitico: responsabilità per il mantenimento dei figli (chi dovrebbe finanziare i costi dei figli in quanto
consumatori di beni e servizi) e responsabilità per la cura (chi deve assumersi i costi dei figli in quanto consumatori di
tempo di cura).
Allo scopo di analizzare le tendenze nelle politiche famigliari, l’analisi sarà suddivisa in tre ambiti di intervento:
Storicamente il costo per il mantenimento dei figli, data la disuguale partecipazione nel mondo del lavoro, è stato
riconosciuto prevalentemente ai padri nelle varie forme che ha assunto l’idea del salario famigliare. Tale
riconoscimento è avvenuto nel periodo compreso tra le due guerre con l’introduzione delle prime misure attente alle
questioni famigliari.
Gli assegni famigliari furono introdotti sia per rispondere al dilagare della povertà, diffusa soprattutto nelle famiglie
numerose, sia al timore diffuso di un declino della fecondità.
La prima versione del salario famigliare comparve in Francia, nel primo decennio del novecento, con l’introduzione
da parte dei datori di lavoro delle casse di compensazione. Le casse supportavano i lavoratori con carichi famigliari
con un supplemento del salario. Pochi anni dopo questi supplementi vennero trasformati in assegni famigliari veri e
propri.
In Germania gli assegni famigliari assunsero finalità pronatalistiche. In Italia il primo schema di assegni famigliari fu
introdotto dal fascismo per i lavoratori dipendenti nell’industria per compensare le restrizioni provocate dalla crisi.
Anche la Spagna di Franco seguì l’esempio dell’Italia.
Nel caso italiano e spagnolo, gli assegni assunsero una forma di prestazioni monetarie previste per combattere la
povertà, ma ben presto divennero uno degli strumenti principali delle politiche famigliari fascista e franchista. Questi
assegni furono destinati sia all’incremento della natività, sia al sostegno della figura del male breadwinner.
La peculiarità del caso italiano e spagnolo non sta nel fatto che la finalità degli assegni fosse quella di aumentare la
natività, ma bensì va individuata nel fatto che essi incorporavano fin dall’inizio un’estesa nozione di famigliari
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Con la caduta del fascismo gli assegni hanno perso quello scopo di sostenere la natività, ma hanno mantenuto
sostanzialmente le stesse caratteristiche. Essi continuarono a essere percepiti come una prestazione monetaria a
sostegno delle responsabilità famigliari del lavoratore dipendente nei confronti della moglie, dei figli e degli
ascendenti. La riforma del 1988 gli ha sostituiti con l’attuale assegno per il nucleo famigliare, riducendo la platea dei
beneficiari, trasformandoli n una misura che richiede la prova dei mezzi, ma conservando lo stesso concetto estensivo
di famigliari/parenti.
Dal 2007 gli assegni vengono aumentati, rimodulati e parzialmente coordinati con le detrazioni per figli a carico, ma
rimangono doppiamente selettivi: sono destinati solo ad alcune categorie (lavoratori dipendenti) e sono sottoposti alla
prova dei mezzi (chi supera le soglie di reddito viene escluso).
Nella maggior parte dei paesi esteri gli assegni sono di tipo universalistico, cioè sono previsti per tutte le famiglie e
per tutti i figli; sono generalmente finanziati attraverso il fisco e sono di uguale importo a prescindere dal reddito delle
famiglie. In alcuni paesi l’universalità è attenuata dalla prova dei mezzi, che ne riduce l’importo al crescere del reddito
della famiglia e talvolta esclude le famiglie al di sopra di una determinata soglia di reddito.
In altri paesi, come Grecia e Belgio, gli assegni sono di tipo categoriale, ovvero l’importo dipende dal tipo di categoria
occupazionale dei genitori, anche se esiste un assegno minimo per chi non è occupato.
Vi sono inoltre altre misure a sostegno del costo di mantenimento dei figli, misure a lungo sconosciute in Italia.
Sono concessi ad esempio assegni per l’evento della nascita, prestazioni ad hoc per famiglie mono genitoriali, assegni
per il mantenimento e la cura dei figli nella prima infanzia o durante l’età scolare, oppure sussidi a sostegno delle
spese per l’abitazione per le famiglie con figli a carico.
