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APPUNTI DELLE LEZIONI DI LETTERATURA ITALIANA con Andrea Campana

1 lezione 23/09/2019 (percorso di letture nr. 1)

andrea.campana@unibo.it

“Viaggi” nella letteratura italiana, dal Medioevo ai giorni nostri

Vediamo il viaggiare, non solo la descrizione del viaggio (letteratura di viaggio es. Divina Commedia), ma anche della
letteratura che racconta di viaggi effettivamente accaduti, e delle dinamiche psico affettive del viaggio, all’esplorazione,
contesti diversi, partire, arrivare, tornare.
[Claudio Magris scrittore contemporaneo.]

Tematologia ermeneutica, che si occupi dei temi e delle idee del testo, dei contenuti, delle immagini che percorrono i
testi, che possono venire poi riutilizzati, allusi, citati, ogni testo ha due livelli. Il livello del testo per i significati che ha,
sono tanti. Problema dell’intertestualità, i collegamenti. Anche testi che nascono da chi a mala pena sa scrivere.
“La spartenza”, dolore di aver lasciato l’Italia, per andare negli USA, lo scrittore, Tommaso B., era un illetterato, un
caso di scrittura incolta che è raro.
Primo Levi, chimico, acculturato, richiama diversi spunti nei suoi testi, semantica biblica della terra promessa, richiama
Omero etc.
A seconda del contesto, ogni scrittore prende spunti.

“L’intertestualità” libro per approfondire.

Critica tematica che guarda alla semantica letteraria, quello che le parole significano
Semantica sincronica, oppure diacronica o storica, cosa significa il tema nella storia, es. cosa significava nostalgia
quando è stata creata. Il significato non è sempre lo stesso.
“Nostalgia”= dolore per il ritorno, che lo sentiamo impossibile, da un alsaziano, Johnannes Hofer (?)
“Malinconia” un tempo significava pazzia, depressione, irriverenza sociale, oggi è un senso di tristezza data da un
qualcosa di sconosciuto.

Attenzione per la storia delle idee letterarie


“Dizionario dei temi letterari”, a cura di Remo Ceserani, M. Dominichelli, P. Fasano, 3 voll., 2007,

Tutti i materiali saranno su Iol

ESAME:
3 PARTI:
-Scritto (da fare per primo, anche prendendo insufficiente si può passare all’orale)
-Orale (si può rifare anche un tipo di esame, es. se non piace il voto, si può rifare solo una parte)
-Orale

Istituzionale (generale, studio individuale)


Monografica (un tema particolare, per chi frequenta e segue il corso) Divisibili nell’orale

Appunti, slide, e 3 libri dell’elenco A:


Decameron, Il Milione, La letteratura di viaggio in Italia,
C.Spila importante per i viaggi su mare etc.
Viaggi di Russia è un viaggio illuministico
Vita di Alfieri, viaggio romantico
L’infinito viaggiare di Claudio Magris, letteratura illuministica

Si possono scegliere altre edizioni ma va concordato con il prof via mail.

Parte istituzionale, fila B.

Non si può scegliere lo stesso autore per le parti monografica ed istituzionale

A+B+UN SECOLO DI STORIA LETTERARIA CHE CONTENGA L’AUTORE.


A volte con la possibilità di andare a cavallo di diversi secoli es. ‘800-‘900
Per lo scritto si scrive sulla bella, sulla colonna di sinistra, la brutta come si vuole, i fogli sono 3 ma poi si possono
avere anche 10 fogli. Lunghezza non vuol dire buono.
20 tracce, ma da svilupparne una.
4-5,m max 6 colonne di estensione consiglia il prof, che sarebbero due pagine in Word.
Tracce possibili:
-C’è la parte monografica, che bisognerà scrivere l’anno in corso, scegliere i contenuti del corso monografico.
-Istituzionale, inquadrare l’autore, contesto storico-letterario, etc.
-Descrivere storia compositiva, struttura, contenuti di un’opera fra quelle elencate
-Analizzare uno dei problemi di storia letteraria

Orale 30 minuti, divise le due parti da 15 minuti di pausa


Consiglia di andare a vedere gli orali
Fa un pre-appello, di solito divide subito le persone in giorni e orari, per distribuire le persone

Partizione del corso:


-Mito di Ulisse, del 26esimo dell’Inferno, un dialogo intertestuale
-Il volto dell’altro, come gli scrittori italiani hanno visto le altre culture europee e di altri popoli
-Uno sguardo alla storia della letteratura di viaggio

Conversazione con i classici, cit. Machiavelli, non sono fossili ma sempre in dialogo

Per tesi: scrivere al prof 6 mesi prima

IL MITO DI ULISSE:

L’ombra di Ulisse di Boitani


“Odissea” Omero
Ulisse (nella versione latina) è il protagonista dell’Odissea, racconta il ritorno da Troia fino a Itaca, un racconto nostrus
(ritorno), nostris, racconti di ritorno, le disavventura che viveva chi tornava a casa, il capostipite del ritorno è l’Odissea.
L’archetipo, la prima forma importantissima che vediamo nell’Odissea.
Omero, Odissea, Libro I vv. 1-21 trad. di Giuseppe Aurelio Privitera

C’è una richiesta di autorizzazione da parte del divino, da Omero, cerca un’ispirazione divina, Ulisse ritorna in patria
dopo aver distrutto Troia, (prima c’è l’Eliade, dove distruggono Troia per salvare Elena e poi tornano in patria), eroe
multiforme (polytropos) è Ulisse, che è capace di adattarsi alle situazioni, cosa molto importante nei racconti di viaggio,
cambiando mentalità strategia, Ulisse è un maestro e questo gli permette di tornare in patria, capacità data dagli Dei,
non è una forma di tracotanza umana.
L’Odissea ha già chiara la percezione che con il viaggio si conoscono molti uomini, sistemi di pensiero, il viaggiare
consente di vedere la multiformità dell’umanità. L’attraversamento delle civiltà è comunque qualcosa di doloroso,
conoscere attraverso il viaggio è doloroso (to travel-travaglio, dolore). Montale es. si stupisce che a metà del ‘900 si
poteva andare da Roma a NY in 40 ore, ai tempi dell’Odissea era molto più pericoloso.
I compagni di Ulisse dopo l’attraversamento dello Stretto di Messina, si fermano nello stretto, scannano i buoi sacri del
sole che erano intoccabili, e compiendo questo atto, vengono uccisi durante un naufragio, dove anche Ulisse è coinvolto
ma non sopravviverà, perché non li mangiò. Finisce da Calipso, mezza divinità, lo toglie dalla moglie, Penelope, il
figlio Telemaco e padre Aerte, lo aspettavano sul trono (lui era re con diversi doveri, anche istituzionali). Lui era
l’unico trattenuto dalla ninfa Calipso. Lui vuole tornare a casa, riprendere il suo posto dal quale è stato strappato dalla
guerra. L’Ulisse dantesco invece scappa, la famiglia e i doveri non gli impediscono di riprendere il viaggio. L’Ulisse
omerico brama il ritorno dalla moglie, e in un passo lui piange, vuole tornare in patria. Gli Dei avevano pietà di lui, nel
Pantheon era ancora arrabbiato perché Ulisse accecò suo figlio Polifemo. Lui gli scaglierà tutti i pericoli del mare
infatti.

Riferimenti sul viaggio prima del Milione:


-viaggio biblico, scrittori tardo medievali avevano alle spalle archetipi importanti, questo viaggio es. degli ebrei,
raccontati nell’Esodo dopo la liberazione da parte di Mosè, o altri viaggi nel Vecchio Testamento;
-il viaggio classico (Ulisse, Argonauti, Enea etc., compiono avventure fantastiche nel Mare Nostrum, il Mar
Mediterraneo, non si usciva dal Mediterraneo. I racconti di viaggio precedenti quelli di Ulisse erano tutti in questo
luogo classico, oppure nel Mar Rosso nel caso degli ebrei, ma si parla sempre mari delle terre nell’Orbe conosciuto),
l’Ulisse di Nari (??) va per la prima volta verso l’Atlantico per la quale c’erano idee favolose al riguardo;
-viaggio cavalleresco, dal 1100 in avanti, in Francia, Germania poi, Italia etc., cavalieri che si spostano in UE, Asia, per
inseguire fanciulle rapite, il tema della cet, ricerca, es. cet del Santo Graal, per recuperare reliquie magiche, viaggi
segnati dalla magia, amore, tematica erotica, Dante tiene conto di tutti i viaggi, anche dell’Odissea che non aveva letto
direttamente, ma si basa molto sui testi biblici, specie sul Nuovo Testamento, dove es, si trova nel vangelo di Giovanni
XIV [6] “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”, viaggio per raggiungere la
meta autentica, il viaggio è un momento doloroso ma per raggiungere il Padre. Uscire da questa via significa una strada
che porta a non colpire il bersaglio, a uscire dalla rotta. Dante, a 35 anni, a metà della vita umana (al tempo), finge che il
viaggio avvenga a 35 anni, poiché avevo deciso di non seguire la vita della Vita, del Signore. Da qui nasce la Divina
Commedia e la trattazione di Ulisse nel 26esimo. Ogni personaggio dell’Orlando furioso è in cerca di qualcosa, oggetti
o donne. Viaggio favoloso in questo mondo. Viaggio pagano;
-viaggio cristiano: idea della vita come viaggio verso Dio, viaggio effimero dalla nascita alla morte, di ritorno al padre.
La vita dell’uomo di Gesù è un cammino.

Le sfumature semantiche:
-passaggio verso Dio
-transito terreno, per San Francesco ed è anche una guerra, ma ci sono le bellezze del creato, nel cantico di Frate Sole
(Cantico delle creature), c’è un risarcimento della valle di lacrime per arrivare al paradiso;
-temi dell’apostolato, viaggiatore che deve portare in un viaggio di missione la parola di Dio. Ci sono narrazioni per
uomini non religiosi per i vari luoghi delle cristianità, c’è una letteratura che parla di pellegrinaggio, molto ricca. Fra
Nicolò di Puccibosi, racconta musulmani a Gerusalemme, i sentieri della Terra Santa;
-idea che esista una retta via, una via tracciata, pulita, agevole, magari faticosa ma non buia, fuori dalla retta via c’è la
selva del peccato e della corruzione. Questo sta alla base della Divina Commedia. Essa appartiene alla letteratura di
viaggio, Emilio Pasquini dedica “Il viaggio di Dante: storia illustrata della Commedia. Si possono usare le chiavi
interpretative tipiche della letteratura di viaggio per leggere la Commedia. Il traveller in questo caso coincide anche con
chi compone il viaggio, anche attraverso la memoria, infatti la Commedia è un diario di viaggio memoriale ex post,
scritto dopo il viaggio. Vedi lezione 2

2 lezione 24/09/2019

Consigli sitografici:

treccani.it enciclopedia, biografie


bibliotecaitaliana.it testi, autori, biografie di autori
italinemo.it riviste di italianistica
https//sol.unibo.it/ unibo, libri anche in pdf, anche prove di lettura es. di Marri Fabio
danteonline.it sito dedicato a Dante (c’è anche un sito di Petrarca etc.)

3 percorsi di lettura sul


-mito di Ulisse, l’uso di esso nella letteratura, da Dante fino a Primo Levi
-letteratura italiana come altre era eurocentrica, vediamo il contrasto con altri popoli
-storia della letteratura di viaggio

“L’ombra di Ulisse” di Boitani

Odissea dal nome di Ulisse, Odisséo,

Ulisse conoscerà attraverso il Mediterraneo diversi popoli e diversi modi di pensare. Gli Dei non detestano la sua
politropia, lo amano, lo accettano.

Vediamo la ripresa di Dante dell’Ulisse omerico. Dante è uno degli autori con la Bibbia che è letto da tutti, per secoli la
Commedia è stato un punto fermo, e il canto 26esimo ha avuto un impatto da non sottovalutare per la cultura europea.
Le colonne d’Ercole come superamento dei propri limiti.

[Retroterra di riferimento quando Dante parla del 26esimo. Dante riprende il mito dall’Odissea pur non conoscendo il
greco. Non legge infatti il testo direttamente, così è più libero nella trattazione e nell’interpretazione.

Ulisse prende il potere dal padre Telemaco quando torna, uccidendo i Proci.
C’è un dubbio esegetico se davvero Ulisse non passò per Itaca e raggiunse poi direttamente le colonne d’Ercole.]

Vedi fine lezione 1

Due sistemi tematici si inseriscono sul viaggio cristiano:


-traviamento, l’uscita dalla retta via (la via segnata), il traviamento e la poi fuoriuscita, serviranno a tutta l’umanità che
per la cristianità è in decadenza, per far ravvedere l’umanità da queste tre fiere, lussuria, superbia e la sete di denaro, i
mali dell’umanità anche secondo Dante;
-trasgressione, anche un’uscita dalla retta via ma anche un oltrepassare (trasgressio/trasgredior=oltrepassare, andare al
di là) il divieto. Trasgredire cioè oltrepassare un avvertimento (come non oltrepassare le colonne d’Ercole.

Non può esistere nessun viaggio che non sia autorizzato da Dio (dedica anche un canto, il II dell’Inferno), lui deve
dimostrare al lettore che il viaggio nell’aldilà, (per un uomo medievale abituato al rapimento mistico, alla visione
dell’aldilà, era un terreno serio anche se noi oggi la vediamo come finzione) era autorizzato, dal fatto che Dio lo vuole
salvare per mostrare cosa l’attende se continua nella strada del peccato per far ravvedere l’umanità. C’è una dialettica
nella Commedia nel non plus ultra su cosa non si può fare e un plus ultra su cosa si può fare. Dante potrà passare nel
Paradiso perché autorizzato da Dio. Può andare oltre, ma da uomo pagano non fu autorizzato dalla Divinità e non può
oltrepassare le colonne d’Ercole e viene ucciso nel Purgatorio. Ulisse però è autorizzato e può oltrepassare le colonne.
Il problema di oltrepassare le colonne fino al 15esimo secolo resta grande, socialmente parlando.

La Commedia ha 33 canti per volume, a parte la prima parte che ha un canto di introduzione, nel volume dell’Inferno
che fa da proemio a tutta l’opera. In tutto sono 100 canti.

Dante, Inferno I, 1-30:


 
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
3 ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
6 che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
9 dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
12 che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
15 che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
18 che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
21 la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
24 si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
27 che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
30 sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

Vediamo l’inizio, già troviamo il traviamento. Nel mezzo del cammin della vita umana, dato che la loro durava 70 anni
circa, lui nel 1300 a 35 si trova nel mezzo del cammino della vita, come itinerario completo ed effettivo sulla terra. Si
scoprii, si rese conto di essere nella selva oscura, in un bosco oscuro, il contrario della luce. È difficile, anche solo
ricordare quella condizione interiore lo getta nello sconforto, selvaggia perché è animale, chi c’è dentro è un animale,
difficile da liberarsene, amara più della morte (fisica o dell’anima-della dannazione??). Per parlare dell’uscita da questa
selva, trova Virgilio che lo scorta, le 3 fiere gli impediscono di liberarsene. Preso da un sonno dell’anima fu perso in
questa via. Dante sbuca ai piedi di un colle alla cui sommità brilla un sole. Il colle rappresenta la vita virtuosa illuminata
dal sole, quel pianeta che mostra la luce, è la divinità.
Il fatto che solo Dio può liberare, porta il lettore medievale a seguire questa via dalla quale non si deve uscire. Il
Milione cominciava a svilupparsi, era diffuso ovunque, racconta di un uomo che è uscito totalmente dalla retta via,
anche se per noi è un uomo misterioso, non sappiamo neanche se davvero fosse stato a Venezia e in Asia, l’unica cosa
che lo dimostra è il libro. Libertà di pensiero e coraggio si possono avere solo se hai l’approvazione divina. La via
oscura subisce un’altra trasformazione, il pelagus è la mareggiata in burrasca. Quindi la selva è anche un mare in
burrasca. La via che trova Dante è uscire dalle onde, l’acqua pericolosa (da abbandonare, il mare viene visto sotto il
profilo demoniaco), il mare è luogo dei mostri, del sovrannaturale, e poi trova tranquillità. Mostrato anche da Petrarca
ne Canzoniere. Dante poi può percorrere le pendici che portano al colle, sta salendo, si tiene basso per compiere la
salita.
Dante incontra 3 fiere:
-la lonza/ghepardo dalla pelliccia screziata rappresenta la lussuria;
-un leone ruggente: superbia;
-una lupa: l’avarizia, sete di denaro, non come una forma di chirchieria ma una fame dell’oro e di arricchimento;
Dante si sente al sicuro comunque e incontra Virgilio.

Dante, Inferno, II 1-36


 
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno 3

m’apparecchiava a sostener la guerra


sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra. 6

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;


o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate. 9

Io cominciai: "Poeta che mi guidi,


guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi. 12

Tu dici che di Silvïo il parente,


corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente. 15

Però, se l’avversario d’ogne male


cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale 18

non pare indegno ad omo d’intelletto;


ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto: 21

la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,


fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero. 24

Per quest’andata onde li dai tu vanto,


intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto. 27

Andovvi poi lo Vas d’elezïone,


per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione. 30

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?


Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede. 33

Per che, se del venire io m’abbandono,


temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono". 36
[…]

Nel II canto, chiede alla sua guida, Virgilio, magister supremo, un filosofo/poeta di primo ordine, letto da tutti gli
intellettuali (il greco e Omero doveva ancora ridiffondersi), il suo è il classico più letto dopo la Bibbia. È un maestro,
perché attraverso le sue opere ha insegnato la morale agli uomini, la filosofia con l’Eneide, le Bucoliche etc.
Virgilio è un pagano, vive prima dell’avvento di Cristo, scrive l’Eneide circa 50 anni prima, quindi la sua è un’opera
precristiana. Profeta definito precursore a suo malgrado, non è stato battezzato, quindi Dante lo tiene nel Limbo (=orlo
estremo), lì in un nobile castello, prato bello, in condizione privilegiata ma sempre all’inferno, c’è comunque assenza di
Dio, quindi soffrono anche quelli che stanno lì, pagano perché non è autorizzato da Cristo.

Dante, Inferno, II 118-142


 
E venni a te così com’ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse. 120

Dunque: che è perché, perché restai,


perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai, 123

poscia che tai tre donne benedette


curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?". 126

Quali fioretti dal notturno gelo


chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo, 129

tal mi fec’io di mia virtude stanca,


e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca: 132

"Oh pietosa colei che mi soccorse!


e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse! 135

Tu m’ hai con disiderio il cor disposto


sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto. 138

Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:


tu duca, tu segnore e tu maestro".
Così li dissi; e poi che mosso fue, 141

intrai per lo cammino alto e silvestro.

Perché compiere il viaggio senza autorizzazione?


Dante è ancora sulla terra, non all’Inferno. E quindi può vedere il tramonto, Il viaggio nell’inferno e purgatorio è un
viaggio di guerra e sofferenza, vedendo ancora i morti e le pene inflitte ai dannati. Dante piangerà di fronte ai dannati
nei cerchi. Il suo cuore umano fatica. Il travaglio di guerra e pietatae, lo fa a Firenze attraverso la memoria, è precisa,
piena di dettagli, molto forte e precisa.
Si rivolge alle muse (non pagane di Omero) ma si rivolge a Dio.
Dubbio posto alla sua guida. Controlla se ho la virtù necessaria a compiere un passo. Sa di essere un peccatore, specie
lussuria, superbia, avarizia. Dubita di sé stesso. Da Silvio si arriverà agli imperatori della Roma classica, nel VI libro
dell’Eneide racconta della discesa compiuta da Enea nell’averno pagano (inferno pagano) che raccoglieva diverse
persone.
L’aldilà è inventato in gran parte da Dante, il fatto di subire le pene etc., si basa sulle scritture in parte ma è stato
costruito dalla fantasia di Dante. È una sua totale invenzione il tutto, che il Purgatorio sia una montagna e i dannati ci
stanno sopra, le pene, che il paradiso avesse nove cieli, l’inferno fatto a cono etc. L’inferno pagano era completamente
diverso.
Quindi Enea viene mandato all’inferno da Virgilio, lui si inventa la discesa di Enea perché questo ascolta dalle parole di
Anfise, suo padre defunto, che incontrerà nell’aldilà, delle profezie che lo aiuteranno a sconfiggere le popolazioni locali
del Lazio, che dovrà sconfiggere per impiantare il suo dominio e diventare il progenitore degli imperatori romani.
L’Eneide deve dimostrare che Augusto e la sua famiglia provengono dai troiani, scampati alla disfatta di Troia, quindi
con radice greca, quindi molto nobili, e poi impiantati in secoli passati nel Lazio, quindi dalla discendenza di Enea
proviene la famiglia degli imperatori romani, la gelsa augusta, alle dipendenze dei quali lavora anche Virgilio, quindi è
un’opera con intento politico legata all’impero romano della sua epoca.
L’aver conquistato il Lazio, ha permesso che Roma divenisse caput mundi, senza Enea secondo la costruzione dantesca,
non ci sarebbe stato l’impero romano, sede più importante di diffusione della Chiesa cattolica anche. Quindi diffusione
Enea——> diffusione cristianesimo con prima Costantino (liberalizzò il cristianesimo), poi Teodosio (ha eletto il
cristianesimo religione di Stato), e tramite il papato romano, hanno diffuso il cristianesimo in tutto l’Occidente. Per
questo Dante dice che Enea compì un’impresa chiave anche per la diffusione del cristianesimo. Dante così unisce il
mondo classico e quello cristiano. Quindi Enea compì un’impresa provvidenziale (fondare un regno che diede ospitalità
e diffusione al cristianesimo, non fu comunque salvato dal Limbo, fra i dannati, non è stato salvato da Dio. Però Dio,
immaginando le alte imprese di Enea, fu cortese con lui. Fu stabilito in cielo (quindi la provvidenza ha stabilito) che
Roma e l’impero romano diventassero luogo di diffusione del cristianesimo, guidato dal successore di Piero, il Papa,
che è successore del maggior Pietro, il primo Papa secondo la tradizione. Il capostipite.

[Perciò nella Divina Commedia spesso si traduce in “però”]

Il Vas electionis, la scelta, è caduta su San Paolo, Dio ha scelto lui per la missione di apostolato presso l’umanità
occidentale pagana, anche San Paolo, colui sul quale è caduta la scelta di Dio per un apostolato missionario
importantissimo nel I sec. d.C. è salito al Cielo, nella II lettera ai Corinzi lui dice di non sapere se è stato rapito se con il
proprio corpo o con l’anima per vedere gli spiriti beati, il Paradiso, racconta di aver vissuto questa esperienza e racconta
lo stato delle anime in paradiso, Dio gli ha dato questo privilegio perché rafforzasse la religione cristiana, raccontando il
tutto nelle lettere.

Dante lamenta di non essere degno del viaggio che sta per intraprendere e nessuno crede che lo sia.
Ma perché Dante? Lui ha paura di questa esperienza. Se io mi abbandono a questa discesa, il mio viaggio diventerà
folle. Folle non pazzo ma empio, ribelle alla divinità, fare le cose contro l’autorizzazione di Dio, il contrario
dell’atteggiamento del viaggiatore giusto che deve avere l’autorizzazione per il viaggio.
Santa Lucia, che andrà anche da Beatrice, questa scende all’inferno e chiede a Virgilio di accompagnare Dante cosicché
lui possa vedere le disgrazie dei dannati e condurre l’umanità alla retta via.
Dante scoprirà che il suo poema salverà l’umanità.
Perché accogli tanta avidità? Il tuo viaggio è autorizzato da Dio, puoi andare avanti nel tuo viaggio, lascia stare le fiere
e vai avanti. Virtute come potenza attiva, di capacità di agire, di impossessarsi della propria vita e viverla, Capacità che
prima era stanca e invece ora si è risvegliata.

Incomincia il viaggio.

Dante, uomo battezzato, può continuare il viaggio con l’autorizzazione. Anche se vedrà cose scandalose, porrà
all’inferno papi come Nicola II Orsini, dei re, non è un’opera dai contenuti edificanti e accettati dalla società, ma può
dirle dichiarando di avere autorizzazione divina.
Il fatto che un poeta laica ammise di essere autorizzato da Dio a mettere re e papi all’inferno, ma fu uno scandalo.

Ulisse nell’inferno, non autorizzato, Dante avrebbe potuto essere nella stessa condizione ma lui fu autorizzato.
Dante nel Convivio, I, 1-14, tratta in volgare, vuole che dei concetti filosofici dell’aristotelismo siano comprensibili a
tutti, chiama a mensa insieme a sé, alla stessa tavola le persone che non hanno compiuto studi regolari, chi non ha
studiato teologia, studi ufficiali etc. come mercanti, nobili distratti da altri impegni. Vuole allargare la cultura. Fare
conoscere a tutti la filosofia, lo scrive in volgare, in fiorentino, a chi comunque può leggere. Naufraga perché qui si erge
a divulgatore della filosofia alle masse, ma poi ritrattò. Cerca di allargare il campo di intellettuali.

Dante, Convivio, I, 1-14


Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La
ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua
propia perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima
felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono
privati per diverse cagioni, che dentro all’uomo e di fuori da esso lui rimovono dall’abito di scienza. […] Ma vegna
qua qualunque è per cura familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti
s’assetti; e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, ché non sono degni di più alto sedere: e
quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la farà loro e gustare e patire. […]

Dice che tutti gli uomini hanno desiderio per natura di conoscere, non ci sono limiti, ma verità e fatti, per natura
vogliono sapere. La provvidenza consegna agli uomini questa volontà, e arriva alla perfezione solo chi conosce tutto.
Ovviamente è impossibile ma è la volontà umana. Tutti siamo subietti a questo. Abbiamo diritto di seguire questo
desiderio, molti privati per diverse ragioni. Per pigrizia, o per ragioni esterne all’uomo, questo Dante vuole guarire.
Chiunque distratto dai propri impegni civili venga a questa mensa. O chi non vuole sapere per pigrizia, può sedersi per
terra, ma è invitato comunque. “Pane” che potrà far gustare a tutti la sapienza. L’uomo può cercare di conoscere senza
paura dei divieti, lui dispensatore di questa vivanda, della conoscenza, digeribile anche agli incolti.

Del 1304 scrive ma al IV trattato Dante si ferma. Dopo il IV perché si getta nella Commedia e anche perché questa idea
di conoscenza comincia ad affievolirsi, crede che ci siano delle colonne d’Ercole che pongono dei limiti alla conoscenza
posti dalla divinità.

3 lezione 25/09/2019

Colombo è l’Ulisse storico, che ha raggiunto il mondo aldilà dell’Oceano, oltre le colonne d’Ercole, scopre appunto a
suo malgrado il Nuovo Mondo, ma solo con Amerigo Vespucci si capirà di aver scoperto il nuovus mundus.

Vediamo il contesto del viaggio cristiano a cui opera Dante, concepire l’esistenza umana come un viaggio. Anche
Cristo nel Vangelo si definisce dos (=via) e chi esce è traviato, esce da un percorso eticamente giusto/corretto/onesto e
fa una scelta eretica/autonoma.
Quando Dante descrive il suo viaggio nell’aldilà si riconosce peccatore nella selva oscura, e deve autorizzare agli occhi
del lettore il suo viaggio nell’aldilà, perché senza non si può andare oltre i limiti imposti dalla morale corrente, della
religione nella fattispecie.
Dante dedica il II canto a dimostrare che il suo viaggio nell’aldilà non è una trasgressione o un tentativo di scoperta di
un mondo sconosciuto, senza Dio, invece ha l’autorizzazione, e le donne benedette, la Maria Vergine, Santa Lucia e
Beatrice che per conto di Dio intervengono in favore di Dante. Beatrice induce Virgilio a guidare Dante, perché appunto
il suo viaggio avrà funzione salvifica per lui, ma poi alla fine del viaggio, per tutto l’Occidente.

Ercole secondo il mito, durante le sue dodici fatiche aveva diviso lo stretto di Gibilterra, dopo aver ucciso il mostro
Gerione, aveva posto due colonne sul lato africano e sul lato spagnolo che riguardano i due mondi che sovrastano lo
stretto di Gibilterra fisicamente, e su queste aveva scritto “Non plus ultra” = oltre non si può arrivare, espressione che
deriva da questo divieto sacro imposto secondo il mito da Ercole.

Invece dal Rinascimento diventerà un elemento positivo e importante l’andare plus ultra, l’andare oltre. È uno dei motti
di Carlo V, è il momento della conquista, quando l’UE comincia a depredare e massacrare i nuovi mondi scoperti nelle
Americhe. Andare oltre diventa importante per una questione geopolitica, un dominio che gli europei vogliono sfruttare.
La scienza si affianca a questo spirito. Virgilio dice che Dante ardisce franchezza, solo dopo aver saputo che Dante ha
avuto l’autorizzazione.

XXVI canto, dove Dante fa vedere cosa succede all’uomo, allo scopritore, allo scienziato, al filosofo (Ulisse è anche un
filosofo), a chi vuole vedere usi e costumi del mondo. Colui che vuole conoscere, vediamo cosa accade, oltretutto senza
l’autorizzazione di Dio.

Dante, Inferno, XXVI 19-142


 
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 21

perché non corra che virtù nol guidi;


sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 24

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,


nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa, 27

come la mosca cede a la zanzara,


vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara: 30

di tante fiamme tutta risplendea


l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. 33
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi, 36

che nol potea sì con li occhi seguire,


ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire: 39

tal si move ciascuna per la gola


del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola. 42

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,


sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto. 45

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,


disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso". 48

"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti


son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti: 51

chi è ’n quel foco che vien sì diviso


di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?". 54

Rispuose a me: "Là dentro si martira


Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira; 57

e dentro da la lor fiamma si geme


l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme. 60

Piangevisi entro l’arte per che, morta,


Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta". 63

"S’ei posson dentro da quelle faville


parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 66

che non mi facci de l’attender niego


fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!". 69

Ed elli a me: "La tua preghiera è degna


di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna. 72

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto


ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto". 75

Poi che la fiamma fu venuta quivi


dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi: 78

"O voi che siete due dentro ad un foco,


s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco 81
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi". 84

Lo maggior corno de la fiamma antica


cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica; 87

indi la cima qua e là menando,


come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: "Quando 90

mi diparti’ da Circe, che sottrasse


me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse, 93

né dolcezza di figlio, né la pieta


del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta, 96

vincer potero dentro a me l’ardore


ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore; 99

ma misi me per l’alto mare aperto


sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. 102

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,


fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna. 105

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi


quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi 108

acciò che l’uom più oltre non si metta;


da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111

"O frati," dissi, "che per cento milia


perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia 114

d’i nostri sensi ch’è del rimanente


non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. 117

Considerate la vostra semenza:


fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza". 120

Li miei compagni fec’io sì aguti,


con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti; 123

e volta nostra poppa nel mattino,


de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. 126

Tutte le stelle già de l’altro polo


vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo. 129

Cinque volte racceso e tante casso


lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, 132

quando n’apparve una montagna, bruna


per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna. 135

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;


ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. 138

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;


a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

Ci troviamo nelle malebolgie, l’VIII cerchio dell’Inferno:

che è una voragine a forma di imbuto, dove sono dislocati cerchio per cerchio i dannati a seconda della loro colpa, e più
si scende nella voragine e più le colpe sono gravi.

Nell’VIII cerchio si punisce uno dei peccati più gravi, dove si punisce il fraudolento, chi ha ingannato il prossimo, che
però non si fidava di loro, quindi estranei, con nessun tipo di rapporto.
È un cerchio costituito da 10 guardoni concentrici, chiamate bolgie (sacche nell’italiano del ‘300) che in realtà voragini
di pietra, si trovano i consiglieri fraudolenti, coloro che con i loro consigli hanno ingannato in maniera malevola il
prossimo, dando dei consigli che hanno causato la rovina/disfatta del prossimo. Ulisse è stato uno dei massimi
rappresentanti di questo peccato nell’antichità. Con la sua astuzia ha portato alla distruzione di Troia e alla rovina di
altri personaggi, come la morte di Achille etc.

Il IX cerchio invece punisce i traditori, coloro che ingannano chi si fida di te, persone con le quali tu hai un rapporto di
fiducia. Per es. la prima zona di questo cerchio è una distesa di ghiaccio dove le anime sono poste su diversi livelli,
nella prima zona abbiamo Caina, i traditori dei parenti, nella seconda Tenor, i traditori della patria, nella terza,
Tolomeica, i traditori degli ospiti e nella quarta la Giudecca, i traditori dei benefattori. Quindi l’inganno colpisce le
persone a te vicine.

La voragine infernale si è prodotta con la caduta di Lucifero dal Cielo. Lucifero ha tradito Dio, che l’aveva creato come
l’angelo più bello e luminoso del creato, ma Lucifero ha fatto parte per sé stesso, ha voluto compiere la scelta autonoma
di staccarsi dalla divinità ed è precipitato nel punto più lontano da lì, cioè il centro della terra, e dove si è conficcato ha
creato una voragine a forma di imbuto, e tutta la terra che si è spostata con la sua caduta è andata nell’altro emisfero a
formare la montagna del Purgatorio, che è quindi esattamente identico in volume rispetto all’Inferno, che è anch’esso
una montagna a forma di imbuto.
Tutto l’universo è a forma di sfera, ci sono delle sfere concentriche che vanno dal cielo cristallino, mobile che imprime
il movimento a tutte le altre sfere successive, ma sta fuori dall’Empireo, il regno dei cieli, dove non c’è spazio, qualcosa
che sta al di fuori del mondo fisico.

Quindi siamo all’VIII bolgia, i consiglieri fraudolenti devono vagare nel fondo della bolgia perennemente arsi da una
fiamma che li nasconde e li tormenta per l’eternità.
Dante vede tutto questo passando su un ponte in pietra, che vanno da un argine all’altro. Sulla sommità di questo ponte
può vedere cosa c’è sotto, lo fa per raccogliere informazioni utili alla salvezza dell’umanità.

Il verso 19 dice che allora si era addolorato e ancora di più quando ci torno con la mente, tiene a freno l’ingegno più del
normale. C’è un problema legato alla conoscenza, diverso con la grazia di Dio oppure senza. Si credeva nel Medioevo
che le costellazioni avessero un’influenza sulle persone. Dante nella costellazione dei gemelli, degli artisti, intellettuali,
ha ricevuto la predisposizione da questa, o altresì da Dio. Non basta aver ricevuto le capacità intellettive, serve anche
una guida.
Qui fa un paragone con la vita quotidiana (cosa che succede spesso), dove l’aldilà è descritto sotto una specie di
quotidianità. Qui paragona le luci dei consiglieri fraudolenti arsi, (e racconta che la bolgia risplendeva di fiamme), alle
lucciole che si vedono in una valle stando su una collina. È un’immagine contrastiva, le belle lucciole, un’immagine
poetica, ma sapere che quelle lucciole sono stati esseri umani che ora ardono vivi perché hanno commesso dei peccati,
crea molto contrasto.
C’è poi un riferimento al profeta Elia che nel II libro dei re, racconta che Dio lo porta via (lo rapisce perché vuole
portarlo con sé in Paradiso) su un carro infuocato. E colui che vede questa scena è Eliseo, il suo discepolo, che si
destreggiava con gli orsi, vendicandosi con alcune persone quando lo presero in giro perché calvo, e gli scagliò contro
delle orse selvatiche. Quindi questi due vengono presi in causa per descrivere l’episodio che si sta per schiudere agli
occhi di Dante.
La Commedia è fatta di miti, riferimenti biblici, classici e medievali, quindi è difficile seguire tutti i riferimenti culturali
e storici che però vanno conosciuti.

