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Andrea De Marchi

La percezione panottica delle «camerae pictae» profane


di età gotica in Italia superiore

Poche immagini sono in grado di restituirci la percezione degli ambienti in-


terni residenziali e della loro decorazione, in ambito signorile e in età tardogotica.
Poche con l’intensità di alcune celeberrime miniature francesi dell’età di Charles
VI, che unendo sapientemente la sprezzatura della quotidianità alla retorica di
una messa in scena idealizzata ci danno in ogni caso l’idea di come quegli spazi
e quelle decorazione dovessero essere percepite. Sono quindi testimonianze e
strumenti essenziali che dobbiamo fare interagire con l’analisi dei tanti cicli pit-
torici profani, quasi sempre frammentari, pallida ombra di ciò che furono, giun-
ti fortunosamente fino a noi. Un ambiente domestico di pregio era rivestito da
tapisseries appese al vertice delle pareti, con la doppia funzione di proteggere
dal freddo e dall’umidità e di impreziosirlo. Stoffe o arazzi erano appese senza
soluzione di continuità, girando da una parete all’altra, di modo da suggerire un
effetto avvolgente, a 360 gradi, che accentuasse il senso di calda intimità e al
tempo stesso trasfigurasse la percezione dell’ambiente reale, sfondandolo verso
la proiezione di dimensioni virtuali. Il Gennaio miniato dai fratelli Limbourg
nelle Très riches heures del duca di Berry è perciò paradigmatico. Le battaglie ca-
valleresche stagliate contro l’azzurro, tessute sugli arazzi stesi lungo le pareti, si
confondono con le persone reali che affollano la mensa del signore, per la strenna
di capodanno. La tapisserie, fitta di legende e di pennoni araldici, fodera anche
la cappa del camino posta al centro della sala, ma così ne vanifica la consistenza
spaziale. Reale e virtuale si intrecciano,1 il fragore delle armi si sovrappone al
crepitio dei lapilli nel focolare, le prodezze della materia bretone si mescolano

1. Mi accorgo che in questo commento ricalco concetti applicati alla percezione delle decora-
zioni monumentali nelle chiese medio-bizantine da uno studioso sensibilissimo alla qualificazione
spaziale delle immagini come Otto Demus, precursore in ciò di un filone di studi che sarà incarnato
al massimo livello da John Shearman. Mi riferisco ad un classico della nostra storiografia, in cui
egli sottolinea in tale contesto l’intima relazione, anzi interazione tra il mondo dello spettatore e il
mondo dell’immagine: «while it does not aim at illusion, Byzantine religious art abolishes all clear
distinction between the world of reality and the world of appearance» (Otto Demus, Byzantine Mo-
saic Decoration. Aspect of Monumental Art in Byzantium, London 1947, p. 4). Contrariamente alla
sua schematica e un po’ pregiudiziale contrapposizione tra Eastern Art e Western Art forse qualche
osservazione è valida pure per le decorazioni tardogotiche.
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alla meno eroica esibizione del lussuoso banchetto e con essa della prodigalità
del duca. Per intendere questa percezione – mi si perdoni l’audacia – sono d’aiu-
to le parole di Marcel Proust, quando in una pagina memorabile di Du côté de
chez Swann rievoca la lanterne magique nella cameretta d’infanzia a Combray,
con il terribile Golo in corsa incessante verso il castello della povera Geneviève
de Brabant, sì da dissolvere in un gioco cangiante di luci e colori le pareti e gli
oggetti familiari:
à l’instar des premiers architectes et maîtres verriers de l’âge gothique, elle [i.e. la
lanterne magique] substituait à l’opacité des murs d’impalpables irisations, de sur-
naturelles apparitions multicolores, où des légendes étaient dépeintes comme dans
un vitrail vacillant et momentané.
La civiltà pittorica del Trecento vede l’imporsi, nella decorazione parietale
di palazzo, di finte apparecchiature marmoree, che prendono il posto di decori
modulari, geometrico-vegetali, emuli piuttosto di finte stoffe. La Lombardia svol-
se un ruolo centrale nella diffusione della nuova moda, probabilmente per la forza
di impatto rappresentata dall’operosità di Giotto e più ancora dei suoi seguaci alla
corte di Azzone Visconti. Poco più tardi, la decorazione aniconica, incredibil-
mente estensiva, del castello di Pandino, illustrata da Serena Romano e centro di
questo convegno, ne è un esempio massimo, e contrasta in maniera significativa
con le tappezzerie bidimensionali dipinte a profusione negli interni della Verona
di Cangrande e di Mastino, di cui abbiamo numerose sopravvivenze.2 La rivolu-
zione giottesca, a partire dal ciclo della basilica superiore di San Francesco ad
Assisi, aveva proposto un’idea della decorazione parietale come qualificazione
illusionistica organicamente incardinata sulle membrature dell’architettura reale,
che ne risultavano per ciò stesso esaltate e rafforzate, all’opposto della concezio-
ne bizantina che, a partire dai mosaici ravennati e tardo-antichi, giocava invece
sull’annullamento dello spazio misurabile, trapassando da parete a parete, con
figure disinvoltamente debordanti dall’una all’altra, smussando angoli e spigoli
come lo stesso allettamento ininterrotto delle tessere musive comportava.
L’organizzazione strutturata e complessiva della parete come un micro-orga-
nismo architettonico, geniale rielaborazione di una tradizione romana,3 trovava
nella soluzione angolare un punto qualificante. Nelle cappelle giottesche in Santa
Croce finte colonne sono dipinte negli angoli, in connessione con le zoccolature
a crustae marmoree e con i capitelli dei costoloni.4 Taddeo Gaddi nella cappella
Baroncelli amplifica l’illusione dipingendo le paraste dei pilastri angolari e rac-

2. Si veda l’intervento a questo convegno di Fausta Piccoli. Per una campionatura della limi-
trofa val Lagarina: Paola Frattaroli, “Affreschi ornamentali: Trento, Castello di Avio, Castello di
Stenico, Rocca di Riva del Garda”, in Le vie del Gotico. Il Trentino fra Trecento e Quattrocento, a
cura di Laura Dal Prà, Ezio Chini, Marian Botteri Ottaviani, Trento 2002, pp. 183-207.
3. Su questa vasta problematica rimando alla recente rilettura di Serena Romano, La O di
Giotto, Milano 2008, pp. 33-59 (capitolo Ornamento e strumenti retorici nella navata di Assisi).
4. Vedi Andrea De Marchi, “Il progetto di Giotto tra sperimentazione e definizione del canone:
partimenti a finti marmi nelle cappelle del transetto di Santa Croce a Firenze”, in Ricerche di storia
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cordandole ad un telaio di fregi cosmateschi e colonne tortili (fig. 1): nonostante