A partire dagli anni novanta anche in Italia la questione del costo dei figli è ritornata alla luce in quanto erano presenti
numerose famiglie in stato di povertà e in quanto c’era una forte denatalità. La povertà delle famiglie numerose è
stata affrontata con l’introduzione di due nuovi istituti: l’assegno al nucleo famigliare con almeno tra figli (Anf3) e
l’assegno di maternità destinato alle madri sprovviste di un’altra copertura assicurativa. Si tratta di due prestazioni
monetarie che richiedono la prova dei mezzi e sono destinate solo alle famiglie con basso reddito.
Sul piano di sostegno alla natalità le misure monetarie sono state più temporanee. Nel 2003 è stato introdotto,
limitatamente ai figli di cittadini italiani, il bonus bebé per ogni secondo figlio e successivi. Questo bonus è stato
eliminato in seguito ed oggi esiste solo in alcune regioni.
I trasferimenti monetari diretti, erogati una tantum, costituiscono solo una delle possibili compensazioni al costo dei
figli. I trattamenti fiscali per la famiglia, in particolare le agevolazioni per i figli a carico, costituiscono l’altra
importante forma di compensazione per i costi di mantenimento ei figli. L’importanza di questa prestazione però è
andata costantemente diminuendo a partire dagli anni settanta, con un’inversione di tendenza solo a partire dagli anni
novanta in poi.
Con la questione del costo dei figli in quanto consumatori di tempo di cura si affronta uno degli obiettivi principali
delle politiche sociali nei paesi dell’UE, cioè quello di realizzare politiche di conciliazione famiglia-lavoro. Queste
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Le leggi di protezione delle lavoratrici madri sono state la prima forma di riconoscimento pubblico delle responsabilità
di cura che le madri hanno nei confronti dei figli piccoli.
Le prime leggi sulla tutela delle madri lavoratrici risalgono alla fine dell’ottocento. Il congedo di maternità retribuito,
ossia un’indennità per ricompensare la perdita del salario subita dalla madre durante l’astensione al lavoro, fu
introdotto a inizio del novecento.
Tali misure furono essenziali per fare comprendere a tutti il costo che i figli hanno per le madri, in quanto consumano
tempo a svantaggio di un lavoro remunerativo.
Il congedo di maternità consiste in un periodo obbligatorio di astensione dal lavoro, che spetta tranne casi eccezionali
solo alla madre, durante il periodo di gravidanza o di puerperio.
Sono stati introdotti in seguito i congedi genitoriali che prevedono generalmente un periodo facoltativo di astensione
dal lavoro, successivo al congedo di maternità, che spetta sia alla madre lavoratrice, sia al padre lavoratore, sotto
forma di diritto individuale, famigliare o misto, per un periodo variabile, generalmente retribuito, in tutto o in parte.
I alcuni paesi è previsto anche il congedo di paternità, retribuito come quello di maternità e da fruire nel periodo
successivo alla nascita del figlio. Questa misura è stata introdotta in Italia ma si limita a un periodo estremamente
breve (un giorno se la madre non è lavoratrice dipendente – altrimenti - tre giorni, di cui due fruibili in sostituzione al
congedo della madre, che per quei due giorni dovrebbe tornare al lavoro).
A livello internazionale, fatta eccezione per i paesi scandinavi, mancano dati sistemici sulle caratteristiche e sulla
durata del periodo in cui i genitori stanno in congedo, cioè scarseggiano le ricerche sull’impatto del congedo sulla
carriera lavorativa, in particolare sul tasso di abbandono femminile del lavoro.
Tra le madri il tao di utilizzo del congedo genitoriale è molto elevato, mentre tra i padri è molto limitato; il problema
dell’utilizzo dei congedi parentali da parte dei padri è strettamente legato alla possibilità di aver un’indennità adeguata
per quel periodo.
Uno studio svolto in Italia dimostra che vi è un’abissale differenza tra l’utilizzo del congedo genitoriale da parte delle
madri (45,3%) e da parte dei padri (6,9%); la variazione di utilizzo dipende anche dal tipo di contratto e dal settore di
occupazione.