Dante è tanto proteso alla roccia che si ritrova aggrappato alla roccia, ha questo grande desiderio di vedere cosa
succede, ma già si aspetta di vedere Ulisse e sa che dentro i fuochi ci sono le anime. Vede che in una bolgia c’è una
fiamma doppia, che ha due corna, divise fra di loro. Come si racconta, a proposito della pira funeraria di Teo e Corinice,
due fratelli figli di Ipo (?) che morirono in duello nella guerra contro Tebe. Il fuoco nella loro pira funeraria era diviso
in due diverse lingue, perché l’odio continuava anche dopo la morte.
Dante si rifà al Lucanum, Lugano e al Tevai De Istazio, che formano con l’Eneide l’ipotesto della Commedia.
Così come hanno insieme prodotto l’ira di Dio, così adesso vanno insieme alla punizione dei loro peccati. Era una
coppia di eroi segnati in diverse imprese come astuti.
Uno dei consigli che avevano dato era il Cavallo di Troia, come dono in partenza a Troia, convincendo i troiani a
prenderlo dentro le mura. Non era un gesto cavalleresco o di virtù militare, ma uno stratagemma, una frode e in quanto
tale, ed essendo amante dei valori cavallereschi, Dante non poteva tollerare. Ulisse e Diomede ingannarono anche
Achille, sposo di Deidamìa, principessa greca che per sottrarlo alla guerra di Troia lo aveva travestito da donna (aveva
comunque fattezze femminili) ma Ulisse e Diomede vanno alla reggia di Sciro e con l’inganno fanno scoprire il
travestimento, es. donano delle armi al re di Sciro che Achille impugnò e si fece scoprire, poi secondo un’altra versione
assediano la città, ma Achille prende le difese della città togliendosi i panni femminili. Achille dovette andare in guerra
a Troia e lì morì. Un’altra colpa è il furto di Palladio, statua di Atena che dava protezione a Troia grazie a questa statua.
Ulisse e Diomede la portano fuori dalle mura, quindi compirono un atto sacrilego, ma hanno anche la colpa di aver
convinto ai compagni di andare oltre le colonne. Non sappiamo se è un’altra colpa è anche aver superato le colonne,
oltre ad aver convinto altri a farlo.
Dante ha un desiderio talmente grande di conoscere la fiamma cornuta Ulisse a Diomede, che si piega verso di lei, che
quasi cade nella bolgia.
I greci di grande cultura non accetterebbero di parlare con qualcuno che parlava fiorentino, un volgare italiano un
barbaro, (= per loro i barbaroi erano quelli che parlavano altre lingue rispetto al greco, che sembravano balbettare, dato
che secondo i greci la loro lingua era la più bella e musicale al mondo, per questo definiti barbaroi, suono onomatopeico
che riproduce il balbettamento). Dante riprende la tradizione dei greci schivi e le mette in bocca a Virgilio,
schivo/diffidente agli estranei.
L’un di voi, cioè Ulisse tra voi, dica dove andò a morire perduto. Qui viene posta l’accento sulla morte, sulla fine che ha
fatto, non tanto sull’impresa dell’Illiade e dell’Odissea, ma di quello che viene dopo che nessun altro scrisse prima di
Dante. C’è comunque un riferimento ad un racconto dell’Odissea che Dante non conosceva appunto direttamente, o un
riferimento al XIV delle Metamorfosi di Ovidio, dove si parla di Circe e della partenza di Ulisse da Circe che è forse il
testo letterario più vicino a Dante nel racconto del ritorno di patria di Ulisse. Però Dante non conosce i dettagli del
finale dell’Odissea, molto diverso da questo, tanto è vero che non si sa se qui Dante intente che Ulisse è effettivamente
tornato a casa a Itaca prima di riprendere il viaggio verso le colonne d’Ercole, o se non passa nemmeno per Itaca, e va
alle colonne. È un’interpretazione aperta. Il punto comunque è che Ulisse vuole andare oltre le colonne, è perduto, in
senso fisico, perduto nella vastità dell’oceano, ma anche moralmente, ha perduto la rotta giusta.

Racconta degli ultimi tempi della vita di Ulisse. Verso dal 90 è stupendooo
Un anno dopo aver soggiornato presso il promontorio Circeo, a Gaeta, nemmeno il pensiero del mio dolce figlio, o la
pietra (rispetto che avrebbe dovuto avere del padre vecchio, accudirlo etc.) del padre, né il debito verso la moglie,
(amore per figlio, amore paterno né amore matrimoniale), possono fermare l’ardore che infiamma Ulisse, che gli è
costata la fiamma dell’Inferno. L’ardore di vedere il mondo, e l’uomo in tutte le sue sfaccettature, non ci sono limiti, né
famiglia/patria/doveri famigliari e regali, lo possono fermare. Non riescono a fermare l’ardore, per gettarsi nella
conoscenza. Mise sé stesso nel mare aperto, con una piccola barca, e con quei pochi compagni dal quale non era stato
ancora abbandonato, sopravvissuti dal viaggio da Troia. Naviga fino alla Spagna, e vede tutte le isole bagnate dal
Mediterraneo occidentale. Quando compiono anni di peregrinazioni, sono vecchi e tardi, lenti anche nei movimenti,
nonostante non si subisce questo ardore di voler vedere il mondo esterno, ed arrivarono a quella piccola foce vedendo
anche la scritta di Ercole, perché sarebbe un atto empio. Ercole pose le sue colonne “contro” la conoscenza umana.
Ulisse si ritrova già in Africa, hanno superato le colonne.
Non hanno dubbi sul superare le colonne, ma sul prendere il mare aperto. Così Ulisse, con la sua astuzia, la sua mentis,
cerca di persuaderli, e li chiama subito fratelli, con un vocativo affettuoso, “O frati”. dice che non vorranno fermarsi
nell’esplorazione, l’esperienza del mondo senza gente a questi ultimi anni di vecchiaia. I compagni hanno dubbi, Ulisse
dice di considerare la vostra semenza, cosa sono loro di origine, dice che non sono stati creati come animali, che non
hanno desiderio di esplorare il mondo, ma nati per seguire la volontà di imporsi e imporre l’uomo sul creato, di
conoscere il mondo. Non è una virtù come gentilezza, ma di scoperta. La virtù, la potenza, il carattere, la conoscenze
stessa, li distingue dagli animali. [ansia di venire considerati animali es. scimmie già dai tempi antichi]. I compagni così
desiderosi di conoscere l’ignoto, vedi che li fa portare alla perdizione, li sta convincendo a seguirli nel cammino della
perdizione. A fatica così li avrebbe trattenuti. Ulisse si è ribellato alla volontà divina. Partirono andando verso sinistra.
Vedevano le stelle del polo meridionale, e l’emisfero boreale dell’Europa non si vedeva più. Erano passate 5 lunazioni,
5 mesi di navigazione. Dante non era andato tanto lontano dalla realtà storica, pensando che Colombo ci aveva messo 2
mesi ad arrivare alle Americhe. Compare agli antipodi della terra, la montagna del Purgatorio. Da Gibilterra quindi
sarebbe arrivato alla montagna del Purgatorio, luogo sacro. Ulisse non poteva senza autorizzazione avvicinarsi tanto. Si
rallegrarono pensando che fossero arrivati a vedere quello che c’era oltre. Ma poi nasce una tromba d’aria dalla
montagna che colpì la nave. Dio che interviene con un turbo e fa scomparire la nave in un turbinio. L’oceano fece
sparire la nave senza lascia traccia. Quindi i marinai scomparirono senza lasciare traccia.
È toccante. Ci sono casi simili di punizione divina dal sapore biblico.
Sono problemi legati al viaggio che l’uomo occidentale si porterà avanti per secoli.

Sul concetto di traviamento torna Francesco Petrarca (1304-1374) costruisce il Canzoniere su questo concetto:

Petrarca (Canzoniere, CLXXXIX):


 
Passa la nave  mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.
A ciascun remo un penser pronto et rio 5
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospir’, di speranze et di desio.
Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna et rallenta le già stanche sarte,       10
che son d’error con ignorantia attorto.
Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra l’onde è la ragion et l’arte,
tal ch’incomincio a desperar del porto.
 

Anche lui aveva lasciato la retta via per piaceri mondani, peccati principali sono l’amore per Laura, un amore che ha
risvolti terreni, e l’amore per la gloria terrena, il desiderio di possesso fisico terreno. Tuttavia l’immagine per descrivere
il traviamento non è quasi mai di carattere terreno come nel I canto della Commedia, ma per mare, forse per distaccarsi
da Dante. Petrarca è alla guida di una barca, la sua anima, la tempesta i suoi peccati, che lo portano fuori rotta, lontano
dal porto di salvezza. Tutto ciò che è salvezza è il porto, che raggiungerà seguendo la rotta giusta. Il porto è lontano e
non spera quasi più di agguantare. Si prendeva il mare in estate, era quasi proibito farlo in inverno. E di giorno.
Muoversi per l’aspro mare in inverno a mezzanotte era assurdo, passa anche nello Stretto di Messina, mostri che
facevano naufragare chi ci passava vicino.
Ai remi ci sono in suoi pensieri peccaminosi, e il suo eterno desiderio di possedere Laura crea un vento umido che
spezza la vela e le sartie, i cordami che tengono insieme la nave e le vele, così lui si trova attorto nel peccato e
nell’ignoranza. Sono ormai nascosti gli occhi di Laura che erano come un faro che lo guidavano verso il porto. Fra le
onde è morta la sua ragione e la sua arte, che ormai non sono più un punto di riferimento solido. Ha paura di non
arrivare al porto, di finire dannato. La passione viscerale lo ancora alla terra, a Laura, ai terreni. È un altro modo di
risemantizzare l’icona del traviamento e il viaggio per mare ricordiamoci che nella letteratura medievale è sempre stato
qualcosa di pericoloso, è un correlativo oggettivo di qualcosa di minaccioso, da evitare il più possibile, e lo è sia per
Dante che descrive il viaggio di Ulisse in maniera nefasta e anche Petrarca che dichiara nelle sue lettere/scritti di avere
terrore del mare e di preferire la stabilità della terra.

Però c’è un momento in cui la cultura/civiltà letteraria italiana inizia a considerare il viaggio per mare come qualcosa di
estremamente positivo. I viaggi di conoscenza oltre le colonne come importante.

Nel ‘500 è il caso di Torquato Tasso (1544-1595), compierà un’opera di ripensamento dell’Ulisse dantesco
assolutamente incisiva e significativa di un cambiamento di mentalità in atto nella sua epoca.
Nel suo libro che lo ha consegnato ai posteri, Gerusalemme liberata, poema cavalleresco che parla della I crociata
svolta nel 1099, in pieno Medioevo per liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli, i musulmani. Questa è ordinata da
Goffredo di Buglione e comprendeva molti valori cristiani dell’UE cristiana del XI sec. Tasso descrive gli ultimi
momenti di questa impresa quando Buglione, a capo di una serie di baroni cristiani che l’hanno seguito, riescono a
liberare il Santo Sepolcro prendendone possesso.
È un poema cavalleresco che cede spesso alla fantasia, però ha una base storica molto solida. L’unica forma di
meraviglioso che Tasso accetta in questo poema è il “meraviglioso cristiano”, quindi l’apparizione di angeli e demoni,
l’apparire di miracoli, quindi è un meraviglioso che non è mai pagano ma è sempre riferito al cristianesimo. L’unica
forma di meraviglioso di questo poema cavalleresco è di carattere religioso/cristiano.
È scritto in ottave, in strofe di 8 endecasillabi ciascuna, forma diversa dalla Commedia che è scritta in terzine di
endecasillabi.

Tasso lo compone nel pieno momento successivo al Concilio di Trento, svolto dal 1545 al 1563 che è stato poi il
momento in cui il mondo cattolico ha serrato i ranghi contro il mondo protestante (di Svizzera, UK, Ger) hanno
smarcato un loro distacco dalla Chiesa cattolica, guidati prima da Lutero con le sue 95 tesi, e poi da altri teologi
protestanti, e la Chiesa a un certo punto ha dovuto fare i conti con questa riforma protestante, cercando di organizzarsi,
organizzare una Controriforma, una risposta intellettuale/ideologica/operativa con un’org. nuova e leggi nuove, da
diffondere in tutti i paesi cattolici che fanno capo al papato, in particolare in Spagna, Italia e Francia, quindi c’è una
riorganizzazione del cattolicesimo che avviene prima di tutto attraverso il grande Concilio di Trento. C’è soprattutto un
ribadire dell’ortodossia cattolica contro l’eresia dimostrata dai protestanti.

Tasso scrive il testo anche in quest’ottica, la liberazione del Santo Sepolcro dagli infedeli è in linea con la
Controriforma che cerca di opporsi agli infedeli protestanti, che cerca di imporre un nuovo predominio del cattolicesimo
sulle altre fedi, quindi c’è anche un valore quinitante nella scrittura di Tasso, che però ha sempre paura di scivolare
nell’eresia. Si autoaccusa davanti al tribunale dell’Inquisizione. Cerca faticosamente di seguire l’ortodossia.

Nel canto XV della Gerusalemme liberata:

Torquato Tasso (1544-1595), Gerusalemme liberata (1581; 1584), c. XV, ott. 22-40
 
22
Son già là dove il mar fra terra inonda
per via ch'esser d'Alcide opra si finse;
e forse è ver ch'una continua sponda
fosse, ch'alta ruina in due distinse.
Passovvi a forza l'oceano, e l'onda
Abila quinci e quindi Calpe spinse;
Spagna e Libia partio con foce angusta:
tanto mutar può lunga età vetusta!
 
23
Quattro volte era apparso il sol ne l'orto
da che la nave si spiccò dal lito,
né mai (ch'uopo non fu) s'accolse in porto,
e tanto del camino ha già fornito.
Or entra ne lo stretto e passa il corto
varco, e s'ingolfa in pelago infinito.
Se 'l mar qui è tanto ove il terreno il serra,
che fia colà dov'egli ha in sen la terra?
 
24
Più non si mostra omai tra gli alti flutti
la fertil Gade e l'altre due vicine.
Fuggite son le terre e i lidi tutti:
de l'onda il ciel, del ciel l'onda è confine.
Diceva Ubaldo allor: – Tu che condutti
n'hai, donna, in questo mar che non ha fine,
di' s'altri mai qui giunse, o se più inante
nel mondo ove corriamo have abitante. –
 
25
Risponde: – Ercole, poi ch'uccisi i mostri
ebbe di Libia e del paese ispano,
e tutti scòrsi e vinti i lidi vostri,
non osò di tentar l'alto oceano:
segnò le mète, e 'n troppo brevi chiostri
l'ardir ristrinse de l'ingegno umano;
ma quei segni sprezzò ch'egli prescrisse,
di veder vago e di saper, Ulisse.
 
26
Ei passò le Colonne, e per l'aperto
mare spiegò de' remi il volo audace;
ma non giovogli esser ne l'onde esperto,
perché inghiottillo l'ocean vorace,
e giacque co 'l suo corpo anco coperto
il suo gran caso, ch'or tra voi si tace.
S'altri vi fu da' venti a forza spinto,
o non tornovvi o vi rimase estinto;
 
27
sì ch'ignoto è 'l gran mar che solchi: ignote
isole mille e mille regni asconde;
né già d'abitator le terre han vòte,
ma son come le vostre anco feconde:
son esse atte al produr, né steril pote
esser quella virtù che 'l sol n'infonde. –
Ripiglia Ubaldo allor: – Del mondo occulto,
dimmi quai sian le leggi e quale il culto. –
 
28
Gli soggiunse colei: – Diverse bande
diversi han riti ed abiti e favelle:
altri adora le belve, altri la grande
comune madre, il sole altri e le stelle;
v'è chi d'abominevoli vivande
le mense ingombra scelerate e felle.
E 'n somma ognun che 'n qua da Calpe siede
barbaro è di costume, empio di fede.
 
29
– Dunque – a lei replicava il cavaliero
– quel Dio che scese a illuminar le carte
vuol ogni raggio ricoprir del vero
a questa che del mondo è sì gran parte?
– No, – rispose ella – anzi la fé di Piero
fiavi introdotta ed ogni civil arte;
né già sempre sarà che la via lunga
questi da' vostri popoli disgiunga.
 
30
Tempo verrà che fian d'Ercole i segni
favola vile a i naviganti industri,
e i mar riposti, or senza nome, e i regni
ignoti ancor tra voi saranno illustri.
Fia che 'l più ardito allor di tutti i legni
quanto circonda il mar circondi e lustri,
e la terra misuri, immensa mole,
vittorioso ed emulo del sole.
 
31
Un uom de la Liguria avrà ardimento
a l'incognito corso esporsi in prima;
né 'l minaccievol fremito del vento,
né l'inospito mar, né 'l dubbio clima,
né s'altro di periglio o di spavento
più grave e formidabile or si stima,
faran che 'l generoso entro a i divieti
d'Abila angusti l'alta mente accheti.
 
32
Tu spiegherai, Colombo, a un nuovo polo
lontane sì le fortunate antenne,
ch'a pena seguirà con gli occhi il volo
la fama c'ha mille occhi e mille penne.
Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo
basti a i posteri tuoi ch'alquanto accenne,
ché quel poco darà lunga memoria
di poema dignissima e d'istoria. –
 
33
Così disse ella; e per l'ondose strade
corre al ponente e piega al mezzogiorno,
e vede come incontra il sol giù cade
e come a tergo lor rinasce il giorno.
E quando a punto i raggi e le rugiade
la bella aurora seminava intorno,
lor s'offrì di lontano oscuro un monte
che tra le nubi nascondea la fronte.
 
34
E 'l vedean poscia procedendo avante,
quando ogni nuvol già n'era rimosso,
a l'acute piramidi sembiante,
sottile invèr la cima e 'n mezzo grosso,
e mostrarsi talor così fumante
come quel che d'Encelado è su 'l dosso
che per propria natura il giorno fuma
e poi la notte il ciel di fiamme alluma.
 
35
Ecco altre isole insieme, altre pendici
scoprian alfin, men erte ed elevate;
ed eran queste l’isole Felici,
così le nominò la prisca etate,
a cui tanto stimava i cieli amici
che credea volontarie e non arate
quivi produr le terre, e 'n più graditi
frutti non culte germogliar le viti.
 
36
Qui non fallaci mai fiorir gli olivi
e 'l mèl dicea stillar da l'elci cave,
e scender giù da lor montagne i rivi
con acque dolci e mormorio soave,
e zefiri e rugiade i raggi estivi
temprarvi sì che nullo ardor v'è grave;
e qui gli elisi campi e le famose
stanze de le beate anime pose.
 
37
A queste or vien la donna, ed: – Omai sète
al fin del corso – lor dicea – non lunge.
L’isole di Fortuna ora vedete,
di cui gran fama a voi ma incerta giunge.
Ben son elle feconde e vaghe e liete,
ma pur molto di falso al ver s'aggiunge. –
Così parlando, assai presso si fece
a quella che la prima è de le diece.
 
38
Carlo incomincia allor: – Se ciò concede,
donna, quell'alta impresa ove ci guidi,
lasciami omai por ne la terra il piede
e veder questi inconosciuti lidi,
veder le genti e 'l culto di lor fede
e tutto quello ond'uom saggio m'invìdi,
quando mi gioverà narrar altrui
le novità vedute e dir: <<Io fui!>> –
 
39
Gli risponde colei: – Ben degna invero
la domanda è di te, ma che poss'io,
s'egli osta inviolabile e severo
il decreto de' Cieli al bel desio?
ch'ancor vòlto non è lo spazio intero
ch'al grande scoprimento ha fisso Dio,
né lece a voi da l'ocean profondo
recar vera notizia al vostro mondo.
 
40
A voi per grazia e sovra l'arte e l'uso
de' naviganti ir per quest'acque è dato,
e scender là dove è il guerrier rinchiuso
e ridurlo del mondo a l'altro lato.
Tanto vi basti, e l'aspirar più suso
superbir fòra e calcitrar co 'l fato. –
Qui tacque, e già parea più bassa farsi
l'isola prima e la seconda alzarsi.
Si descrive una certa impresa compiuta da Carlo e Paolo, che sono dei paladini cristiani. Siamo in un momento
importantissimo del racconto dove Rinaldo, insieme a Fedrè, il più importante dei paladini cristiani, viene attratto dalla
maga Armida delle Isole Fortunate, che coincidono con le Canarie, estremamente fertili, belle e fortunate per il clima e
la natura, si trova appunto questa maga pagana, infedele, che con le sue arti magiche
attrae a sé Rinaldo per sottrarlo alla lotta (?). Allora Carlo e il bardo vengono mandati da Goffredo di Bibbione per
liberare Rinaldo che consentirà alla guerra di avere esito positivo per i crociati che sconfiggeranno i fedeli.
Carlo e il bardo nel XV canto salgono su una nave volante guidata dalla dea Fortuna, cioè questa personificata in una
dea, che conduce oltre le colonne e conduce nell’arcipelago delle Canarie, nel giardino di Armida, qui libereranno
Rinaldo, e lo porteranno a Gerusalemme dove insieme agli altri compagni potranno invaderla.

Però qui conta la riflessione che Tasso fa su Ulisse in relazione a Colombo.


Tasso scrive negli anni ‘70 del ‘500, le prime due edizioni della Gerusalemme liberata avvengono nel 1581 e 1584,
quando Tasso è rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Sant’Anna, dove quindi non ha nemmeno il controllo la
pubblicazione, ma viene da Leonardo Distampe (?). Tasso finge nel libro che gli eventi si svolgano 500 anni prima, e si
svolgono quindi prima di Dante, sia prima delle scoperte geografiche, in particolare Tasso cita Colombo (1492) e
Magellano che nel 1510 inizia la circumnavigazione del globo, che risulterà molto sfortunata, Magellano morì insieme a
molti partecipanti, quasi tutti e solo una nave di tutta la flotta sopravvisse. Andarono dalla Spagna verso ovest, America
meridionale, attraversata l’Oceania, costeggiate Filippine e tutta l’Asia costiera, circumnavigata l’India e l’Africa e poi
ritorno in Spagna. È un viaggio durato anni. Tra i sopravvissuti troviamo un padovano, Antonio Pierefetta, in qualche
modo segretario di Magellano, che lascia una relazione di viaggio che racconta tutta la sua esperienza intitolata
“Relazione del primo viaggio intorno al mondo”, racconta la scoperta da parte della flotta di Magellano di molte zone
inesplorate dell’America del Sud es. Patagonia, e anche soprattutto dell’Oceania e delle Filippine. È un documento
interessantissimo dal punto di vista storiografico e letterario della prima esplorazione che Magellano compie di questi
luoghi.

Viene semplicemente citato Magellano in una di queste ottave, ma quello che Tasso vuole sottolineare è che il viaggio
di Colombo oltre le colonne d’Ercole è un viaggio positivo, fatto in grazia di Dio, perché con questo viaggio Colombo
ha potuto diffondere il cristianesimo aldilà dell’Europa dove il messaggio cristiano non era ancora noto, ha aperto
l’evangelizzazione delle nuove terre americane. Infatti la prima isola che incontra nel suo percorso, quella in cui sbarca,
Guananin nelle Bahamas, la chiama San Salvador, dedicata al Salvatore, a Cristo.
Quindi Tasso, riformista, imbevuto e allineato ai i dettami della Controriforma, rappresenta comunque un paradigma di
Colombo positivo perché ha evangelizzato gli indios dell’America centrale, diventa un viaggiatore positivo. Ulisse
invece rimane un non più distes, ciò un pagano tra i tanti che hanno voluto esplorare che non lo riguardavano.

È un cambiamento segno dei tempi molto importante, ora il viaggio nelle nuove terre non è più sacrilego, da evitare.
Viene legittimato da Tasso. Andarci è autorizzato da Dio perché si porta nelle nuove terre il cristianesimo. Il paradigma
introdotto da Colombo che corregge quello di Ulisse è positivo perché l’attraversamento delle colonne avviene in grazia
di Dio per missione apostolica.
In Tasso abbiamo un cambiamento sostanziale, cioè superare i divieti che l’antichità aveva posto alla conoscenza non è
più negativo SE SI VOGLIONO EVANGELIZZARE LE NUOVE TERRE.
Francis Bacon (Bacone) (1561-1626) nel frontespizio della sua Instauratio Magna, (=instaurare un nuovo ordine
scientifico), una nuova enciclopedia delle scienze, rappresenta il vascello della scienza oltre le colonne. Pone come
motto alla base del passaggio delle colonne d’Ercole: “Molti andranno oltre [le colonne d’Ercole] e la scienza crescerà”,
è un versetto della profezia di Daniele, che significava che i lettori avrebbero scorso la profezia e avrebbero aumentato
la loro conoscenza per il bene di Dio/l’avrebbero conosciuto.
Bacone è nel contesto riformistico, è protestante, in una società che vuole imporre un nuovo sapere tecnologico, osa
sapere, non temere di conoscere, ma al servizio della borghesia mercantile/imprenditoriale e della Corona che deve
conquistare/sfruttare nuovi popoli/territori.

In Italia Tasso non parla di progresso scientifico ma morale, parla di progresso di evangelizzazione, non della scienza.
Bacone rimuoverà completamente dal discorso il progresso morale, ma parlerà solo del progresso scientifico, parlerà
solo della crescita delle scienze, il progresso morale lo lascia ai teologi.

4 lezione 30/09/2019

Nel Medioevo spesso le opere si pubblicavano pezzo per pezzo, e prima della scrittura (in Italia dal 1450) venivano
scritte a mano.
Entro pochi decenni ci saranno i viaggi nelle coste dell’Africa Occidentale, es. Canarie dai portoghesi e fiorentini, uno
dei primi casi di descrizione di indigeni extra europei, i guanci, da uno scrittore italiano, in latino comunque. Sterminati
poi. Si comincerà ad andare oltre le colonne comunque. Il problema di andare oltre si porrà in maniera frequente
successivamente.
Si aggiunge l’icona di Cristoforo Colombo, grande personaggio letterario nel ‘500, aggiungendosi all’Ulisse dantesco,
viaggiatore empio che andava per puro desiderio di conoscenza senza autorizzazione, invece Tasso racconta Colombo
come un viaggiatore pio, che compì il viaggio per evangelizzare (movente di quasi tutti i viaggio che erano di dominio
alla fine, per colonizzare), legittimato quindi, dal fatto che invadere nuove terra significava evangelizzare.
Per Colombo il viaggio non sarà autodistruttivo ma fatto per l’evangelizzazione e per grazia.

L’altro aspetto importante della descrizione che fa (non delle Americhe, che decide di non descrivere), del regno di
Armida, maga pagana rapisce Rinaldo nel campo di Gerusalemme, così lui non può più combattere per liberare il Santo
Sepolcro, e lo porta nel suo giardino incantato fra delizie e piaceri, dove Rinaldo resterà chiuso come in una specie di
sogno, in un delirio di amore per Armida, quello che succederà nell’Odissea con Calipso e Circe, che lo ammaliarono
per sottrarlo ai suoi doveri di re di Itaca, per impedirgli il ritorno in patria.
Carlo e Ubaldo, due baroni cristiani, vengono mandati da Goffredo di Buglione che guida la spedizione di liberazione
del Santo Sepolcro, personaggio storico, siamo nel 1099, secondo la finzione letteraria di Tasso, verso la fine della
prima crociata, gli ultimi mesi, Goffredo manda questi due personaggi insieme alla dea Fortuna che li carica sulla sua
nave volante e gli accompagna fuori dalle colonne d’Ercole fino alle Isole Fortunate, che sono le Canarie, chiamate
Insule Fortunate da diversi storici, come Plinio il Vecchio, nel I sec. d.C. che ne parlavano sempre in maniera
favolistica e leggendaria, perché non si aveva una conoscenza precisa di quel luogo. Sono nel XIV sec. si comincia a
conoscere meglio l’arcipelago.
In queste isole secondo l’immaginario occidentale c’era eterna primavera, erano luoghi ideali, madre benigna, qualcuno
collocava addirittura i campi Risi, in quelle isole, il paradiso, dove l’uomo era in perfetta simbiosi con la natura, in
perfetta felicità, senza guerra etc.

Fin dai viaggi di Colombo, si assume che la natura sia edemica, anche se il viaggio per chi lo compiva era spesso duro
terribile.
Si dice del diario di Colombo che le persone sono miti e serene, l’immaginario edemico, appartiene anche alla cultura
latina e greca.
L’Eden che incontra nel Purgatorio la descrive come la Pineta di Classe di Ravenna,

Passo nel XV canto della Liberata, passo chiave per capire il tema nella letteratura italiana.
Tasso, nella finzione della Gerusalemme Liberata fa a finta che niente sia avvenuto dei viaggi oltremare, Colombo etc.
Dice che Carlo e Ubaldo siano già dove il mare filtra fra la terra, per una via che si crede essere stata aperta da Ercole,
soprannominato Alcide. Tasso controriformista non accetta il mito.
È possibile che il Mediterraneo fosse stato un mare chiuso, ma è l’età che ha fatto separare la cresta montuosa. Il
medioevo è finito. La natura può invecchiare, può trasformarsi attraverso il tempo, questo che forse ha determinato le
creazione delle colonne. Tasso vuole ribadire l’ortodossia, non vuole tornare al mito antico. Poi più avanti ci sarà un
ritorno, ma nella “Liberata” lui rifiuta il mito. Partendo da Gerusalemme, in quattro giorni (nave volante è molto
veloce), se il mare Mediterraneo è tanto grande, almeno ce lo immaginiamo così, pensa come è al largo delle coste della
Spagna e Marocco, pensa alla grandezza dell’oceano che circonda i continenti!
Si vede solo l’orizzonte del cielo e del mare.

Ubaldo, quello con più spirito di conoscenza, si rivolge alla dea Fortuna, che conosce la storia antica degli uomini e
futura, e le chiede se qualcuno è mai andato oltre le colonne d’Ercole e se è un mondo abitato (ave abitante)
(riferimento al racconto di Ulisse nella Commedia).

Si racconta il mito di Ercole che dopo aver ucciso Gerione in Spagna, non vuole tentare l’altro oceano, e segna le mete,
i confini leciti della conoscenza europea e restrinse l’ardire di conoscenza del genere umano entro un circuito che è
troppo circoscritto. Tasso riconosce che il limite delle colonne è troppo angusto per la conoscenza umana, ma dipende
con qual spirito si va a queste colonne. Ma si riprende il racconto dell’Ulisse dantesco, che passò le colonne, in un volo
audace, non folle (come in Dante), anche se condanna il viaggio, Tasso attenua la gravità di questa colpa. Poi non
essendo esperto di queste nuove mete, l’oceano lo sommerse, come sommerse anche il caso che si tace. Vuol dire che in
Europa non si conoscerà la storia dell’ultimo suo viaggio, del quale parlerà Dante solo nel ‘300. Se qualcun altro compì
questo stesso viaggio, di sicuro morì.
Arriva a rivelare a questi uomini medievali che oltre le colonne si trovano molte isole e molti regni ignoti, di società, di
uomini ma soprattutto terre feconde.

Ubaldo chiede ulteriormente alla Fortuna in quale regime vivono e quale religione praticano in questi regni.

Ci sono diverse bande, diverse zone, hanno riti, abiti diversi (costumi), HABITUS (GARDINI DOCET), sono pagani,
adoratori della madre natura, del sole etc.
Tema dell’antropofagia, cannibalismo, che scioccò chi tornava in Europa. Banchetti di cose scelerate e felle. Sono di
costume barbaro, di fede empia. Immagini che rimangono cucite addosso ai popoli del nuovo mondo.
Tasso ha già un’idea della grandezza del mondo, perché diversi hanno fornito un caleidoscopio del mondo, grazie es.
Magellano, impresa epocale, che un suo segretario, Pieraffetta.
Dal 1550 pubblica diversi resoconti di viaggio che diffondono l’immagine del mondo e delle culture che può avere un
aspetto globalizzato. Ormai c’erano resoconti di viaggio che coprivano tutto il mondo.
Gesù nei confronti del nuovo mondo come si poneva? E queste nuove terre come si collocavano in un discorso
religioso? La sua fede sarà introdotta in questi luoghi, e così ogni conoscenza del mondo civile, cosa che al tempo della
stesura del testo stava già avvenendo. Non avverrà sempre che la distanza tenga distanti le popolazione dalle nuove
terre. Infatti molti indigeni vennero portati in Europa, perché erano un elemento di meraviglia, per essere visti e
conosciuti. Verrà un tempo in cui le colonne saranno ingiuste, per chi vorrà viaggiare e arricchirsi. I mari che non hanno
neanche nome, saranno ben noti. Il più ardito di tutti i regni, è la flotta di Magellano, che ha compiuto la
circumnavigazione, seguendo una rotta occidentale, per tornare dopo aver doppiato l’Africa, tornando in Spagna,
mostrando che la sfericità della terra è reale, colpo forte alle antiche topografie che credevano che fosse piatta.
Colombo, uomo ligure, cosa forte inutile da ribadire, è comunque molto più vicino alla Spagna, o alla cultura
internazionale, ma gli scrittori ci tenevano a far capire che fosse italiano.
Nessun pericolo, vento/mare/clima possono colpire l’immaginario, non impediranno a questo generoso (aggettivazione
subito positiva), cioè che si sacrifica per la causa comune, non potrà tenere a bada la sua mente profonda, oltre i divieti
delle colonne. Un Dio pagano non controllerà la sua mente, che è controllata dal “vero Dio”.
La fortuna si rivolge direttamente a Colombo, profezia che conosce già gli eventi, la fama farà fatica a seguire il tuo
volo nelle Americhe, un volo tut curs positivo. Dal ‘500 ci sarà una lunga produzione di scritti che studieranno la figura
di Colombo.

Dopo aver detto queste cose, il loro viaggio sulla nave volante continua sull’oceano, e questa nave continua a piegare
verso sud correndo a Ponente, dove il sole tramonta. A un certo punto intravedonon un monte oscuro, che nasconde la
fronte fra le nubi, il Pico de Teide, vulcano altissimo (3800 mt.) a Tenerife, descritto nella “Liberata” come ben visibile
anche in lontananza, come quella che aveva avvistato Ulisse nel racconto dantesco dell’Inferno, che però secondo Dante
era il Purgatorio nella costruzione immaginifica del Poeta. Qui invece è il vulcano più alto delle Canarie, dove si trova il
giardino di Armida.
Avvicinandosi capiscono che ha la forma di una piramide, e come l’Etna, si trova alle spalle il gigante oceano, di giorno
fuma e di notte emette bagliori che illuminano il buio.
Queste sono le Isole Felici, nominate così dagli antichi, la presca etate credeva che la metereologia fosse tanto amica di
queste isole che le terre producevano frutti volontari, più buoni dei nostri, è una natura profida che a differenza della
nostra non necessita di agricoltura.
Anche in estate il clima è temperato. C’è una visione idilliaca dei tropici, natura benigna, feconda, non pericolosa, luogo
ideale per la vita umana. Uno di quelli che romperà l’idea, è Francesco Carletti, viaggiatore di tutto il mondo, lascia dei
ragionamenti molto interessanti, un mercante che viaggia per tracciare nuovi traffici commerciali, e tiene nota di tutto.
Descrive in America una natura non benevole/favorevole, ma forse per la prima volta nella nostra letteratura, descrive
una lotta per la vita di chi vi abita, una natura maligna, “Ragionamenti del viaggio intorno al mondo”. Prenderà la
natura inospitale, riportando il discorso a parametri più realisti.
Queste isole fertili e felici, ma comunque il mito esagera dice Tasso, fertili, ma chiamarle fortunate è troppo.
Carlo ha un forte desiderio per pura sete di conoscenza, cosa c’è su queste isole. Lascia che io possa esplorare. È lo
stesso desiderio che aveva Ulisse di conoscere gli usi e costumi dell’ignoto. Questa conoscenza esula dalla liberazione
di Arnaldo, che avrebbe dovuto liberare Gerusalemme. Non posso farci niente, il decreto di Dio blocca il desiderio di
conoscenza, nessuno prima del tempo può scoprire e diffondere informazioni. Non vi è lecito consegnare all’Europa
notizie che stanno scoprendo. Si è potuto viaggiare fin qua solo per grazia divina, per liberare il guerriero rinchiuso,
riportarlo dall’altra parte del mondo. Vi basti questo, aspirare a conoscere di più sarebbe superbia.

Il tema del viaggio è stato riscritto nel ‘500 da Tasso. Va bene la conoscenza ma solo se in grazia di Dio, o come per
Colombo, per evangelizzare. [quindi erano contro la conoscenza].
Sceglie le Canarie perché sono più conosciute rispetto alle Americhe appena scoperte, e per la montagna del Purgatorio.
Per il collegamento con la tradizione antica, che lui non accetta più nella sua prospettiva cristiana.

Francis Bacon, all’inizio del ‘600 con Cartesio e Galileo, sarà il fondatore della nuova scienza empirica, sperimentale,
basata sul calcolo matematico, sul metodo nel caso di Bacone induttivo (osservazione della realtà), (gli altri due con
metodo induttivo e deduttivo insieme), hanno contribuito enormemente alla nascita della scienza moderna, che ha rotto
con la scienza antica, non fondata sul metodo sperimentale moderno.
Nel 1620 Bacone usa l’immagine delle colonne d’Ercole, descrivendo la sua scienza/metodo con le colonne scrivendo
che “Molti oltrepasseranno le colonne d’Ercole e la scienza progredirà”.

Progredire-progresso sempre più usate.


Quindi nasce l’idea che il viaggio oltre le colonne sia positivo, almeno per la scienza.
Bacone è stato uno dei primi a sottrarre l’idea del passaggio delle colonne alla negatività, anche con la scelta del suo
frontespizio della sua Instauratio Magna.
L’Ulisse dantesco che va oltre le colonne è ormai uno scienziato, non c’è il Colombo evangelizzatore di Tasso. Non
interessa questo aspetto al protestante Bacone, ma il progresso della conoscenza delle cose fisiche, della natura del
mondo.