la sovrabbondanza decorativa non viene meno la chiarezza geometrica di base.
Nell’oratorio Scrovegni, a Padova, dove una sontuosa apparecchiatura di finti
marmi declina in senso più misurato il potente Struktiver Illusionismus assisiate,
le modanature orizzontali che scompartiscono i registri narrativi terminano e si
profilano in prossimità dell’angolo, contro un fondo neutro a morellone, qualifi-
cando ogni parete come autonoma frons scenae.5
Questa rigorosa sintassi non fu però troppo fortunata, o meglio lo fu solo negli
episodi di consapevole ripresa, in particolare nel neo-giottismo padovano, da Gua-
riento ad Altichiero. Quest’ultimo, all’opposto di Giusto de’ Menabuoi, che spalma
con nonchalance le finte architetture su risalti e partizioni confliggenti, tentò ardite
soluzioni, come quella nella risega all’inizio della parete di sinistra della cappella
Lupi di Soragna al Santo (1378-1379), sfruttata per dipingere l’aggetto angolare
del palazzo di Carlo Magno e la porta di ingresso dall’esterno, raccordandolo allo
squarcio di interno, spalancato sull’alcova dove dorme il sovrano e gli appare San
Giacomo, nel muro limitrofo. Da un certo punto di vista, dal centro della cappella,
l’aggetto angolare del palazzo e il recesso della scala dipinta che conduce all’alcova
quasi si integrano in un’illusione globale, che mimetizza sì il risalto della parete,
ma per sprigionare una potente illusione architettonica, saldamente impostata (fig.
2).6 Un’analoga risega della muratura, nella sala del cervo o della Garde-Robe nel
Palais des papes ad Avignone, verso il 1343, viene mimetizzata dal continuum del
verziere, come una tappezzeria vegetale, nel quale si svolge la rincorsa dei levrieri
da caccia, ponendo alcuni tronchi d’albero in corrispondenza degli spigoli, facendo
debordare la mazza tenuta in spalla da un cacciatore, da una parete all’altra (fig. 3).
Fuori da alcune enclaves giottesche o neogiottesche, anche se il gusto per
incorniciature scultoree e finti marmi divenne pratica ordinaria e quasi di rou-
tine, tornò a prevalere la volontà di azzerare la percezione dello spazio reale in
un effetto avvolgente e trasfigurante. Gli esempi si sprecano. In Lombardia ciò
vale in particolare per aree di frontiera, limitrofe ad un gusto più francesizzante,
come per il ciclo della cappella del castello di Montiglio, o per complessi che
ormai volgono verso il gusto internazionale incipiente, come nella decorazione
del transetto destro di San Marco a Milano, nell’Assunta che rigira sullo stipite
verso il presbiterio.

dell’arte, CII (2010), pp. 13-24 (Santa Croce: origini. Firenze 1300, frammenti di un discorso sugli
ornati e sugli spazi, a cura di Fulvio Cervini e Andrea De Marchi).
5. Vedi Alessandro Prosdocimi, “Osservazioni sulla partitura delle scene affrescate da Giotto
nella cappella degli Scrovegni”, in Giotto e il suo tempo, atti del congresso internazionale per la
celebrazione del 7° centenario della nascita di Giotto (Assisi 1967), Roma 1971, pp. 135-142.
6. Una foto da questa angolazione era stata opportunamente proposta e commentata da Gian-
lorenzo Mellini, Altichiero e Jacopo Avanzi, Milano 1965, p. 52 e fig. 106 («un’alcova genialmente
girata per il lungo, dentro un castello i cui aggetti risolvono l’anomalia delle muraglie da dipin-
gere»). Sono debitore verso Zuleika Murat per la ripresa analoga qui riprodotta (quella pubblicata
da Mellini era peraltro realizzata ad una certa altezza da terra, sì da ottenere un’illusione totale di
assorbimento ottico della risega).
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La suggestione frastornante si coniuga nel gotico internazionale con il difficile


adattamento a superfici accidentate e complesse. Ho analizzato l’esibita varietas
delle incorniciature di un ciclo marchigiano come quello di Pietro di Domenico e
Giacomo di Nicola nell’oratorio di Santa Monica presso Sant’Agostino a Fermo, nel
terzo decennio del Quattrocento.7 Da quel linguaggio e puntualmente da quel reper-
torio di ornati dipendono alcuni cicli tardogotici nel matesano, in Campania, come
quello di Sant’Angelo di Alife. Le colonne tortili, di remota origine assisiate e care
anche ai fratelli Salimbeni, sono incongruamente usate per sottolineare i costoloni
delle volte, ma soprattutto le figurazioni smarginano senza soluzione di continuità
all’interno degli strombi delle finestre. Ben diverso era lo sfruttamento degli strombi
per illudere il lato interno di un edificio, messo a punto dalla pittura illusionistica
senese e avignonese a metà Trecento, da Ambrogio Lorenzetti a Montesiepi a Lippo
Vanni a San Leonardo al Lago, a Matteo Giovannetti nella cappella di San Marziale.
È però soprattutto l’ambito profano, delle decorazioni interne di palazzo, che inco-
raggia, verso il 1400, la dissolvenza delle pareti nel continuum avvolgente.
Ne sono ottime testimonianze i due cicli in assoluto più notevoli per vastità
di conservazione, tra Umbria e Marche, quelli del Cassero di Spoleto e di Palazzo
Trinci a Foligno. La camera picta ricavata al piano nobile in un torrione angolare
del cassero di Spoleto, riscoperta circa venticinque anni fa, venne dipinta verso il
1400 dal Maestro della Dormitio di Terni su commissione di Marino Tomacelli,
nipote di papa Bonifacio IX e governatore del ducato dal 1392 al 1426. Solo di
recente Silvia De Luca è stata in grado di identificare l’iconografia delle storie
antiche, ma di sapore cavalleresco, che vi sono raffigurate:8 il dilaniante conflitto
amoroso fra Arcita e Palemone narrato nel Teseida da Boccaccio. Le scene tipica-
mente debordano sulla parete limitrofa, con accortezze sceniche che le rendono
più coinvolgenti: così, ad esempio, Teseo assiste alle danze da un podio sul muro
contiguo, posto ad angolo retto (fig. 4).
Le pitture profane di Foligno sono nel loro genere una delle sopravvivenze
più impressionati ed articolate. All’ambiziosa regia, sorretta dai consiglieri di
corte, l’umanista Francesco da Fiano e il vescovo domenicano Federico Frezzi,
corrispose una realizzazione concentrata in tempi ristretti, fra 1411 e 1412,9 con
concitati aggiustamenti e correzioni, nell’adattamento di un progetto concepito

7. Vedi Andrea De Marchi, “Gli affreschi dell’oratorio di San Giovanni presso Sant’Agostino
a Fermo. Un episodio cruciale della pittura tardogotica marchigiana”, in Il Gotico Internazionale a
Fermo e nel Fermano, catalogo della mostra (Fermo, Palazzo dei Priori, 1999), a cura di Germano
Liberati, Livorno 1999, pp. 48-69.
8. Vedi Silvia De Luca, “Nuovi studi sul Tardo Gotico in Umbria: gli affreschi profani della
Rocca Albornoziana di Spoleto”, Commentari, XVI (2010) 45, pp. 23-38 (della stessa è in pubblica-
zione una monografia dedicata a questa decorazione profana: Ead., Gli affreschi della Camera Pinta
a Spoleto. Fonti letterarie e filologia artistica, Perugia 2013).
9. Vedi gli studi raccolti nel volume Il Palazzo Trinci di Foligno, a cura di Giordana Benazzi,
Francesco Federico Mancini, Perugia 2001, ed inoltre Andrea De Marchi, “Gentile da Fabriano e la
sua bottega”, in Gentile da Fabriano. Studi e ricerche, catalogo della mostra (Fabriano, Spedale di
Santa Maria del Buon Gesù, 2006), a cura di Andrea De Marchi, luogo 2006, pp. 9-53, speciatim
18-31; Palazzo Trinci. Nuovi studi sulla pittura tardogotica, a cura di Antonino Caleca, Bruno To-
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da Gentile da Fabriano, allora impegnatissimo a Venezia, ma messo in atto da