Il congedo è utilizzato di più da chi lavora nel settore pubblico rispetto a chi lavora nel settore privato (soprattutto per
i padri). È più utilizzato tra le lavoratrici dipendenti che tra quelle parasubordinate. Inoltre l’entità della retribuzione
sostitutiva del periodo di congedo influisce in modo determinante sui tassi di utilizzo, in particolare tra i padri.
I servizi pubblici per i bambini fino ai 3 anni costituiscono, insieme ai congedi genitoriali, una risorsa di primaria
importanza sia nel riconoscere il costo dei figli sia nel sostenere le madri lavoratrici. L’importanza dei servizi per
l’infanzia è stata riconosciuta anche dall’Europa che ha richiesto agli stati membri di rimuovere gli ostacoli che
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I congedi genitoriali garantiscono una buona copertura, quasi in tutti i paesi, fino al primo anno di vista del bambino.
Le situazioni si differenziano in poi, con paesi che hanno una buona copertura di servizi, altri che invece preferiscono
consentire più lunghi congedi; si differenziano così le possibilità delle madri e dei loro bambini in base alla classe
sociale o alla disponibilità finanziaria.
La situazione muta per la fascia d’età 3-5. I tassi di copertura per questa età sono molto elevati in tutti i paesi, ma in
particolare laddove essi costituiscono parte integrante del sistema educativo nazionale (Francia, Belgio, Italia). In
questi paesi la nascita e lo sviluppo delle scuole infantili hanno avuto uno scopo primariamente educativo, ma hanno
altresì contribuito in modo sostanziale alla partecipazione delle donne nel mercato del lavoro.
I servizi per l’infanzia possono essere di tipo collettivo, come nidi o scuole d’infanzia, oppure esistono altre forme di
cura individuali non famigliari, sostenute con risorse pubbliche.
L’aumento del sostegno pubblico dato a opzioni di cura non collettive è una tendenza in crescita in tutti i paesi. In
Francia ad esempio è stata data la libera scelta ai genitori, ampliando il pacchetto di politiche offerte, anche attraverso
agevolazioni fiscali.
Anche in paesi che fanno fronte alla carenza di servizi pubblici collettivi con il più ampio ricorso alla cura privata
informale della famiglia, come in Italia, si assiste negli ultimi anni all’introduzione di misure a favore della
promozione di forme di cura alternative ai servizi pubblici collettivi.
Ovviamente, le variazioni nella possibilità di conciliare lavoro e cura dei figli non dipendono solo dalla presenza di
congedi e dall’offerta di servizi, ma anche da quanto gli orari di lavoro sono flessibili verso chi ha responsabilità
genitoriali (in particolare orari dei servizi quali mense, doposcuola, attività extrascolastiche).
L’Università di York ha messo a punto una nuova metodologia di analisi che consente di ricostruire il complesso
pacchetto di aiuti per i figli e confrontare il livello tra i vari paesi.
Anche l’OECD (organizzazione per la coop e lo sviluppo economico) ha messo a punto una serie di statistiche sulla
spesa pubblica destinata alle famiglie per il costo dei figli, sia per il mantenimento che per la cura. A partire da questi
dati si ha un quadro complessivo della spesa pubblica per i figli, distinguendo l’entità a seconda delle fasce d’età 0-6,
7-11 3 12-17. Nel conteggio, oltre alla spesa pubblica per trasferimenti monetari diretti, indiretti, spesa pubblica per i
servizi per l’infanzia, è incluso anche l’istruzione dei minori.
Risultati:
*Paesi più generosi – Lussemburgo e Ungheria
*Paesi meno generosi – Irlanda, Spagna, Grecia
*Paesi in posizione intermedia – Italia, Belgio, Portogallo
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Gli aiuti pubblici alle famiglie con minori hanno ovviamente importanti risvolti in termini di benessere economico dei
figli nel medio e lungo periodo, dato che le situazioni di disagio economico della famiglia di appartenenza
costituiscono anche io principale limite allo sviluppo futuro dei bambini e ragazzi.
La perdita di autonomia di un anziano costituisce un evento critico per l’anziano stesso, ma anche per la sua famiglia
o la rete allargata di famigliari.