Il frontespizio mostra alcune navi oltre le colonne, mostrano il collegamento profondo fra nuova scienza baconiano e
viaggi, che diventano un tutt’uno. Non sono più viaggi che cercano una legittimazione, è mosso solo dalla scienza e si
cerca l’autorizzazione nella scienza.

L’oltrepassamento delle colonne, è un’impresa eroica della conoscenza. È positivo. Andare oltre vince sul rimanere.
Quello che autorizza il viaggio è solo il progresso.
Nuovo modo di affrontare il viaggio che da Bacon in poi diventa sempre più comune e accettata.

Giuseppe Parini (1729-1799), dal ‘700 la pratica della vaiolizzazione (ingerire pastiglie di vaiolo così da creare
l’immunizzazione), una delle epidemie che sterminava di più in UE e il tasso di mortalità rimaneva alto, (anche con la
vaiolizzazione). Con il pus vaccino invece si crea il vaccino, dalle vacche. Vaccino che iniettato poco nelle persone,
creava gli anticorpi. Parini lo vuole promuovere anche in Italia. Odi (1795) in questa raccolta di poesie dall’impegno
civile, cerca di mettere al servizio del potere austriaco che dominava in Lombardia, per le riforme. Denuncia anche il
problema dell’inquinamento, aveva fatto una battaglia, una delle sue odi parla di questo.
Un’altra Il bisogno cerca di capire le cause dei reati, causa fame, e secondo lui contro il furto andava usata una
maggiore misericordia perché la maggior parte dei reati vengono commessi per la fame.
Il giorno, un’opera di denuncia contro una certa nobiltà che viveva improduttivamente e in forma parassitaria,
sfruttando solo i poveri, trattando gli esseri umani inferiori a livello cetuale come animali. Lui ha appunto dedicato a
questo tema l’opera e descrive la giornata di un giovane nobile della Lombardia che passa il tempo a sprecare il suo
tempo improduttivamente e spendendo.
Non poteva non recupare la figura di Ulisse e di Colombo, facendone degli eroi positivi in senso baconiano, a proposito
soprattutto dell’innesto del vaiuolo, della vaioloizzazione, che lui vuole difendere in quest’ode, quindi è il nuovo della
medicina contro il vecchio della tradizione, Parini dice che questo De’ Buttinoni, medico vaiolizzatore, in gran parte
uno sperimentatore, fa di lui un Colombo della conoscenza scientifica un eroe della scienza, un Colombo che va verso il
nuovo mondo che è ora la novità in campo scientifico e in campo medico. Quindi Colombo come eroe della ragione
libera e indipendente, che vince anche le tradizioni, i modi di pensare dominanti, ma questa volta la sua trasgressione è
un atto di virtù scientifico/conoscitiva.
Parini toglie da Colombo Ulisse, (di solito parlando di Colombo troviamo sempre il discorso di Ulisse sotto) e il tema
della punizione, tema centrale in Dante. Andare oltre le colonne d’Ercole e incrementare la medicina, la storia delle
conoscenza mediche, è degno di lode, e non si deve incorrere nelle punizioni di Dio. È un paradigma positivo per
la società delle riforme illuministica.

Vediamo l’opera:

G. Parini,
L’innesto del vaiuolo (1765), vv. 1-27
 
Al Dottore
Giammaria Bicetti De’ Buttinoni
 
O Genovese ove ne vai? qual raggio
Brilla di speme su le audaci antenne?
Non temi oimè le penne
Non anco esperte degli ignoti venti?
Qual ti affida coraggio 5
All’intentato piano
De lo immenso oceano?
Senti le beffe dell’Europa, senti
Come deride i tuoi sperati eventi.
 
Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice, 10
Che natura ponesse all’uom confine
Di vaste acque marine,
Se gli diè mente onde lor freno imporre:
E dall’alta pendice
Insegnolli a guidare 15
I gran tronchi sul mare,
E in poderoso canape raccorre
I venti, onde su l’acque ardito scorre.
 
Così l’eroe nocchier pensa, ed abbatte
I paventati d’Ercole pilastri; 20
Saluta novelli astri;
E di nuove tempeste ode il ruggito.
Veggon le stupefatte
Genti dell’orbe ascoso
Lo stranier portentoso. 25
Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito
All’Europa, che il beffa ancor sul lito.
 
Più dell’oro, Bicetti, all’Uomo è cara
Questa del viver suo lunga speranza:
Più dell’oro possanza 30
Sopra gli animi umani ha la bellezza.
E pur la turba ignara
Or condanna il cimento,
Or resiste all’evento
Di chi ’l doppio tesor le reca; e sprezza 35
I novi mondi al prisco mondo avvezza.
 
[…]
 
Sempre il novo, ch’è grande, appar menzogna,
Mio Bicetti, al volgar debile ingegno:
Ma imperturbato il regno
De’ saggi dietro all’utile s’ostina.
Minaccia né vergogna 140
No ’l frena, no ’l rimove;
Prove accumula a prove;
Del popolare error l’idol rovina,
E la salute ai posteri destina.
 
Così l’Anglia la Francia Italia vide 145
Drappel di saggi contro al vulgo armarse.
Lor zelo indomit’arse,
E di popolo in popolo s’accese.
Contro all’armi omicide
Non più debole e nudo; 150
Ma sotto a certo scudo
Il tenero garzon cauto discese,
E il fato inesorabile sorprese.
Tu sull’orme di quelli ardito corri
 
Tu pur, Bicetti; e di combatter tenta 155
La pietà violenta
Che a le Insubriche madri il core implica.
L’umanità soccorri;
Spregia l’ingiusto soglio
Ove s’arman d’orgoglio 160
La superstizion del ver nemica,
E l’ostinata folle scola antica.
 
[…]

Parla subito con Colombo, chiedendo quale coraggio lo porta a toccare territori mai toccati?
L’audacia deriva dall’illuminazione, illuminati dalla ragione, che significa di abbandonare l’antichità, il vulgo, per
un’epoca riformatrice.
Ha un coraggio che lo spinge sull’intentato piano dell’immenso.
Gli scienziati europei si facevano beffe di lui che voleva partire alla volta dell’ignoto. La sua idea veniva considerata
folle, anche per tutta la stratificazione di giudizi/idee comuni che si avevano oltre le colonne, da Dante in poi. Nessuno
voleva finanziarlo. Tu però genovese disprezza il volgo, chi ha il pregiudizio che gli oscura, vulgo che segue il
pregiudizio. La natura ha posto dei limiti fisici, come l’oceano, ma ha dato all’uomo la ragione per uscire dall’impresa.
Costruire grandissime tele di canapa, le vele, per navigare sulle acque. Se la natura ha dato all’uomo tutte queste facoltà,
vuol dire che andare oltre le colonne è una prerogativa che l’uomo può seguire. Colombo credeva questo, se io ho la
possibilità di andare oltre, lo faccio, vado oltre le colonne che per secoli hanno bloccato tutto.

Parini non ama la colonizzazione, odia quello che succede oltremare, la schiavitù, condanna lo sfruttamento, ma qui
vuol mostrare che è positivo il coraggio conoscitivo che Colombo ha affrontato, cosa che per il Panini illuminista è
importante.

Ancora al ritorno, l’Europa continua a beffarlo, ma dovrà richiedersi, perché Colombo è riuscito nell’impresa.

La prospettiva di una vita lunga, la tua medicina, il tuo studio sulle vaccinazioni, sono più importanti dell’oro che
Colombo riportava indietro.
Eppure nonostante l’uomo ami la lunga vita e la bellezza, gli esseri umani ignoranti che non conoscono la medicina e
gli argomenti che esprimono, condannano il tuo esperimento, ma che resiste a coloro che vogliono espandere la
vaiolizzazione. Ci sono state prove della devaiolizzazione, ma comunque la prendono in giro.

Lontani dall’Ulisse dantesco, c’è solo la sete di conoscenza vincitrice, scientifica, guidata dalla ragione che basta a se
stessa. È utile scoprire nuovi rimedi contro la malattia, quindi è giusto dirigersi verso questi nuovi mondi, non serve
alcuna autorizzazione. I ceppi dell’utimone (?), descritti da Parini nell’Innesto del vaiuolo si trovano in una di quelle
navi del frontespizio dell’ Instauratio Magna di Bacone, un viaggiatore che verso l’ignoto è legittimato dalla scienza e
dal progresso, il cui coraggio è ormai fonte di eroismo, non più da abbattere.

Nuovo mondo che si apre con Parini, in Europa, dove la ragione diventa sempre più il cardine della vita umana. Gli
intellettuali cominciano a mutare radicalmente il paradigma della conoscenza, che in parte è ancora il nostro.
Parini è un uomo immenso, e il suo lavoro è molto attuale. Ha permesso l’illuminismo in Italia.

5 lezione 01/10/2019

Tasso avvalla l’Ulisse dantesco, pagano che va oltre le colonne non in grazia di Dio, ma innesta sulla figura dell’Ulisse
dantesco, la figura dell’Ulisse genovese, Colombo, il quale per lui è stato un Ulisse buono, ha viaggiato oltre le colonne
e scoprì il nuovo mondo in grazia di Dio, perché il suo viaggio ha garantito l’evangelizzazione del nuovo mondo. Qui
parliamo di un autore di fine del ‘500 che vive all’interno del dibattito complicato e doloroso con lotte contro l’eresia,
fuga di cervelli dall’Italia in paesi protestanti perché non si adattano ai nuovi decretali del concilio di Trento. È un
momento complesso di movimenti e idee, e la Gerusalemme liberata si inserisce in questo contesto. Tasso deve
legittimare i viaggi che l’uomo sta compiendo per il mondo. Troviamo un girovagare sempre più intenso aldilà dei
confini conosciuti, fuori dall’ecumene cristiana medievale. Bisogna legittimare questo spostarsi, lui lo fa sotto il profilo
dell’evengelizzazione nel mondo, della panevangelizzazione. Per lui è concepibile il viaggio in questa chiave, quello
che secondo la tripartizione della letteratura di viaggio classica, si può definire viaggio di esplorazione/spedizione, non
determinato dalla pura conoscenza del mondo ma da uno scopo politico, diplomatico, o religioso, nel caso di Tasso.

Con Tasso torna a essere riproposto riguardo ai nuovi mondi, qui parliamo delle Canarie, non delle Americhe, la
sovrapposizione tra questi nuovi mondi meravigliosi, quelli che gli antichi chiamavano Saturnia regna, e l’Eden, del
Genesi.

Con il nascere della scienza moderna, tra ‘500-‘600 ma soprattutto nei primi decenni del ‘600, fondamentali per la
fondazione della nuova scienza, basata sull’esperimento, sulla ricerca, sulla matematica, sull’osservazione dei fenomeni
senza cadere nei pregiudizi, abbandonando l’uomo vecchio pieno di pregiudizi sulla natura/astronomia etc.

Con questa nuova scienza di cui Bacone, Galileo, Cartesio e altri, sono i primi misselliferi, diffusori/divulgatori e
in parte inventori, nasce una nuova idea di viaggio che tende sempre più a svincolarsi dal problema religioso,
dalla questione evangelizzatrice, e comincia a diventare sempre più una possibilità di conoscenza pura, fine a se
stessa, senza altri fini se non il vedere ciò che c’è nel mondo, e che cosa questo offre.

Questa è la scienza a cui allude Francesco Bacone in tutta la sua opera, infatti nel frontespizio di “Instauratio Magna”,
del 1620, la sua opera incipitaria, quella in cui fonda questo nuovo metodo sperimentale di conoscenza del mondo,
mostra i vascelli che superano le colonne, non più atto contro la religione, contro i divieti imposti da Dio, ma è
un’impresa eroica che in quanto tale va elogiata. È un’impresa contro i pregiudizi, e punta all’augmentum scientiarum,
al progredire della scienza. Lui dal punto di vista scientifico, con la liberazione del viaggio dal problema religioso, del
divieto religioso, dal paradigma dell’Ulisse dantesco, il plus ultra vince sul non plus ultra.
Lo scienziato che viaggia nella natura, ma anche lo stesso viaggiatore (nel ‘700 molti scienziati erano viaggiatori, come
Nazzaro Spalanzano), cerca nel progresso la propria autorizzazione, non ha bisogno di altre autorizzazioni se non
l’augmentum scientiarum.

Si arriva a Giuseppe Parini, dove questa mentalità introdotta dai nuovi filosofi della scienza sperimentale, è già
pienamente attiva, cioè la società delle riforme e dell’illuminismo, che assorbe questa nuova scienza che mette al centro
la ragione, la ricerca scientifica al centro assoluto del discorso.
Parini è un poeta illuminista che passerà tutta la vita nella Milano austriaca, monarchia illuminata, che si avvale di
intellettuali per impostare riforme sociali, tipica forma di collaborazione tra potere e intellettuali del ‘700 illuminista,
quindi vediamo una monarchia molto aperta alla nuova filosofia illuministica, e ai suggerimenti che possono provenire
da scrittori e filosofi.
Co con la reggenza austriaca, la sua produzione di odi e “Il giorno” rientra nella direzione di impegno civile, riformismo
sociale, in nome dell’utile, della ragione e giudizio.

Nell’Innesto del vaiuolo, sostiene una nuova forma di provvedimento igienico-scientifico, la vaiolizzazione, cioè
l’innesto del vaiolo va inserito in pazienti sani per ottenere l’immunizzazione, dato che questi corpi diventano anticorpi
visto le piccole dosi di vaiolo ricevuto. Successivamente si potrebbe venire attaccati dalla malattie, ma si sarà in grado
di sconfiggerla.
Questo è un principio molto difficile da capire e da accettare.
Parini è un poeta a sostegno del progresso medico e del nuovo concetto di vaccinazione e lo fa attraverso la poesia e il
classicismo, metodo che nel mondo colto era normalmente praticata e fruita. Parini era come se scrivesse un saggio
scientifico quasi internet, tutta la società colta ne fruiva, si faceva ampio consumo di questo strumento.
Parini è un arcade, l’Arcadia è un accademia letteraria fondata a Roma nel 1690 per creare una rete di letterati, metteva
in comunicazione fra loro i poeti, e si entrava con una prova.
La Terza Arcadia, la fase tre di questa, ne fa parte Parini, contribuì a diffondere idee illuministiche.
Colombo viene descritto come il nuovo Ulisse, perché oltrepassare le colonne d’Ercole non è più hybris, ma un atto di
virtù.

Andiamo avanti con il testo sul vaiolo:


Le grandi novità sembrano falsità all’ingegno delle persone ignoranti, ma senza lasciarsi perturbare da questo
chiacchiericcio il regno dei saggi si ostina a seguire l’utile sociale. Cerca di destinare la salute a chi seguirà, non a chi la
rifiuta. In questo modo la società del futuro sarà dominata dai saggi che seguiranno la filosofia e la scienza, non
desisteranno dal loro intento, cioè andare dietro all’utile, al bene collettivo e al progresso. In questo modo
l’Inghilterra/Francia/Italia videro molti saggi armarsi contro il vaiolo.
Questi scienziati hanno uno zelo indomito che apre dentro di loro, come la raffigurazione dell’Ulisse dantesco che
avveniva semanticamente all’insegna del fuoco, anche in maniera punitiva dato che il fuoco lo avvolge come dannato,
ma è il correlativo oggettivo della sua colpa, l’essere stato arso dalla sete di conoscenza che là lo portava all’inferno, qui
è invece considerato segno regale. saggio. Questo zelo arde tra gli scienziati ma anche in tutto il mondo, come una
fiaccola/luce che verrà passata di popolo in popolo.

Il ragazzino/fanciullo non è più volubile contro le armi della malattia. Finalmente può scendere in campo più sicuro con
uno scudo in mano, cioè la vaccinazione. Riuscirà a sorprendere il fatto inesorabile, la morte.

C’è un’idea di un uomo che abbia di fronte a se il nemico natura, alla quale non è costretto a soccombere, ha la
possibilità di combattere ad armi pari.
Filosofi e scienziati, raccolti dietro certe idee scientifiche devono unirsi contro la natura.
C’è l’idea che la scienza possa combattere la natura.

Le madri non vogliono che vengano vaccinati i figli, e così si fanno del male da sole, ma arriva la scienza in soccorso
con i medici.
Bisogna distruggere la superstizione amica del vero, e la folle tradizione, definita folle con un termine dantesco, non chi
compie un viaggio senza consenso, ma folle è chi non si fa curare e va incontro alla morte.

L’illuminismo attua con chiarezza un ribaltamento del modo tradizionale di concepire il rapporto fra morale e sapere.
I poeti come Parini vedono in questo ribaltamento una possibilità di riuso del mito di Ulisse.
Ogni epoca si appropria dei miti, dei temi, facendoli suoi, anche in maniera diversa rispetto ai precedenti,
rispetto alla tradizione, quindi Tasso è diverso da Dante, Parini è diverso da Tasso, D’annunzio è diverso da Parini, da
Tasso e da Dante etc.

Parini, attraverso la figura di Ulisse, che nell’Innesto del vaiuolo è Colombo, si fa portavoce del ribaltamento del
modo tradizionale di concepire il rapporto tra morale e sapere.
Un testo fondamentale è uno scritto di Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini, del 1786, lui, grande
filosofo illuminista, riflette sul peccato di Adamo ed Eva, dà un’interpretazione chiara, positiva e progressista del
peccato dei primi genitori, altro superamento delle colonne d’Ercole nella cultura giudaico-cristiana, visto da lui
come atto sovrano di emancipazione della ragione dalla natura e dall’istinto.
Il fatto che i primi genitori abbiano superato il divieto di mangiare dall’albero del bene e del male, è visto da Kant
positivamente perché gli uomini dall’istinto sono passati sotto il dominio della ragione, si sono liberati dalla schiavitù
dell’etoronomia, passando all’autonomia, e hanno conquistato il loro posto nel mondo attraverso la ragione e la scelta.
Questa è forse una delle interpretazioni più importanti per capire l’illuminismo, cioè l’uomo che supera il divieto sacro
e si affida alla ragione piuttosto per entrare padrone di se stesso/sua vita.
In questo contento il paradigma dell’Ulisse di Dante diviene positivo. Perché l’Ulisse dantesco è l’Adamo nello
scritto di Kant, che attraverso la ragione ha avuto il coraggio attraverso la ragione, di mangiare dall’albero, ha “superato
le colonne d’Ercole del divieto divino” e si è impadronito di se stesso attraverso la ragione. Ulisse di Dante ha voluto
far parte per se stesso, scegliere a prescindere dalla divinità, seguire solo il suo ragionamento. Lui era un vero uomo
razionale, non era romantico. Lui fa un ragionamento preciso, di non vivere come i bruti. Lì lo porterà a perdizione, qui
invece sarà un paradigma positivo.
Muoversi per via raziocinante è qualcosa di positivo finalmente.

Testo di Kant:
Adamo decise di non essere come gli animali, come se rivangasse l’Ulisse dantesco, ma è fonte di angoscia perché
carica l’uomo di responsabilità su se stesso, non più eteronomi ma autonomi e carichi di responsabilità e deve imparare
a vivere in questa moltitudine di scelte, il frutto proibito permette di assaporare la libertà e affranca dalla servitù. Non si
parla solo di Adamo perché la donna viene esclusa, è un discorso simbolico che tratta il fatto che Adamo staccò il frutto
proibito e Kant parla di questo. Adamo rappresenta l’uomo in una certa fase di sviluppo, non parla proprio di Adamo ed
Eva nel giardino, prende l’immagine per spiegare la sua teoria.
Eva resta comunque una figura complicata. L’illuminismo cerca di far avanzare la figura della donna, che viene
considerata, e fa avanzare la figura, ma siamo comunque nel 1700.

Più avanti dice:


Il passo è emanciparsi dalla schiavitù, gesto appunto pericoloso. Le fatiche della vita lo faranno sognare il paradiso, si
ricorderà con nostalgia lo stato edemico. L’infaticabile ragione spinge allo sviluppo delle capacità di cui l’essere umano
ha, quindi è una forza estremamente positiva.

Si arriverà all’estremizzazione di questa idea positiva di Ulisse come liberatore dal giogo dalla natura, da costrizioni,
etc.

Gabriele D’Annunzio (1863-1938), con lui, che dedica un intero poema all’Ulisse, il primo libro delle sue Laudi del
cielo del mare della terra e degli eroi, Maia. Anche D’Annunzio vuole farsi nuovo Ulisse, trasformando l’Ulisse
dantesco in superuomo. L’Ulisse che si è ribellato alle costruzioni della società e del divino, è per D’Annunzio un
eroe all’ennesima potenza, un superuomo, (termine pervertito comunque), molto più che l’Ulisse omerico.
Questo tracotante ribelle alla divinità equivale al superuomo nietzchano (semplificato da D’Annunzio), un uomo che ha
doti di imposizione straordinarie, si impone sui più deboli, idea che in Nietzsche non c’è (per N. era un andare oltre
l’uomo attuale).

Il superuomo sa ribellarsi, imporsi, essere sovrano di se stesso, senza regole, senza limiti, si autoimpone dei limiti alla
sua vita e a quella degli altri. Si vuole imporre nel mondo alla vita. Completamente autonomo.

D’Annunzio descrive questa figura che annuncia come un messaggio lanciato alla società e ai posteri, in Maia che ha
come sottotitolo “Laos vitae” (=elogio della vita).
Le Laudi sono divise in cinque libri (sarebbero dovute essere sette ma l’opera è incompiuta) e ogni libro prende il nome
delle stelle pleiadi (Maia, Elettra, Alcione, Merope e Asterope).
Le prime tre vengono pubblicate nel 1903, il blocco più importante dell’opera:

-Maia coincide con la descrizione poetica del viaggio in Grecia compiuto da d’Annunzio nel 1895 sul panfilo di
Edoardo Scarfoglio, suo amico e importante giornalista dell’epoca, marito di Matilde Salao, anche lei giornalista.
Scarfoglio organizza una crociera con molti amici, e man mano che D’Annunzio attraversa la Grecia, luoghi di cui ha
letto sui suoi amati libri classici, prende un taccuino che trasformerà in versi nel poema intitolato appunto “Laos vitae”
che costituirà il primo libro.
È molto importante, interamente in metrica libera, quindi importante anche per la storia del verso italiano, ci sono molti
settenari e novenari ma non esiste alcuno schema fisso in questi versi.
Ed è anche importante perché D’Annunzio pone in poesia la sua idea del superuomo.
Nella chiave di un rapporto diretto circolare con la natura, di grande panismo, di simbiosi con la natura, come ne “La
pioggia nel pineto” che si trova nella raccolta “Alcione”, che parla delle estati in Versilia, in Toscana e parla del fatto
che lui e la sua amata Ermione, si trasformano in piante, si fondono completamente con la natura.
Vediamo come D’Annunzio descrive in poesia nella “Laos vitae”, che è un insieme di visioni che lui ha mentre procede
in Grecia, Ulisse, con il quale tenta di dialogare, ma Ulisse non vuole parlare con lui.

D’Annunzio ha una visione globale della vita, la morte sarebbe un’ulteriore affermazione della vita. L’uomo deve
essere pronto a tutto pur di vivere realmente, anche di morire, quindi la vita è un’imposizione di se stesso anche fino
all’autodistruzione, combattere contro tutto e tutti fino all’autodistruzione.

Il panfilo si avvicina a Itaca, patria di Ulisse. Nei pressi di Leucade, un’altra isola, D’Annunzio e i suoi compagni hanno
una visione di Ulisse che naviga da solo con la sua nave. [visione!, ma le impressioni che D’Annunzio prova dentro
sono quelle che poi scriverà nel passo].
Incontrammo quello che i nativi chiamano Ulisse. La Eucade è fatta come un corpo di lunghe ossa incollate, solo cinto
dalla cintura del mare. Lo vedemmo sulla nave. mentre reggeva la corda con cui si tende la vela, con un copricapo di
stoffa che gli copriva il capo ormai vecchio. Anche l’Ulisse dantesco diceva di essere invecchiato. A dispetto di questa
vecchiaia, è un uomo fortissimo, un ginocchio che non si piega, una palpebra che copre un occhio aguzzo, penetrante,
ed era vigile in ogni suo muscolo, era magnanimo e di una potenza infaticabile del suo cuore.
Questo eroe non aveva elementi religiosi, oppure oro, non aveva veste e non aveva ove coricarsi, questo è un eroe
infaticabile che non dorme mai. Aveva solo l’arco con cui si vendica dei Proci che presero il suo trono a Itaca, quindi
arma di vendetta. Procedeva solo con quell’arco, proseguiva il suo travaglio contro l’implacabile mare.

Qui D’Annunzio fa una sua interpretazione di Dante. D’Annunzio vuole che sia tornato a casa ma che poi per inseguire
la sua fatica necessaria che gli porge il destino, abbia abbandonato la sua casa. L’uomo che cerca di raggiungere il
vertice delle proprie responsabilità. Niente può fermare il travaglio contro l’implacabile mare. È come l’uomo che
dovrebbe essere.

Tentano di chiamare Ulisse, cerchiamo come te di essere liberi e il solo personaggio che vorremmo come re, sei tu
Ulisse. Ulisse non gli degna nemmeno di uno sguardo, completamente immerso in se stesso. D’Annunzio grida più dei
compagni, dichiara di essere il più valido della crociera, se riesco a fare quello che hai fatto tu, un arco durissimo,
prendimi con te, e vedrai che sono un tuo pari, sennò attaccami conficcato alla prua della nave. Per un momento Ulisse
si rivolge verso D’Annunzio, apprezzando la sfrontatezza, (completamente diverso da quello dantesco) e con gli occhi
proietta un folgore su chi lo guarda, sguardo accecante.

La nave di Ulisse è la nave della vita umana, quella di D’Annunzio è di persone che non sono in grado di vivere come
Ulisse, vorrebbero diventare sui sudditi e compagni, ma a differenza dell’Ulisse dantesco che ha un piccolo gruppo di
compagni fedeli, quello di D’Annunzio è completamente solo. Lo indica come modello da seguire, un uomo
completamente reclinato verso se stesso e senza compagni, infatti lascia la patria, moglie, compagni e parte solo.
L’idea sociale di D’Annunzio è pazza, ma nasconde la filosofia “L’uomo è solo di fronte al destino”.
La nave di Ulisse è la nave della vita umana, di cui Ulisse si è completamente impadronito, accettando questo ruolo di
superuomo.
Il ruolo della nave dei compagni di D’Annunzio è di persone che vorrebbero vivere come Ulisse ma ancora non ne sono
in grado. Quindi incontrano questo magnanimo, vorrebbero quasi diventare suoi compagni, ma l’Ulisse d’annunziano
non ha compagni. È un uomo che decide di stare da solo. L’Ulisse dantesco invece ha ancora un nucleo di compagni.
D’Annunzio sembra dire che il superuomo a cui lui allude e indica come modello da seguire per se stesso e le future
generazioni, è un uomo completamente solo, che è totalmente chiuso in se stesso, che non può avere compagni. Infatti
abbandona la sua famiglia e la sua patria, e viaggia solo con se stesso.
È un paradigma folle, ma è il modo in cui si appropria di questo mito che ci interessa, l’idea sociale di D’Annunzio è
un’idea folle, anche se nasconde una filosofia complessa, cioè che l’essere umano è solo davanti al suo destino.

Ulisse dice che i compagni vissero con la paura che un giogo scendesse su di loro per schiavizzarli. D’Annunzio sceglie
la strada della libertà, non quella del giogo. Un poeta che arriva ad affermare “credente solo in me stesso”, racchiude un
problema che per il nostro tempo è centrale e determinante, l’idea che l’uomo contemporaneo abbia raggiunto una tale
sicurezza da poter dire “In me solo credetti”, D’Annunzio così parla per se ma anche a nome di un’intera generazione,
pone un problema, quello dell’egotismo, il centrare tutto su se stessi, questione che nella letteratura e nel dibattito civile
è sempre più importante.

Uomo dice, rivolgendosi al lettore, dice che non c’è altra virtù se non quella inesorabile di un cuore potente, capace di
imporsi. Io fui solo fedele a me stesso e al mio progetto di vita. Come Ulisse che viaggia da solo e non vuole compagni.

Dopo Eucade dove si trova Ulisse, arrivano a Itaca, che ha un monte aspro e brullo, patria angusta di una incoercibile
forza come quella di Ulisse. Non ci può essere una patria grande abbastanza che riesca a contenere la grandezza di
Ulisse.
D’Annunzio fa una dichiarazione di intenti del superuomo tramite le parole di Ulisse, che in un discorso diretto dice
“contro tutte le forze che abbiano pupilla o meno, quindi umane o meno, contro uomini e fati, si combatte con
qualunque strumento possibile, un uomo combatte contro tutto e tutti solo per affermare se stesso, al fine di
crescere/espandere tutto intorno la mia anima d’uom perituro (uomo destinato a morire), D’Annunzio ha la
consapevolezza della sua finitezza umana, ma questo non gli impedisce di pensare di potersi superalizzare, e
trasmettere questa immensa anima ardente su altri uomini, facendoli bruciare a loro volta. Soltanto una cosa
voglio ottenere dalla vita, l’universo.” è un paradosso, è un desiderio portato all’eccesso, ma che è in estensione lo
stesso desiderio dell’Ulisse dantesco “a divenir del mondo esperto”, che voleva conoscere quello che restava da scoprire
del mondo, che alla fine va a coincidere con tutto il mondo. Qui D’Annunzio lo afferma chiaramente, il premio della
mia vita che voglio da Nike, dalla vittoria, è l’universo stesso. Prega di morire nell’Atto [A maiuscola] di morire nel
momento in cui sta compiendo se stesso nel mondo, atto con cui l’uomo impone se stesso nel mondo.

Questo è un modo per interpretare in altra chiave il tema di Ulisse, il quale è visto in chiave positiva, anche se delirante
per certi versi, però ricordiamo che c’è qualcosa di noi e del nostro atteggiamento in questa poesia, il mettere al centro
l’ego, fare tutto in misura di se stessi, che lui vedeva essere la caratteristica dell’uomo del futuro, però è una visione
positiva, l’Ulisse che aiuta il superuomo ad imporsi, ad essere e ad esistere.

Sempre su questa linea di riuso in chiave positiva e propositiva del mito di Ulisse, possiamo citare un altro esempio
tratto dal cuore del ‘900, da “Se questo è un uomo”, dove l’undicesimo capitolo dell’opera è completamente dedicato
all’Ulisse dantesco, “Il canto di Ulisse”.

Primo Levi (1919-1987) scrisse Se questo è un uomo, opera autobiografica (romanzo autobiografico) del 1947, a
proposito del periodo di deportazione/detenzione nel lager di Auschwitz, nel capitolo XI l’Ulisse dantesco diventa
simbolo di libertà interiore contro i totalitarismi, in questo capitolo Levi si identifica con l’Ulisse di Dante.

Levi Nasce a Torino nel 1919, di cultura ebraica, è uno dei più grandi scrittori neo realisti, corrente che si afferma nel
secondo dopo guerra, ma già con la letteratura dl Resistenza aveva cominciato ad affacciarsi, ma soprattutto con la
cessazione delle ostilità gli ex partigiani o gli ex deportati possono avere la lucidità mentale per tradurre in opere
letterarie la loro esperienza. Tutte le più grandi opere sulla resistenza nascono e vengono pubblicate dopo il ‘45 anche
se si riferiscono ad avvenimenti accaduti precedentemente. Alla fine della guerra c’è una forte urgenza espressiva da
parte di chi ha vissuto quei fatti per raccontarli e comunicarli agli altri, a chi non li ha vissuti e per tramandarli ai
posteri, lasciando un messaggio di quello che si è vissuto.
In particolare Levi cercherà di testimoniare l’olocausto, la sua letteratura è una grande testimonianza dell’olocausto e
nei decenni centrali del ‘900 si cercherà di raccontare esperienze della guerra o del faticoso dopo guerra in chiave
estremamente realistica, con la ricostruzione di ambiente molto attenta, anche dell’ambiente borghese (es. Moravia) o
quello popolano (es. Pasolini), ma ci sono varie forme di racconto della realtà, tra cui quella di Levi, che parla della
realtà concentrazionaria, e anche dell’uscita dal lager, “La tregua” racconta del quasi anno che gli ex deportati di
Auschwitz, una volta liberati dai russi, hanno impiegato per tornare in Italia.

Levi dedica tre grandi opere all’olocausto:


-Se questo è un uomo, opera a caldo di denuncia, esce nel 1947, Levi con ancora una bruciante esperienza nel cuore
vuole denunciare quanto accaduto;
-La tregua esce vent’anni dopo, non è solo la denuncia dell’olocausto che interessa, ma ha degli intenti letterari
impegnativi;
-I sommersi e i salvati, raccolta a metà strada autobiografica e saggistica (per lo più) che risale al 1986, anno prima
della morte di Levi (probabilmente suicida), che è una riflessione filosofica sul rapporto tra bene e il male, fa sempre
capo alla vita concentrazionaria ma non ha un valore narrativo come le opere precedenti.

Qualcuno sostiene che con “Se questo è un uomo” si va nell’Inferno dantesco, “La tregua” corrisponde al Purgatorio,
quella fase di liberazione lunga e dolorosa che doveva portare gli internati da Auschwitz a casa, però in questa
tripartizione il Paradiso non c’è. Non c’è una visione positiva di recupero della funzionalità della vita da parte di chi è
stato trascinato via dal lager. “I sommersi e i salvati” è una riflessione molto amara e molto lucida.

Levi è uno degli ultimi scrittori ad essere stato un borderline fra scienza e letteratura. È una figura di scrittore dove la
cultura umanistica e scientifica sono compresenti e legate assieme in maniera profonda. Lui è laureato in chimica e farà
il chimico per tutta la vita. Ha però una grande cultura letteraria e ha dedicato un grande spazio alla scrittura. Lui è un
chimico scrittore.

Nel ‘43 entra nei partigiani della Val d’Aosta, poi viene internato ad Auschwitz dal febbraio del 1944 al gennaio del
1945 a Monowitz, parte del distretto immenso di Auschwitz, dove si produceva la gomma dove lui lavorava.
Liberato dai russi, e lungo un tortuoso tragitto, la sua vita di internato è una grande esperienza di viaggio, prima di
discesa agli inferi dall’Italia ad Auschwitz e poi il viaggio di ritorno da Auschwitz a Torino (dalla Polonia, URSS,
Romania, Ungheria, Austria e Italia), concluso nell’ottobre del 1945.

6 lezione 02/10/2019

L’interpretazione di Levi su l’Ulisse dantesco nel capitolo XI di Se questo è un uomo è positiva, Ulisse diventa
simbolo di libertà interiore, l’unica possibile per i prigionieri dei nazisti, cioè il vagare con la mente affermando una
libertà inesprimibile.
Il testo che si confronta/nasce/attinge da una tradizione, e vediamo come può essere riutilizzato un mito letterario:

In questa reinterpretazione straordinaria Levi fa di Ulisse un deportato di Auschwitz:


-L’oceano sul quale si trova a solcare Ulisse rappresenta la libertà umana, la libertà di vagare, liberarsi dalle
costrizioni, libera dall’orrore che la circonda, l’oltrepassamento delle colonne è un segno della libertà umana che non
accetta questa prigionia dal quale vuole evadere e che vuole superare.
-La tempesta che fa inabissare la nave di Ulisse rappresenta il nazismo, il male terreno, il male umano, la cattiveria,
che impedisce la piena estrinsecazione delle libertà, che nel lager si possono provare solo per brevi momenti. In senso
più ampio è una riflessione che si può estendere alla vita umana, all’esistenza nel suo complesso: l’essere umano vive
come il deportato che insegue una libertà da uno stato di prigionia mentre deve sottostare al male terreno.
-“Il come altrui piacque” della Commedia è Hitler, non è Dio che distrugge la nave di Ulisse che vuole conoscere il
Purgatorio a cui si sta avvicinando, ma il nazismo che distrugge la libertà di pensiero dei deportati, perché quando
termina il viaggio per andare a prendere il rancio, il momento di libertà interiore finisce e si ritorna schiavi del Führer e
del nazismo.

È una visione pessimistica, molto evidente soprattutto nella Tregua dove si capisce che la sua visione della vita è
profondamente negativa, la liberazione dal campo per lui è solo un continuum nel male della vita. Quindi anche
quando Levi viene liberato, può tornare alla vita normale ma è solo una tregua in un continuum di vessazioni.
Prima o poi tornerà la prigionia e l’olocausto.
Ma tutta la vita lotterà perché ciò non avvenga, lotterà tutta la vita per fare in modo che questo non avvenga,
raccontano l’orrore del lager.

È un’interpretazione geniale, è simbolo di libertà contro tutti i totalitarismi.

Nel capitolo viene descritto un fatto banale del lager: due detenuti che compiono un viaggio dal loro luogo di
lavoro fino alle cucine per prendere la pentola del rancio per loro e i compagni del Kommando.