una squadra di collaboratori. Nella loggia che si affaccia sulla corte interna del
palazzo di Ugolino Trinci il manto pittorico si distende indifferente o quasi alle
accidentate partizioni delle pareti. Su quella breve di sinistra la parasta a metà
venne sfruttata per distinguere l’Amplesso nel tempio fra Rea Silvia e Marte dalla
Nascita di Romolo e Remo. Il fregio alto, però, prosegue sulla parasta aggettante
come se nulla fosse, svolgendo con disinvoltura girali e losanghe sugli angoli
della muratura. Nella parete lunga un ampio arcosolio, frutto di una probabile
tamponatura, è mimetizzato dalla continuità della zoccolatura marmorea e della
montagna disseminata di alberi, suggerendo semmai come un recesso per la sce-
na crudele in cui Rea Silvia viene interrata viva. Il continuum del fondale roccio-
so e boscoso doveva rilegare i vari episodi della narrazione, invitando l’occhio ad
errare lungo il dipanarsi avvincente della storia, relegando in un angolo, in alto
a destra, la decisiva deposizione dal trono di Alba Longa dell’usurpatore Amulio
da parte dei due gemelli, e sfociando infine nella terza parete, del tutto persa, che
doveva essere il vero clou, con la Fondazione di Roma.
La camera adiacente è dedicata ai pianeti e alle arti. Per variare, alla base sono
finti dei velari, mentre al vertice delle pareti, sotto la capriata lignea, è dipinta tutt’in-
torno un’ampia fascia dalla cimosa sfrangiata, su cui corre un tralcio di rose alterna-
to a cartigli con l’acronimo “fa”, quasi a voler imitare la lithe araldica che correva
alla base della volta lignea della chiesa della Chartreuse di Champmol. Al di sotto di
questa balza si squadernano i troni delle arti liberali, su una solida base marmorea,
e la sequenza incalzante delle divinità dei pianeti, lungo un mare di nuvole: le sole
soluzioni di continuità corrispondono alla porta dalla loggia e al camino, mentre le
basi diverse, cielo e terra, evidenziano lo stacco tra gli astri che governano lo svolgersi
della vita e le arti “terrene” che la indirizzano. Il volgere inesorabile del tempo è un
tema centrale del Liber de regnis o Quadriregio del Frezzi10 ed è il motivo dominante
di questo ciclo, che impiega le divinità astrali per alludere alla sequenza dei giorni
della settimana, da lunedì a domenica, dalla luna al carro di Apollo, e al contempo
le congiunge con dei dischi che indicano le Ore del giorno e le sette Età dell’uomo.
Questi dischi, nel cui cerchio esterno gira il sole, variando la partizione fra luce e
tenebre, sono ispirati puntualmente alle miniature dei Documenti d’amore di France-
sco da Barberino (1311-1313 circa). Questi distingueva sei Età, facendole iniziare in
parallelo con l’“Hora prima”, con l’Aurora, mentre il Mattutino era in corrispondenza
della sola Notte (fig. 7).11 L’aggiunta della Decrepitudo in congiunzione con la Nox a

scano, Livorno 2009; Dunlop, Painted Palaces. The Rise of Secular Art in Early Renaissance Italy,
University Park (Pa) 2009, pp. 73-87 e 186-209.
10. Si ricordino ad esempio passi come i seguenti: «Il cielo è quella rota che trasmuta / tutte
l’etadi della vita breve / e che la testa bionda fa canuta» (Federico Frizzi, Quadriregio, VI, 121-
123); «Il tempo e ’l ciel, che sopra voi è vòlto, / è una cosa, e, non voltando il cielo, / ciò che da
tempo pende, saria tolto: / fatica, fame, sete, caldo e gelo, / e ciò che segue al moto alternativo, /
morte e vecchiezza col canuto pelo» (ibidem, VI, 136-141).
11. «Figuras vide etiam ut tibi pulcrior appareat hic tractatus quod insimul cum horis repre-
sentantur etates ita etiam per se in ipso officiolo presentabantur ystorie ut in completorio decesserit
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palazzo Trinci è collocata come incipit del ciclo e non già come fine, per la corrispon-
denza della Notte con il carro della Luna, principio dei giorni della settimana: tale
scelta strategica permise inoltre di affrontare i due carri della Luna e del Sole e di pro-
porre una sorta di suggestivo enjambement nel volgere circolare delle Età dell’uomo,
dove la Decrepitezza dà la mano all’Infanzia, la Notte all’Aurora. Il continuum della
figurazione, priva di partizioni, era evidentemente congeniale al tema dominante del
tempo.
La disposizione del ciclo subì però alcune correzioni in corso d’opera, fra
sinopia e pittura, che attendono ancora di essere commentate.12 Le tracce di sino-
pia visibili presso i dischi dell’Ora nona/Gioventù e del Vespro/Maturità, ai due
lati di Saturno (fig. 5), mostrano una diversa posizione del sole, corrispondente
all’ora precedente, rispettivamente all’Ora sesta/Adolescenza, col sole allo ze-
nit, e all’Ora nona/Gioventù. Mentre questo secondo disco combacia con quello
dipinto, il precedente era più spostato verso l’angolo della parete. Quest’angolo
meridionale presenta il disco dell’Ora sesta/Adolescenza dipinto a cavallo tra i
due muri, in maniera anomala, non replicata nel corrispondente angolo orientale.
Se la parete breve, sud-orientale, con l’unica finestra affacciata sulla piazza, pre-
sentava nel progetto originale un solo disco, e non pure quello angolare anomalo,
se ne deduce allora che i dischi seguenti slittavano di uno e che la figurazione
astrologica doveva impegnare tutta la parete lunga, sud-occidentale, fino in fondo
(fig. 6). Credo insomma che sotto i troni della Retorica e dell’Aritmetica fosse
prevista la Compieta/Vecchiaia. Dal momento però che ci sono tracce della si-
nopia del carro del Sole, congruenti all’esecuzione,13 si evince che le corrispon-
denze tra i Pianeti e le Ore del giorno/Età dell’uomo erano diverse, slittate di una
unità. In questo modo i due carri del Sole e della Luna sarebbero stati affiancati,
mentre forse non convinceva, sulla parete di fronte, l’improbabile endiadi tra la
Notte/Decrepitezza e Marte, e si preferì cedere il posto a quella tanto più convin-
cente con la Luna.
Una conferma di questa ricostruzione del programma iniziale viene dai resti
di sinopia della parete di testa nord-occidentale, dove ora campeggia la Filosofia,
al centro fra l’Astronomia e la Geometria (fig. 9). Grazie ad una lacuna dell’into-

virgo beata et complete sint etates et completus sit dies et actente quod in matutino non presentatur
etas sed nox, in prima autem etas incipit ut aurora de qua hic mentio adhibetur» (Francesco da
Barberino, Documenti d’amore, 1311-1313 circa, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barb. Lat.
4076, cc. 76v-77r).
12. Questi pentimenti non sono discussi in nessun punto del volume del 2001 (Il Palazzo Trin-
ci [n. 9]). Li ho segnalati nel mio saggio del 2006 (De Marchi, “Gentile da Fabriano” [n. 9], p. 23),
dove formulavo però un’ipotesi ricostruttiva del progetto originale un po’ diversa da quella che ora
argomento, immaginando che il ciclo dei pianeti iniziasse con due tondi dalla parete sud-orientale
e che le arti liberali dovessero impegnare integralmente le pareti nord-occidentale e nord-orientale.
Vi fa quindi riferimento cursorio Bruno Bruni (“La tecnica esecutiva del cantiere gentiliano di
Palazzo Trinci”, in Palazzo Trinci [n. 9], pp. 133-160, speciatim 136), senza sviluppare nessun
ragionamento.
13. È vero che qui si riscontra una lieve correzione nella posizione della ruota del carro, dise-
gnato un po’ più a destra, ma si tratta di una variante poco significativa.
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naco, nella sinopia si vede un trono lobato più piccolo, spostato verso destra, cui
doveva corrisponderne un altro, in analoga posizione arretrata, a sinistra. Erano
dunque previste quattro cattedre disposte ad esedra, non tre, verosimilmente quel-
le del Quadrivio (Aritmetica, Astronomia, Geometria, Musica), mentre il Trivio
(Retorica, Dialettica, Grammatica) doveva occupare i restanti tre troni, sulla pa-
rete nord-orientale, fino al camino (fig. 8). La compressione del ciclo astrologico
comportò una rivoluzione nella sequenza delle Arti, organizzate attorno alla Filo-
sofia, inizialmente non prevista, e permise anche di far cadere la cesura in corri-
spondenza della porta di accesso dalla Loggia. La soluzione di compromesso fu
quella di porre il disco dell’Ora sesta/Adolescenza a libro, sull’angolo, ma come
abbiamo visto ciò non comprometteva la scansione del ciclo, anzi ne enfatizzava
la circolarità e lo svolgimento inintermesso.
Lo sviluppo di rivestimenti avvolgenti, che negano gli angoli, è comune a
tutte le decorazioni profane tardogotiche. Perfino a Firenze, nella famosa camera
con le storie della Castellana di Vergy, a palazzo Davanzati, le arcate del loggiato
dipinto al vertice delle pareti, cadono a cavaliere degli angoli, a bella posta.14 Ci
concentriamo però su alcuni esempi legati al mondo delle corti dell’Italia supe-
riore. Una delle scoperte più importanti degli ultimi anni riguardo alla pittura
profana di età gotica in Italia settentrionale sono le due camere del palazzo di
Francesco di Marsilio Gonzaga a Mantova, rese note da Vincenzo Gheroldi nel
2009.15 Nonostante la conservazione frammentaria quanto rimane ci restituisce
un’idea molto suggestiva di una decorazione a 360 gradi, che fasciava tutte le
pareti girando sugli angoli, tra i velari appesi in basso e la cornice superiore, in-
cludente anche qui un tralcio di rose e gli stemmi gonzagheschi. La continuità era
assicurata dai fondali fortemente caratterizzanti, come finte stoffe stampigliate e
un tempo punteggiate di rilievi dorati, rossa nella sala dei giochi, blu nella sala
delle caccie. Nella sala rossa i passatempi cortesi, fra cui spicca una coppia se-
duta su una panca intarsiata intenta al gioco degli scacchi, si svolgono contro un
lussureggiante verziere, da cui sbucano frondosi alberi da frutto, che cadenzano
il panopticon, tre sulle pareti lunghe, due su quelle brevi (fig. 10). È come se si
suggerisse il ritmo divagante di una passeggiata, proiettando la vita di società
nella dimensione idealizzata di un viridarium globale. Lo schema è ripetuto nella
sala blu, dove il profilo degli arbusti contro il fondo è più mosso e un balestriere
indirizza la sua freccia contro un uccello nascosto nel folto della chioma di un
albero; al suo fianco una donna dal pittoresco copricapo, vestita coi tre colori
gonzagheschi, rosso verde e bianco, siede a terra, con un ghepardo accoccolato
ai suoi piedi, che si lecca la zampa come un felino domestico, e dall’altra parte
un altro cacciatore chino verso il basso, sta caricando la sua balestra (fig. 11).