Le politi he famigliari quindi, non si limitano solamente a soddisfare il mantenimento e la cura dell’infanzia, ma anche
la cura degli anziani, in particolare i grandi anziani (ultra ottantenni).
Il tema della cura degli anziani richiama a livello teorico il ruolo centrale svolto da sempre dalla famiglia quale
agenzia principale di produzione di servizi.
N.B. E’ stato dimostrato da alcuni studiosi che il grado di copertura, nonché la qualità dei servizi pubblici di cura per
gli anziani non riflettono necessariamente lo sviluppo e la logica del sistema dei servizi per l’infanzia.
L’accelerazione dei processi di invecchiamento e la riduzione della fecondità hanno avuto come risultato demografico
il sorpasso dei gruppo degli anziani sui giovani e il notevole aumento dei grandi anziani.
Queste rapide trasformazioni demografiche hanno aperto un ampio dibattito incentrato sui bisogni di cura, non
esclusivamente sanitaria, per gli anziani.
L’aumento della quota degli ultra ottantenni, insieme alle avanzate cure sanitarie, anno accresciuto la possibilità di
viver più a lungo, ma anche di vivere una fase lunga della propria vita in situazione di non autonomia.
La domanda di cura degli anziani è diventata più visibile perché è diminuito, a causa della bassa fecondità, il numero
di potenziali prestatrici di cura non sanitaria (caregiver) che sono principalmente le donne, nella posizione di mogli,
figlie e nuore.
Il numero delle prestatrici di cura non si riduce solo a causa dei cambiamenti demografici, ma anche a causa della loro
entrata nel mondo del lavoro, che si protrae per periodi sempre più lunghi. Si riduce così il tempo che le donne
possono dedicare al lavoro di cura non retribuito.
Si osserva inoltre che l’aumento del bisogno di cura per gli anziani fragili è il risultato dei cambiamenti avvenuti nella
struttura famigliare. Vi è stata negli anni una riduzione del numero di famiglie estese e multiple a favore di quelle
formate da un solo nucleo.
Un altro elemento che può indebolire la disponibilità di aiuto da parte della rete famigliare è la rottura della coppia
coniugale, degli anziani e dei loro figli. Molti studi hanno dimostrato che le rotture coniugali indeboliscono i rapporti
genitore-figlio, con conseguenze che si possono protrarre negli anni.
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Per molto tempo il bisogno di cura degli anziani è stato soddisfatto dalle famiglie; non c’è da sorprendersi quindi se
l’intervento pubblico in questo settore è prevalentemente di tipo assistenziale e residuale, riferito in gran parte solo
agli anziani gravemente malati e senza rete famigliare.
Solo a partire dagli anni ottanta in tutti i paesi industrializzati si è iniziato a ridefinire gli obiettivi delle politiche di
cura degli anziani. L’obiettivo è diventato quello di mantenere il più a lungo possibile la persona anziana, anche se
disabile, nel proprio ambiente famigliare e nella propria abitazione, senza però contare sulla disponibilità dei
famigliari.
Negli ultimi anni infatti la cura a domicilio è diventata la priorità delle nuove politiche di cura per gli anziani (politica
di community care). Essa viene realizzata attraverso lo sviluppo e il potenziamento dei servizi alla persona
diversificati per natura e decentralizzati a livello territoriale, quali l’assistenza domiciliare, gli alloggi protetti, i centri
diurni per anziani, sia attraverso gli assegni di cura e altre prestazioni monetarie a sostegno della cura informale o de
ricorso al mercato privato.
La diffusione della politica della community care ha conosciuto un processo di sviluppo frastagliato nei vari paesi.
Il sistema di cura formale degli anziani mostra uno sviluppo più ampio nei paesi del Nord Europa, all’opposto dei
paesi del Sud Europa e dell’Est dove la diffusione di servizi per la popolazione anziana rimane limitata.
In Italia sono pochissimi gli anziani che usufruiscono del servizio domiciliare e dei servizi di cura formali. Ciò
significa che gran parte della cura è effettuata dai famigliari e, in subordine, dalle persone che si offrono nel mercato
dei servizi di cura. Tale mercato è in forte crescita nel nostro paese e coinvolge spesso lavoratrici immigrate poco
professionalizzate.