Levi viene scelto da Jean, un Pikolo (gregario dei Kapo). Il tragitto dura un’ora, e Levi si ritrova solo con Jean, che lo
ha scelto dopo che Stern, l’uomo che solitamente accompagnava Jean, è caduto in disgrazia per chissà quale motivo.
Jean mise una buona parola per Levi, che lavorava insieme a lui e ad altri in una cisterna. Quando venne scelto Levi fu
contentissimo per questa piccola libertà concessa nel mezzo del dramma.
In questo lasso di tempo Levi cercherà di spiegare a Jean cos’è la Divina Commedia, gli parlerà del canto XXVI
dell’Inferno, cercando di spiegargli il significato di questo canto, mescolando ricordo letterario e urgenza
autobiografica: trova una similarità fra la sua condizione di internato e l’Ulisse dantesco:

P. Levi, Se questo è un uomo, Capitolo XI: "Il canto di Ulisse”

...Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non
è piú un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.
... Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve
che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è
la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato :
Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse Mise fuori la voce, e disse : Quando...
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta
bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere « antica».
E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sí Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla
qualche frammento non utilizzabile: «... la piéta Del vecchio padre, né ’1 debito amore Che doveva Penelope far
lieta...» sarà poi esatto ?
... Ma misi me per l’alto mare aperto.
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché « misi me » non è « je me
mis », è molto piú forte e piú audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi
conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando
l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente
lontane. Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si
vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giú di morale,
non parla mai di mangiare. « Mare aperto ». « Mare aperto ». So che rima con « diserto » : « ... quella compagna
Picciola, dalla qual non fui diserto », ma non rammento piú se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario
viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho
salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi : .. Acciò che l’uom piú oltre non si metta. « Si metta » : dovevo
venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, « e misi me ». Ma non ne faccio parte a Jean, non
sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto,
mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca :
Considerate la vostra semenza : Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta : come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho
dimenticato chi sono e dove sono.

Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di piú:
forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo
riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie ; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di
queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io sí acuti...
e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo « acuti ». Qui ancora una lacuna, questa volta
irreparabile. « ... Lo lume era di sotto della luna » o qualcosa di simile ; ma prima ?... Nessuna idea, « keine Ahnung »
come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
- Ça ne fait rien, vas-y tout de même.
...Quando mi apparve una montagna, bruna Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sí, sí, « alta tanto », non « molto alta », proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano... le
montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel
bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda. Darei la
zuppa di oggi per saper saldare « non ne avevo alcuna » col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime,
chiudo gli occhi, mi mordo le dita : ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi : « ... la terra
lagrimosa diede vento... » no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere :
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giú, come altrui piacque...
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda che questo «come altrui piacque»,
prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del
Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io
stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui ...
Siamo ormai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I
nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rueben? - Kraut und Rueben -. Si annunzia ufficialmente che oggi
la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et nevets. – Kaposzta és répak.
Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.

Il testo:
La terra gli ricorda una spiaggia dell’infanzia, c’è già qualche riferimento al mare, e poi vediamo che si ritrova con la
mente in un’altra situazione. Sente la leggerezza appena uscito dalla cisterna. Pare l’inizio di un viaggio. Jean invita
Levi ad andare piano e godersi l’aria fresca. Conveniva farla piano. C’è il tema della casa lontana, aggancio con il
racconto ulissiaco. I compagni di viaggio ne parlano con nostalgia. Non si parla della pietra del vecchio padre ma fa
riferimento alla madre. Anche sua madre sarebbe stupida se avesse saputo che se la stava cavando giorno per giorno.
In un momento arriva il ricordo del canto di Ulisse. Oggi è invaso da una forza d’animo nuova. [bastava poco per
ripigliarsi nel campo poverini]

Contrappasso: rapporto tra pena e punizione

I testi venivano imparati a memoria un tempo, nella prima metà del ‘900, quindi Levi trova nella sua memoria quanto
raccontato.
Racconta del momento in cui Ulisse e Diomede si trovano nel fuoco, racconta quello che si ricorda, tira fuori dalla
memoria solo quello che gli interessa. È come se la memoria facesse emergere cosa gli serve per capire e per
sopravvivere.
Noi conosciamo il vincolo di andare aldilà dalla barriera, di provare a essere liberi almeno nella mente, nel pensiero.
“Non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane”. Sensazione di mare aperto, che ci avvolge, chiude
l’orizzonte, sono cose lontane, siamo in una condizione che è l’opposto, è prigionia e schiavitù.
Il viaggio deve raccontarlo in prosa perché non si ricorda com’è in versi.
Il cuore nel discorso di Levi è la terzina: “Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a vivere come bruti, Ma per
seguir virtute e conoscenza.”, che qua rappresenta la libertà dei prigionieri da Hitler. Levi con queste terzine si ricorda
di essere libero nonostante la prigionia, il dialogo con i testi, la conoscenza gli è utile per capire meglio a che punto è,
cosa continua a essere, si ricorda che non è una res, una cosa, è un umano che ha diritto di essere libero, di andare oltre
le colonne d’Ercole, ed è il dialogo con Dante che glielo permette. La scrittura non è un polveroso deposito ma un
dialogo vivo. I libri erano persone vive, vedi libro “Fahrenheit”.
Pikolo ha afferrato il senso della terzina, perché il messaggio riguarda tutti gli uomini in travaglio, tutta l’umanità e
anche loro due che in quel momento riescono ad estraniarsi dalla prigionia, la mente deve essere libera per non cadere
nella condizione di animali che il male vuol fare cadere.
Levi mentre parla del Purgatorio gli balzano in mente le sue montagne, ma non deve parlarne. Quando stanno per
arrivare alle cucine con i nazisti dentro, a Levi viene in mente la terzina finale del viaggio di Ulisse.
Bisogna continuare a essere liberi nonostante la schiavitù.
Arrivati alla cucina dove tutti gli altri deportati che prendono il rancio, il capitolo si chiude con “Infin che ‘l mar fu
sopra noi rinchiuso”, il male si chiude sopra di loro, e si torna alla dura realtà.
L’esperienza, il viaggio, finisce, questa parentesi di libertà interiore finisce e si torna alla dura realtà del campo. Quindi
è un modo per riprendere l’Ulisse dantesco in chiave positiva, che a partir dalla scienza moderna, dal ‘600 in poi, è stato
ripreso spesso in chiave positiva, con Bacone, Parini come simbolo dell’eroismo scientifico, e con D’Annunzio che ne
fa un superuomo, con Levi che a metà del ‘900 lo reinterpreta come simbolo di libertà interiore, di umanità contro i
totalitarismi e contro il nazismo.

Ma non sempre nella letteratura italiana il paradigma di Ulisse ha avuto un significato positivo.
Infatti il paradigma di Ulisse tra ‘800 e ‘900 è stato talvolta associato a una visione tragica dell’uomo
contemporaneo.

Alcuni esempi, facendo un balzo all’indietro (avanti e indietro, dato che la letteratura italiana è secondo il prof un unico
grande serbatoio in cui si trovano degli elementi che risuonano fra di loro, quindi bisogna abituarsi a superare anche le
epoche e le distanze per collegare cose fra loro molto lontane), e torniamo all’inizio dell’‘800, a Ugo Foscolo, inizio
dell’età contemporanea in cui Foscolo e Leopardi sono importanti interpreti e portavoce delle nuove problematiche
che l’uomo contemporaneo vive e soffre, e che le menti degli scrittori spesso riescono a trasformare in letteratura, in
parole.

In Ugo Foscolo (1778-1827) è molto importante la ripresa del mito di Ulisse.

È un uomo dalla doppia cultura, perché nasce a Zante, che culturalmente e geograficamente si annette alla Grecia (di cui
fa parte ancora oggi) che però nel 1778, quando nacque Foscolo, faceva parte dello Stato Veneto, della Serenissima.
Quindi Foscolo è politicamente veneto, ma culturalmente è greco. Possiede perfettamente il greco moderno, parlato
dalla madre (Spartis), sia l’italiano parlato dal padre e possiede anche il greco antico studiato con grande facilità,
traducendo anche da Omero, lui infatti sarà un grande conoscitore di questo e considererà i classici come suoi padri,
anche culturalmente e geograficamente.

Nelle sue poesie che escono a milano nel 1803 c’è un importante testo, un sonetto (una piccola strofa in 14
endecasillabi, metro diffusissimo nella nostra tradizione, forse il più diffuso insieme alla canzone, alla terza rima e
all’ottava, ma il sonetto detiene la palma del metro più diffuso dai siciliani che lo hanno inventato fino a metà ‘800, con
riprese anche nel ‘900, es. con Andrea Zanzotto, poeta dell’avanguardia del ‘900) dedicato a Zacinto, la sua isola
natale.
Qui Foscolo, già in esilio dalla sua terra e anche dal Venezia, costretto ad abbandonarla perché era un partigiano
napoleonico, voleva che Napoleone venisse in Italia per liberarla dai domini del tempo, specificamente quello della
Serenissima e dalla sua aristocrazia, il Dogato e che esportasse gli ideali della Rivoluzione francese (libertà,
uguaglianza e fratellanza) attraverso un’azione armata, che effettivamente ci fu, perché dal 1796 al 1799, si verificarono
le campagne d’Italia napoleoniche, svolte con l’intento di liberare l’Italia dagli antichi regimi che ancora vi erano.
Foscolo deve lasciare Venezia quando questa attraverso il trattato di Campoformio nel 1797, viene (a tradimento
secondo Foscolo e altri) ceduta agli Austriaci dopo essere stata liberata da Napoleone. Tutti coloro che appoggiarono
l’arrivo di Napoleone dovettero scappare, lasciare lo Stato Veneto. Foscolo andò a Bologna e poi a Milano, dove i
napoleonici hanno sedi importanti e possono avere anche incarichi istituzionali (Foscolo prenderà la cattedra a Pavia e
poi altri incarichi nell’esercito).
Foscolo vive questo esilio (leggero rispetto a quello del 1813 che lo porterà in Svizzera e in Inghilterra poi) minore,
restando sul suolo italiano, come doloroso.
Si confronterà con Ulisse omerico che riuscirà a tornare a Itaca, alla sua patria, Foscolo sarà per sempre diviso
dal suo luogo natale. C’è una distinzione nettissima fra l’Ulisse omerico e un Foscolo uomo che vive a cavallo di due
secoli.
Qui Foscolo non guarda alll’Ulisse dantesco, non gli interessa il discorso dell’oltrepassamento delle colonne, ma gli
interessa il ritorno a casa, nella propria culla, cosa che Ulisse è riuscito a fare, mentre Foscolo no. Sa che dovrà
vagare per sempre come esule e non tornare mai più a Zacinto o in Veneto.
Nel sonetto Foscolo farà un discorso più ampio, allargherà il problema non trattando solo la sua condizione
individuale che è in gioco, ma quella di tutto l’uomo contemporaneo, sradicato, termine sempre più frequente nella
letteratura/pensiero dell’‘800, dove l’uomo viene vissuto come privo di radici, catapultato in un luogo non suo. quindi
uomo fuori luogo.
Foscolo è tra i primi che mette in poesia questa idea e distingue l’Ulisse omerico, che rappresenta l’uomo antico
in generale, che aveva la possibilità di ritorno in patria, e l’uomo di oggi per cui questo ritorno è impossibile.
Il discorso non tratta di un luogo specifico e ristretto, ma un luogo in cui l’uomo si sente a suo agio, a casa, radicato,
pieno di senso, luogo in cui ha avuto culla la sua esistenza e il suo senso di essere umano. Questo luogo l’uomo
contemporaneo, lui come altri uomini della sua epoca, non possono avere.

U. Foscolo, A Zacinto (1802-3), dalle Poesie


 
    Né più mai toccherò le sacre sponde 
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’ondeq
Del greco mar da cui vergine nacque 4
    Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L’ìnclito verso di colui che l’acque 8
    Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
    Tu non altro che il canto avrai del figlio, 12
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.

C’è un primo piano di lettura che è autobiografico dove Foscolo si rivolge direttamente all’isola dell’infanzia, quindi è
una locuzione che si svolge dentro di lui, nella sua memoria, Zacinto, luogo dove nacquero le divinità come Venere, che
fecondò le isole dell’arcipelago. Io so che non toccherò più quelle terre. Foscolo potrà solo dedicarci delle poesie, ma
non toccarle. Il destino ha prescritto a me e a noi, persone come me, oppure plurale maie statis, a me alla latina, una
sepoltura su cui nessuno piangerà, essendo che sono stato sradicato dai miei cari, nessuno piangerà sulla mia tomba,
nessuno appartiene al mio circolo affettivo e quindi nessuno piangerà sulla mia tomba, soprattutto i miei famigliari che
sono lontani, come la madre che si trova a Venezia e altri della famiglia.

Quindi appunto la prima fascia di interpretazione che richiama all’autobiografia, che si richiama alla vita del poeta,
ma c’è anche un discorso che tende ad allargarsi a tutta la contemporaneità, la condizione che l’uomo
contemporaneo vive.
C’è stato prima di questi versi tutto un discorso del neoclassicismo di Winkelman, il rimpianto di una grandezza
antica che non potrà mai più tornare nella contemporaneità, nell’uomo contemporaneo. E Foscolo conosce bene
questo discorso, gli antichi sono stati grandi, importanti, pieni di senso/felicità/, noi non siamo nulla in confronto agli
antichi.

Quindi questo sonetto si può leggere anche in un secondo livello come riflessione sull’uomo odierno. Io, uomo di
oggi, non toccherò mai più le sponde sacre dove il mio corpo giacque fanciulletto, la culla originaria dove io ho tratto
radici, dove ho tratto vita e senso, non la raggiungerò mai più. Questo nucleo di senso in cui ero fanciullo, e avevo
nell’anima la fanciullezza, che è una condizione di purezza e felicità, io non la toccherò mai più, Zacinto mia, che ti
specchi su quelle onde su cui tu isola ti trovavi, isola della Grecia ma anche simbolo di questa trasformazione storica
che sto descrivendo, da quel mare nacque Venere, da quel mare nacquero gli dei, quel mare produceva dei, era in
contatto con la divinità che usciva dalla spuma di quel mare e fecondava con il suo sorriso quel mare e le sue isole.
Quindi quel luogo che non toccherò mai più, quell’isola di senso al quale io non riuscirò più a tornare in quanto uomo
di oggi del 1802, era la culla degli dei, luogo in cui questi vivevano e fecondavano l’esistenza con il loro sorriso. Quindi
c’era una presenza degli dei tra gli uomini in quel luogo che tu rappresenti, Zacinto. Ma io non posso più tornare a
questo luogo, quindi non posso più tornare agli dei, tornare a Venere e al suo fecondo sorriso:
è una dichiarazione di ateismo, di materialismo da parte di Foscolo che non può più tornare alla divinità che ha
abbandonato per sempre.

Onde per le quali [...] parla in una lunga perifrasi di Omero che anch’esso parla di Zacinto nei suoi poemi, canta la
bellezza di quest’isola. Poi: Ulisse cantò te, ma anche il diverso esilio, che lo portò in diversi luoghi, distanti fra di loro,
in seguito al quale Ulisse, che Omero racconta nell’Odissea, alla fine, reso bello da fama ma anche da sventura, per la
sua condizione di viaggiatore sofferente, riuscì a baciare la sua Itaca. Quindi Ulisse torna nella sua casa, torna a Zacinto,
torna in quel centro di senso, torna agli dei, al sorriso di Venere e ci si radica di nuovo.
Quindi a Foscolo come abbiamo già detto non interessa il discorso dantesco della ripartenza o dell’abbandono di Itaca,
non ne fa nemmeno cenno. A lui interessa il racconto omerico originario che conosceva altrettanto bene rispetto a
Dante, perché Foscolo è stato anche un commentatore della Divina Commedia in Inghilterra. Preferisce dialogare con il
racconto omerico e scartare quello di Dante. Anche il fatto che non venga accennato è importante, vuol dire che nel
dialogo fra Dante e Omero, Foscolo sceglie Omero e scarta in maniera decisa Dante.
Quindi Ulisse torna a baciare la sua petrosa terra, e significa prenderne possesso, tornare a viverla, a radicarsi in
quell’isola dopo un diverso esilio. L’uomo moderno invece da questo diverso esilio non uscirà mai, e questa petrosa
Itaca non riuscirà mai più a baciarla.
Tu mia terra materna, da me, tuo figlio, non avrai altro che il canto, il che vuol dire che di questo luogo originario
perduto, noi oggi possiamo solo parlare in poesia, non si può più agguantare, come una sorta di punto limite che
possiamo cercare di costruire a livello teorico ma non trovare nel mondo.
A noi (si amplia il discorso a tutti, non solo a Foscolo), il fato ci prescrisse di non essere pianti da nessuno. L’uomo
moderno non ha un circolo di affetti caldi/stretti/famigliari che lo avvolgono, interpretazione su cui si potrebbe
maggiormente discutere, perché sappiamo che non è così, anche Foscolo nel 1807 nei Sepolcri cambierà questa
prospettiva, il tessuto affettivo sa che può essere ricostruito anche nella civiltà moderna attraverso i Sepolcri e
attraverso il dialogo con gli estinti, la corrispondenza dei numerosi sensi che si ha fra i vivi e i morti.
Ma in questa poesia è molto lapidario. Il discorso tende ad aprirsi all’universalità, non solo al particolare.
È interessante notare come faccia questo ragionamento attraverso il mito letterario, che riprende in mano, con il quale
dialoga, con Omero scartando Dante (rifiutando di dialogare con lui) e riusandolo a modo suo, declinandolo in una
maniera nuova.
Questo è quello che fanno i grandi scrittori: dialogano con i testi, riusano i testi che sono già stati proposti. C’è
pochissimo di nuovo in letteratura e nell’arte. C’è però la possibilità di riusare in maniera nuova le cose vecchie, cosa
che la letteratura fa continuamente.

Vediamo un altro grande scrittore classicista del primo ‘800:


Giacomo Leopardi (1798-1837) che riprenderà in maniera consistente il mito di Ulisse al quale sovrappone quello più
storico di Colombo.
La riflessione su Colombo come alter Ulisse, che non è una sovrapposizione nuova, si trovava già in Tasso e in Parini,
però di questa sovrapposizione Ulisse-Colombo, sulla quale si costruisce gran parte del pensiero di Leopardi. Colombo
non è infatti un personaggio secondario ma è centrale, perché Leopardi riprende la sovrapposizione Ulisse-Colombo
riflettendo sul viaggio e ne dà un’interpretazione molto negativa e pessimistica.

L’impresa di Colombo per Leopardi ha rappresentato un colpo mortale per l’immaginario della communitas
europea, (non si trova in altri scrittori) l’idea di Colombo come distruttore di illusioni dell’uomo moderno che con
la sua scoperta in un colpo solo ha cancellato l’idea dell’ignoto. Ha ristretto la terra in breve carta, ha limitato
l’immaginazione che ancora era fortissima e le conseguenze di questa scoperta nel tempo hanno sempre più ristretto
l’immaginazione umana fino a ridurla a un piccolo frammento/momento legato all’infanzia che poi subito è
scomparso con la giovinezza.
L’uomo in epoca pre-tecnologica e anche pre-geografica (discorso analogo che Leopardi farà anche con la scienza
moderna, sperimentale, ma non in maniera così precisa chiamando in causa un personaggio con nome e cognome)
aveva un’idea approssimativa e in gran parte sbagliata del globo e dell’oikoumene cristiano rinascimentale, terre che
avevano una certa dislocazione fantasiosa e che non corrispondevano alla realtà geografica dei fatti, che solo con le
esplorazioni si comincerà ad avere.
La fantasia umana era dilagante e potentissima, dato che non si conosceva cosa vi era al di là delle colonne, o come
era fatta la terra, quali popoli l’abitavano, quali stati la componevano, o cosa c’era al di là dell’Europa (conosciuta dai
dotti la limitata area geografica di loro appartenenza): la fantasia riempiva lo spazio larghissimo che la scienza
ancora non dominava. L’Oriente era semi-noto, vi era un’idea favolistica dei popoli che si credeva fossero metà
uomini e metà animali, pigmei o giganti e vi era un’ antropologia letteraria molto fantasiosa.
L’essere umano era pieno di illusioni, anche piacevoli, che lo riempivano di sensazioni piacevoli, di infinito e di
ignoto (Leopardi, altri non lo sostenevano).
La scoperta di Colombo ha ucciso questa illusione perché ha svelato cosa c’era al di là dell’oceano e che ha svelato
che non ci sono popoli o regni favolosi ma luoghi simili al nostro e che tutto ha un limite spaziale, e che c’è una
continuazione della terra che noi conosciamo.

Questo viene descritto in maniera chiara in una canzone poi confluita nei Canti,
(41 componimenti che raccolgono un’intera carriera di scrittore/poeta, pubblicati sparsamente in altre sedi da Leopardi),
in una canzone intitolata “Ad Angelo Mai”, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, composta a
Recanati nel 1820, poi pubblicata a Bologna lo stesso anno.

Bologna è una polo editoriale importantissima per l’Italia di allora, è la seconda città dello Stato pontificio ed ha
un’industria editoriale importantissima, al pari di Milano e Venezia. Leopardi si appoggia a Bologna per le sue prime
pubblicazioni, una di queste appunto è la canzone di cui stiamo parlando, pubblicata da Jacopo Marsili.

Angelo Mai era un filologo (studioso dei testi antichi) che cercava di riprodurre in stampe moderne opere antiche
ritrovate nelle biblioteche, gesuita, prefetto della biblioteca vaticana, e qui lui scopre una parte della “Repubblica di
Cicerone”, un’opera mitica per l’epoca dove Cicerone decantava la Repubblica romana con le sue strutture e la sua
storia, che risale al I sec. a.C. sulla quale molti repubblicani e democratici a partire dalla Rivoluzione francese e oltre
hanno appoggiato come antologia, rappresenta il testo sacro della democrazia occidentale e dei
democratici/repubblicani. Leopardi in quegli anni è molto vicino ai democratici e ai repubblicani che vogliono
instaurare in Italia una democrazia (termine dal significato diverso oggi rispetto a quegli anni).
Il ritrovamento è stato un grande evento per quel gruppo a cui anche Leopardi si era avvicinato. Lo stesso Pietro
Giordani era vicino ai democratici, colui che scoprì Leopardi parlando di lui nella Repubblica dei letterati, aprendogli la
strada per farsi conoscere, dandogli gli indirizzi a cui inviare le sue poesie e farsi conoscere, che aveva idee simili alle
sue. Lui scopre questa parte di alcuni libri della “Repubblica” in un palinsesto (codice pergamenaceo raschiato nel
tempo sul quale sono state scritte nuove cose, dal greco significa raschiato una seconda volta, per riutilizzare pergamene
già esistenti per risparmiare, sopra cui si scriveva un nuovo testo, alcuni testi venivano raschiati e sopra si scriveva un
nuovo testa, e dall’‘800 attraverso diversi acidi e solventi è stato possibile leggere la scritta inferio, quelle cancellate. Vi
si potevano trovare anche due/tre opere. I solventi solitamente cancellavano il codice, oggi si usa la luce ultravioletta)
della Vaticana. In uno di questi palinsesti Mai scopre la “Repubblica di Cicerone, occasione colta da Leopardi per
parlare dello stato presente decaduto della civiltà occidentale, quindi quello di cui parla nella canzone di Angelo Mai
c’entra poco con la scoperta del testo di Cicerone, è un pretesto che Leopardi una per parlare del suo pessimismo
storico, ed insiste sulla scoperta di Colombo, che per lui è stato per l’Occidente l’uccisore delle illusioni.

Vediamo una parte del testo la parte in cui si parla di Colombo, tralasciamo il resto dove fa una carrellata di grandi
autori italiani.

Dice:
I poeti incominciano a universalizzare sempre più il loro discorso, la parole non valgono solo per loro, coinvolgono tutti
nel loro discorso poetico, Leopardi parla dei suoi compagni umani, legati come lui al suo stesso destino. A noi uomini
dell’‘800 il fastidio, il male di vivere (Montale), cinge le nostre fasce, ci avvolge mentre siamo in fasce, già quando
nasciamo le fasce sono intrise di sofferenza, il nulla siede immoto sulla nostra culla e così sulla tomba, senza spostarsi
di un millimetro.
L’uomo contemporaneo è contrassegnato dalla nascita dal fastidio, il male legato all’esistenza.

“Nulla”, parola che torna sempre, il nichilismo, l’uomo contemporaneo è circondato dal nulla e contrassegnato dal male
di vivere.

Si rivolge a Colombo e gli dice che la sua vita nel ‘400 si svolgeva con gli astri e con il mare, figlio di liguri, ardito,
oltre i lidi del Portogallo, ci sono diversi miti antichi che Leopardi riporta alle note, che gli abitanti sentissero sfrigolare
quando entravano nell’Oceano.
Conosceva bene i miti e le leggende popolari “Errori popolari degli antichi” libro.
Dopo aver rotto ogni barriera/limite, fu gloria il ritorno, ma l’esito della scoperta è stato terribile, continua la lamentatio,
perché conosciuto il mondo, non cresce, diventa minore, si scema.

Bacone diceva che la conoscenza sarebbe aumentata, invece Leopardi parla del fatto che il mondo è appena diventato
più piccolo.

Il bambino ha una percezione della natura più vasta e infinita rispetto al saggio che sa cosa sono le nubi, etc. che sa dare
una dimensione alla natura. Il fanciullo non conosce la scienza.

I sogni leggiadri sulla natura misteriosa e mitica, sono svaniti all’improvviso, e il mondo è rappresentato con una
piccola carta geografica, abbiamo ridotto il mondo grazie a te, o a tuo malgrado. Non c’è niente di diverso radicalmente,
L’immaginazione dell’ignoranza o nella fanciullezza, sono vietate dalle scoperte. Il caro immaginar poteva essere di
conforto agli affanni, chi vive nell’ignoranza è più felice [beata ignoranza], è pieno di false notizie e non è vittima del
torto che ci hai fatto

7 lezione 07/10/2019 lezione toppp

I personaggi alle opere appartengono a tutto il mondo.


Abbiamo visto diverse riletture del mito di Ulisse.

Leopardi

Continuiamo a vedere la canzone Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica (1820), testo
di riferimento dei democratici, i Leopardi davano legittimazione papale, Leopardi invece era democratico.
Fa il punto sulla storia umana fino a quel momento, punto di una decadenza umana, uno sviluppo pervertito della
natura. Un momento di riflessione a Colombo e alle scoperte geografiche. Colombo ha introdotto la civiltà occidentale
nell’umanità, passando dal meglio al peggio secondo Leopardi. Il suo viaggio di conoscenza dell’ignoto oltre le
colonne, ha rappresentato un colpo mortale all’immaginario della comunità europea. L’idea di ignoto è decaduta, ha
ucciso l’immaginario dell’umanità pre tecnologica.

G. Leopardi, Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica (1820), vv. 73-105
 
[…] A noi le fasce
Cinse il fastidio; a noi presso la culla
Immoto siede, e su la tomba, il nulla. 75
 
Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
Ligure ardita prole
Quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti
Cui strider l’onde all’attuffar del sole
Parve udir su la sera, agl’infiniti 80
Flutti commesso, ritrovasti il raggio
Del Sol caduto, e il giorno
Che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;
E rotto di natura ogni contrasto,
Ignota immensa terra al tuo viaggio 85
Fu gloria, e del ritorno
Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
L’etra sonante e l’alma terra e il mare
Al fanciullin, che non al saggio, appare. 90
 
Nostri sogni leggiadri ove son giti
Dell’ignoto ricetto
D’ignoti abitatori, o del diurno
Degli astri albergo, e del rimoto letto
Della giovane Aurora, e del notturno 95
Occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
E figurato è il mondo in breve carta;
Ecco tutto è simile, e discoprendo,
Solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta 100
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar; da te s’apparta
Nostra mente in eterno; allo stupendo
Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
E il conforto perì de’ nostri affanni. 105
[…]
 
Pochi filosofi contemporanei avevano messo a punto un nichilismo/pessimismo così chiaro. L’uomo è cinto dal fastidio,
dal mal di vivere, e così è cinto dal nulla. Il nulla è la sua dimensione. Colombo non fa parte di questa fase dell’umanità,
lui ne è il creatore.
Arrivasti nelle terre dell’Occidente estremo. Colombo rompe i contrasti della natura e scopre una nuova terra che è
fonte per lui di gloria ma non per i posteri che ne subiranno le conseguenze.
È un paradosso che le conoscenze crescono, rendiamo il mondo più piccolo, vago, indefinito.
Al lettore piacciono quelle immagini vaghe perché danno l’idea di qualcosa di imprevedibile, la troppa certezza uccide
l’immaginazione, come fece Colombo. I sogni leggiadri, sono finiti.
C’è sempre più bisogno di nuove tecnologie, navi più attrezzate, c’è una scienza infausta, a differenza di Bacone, che
credeva che il superamento delle colonne fosse una cosa positiva anche per la scienza, Leopardi dice che sarebbe stato
meglio non andare oltre per conoscere l’ignoto.

Questo discorso leopardiano si inscrive nella teoria del piacere. C’è una visione molto negativa delle scoperte
geografiche, che hanno avuto responsabilità decisiva nel determinare la terra, dare confini, verbo usato molto spesso
che nello Zibaldone, scartafaccio che Leopardi compila dal 1818 al 1832, che si compone di 4500 fogli, diario intimo
che Leopardi si porta avanti tutta la vita da quando aveva vent’anni, con appunti/riflessioni su tutti gli aspetti dello
scibile, sulla scienza/poesia/politica, molti argomenti si intrecciano. Nelle prime 200 pagine insiste sulla teoria del
piacere, insiste sul “determinare”, la scienza ha determinato il mondo, cioè ha ristretto il campo dell’infinito, unico
obbiettivo a cui tende il piacere dell’uomo, il terreno del piacere, messo su carta da Leopardi nel luglio del 1820 dove ci
dice che: l’uomo ha dentro se un desiderio di infinito che nessun elemento della vita può mai riempire, e quindi
tutto lascia frustrato questo desiderio di infinito, perché non c’è un infinito piacere che possa riempire questa
ricerca del piacere infinito. C’è quindi un disavanzo fra il desiderio che abbiamo di immergerci in un piacere
infinito e le possibilità concrete che la vita dà di soddisfare questo piacere che è sempre limitato, passeggero, e
questo crea infelicità.
Tutto ciò che circoscrive/limita l’idea stessa di infinito è negativo. Es. la matematica, le scienze esatte, sono il contrario
esatto del piacere, perché hanno come scopo di porre dei limiti/misurare, invece il cuore umano non vuole misurazioni.
Quindi determinare significa restringere e infine annullare il piacere.

G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, p. 165 (12-23 luglio 1820)


 
[165] Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza
nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che
spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè
sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e
questa tendenza non ha limiti, perch’é ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel
piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per
estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, 2.
né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e
tutto abbia confini, e sia circoscritto. […] Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo
come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a
possedere il cavallo, [166] trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perché quel
desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago.

Non sono gli oggetti che acquistiamo che ci riempiono, ma avremo bisogno di un oggetto pari al nostro infinito, quindi
che non esiste, quindi una volta che possediamo qualcosa immediatamente vogliamo qualcos’altro che riempia il nostro
desiderio. Il nostro mondo si gioca tutto sul desiderio del possesso, dell’acquisizione di beni con ii quali cerchiamo di
riempire la nostre anima e per noi quando li desideriamo sono quasi uno scopo assoluto della nostra esistenza pensando
che se non possediamo quella determinata cosa non saremo mai felici. Il piacere quindi funziona così: l’uomo ha dentro
di se un piacere infinito, ogni piacere esterno è finito, quindi non può mai riempirlo e lo riempie di insoddisfazione e
dolore. Questo riguardo alla teoria del viaggio è fondamentale.
Alla base di questa idea della teoria del piacere sta una valutazione estremamente negativa della ragione: è la ragione
quella facoltà umana che distrugge il piacere creando confini certi alle cose e impedendo le illusioni date dalla nescenza
delle cause: se noi non conosciamo le cause del mondo, e quindi viviamo nell’istintualità della natura, siamo più pieni
di piacere rispetto a un uomo dominato dalla ragione che invece tende a porre confini a tutto. Alla radice l’infelicità
umana è dovuta alla ragione che domina l’individuo e lo costringe a uscire dalla natura, dal mondo dell’istintualità.

Vediamo lo Zibaldone 14, ante 1820 perché le prime cento pagine non sono datate. Leopardi non pensava di datare le
singole affermazioni/fogli di carteggio prima di questa data. Ma già all’inizio dello Zibaldone Leopardi affermerà
che la ragione è nemica di ogni grandezza e della natura. La natura è grande, la ragione è piccola. L’uomo tanto
più difficilmente sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione, pochi possono essere grandi nelle arti, e
nella poesia forse nessuno se non sono dominati dalle illusioni.

G. Leopardi, Zibaldone, p. 14, ante 8 genn. 1820


 
La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola.
Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione: che
pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni.

Leopardi stilisticamente è un classicista, è un anti illuminista, e lo sarà per tutta la vita. La ragione ha peggiorato
l’essere umano creandogli sofferenza. Nei suoi testi è romantico.
Nella Ginestra dirà che gli esseri umani devono unirsi contro la natura, in un vincolo laico, questo nel 1836. Prima
invidiava i selvaggi, quelli che stavano prima della civiltà, che è il prodotto della ragione, l’uomo che vive nella società
è l’uomo della ragione, che ha prodotto i bisogno, quindi l’infelicità, la natura è il luogo della nescienza delle cause,
ignoranza, istinto=felicità.
L’idea che ci sia un mondo primitivo è il mondo degli indigeni, degli antichi, quelli che un classicista come Leopardi ha
in mente, che vissero un periodo ampiamente prima della rivoluzione tecnologica cha ha prodotto la realtà
contemporanea.

G. Leopardi, Zibaldone, pp. 63-64 (ante 8 gennaio 1820)


 
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè
abitata o formata di esseri [64] uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le
belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e
così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani
credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de’ fiori ec. come appunto i fanciulli.

Avere un dialogo con gli elementi naturali è qualcosa da invidiare.


Lo spirito, l’idea di un cosmo divinizzato è scomparsa per l’uomo adulto ma è rimasta per la fanciullezza. E gli indigeni
hanno la stessa mentalità mitica, mitizzante. Leopardi studia anche gli indiani d’America.
La ragione ha cancellato la purezza originaria dell’uomo, che era puro quando fanciullo, ma resta tale per pochi anni,
perdendo poi la purezza appunto.
Il peccato originario viene interpretato come un atto hybris (iubris) contro la natura, non più contro Dio. La ribellione al
divieto divino è visto da Kant in maniera positiva.

G. Leopardi, Zibaldone, pp. 395-397 (9-15 dicembre 1820)


 
[…] qualunque cosa si voglia intendere per l’albero della scienza del bene e del male, è certo che il solo comando che
Dio diede all’uomo dopo averlo posto in paradiso voluptatis […], fu De ligno autem scientiae boni et mali ne
comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris (Gen. 2.17.). Non è questo un interdir chiaramente
all’uomo il sapere? un voler porre soprattutte le altre cose (giacchè questo fu il solo comando o divieto) un ostacolo
agl’incrementi della ragione, come quella che Dio conosceva essere per sua natura e dover essere la distruttrice della
felicità, e vera perfezione [396] di quella tal creatura, tal quale egli l’aveva fatta, e in quanto era così fatta? […]
l’uomo già sapeva abbastanza per natura, cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò che gli
conveniva sapere. La colpa dell’uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non [397] più per natura, ma per ragione,
e conseguentemente saper più di quello che gli conveniva, cioè entrare colle sue proprie facoltà nei campi dello scibile,
e quindi non dipendendo più dalle leggi della sua natura nella cognizione, scoprir quello, che alle leggi della sua
natura, era contrario che si scoprisse. Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimproverano
ai nostri primi padri; peccato di superbia nell’aver voluto sapere quello che non dovevano, e impiegare alla
cognizione, un mezzo e un’opera propria, cioè la ragione, in luogo dell’istinto, ch’era un mezzo e un’azione immediata
di Dio […].
 
Non cibarsi della ragione, del frutto dell’albero della conoscenza. L’uomo sapeva abbastanza, la colpa dell’uomo fu
quella di sapere per sua natura, conoscere più di quello che gli conveniva.
Leopardi parla di Dio ma intendendo Natura. Il viaggio di scoperta è un prodotto del peccato originale. Andare oltre i
riguardi, aver voluto viaggiare oltre le colonne è come aver mangiato il frutto proibito.