14. Vedi Monika Dachs, “Zur ornamentalen Freskendekoration des Florentiner Wohnhauses
im späten 14. Jahrhundert”, Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XXXVII
(1993), pp. 73-100.
15. Vincenzo Gheroldi, “Giochi e cacce, per Francesco di Marsilio Gonzaga”, in Una dimora
di Francesco di Marsilio Gonzaga, con testi di Federico Biffi, Andrea De Marchi, Elisabetta Garilli,
Vincenzo Gheroldi e Franco Mondadori, Mantova 2009, pp. 26-53.
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L’illusione della tranche de vie, nutrita di notazioni naturalistiche che coniugano


l’eredità lombarda della cultura dei Tacuina sanitatis con una sodezza di volumi
neogiottesca, affine agli esiti coevi della pittura ferrarese, rende plausibile e ve-
rosimile il sogno di una felicità cortese. Queste pitture, databili a ridosso dell’ac-
quisizione nel 1411 del palazzo, posto in contrada Montenero, tra il ponte di San
Giacomo e la chiesa di San Francesco, da parte di questo importante esponente
di un ramo cadetto della famiglia Gonzaga, per la loro qualità molto alta costitu-
iscono un’aggiunta fondamentale alle nostre conoscenze sulla pittura tardogotica
mantovana, in un momento in cui non è ancora comparso Pisanello, radicato
come stipendiato di corte dall’inizio del terzo decennio. Lo stesso pittore – un cu-
gino di Antonio de Carro a Piacenza e del maestro delle pitture venatorie al piano
nobile di Palazzo del Paradiso a Ferrara – ci era già noto solo per una Madonna
allattante il Bambino, strappata da casa Fiera, conservata nel Palazzo Ducale, in
cui Toesca apprezzava «le tinte tenui e la soavità di modellato proprie ai pittori
lombardi».16 Le carni turgide ma delicatamente sfumate e la triangolazione delle
pieghe come stiacciate sono sovrapponibili, al di là di ogni ragionevole dubbio,
ad esempio con la donna in piedi che protende con energia il braccio destro, in-
tenta in una discussione, nella sala rossa. Al tempo stesso è la prima decorazione
di questo genere che emerge a Mantova, comparabile ma precedente a quelle dei
casini lombardi, come Oreno, Pallanza, Cassine, ecc.: può aiutare ad immaginare
gli affreschi del palazzo di Gianfrancesco Gonzaga, tutte quelle camere di Ercole,
di Lucrezia, dei paladini, di Lancillotto, dell’uomo selvatico, del falco e via di-
cendo… citate negli inventari, nonché le famose scene venatorie perdute descritte
da Stefano Breventano nel castello di Pavia o i «boschi con le sue cacie et figure
trate dal naturale, con cavalli e cani» commissionati nel 1472 per il Castello di
porta Giovia a Milano.
A monte di questo esempio mantovano non mancano altre sopravvivenze di
cicli profani con scene di svago e di caccia, svincolate dalle tematiche prevalen-
ti ispirate ai romanzi arturiani. Così nella dimora dei Winkler a Castelroncolo/
Runkelschloss sopra Bolzano, verso il 1392, e prima ancora nella Rocca di Arco,
in cima al lago di Garda. La metà superiore delle pareti di una piccola camera
quadrata è impegnata da scene di vita signorile, su fondo blu, dove i giochi degli
scacchi e dei dadi si alternano alle giostre, ai corteggiamenti e ai voti degli aman-
ti, rilegate dai motivi mistilinei di una fettuccia continua bianca, con bizzarra
rielaborazione bidimensionale, quasi araldica, dei motivi imposti nei fregi degli
affreschi giotteschi in Veneto (fig. 12). L’aspetto destrutturato e lo stesso reper-

16. Pietro Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia. Dai più antichi monumenti alla
metà del Quattrocento, Milano 1912 (ed. Torino 1987), p. 174, fig. 356. La vicenda critica dell’ope-
ra è ripercorsa da Stefano L’Occaso (Museo di Palazzo Ducale di Mantova. Catalogo generale
delle collezioni inventariate. Dipinti fino al XIX secolo, Mantova 2011, pp. 101-102, cat. 25), che
rimane perplesso di fronte al collegamento con gli affreschi di casa di Francesco di Marsilio Gonza-
ga e propone invece dei rapporti, che non condivido, da una parte con il pavese Maestro dell’ancona
Barbavara, di cultura alla Giovannino de’ Grassi, dall’altra con opere cremonese e bresciane incer-
tamente riferite a Giovanni Bembo, documentato a Mantova nel 1412.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 489