Nei paesi del Nord Europa i servizi di cura domiciliare sono fortemente usati. In Germania, Austria, e recentemente
anche in Francia, è stata istituita un’assicurazione obbligatoria per l’invalidità in età anziana, che prevede il diritto
vuoi a un pacchetto di servizi vuoi a un voucher di valore equivalente, sulla base della gravità dell’invalidità.
Gli interventi di cura domiciliari e i ricoveri residenziali costituiscono due dimensioni del sistema di cura. A rigor di
logica la crescita dei primi dovrebbe coincidere con la diminuzione dei secondi, anche se in realtà non è proprio così
in quanto si è visto che i due tipi di sevizi sono complementari tra di loro.
Tutt’oggi il lavoro di cura non sanitario informale costituisce, in tutti i paesi, anche quelli che hanno sviluppato servizi
pubblici, una quota più rilevante delle prestazioni di assistenza e di aiuto fornito agli anziani autonomi e non
autonomi. I sistemi di cura formali sono meno sviluppati, quindi il lavoro di cura è lasciato principalmente alle
famiglie. Tra l’altro la cura prestata a un famigliare non autosufficiente è scarsamente riconosciuto a livello sociale,
sicuramente meno di quella presta ai bambini piccoli; a differenza di questa infatti non prevede nemmeno periodi di
congedo.
Le implicazioni di genere delle nuove forme di cura per gli anziani fragili
Negli ultimi anni si stanno diffondendo una nuove tipologie di prestazione nel campo di cura agli anziani, questo sono
l’assegno di cura e il voucher.
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Gli assegni di cura, nei vari stati, possono essere pagati direttamente ai prestatori di cura garantendo loro pieni diritti
sociali (contributi pensionistici, giorni di ferie), oppure possono trattarsi di un basso compenso che non garantisce
nessun diritto sociale.
Gli assegni pagati direttamente al bisognoso di cura a loro volta possono essere sottoposti al controllo relativamente al
loro utilizzo appropriato, o invece essere erogati senza nessun accertamento.
In Francia ad esempio, per il servizio che sostiene le persone che hanno più di 60 anni che decidono di assumere
qualcuno che le aiuti nella vita quotidiana, vengono effettuati controlli regolari al fine di scoraggiare il lavoro
irregolare. Il beneficiario riceve il denaro solo se dimostra di aver assunto regolarmente qualcuno.
In Germania l’opzione tra ricevere servizi di cura certificati oppure un assegno di valore inferiore, ma utilizzabile
liberamente. Molti scelgono di ricevere l’assegno per integrare il loro reddito famigliare.
In Italia per sostenere le persone con autosufficienti è stato previsto l’assegno di accompagnamento, che non è
soggetto alla verifica delle risorse della persona disabile e viene erogata dallo stato centrale. Negli ultimi anni gli enti
locali hanno aggiunto a questa misura un altro contributo monetario, che è l’assegno di cura, generalmente basato
sulla prova dei mezzi, e viene erogato al fine di sostenere l’assistenza di persone non autosufficienti. Tale contributo
viene erogato dai comuni e alle ASL in alternativa dei servizi alla persona, domiciliari o residenziali, e viene utilizzato
per compensare i caregivers famigliari o per acquistare cura nel mercato del lavoro. La diffusione di questi assegni di
cura ha portato a numerosi dibattiti. In tutti i paesi le caregivers pagate con questi assegni sono frequentate donne
immigrate, spesso irregolari. Le preoccupazioni sono riferite alle conseguenze che questa misura ha per una donna che
decide di lasciare il proprio lavoro per accudire un genitore anziano, o che svolge tale lavoro come occupazione
prevalente, sia in termini di riduzione di opportunità di lavoro che di ridotti diritti sociali n età più avanzata.
Desta preoccupazione anche l’incoraggiamento al lavoro irregolare, in assenza di formazione adeguata e sufficienti
tutele, come avviene nel caso delle donne immigrate.
L’utilizzo di donne immigrate irregolari non solo pone problemi di tipo professionale, ma contribuisce allo sviluppo di
un mercato di cura a basso costo.