G. Leopardi, Zibaldone, pp. 246-47 (18 settembre 1820)


 
Dalla teoria del piacere esposta in questi pensieri si comprende facilmente quanto e perché la matematica sia
contraria al piacere, e siccome la matematica, così tutte le cose che le rassomigliano o appartengono, esattezza,
secchezza, precisione, definizione, circoscrizione, sia che appartengano al carattere e allo spirito dell’individuo, sia a
qualunque cosa corporale o spirituale.
[…] basta che l’uomo abbia veduto la misura di una cosa ancorché smisurata, basta che sia giunto a conoscerne [247]
le parti, o a congetturarle secondo le regole della ragione; quella cosa immediatamente gli par piccolissima, gli
diviene insufficiente, ed egli ne rimane scontentissimo. Quando il Petrarca poteva dire degli antipodi, e che ’l dì nostro
vola A gente che di là FORSE l’aspetta, quel forse bastava per lasciarci concepir quella gente e quei paesi come cosa
immensa, e dilettosissima all’immaginazione. Trovati che si sono, certamente non sono impiccoliti, né quei paesi son
piccola cosa, ma appena gli antipodi si son veduti sul mappamondo, è sparita ogni grandezza ogni bellezza ogni
prestigio dell’idea che se ne aveva. Perciò la matematica la quale misura quando il piacer nostro non vuol misura,
definisce e circoscrive quando il piacer nostro non vuol confini […], analizza, quando il piacer nostro non vuole
analisi né cognizione intima ed esatta della cosa piacevole […], la matematica, dico, dev’esser necessariamente
l’opposto del piacere.
(18. settembre 1820.)

La matematica è contraria al piacere. TI AMO LEOPARDI.


Basta che l’uomo abbai veduto la misura di una cosa ancorché smisurata, che sia giunto a conoscerne le parti, o
seguendo le regole della ragione, gli viene quella cosa gli pare subito piccolissima [...] quindi la matematica deve essere
l’opposto del piacere.
Ricordiamoci però che la società europea è stata fondata sulla matematica.

Il viaggio di Colombo è stato un antidoto alla noia della routine, un avventuriero che cerca nello svago del viaggio, di
estrarre uno dei momenti di piacere della conoscenza. Il rischio del viaggio contro la noia.
Ulisse ha superato per noi le colonne dice Leopardi ne “Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez” (1824),
mette in scena uno degli ultimi giorni della spedizione.

G. Leopardi, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, 1824 (dalle Operette morali, 1827, 1834, 1835;
post. 1845)
 
[…]
GUTIERREZ. […] tu, in sostanza, hai posto la tua vita, e quella de’ tuoi compagni, in sul fondamento di una semplice
opinione speculativa.
COLOMBO. Così è: non posso negare. Ma, lasciando da parte che gli uomini tutto giorno si mettono a pericolo della
vita con fondamenti più deboli di gran lunga, e per cose di piccolissimo conto, o anche senza pensarlo; considera un
poco. Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo mare, in
questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci
troveremmo essere? in che saremmo occupati? in che modo passeremmo questi giorni? Forse più lietamente? o non
saremmo anzi in qualche maggior travaglio o sollecitudine, ovvero pieni di noia? Che vuol dire uno stato libero da
incertezza e pericolo? se contento e felice, quello è da preferire a qualunque altro; se tedioso e misero, non veggo a
quale altro stato non sia da posporre. […] Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella
ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte
cose che altrimenti non avremmo in considerazione. […] Io […] giudico che la vita si abbia da molto poche persone in
tanto amore e pregio come da’ navigatori e soldati. Quanti beni che, avendoli, non si curano, anzi quante cose che non
hanno pur nome di beni, paiono carissime e preziosissime ai naviganti, solo per esserne privi!
[…]

Gutierrez è un uomo dell’equipaggio di Colombo. Ne conosceva i particolari narrativi Leopardi, sapeva che
l’equipaggio in quel momento stava per ribellarsi all’ammiraglio. Gutierrez chiede se Colombo è ancora convinto che
toccheranno terra, ma ci sono degli indizi che portano a pensare che sarà così. E gli chiede i motivi della decisione di
partire. Colombo dice che ha fatto solo un pronostico di riuscita ma non ha la certezza di toccare terra, si è basato su una
teoria che lo ha convinto a mettersi in mare, ma senza certezza. Se non fossimo qui in questo mare immenso e solitario,
in quale altra condizione ci troveremo? Al sicuro a casa, ma saremmo davvero al sicuro? Saremmo pieni di noi, cosa
vuol dire uno stato libero da incertezza e pericolo? È desiderabile lo stato di sicurezza solo se siamo davvero felici. Non
è solo il trovarsi nella sicurezza della propria quotidianità che rende felici. Prima viene la felicità, poi qualunque altro
stato. [ODDIO LEOPARDI CHE LA PENSA COME ME]. La vita si sente più cara quando è a repentaglio, quando non
ci si trova nella noia della routine quotidiana.

Il viaggio nella sua forma più interessante e importante, è un viaggio che non ha nessuno scopo, da preferire a tutti gli
altri viaggi. Baudelaire ne “Fiori del Male” dice che si viaggia per partire, non per arrivare.
È un viaggio sentimentale, ha come scopo quel poco di beneficio che gli uomini posso estrarre dalla vita, la voglia di
spostarsi da un clima all’altro, un viaggio cui piacere è il non avere una meta, ma essere un antidoto alla noia.
Baudelaire ne “Il viaggio” dei “Fiori del male”, numero 126. I veri viaggiatori sono quelli che partono per partire, che
vivono l’esperienza in maniera così più piacevole. Stare nella quotidianità per Baudelaire è stare nella morte.
L’importante è seguire il nuovo nell’ignoto, basta non stare nella routine quotidiana. È un’idea già anticipata da
Leopardi.

Dobbiamo, studiando la letteratura, fare diversi collegamenti, non fare una monade, c’è una rete di testi che comunicano
fra loro.

Giovanni Pascoli (1855-1912)


Nato a San Mauro (Forlì-Cesena), morto a Bologna.
I Poemi conviviali sono l’opera pascoliana più importante secondo la critica.

Pascoli si è dedicato al mondo contadino, ha vissuto quanto ha potuto nella campagna a Barga, poeta che visse
nell’ambiente rurale, anche dopo essere stato professore al liceo a Matera etc. sostituto di Carducci.

C’è una sua produzione tutta legata alla ruralità, al mondo contadino e a tutti i suoi significati simbolici, siamo già in un
ambito simbolistico, la sua scrittura come quella Baudelairiana cerca di svelare simboli nascosti della natura, nel canto
degli uccelli, dello stormire delle piante, in tutti i fenomeni naturali che si osservano nella campagna c’è qualcosa di
profondamente simbolico secondo Pascoli, anche nella sua capacità di riprodurre i suoni della natura attraverso i suoi
versi, definito pono simbolismo, cerca di far riecheggiare nel lettore i simboli e gli echi di un mondo nascosto dietro
l’apparenza dei fenomeni. Anche nella descrizione delle campagne e della vita contadina di Pascoli non c’è più il
bozzettismo verista o realista di metà ‘800, ma c’è il desiderio di mettere in comunicazione con una realtà altra, come
Baudelaire nelle Corrispondenze, il mondo è una foresta di simboli e Pascoli concepisce così il mondo, come una
foresta di simboli e Myrichae e Canti di Castelvecchio sono un po’ l’apice di questa interpretazione simbolica della
campagna.
Però c’è anche una produzione di Pascoli tutta legata al mondo antico, Pascoli è stato uno dei più importanti poeti di
lingua latina della modernità e ha anche scritto molte opere in italiano su temi provenienti dal mondo
antico/mitologico/storico. Fu anche un grande traduttore di Omero. Un’opera molto importante in questo senso sono i
Poemi conviviali, che Pascoli pubblica inizialmente a puntate sulla rivista romana “Il Convito” (=convivio, banchetto)
(per questo li chiamerà conviviali), diretta da Adolfo De Bosis, rivista molto importante a fine ‘800, ospita anche gli
scritti di D’Annunzio, è in collegamento con i più aggiornati motivi del decadentismo europeo
(estetismo/decadentismo/simbolismo che vengono qui discussi), rivista anche militante, cerca di dialogare anche con
altre realtà letterarie del simbolismo europeo e che è guidata da De Bosis, alla quale sono dedicati i Poemi conviviali.
Questi pubblicati dal 1895 con Gog e Magog molti di questi poemi sono pubblicati su questa rivista, poi raccolti in
volume nel 1904 e gli intitola Poemi conviviali. Centrale in questi sarà il mito omerico di Ulisse. Sono tutti poemi che
hanno come tema personaggi della mitologia greca e latina e la storia antica, alcuni poemi riguardano l’Illiade,
l’Odissea, il Nuovo Testamento, la diffusione del cristianesimo etc. È quindi uno sguardo e un’interpretazione al mondo
antico a tutto tondo.
Uno di questi poemi conviviali che ci interessa si intitola L’ultimo viaggio, opera molto rivalutata dai critici, descrive
l’ultimo viaggio di Ulisse, riprende l’idea dell’ultimo viaggio che da Dante in poi ha ossessionato la cultura europea e
americana.
Pascoli né da un’interpretazione particolare in chiave tragica/negativa, come abbiamo visto con Foscolo e Leopardi,
perché mostrano una condizione sfavorevole dell’uomo contemporaneo. Questo poema è scritto in 24 canti molto
brevi di endecasillabi sciolti (endecasillabi senza rima), solo sette versi sono a rima baciata.
Pascoli descrive un Ulisse anziano che riprende il viaggio a ritroso nei luoghi dell’Odissea, ma li trova ormai privi di
miti. Ulisse chiuso nella sua casa di Itaca, circondato dalla pace, serenità e dalla routine, la quotidiana sicurezza del
ripetersi uguale ogni giorni di quanto già vissuto ieri, a un certo punto, stanco di questo ripetersi continuo della giornata,
di questo ripetersi della giornata sempre uguale, decide di andarsene, di ripartire e di andare, non oltre le colonne
d’Ercole, ma di tornare sui luoghi dell’Odissea, per vedere se sono ancora come se li ricordava da giovane. Torna
all’Isola di Eea dove si trovava Circe, torna in Sicilia per vedere i ciclopi, da Calipso, torna a vedere le sirene nel prato
in mezzo al mare nel quale si trovano queste che attraggono i naviganti con il loro canto melodioso. Ma
inaspettatamente questi mostri/miti/figure magiche, non ci sono più. Circe è scomparsa, la sua casa non c’è più, il
ciclope è scomparso, non si ricorda neanche più della sua esistenza. C’è una scomparsa dei protagonisti dell’Odissea,
dei luoghi che Ulisse ha attraversato. Troverà dei luoghi privi di senso, un mondo non più divinizzato, troverà la piatta
banalità del quotidiano. Ha visto il mondo che conosceva sbriciolarsi completamente. C’è il tema del disincantamento
del mondo che è molto noto e che colpisce Pascoli in modo particolare, il mondo quindi che perde i suoi miti.
Ulisse ripercorre a ritroso il suo viaggio, ma ogni luogo e ogni tappa è vuota, è priva di quei mostri e di quelle presenza
magiche e divine, sono semplicemente luoghi naturali fatti di rocce, alberi, animali, e abitati da animali banalissimi e da
esseri umani come lui.
È l’adulto che cerca di ritornare bambino, cerca di ritornare giovane ritornando indietro sui suoi passi, ma scopre la
proisicità del mito, scopre che il mito in realtà adesso non c’è più, tutto è prosa di vita quotidiana e scopre che i miti
sono nati da un’amplificazione fanciullesca della normalità. Quando era giovane i miti nascevano dalla sua mente per
una sorta di amplificazione della sua fantasia, ma in realtà non sono mai esistite le creature dell’Odissea.
Questa è anche una palinodia (palin ode=cantare di nuovo un qualcosa di cui si è già cantato prima però in senso
diverso. Ripensamento) del Fanciullino, è importante comprenderlo per capire la trattazione del mito di Ulisse
nell’ultimo viaggio.

Il Fanciullino è un trattatello molto breve di Pascoli, che comincia a pubblicare a puntate sulla rivista Il Mazzocco nel
1897 e poi raccoglie in volume nel 1903, poco prima della scrittura Dell’Ultimo viaggio, poi confluito nella raccolta I
Poemi conviviali, siamo 7 anni prima della stesura del Fanciullino.
Nel Fanciullino Pascoli dice che nell’uomo c’è un puer aeternus cioè nell’uomo anche vecchio esiste un fanciullo che
non muore mai. Quindi mentre Leopardi crede che la fanciullezza sia un’età litima, (finisce e poi non torna), l’uomo
adulto non sarà più bambino interiormente, Pascoli crede che dopo la fanciullezza rimanga una parte di fanciullo, il
fanciullino, per sempre dentro di noi e che questo possa essere riattivato in qualunque momento, anche all’estremo dei
nostri giorni. Per Pascoli questo puer aeternus, questo fanciullino, è una funzione perenne del sistema uomo, e non si
assottiglia (!!) con il progresso della civiltà. Nemmeno il progresso, la scienza, il progredire delle conoscenze e della
civilizzazione possono cancellare il bambino che profondamente è dentro di noi. Se mai viene messo maggiormente a
tacere nell’uomo adulto civile, però può essere sempre riattivato. È un blocco intoccabile dell’umano. Non coincide con
antico e primitivo, antichi e primitivi lo lasciano maggiormente parlare ma la qualità di fanciullino che hanno è come
quella dei moderni. Questi avevano dentro una voce più forte di questo fanciullino, che era più presente, ma la
quintessenza di questa voce è la stessa per tutti, in qualunque epoca. Anche nell’uomo della metropoli c’è il fanciullino
primitivo che non può essere spazzata via , e che è anche la fonte di scaturigine della poesia: secondo Pascoli la poesia
nasce dal fanciullino che c’è in ogni poeta, il poeta deve saperlo far parlare e quindi trascrivere quello che il fanciullino
gli detta: è la parte più profonda di se stesso.
Questo lo dice qui nel 1897, ma nel racconto dell’Ultimo viaggio con l’Ulisse ormai vecchio che non ritrova più i miti
della sua fanciullezza, c’è un ripensamento, una palinodia di questo fanciullino solo dopo sette anni Pascoli avrà un’idea
molto diversa del fanciullino.

Vediamo il passo più noto:

G. Pascoli, Il Fanciullino, 1897:

È dentro noi un fanciullino [...] Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei
due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un
palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi
un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed
egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo
distinto nell'età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa
della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona. [...] gli uomini aspettano da lui chi sa
quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché con le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i
segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio,
perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai;
quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei.
Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello
che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. [...]
Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende. [...] Egli ci fa perdere il tempo,
quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che
odora, ora vuol toccare la selce che riluce. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo
tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che
mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. [...]

Dentro di noi c’è un fanciullino che quando siamo piccoli si confonde con la voce del nostro io bambino, ma quando
noi cresciamo rimane sempre fanciullo, cresce il nostro corpo ma non cresce lui. La meraviglia dei bambini è serena e
antica, non ha età. È molto diversa dal desiderare degli adulti. La nostra voce è greve, roca, grossa, ma dentro di noi
questo fanciullo ha ancora una voce come di un campanello che suona. Nella giovinezza noi cerchiamo di farci strada
nel mondo, di trovare una nostra posizione, di fare carriera, mettiamo a tacere il fanciullino. Negli anziani invece il
fanciullino lo sentono più dei giovani paradossalmente. L’Ulisse dell’ultimo viaggio quindi dovrebbe sentirlo più di
tutti gli altri, è ormai vecchio e ha raggiunto il suo obbiettivo nella vita. Ha quella funzione primitiva di cui parlava
anche Leopardi, con un certo rimpianto agli uomini antichi e alla loro capacità di parlare alle bestie, agli alberi, ai sassi,
alle nuvole e alle stelle. Il fanciullino dentro di noi ha questa funzione. Quindi noi in qualche modo rimaniamo un po’
primitivi secondo Pascoli, non perdiamo mai completamente quello stato di natura, quella parte di primitivismo che
abbiamo dentro di noi nel profondo. Quindi possiamo anche oggi tornare a parlare con la natura, che popola il cielo
degli dei, funzione tipica degli dei. È quella meraviglia che ci permette ancora di conoscere e apprezzare il mondo e le
cose. Ha quindi anche una funzione conoscitiva. Ci consente di mettere in relazione cose apparentemente lontane fra di
loro, apparentemente indipendenti l’una dall’altra per fare degli accoppiamenti inaspettati, delle intuizioni che altrimenti
con la nostra mente razionale da adulti non riusciremo a fare. Quindi una funzione importantissima dell’essere umano
che rimane sempre viva/presente.
Questo ricordiamo che lo scrive nel 1897 e invece nei Poemi conviviali rinnega.
Non è quindi vero che il fanciullino è lo scritto di poetica centrale di Pascoli come solitamente si dice. La poetica di
Pascoli coincide per un certo periodo con la poetica del fanciullino, ma dopo il 1897 il poeta rinnega il fanciullino.
Quindi questo non basta per capire la sua poetica: un ulteriore esempio sui pregiudizi di interpretazione sulla letteratura
di Pascoli nati a scuola.
Lo stesso Pascoli supererà il fanciullino con un’idea molto diversa e negativa che vedremo nell’Ultimo viaggio dei
Poemi conviviali, come delineamento dell’idea di fanciullino fatta attraverso nuovamente il mito di Ulisse che proviene
dall’Odissea.

8 lezione 08/10/2019 lezione più bella della storia

Per l’esame, per l’analisi del testo, mezz’ora di lettura con vocabolario,. riassunto schematico, fare appunti;
un’ora e mezza di stesura della brutta, circa 4 colonne;
mezz’ora prima rilettura;
un’ora scritta in bella con grafia leggibile
mezz’ora seconda rilettura.
Per la traccia argomentativa:
mezz’ora di appunti;
un’ora e mezza di brutta;
mezz’ora rilettura;
un’ora di scrittura della bella;
mezz’ora rilettura

Leopardi vede egoismo nelle scoperte geografiche, il viaggio di Colombo è nato da una sete non di conoscenza ma di
in-coscienza, fatto per sconfiggere la noia.

Torniamo a L’ultimo viaggio.

Questa piccola Odissea a ritroso è una sconfessione di idee che troviamo ne Il fanciullino, dove si diceva che ognuno di
noi ha dentro un bambino che rappresenta la ricchezza psicologica ed emotiva dell’uomo. È uno zoccolo duro di
sentimenti che neanche l’essere umano può togliere. Pascoli crede vivamente in questa teoria per cui chiunque possegga
una natura umana è collegato dal fatto che tutti hanno dentro se un fanciullino. Uomini antichi o moderni. C’è un nucleo
primitivo di purezza dell’origine.
Quando leggiamo l’Ultimo viaggio questa idea invece è completamente superata.
Pascoli ci ha ripensato. Ha ritrattato l’idea del fanciullino. Nel 1904 non è più vero che nell’uomo c’è un fanciullino
eterno, perché vediamo che c’è un Ulisse che lo cerca andando proprio nei luoghi della sua giovinezza ma non troverà
altro che la piatta banalità oggettiva della realtà oggettiva quotidiana. Ulisse non riesce più a far quadrare l’Ulisse che è
in se, lo ha visto scomparire. È un momento drammatico nella riflessione di Pascoli perché lui concentrava gran parte
del suo attivismo antropologico, cioè l’essere umano che continua anche nei momenti più terribili della sua esistenza ad
avere un nucleo interiore di calore, di giovinezza interiore perpetua, e invece dal 1904 non ci crederà più. Crederà che
l’età adulta e la vecchiaia cancellino il fanciullino. In questo si avvicina all’idea leopardiana di una fanciullezza che poi
scompare e lascia adito alla vera età adulta.

Ulisse scoprirà che non ci sono più epifanie del divino come nella sua giovinezza, ma soltanto la rude natura/realtà che
gli si para davanti agli occhi.
Es. andrà in Sicilia per rincontrare il ciclope Polifemo, figlio degli dei, creatura semi-divina, ma nell’antro del ciclope
troverà una normalissima famiglia di pastori. Chiederà a questi del ciclope, dicendo di averne sentito parlare (non dirà
di averlo conosciuto in precedenza) , ma il pastore dice che l’idea del ciclope è nata dall’Etna, monte gigantesco che ha
un occhio solo, il cratere infiammato dalla lava di notte sembra un occhio. Da questa immagine gli uomini siciliani
hanno creato il mito del ciclope che in realtà non è mai esistito. È nato da un’amplificazione fanciullesca della
normalità, quindi da un’amplificazione di dati reali.

Vediamo alcuni dei passi:


Vediamo il passo iniziale del poemetto del canto V, il Remo confitto dove Ulisse è già vecchio, è rientrato a Itaca, ha
ripreso il suo posto nella famiglia, sta quasi sempre davanti al focolare, si è ritirato, Telemaco ha ormai preso in mano il
potere al posto suo, Ulisse si consuma davanti al fuoco. Immagina la sua giovinezza guerriera, le navi che ha guidato, le
avventure che ha compiuto.

G. Pascoli, Poemi conviviali, (1904) l’Ultimo viaggio: Canto V: Il remo confitto:

E per nove anni al focolar sedeva,


di sua casa, l’Eroe navigatore:
ché più non gli era alcuno error marino
dal fato ingiunto e alcuno error terrestre.
Sì, la vecchiaia gli ammollia le membra
a poco a poco. Ora dovea la morte
fuori del mare giungergli, soave,
molto soave, e né coi dolci strali
dovea ferirlo, ma fiatar leggiera
sopra la face cui già l’uragano
frustò, ma fece divampar più forte.
E i popoli felici erano intorno,
che il figlio, nato lungi alle battaglie,
savio reggeva in abbondevol pace.
Crescean nel chiuso del fedel porcaio
floridi i verri dalle bianche zanne,
e nei ristretti pascoli più tanti
erano i bovi dalle larghe fronti,
e tante più dal Nerito le capre
pendean strappando irsuti pruni e stipe,
e molto sotto il tetto alto giaceva
oro, bronzo, olezzante olio d’oliva [...]

Pascoli ambienta l’esperienza dell’Ultimo viaggio nove anni dopo il ritorno da Troia. Il fato non gli comandava nessuna
più erranza. Non è costretto dal fato a vagare (diversamente dall’Odissea). Questa morte che lui aspetta deve soffiar
leggera sopra la sua fiamma vitale. Una fiamma che frustò l’uragano ma senza spegnerla, anzi la fece divampar più
forte. Torna l’immagine della fiamma associata ad Ulisse che abbiamo già trovato nel XXVI canto dell’Inferno (Pascoli
è un grande conoscitore di Dante, dedicò tre trattati della Divina Commedia, è un esegeta di Dante raffinato anche se in
alcuni passaggi è poco credibile o delirante).
Il figlio Telemaco regge in pace il popolo di Itaca, c’è pace intorno a lui, non c’è nessuna necessità che lui prenda il
mare. È tutto in uno stato di calma e tranquillità assoluta.
Non gli mancava nulla. Ulisse aveva la sanità corporea, (anche se era vicino alla morte), la tranquillità del suo regno, e
ricchezza. Aveva animali, oro, bronzo, olio, tutto ciò che poteva costituire la ricchezza di un uomo greco dell’epoca.
Pascoli ci tiene a dire che questo Ulisse era satollo, soddisfatto, pieno di beni. Non avrebbe dovuto sentire dentro di se
un vuoto. Invece sente un grandissimo vuoto. E soprattutto quando le gru migrano sopra Itaca, lui le segue con
nostalgia, vorrebbe partire con loro, vorrebbe migrare verso luoghi esotici, andarsene. A un certo punto decide di farlo.
Senza nessuna ragione se non la noia e un vuoto interiore, il desiderio di tornare fanciullo, di tornare in possesso di
quelle sensazioni che provava in gioventù, decide di ripartire. Una mattina di primavera si alza e decide di scappare da
casa, dalla realtà nella quale lo hanno confinato nella condizione di eroe finito e senza salutare nessuno, neanche la
moglie o il figlio va alla spiaggia. Magicamente ritrova i compagni ad aspettarlo. Ritrova anche la nave nera sulla quale
era tornato ancora perfettamente allestita e in grado di navigare, i compagni superstiti che lo aspettano (nel racconto
omerico i compagni non tornano con lui perché muoiono in un naufragio durante il viaggio, quindi c’è un elemento
presente in Pascoli ma non in Omero) e ritrova anche l’aedo della reggia di Itaca, Femio, un cantastorie che raccontava
le gesta di Ulisse nella reggia di Itaca. Lo ritrova ad aspettarlo sulla spiaggia.
Decide di partire per nuove avventure. In realtà non sono propriamente nuove avventure ma sono il ritorno ai luoghi
delle avventure vecchie. Chiede ai compagni di tornare indietro a rivedere i luoghi della giovinezza. Tiene un piccolo
discorso per convincerli a partire con il quale cerca di convincere i compagni a ripartire per il viaggio. Questi sono
vecchi come lui, tutti con barba e capelli bianchi che vanno convinti a ripartire per questo viaggio all’indietro.

Questo discorso lo tiene nel XII canto, Il timone e fa leva sul fanciullino, che è o dovrebbe essere noi e che dobbiamo
cercare di assecondare, quindi noi compagni torniamo a rivedere i luoghi della nostra meraviglia giovanile di un tempo.
[crisi di mezza età sicura]
Quindi i compagni lo aspettano seduti sulla spiaggia. È un’ambientazione puramente simbolica, non ha niente di
realistico, è più onirica che realistica:

G. Pascoli, Poemi conviviali, XII canto: Il timone [canto stupendo]

Ed ecco, appena il vecchio Eroe comparve,


sorsero tutti, fermi in lui con gli occhi. [...]
Ed egli, sotto il teschio irto del lupo,
così parlò tra lo sciacquìo del mare:
     Compagni, udite ciò che il cuor mi chiede
sino da quando ritornai per sempre.
Per sempre? chiese, e, No, rispose il cuore.
Tornare, ei volle; terminar, non vuole.
Si desse, giunti alla lor selva, ai remi
barbàre in terra e verzicare abeti!
Ma no! Nè può la nera nave al fischio
del vento dar la tonda ombra di pino.
E pur non vuole il rosichìo del tarlo,
ma l’ondata, ma il vento e l’uragano.
Anch’io la nube voglio, e non il fumo,
il vento, e non il sibilo del fuso,
non l’ozïoso fuoco che sonnacchia,
ma il cielo e il mare che risplende e canta.
Compagni, come il nostro mare io sono,
ch’è bianco all’orlo, ma cilestro in fondo. [...]

Appena ricompare sulla spiaggia, i compagni di una vita si alzano e lo guardano intensamente. Nessuno però arriva ad
avvicinarsi a lui. Ulisse vuole tornare ai luoghi della giovinezza con gli amici della giovinezza che ormai sono usciti
dalla sua vita, ma che ritrova tutti lì ad aspettarlo sulla spiaggia, per ripartire a ritroso verso anni indietro per questo
percorso che ha già compiuto ma vuole tornare a ripercorrere. Ha un copricapo costituito da un teschio di lupo, tenne
un’orazione con la quale si rivolge ai compagni. Il suo cuore non vuole tornare per sempre a casa, vuole tornare dal
viaggio ma non terminare il viaggio, che è non solo fisico ma un viaggio interiore della fanciullezza, del bello e della
meraviglia. Magari potessero i remi piantati in un bosco piantare radici e diventare abeti. Ma questo non è possibile. Gli
esseri umani sono come remi piantati in un bosco se scelgono una vita quotidiana nella normalità. Non è possibile per
un uomo che è anche un remo, quindi abituato a viaggiare, a mettersi a repentaglio, a conoscere luoghi nuovi, non è
possibile per un remo piantare radici se viene posto in una selva. E così l’essere umano che è fatto per viaggiare, per
muoversi, non può piantare radici in una famiglia, in un contesto famigliare stabile. Per lui sarà sempre una forzatura.
[Questo dice Pascoli, il quale per tutta la vita fa una riflessione complessa sulla famiglia e sull’impossibilità di una
famiglia, di un radicamento per lui che costituisce uno degli snodi più importanti della sua ricerca letteraria.]
Neanche una nave può trasformarsi in un pino. L’uomo deve stare sulla nave e deve viaggiare.
Eppure la nave non vuole essere mangiata dai tarli, quindi non vuole la noia. Anche io, in quanto essere umano, voglio
la nuvola e non il fumo che esce dal camino. Non voglio il focolare domestico. Voglio il vento, non il sibilo che
produce il sibilo nel telaio, quindi non voglio un lavoro normale, non essere invischiato nelle pratiche della vita
quotidiana come il lavoro ordinario e ripetitivo. Non voglio l’ozioso fuoco del camino, che sta quasi per spegnersi, che
in questi casi sembra quasi russare. Non voglio che la mia vita sia così. Ma voglio il mare e il cielo che risplende e
canta.
In questo consiste il simbolismo pascoliano, il fatto che dietro questa parole ci sia un simbolo di vita legato a tutti
noi.

Io sono come il mare che conosciamo, bianco all’orlo, come la spuma delle onde, ma azzurro, puro, nel suo fondo,
centro. Sono vecchio fisicamente, ma dentro sento di avere ancora o penso di avere ancora un fanciullino, un nucleo di
cilestro, di azzurro.
Vedremo che l’esperienza concreta sarà disastrosa.

G. Pascoli, Poemi conviviali, l’Ultimo viaggio, XIII canto: La partenza

Ed ecco a tutti colorirsi il cuore


dell’azzurro color di lontananza;
e vi scorsero l’ombra del Ciclope
e v’udirono il canto della Maga:
l’uno parava sufolando al monte
pecore tante, quante sono l’onde;
l’altra tessea cantando l’immortale
sua tela così grande come il mare.

I compagni sentendo questo discorso che li riporta al loro dovere di uomini, che in questo caso non è conoscere come
disse l’Ulisse di Dante ma è il dovere di essere vivi, fanciulli e azzurri dentro, di provare il cilestro dentro di loro, il
vento, il mare, l’uragano, atti di vita puri, a tutti questi marinai si colorisce il cuore, che comincia a prendere il colore di
un azzurro in lontananza [indecifrabile questo passo, forse si intende l’azzurro delle cose che sono lontane, l’azzurro
che hanno le cose misteriose, che si vedono solo in punto di lontano, senza conoscerle bene, indefinite]. Ricordano il
Ciclope e la Maga Circe e vorrebbero anche loro rivederli.

Purtroppo quando cominciano a rivedere questi luoghi della giovinezza, soprattutto l’isola di Eea, [Monte Circèo in
Lazio teoricamente], descritta da Omero come un’isola perché è un promontorio che sembra quasi staccato dalla terra,
non trovano la Maga, che non ha neanche lasciato alcuna traccia, sembra non essere mai esistita. I ricordi belli, i sogni,
le esperienze che avevano riempito l’anima di queste persone sembrano non essere mai neppure avvenute. Mettono in
dubbio il loro stesso passato.
La scomparsa del ciclope viene raccontata nei canti XIX Il Ciclope e il XX La Gloria. Ulisse e i compagni sbarcano in
Sicilia, Ulisse è convinto di incontrare nuovamente Polifemo, non ha incontrato la Circe ma spera almeno di incontrare
Polifemo:

G. Pascoli, Poemi conviviali, L’Ultimo viaggio, canto XIX: Il Ciclope

Ecco: ai compagni disse di restare


presso la nave e di guardar la nave.
Ed egli all’antro già movea, soletto,
per lui vedere non veduto, quando
parasse i greggi sufolando al monte.
Ora all’Eroe parlava Iro il pitocco:
Ben verrei teco per veder quell’uomo
che tanto mangia, e portar via, se posso,
di sui cannicci, già scolati i caci,
e qualche agnello dai gremiti stabbi.
Poi ch’Iro ha fame. E s’ei dentro ci fosse,
il gran Ciclope, sai ch’Iro è veloce
ben che non forte; è come Iri del cielo
che va sul vento con il piè di vento.
L’Eroe sorrise, e insieme i due movendo,
il pitocco e l’Eroe, giunsero all’antro.
Dentro e’ non era. Egli pasceva al monte
i pingui greggi. E i due meravigliando
vedean graticci pieni di formaggi,
e gremiti d’agnelli e di capretti
gli stabbi, e separati erano, ognuni
ne’ loro, i primaticci, i mezzanelli
e i serotini. E d’uno dei recinti
ecco che uscì, con alla poppa il bimbo,
un’altocinta femmina, che disse:
Ospiti, gioia sia con voi. Chi siete?
donde venuti? a cambiar qui, qual merce?
Ma l’uomo è fuori, con la greggia, al monte;
tra poco torna, ché già brucia il sole.
Ma pur mangiate, se il tardar v’è noia. [...]
 Ed ecco un grande tremulo belato
s’udì venire, e un suono di zampogna,
e sufolare a pecore sbandate:
e ne’ lor chiusi si levò più forte
il vagir degli agnelli e dei capretti.
Ch’egli veniva, e con fragore immenso
depose un grande carico di selva
fuori dell’antro: e ne rintronò l’antro.
E Iro in fondo s’appiattò tremando.
     E l’uomo entrò, ma l’altocinta donna
gli venne incontro, e lo seguiano i figli
molti, e le molte pecore e le capre
l’una all’altra addossate erano impaccio,
per arrivare ai piccoli. E infinito
era il belato, e l’alte grida, e il fischio.
Ma in breve tacque il gemito, e ciascuno
suggea scodinzolando la sua poppa.
    Ospite, mangia. Assai per te ne abbiamo.
Ed al pastore il vecchio Eroe rispose:
     Ospite, dimmi. Io venni di lontano,
molto lontano; eppur io già, dal canto
d’erranti aedi, conoscea quest’antro.
Io sapea d’un enorme uomo gigante
che vivea tra infinite greggie bianche,
selvaggiamente, qui su i monti, solo
come un gran picco; con un occhio tondo...
     Ed il pastore al vecchio Eroe rispose:
Venni di dentro terra, io, da molt’anni;
e nulla seppi d’uomini giganti.
     E l’Eroe riprendeva, ed i fanciulli
gli erano attorno, del pastore, attenti:
     che aveva solo un occhio tondo, in fronte,
come uno scudo bronzeo, come il sole,
acceso, vuoto. Verga un pino gli era,
e gli era il sommo d’un gran monte, pietra
da fionda, e in mare li scagliava, e tutto
bombiva il mare al loro piombar giù...
     Ed il pastore, tra i suoi pastorelli,
pensava, e disse all’altocinta moglie:
     Non forse è questo che dicea tuo padre?
Che un savio c’era, uomo assai buono e grande
per qui, Telemo Eurymide, che vecchio
dicea che in mare piovea pietre, un tempo,
sì, da quel monte, che tra gli altri monti
era più grande; e che s’udian rimbombi
nell’alta notte, e che appariva un occhio
nella sua cima, un tondo occhio di fuoco...
     Ed al pastore chiese il moltaccorto:
E l’occhio a lui chi trivellò notturno?
     Ed il pastore ad Odisseo rispose:
Al monte? l’occhio? trivellò? Nessuno.
Ma nulla io vidi, e niente udii. Per nave
ci vien talvolta, e non altronde, il male.
     Disse: e dal fondo Iro avanzò, che disse:
Tu non hai che fanciulli per aiuto.
Prendi me, ben sì vecchio, ma nessuno
veloce ha il piede più di me, se debbo
cercar l’agnello o rintracciare il becco.
Per chi non ebbe un tetto mai, pastore,
quest’antro è buono. Io ti sarò garzone.