torio ornamentale con echeggiamenti dei fogliami tardo-duecenteschi, converge


con i dati della moda e dello stile, nel rivendicare una data alta, verso il 1330, e
un riferimento alla bottega veronese del Maestro del Redentore per questo ciclo,
che era stato collegato alla notizia troppo tarda dell’invito da parte del signore lo-
cale, Antonio d’Arco, rivolto nel 1380 al pittore mantovano Graziolo.17 Il modulo
stellato dei riquadri è disteso sui muri d’ambito in modo tale che la cesura, priva
di valenza architettonica, non coincide con gli angoli, ma sborda di qua o di là.
Il panopticon forse più impressionante è quello offerto da un altro ciclo coe-
vo nel vicino castello di Sabbionara d’Avio, oggetto di recuperi e studi recenti.18
La «camera d’amore» è asserragliata in cima del Donjon, di modo che la difficile
accessibilità esalti l’atmosfera rarefatta ed esclusiva che vi si respira. La volta,
scompartita in quattro da nastri iridati e staccata, quasi librata al di sopra di una
teoria di modiglioni che non si sorregge su nulla, è molto lacunosa e presentava
allegorie ora non bene identificabili. Più qualificante ancora è però la parte bassa
delle pareti, dal profilo arrotondato, dove preziosi velari di vaio sono riscattati da
un mero ruolo accessorio, divengono protagonisti per il forte sviluppo in altezza
e soprattutto per l’idea spettacolare di scostarli ad intervalli irregolari, di modo
da far affacciare ora Amore che cavalca con l’arco teso un destriero balzante, ora
una donna e un uomo trafitti dai suoi dardi, ora un cinghiale azzannato da un cane
e incalzato da un cacciatore con la picca, ora una coppia che si bacia appassio-
natamente mentre lui sta partendo a cavallo (fig. 13). L’assorbimento del telaio
illusionistico e architettonico nell’illusione come di una grande tenda circense,
per cui la dimensione virtuale fa irruzione in quella reale, non potrebbe essere
più evocatore.
In una posizione analoga è la camera dei Mesi che il principe-vescovo di Tren-
to Georg von Liechtenstein fece affrescare a maestro Venceslao verso il 1397,19
dentro Torre Aquila (fig. 14). Lo zoccolo delle pareti è dipinto con finte incorni-
ciature scultoree assai complesse, derivate dalla tradizione neogiottesca diffusa in

17. Questo ciclo è riemerso nel 1986. La sala, quasi quadrata, è di modeste dimensioni (5,60
x 6,50 metri, altezza di 3,20 metri). Vedi lo studio di Giovanna degli Avancini, “Il Trentino e la
pittura profana nel Trecento”, in Le vie del Gotico [n. 2], pp. 129-163, speciatim 141-163, e Ead.,
“20. Arco, Castello, Sala degli affreschi”, ibidem, pp. 572-599, che propone una data tra 1364 e
1373 e un collegamento col matrimonio fra Antonio d’Arco e Orsola da Correggio nel 1366, tesi
che contrasta drammaticamente con i dati dello stile e della moda.
18. Vedi in particolare per la «camera d’Amore»: Serenella Castri, “La camera d’Amore: pro-
poste interpretative”, in Castellum Ava. Il Castello di Avio e la sua decorazione pittorica, a cura di
Enrico Castelnuovo, Trento 1987, pp. 199-221; Degli Avancini, “Il Trentino” [n. 17], pp. 130-140,
e Ead., “19.I. Avio, Castello di Sabbionara, Camera di Amore”, in Le vie del Gotico [n. 2], pp. 534-
545; Dunlop, Painted Palaces [n. 9], pp. 123-132. La datazione più probabile sembra quella verso
il 1330, per commissione di Guglielmo III Castelbarco, prima della visita che gli rese il principe
Carlo di Boemia nel 1333.
19. Decisiva è la scoperta del documento del 1397, in cui il capitolo del Duomo cede in affitto
a maestro Venceslao una casa in prossimità di Port’Aquila, su richiesta del vescovo Liechtenstein
(Emanuele Curzel, “Venceslao pittore a Trento. Un nuovo documento per l’attribuzione dei ‘Mesi’
di Torre Aquila?”, in Studi trentini di scienze storiche, LXXIX (2000), 1-2, pp. 5-8).
490 Andrea De Marchi

Alto Adige,20 scorte al di là dei velari; al di sopra il vario e accidentato paesaggio


alpino, cangiante di mille colori, di stagione in stagione, è srotolato senza solu-
zione di continuità al di là di esilissime colonnine tortili, quasi filiformi: è come
se la torre si trasformasse in loggia e si aprisse sulla vista circostante, proiettando
sulle pareti l’illusione caleidoscopica di un dominio in cui le fatiche degli uni si
armonizzano con i piaceri degli altri. L’effetto quasi di carrellata cinematografica
è sottolineato da dettagli che suggeriscono il rifluire da un mese all’altro, in un
racconto continuo, come la città dipinta in un angolo, metà nell’Agosto e metà nel
Settembre, ovvero la fanciulla che avanza e si aggrappa con una mano dietro ad
una colonna, pronta a passare insieme alla compagna da Aprile a Maggio.21
Il neogiottismo altichieresco, promanante da Verona e Padova, alla fine del
Trecento impose in una vasta plaga la moda di incorniciature architettoniche ric-
che di modanature e di grande impatto illusionistico. Ben presto, però, le esigenze
della decorazione profana d’interno spinsero a decostruire il metodo razionale
sotteso a tale moda, giocando piuttosto con improvvisi sfalsamenti di piani ed
ambiguità dei livelli di illusione. Nella camera di Ercole al piano terreno di Pa-
lazzo del Paradiso a Ferrara, dipinta nell’ultimo decennio del Trecento,22 poderosi
pilastri poligonali, intarsiati di specchiature marmoree, scandiscono le singole
scene e sono piegati sugli angoli, ma al loro vertice diventano balconcini da cui
affacciano fanciulle musicanti, che accompagnano al suono dei loro strumenti il
racconto sottostante, a metà fra spettatori e protagonisti; questi singolari podioli
erano poi raccordati da una teoria di archetti ogivali e da una galleria di esili co-
lonnine stagliate sul fondo rosso, nonché dalla ricca fascia scultorea sommitale,
sormontata a sua volta da un fastigio traforato, contro l’azzurro, insinuato tra gli

20. In questi fregi si può verificare la continuità con gli affreschi della cappella del cimitero
di Rifiano, firmati da Venceslao nel 1415, che pur ci mostrano il maestro assai mutato, venti anni
più tardi. Per la filiazione di simili ornati dalla cultura altichieresca del Maestro di San Valentino
a Siusi: Andrea De Marchi, “Illusionismo nordico e spazialità giottesca a Bolzano. L’interferenza
di due culture in un caso esemplare”, in Trecento. Pittori gotici a Bolzano, catalogo della mostra
(Bolzano, Städtisches Museum, 2000), a cura di Andrea De Marchi, Tiziana Franco, Silvia Spada
Pintarelli, Trento 2000, pp. 15-25, speciatim 22-23.
21. Vedi Enrico Castelnuovo, I Mesi di Trento. Gli affreschi di Torre Aquila e il Gotico inter-
nazionale, Trento 1986; Francesca de Gramatica, “21. Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre
Aquila”, in Le vie del gotico [n. 2], pp. 600-607.
22. Il palazzo sarebbe stato eretto nel 1391, in seguito al matrimonio della figlia di Cabrino
de’ Roberti, Giovanna, con il marchese Alberto d’Este nel 1388. Cfr. Carlo Ludovico Ragghianti,
Stefano da Ferrara, Firenze 1972, p. 154; Daniele Benati, “Pittura tardogotica nei domini estensi”,
in Il tempo di Niccolò III. Gli affreschi del Castello di Vignola e la pittura tardogotica nei domini
estensi, catalogo della mostra (Vignola, Rocca medievale, 1988), a cura di Daniele Benati, Modena
1988, pp. 43-60: 44-47; Ranieri Varese, “Palazzo Paradiso. Gli affreschi”, in Il Museo Civico in
Ferrara. Donazioni e restauri, catalogo della mostra (Ferrara, Chiesa di San Romano, 1985), a
cura di Elena Bonatti, Firenze 1985, pp. 186-193; Cinzia Fratucello, “Note sull’iconografia degli
affreschi della camera di Ercole nel Palazzo Paradiso a Ferrara”, in Musei ferraresi, XVIII (1999),
pp. 18-39; Chiara Guerzi, Pittori e cantieri della Ferrara tardogotica, da Alberto (1388-1393) a
Nicolò III d’Este (1393-1441), tesi di dottorato, Università di Udine, a.a. 2007/2008, pp. 302-322;
Dunlop, Painted Palaces [n. 9], pp. 43-53.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 491

intervalli delle travi, che alludeva così a spazi ulteriori e qualificava l’intera com-
plessa apparecchiatura illusionistica come una sorta di corte incantata (fig. 15).
L’idea del continuum narrativo, e non già della scansione di momenti distinti
attraverso partimenti architettonici e riquadrature, governa all’opposto l’inven-
zione suprema della camera arturiana dipinta verso il 1430 o poco dopo da Pi-
sanello per Giovanfrancesco Gonzaga nella sua residenza mantovana (fig. 16).
L’incompiutezza indubbia di questo ciclo pittorico ha fatto molto discutere, ma
può essere meglio compresa se si ragiona sulla percezione prevista per questo
ambiente. Non ci fu infatti un’interruzione improvvisa. La sinopia del Torneo, a
grossi tratti nerastri sull’arriccio, cede il campo sulle altre pareti ad una sinopia
rossa più rifinita e delineata su un intonaco ben levigato e completa anche delle
iscrizioni identificative dei cavalieri erranti. È interessante il fatto che il primo
tipo di sinopia si estenda anche su una porzione delle due pareti limitrofe a quella
del Torneo e l’intonachino sia steso anche su queste, per poi interrompersi, con
un solo punto di contraddizione, in corrispondenza del palco delle donne. Solo
qui, in questo settore alto, l’intonachino si sovrappone sulla sinopia rossa, per
un’evidente correzione in corso d’opera, che voleva rafforzare il raccordo visivo
del palco con la scena del torneo.23 Idea bellissima di Pisanello fu infatti quella

23. Come ben individuato da Tiziana Franco: «Il sovrapporsi della pittura sul disegno in terra
rossa corrispondente alle dame sul palco fu forse compiuto per accentuare questo effetto di dila-
tazione e per equilibrare visivamente la decorazione della parte di fronte dove la descrizione della
selva a fresco e a secco si estende fino alla finestra: di certo è la testimonianza di una correzione in
corso d’opera» (Tiziana Franco, in Pisanello. Una poetica dell’inatteso, a cura di Lionello Puppi,
Cinisello Balsamo 1996, p. 69). A Tiziana Franco (ibidem, pp. 60-71) si deve a mio avviso la sintesi
più equilibrata e condivisibile su questi dibattutissimo ciclo. Richiamo comunque le tesi discordanti
sostenute da Joanna Woods-Marsden, The Gonzaga of Mantua and Pisanello’s Arthurian frescoes,
Princeton 1988 (un libro molto ben documentato e attento agli aspetti tecnici, ma inficiato dalla
datazione insostenibile al tempo di Ludovico Gonzaga, in linea con lo scopritore dei murali, Gio-
vanni Paccagnini, e con la sua spiegazione dell’incompiutezza accidentale; la Woods-Marsden ha
ben argomentato l’importanza dell’accesso dall’angolo nord-occidentale della sala) e Luciano Bel-
losi (“The Chronology of Pisanello’s Mantuan Frescoes Reconsidered”, The Burlington Magazine,
CXXXIV (1992), pp. 657-660). Recente è un saggio di Giuliana Algeri (“Il ciclo pisanelliano”, in
Il Palazzo Ducale di Mantova, a cura di Giuliana Algeri, Mantova 2003, pp. 63-85), che ripropone
una data subito dopo il 1437, per via della concessione in quell’anno dell’onorificenza del collare
del cigno, ipotizzando un’interruzione a causa della precedenza data alle pitture di Pisanello nella
cappella della dimora di Marmirolo. Una data simile cozza con lo stile degli affreschi, precedenti
il San Giorgio Pellegrini (1436 circa) e vicinissimi a mio avviso al frammento con Testa muliebre
del Museo di Palazzo Venezia (per cui cfr. Franco, ibidem, pp. 59-60), che può davvero provenire
dalle perdute Storie di San Giovanni Battista di San Giovanni in Laterano, realizzate fra 1431 e
1432 (non è stato finora notato che dietro alla donna c’è il cinturone di una figura vestita di verde col
tipico gonnellino ampiamente foderato di pelliccia, secondo la moda maschile diffusa fra gli anni
venti e quaranta del Quattrocento, mentre la lamina d’argento sulla sinistra dovrebbe appartenere
al vestito di un’altra figura ancora; sospetto allora che sia un dettaglio dei neofiti che assistono alla
predicazione del Prodromo, in una folla di astanti di ambo i sessi, sontuosamente abbigliati). Per un
riepilogo degli studi vedi inoltre l’ampia scheda di Stefano L’Occaso, in Museo di Palazzo Ducale
[n. 16], pp. 103-108. Sono grato a Stefano L’Occaso che mi ha fornito alcune riprese degli affreschi
mantovani di Pisanello.
492 Andrea De Marchi

di porre il palco, ma anche i cavalieri che si preparano per la mischia, al fondo


della parete sinistra, ad angolo reale rispetto al Torneo, che normalmente veniva
raffigurato nella stessa composizione e sullo stessa parete del palco, come si vede
a Castelroncolo/Runkelschloss. In questo modo accrebbe la teatralizzazione dello
spazio attraverso il decoro dipinto. Che la sua intenzione fosse quella di annullare
la percezione dei due angoli al fondo della sala è evidente per la raffigurazione di
cavalieri e destrieri a sormonto fra le pareti, a sinistra (fig. 17), e per la continuità
delle rocce e della boscaglia in cui vagano i leoni, sulla destra. Il fregio araldico
al vertice, incompiuto a livello del disegno spolverato, girando su queste due por-
zioni di muro adiacenti e interrompendosi dove finiva la parte propriamente af-
frescata, ribadisce il concetto. Anche il Torneo non è finito,24 ma l’incompiutezza
è disseminata a macchia di leopardo, ora applicando la lamina finemente graffiata
delle armature, ora lasciando a vista un disegno color rosso. Nel palco, ricoperto
dall’intonachino solo nella parte alta, c’è come una dissolvenza studiata verso la
diversa facies della parete, a puro disegno in terra rossa, perché solo i volti delle
donne sono colorati, mentre le vesti e il baldacchino sono tratteggiati a pennello,
intinto di color ocra (fig. 18).25 Non si può insomma sostenere che non ci fosse un
calcolo, anche se frutto di un probabile compromesso in vista di un allestimento
affrettato, che io credo fosse quello dell’imminente arrivo a Mantova, nel settem-
bre del 1433, di Sigismondo, appena incoronato imperatore a Roma.26 È evidente
allora che la parete sud-orientale col Torneo indetto da re Brangoire al château
de la Marche, che costituiva l’incipit del racconto estratto da un episodio minore
del Lancelot, era la più importante. Era quella che veniva inquadrata per prima
quando si entrava nel salone, dalla parte opposta, dall’angolo occidentale dove
era una porta in comunicazione con una scala coperta esterna, che era addossata
al palazzo del Capitano.27 Con questo salone il signore di Mantova si presentava a
chi veniva in visita: lo accoglieva nell’abbraccio di una narrazione sterminata ed

24. Contrariamente a quanto talora si afferma (L’Occaso, in Museo di Palazzo Ducale [n. 16],
p. 106: «a uno stadio finito ci rimane solamente la parete del Torneo»).
25. Molto utile è la documentazione raccolta da Marcello Castrichini (Pisanello restauri ed
interpretazioni, Todi 1996), in una pubblicazione che non è stata molto presa in considerazione,
forse per le conclusioni apodittiche e un po’ forzate cui giunge, nel tentativo di accreditare l’idea
di un’interruzione comunque accidentale ed improvvisa. Io credo che l’incompiutezza all’interno
di un’unica giornata, nel palco delle donne, sia intenzionale e risponda ad un calcolo, per graduare
la transizione alla parte seguente lasciata con il disegno a sinopia a vista e abbia una sua logica
per differenziare il lato del palco verso il torneo, più smaltato e luminoso. La tesi poi che i lavori
abbiano preso inizio dalla parete breve nord-orientale non è dimostrabile e non spiega la variante
radicale di sinopia, di altro colore e sull’arriccio, che solo in un secondo momento sarebbe stata
scelta per la parete opposta.
26. In quel frangente Giovanfrancesco Gonzaga ottenne un importante riconoscimento impe-
riale e l’attribuzione del titolo marchionale.
27. L’importanza di questo accesso esterno è ridimensionata da Giuliana Algeri (“Il ciclo”
[n. 23], pp. 65 e 70-72), per via dell’esistenza di altre porte e in particolare di una scala antica nel
luogo dell’attuale scalone delle Duchesse, che però era comunque una scala interna. A suo avviso
l’ingresso principale per gli ospiti sarebbe stato allora dalla porta nell’angolo orientale: entrando
avrebbero dato le spalle al palco delle dame e a gran parte del torneo.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 493