Dice ai compagni di restare sulla nave, vuole andare da solo perché Polifemo è micidiale, molto pericoloso, e aveva già
ucciso molti dei compagni di Ulisse. Si avvicina già all’antro per poter ammirare il Ciclope senza essere visto, quando
questi avesse riportato i greggi fischiando al monte. Ora parlava Iro il Pitocco, un altro compagno di Ulisse, chiamato
così perché molto veloce come l’iride, la dea Iri dell’iride. Pitocco significa accattone.
Iro chiede di poter seguire lui da solo Ulisse all’antro del Ciclope, per vederlo e per portare via i caci che il Ciclope
anche per gusto meco faceva formaggi e allevava pecore, bovini.
Ulisse sorride. Giungono ad un grande antro dove Ulisse ricordava di aver incontrato la prima volta il Ciclope, ma il
Ciclope non c’era. Ulisse riflesse che sicuramente sarà al pascolo, vedono tre tipi diversi di agnelli (serotini i più
giovani) e anche molti formaggi. Ma dall’antro esce una donna, umana che ha alla poppa un bimbo. Questo spiazza
Ulisse perché Polifemo viveva da solo. Lei è molto ospitale, l’ospitalità presso il mondo Mediterraneo/greco era sacra.
Rendere onore agli ospiti era un dovere. Quindi lei si dimostra eticamente molto gentile e buona, che segue le leggi
dell’ospitalità, mentre Polifemo non le aveva seguite, era un essere privo di qualsiasi morale. Li scambia per dei
mercanti. Ma suo marito è fuori con il gregge. Ma li invita a mangiare. Ulisse e Iro si aspettano di veder arrivare il
Ciclope, anche se non capiscono bene la situazione. Ed ecco che si sente tornare il gregge. Torna a casa a mezzogiorno,
perché il sole brucia, guidato dal pastore, che effettivamente produce un grande frastuono che potrebbe ricordare quello
del Ciclope, ma non è il Ciclope. Entra l’uomo, la donna gli venne incontro, arrivano anche diversi figli, pecore e capre.
Capiscono che il frastuono era prodotto dagli animali, dai fischi prodotti dal pastore e dai bambini. In breve tacque il
rumore. Ulisse si sorprende che il pastore sia un uomo e non Polifemo. Viene invitato a mangiare. Ulisse dice che viene
da lontano, ho sentito parlare di quell’antro dai racconti dei poeti (in realtà l’ha visto e i racconti parlano di lui, ma non
vuole svelarlo agli ospiti) e anche di un uomo gigante che viveva tra i greggi selvaggiamente, sui monti, solo e con un
grande occhio. Il pastore dice di non aver mai sentito parlare di questo gigante. I figli intanto ascoltano attenti. Ulisse
continua la descrizione dicendo che era in grado di prendere la sommità di un monte e di lanciarla con la fionda nel
mare, quando Ulisse e i compagni scappano in spiaggia, dopo averlo imbrogliato e accecato, Polifemo alla cieca lancia
dei pezzi di montagna nell’acqua per colpire dei pezzi di montagna nell’acqua per cercare di colpire la nave di Ulisse.
Il pastore pensa e chiede alla moglie se magari l’ospite stesse parlando di un evento che gli fu un tempo descritto da un
uomo, un vecchio saggio che raccontò che un tempo da quel monte più alto degli altri, volavano pietre, che di notte
aveva un occhio di fuoco sulla sua cima. Quindi l’Etna.
I racconti sul vulcano, che erutta pietre e che nella notte il suo cratere sembra essere un occhio, hanno prodotto per
tradizione orale il mito del Ciclope che scaglia pietre in mare e che ha un occhio solo.
Ulisse chiese chi accecò il mostro. Ulisse non ha capito che si sta parlando dell’Etna. E il pastore rispose “Nessuno”,
come nel racconto dell’Odissea dove c’è un tranello legato al termine “Nessuno” che sarebbe Odisseo (=nessuno in
greco). Iro chiede di essere messo al servizio di questo pastore che ha preso il posto di Polifemo. Decide di fermarsi
perché ha capito che non esiste più il mito, quindi è meglio passare a una vita prosaica, attiva con un lavoro normale
piuttosto che scegliere questi sogni che non hanno consistenza. Nel racconto di questi due canti, il XIX Il ciclope e XX
La gloria, si afferma la scomparsa di un mito, quello della giovinezza, che è scomparso per sempre.
Addirittura qui Pascoli afferma una nuova temonia, cioè una nuova modalità di creazione degli dei. Gli dei secondo lui
derivano da dicerie popolari tramandate, che nascono da eventi particolarmente catastrofici e significativi. Secondo
Pascoli i miti di cui parlano l’Eneide e l’Odissea sono nati da racconti orali che hanno ingigantito eventi naturali. Es. i
ciclopi non sono altro che una trasformazione del mito del Monte Etna che scaglia le sue pietre in mare dalla sua bocca
e che nella notte sembra un gigante da un occhio solo. Quindi le divinità nascono in questa forma di ezeterismo, ma è
più una forma di stoicismo, (gli stoici che avevano l’idea che il divino nascesse da eventi naturali particolarmente
disastrosi che venivano divinizzati, mentre il venerismo sosteneva che gli dei fossero degli antichi eroi guerrieri, sovrani
guerrieri che assumevano pian piano le forme di divinità). Pascoli pare riprendere la tradizione storica, cioè che gli dei
con il quale si creano le favole antiche sono in realtà grandi eventi naturali trasformati in divinità, come la Maga Circe
che sarebbe la trasformazione in divinità del vento che stormisce fra le piante nel Promontorio del Circeo. Quindi tutti i
miti che hanno incontrato quindi sono delle falsificazioni, eventi naturali che gli uomini che hanno vissuto in quelle
zone hanno trasformato in divinità. Il mondo intero crolla su Ulisse, il mondo è fatto di pietre, non di divinità. Pascoli
aveva avuto l’idea dell’esistenza di una divinità nella forma del verismo, non di una divinità positiva, appartenente a
una religione positiva ma semplicemente come grande architetto dell’universo, una divinità veristica come quella degli
illuministi. Ma qui Pascoli sembra mettere in discussione anche questo e pare approdare all’ateismo come Leopardi,
ogni nostra interrogazione rivolta a questo mondo ci rimbalza indietro, priva di ogni risposta. Non c’è più una
circolarità, un dialogo con il mondo e con le cose.

Questo viene detto molto chiaramente nel penultimo canto, il XXIII Il Vero dove Ulisse cerca di avere un colloquio
finale con le sirene, spera che esistano ancora, le va a cercare (canto XXI Le Sirene), cerca il luogo in cui si trovano, il
prato fiorito sopra il mare in cui le ha incontrate la prima volta, che in realtà è un isola molto verde e fiorita su cui si
trovano questa fanciulle metà donna e metà pesce, che hanno un canto melodioso che attira le navi verso gli scogli e le
fa schiantare, e cantano con voce divina, talmente melodiosa e talmente terribile da ammaliare gli uomini e comunicare
loro grandi verità dell’esistenza. Sono delle messaggere degli dei, parlano della bocca degli dei: chi le ascolta, ascolta
Dio, la divinità.
Ulisse che già le aveva volute ascoltare la prima volta, si era fatto legare all’albero della nave per resistere al loro
richiamo, mentre gli altri avevano spalmato della cera sulle orecchie in modo che non venissero fuorviati da questo
canto, qui le vuole ascoltare di nuovo, sentire cosa hanno da dire.

G. Pascoli, Poemi conviviali, L’Ultimo viaggio, Canto XXIII Il Vero

Ed il prato fiorito era nel mare,


nel mare liscio come un cielo; e il canto
non risonava delle due Sirene,
ancora, perché il prato era lontano.
E il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare calmo,
spingea la nave verso le Sirene;
e disse agli altri d’inalzare i remi:
     La nave corre ora da sé, compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite, il braccio su lo scalmo.
     E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il divino Odisseo vide alla punta
dell’isola fiorita le Sirene
stese tra i fiori, con il capo eretto
su gli ozïosi cubiti (gomiti), guardando
il mare calmo avanti sé, guardando
il roseo sole che sorgea di contro;
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l’isola dei fiori.
     Dormite? L’alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v’ascoltò, ma non poté sostare.
     E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
     Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
     E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
     Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!
     E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E s’ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
     Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
     E tra i due scogli si spezzò la nave.

Sono già arrivati nei pressi dello scoglio/isola dove si trovano le sirene. Non sentono il canto delle sirene, ma
attribuiscono la mancanza di canto alla lontananza dall’isola, ancora lontana. Vuole che nemmeno il remare
inquini/turbi l’ascolto della voce della divinità che stanno per avvicinare. A Odisseo, ancora lontano, pare di vedere
queste sirene stese sui fiori dell’isola.
Ma avvicinandosi scopre che sono grandi scogli che lo aspettano. Ancora gli sembrano esseri sovrannaturali appoggiati
suoi gomiti. La loro ombra si tagliava sull’isola dei fiori. Tutto quello che ho visto nel mondo mi ha guardato a sua
volta e mi ha domandato chi sono: mi ha ridato indietro la mia domanda, l’ha respinta al mittente. Ho domandato al
mondo “Chi sono” ma il mondo mi ha rimandato indietro quella domanda, l’ha respinta. Qui la visione comincia ad
essere sempre più chiara, c’è un grande mucchio di ossa, di pelle, di cadaveri intorno alle due sirene che avvicinandosi
sono sempre più simili a due scogli. Sono disposto a scagliarmi anche io e ad incrementare quell’ossame che vi
circonda, però almeno parlatemi. Ditemi almeno una verità sulla vita, qualche verità profonda, almeno una, che io possa
dire di essere vissuto. C’è questa ripetizione ossessiva di avvicinamento inesorabile verso gli scogli. Ditemi almeno chi
sono, chi ero. E tra i due scogli si spezzò la nave. Ulisse nell’ultimo tentativo di ascoltare la voce del divino,
avvicinandosi tanto alle sirene, si scaglia contro gli scogli. È un interrogazione che lui pone alla realtà, ma la realtà alla
fine lo vince, lo affonda.
Finale simile a quello dantesco, anche qui la nave affonda, ma con il significato completamente diverso. L’uomo
vecchio cerca di ritrovare il senso della giovinezza perduta, ma che ormai non può più farlo, per lui il mondo è
divenuto uno scoglio contro cui schiantarsi. Il vero è lo scoglio della vita contro cui tutti dobbiamo
irrimediabilmente schiantarci, senza più la presenza di un mito rassicurante o di un divino che parli all’uomo:
ogni nostra interrogazione ci rimbalza indietro priva di risposta, anche se la inseguiamo con forza, non è più
possibile riavere il mito.
Questo è il messaggio molto negativo che sempre sulla scia di Ulisse Pascoli dà nell’Ultimo viaggio, un’ennesima
interpretazione di questo mito che mostra la ricchezza semantica e la possibilità che la letteratura ha di dialogare, di
riappropriarsi della tradizione.

9 lezione 09/10/2019 (percorso di letture nr. 2)

Il volto dell’altro
Vediamo quindi esempi di come gli scrittori di lingua italiana hanno scritto del mondo, degli uomini, degli altri popoli,
delle altre società, dal tardo Medioevo alla nostra contemporaneità. Gli scritti che leggeremo non hanno nessun valore
schiettamente scientifico ma sono opere letterarie con un valore semantico, poetico, ermeneutico, sono opere di
carattere letterario. Sono opere che rappresentano le impressioni, le idee e il modo che hanno avuto alcuni scrittori
attraverso i secoli di rappresentare gli altri popoli, diversi da quello di appartenenza, specialmente italiano ed europeo,
per quello che significavano questi termini in età antica, infatti l’Italia come stato nasce solo a fine ‘800, prima vi erano
diversi staterelli, ciascuno con la propria cultura e propria lingua e così in Europa, con diversi Stati fazionati, non
certamente l’idea di un’Europa unita che oggi ci accomuna. È un mondo geopolitico diverso, ma c’era un’idea di
cultura italiana, europea, eurocentrica, e tutti quelli che stavano fuori da questo ecumene erano visti come altri, come
figure diverse da conoscere, da capire, da osteggiare, da dominare, e vedremo questa evoluzione mano a mano,
attraverso la letteratura, vedremo come questi scrittori hanno rappresentato gli altri popoli extraeuropei.

Due opere importanti del tardo medioevo italiano, Il Milione di Marco Polo e il Decameron di Boccaccio, che sono due
rappresentazioni a tutto tondo della società, due caleidoscopi di questa, il Decameron della società italiana, europea e al
massimo mediterranea, arrivando fino al Medio Oriente, e Il Milione, una rappresentazione caleidoscopica dei popoli
asiatici, dal Medio Oriente fino all’Estremo Oriente, costituendo un unicum della storia della letteratura medievale non
solo italiana. Il Decameron non è integralmente votato alla rappresentazione di popoli, ci sono molte novelle che
parlano di viaggio e di culture diverse da quella toscana/italiana.

La letteratura di viaggio si divide in due grandi categorie:


-letteratura odeporica: racconta di viaggi realmente avvenuti, dove c’è stato un podos, un cammino, un transito
reale, es. Il Milione, che tratta di un viaggio che Polo sostiene di aver realmente compiuto, ci sono tante prove che lo
confermano anche se non decisive, c’è comunque il contesto culturale, sociale, archivistico come prova del suo viaggio,
che racconta del viaggio intrapreso con la sua famiglia di mercanti veneziani, il padre Niccolò e lo zio Matteo, i quali
erano già stati precedentemente a lungo con Khubilai Khan, il sovrano dei Mongoli, con il quale si presume avessero
rapporti mercantili e commerciali;
-letteratura di viaggio: racconta di viaggi fittizi, non realmente avvenuti che costituiscono il tema centrale
dell’opera, es. Decameron, es. nel Mediterraneo etc. che però sono viaggi di finzione.

Ricciarda Ricorda (esperta della letteratura di viaggio), ha dedicato un’antologia alla letteratura di viaggio dal ‘700 a
oggi e ha premesso a questa antologia un’introduzione dove pone le basi dello studio della letteratura odeporica o di
viaggio, in particolare mostra una tripartizione classica dei documenti di viaggio da parte della critica, infatti
questi documenti possono dividersi in queste categorie:
-Esplorazione: viaggi compiuti in senso esplorativo da esploratori che hanno una finalità pratica di conoscere un
territorio per sfruttarlo, per lavorarci sopra, per usarlo anche in chiave di sfruttamento economico, rapporti commerciali,
di dominio politico, un viaggio quindi pragmatico che ha una funzione concreta di mappatura, estensione commerciale,
politica, di possesso, arricchimento etc. Questo è il viaggio dominante nei documenti di viaggio dal Medioevo fino al
XVII sec. (1200-1600) e vede il suo apice tra il tardo Medioevo e la prima Età moderna, (1200-1500). Viaggi fatti
sempre con una finalità, politica, commerciale, diplomatica, religiosa, anche i viaggi di apostolato e missione
appartengono a questa categoria di esplorazione, perché non sono viaggi puramente conoscitivi, compiuti per pura
passione della conoscenza e della crescita delle conoscenze scientifiche, ma sono viaggi volti ad evangelizzare certi
popoli, a portare il messaggio cristiano, quindi c’è una pragmaticità in questa missione. Anche i viaggi di
emigrazione, perché non sono viaggi compiuti per conoscere e cercare un senso alla propria esistenza, e anche se fosse,
non sarebbe il primo motivo, che invece è la sussistenza, sopravvivenza, di cambio di condizioni sfavorevoli alla
propria vita. La letteratura di emigrazione vede molti documenti specialmente fra ‘800-‘900;
-Conoscenza: spicca l’intento di conoscere, mossi da una curiositas che non ha fini commerciali, pratici e religiosi,
ma volta alla conoscenza pura del mondo, degli uomini, della natura, e questo è il viaggio praticato da scienziati,
filosofi e moralisti fra il XVI-XXI sec. (picco XVII-XVIII), comincia con la rivoluzione galileiana, c’è un primo
invito al viaggio nel Saggiatore di Galileo Galilei, e a partire da questo nuovo sguardo dato alla natura sperimentale, gli
scienziati/filosofi/moralisti si metteranno sempre più in viaggio per conoscere direttamente la natura degli uomini. Per
moralisti qui non intendiamo i censori del costume, ma coloro che vogliono conoscere i mores, le abitudini (anche
sociali) e i costumi dell’uomo, e lo fa spesso osservando le persone, come nel caso di Francesco Algarotti in Russia
dove cerca di conoscere la società russa, le sue strutture, ed è sia filosofo sia moralista, e nel suo caso anche un grande
scienziato. Il moralismo nella letteratura tradizionale ha un senso alto, non banalizzato come oggi.
Questo tipo di viaggio è ancora pienamente in atto, ci sono scrittori come Claudio Magris che rientrano ancora in
questa categoria di viaggio di conoscenza filosofico-moralistico, nel suo caso non scientifico ma il suo occhio è ancora
quello dell’illuminista che cerca di conoscere i popoli attraverso l’esperienza diretta;
-Intimismo: più recente, comincia soprattutto dallo Sturm und Drag in Germania e poi dal Romanticismo (seconda
metà del ‘700) fino ad arrivare ad oggi, il viaggio dove la dimensione intimistica è fondamentale, il viaggio come
esperienza ultima, interiore, e qui si parla di viaggi sentimentali e/o simbolici, che hanno un valore soprattutto
per le risonanze interiori che hanno sul viaggiatore, che compie il viaggio come un’esperienza dello spirito interiore,
del proprio cuore, del proprio sentimento e riporta le impressioni che raccoglie lungo la strada né mosso da intenti
pratici (viaggio di esplorazione) né da intenti filosofico-scientifici (viaggio di conoscenza), ma soprattutto per
registrare la sua crescita interiore, la sua mutazione durante questo viaggio, come fa es. Vittorio Alfieri nella sua
vita, la giovinezza, la terza epoca della vita, la biografia di Alfieri che è il primo grande esempio di viaggio sentimentale
in Italia, dove Alfieri racconta del suo Grand Tour assolutamente sui generis, il quale lo ha trasformato da nobile arido e
gretto dell’Astigiano, del Piemonte dei Savoia, a uomo europeo, internazionale, illuminato.
Sono tre grandi tripartizioni. Sono comunque categorie di massima che però sono molto elastiche e non a
compartimenti stagni.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! (min 16.25)
Il viaggio di Marco Polo (1254-1324) per molti aspetti deve essere incorporato nel viaggio di esplorazione, perché si
tratta di un viaggio compiuto da un mercante il quale soprattutto, legittimato dal papa Gregorio X, (è quindi presente
anche una missione religiosa dietro il suo viaggio), cerca di offrire ai mercanti italiani ed europei, veneziani in
particolare, (perché la sua città di riferimento è Venezia, uno dei poli commerciali marittimi e terrestri dell’Europa
medievale), una mappatura per coloro, appunto, che intendono commerciare seguendo le culture locali. Sconfina nella
volontà di conoscere l’altro, capire le strutture sociali che incontra.

Il Milione viene composto tra il 1298-1299, il titolo deriva dal Milione soprannome dei Polo in città, Le Milione, libro
quindi dedicato ai Polo.
Viaggio come cartografazione ed esplorazione utilitaristica o dovuta a uno stato di necessità, con scopi pratici di
dominio, spedizione militare, mercatura, conquista, diplomazia etc.

Però prima vediamo la letteratura italiana del XIII sec. e cerchiamo di comprendere i principali fenomeni di quel secolo,
per capire meglio le opere che studieremo.

Già nel 960 d.C. vediamo una letteratura in volgare, fatta di deposizioni che dei contadini facevano che poi
giudici trascrivevano.

Per arrivare alla letteratura come un uso espressivo della lingua si aspettano i primi del ‘200, con la prima poesia
completa in volgare todino, umbro, il Cantico delle creature del 1224-1226 dove San Francesco elogia le bellezze del
creato e fonda la letteratura religiosa in Italia. Parliamo della proto lauda. Prende diffusione specialmente in Italia
centrale dove nascono devoti che compongono queste laude dedicate alla Madonna etc.
Jacopone da Todi lascia una raccolta di laude organica, di alto valore letterario, che, diversamente dalla religiosità di
Francesco che lascia un inno alla vita, sottolinea il male di vivere, la vita come transito doloroso prima di arrivare
alla morte. Apparteneva a una branca estremista dei francescani (min 27), dove la vita è vista come un pericolo in
questo tipo di religiosità.

Si passa alla lirica amorosa (profana), introdotta in Italia dai siciliani, attivi mentre la corte di Federico II di Svevia
resta senza Federico. Ha il suo centro (min 28). I siciliani, coordinati da Federico, raccolgono l’eredità dei canzonieri
provenzali, (che trattavano anche di politica), prendono il concetto di amor cortese, eliminano ogni questione
politica, e decidono di parlare solo di amore. Sono scritti in siciliano illustre, diverso dal “dialetto” perché esso è
una cosa presente solo quando vi è uno Stato unitario, cosa che al tempo non c’era. Per questo oggi parliamo di volgare
italiano.
Noi oggi abbiamo solo le traduzioni in toscano della metà del ‘200 (1220-1250).

La lirica parte dall’area siciliana dove nasce, e poi si sposta in Toscana, Firenze/Arezzo etc. e dal 1250-1270
abbiamo il gruppo dei Guittoniani, che ricalcano gli argomenti dei siciliani, in primis l’amor cortese (min 30) e
vediamo autori come Guitone di Arezzo, che però torna a parlare di politica.

Vediamo poi lo Stilnovismo, dal 1270-1300. Dante conierà il termine “Stil novo”, troveremo Guido Bizzelli da
Bologna, Dante Alighieri e Guido Cavalcante. Stile nuovo rispetto alla tradizione, non più legato agli stili
magneristici e ripetitivi, ma legato a una poesia degli affetti, che per primi hanno la consapevolezza che la poesia
debba nascere dall’animo, che non debba essere finta o appartenente a schemi. Deve nascere dalla spontaneità
interiore.

La prosa ha molte novità. Nel ‘200 nasce la prosa italiana. Abbiamo tre grandi filoni che nascono in questo secolo
da autori sul suolo italiano che non scrivono in italiano.
Brunetto Latini, maestro giovanile di Dante, (lo mette all’inferno fra i sodomiti), scrive il “Tresor” che è in antico
francese; “La composizione del mondo con le sue cascioni del 1282 ca., in italiano, di Ristoro d’Arezzo;
Esempi di storiografia con “Cronica” in latino, di Salimbene De Adam da Parma;
Narrativa: abbiamo cento novelle brevi (min 38) autore sconosciuto; “Vita nova” di Dante del 1292-1293;
Volgarizzamenti di romanzi cortesi francesi “Tavola rotonda” di Tristano Riccardiano.
Qualche esempio di letteratura narrativa quindi ce l’abbiamo, ma non paragonabile all’estensione de Il Milione,
il personaggio Marco Polo viene approfondito, è un romanzo che ha caratteristiche diverse, si avvicina alla forma
romanzo. Il Milione affronta il viaggio autobiografico. Troppo spesso è un’opera che lo studio ha dimenticato, è
un’opera molto importante anche se spesso non viene riconosciuta, lasciando spazio al Decameron, che viene scritto
però cinquant’anni dopo.

Vediamo l’ideologia dell’uomo comune a quel tempo:


C’era una visione endocentrica, non c’era una pluralità (min 43)
Il Vicino Oriente era abbastanza noto, c’era un flusso di pellegrinaggi continuativo, nobili anche che si spostavano
per vedere la terra santa. C’erano guide turistiche perfino.
Era molto praticato il pellegrinaggio, al di là della Terra Santa c’era il vuoto, Alessandro Magno si dice avesse
costruito delle porte che separavano l’Oriente dall’Occidente, mito di Gog e Magog, che tratta su come venissero
trattate male le popolazioni delle terre estreme.

I popoli venivano definiti Tartari, che rimanda al Tartarus, cioè l’inferno, e quindi questi popoli sarebbero
prodotti dal demonio. Così venne creata la deformazione popolare dell’originale Tatar, (Tatari).
Il Milione sarà portatore di un altro rapporto, dimostrerà una grande tolleranza.

La cultura geografica medievale, la conoscenza della geografia che viene aggiunta alla leggenda, la forma della
terra è incerta, non sferica, la conoscenza della natura è a metà fra il voler essere scientifico e la favola. Era
presente una geografia piena di meraviglie che si mischiano con il reale.
Il Milione non è una fotografia storica, ma una ricostruzione geografica e confusionaria di quanto Polo vedeva.
C’è la presenza di mostri, (teratologia), presenza di esseri deformi, spaventosi, che non appartengono alla nostra
usuale abitudine di visione. Polo cerca di dimostrare che i mostri non sono creature fantastiche ma animali
normali. La salamandra es. si riteneva vivesse nel fuoco per la sua pelle ignifuga, o il rinoceronte che si credeva fosse
un unicorno.
Idea di avventura, che andava raccontata con tutto il resto.

“Physiologus”, testo in greco composto ad Alessandria di Egitto, raccolta di tutti gli animali/minerali che si credeva
fossero magici.
Viaggio di Marco Polo.
Viaggio lunghissimo, dura 24 anni, un viaggio-vita, non come esperienza temporanea, passeggera, cosa a cui siamo
abituati oggi. I viaggi antichi duravano molto, spostamenti difficili e incerti. Polo a suo modo è stato un Ulisse, il
primo a far mettere per iscritto a Rustichello da Pisa, compagno di cella, il suo viaggio.
Nato a Venezia nel 1254, parte con il padre Nicolò e lo zio Matteo da Venezia, a 17 anni nel 1271, arriva a Catai,
Cina, presso Cubilai, Gran Khan dei Mongoli nel maggio-giugno 1274 a vent’anni. Non scriverà un diario di
viaggio, forse aveva degli appunti che però sono andati perduti. È un’opera postuma.
Torna a Venezia nel 1295 a 41 anni.
Imprigionato a Genova per due anni dopo la presunta battaglia navale di Cùrzola, in Croazia, nel 1298-1299 a
44-45 anni. Trova un romanziere che scrive in francese, non italiano.
Muore a settant’anni nel 1324.

Da leggere l’articolo di Giorgio Sica, Marco Polo incontra l’Altro: modernità ed esotismo nel Milione in “Forum
Italicum”, 2014, n.3, pp, 327

C’è una dimensione di movimento in quest’opera. Polo ha vissuto uno spostamento fisico che lo portarono fino al Catai
e poi indietro. C’è una dimensione di realtà. Il viaggio viene raccontato a distanza di tempo in una situazione di
immobilità, a Rustichello da Pisa che lo trascrive, romanziere in carcere da 14 anni a causa della battaglia navale della
Melòria al largo di Livorno nel 1284. A questo scrittore Polo detta i fatti reali che ha vissuto.
Si accavallano quindi diversi punti di vista, quello di Marco che effettivamente vissuto il viaggio, e del trascrittore, di
cui non sappiamo se ha (e quanto) effettivamente manipolato il testo. C’è chi sostiene che bisognerebbe aggiungere il
nome di Rustichello all’opera, anche se lui dice di averla solo trascritta.

L’autografo in antico francese di Rustichello è perduto: dell’opera sopravvivono solo copie posteriori, che pian piano si
diffusero in tutte Europa. Il manoscritto originale è perduto. Esiste una copia sopravvissuta in francese dei primi del
‘300, alla biblioteca nazionale di Parigi, ma è lacunosa, e quella in volgarizzamento toscano (l’Ottimo) in volgare
toscano, alla Nazionale di Firenze, su cui ci baseremo per leggere il testo, tutti gli scrittori italiani leggeranno, punto di
riferimento per la narrativa.

I paradigmi di riferimento sul viaggio del Milione:


hanno nella mente certi paradigmi di viaggio narrativi precedenti, che sono il racconto biblico, i viaggi classici
greci e latini, il viaggio cristiano, le Aventure (“ventura”) e la Quete (cavalleresca).

Il racconto biblico, dove Dio determina i viaggi e gli spostamenti, Dio ha un ruolo di guida. Il viaggio non appartiene a
questa categoria. È un viaggio che nasce dall’uomo.
I viaggi come quelli classici con elementi favolistici si avvicinano di più all’opera, qui il viaggio si presenta come
punizione divina (lunga e dolorosa erranza di Ulisse voluta da Poseidone) e troviamo contenuti favolosi “racconti di
Alcinoo”.
Il viaggio cristiano, assolutamente lontano dal Milione, anche se hanno il bene placido del Papa Gregorio X, ma non si
può ricondurre a viaggi cristiani.
Quello avventuriero che vede eroismo cavalleresco (la “prova” del cavaliere), il viaggio aristocratico, amor cortese (min
1.12).

Racconta le missioni diplomatiche:


A noi non interessa la veridicità del racconto, ma il modo in cui Polo racconta i popoli e il suo insediamento. Racconta
l’incontro con l’altro extra europeo, dominato da una sconfessione del meraviglioso c’è un certo razionalismo, cerca di
basarsi solo su cose osservate con i propri occhi, oppure raccolte dalla testimonianza di persone fidate. Ci tiene a
sottolineare che tutto quello che contiene Il Milione è frutto di fonte diretta.

Stupisce la perfetta omogenizzazione di Polo alle strutture sociali e culturali che si trova davanti.
Mantiene la sua cultura di uomo cristiano medievale, ma lui si omogenizza alla cultura che si trova davanti. Si fa
tartaro. Si adegua alle abitudini dei tartari e diventa fiduciario, un uomo di corte di Kubilai. Non si inserisce come corpo
estraneo. Cosa incredibile data la situazione, lui uomo cristiano del tardo medioevo che viveva nell’Europa cristiana del
‘200.
Gran Khan descritto da Polo come caritatevole (principale virtù cristiana), uomo di fiducia. Mette in luce la tolleranza
dell’ospitato nel riconoscere la funzione civilizzatrice del Gran Khan, e mostra la tolleranza dell’ospitante, Polo viene
considerato quasi un suo pari, dandogli l’incarico di primo ambasciatore, capo degli altri ambasciatori dell’impero
mongolo. Quindi un imperatore mongolo che consegna un ruolo fondamentale a un uomo cristiano.
Viaggio laico. (min 1.20)
I religiosi hanno paura, solitamente vengono protetti dai templari che proteggono i pellegrini in Terra Santa, loro hanno
paura di andare oltre. I Polo e i mercanti invece continuano ad esplorare.

Il Milione, vediamo l’Ottimo, quindi la versione in toscano del Milione

Prologo:
Riferimento a re, duci etc. ma anche a cui vuole scoprire delle genti che vivono ad est.
C’è sempre molta onestà intellettuale nel testo, Polo dice sempre se vede qualcosa effettivamente o se scopre
qualcosa tramite qualcun altro, per sentito dire.
Saracino=musulmano.
(min 1.30)
Scoprono che il legato papalo ad Acri è stato eletto Papa Gregorio X che darà lasciapassare ai tre viaggiatori, e gli
forniscono due teologi per spiegare la religione cristiana dai tartari.

10 lezione 14/10/2019

Del manoscritto Il Milione ci restano solo delle copie.

Cap. I:
Ci sono diverse genti e diversità. Rustichello da Pisa considera il libro come un’opera in quattro mani, e come un libro
veritiero anche se è difficile da crederlo. Si cerca di ingigantire il ruolo di Polo. Gli antefatti del viaggio: sono
famigliari, il padre Nicolò e lo zio erano mercanti che si presume vendessero quantità diverse di merci, molti prodotti e
non in un unico campo. Kubilai Khan gli accoglie con amicizia, a un certo punto gli investe di una missione
diplomatico religiosa, cerca di avere una relazione di saggi teologi (100 o 6?) per introdurre il cristianesimo nelle sue
terre. Nel cap. VII spiega come Kubilai li manda in una missione diplomatico-religiosa. I latini erano gli occidentali in
questo contesto. Vuole mandare dei messaggeri al Papa (Clemente IV) e i fratelli risposero volentieri. Questa
spedizione dal Catai che cerca teologi da portare in Oriente (min 9). Erano stati concessi dei lasciapassare. L’intento di
Kubilai era di mostrare ai pagani, i non cristiani o i non musulmani, non buddisti, idolatri, tutti insieme, spera che gli
uomini sapienti potessero convertire questi idolatri. Impronta demonizzante lasciata poi sullo sfondo. Che mostrassero
come la cristiana legge sia la migliore. Chiede ai fratelli di portargli l’olio santo, una reliquia cristiana dal Santo
Sepolcro. In Occidente nel 1269 il Papa morì, i conclave erano lunghi, c’erano lotte interne per eleggere un successore,
questo nel 1271 si conclude con l’elezione di Gregorio VII. I fratelli dicono di tornare in Oriente senza la visita al Papa.
Ma in Turchia, a Laias, scoprono che (min 13) è stato eletto, lo raggiungono ad Acri, passo del cap. XII, c’è una
dichiarazione da parte del narratore di esaltare la laicità assoluta del viaggio. Il Papa non può mandare 100 savi, ma ne
manda 2, Nicolao da Venegia, Venezia, e Frate Guglielmo da Tripoli, e tornano ad Acri (min 15) e abbandona la
spedizione. Siamo nel 1271. I due fratelli ad Acri, e i templari che difendevano i pellegrini in Terra Santa, il Papa
manda questi due grandi teologi. (min 17) I frati tornarono dal capo dei templari per ricevere protezione. Hanno paura
delle truppe del sultano di Babilonia.!!!!!!!
Il viaggio qui viene laicizzato, i mercanti diventano i padroni del mondo, i veri viaggiatori, legittimati ad andare o più
oltra, come se fossero colonne d’Ercole. Non accettano di andarci questi due frati. Per alcuni aspetti è un’opera
anticlericale, spinta laicizzante presente anche nella Commedia. I mercanti sono gli unici che hanno il mondo in mano.
I mercanti vanno più oltre, nel ‘300 diventano la classe dominante della cultura. Boccaccio appartiene all’ambiente
mercantile del commercio, il Decameron anche è pieno di mercanti, che hanno un posto di estremo rilievo nella
comunità.
È importante vedere come il Gran Khan già dai primi incontri si muove sulla fiducia accordata al personaggio di Polo. È
accolto come un figlio, il quale lo investe dei più alti incarichi di ambasceria. Non lo tratta come pericoloso, (versione
di Marco Polo, a noi interessa quello che il testo dice per quello che rappresenta l’incontro con gli altri, non la verità
storica). Lo considera quasi come un famigliare. Lo tratta come un tartaro, farà propri gli abiti/usi dei tartari.

Cap. XIII parla di come i fratelli arrivano a Chemeinfu, città di Samadu, Giandu, reggia estiva in Mongolia, a 300 km
da Pechino, (trovati recentemente i resti), dove c’era la reggia mobile, costruita con tende, elementi estemporanei.
Reggia straordinaria, descritta minuziosamente, dove stava il re con la corte.

Tutto il viaggio viene raccontato dopo, prima si arriva all’incontro con il Gran Khan, prima il viaggio in Turchia etc. Si
arriva parlandone poi con una specie di flashback. Arrivano nel 1274, all’incontro, in tre anni. Subito Polo ci dice che il
Gran Khan gli manda incontro per 40 giornate di cammino, degli emissari, il massimo rispetto che ci si può aspettare.
Arrivarono al palazzo reale i fratelli e Marco. Il Gran Khan chiede chi è il giovane, il padre dice che è un suo uomo (del
Khan), ma anche il mio figliuolo. Vengono onorati più di qualunque altro barone. I tartari in Occidente venivano
considerati figli del demonio.

Cap. XV come Khan mandò Marco come suo ambasciatore.

Si cerca di delineare in poche righe i fatti, non c’è una volontà narrativa complessa.
Marco, uomo giovane, stando nella corte mongola, imparò i costumi dei tartari e li praticò, seguì costumi, lingue, lettere
tartare. Divenne un uomo savio di grande valore, consigliere di corte. Quando Khan vide il suo valore, lo mandò per suo
messaggio a una regione, il Karazan, nello Yunnan, che mette alla prova per la prima volta Marco. Il Khan si lamenta
degli altri ambasciatori perché riporta solo notizie delle ambasciate. Vuole le notizie etnografiche/economiche delle
altre zone. Marco gli portò altre informazioni, date anche da altri ambasciatori che stavano tornando da altre zone.
Folle viene detto molte volte, non riportare al proprio signore informazioni dettagliate. Importante è conoscere altri
costumi di altre terre. Abbiamo il sovrano di un’altra terra, che rende ambasciatore un veneziano che quindi appartiene
ad un’altra cultura, e questo mercante viene eletto quasi come un braccio destro perché ha la capacità di vedere
particolari del mondo che visita che altri professionisti, non riescono a vedere.

Anche Calvino nelle “Città invisibili” porrà l’accento su questa virtù, la capacità di ridire le caratteristiche di altre zone
al suo sovrano, cosa già presente ne Il Milione.

I resoconti nel testo sono diversi, di molti tipi, alcuni sono funzionali al commercio, parla delle oasi presso cui rifornirsi,
dei mercati, della composizione sociale delle regioni che attraversa, delle monete, ma altri resoconti dove scende su un
discorso culturale, raffigurazioni dei popoli che incontra:

alcuni esempi di resoconti spedizionieri, es. cap. XX come itinerario per i mercanti occidentali che vengono in Oriente.
Parla della provincia di Turcomannia, Turchia: tre generazioni di genti:
-turchi, islamici, adorano Maometto, fanno lavori duri, sozzo linguaggio, complicato, per lo più allevatori, nelle zone
difficili come quelle montagnose. Si commerciano cavalli o prodotti del bestiame;
-Greci e armini vivono di commercio e artigianato, vivono in ville, sono sottoposti al Gran Khan;
-Commercianti di merci pregiate

Cap XXXVII come si cavalca per il deserto.

490 km di estensione nel deserto di Creman (Iran). Bisogna portarsi l’acqua perché quella che si trova provoca
dissenteria. Non si può sperare di cacciare perché non c’è nessuna forma di vita. Alla fine del deserto si trova la città di
Gobian.

Molti resoconti sono così, brevi, parlano di cosa si trova, cosa serve portarsi dietro etc.
Spesso ha un occhio sul quale Polo filtra l’occhio in Oriente, è un occhio dal taglio scientifico, cerca di vedere la realtà,
di sfatare alcuni miti e di riportarli alla loro dimensione reale. Siamo 300 anni prima di Bacone e Galileo. Ha una
visione scientifica-naturalistica della realtà.
[Articolo sul forum italicum]
Mostra che i panni di amianto sono fatti da fili estratti da amianto delle miniere, non di pelle di salamandra magica.