incalzante, trucida ed appassionante, lo attirava verso lo spettacolo fiero e crudele


della grande mêlée, accensione di metalli e di colori che sfumava da una parte
e dell’altra, verso boschi selvaggi o verso il palco elevato delle donne, irretendo
così lo spettatore.
La volontà di suggerire un continuum panottico vale per tante altre decora-
zioni profane tardogotiche, a cominciare dal salone baronale del castello della
Manta, con la sequenza narrativa della Fontaine de Jouvence e la teoria allegorica
dei Neuf Preux e delle Neuf Preuses svolte dalla pareti lunghe su quelle brevi, fino
ai lati del camino di fondo. Vorrei concludere però con un esempio molto meno
noto, di grande suggestione. Mi riferisco alla «camera della Dama» ricavata al
piano nobile della Torre del Passerino, cerniera fra le due ali dell’ampliamento
settentrionale del palazzo dei Pio a Carpi, la cosiddetta Rocca nuova, intrapresa
dopo il 1418 da Alberto II, per distinguersi dalle residenze dei fratelli Galasso III
e Giberto II, poste a meridione della corte grande.28 Dopo la sua morte, nel 1463,
il figlio Leonello ristrutturò ulteriormente questi appartamenti,29 ma i documenti
precedenti già ci parlano di una dimora ricca di decorazioni, menzionando tra
1446 e 1453 una «camera di Troilo», una «camera di Diana», una «camera di
Cerere», che «vulgariter appellatur la camera del formento», ad esemplificazione
della percezione corrente, banalizzata, dei colti riferimenti mitologici presenti in
questo genere di decorazioni.30 Una vestigia rimane appunto nella «camera della
Dama», che era probabilmente l’alcova del signore, essendo identificabile con
la «camera turris residentiae domini Alberti» o la «camera turris cubiculari»31
affacciata sul «broylum», giardino segreto tra la Torre del Passerino e l’area dove
in seguito venne eretta la torre dell’Uccelliera. Le pitture di questo ambiente in
sostanza quadrato, cui non è mai stato dedicato un vero studio critico, vanno
rivendicate con forza, a mio avviso, come opera di Giovanni da Modena (figg.
19-20),32 che a Carpi lasciò pure una Madonna col Bambino in trono coronata da

28. Vedi Marco Folin, “Nei palazzi quattrocenteschi dei Pio: apparati decorativi e organizza-
zione degli spazi di corte”, in Il palazzo dei Pio a Carpi. Sette secoli di architettura e arte, a cura di
Manuela Rossi, Elena Svalduz, Venezia 2008, pp. 51-59; Cristina Deighi, Tania Previdi e Manuela
Rossi, “L’apparato decorativo di palazzo dei Pio”, ibidem, pp. 151-203. Sono grato a Manuela
Rossi, conservatrice del Museo del Palazzo dei Pio, che mi ha generosamente procurato alcune
immagini della camera della Dama.
29. A lui, prima della morte nel 1477, si deve la decorazione delle sale dell’Amore e dei Trion-
fi, intrise di cultura ferrarese vagamente cossesca.
30. C’era poi «Una camera delle ninfe», che però è citata la prima volta solo in un atto del
1468, già al tempo di Leonello.
31. Così è citata rispettivamente in un documento del 1445 e del 1481 (Folin, “Nei palazzi”
[n. 28], p. 52; Dieghi, Previdi e Rossi, L’apparato [n. 28], pp. 157-159). In seguito la camera della
Torre del Passerino venne utilizzata come stanza da letto di Caterina Pico, figlia di Giovanni Pico
della Mirandola, vedova di Leonello e madre di Alberto III. Infondata, per elementari ragioni di
cronologia, è l’idea che la Dama faccia riferimento a lei.
32. Ho sostenuto l’attribuzione a Giovanni da Modena in Andrea De Marchi, “Michele di
Matteo a Venezia e l’eredità lagunare di Gentile da Fabriano”, Prospettiva, LI (1987), pp. 17-36,
speciatim 21, e Id., “Faloppi (Falloppi), Giovanni di Pietro (Giovanni da Modena)”, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. 44, Roma 1994, pp. 492-498, speciatim 495 (commentando l’apertura
494 Andrea De Marchi

due angeli, affresco strappato in San Francesco, e a cui si deve anche il cerbiatto
dipinto sotto un arco traforato da archetti, strappato dal muro esterno meridionale
del torrione di Galasso III, successivo al 1443.33 Una data nel cuore degli anni
quaranta sembra probabile anche per le pitture della «camera della Dama», che
presenta la moda borgognona del copricapo a sella della dama, diffusa in quel
decennio. La gracilità nervosa delle figure e degli animali sono del resto in li-
nea con l’ultima evoluzione dell’arte di Giovanni da Modena.34 Coppie di alberi
punteggiano le pareti, a lato della finestra, del camino e della testata dell’alcova,
dove transita una donna a cavallo, additando la coppia dipinta in due mandorle
celesti nella vela soprastante; sull’altra parete, la più sgombra, una donna siede
sotto un aereo baldacchino, con un cagnolino bianco in grembo, simbolo di fe-
deltà, contro un paesaggio con due boschetti ai lati. È come se il verziere, su cui
si affacciava la camera, vi facesse irruzione e la trasfigurasse, grazie all’illusione
di tralci carnosi frastagliati che si espandono lungo i costoloni della volta a cro-
ciera, con invenzione che ha un singolare precedente nella cappella di San Zan
Degolà a Venezia, affrescata alla fine del Duecento dal Maestro del 1324,35 ma
che dialoga in fondo con gli esiti più alti del tardogotico di corte francese, come
la torre di Filippo il Bello a Parigi. Quest’ideale gazebo vegetale doveva stagliarsi
in origine contro fondali azzurri, di cui resta ora il morellone di base, tempestati
di pigne dorate in rilievo.36 Un seguito, ma spalancato su un’illusione di paesaggi
ormai rinascimentali, si avrà poco lontano nella «camera dorata» del castello di
Torchiara presso Parma, affrescata sulla volta e sulle pareti dal cremonese Bene-
detto Bembo, nel 1462.37 Sulla crociera, irrorata contro l’azzurro dal sole e dalle

illusionistica «tutt’intorno verso un unico paesaggio percorso da cavalcate signorili, con un’idea
memore delle potenti scenografie della cappella Bolognini»). In precedenza questi affreschi erano
stati avvicinati al Faloppi da Carlo Volpe (“La pittura gotica. Da Lippo di Dalmasio a Giovanni da
Modena”, in La Basilica di San Petronio in Bologna, Bologna 1983, pp. 213-294, speciatim 292
nota 30), che però li teneva distinti e li connetteva ad un disegno a penna e biacca su carta azzurra
con personaggi a cavallo del Kupferstichkabinett di Dresda (inv. C 150), da ricondurre pure al mo-
denese (cfr. Lorenza Melli, I disegni italiani del Quattrocento nel Kupferstich-Kabinett di Dresda,
Firenze 2006, pp. 30-35, come Giovanni da Modena; avevo già proposto questa attribuzione in
De Marchi, “Michele di Matteo” [n. 32], p. 21). Vicini, ma distinti da Giovanni, sono gli affreschi
carpigiani anche per Daniele Benati (“Pittura tardogotica” [n. 22], p. 56).
33. Vedi Alfonso Garuti, Carpi, Museo Civico “Giulio Ferrari”. I dipinti, Bologna 1990, p. 23.
34. A sostegno dell’attribuzione a Giovanni da Modena si veda ad esempio la caratterizza-
zione del muso del cavallo su cui monta la dama, dai tratti spigolosi e dall’espressione perfida, a
confronto con gli stessi animali, dromedari e asini, del seguito dei magi nella cappella Bolognini.
35. Cfr. Ludovico V. Geymonat, “Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia”,
in Venezia e Bisanzio, a cura di Clementina Rizzardi, Venezia 2005, pp. 513-579.
36. Questi affreschi sono stati scoperti nel 1920 e negli anni sessanta del secolo scorso sono
stati oggetto di un restauro un po’ invasivo, che ha risarcito ampiamente la stesura del morellone;
sulla parete meridionale, con la Dama a cavallo, e su quella occidentale, con le tracce del camino,
restano lacerti dell’azzurrite sovrammessa.
37. Vedi Joanna Woods-Marsden, “Pictorial legitimation of territorial gains in Emilia. The
iconography of the Camera Peregrina Aurea in the Castle of Torchiara”, in Renaissance Studies
in Honor of Craig Hugh Smyth. 2. Art, architecture, a cura di Andrew Morrogh, Fiorella Superbi
Gioffredi, Florence 1985, pp. 553-570.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 495

fiamme dorate, gira un panorama a 360 gradi, senza soluzione di continuità tra
costolone e costolone, in cui sono proiettati i colli e i castelli circostanti, dominî
del signore Pier Maria de’ Rossi, riproponendo in maniera più esplicita e didasca-
lica un’idea presente nella camera dei Mesi di Torre Aquila a Trento. Al tempo
stesso la rappresentazione dell’amata, Bianca Pellegrini, peregrinante fra questi
colli per gioco onomastico, suggerisce l’idea di una diacronia ciclica e senza
fine, dilata e traspone i limiti del paesaggio realistico nella dimensione mentale
e sconfinata dell’amore idealizzato, petrarchesco, che abbaglia, sovrasta e tutto
abbraccia.
496 Andrea De Marchi

Fig. 1. Taddeo Gaddi, incorniciature del ciclo di Storie della Vergine. Firenze, Santa Croce, cap-
pella Baroncelli.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 497

Fig. 2. Pittore italiano attivo ad Avignone verso il 1340, Scene di caccia e di pesca. Avignon, Pa-
lais des Papes, camera della Garde-Robe o del cervo.
498 Andrea De Marchi

Fig. 3. Altichiero, Sogno di Carlo Magno e concilio prima della presa di Pamplona. Padova, Ba-
silica del Santo, cappella di San Giacomo.
Fig. 4. Maestro della Dormitio di Terni, Danza al cospetto di Teseo. Spoleto, Cassero, camera di
Marino Tomacelli.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 499

Fig. 5. Bottega di Gentile da Fabriano, Saturno tra l’Ora nona (Gioventù) e il Vespro (Maturità).
Foligno, Palazzo Trinci, camera dei pianeti e delle arti.
500 Andrea De Marchi

ARTI
LOGGIA DELLA LIBERALI
FONDAZIONE DI
ROMA

PIANETI PASSAGGIO
PASSAGGIO
ETA’ COPERTO
COPERTO
SALA DEGLI DELL’ NEUF
NEUF
IMPERATORI UOMO, ORE PREUX
PREUX
ETA’
ETA’
DELL’UOMO
DELL’UOMO

Marte Mercurio Giove Venere Saturno Sole Luna

Infantia Adulescentia Consistentia


Decrepitudo Pueritia Iuventus Senectus
Mattutino Ora prima Ora terza Ora sesta Ora nona Vespro Compieta

ARTI
LOGGIA DELLA LIBERALI
FONDAZIONE DI
ROMA

PIANETI PASSAGGIO
PASSAGGIO
ETA’ COPERTO
COPERTO
SALA DEGLI DELL’ NEUF
NEUF
IMPERATORI UOMO, ORE PREUX
PREUX
ETA’
ETA’
DELL’UOMO
DELL’UOMO

Marte Mercurio Giove Venere Saturno Sole Luna

Decrepitudo Infantia Pueritia Adulescentia Iuventus Consistentia Senectus


Mattutino Ora prima Ora terza Ora sesta Ora nona Vespro Compieta
Luna Mattutino
Marte Ora prima
Mercurio Ora terza
Giove Ora sesta Saturno
Venere Ora nona Sole Vespro Compieta

Fig. 6. Foligno, Palazzo Trinci, camera dei pianeti e delle arti, piano iconografico primitivo dei
pianeti.
Fig. 7. Foligno, Palazzo Trinci, camera dei pianeti e delle arti, piano iconografico definitivo dei
pianeti.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 501

ARTI
LOGGIA DELLA LIBERALI
FONDAZIONE DI
ROMA

PIANETI PASSAGGIO
PASSAGGIO
ETA’ COPERTO
COPERTO
SALA DEGLI DELL’ NEUF
NEUF
IMPERATORI UOMO, ORE PREUX
PREUX
ETA’
ETA’
DELL’UOMO
DELL’UOMO

QUADRIVIUM TRIVIUM

Aritmetica Musica Grammatica Retorica


Astronomia Geometria Dialettica
Mattutino Ora prima Ora terza Ora sesta Ora nona Vespro Compieta

ARTI
LOGGIA DELLA LIBERALI
FONDAZIONE DI
ROMA

PIANETI PASSAGGIO
PASSAGGIO
ETA’ COPERTO
COPERTO
SALA DEGLI DELL’ NEUF
NEUF
IMPERATORI UOMO, ORE PREUX
PREUX
ETA’
ETA’
DELL’UOMO
DELL’UOMO

QUADRIVIUM TRIVIUM

Retorica Astronomia Geometria Dialettica


Aritmetica Filosofia Musica Grammatica
Mattutino Ora prima Ora terza Ora sesta Ora nona Vespro Compieta

Fig. 8. Foligno, Palazzo Trinci, camera dei pianeti e delle arti, piano iconografico primitivo delle
arti liberali.
Fig. 9. Foligno, Palazzo Trinci, camera dei pianeti e delle arti, piano iconografico definitivo delle
arti liberali.
502 Andrea De Marchi

Fig. 10. Maestro di Francesco di Marsilio Gonzaga, Giochi cortesi. Mantova, casa di Francesco di
Marsilio Gonzaga, sala rossa o dei giochi, visione panottica.
Fig. 11. Maestro di Francesco di Marsilio Gonzaga, Scene di caccia. Mantova, casa di Francesco
di Marsilio Gonzaga, sala blu o delle caccie, visione panottica.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 503

Fig. 12. Bottega del Maestro del Redentore, Giochi cortesi. Arco, Rocca.
504 Andrea De Marchi

Fig. 13. Pittore veronese circa 1330, velari con Scene cortesi. Sabbionara d’Avio, castello, camera
d’amore.
Fig. 14. Maestro Venceslao, Ciclo dei mesi. Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 505

Fig. 15. Pittore ferrarese circa 1390-1395, Storie di Ercole. Ferrara, Palazzo del Paradiso, camera
di Ercole.
Fig. 16. Pisanello, Storie arturiane. Mantova, Palazzo ducale.
506 Andrea De Marchi

Fig. 17. Pisanello, Storie arturiane. Preparazione alla grande melée nel castello de la Marche.
Mantova, Palazzo ducale.
La percezione panottica delle «camerae pictae» profane 507

Fig. 18. Pisanello, Storie arturiane. Palco delle donne e preparazione alla grande melée nel ca-
stello de la Marche. Mantova, Palazzo ducale.
508 Andrea De Marchi

Fig. 19. Giovanni da Modena, Allegorie cortesi. Carpi, Castello dei Pio, torre del Passerino, ca-
mera della dama.
Fig. 20. Giovanni da Modena, Allegorie cortesi. Carpi, Castello dei Pio, torre del Passerino, ca-
mera della dama.

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