Cap. 59 Chingitalas, vede le miniere.

Territorio Turkhestein a nord est della Cina, esteso sei giornate, ha tre generazioni di genti:
-idoli, idolatri;
-islamici, quelli che adorano Maometto;
-cristiani nestoriani, che ritengono che Cristo sia un umano invasato momentaneamente dal divino.

Diversità religiosa trovata in Oriente da Marco, non presente in Occidente allo stesso modo.

Si fa il panno di salamandra (per Occidente) che è in realtà di amianto.


Nessun animale può vivere nel fuoco. Sono tutte fantasie reali.
Sucide (sudice, nell’italiano del ‘300 spesso si invertono le consonanti).
Si crede che Khan inviò un panno del genere al Papa per la Sindone.

Cap. 162 a Lava, Isola di Sumatra


Forse non fece tutti questi viaggi, alcuni forse gli furono raccontati.
Racconta dei rinoceronti, quasi estinto oggi. Che Polo descrive e vede la realizzazione della leggenda dell’unicorno.
Forse gli occidentali modificarono l’immagine di un rinoceronte per un cavallo leggiadro e meraviglioso. Fu una
deformazione, forse per la mancata osservazione dell’animale, ha visto la trasformazione del rinoceronte. Ci sono
elefanti e rinoceronti. La lingua è pericolosa e tagliente, testa come quella del cinghiale, sta tra i buoi, non è un unicorno
che si lascia prendere da una fanciulla, serve un uomo possente.
L’unicorno non esiste. Questa è una laida bestia.
Questo è un esempio di disfatta dell’immaginario immaginifico. Questo è un caso concreto, precedente a Colombo che
mette in soffitta la leggenda dell’unicorno che in realtà è una bestia che vive in natura. Il mito viene cancellato e si
sostituisce alla natura e alla realtà.
Si comprende che esiste la mistificazione e la realtà.

C’erano dei corpi che giravano nei mercati europei che avevano le sembianze di piccoli uomini, ma che in realtà è una
specie di scimmia molto piccola dalle sembianze umane. Si diceva che venivano dall’India, ma questi omuncoli in
realtà sono prodotti nell’isola di Sumatra. Gli uomini pelano le scimmie, le lasciano seccare e le conciano con zafferano
etc. per dare delle sembianze umane.
Ci sono diversi resoconti, e Polo cerca di sfatare i pregiudizi e i miti occidentali verso l’Oriente.

Mostra la lealtà, pudicizia, dei popoli tartari, fatto senza precedenti nella cultura italiana. Dimostra come i tartari
abbiano valori anche se di diversa origine culturale, simili a quelli degli occidentali.

Cap. 103 carità del Signore!!! Di Khan, ma è un passo importante usare questi attributi cristologici che rimandano alla
figura di Cristo.
Kublai ha la più alta virtù secondo i cristiani. Fa carità al popolo mongolo, cittadini di diritto, ma anche a tutti i poveri
che stanno a Pechino, Canbalu.
Le famiglie anche di 6/8 persone fa dare grano e altri cereali a tutte le famiglie. Il pane del signore (grano) non è vietato
a chiunque ne faccia domanda. Kubilai è un sacerdote quasi che dispensa il pane a chi ne fa richiesta. Più di 30.000
poveri richiedono il pane ogni giorno e gli viene concesso.
È un segno di amore del popolo, che lo adora come un Dio. Questo ci avvicina al cristianesimo, aggettivo concesso ad
un tartaro, cosa incredibile.

Cap. 69
I tartari hanno una grande capacità di rispettare gli dei e le famiglie, al pari degli antichi romani che portavano grande
fedeltà allo stato. Devozione Stato/famiglia/religione, virtù fond. dei latini.
Virtù che protegge la terra. La famiglia del Dio Khan viene riprodotta in tessuti (min 1.10).
Prima di mangiare ungono i fantocci con il grasso della carne. Cospargono la casa dove si trova (min 1.13)
Continua parlando delle vesti dei tartari, delle pelli, pellicce, armi. Sono buoni arcieri. Sono valenti, hanno grande
capacità di resistenza. Durante le campagne militari possono stare un mese senza cibo, salvo che per il latte di giumenta
o le poche cacciagioni che riescono a recuperare. Sono ubbidienti. Rudi, resistenti, come i soldati romani (sembra un
riferimento a questi).
[forse le persone sono state incitate ad andare in Occidente grazie a queste descrizioni positive].
Costumi militari: precisi.
Abbiamo un’immagine di estrema obbedienza, virtù cavalleresca del vassallo dell’Europa medievale. Questi arcieri
dell’esercito di Kublai hanno virtù cavalleresche. Non sono senza un ordine interno, non sono dei felloni/fedrifagi.
Nel testo di Ciccuto che ha come base l’Ottimo, usa a volte dei tratti diversi, di altre redazioni che contengono passi che
l’Ottimo non contiene. Quindi completa Il Milione.
Descrive le donne di una regione del Catai, sono rispettose, oneste, pudiche, vanno oltre i modi che si addicono al loro
ruolo femminile. Non esercitano l’occhio di osservazione, o si mostrano. Non frequentano feste o sollazzi. Le uniche
uscite concesse sono per andare al tempio, le accompagnano le madri, occhi fissi sui piedi. Non parlano mai se non
richieste.
Interessante che voglia renderle omologhe alle donne europee. Polo osserva tutto con l’occhio di cristiano medievale e
cerca di vedere le virtù europee nelle persone d’Oriente [COME FACEVA COLOMBO CON I PRIMI NATIVI
INCONTRATI, VEDI TODOROV]

Cap. 173 della provincia di Lar

Incontra i bramani, la casta sacerdotale linguista. Parla del luogo, in territorio indiano. La loro professione è di mercanti
come lui, e sono i migliori a farlo. Persone estremamente leali, non mangiano carne, non bevono vino (né non= né, nel
volgare del ‘300) sono persone molto oneste, non sono spergiuri, fedeli, monogami, non ucciderebbero animali, non
farebbero niente che porterebbe al peccato. Concetto molto forte del peccato. Polo usa questa terminologia per
descrivere altre realtà. Loro comunque hanno un concetto così alto dello sbaglio che non farebbero niente che li porti al
peccato. Mabar (Mavar), la migliore provincia dell’India. Sono idolatri, non islam e no cristianesimo, ma vengono
descritti in termini estremamente positivi. Si basano su uccelli e dalle bestie per trarre dei pronostici per la loro vita
quotidiana. Chi deve concludere una trattazione guarda l’ombra, che porta a concludere o a far saltare l’accordo. Cosa
non vista come una superstizione. E vista positivamante. Se entra una tarantola prima di concludere un affare, si
controlla da dove arriva questa per decidere se concludere o no. Anche lo starnuto viene preso in considerazione per
capire se un giorno è fausto o infausto. Viene descritto semplicemente, non vengono fatte denunce.

11 lezione 15/10/2019

Torniamo al capitolo 173


Il mondo è sempre visto con gli occhi del cristiano medievale, ma che si tenta di capire.
L’impero mongolo aveva lo stato centrale, il Catai, e poi altri stati a lui sottomessi. C’è un grande atteggiamento di
disponibilità verso le persone incontrate, spesso mercanti, vicini al ceto sociale produttivo al quale appartenevano Polo
e la sua famiglia.

I bramani sono astenenti, dal cibo, dal vino, si contenevano nei piaceri. I bregomanni quindi sono più sani e vivono più
a lungo. All’interno del loro gruppo c’è chi segue una regola religiosa astrittiva, ancora più dediti all’ascetismo e quindi
sono ancora più sani. Questi regalati (regolati) mangiano più riso e latte. Sono idolatri, venerano il bue e portano come
monile sulla fronte. Alcuni di loro vivono nudi, per vivere in una perpetua penitenza (crede Polo) senza coprire la loro
natura.

La nudità con altri popoli rimane uno scoglio insuperabile nel rapporto con l’altro. Anche con i nativi americani resterà
un problema di comprensione enorme.

La nudità va compresa. Vediamo l’ungersi il corpo con la polvere delle ossa del bue (forse in realtà sono gli escrementi
del bue che vengono essiccati), dato che l’animale era sacro, aveva senso. Questo gesto di ungersi, è paragonabile
all’acqua santa dei cristiani. Non c’è un giudizio di valore esposto, non c’è una scala fra i comportamenti. Vengono solo
descritti. Non mangiano con i piatti ma su foglie, solo secche perché quelle verdi dicono che sono vive, e sarebbe
peccato. E vogliono evitare il peccato. Dicono che sono nudi perché è così che sono venuti al mondo e così non
sentiamo peccato. Voi peccate con i vostri corpi e ne avete vergogna, quindi voi coprite i vostri corpi, (vediamo un
senso di superiorità). Non ucciderebbero nessun animale, neanche gli insetti. Sono molto vicini agli asceti. Bruciano i
corpi dei cadaveri perché non vogliono che nascano vermi che poi morirebbero nel momento in cui il cadavere
viene del tutto consumato. [MA CHE CARINIIII].
Stimati i tartari dal punto di vista della tecnologia. Non è un popolo barbaro o inferiore dal punto di vista tecnologico.
Sono anzi più avanzati per certi aspetti, come sull’uso del carbon fossile.

Cap. 95 moneta del Gran Khan.

È estasiato Marco, parla della Zecca dello Stato del Khan. Dal gelso prendono la parte filamentosa fra la corteggia e il
tronco, da cui estraggono la carta, con cui poi vengono prodotte delle monete, tutte nere. Descrive il valore delle diverse
monete. Ci sono monete che hanno valori corrispondenti a monete di metallo occidentali. Tutte sono suggellate dal
simbolo del sire. Costretti tutti i popoli dell’impero a usare la carta monete, invece delle monete che contengono il loro
valore nel loro interno, perché prodotte con diverse leghe preziose o meno.
Questa forma di commercio per Polo è inconcepibile, anche per i sudditi del Khan, che vuole eliminare l’uso delle
monete di metallo e far usare solo l’uso della carta moneta. Questo poi si svilupperà anche in Occidente.
Cap 101. Carbon fossile (pietre che ardono).

Il legno ha un dispendio molto più alto del carbone, molto più dispendioso il suo uso. Qui Polo scopre un nuovo modo
di fare calore. Oggi non facciamo caso a questi sussidi tecnologici che abbiamo in casa, nel Medioevo portare il calore
in casa non era scontato. Sono nuove forme di energia.
Nel Catai vediamo l’uso del carbone, usano anche il legno ma in minore importanza.

È un popolo che ha un grande avanzamento tecnologico, che può farci da maestro. Non di infedeli, crudele, come
veniva descritto precedentemente. C’è la possibilità di un miglioramento di se stessi e della propria vita.

Colpisce l’uso della sospensione del giudizio nella descrizione dell’altro, descrive il più possibile senza inserire giudizi
morali/etici dal suo punto di vista eurocentrico, cosa che vediamo in tutta l’opera. Si mantiene super partes, è un
descrittivismo oggettivo.

Cap. 69 vediamo la possibilità nel mondo tartaro di combinare matrimoni fra famiglie che avevano entrambe dei
fanciulli morti. Fenomeno descritto come tradizione, senza aggiungere giudizi morali. Descrive i mores, i costumi.

Un uomo ha un fanciullo morto, quando arriva il momento in cui il fanciullo avrebbe potuto sposarsi, cerca una
fanciulla. Fanno delle carte, le bruciano, così la carta arriva all’altro mondo. Il fumo quindi arriva a loro e le anime di
questi due figliuoli morti capiscono di essere marito e moglie nell’aldilà. Versano fiumi di vino per festeggiare questi
matrimoni nell’aldilà, e questo sollazzo arriva fino a questi fanciulli. Tutto il corredo matrimoniale viene bruciato e così
raggiungerà i fanciulli.
Vediamo un’usanza lontanissima dal matrimonio cristiano, ma resta l’idea del matrimonio così indissolubile che arriva
fino all’aldilà, ma resta comunque inconcepibile al tempo per un occidentale.

Polo userà un idolo per ritrovare un anello, che riuscirà anche a ritrovarlo, senza però ringraziare l’idolo per averlo
ritrovato. Quindi sfrutta l’usanza rituale, ma poi mantiene la cautela non ringraziandolo.
Ci sono dei residui di demonizzazione, non tutto è oro in Oriente. Sono rari ma ci sono:

Es. a fronte di passi sulla natura e sulla fauna che Polo incontra, cercando di sfatare in miti occidentali, a volte cade
nella tetralogia, nella descrizione di un Oriente fatto di mostri.

Cap. 165 a Sumatra parla di uomini che hanno la coda, che vivono nelle montagne.

Lanbri è un reame del Khan. È un territorio molto ricco, Polo cerca di portare con sé dei semi dall’Oriente ma i semi
non attecchirono a Venezia, territorio non adatto e troppo freddo per questi semi, come i berci.

Hanno la coda grande più di un palmo, forse si riferisce agli oranghi (=uomini della foresta). Resta l’ambiguità della
natura di questi mostri.

Cap. 167 Isole Andamane

Parla di persone con la testa di cane, popolo leggendario che nella letteratura occidentale segue una tradizione molto
antica. Nelle isole non hanno stato, vivono allo stato brado, quasi non organizzati in società. Sono cinocefali, con il
muso come i mastini. Mangiano tutte le persone che possono. Racconto che si sovrappone al tema dell’antropofagia,
specialmente gli ospiti, quelli che vengono catturati. Poi parlerà di Ceylon (Sri Lanka).
Questo è un caso raro che occupa poche righe.

Un caso unico di descrizione di arti negromantiche da parte degli orientali. I tartari, considerati prodotti dall’inferno
(tartarus) hanno i negromanti. Questa dimensione è pressoché assente, se non nella reggia estiva del Khan. In
riferimento ai Tebot, i monaci tibetani, che secondo Polo praticano la negromanzia, l’arte della magia nera. Ci sono dei
maghi che fanno in modo che il mal tempo venga allontanato dal palazzo reale. Fanno credere che i loro prodigi
vengano per la loro santità ma in realtà è grazie all’appoggio dei diavoli. Quando qualcuno muore giustiziato, mangiano
i loro corpi, appunto morti per giustizia regia.

Quando si parla di demonizzazione dell’altro, di solito si arriva a parlare subito di antropofagia.

Si dice che riescono a muovere le coppe piene di vino e latte che si trovano dall’altro capo della sala. Questa è verità,
grazie all’arte della negromanzia.

Nel Decameron viene perfino rivalutata questa arte, ma nel Milione no.
Vediamo altri temi.

Giovanni Boccaccio (1313-1375), scrisse il Decameron (1348-1351)

Rappresentazione completa che integra buono/cattivo, punto di svolta per il viaggiare, spostarsi, con un concetto che
descrive la fortuna, l’uomo di fronte ai casi della vita, come reagisce davanti ai casi fortuiti che potrebbero essere
causati da Dio, ma resta la questione aperta.
L’uomo rinascimentale che cerca di costruirsi da solo un posto nel mondo, troviamo l’idea sbozzata nel Decameron.

L’opera si inserisce nella letteratura del ‘300, secolo che la nostra letteratura è dominata dalle tre corone fiorentine, i
modelli massimi della letteratura in volgare, in modi diversi.

-Dante Alighieri con la Divina Commedia, capo della poesia narrativa (min 56); Poesia narrativa

-Francesco Petrarca con il Canzoniere o Rerum volgarium fragmenta (1336 ca.-1374) (frammenti della poesia
volgare), ha reso disponibile in volgare il concetto di (min 57), c’è anche nel Canzoniere un disegno narrativo ma che
avviene con frammenti sparsi, dall’amore per Laura e continuando poi con la sua morte nel 1348 per via della peste che
cominciava ad espandersi in tutta Europa, descrivendo i sentimenti attraverso 366 componimenti (min 59); poesia lirica

-Giovanni Boccaccio con il Decameron (1348-1351 ca.). Novellistica

Boccaccio ha una cultura che è interessante da considerare, figlio di un mercante, Boccaccino, visse così in un ambiente
sempre mercantile e finanziario. Questo porta ad una conoscenza più sviluppata, una cultura più ampia. Nella vita di
corte in Francia riuscì a fare propria la letteratura cortese, novellistica, antica etc. Da questa formazione napoletana
nasce l’amore per la narrativa che parla di uomini, dei loro sentimenti anche avventurosi, nasce il concetto di peripezia,
di vita/avventura come continuo rovesciamento dei fatti, non una vita stabile ma in continuo movimento, i personaggi
sono presi in mille avventure, in mille occasioni diverse che li portano in giro per il Mediterraneo, in vicende che sono
vere peripezie.

Boccaccio importante per la raccolta di novelle con la cornice esterna che è il Decameron, troviamo prima un’altra
raccolta di novelle estremamente brevi. Nel Decameron troviamo novelle molto più lunghe. Nel novellino non c’è la
mente di un narratore che le legittimi.

Nel periodo presso la corte degli Angiò, inventò il romanzo in lingua volgare, il filocono, due giovani che si amano, lei
portata come schiava in oriente, romanzo molto lungo in volgare, il primo esempio assoluto in Italia, e poi inventò il
poema cavalleresco, il filostato, dedicato al ciclo troiano, e t in ottava rima, prima sei a rima alternata AB AB (min
1.07).

Tutte le novelle del Boccaccio possono essere inserite (specie nella seconda giornata dedicata ai viaggi) nel viaggio di
tipo utilitaristico, o dovuto a uno stato di necessità, con scopi pratici, legati al commercio, oppure per fuga, di due
amanti. Non ci sono viaggi dedicati alla pura conoscenza, della natura o quant’altro, sono tutti viaggi con scopi pratici.

Questo non impedisce a Boccaccio di toccare due punti nuovi: (che vale per la letteratura europea, l’influsso che
Boccaccio ha avuto è immenso al pari di quello di Dante e Petrarca).

Elementi di svolta legati al tema del viaggio:

-L’uomo diventa protagonista unico e assoluto, solo con se stesso, l’elemento trascendente non compare quasi mai.
Spicca la capacità del singolo di autodeterminarsi. Qui vediamo il concetto di home faber fortunae suae, l’uomo deve
essere attivo, fabbro del suo destino, quello che gli capita, deve essere lui stesso a correggere quello che gli capita a suo
vantaggio.

-Il viaggio ha sempre un esito inaspettato, è sempre un viaggio imprevedibile, non c’è una retta via, ma una molteplicità
di strade possibili, non c’è una sola rotta da seguire ma una molteplicità di rotte. Stabilire quella giusta è sempre più
difficile.

Ci sono dei momenti in cui Boccaccio spiega le sue ragioni di scrittore, nel prologo dedica la sua opera alle donne,
vittime del peccato, in una condizione disagiata e meritano l’attenzione e di essere intrattenute con le novelle del
Decameron, perché vivono per lo più rinchiuse nell’ambito della famiglia.
Boccaccio risponde alle accuse mosse alle tre giornate precedenti (quindi una parte dell’opera forse è stata pubblicata
prima della conclusione dell’opera), dice che l’amore è una forza naturale che va seguito. Un’ultima finestra per
spiegare le sue ragioni di scrittura e le motivazioni della scrittura del Decameron, dice “Confesso nondimeno le cose di
questo mondo non avere stabilità alcuna ma sempre essere in mutamento. Questo porta a una rivalutazione dei valori
dell’uomo, della sua realtà. C’è una nuova impostazione al valore morale.

Siamo nel Tardo Medioevo, si potrebbe pensare che uno scrittore eviti certi argomenti, come i temi legati alla sessualità,
che invece hanno grande spazio nelle novelle del Decameron. Boccaccio ripensa completamente questa idea.

“L’arte fa male se è già malvagio chi la fruisce” (chi la consuma). Quindi non è malvagio parlare di certi
comportamenti o di atti di malvagità, ci sono infatti omicidi nelle novelle. Non fa male parlarne, fa male solo se chi
legge è malvagio.

Alcune donne porgeranno delle critiche, Boccaccio ammette il troppo ardine nell’espressione dei contenuti, dice che
forse non doveva essere così esplicito. Si difende dicendo che se non avesse usato quello stile, non avrebbe potuto
raccontarle in altro modo. Dice che al contenuto va correlato il contenente, ricordando che l’arte va dietro al contenuto
che vuole esprimere.
Altri autori diranno che di tutto si può parlare ma con le parole corrette ed eleganti.
Boccaccio dice che anche l’espressione linguistica è triviale.
Boccaccio fu forse il primo dantista, dedicherà anche delle esposizioni, e da lui prenderà l’idea che al contenuto va
seguita un’adeguata forma.
Gli argomenti nuocciono (min 1.24)
Il vino fa male ai febbricitante, ma non è male il vino in se.
Le opere d’arte non possono contaminare le menti di persone che hanno una loro dirittura morale.
Le parole più degne sono quelle della sacra scrittura eppure lettori perversi le hanno portate a perdizione. Parla degli
effetti nefandi che può avere la scrittura se nelle mani sbagliate. Ciascuna cosa è buona ma cattiva se male adoperata.
Così dico delle mie novelle.
Gli argomenti trattati prevedono questo tipo di scrittura, ma poi oltretutto le parole cambiano a seconda di chi le riceve.

12 lezione 16/10/2019

Decameron:
La poesia narrativa racconta/descrive storie/vicende, porta sulla scena personaggi/fatti anche diretti.
Poesia lirica: l’io esprime il suo mondo interiore.
Nel ‘300 abbiamo due fondatori, Dante e Petrarca e poi avremo Boccaccio con la narrativa.

I viaggi del Decameron si possono tutti inserire in un tipo di viaggio antico di esplorazione, viaggio utilitaristico, non
sentimentale o intimo. Hanno delle caratteristiche nuove e innovative, specie con il rapporto uomo-mondo. Boccaccio
introduce diversi elementi di svolta nella storia del viaggio in letteratura:
-centralità dell’uomo, protagonista assoluto degli eventi, dell’evento viaggio, tema comunque estremamente corrente.
Sembra contrastare con la cultura medievale, perché Boccaccio ce la mostra come un’epoca di spostamenti, non una
società statica, forse per la sua presenza nella mercanzia, e nella nuova società che è quella borghese. Il mondo sta
cambiando e le scacchiere sociali si spostano. Chi ha capacità di muoversi in autonomia, diventa la pedina vincente. Il
mercante diventa la figura più importante, come es. nel Milione.
È importante notare come in Boccaccio l’uomo è attivo, non è vittima degli eventi ma ne è protagonista, si fa artefice
del suo destino e della sua posizione nel mondo.
-inaspettato: gli eventi hanno sempre qualcosa di inaspettato e irrazionale, hanno una molteplicità di strade possibili.
Peripezie impreviste, niente di sicuro.

Boccaccio pone l’uomo di fronte al molteplice. Vedi lezione precedente “Confesso nondimeno le cose di questo
mondo non avere stabilità alcuna ma sempre essere in mutamento”:

Giovanni Boccaccio (1313-1375), Decameron, Conclusione dell’autore:


 
[…]
Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenzia usata, sì
come in fare alcuna volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né a ascoltare a
oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sì disonesta n’è, che, con onesti vocaboli dicendola, si disdica a
alcuno: il che qui mi pare assai convenevolmente bene aver fatto.
Ma presuppognamo che così sia, ché non intendo di piatir con voi, che mi vincereste. Dico a rispondere perché io
abbia ciò fatto assai ragion vengon prontissime. Primieramente se alcuna cosa in alcuna n’è, la qualità delle novelle
l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fian riguardate, assai aperto sarà
conosciuto, se io quelle della lor forma trar non avessi voluto, altramenti raccontar non poterlo. […]
Le quali [novelle], chenti che elle si sieno, e nuocere e giovar possono, sì come possono tutte l’altre cose, avendo
riguardo all’ascoltatore. Chi non sa ch’è il vino ottima cosa a’ viventi […] e a colui che ha la febbre è nocivo? direm
noi, per ciò che nuoce a’ febricitanti, che sia malvagio? Chi non sa che il fuoco è utilissimo, anzi necessario a’
mortali? direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le città, che sia malvagio? L’arme similmente la salute
difendon di coloro che pacificamente di viver disiderano, e anche uccidon gli uomini molte volte, non per malizia di
loro, ma di coloro che malvagiamente l’adoperano.
Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola: e così come le oneste a quella non giovano, così quelle che tanto
oneste non sono la ben disposta non posson contaminare, se non come il loto i solari raggi o le terrene brutture le
bellezze del cielo. Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più degne, più reverende che quelle della divina
Scrittura? E sì sono egli stati assai che, quelle perversamente intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto.
Ciascuna cosa in se medesima è buona a alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle
mie novelle. […]
Saranno similmente di quelle che diranno qui esserne alcune che, non essendoci, sarebbe stato assai meglio. […] Ma
se pur prosuppor si volesse che io fossi stato di quelle e lo ’nventore e lo scrittore, che non fui, dico che io non mi
vergognerei che tutte belle non fossero, per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia
bene e compiutamente; e Carlo Magno, che fu il primo facitor di paladini, non ne seppe tanti creare che esso di lor soli
potesse fare oste.
Conviene nella moltitudine delle cose diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in esso o
ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l’erbe migliori. […]
Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna ma sempre essere in mutamento
[…]

Pone una nuova idea di arte dal punto di vista letterario.

Dice che un artista vero, a tutto tondo, che vuole rappresentare la realtà e il mondo non può rappresentare solo gli
aspetti belli del mondo, ma anche quelli spiacevoli e non accettati dalla morale corrente.

Dirà che alcune novelle sarebbe stato meglio non metterle, perché troppo licenziose o anti-clericali, dove attacca le
istituzioni ecclesiastiche perché corrotte o piene di lussuria, ma è impossibile che nelle cose umane non sia mescolato il
bello con il brutto. Gli esseri umani non possono fare questo. Anche Carlo Magno che ha creato paladini intorno a se,
dovette tenere nel suo esercito persone di qualità inferiore e di natura meno eroica. È un dato di fatto [“conviene che sia
così”] che il mondo è fatto da cose belle e brutte. Su un campo bel coltivato può essere che ci siano erbe migliori ma
anche ortiche. Tutto questo va rappresentato dallo scrittore.
Dante nella Commedia si spinge meno oltre rispetto al Boccaccio. Solo nell’inferno parla dei peccati e dannati, nel resto
dell’opera il male viene quasi cancellato. Nel Decameron invece viene espresso il male molte volte. Non si dovrebbe
comunque fare un paragone nelle opere. Il Decameron è una rappresentazione caleidoscopica del mondo, dove il male e
il bene vengono entrambi rappresentati.

Poetica di Boccaccio nel Decameron:


-La forma deve seguire il contenuto: c’è un contenuto malvagio e deve avere una forma altrettanto brutta, che esprima
situazioni basse. Il contenuto quindi prevede che la forma si adegui ad esso.
La letteratura non fa bene o male in se per se.

-La letteratura giova o nuoce “avendo riguardo all’ascoltatore” (“Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola”)

-In letteratura non si può non rappresentare il brutto: (“Conviene nella moltitudine delle cose diverse qualità di cose
trovarsi”)

-Il principio alla base della realtà è il mutamento: (“Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità ma
sempre essere in mutamento”). (min 15)

Il termine “fortuna” (dal lat. fors, “cosa fortuito, sorte”, appare 113 volte nell’opera. Rappresenta la prima grande
riflessione nella letteratura al tempo.
Noi oggi parliamo di buona sorte, che le cose vanno bene ai nostri interessi etc.
Al tempo, aveva una connotazione più ampia, si parlava dei fatti che accadono del mondo, che si impongono al singolo,
a prescindere dalla sua volontà.

A un certo punto si comincia a parlare dei fatti che capitano agli uomini, nel mondo ci sono disparità evidenti, cambiano
in maniera rocambolesca, si comincia a ragionare ora su questo.
I fatti che accadono agli uomini, da dove provengono?
Dante parlando della fortuna a proposito degli avari nel cerchio IV, la fortuna è un angelo di Dio, un’inviata di Dio, fa
quello che vuole Dio. I ragionamenti provengono da lui. (Prospettiva medievale).
Machiavelli ha una prospettiva diversa. La fortuna non si sa se proviene da Dio, non è una forza a cui l’uomo deve
soggiacere senza possibilità di cambiamento. Solo una metà ha il potere la fortuna, l’altra abbiamo la capacità di
decidere noi il nostro destino. Il rapporto dell’uomo con i fatti quindi, nel tempo, cambia. Già Boccaccio crea un’idea
meno teocentrica e più antropocentrica.

Nel Canto VII, cerchio IV, Dante e Virgilio si trovano davanti agli avari, chi accumula troppo denaro e chi lo sperpera
troppo. Problema di dismisura nelle proprie pulsioni.

Dante, Inferno, VII, 67-96 (digressione sulla fortuna)


 
[…]
“Maestro mio”, diss’io, “or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
69 che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?”.
E quelli a me: “Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
72 Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
75 sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani 
78 ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
81 oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
84 che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
87 suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
90 sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
93 dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
96 volve sua spera e beata si gode.
[…]

Spingono dei massi molto pesanti con i corpi, si scontrano fra di loro, litigano, e ricominciano.
Di fronte agli avari prodighi, chi accumulò troppo nella vita, vuole sapere cosa accade (min 28).
Cosa è questa fortuna che ha ricchezze, onori, le cose che noi riteniamo essere degne?
Sembra ci sia una forza che ha il controllo degli eventi.
Vuole che prenda le ragioni che comunicherà a Dante come se lo stesse imboccando:
Dio creò i cieli, dando ad ognuno una gerarchia angelica, secondo la teologia di Dante sono gli angeli che danno moto
alle cose in natura seguendo gli ordini dati da Dio. Sono gli esecutori del divino. Dio modifica quindi la realtà attraverso
i suoi emissari (angeli).
Sulla terra, agisce l’angelo della Fortuna. Stabilì per le cose umane, una ministra generale e una condottiera, una forza
governatrice che cambiasse a tempo debito i beni del mondo. La ragione umana non si può difendere da queste
trasformazioni che esegue la fortuna. Il progetto della fortuna è impossibile da prevedere. (Diversamente per
Machiavelli che crede che si possa prevedere il ritorno di certi fenomeni, come difesa preventiva). Il vostro sapere
umano non può contrastarla in nessun modo. Amministra il cielo della terra come gli altri angeli amministrano i loro
cieli. Questa Fortuna non si deve biasimare, perché esegue il volere di Dio. Muove la terra e i fatti.

C’è un’idea di uomo nella storia e di Fortuna diversa nella Commedia. L’uomo è passivo che non può prevedere i fatti,
e deve rimanere sottomesso al suo volere senza contestarla. Contestarla è come bestemmiare, andare contro Dio.
Niccolò Machiavelli (1469-1527), scrisse Il principe (in latino de principatibus) nel 1513-1514

Si occupò di monarchi e repubblica, difficile capire dove si orienta nelle sue intenzioni.

Cap. XXV
 
E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da la
fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per
questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa
opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per le variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì,
fuora di ogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro.
Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della
metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assimiglio quella a uno di
questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte
terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte
ostare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare
provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro
non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove
non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta e’ sua impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla.
[…]
 

Nel 25esimo capitoletto (26 in tutto, in volgare), M. affronta il proprio tema della fortuna, tratta delle diverse
vicissitudini di diversi regni in Italia, ha conosciuto anche vivendoli tanti fatti che hanno cambiato i regni umani, e si
interroga sulla questione della fortuna, dei fatti che cambiano la vita dei singoli.

Ipotizza la capacità dell’uomo di opporsi ai fatti, e la chiama virtù, trasformare quello che capita in virtù. (min 43)

Dice che sa che ci sono delle opinioni che credono che le cose siano governate da Dio e gli uomini non possono opporvi
alcun rimedio.
Lui non dice che le cose umane sono mosse da Dio, dice che possono essere mosse dal mondo materiale o dalla divinità.
In quel caso non serve sforzasi, basta lasciarsi trascinare dalla corrente dei fatti. Opinione creduta un tempo, gli eserciti
stranieri sconquassano l’Italia, cercano di dividersi la conquista degli stati italiani. Machiavelli vede un mondo in
guerra. In questo periodo è più facile credere che la fortuna sia una forza inarrestabile. Anche lui vedendo quello che
succede in Italia inizia a dargli ragione. Giudica vero che essa sia arbitra della metà degli eventi che ci accadono.
Paragona la fortuna a un fiume in piena che distrugge le campagne. La fortuna quando imperversa è inarrestabile, ma in
tempo di tranquillità possiamo prendere delle precauzioni per evitarne gli effetti. Prevedere e prevenire solo se si studia
a fondo la natura umana, la storia e la società, per evitare gli errori del passato. La storia può insegnare a opporsi alla
mala fortuna.
Nel quotidiano chiunque può fare la stessa cosa, può prendere provvedimento, perché metà dei fatti umani sono in
potere suo. I fatti mostrano più il loro potere quando manca la virtù che riesca a schiacciarli e a prevederli.

È una posizione completamente diversa da quella di Dante.

L’uomo è comprimario, co-protagonista, i fatti e le sue scelte valgono quanto quelle decise dalla Fortuna.

Per Boccaccio si avvicina al termine “peripezia” (peripéteia, “fatto imprevisto”).


La fortuna regola in maniera imprevedibile i fatti umani ma l’uomo ha una buona capacità di opporsi,

La seconda giornata del Decameron è interamente dedicata a questo tema.


“Si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine”.
Landolfo Rufolo, decide di diventare oltre modo ricco, andando a commerciare nel mercato di Cipro, ricco di clienti
internazionali, portandosi dietro tutti i suoi prodotti. Quando vi arriva scopre che quello da lui portato c’è già una
grande quantità di merci e quindi deve svendere le sue merci. Si impoverisce, decide di diventare pirata. Alla fine
riuscirà a tornare a casa, evitando un naufragio, troverà una cassa piena di pietre preziose e tornerà a casa più ricco di
prima.

Novella sul Mediterraneo, tema quasi rimosso dalla cultura medievale, mare poco frequentato nella narrativa in questo
periodo, si aveva una grande paura del mare. Si evitava pure l’argomento. Veniva descritto in maniera pericolosa, luogo
di mostri e tempeste, che già nella Bibbia si trovano come il Levitano. La navigazione era molto pericolosa, si navigava
in estate. Era uno spauracchio. Invece molte novelle sono ambientate nel Mediterraneo.
Ma nel Boccaccio i navigatori sono coraggiosi, si spostano con disinvoltura. Il Mediterraneo diventa un grande teatro di
narrativa al pari della terra nel Decameron.
Non c’è presenza di mostri, ma è il mare degli uomini.
La presenza di molti cambiamenti di fronte, il viaggio viene visto come una girandola di eventi. Come cambia il vento,
cambiano gli eventi.
Descritti viaggi rapidissimi, quindi Boccaccio tende ad annullare il rapporto spazio-tempo, per portare i protagonisti
delle sue storie a muoversi rapidamente nel mondo.
Il mondo di Boccaccio è un mondo di rapidità. Ha capito che la narrativa del futuro sarà una narrativa di
rapidità, cerca di annullare gli spazi e distanze. Ci sono almeno 12 spostamenti importanti ma con brevissimi
connettivi. Pare anticipare la rapidità di Calvino.
Vediamo un’indecisione evidente nel Boccaccio sulla natura dei fatti (come in Machiavelli) e vediamo Landolfo che
riesce anche a dominare i fatti. Si rende protagonista dei fatti.

Dietro la fortuna di questa novella, c’è la fortuna come quella di Dante?

G. Boccaccio, Decameron, II, 4, Landolfo Rufolo


 
Landolfo Rufolo, impoverito, divien corsale e da’ genovesi preso rompe in mare e sopra una cassetta di gioie carissime
piena scampa; e in Gurfo ricevuto da una femina, ricco si torna a casa sua.

[…]
Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno
è una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di picciole città, di
giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. Tralle quali cittadette
n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe già uno il quale fu
ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di radoppiarla, venne
presso che fatto di perder con tutta quella se stesso.
Costui adunque, sì come usanza suole esser de’ mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo legno e quello
tutto, di suoi denari, caricò di varie mercatantie e andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle qualità medesime di
mercatantie che egli aveva portate, trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione non solamente gli convenne
far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via: laonde egli
fu vicino al disertarsi. E portando egli di questa cosa seco gravissima noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di
ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che là
onde ricco partito s’era povero non tornasse. E trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli
altri che della sua mercatantia avuti avea comperò un legnetto sottile da corseggiare e quello d’ogni cosa oportuna a
tal servigio armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo e massimamente sopra i turchi.
Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola che alla mercatantia stata non era. Egli, forse infra uno anno,
rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea
perduto ma di gran lunga quello aver raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore della perdita,
conoscendo che egli aveva assai, per non incappar nel secondo a se medesimo dimostrò quello che aveva, senza voler
più, dovergli bastare: e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia, non s’impacciò
d’investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli avea, dato de’ remi in acqua, si
mise al ritornare. E già nell’Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco, il quale non solamente era contrario
al suo cammino ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo picciolo legno non avrebbe bene potuto
comportare, in uno seno di mare, il quale una piccola isoletta faceva da quello vento coperto, si raccolse, quivi
proponendo d’aspettarlo migliore. Nel quale seno poco stante due gran cocche di genovesi, le quali venivano di
Costantinopoli, per fuggir quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero; le genti delle quali, veduto il
legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama conoscendol ricchissimo, sì come
uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci a doverlo aver si disposero. E messa in terra parte della lor gente con
balestra e bene armata, in parte la fecero andare che de’ legnetto neuna persona, se saettato esser non volea, poteva
discendere; e essi, fattisi tirare a’ paliscalmi e aiutati dal mare, s’accostarono al picciol legno di Landolfo e quello con
piccola fatica in picciolo spazio, con tutta la ciurma senza perderne uomo, ebbero a man salva: e fatto venire sopra
l’una delle lor cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono lui in un povero farsettino ritenendo.
Il dì seguente, mutatosi il vento, le cocche ver Ponente vegnendo fer vela e tutto quel dì prosperamente vennero al lor
viaggio; ma nel fare della sera si mise un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi divise le due cocche
l’una dall’altra. E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e povero Landolfo con
grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia percosse in una secca, e non altramenti che un vetro percosso a un
muro tutta s’aperse e si stritolò: di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo già il mare tutto pieno di
mercatantie che notavano e di casse e di tavole, come in così fatti casi suole avvenire, quantunque obscurissima notte
fosse e il mare grossissimo e gonfiato, notando quegli che notar sapevano, s’incominciarono a appiccare a quelle cose
che per ventura lor si paravan davanti.
Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di
volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, vedendola presta n’ebbe paura: e, come gli altri,
venutagli alle mani una tavola, a quella s’apiccò, se forse Idio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche
aiuto allo scampo suo; e a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua
e ora in là, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi egli da torno, niuna cosa altro che nuvoli e
mare vedea e una cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s’appressava,
temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse; e sempre che presso gli venia, quando potea
con mano, come che poca forza n’avesse, la lontanava. Ma come che il fatto s’andasse, adivenne che solutosi
subitamente nell’aere un groppo di vento e percosso nel mare sì grande in questa cassa diede e la cassa nella tavola
sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo lasciatala andò sotto l’onde e ritornò suso notando, più
da paura che da forza aiutato, e vide da sé molto dilungata la tavola: per che, temendo non potere a essa pervenire,
s’appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva,
con le braccia la reggeva diritta. E in questa maniera, gittato dal mare ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come
colui che non aveva che, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare,
dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente.
Il dì seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che ’l facesse, costui divenuto quasi una spugna, tenendo forte
con ammendune le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono quando
prendono alcuna cosa, pervenne al lito dell’isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli con la
rena e con l’acqua salsa lavava e facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna
forma, dubitando e gridando si trasse indietro. Questi non potea favellare e poco vedea, e per ciò niente le disse; ma
pur, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente guardando e vedendo
conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravisò la faccia e quello esser che era
s’immaginò. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare, che già era tranquillo, e per li capelli
presolo, con tutta la cassa il tirò in terra e quivi, con fatica le mani dalla cassa sviluppategli e quella posta in capo a
una sua figlioletta che con lei era, lui come un piccol fanciullo ne portò nella terra: e in una stufa messolo, tanto lo
stropicciò e con acqua calda lavò, che in lui ritornò lo smarrito calore e alquante delle perdute forze. E quando tempo
le parve trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconfortò, e alcun giorno come poté il meglio il tenne,
tanto che esso, le forze recuperate, conobbe là dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa
rendere, la qual salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura; e così fece.
Costui, che di cassa non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì
poco valere, che alcun dì non gli facesse le spese; e trovandola molto leggiera assai mancò della sua speranza.
Nondimeno, non essendo la buona femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse: e trovò in quella molte
preziose pietre e legate e sciolte, delle quali egli alquanto s’intendea: le quali veggendo e di gran valor conoscendole,
lodando Idio che ancora abbandonare non l’aveva voluto, tutto si riconfortò. Ma sì come colui che in piccol tempo
fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere
a voler quelle cose poter conducere a casa sua: per che in alcuni stracci, come meglio poté, ravoltele, disse alla buona
femina che più di cassa non aveva bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella.
La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del beneficio da lei
ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì; e montato sopra una barca passò a Brandizio, e di quindi, marina
marina, si condusse infino a Trani, dove trovati de’ suoi cittadini, li quali eran drappieri, quasi per l’amor di Dio fu da
lor rivestito, avendo esso già loro tutti li suoi accidenti narrati fuori che della cassa; e oltre a questo prestatogli
cavallo e datagli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto diceva di voler tornare, il rimandarono.
Quivi parendogli esser sicuro, ringraziando Idio che condotto ve lo avea, sciolse il suo sacchetto: e con più diligenzia
cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e sì fatte pietre, che, a convenevole pregio vendendole
e ancor meno, egli era il doppio più ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spacciar le sue pietre, infino a
Gurfo mandò una buona quantità di denari, per merito del servigio ricevuto alla buona femina che di mare l’avea
tratto, e il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; e il rimanente, senza più voler mercatare, si ritenne,
e onorevolemente visse infino alla fine.–

La costiera amalfitana è un luogo molto ricco, con i mercanti più esperti di Italia. Alla radice del viaggio c’è il desiderio
di arricchirsi. Vediamo appunto un viaggio utilitaristico. A Cipro arrivò, ma trovò gli stessi prodotti su cui lui voleva
arricchirsi. Dovette vendere a basso prezzo i prodotti, doveva quasi buttare via quanto portato. (A Boccaccio comunque
interessa mostrare la fenomenologia del viaggio, non descrivere bene il tutto).
Siccome si era visto a causa della Fortuna diventare povero, pensò di suicidarsi, oppure rubare. Non voleva tornare
povero a casa. Non voleva accettare gli effetti della mala fortuna sul suo viaggio. Decise di rubare, di corseggiare.
Compra un legnetto su cui farlo, e prende un piccolo equipaggio. Comincia a rubare a tutti, specie ai turchi. Così
rimedia alla sua fortuna, facendolo con un peccato (i ladri sono nelle male bolgie, i briganti anche tra i violenti contro il
prossimo). Sarebbe tra i peccatori più gravi. Ma qui Boccaccio lo mostra come un uomo che cerca di sconfiggere la
fortuna. La fortuna aiuta quindi gli onesti per Boccaccio. In poco tempo raddoppiò i beni che aveva all’inizio del
viaggio. Per non finire ancora in rovina decide di tornare a casa a Ravello. Continua a viaggiare con la barchettina.
Nell’arcipelago nel Mar Egeo, la fortuna lo colpisce di nuovo, si leva uno scirocco contrario al suo cammino e che fa
agitare il mare. Lui deve reagire. Si ripara in un’insenatura di un’isoletta del Mar Egeo, dove due barche genovesi da
Costantinopoli si rifugiarono con lui. Queste due coche capiscono che la barca è di Landolfo, lo conoscono per fama di
ricchezza, decidono di derubarlo. Una parte di questi genovesi scende a terra e tengono sotto tiro la barca. Si avvicinano
con le scialuppe, ci salgono e la prendono. Prigionieri i suoi uomini. Sfondano la barca, la fanno affondare, rimane
Rodolfo in rovina, con un solo farsettino addosso.
Ma cambia ancora il vento, le due cocche ricominciano ad andare verso Ponente. Ma torna il vento che fa separare le
due cocche, dato dal mare così alto. Fa deviare una cocca a largo di Cefalonia verso le secche, che si schiantò. Gli
oggetti cominciano a galleggiare. Cominciano le persone ad aggrapparsi agli oggetti del naufragio che riescono a
trovare per puro caso.
Landolfo vedendo la morte vicino, reagisce. Come gli altri, cerco qualcosa su cui aggrapparsi, lo fa ad una tavola, forse
aspettando un aiuto divino.

L’idea che tutto il mondo sia in continua trasformazione è data da queste novelle. C’è un nuovo modo di intendere il
rapporto uomo-mondo.

Aggrappato aspetta il ritorno del giorno, non vedeva altro che nuvole e mare. Casualmente vede un grande baule che si
avvicina a lui, tanto grande da essere quasi minaccioso perché rischia di farlo affondare. Stremato, arriva un’altra raffica
di vento, viene spinta verso di lui, lui va sotto l’acqua abbandonando la tavola, affonda, torna in superficie e si attacca al
baule. Scoprì che era piena di pietre preziose. Arrivò a Corfù. Una ragazza di povera estrazione sociale si trova su
quell’isola a lavare le sue stoviglie. L’approdo avviene o per piacere di Dio o per forza di vento, l’autore non
indirizza il lettore, forse perché non può dire che i fatti sono una pura casualità e Dio non ha nessun potere al riguardo.
Già il fatto che lasci l’alternativa è importante, per sfuggire alla censura almeno. Le parole sono fonte di
morte/persecuzione, e le evita dicendoci che bisogna stare attenti ad attribuire un senso unico agli aventi che
avvengono. Non è detto che tutto sia dato dalla provvidenza divina, ma anche gli uomini hanno dei poteri. Lascia il
dubbio, cosa che in Dante non c’era.
La donna vedendolo, non conoscendolo, si trasse indietro. Comincia a capire che è un uomo aggrappato ad una cassa.
Prende Landolfo per i capelli. Lo lava, lo fa ritornare in forze riscaldandolo. Gli da cibo [confetto] e vino. Dopo averlo
riconfortato, crede di dovergli ridare la cassa, e lo lascia andare per la sua strada. Landolfo però non rivela a nessuno il
contenuto per evitare che qualcuno gliela rubi. Viaggio formativo, ha fatto tesoro degli avvenimenti a lui accaduti.
Prima non esisteva questa cosa.

13 lezione 21/10/2019

4-5-6 novembre no lezione

(min 2)

...torniamo alla novella:

Una fanciulla vede Landolfo e salva lui e la cassa dal mare. Lei non l’aprirà ma la custodirà. Lui non si ricordava della
cassa, che comunque trovava molto leggera. Durante l’assenza della ragazza lui la apre, controlla che lei non sia in casa.
Trova molte pietre preziose incastonate o sciolte.
In questo frangente Landolfo ringrazia Dio di non averlo abbandonato.
Lui, partito per arricchirsi (fine non nobile), perde tutto nel mercato di Cipro (quasi punizione divina), cerca di ristorare
le sue finanze rubando (altra colpa), naufragio (forse volere di Dio), ma trova la cassa (fortunato). Loda Dio. Come se
Boccaccio ponesse un nuovo tipo di provvidenza, per voler premiare anche chi non si comporta bene.

Pensò di portarsi con cautela le pietre trovate. Lui restituisce la cassa a lei, ma chiede un semplice sacco per il ritorno.
Non disse niente delle pietre. Lei acconsentì.
Arrivò a Brindisi, da qui passando lungo le spiagge, arriva a Trani e incontra dei concittadini, dei mercanti di stoffe e lo
aiutano. Lui racconta di tutto tranne che delle pietre. Gli danno anche un cavallo per tornare a Ravello. Ringrazia Dio
per questo favore, scioglie il suo sacchetto, considerato il valore delle pietre, e capì di aver raggiunto il suo scopo, cioè
aumentare la sua ricchezza iniziale, lo fa imbrogliando.

Eventi dominati da una logica non umana, ma non si può dire che fosse divina.
Così finisce la novella.

Il viaggio è diverso ora, il mare non fa più paura.


Ci chiediamo se quello che capita a Landolfo è dato dalla Fortuna di cui parlava anche Dante. Non lo è. Qua anche chi
si comporta disonestamente può avere un esito favorevole. Non è detto che ad azioni sbagliate corrisponda la sfortuna
dell’individuo.

Decameron = déka = emérai (“dieci giornate”)


Tre uomini e sette donne si trovano un martedì mattina a Santa Maria Novella, decidono di andarsene fuori Firenze in
una situazione di morte per scappare anche dagli effetti devastanti.

Con Boccaccio troviamo una grande descrizione della peste, importante come quella di Manzoni ne “I promessi sposi”.
Non si sa bene l’edificio in cui scappano, ma sappiamo che era molto bello. I giovani vivranno di immaginazione, di
letteratura.

Non sono in tutto dieci giorni, il racconto dura 15 giorni (sabato e domenica per la sosta e le preghiere).

Le donne, a cui è dedicata l’opera, meritano che venga loro dedicata. La dedica “acciò che in parte per me s’amendi il
peccato della Fortuna”.

Ogni giorno si decide il reggente della giornata, solo (min 22) ha la possibilità

Molte novelle venivano tolte dalle edizioni correnti, quelle meno accettate dalla morale corrente.

Vediamo la novelle Seccia Pelletto e Abraam Giudeo

Giovanni Boccaccio, Decameron, I, 2, Abraam giudeo


[…]
Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran mercatante e buono uomo il quale fu chiamato
Giannotto di Civignì, lealissimo e diritto e di gran traffico d’opera di drapperia: e avea singulare amistà con uno
ricchissimo uomo giudeo chiamato  Abraam, il quale similmente mercatante era e diritto e leale uomo assai. La cui
dirittura e la cui lealtà veggendo Giannotto, gl’incominciò forte a increscere che l’anima d’un così valente e savio e
buono uomo per difetto di fede andasse a perdizione; e per ciò amichevolmente lo ’ncominciò a pregare che egli
lasciasse gli errori della fede giudaica e ritornassesi alla verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come santa e
buona, sempre prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente poteva discernere.
Il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella era nato e in
quella intendeva e vivere e morire, né cosa sarebbe che mai da ciò il facesse rimuovere. Giannotto non stette per
questo che egli, passati alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli così grossamente, come il più i
mercatanti sanno fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la giudaica; e come che il giudeo fosse nella
giudaica legge un gran maestro, tuttavia, o l’amicizia grande che con Giannotto avea che il movesse o forse parole le
quali lo Spirito santo sopra la lingua dell’uomo idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono forte a piacere
le dimostrazioni di Giannotto: ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non si lasciava.
Così come egli pertinace dimorava, così Giannotto di sollecitarlo non finava giammai, tanto che il giudeo, da così
continua instanzia vinto, disse: “Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano: e io sono disposto a farlo, sì
veramente che io voglio in prima andare a Roma e quivi vedere colui il quale tu di’ che è vicario di Dio in terra e
considerare i suoi modi e i suoi costumi, e similmente de’ suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali, che io possa
tra per le tue parole e per quegli comprendere che la vostra fede sia miglior che la mia, come tu ti se’ ingegnato di
dimostrarmi, io farò quello che detto t’ho: ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono.”
Quando Giannotto intese questo, fu in se stesso oltre modo dolente, tacitamente dicendo: “Perduta ho la fatica la quale
ottimamente mi pareva avere impiegata, credendomi costui aver convertito: per ciò che, se egli va in corte di Roma e
vede la vita scellerata e lorda de’ cherici, non che egli di giudeo si faccia cristiano, ma se egli fosse cristian fatto senza
fallo giudeo si ritornerebbe.” E a Abraam rivolto disse: “Deh! amico mio, perché vuoi tu entrare in questa fatica e
così grande spesa come a te sarà d’andare di qui a Roma? senza che, e per mare e per terra, a un ricco uomo come tu
se’ ci è tutto pien di pericoli. Non credi tu trovar qui chi il battesimo ti dea? E, se forse alcuni dubbii hai intorno alla
fede che io ti dimostro, dove ha maggior maestri e più savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai
o domanderai dichiarire? Per le quali cose, al mio parere, questa tua andata è di soperchio. Pensa che tali sono là i
prelati quali tu gli hai qui potuti vedere, e più, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al pastor principale; e
per ciò questa fatica per mio consiglio ti serberai in altra volta a alcuno perdono, al quale io per avventura ti farò
compagnia.”
A cui il giudeo rispose: “Io mi credo, Giannotto, che così sia come tu mi favelli; ma recandoti le molte parole in una,
io son del tutto, se tu vuogli che io faccia quello di che tu m’hai cotanto pregato, disposto a andarvi, e altramenti mai
non ne farò nulla.”
Giannotto, vedendo il voler suo, disse: “E tu va’ con buona ventura!” e seco avvisò lui mai non doversi far cristiano
come la corte di Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette.
Il giudeo montò a cavallo, e, come più tosto poté, se n’andò in corte di Roma, dove pervenuto da’ suoi giudei fu
onorevolmente ricevuto. E quivi dimorando, senza dire a alcuno perché ito vi fosse, cautamente cominciò a riguardare
alle maniere del Papa e de’ cardinali e degli altri prelati e di tutti i cortigiani: e tra che egli s’accorse, sì come uomo
che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato, egli trovò dal maggiore infino al minore
generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale ma ancora nella sogdomitica,
senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, in tanto che la potenza delle meretrici e de’ garzoni in impetrare
qualunque gran cosa non v’era di picciol potere. Oltre a questo, universalmente gulosi, bevitori, ebriachi e più al
ventre serventi a guisa d’animali bruti, appresso alla lussuria, che a altro gli conobbe apertamente; e più avanti
guardando, in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi il cristiano, e le divine
cose, chenti che elle si fossero o a sacrificii o a benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior
mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di drappi o d’alcuna altra cosa non erano, avendo alla
manifesta simonia ‘procureria’ posto nome e alla gulosità ‘substentazioni’, quasi Idio, lasciamo stare il significato di
vocaboli, ma la ’ntenzione de’ pessimi animi non conoscesse e a guisa degli uomini a’ nomi delle cose si debba
lasciare ingannare. Le quali, insieme con molte altre che da tacer sono, sommamente spiacendo al giudeo, sì come a
colui che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai aver veduto, propose di tornare a Parigi; e così fece.
Al quale, come Giannotto seppe che venuto se n’era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano, se ne
venne, e gran festa insieme si fecero; e poi che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che del santo
Padre e de’ cardinali e degli altri cortigiani gli parea.
Al quale il giudeo prestamente rispose: “Parmene male che Idio dea a quanti sono: e dicoti così, che, se io ben seppi
considerare, quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di vita o d’altro in alcuno che cherico
fosse veder mi parve, ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude, invidia e superbia e simili cose e piggiori, se piggiori
esser possono in alcuno, mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per una fucina di
diaboliche operazioni che di divine. E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni
arte mi pare che il vostro pastore e per consequente tutti gli altri si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del
mondo la cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella. E perciò che io veggio non
quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione aumentarsi e più lucida e più chiara
divenire, meritamente mi par discerner lo Spirito santo esser d’essa, sì come di vera e di santa più che alcuna altra,
fondamento e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e duro stava a’ tuoi conforti e non mi volea far cristiano, ora
tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi: andiamo adunque alla chiesa, e quivi secondo il
debito costume della vostra santa fede mi fa’ battezzare.”
Giannotto, il quale aspettava dirittamente contraria conclusione a questa, come lui così udì dire, fu il più contento
uomo che giammai fosse: e a Nostra Dama di Parigi con lui insieme andatosene, richiese i cherici di là entro che
a Abraam dovessero dare il battesimo. Li quali, udendo che esso l’adomandava, prestamente il fecero; e Giannotto il
levò del sacro fonte e nominollo Giovanni, e appresso a gran valenti uomini il fece compiutamente ammaestrare nella
nostra fede, la quale egli prestamente apprese: e fu poi buono e valente uomo e di santa vita.–

È una rappresentazione interna alla comunità europea.

La rubrica dice “Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de’
chierici, torna a Parigi, e fassi cristiano”.

Due amici a Parigi, Giannotto si dispiace che Abraam sia giudeo e cerca di insistere con lui per convertirlo. Abraam
accetta la conversione come ipotesi, ma prima vuole vedere a Roma come si comporta il centro nevralgico della Chiesa
dove poi tutto si irradia. Poi deciderà se convertirsi o no.
L’amico crede che così non si convertirà mai vedendo le nefandezze compiute a Roma.

Vediamo che Boccaccio giudica molto profondamente la Chiesa, non sarà l’unico.

Vediamo ancora dei commercianti. Punta sulla generosità dei mercanti.


Quello che colpisce di più è che Abraam venga visto positivamente, ne viene fatto un ritratto come seguace della parola
di Dio.
L’ebraismo, se non ancora ghettizzato con la pianificazione politica del ‘500 che vedrà il irrigidimento della comunità
ebraica reclusa in ghetti, ebrei che condannarono a morte Gesù, qua vengono descritti come persone che non hanno
niente di diverso rispetto ai cattolici.

Abraam riceve il battesimo ma condurrà la stessa vita di prima. Anche il fatto che i due siano amici, come fratelli, è
qualcosa di straordinario. Può esistere una profonda amicizia anche a livello europeo.
Non ha caso questa novella viene posta all’inizio dell’opera, per farla capire. Premessa per la comprensione di quello
che seguirà.

Abraam non si fida dei preti di Parigi, vuole vedere di persona come sono a Roma i prelati, non vuole fidarsi delle
dicerie, ma giudicare di persona.

Bisogna spostarsi, muoversi, per conoscere. (Idea radicata in questa novella)

Il giudizio è imprevedibile, Giannotto è convinto che Abraam non si farà mai cristiano. Ma per A. la Chiesa deve essere
per forza protetta dallo Spirito Santo se questa riesce ad espandersi nel mondo anche con queste nefandezze nel suo
centro, a Roma. (min 35)
L’idea che facciano paura gli altri, ma in realtà l’altro siamo noi, nel Milione c’era il mercante che voleva
dimostrare che i tartari non sono male, Boccaccio manda Abraam a Roma per far capire che quelli che crediamo
migliori, sono i veri tartari, i peggiori.

Torniamo alla novella: Giannotto di Civignì è un gran mercante, (valente) e buono.

Il prestito a usura veniva visto es. da Dante come demoniaco, lui è contrario alla civiltà della finanza. Invece nel
Boccaccio è visto positivamente, la società ha accettato gli usurai che sono come i vecchi banchieri.

Era grande amico, un’amicizia profonda con un uomo ebreo ricchissimo, Abraam e Boccaccio li mette sullo stesso
piano di mercante, bravo, uomo. A G. dispiace sapere che Abraam rimanga dannato per difetto di fede. Solo per questo
rischia la sua anima, ma solo perché gli manca il sacramento del battesimo.
L’argomento di G. per far convertire Abraam è farli vedere quanto il cattolicesimo si stia espandendo nel mondo,
quando invece quella ebraica si sta ritirando.

Comincia con rozzezza (non ha cultura teologica) a fargli cambiare idea.


A un certo punto le parole cominciano a far cambiare qualcosa nell’animo di Abraam, che sia per amicizia o Spirito
Santo (ancora c’è il dubbio nel Boccaccio, che lascia l’incertezza).

Giannotto non finava (=smetteva, dal francese) mai. A. dice che vuole andare a Roma, vedere il suddetto vicario di Dio,
non vuole fermarsi alle sua parole, lui vuole vedere come stanno le cose, non bastano le parole di qualcuno. Anche se il
viaggio è pericoloso, vuole provarci, per constatare la questione.

Giannotto si preoccupa, se lui va davvero a Roma, non solo non si convertirebbe, ma se fosse già cristiano
preferirebbe diventare giudeo.
Sono parole forti!

G. gli dice che non deve andare a Roma, ci sono abbastanza teologi a Parigi. I preti sono come quelli che vedi in
Francia. Sono anche migliori (bugiaaaa! Non si comporta bene, cerca di ingannarlo anche se a fin di bene).

Abraam gli crede. potrebbe aver ragione, ma il racconto non basta, deve vedere di persona.
Giannotto smise di insistere. Alla fine non ci avrebbe perso niente
Abraam fu ospitato da alcuni giudei che non sapevano perché fosse lì. Comincia a spiare, si informa cautamente.
Conobbe uomini della corte papale che erano lussuriosi, ubriaconi, golosi.
Boccaccio fa un brutto ritratto della corte papale, dove secondo l’uomo medievale risiedeva il meglio.

C’è uno scambio di merci, compravendita di cose sacre, Simon Mago voleva comprare da Giovanni, poi verrà ucciso
(min 54)

Tre papi del ‘300 verranno posti all’inferno da Dante, per diversi motivi.

A Roma la simonia viene chiamata procureria, la golosità chiamata sostentazione, Dio ovviamente non si lascia
ingannare dai vocaboli.

Queste e altre cose indicibili perché troppo forti.

Abraam torna a Parigi, l’amico lo fa riposare e poi gli chiede informazioni. Immagina comunque la risposta.

Abraam dirà che Roma è una fucina di diaboliche operazioni. I tartari sono in Europa, i cristiani che stanno a Roma
sono il male. Il grande pastore (papa) e seguaci, fanno di tutto per cancellare dal mondo il cristianesimo, non
diffonderlo e renderlo credibile.

Ma nonostante questo comportamento il cristianesimo continua a diffondersi. Deve esserci lo zampino dello Spirito
Santo.
Abraam decide di convertirsi.

Giannotto sorpreso, non se lo aspettava e fu felicissimo. Ci fu il grande battesimo.

Abraamn fu poi buono e valente di santa vita.


FINE.

I tartari siamo in parte noi, vediamo un ribaltamento dei valori che Boccaccio muove.
Un’altra novella, in collegamento con questa, è la IX (decima giornata, vuole concludere in bellezza, l’opera si apre
con la peste ma si chiuderà con dei bei esempi di amicizia, fiducia etc.):

Si cerca di stabilire lo stesso nesso fra Abraam e Giannotto. (min 1.02)

Decameron, X (reggimento: Panfilo; tema: «si ragiona di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa
operasse intorno a fatti d’amore o d’altra cosa»), 9, Messer Torello e il Saladino (narratore: Panfilo)
 
[…]
Ordinato questo, tornò il Saladino a messer Torello: e trovandol del tutto disposto a voler pure essere in Pavia al
termine dato, se esser potesse, e se non potesse, a voler morire, gli disse così: “Messer Torello, se voi affettuosamente
amate la donna vostra e che ella d’altrui non divegna dubitate, sallo Idio che io in parte alcuna non ve ne so
riprendere, per ciò che di quante donne mi parve veder mai ella è colei li cui costumi, le cui maniere e il cui abito,
lasciamo star la bellezza ch’è fior caduco, più mi paion da commendare e da aver care. Sarebbemi stato carissimo, poi
che la fortuna qui v’aveva mandato, che quel tempo, che voi e io viver dobbiamo, nel governo del regno che io tengo
parimente signori vivuti fossimo insieme: e se questo pur non mi dovea esser conceduto da Dio, dovendovi questo
cader nell’animo o di morire o di ritrovarvi al termine posto in Pavia, sommamente avrei disiderato d’averlo saputo a
tempo che io con quello onore, con quella grandezza, con quella compagnia che la vostra vertù merita v’avessi fatto
porre a casa vostra; il che poi che conceduto non è e voi pur disiderate d’esser là di presente, come io posso, nella
forma che detto v’ho, ve ne manderò.”
Al quale messer Torel disse: “Signor mio, senza le vostre parole m’hanno gli effetti assai dimostrata della vostra
benivolenzia, la quale mai da me in sì suppremo grado non fu meritata, e di ciò che voi dite, eziandio non dicendolo,
vivo e morrò certissimo; ma poi che così preso ho per partito, io vi priego che quello che mi dite di fare si faccia tosto,
per ciò che domane è l’ultimo dì che io debbo essere aspettato.”
Il Saladino disse che ciò senza fallo era fornito: e il seguente dì, attendendo di mandarlo via la vegnente notte, fece il
Saladin fare in una gran sala un bellissimo e ricco letto di materassi tutti, secondo la loro usanza tutti di velluti e di
drappi a oro, e fecevi por suso una coltre lavorata a certi compassi di perle grossissime e di carissime pietre preziose,
la qual fu poi di qua stimata infinito tesoro, e due guanciali quali a così fatto letto si richiedeano; e questo fatto,
comandò che a messer Torello, il quale era già forte, fosse messa indosso una roba alla guisa saracinesca, la più ricca
e la più bella cosa che mai fosse stata veduta per alcuno, e in testa alla lor guisa una delle sue lunghissime bende
ravolgere. E essendo già l’ora tarda, il Saladino con molti de’ suoi baroni nella camera là dove messer Torello era se
n’andò, e postoglisi a sedere allato, quasi lagrimando a dir cominciò: “Messer Torello, l’ora che da voi divider mi dee
s’appressa, e per ciò che io non posso né accompagnarvi né farvi accompagnare per la qualità del cammino che a fare
avete, che nol sostiene, qui in camera da voi mi conviene prender commiato, al qual prendere venuto sono. E per ciò,
prima che io a Dio vi comandi, vi priego per quello amore e per quella amistà la quale è tra noi, che di me vi ricordi;
e, se possibile è, anzi che i nostri tempi finiscano, che voi, avendo in ordine poste le vostre cose di Lombardia, una
volta almeno a veder mi vegniate, acciò che io possa in quella, essendomi d’avervi veduto rallegrato, quel diletto
supplire che ora per la vostra fretta mi convien commettere; e infino che questo avvenga non vi sia grave visitarmi con
lettere e di quelle cose che vi piaceranno richiedermi, ché più volentier per voi che per alcuno uom che viva le farò
certamente.”
Messer Torello non poté le lagrime ritenere: e per ciò da quelle impedito con poche parole rispose impossibil che mai i
suoi benefici e il suo valore di mente gli uscissero e che senza fallo quello che egli comandava farebbe, dove tempo gli
fosse prestato. Per che il Saladino, teneramente abbracciatolo e basciatolo, con molte lagrime gli disse “Andate con
Dio” e della camera s’uscì; e gli altri baroni appresso tutti da lui s’acommiatarono e col Saladino in quella sala ne
vennero là dove egli aveva fatto il letto acconciare.
Ma essendo già tardi e il nigromante aspettando lo spaccio e affrettandolo, venne un medico con un beveraggio e,
fattogli vedere che per fortificamento di lui gliele dava, gliel fece bere; né stette guari che adormentato fu. E così
dormendo, fu portato per comandamento del Saladino in su il bel letto, sopra il quale esso una grande e bella corona
pose di gran valore e sì la segnò, che apertamente fu poi compreso quella dal Saladino alla donna di messer Torello
esser mandata. Appresso mise in dito a messer Torello uno anello nel quale era legato un carbunculo tanto lucente, che
un torchio acceso pareva, il valor del quale appena si poteva stimare; quindi gli fece una spada cignere il cui
guernimento non si saria di leggieri apprezzato; e oltre a questo un fermaglio gli fé davanti appiccare nel quale erano
perle mai simili non vedute con altre care pietre assai; e poi da ciascun de’ lati di lui due grandissimi bacin d’oro pieni
di dobre fé porre, e molte reti di perle e anella e cinture e altre cose, le quali lungo sarebbe a raccontare, gli fece
metter da torno. E questo fatto, da capo basciò messer Torello e al nigromante disse che si spedisse; per che
incontanente in presenzia del Saladino il letto con tutto messer Torello fu tolto via, e il Saladino co’ suoi baroni di lui
ragionando si rimase.
Era già nella chiesa di San Piero in Ciel d’oro di Pavia, sì come dimandato avea, stato posato messer Torello con tutti
i sopradetti gioielli e ornamenti, e ancor si dormiva, quando sonato già il matutino il sagrestano nella chiesa entrò con
un lume in mano, e occorsegli subitamente di vedere il ricco letto. Non solamente si maravigliò ma avuta grandissima
paura indietro fuggendo si tornò. Il quale l’abate e’ monaci veggendo fuggire si maravigliarono e domandaron della
cagione. Il monaco la disse.
“Oh!” disse l’abate “e sì non se’ tu oggimai fanciullo né se’ in questa chiesa nuovo, che tu così leggiermente
spaventar ti debbi: ora andiam noi, veggiamo chi t’ha fatto baco.”
Accesi adunque più lumi, l’abate con tutti i suoi monaci nella chiesa entrati videro questo letto così maraviglioso e
ricco e sopra quello il cavalier che dormiva; e mentre dubitosi e timidi, senza punto al letto accostarsi, le nobili gioie
riguardavano, avvenne che, essendo la vertù del beveraggio consumata, che messer Torel destatosi gittò un gran
sospiro. Li monaci come questo videro, e l’abate con loro, spaventati e gridando “Domine, aiutaci” tutti fuggirono.
Messer Torello, aperti gli occhi e da torno guardatosi, conobbe manifestamente sé essere là dove al Saladino
domandato avea, di che forte fu seco contento: per che, a seder levatosi e partitamente guardando ciò che da torno
avea, quantunque prima avesse la magnificenzia del Saladin conosciuta, ora gli parve maggiore e più la conobbe. Non
per tanto, senza altramenti mutarsi, sentendo i monaci fuggire e avvisatosi il perché, cominciò per nome a chiamar
l’abate e a pregarlo che egli non dubitasse, per ciò che egli era Torel suo nepote. L’abate, udendo questo, divenne più
pauroso, come colui che per morto l’avea dimolti mesi innanzi; ma dopo alquanto, da veri argomenti rassicurato,
sentendosi pur chiamare, fattosi il segno della santa croce andò a lui.
Al qual messer Torel disse: “O padre mio, di che dubitate voi? Io son vivo, la Dio mercé, e qui d’oltremar ritornato.”
L’abate, con tutto che egli avesse la barba grande e in abito arabesco fosse, pur dopo alquanto il raffigurò: e
rassicuratosi tutto il prese per la mano e disse: “Figliuol mio, tu sii il ben tornato” e seguitò: “Tu non ti dei
maravigliare della nostra paura, per ciò che in questa terra non ha uomo che non credi fermamente che tu morto sii,
tanto che io ti so dire che madonna Adalieta tua moglie, vinta da’ prieghi e dalle minacce de’ parenti suoi e contra suo
volere, è rimaritata; e questa mattina ne dee ire al nuovo marito, e le nozze e ciò che a festa bisogno fa è
apparecchiato.”
Messer Torello, levatosi di’n su il ricco letto e fatta all’abate e a’ monaci maravigliosa festa, ognun pregò che di
questa sua tornata con alcun non parlasse infino a tanto che egli non avesse una sua bisogna fornita. Appresso questo,
fatte le ricche gioie porre in salvo, ciò che avvenuto gli fosse infino a quel punto raccontò all’abate. L’abate, lieto delle
sue fortune, con lui insieme rendé grazie a Dio. […]

Boccaccio ci tiene a dire le stesse cose riferendosi anche agli islamici, Saladino sarà il capo del sultanato di Babilonia
(ora Cairo), personaggio realmente esistito nel XII sec., sultano curdo, di grande intelligenza, risaltata all’ennesima
potenza nel Decameron.

Messer Torello diventa amico di Saladino quando lo ospiterà quasi per caso.

Scenario cristiano ma anche musulmano

Rubrica: “Il Saladino in forma di mercante è onorato da messer Torello; fassi il passaggio; messer Torello dà un termine
alla donna sua a rimaritarsil è preso, e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano; il quale, riconosciutolo e sé
fatto riconoscere, sommamente l’onora; messer Torello inferma, e per arte magica in una notte n’è recato a Pavia, e alle
nozze, che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne torna.”

Lui ospiterà Saladino con tutti gli onori anche se non sapeva chi fosse, dato che lui e il suo seguito erano travestiti da
mercanti. Torello gli lascia i suoi vestiti, questo dimostra grande amicizia e buona persona, donare i propri costumi
come gesto di buona accoglienza.
Nella letteratura di viaggio nel ‘500 era un simbolo di subordinazione, far vestire gli indigeni come uomini finalmente
civilizzati, come lo vediamo in Magellano.
Lo scambio di vestiti nella novella è visto molto bene.

Torello non chiede nulla, si limita ad ospitarli e aiutarli. Li riempie di doni.


Saladino tornerà nel Sultanato d’Egitto dopo aver preso tutte le sue informazioni necessarie (Boccaccio non interessato,
vuole mostrare solo il rapporto di amicizia fra i due), Torello deve partecipare alla terza crociata, il suo esercito perde e
viene fatto prigioniero dai musulmani e lo porta al Cairo, dove verrà riconosciuto e subito liberato. Lo tratterrà come un
vero amico, come un suo cortigiano, anzi quasi come un co-sultano. Gli darà dei vestiti regali.

Problema: la moglie di Torello (Adelaide) se lui non torna entro un anno, ha il permesso di sposarsi con un altro uomo.
Una donna senza marito per troppo tempo era sconveniente, anche le famiglie subivano conseguenze negative. Lui la
libera dal vincolo.
La donna nel cuore resta fedele ma i suoi famigliari la costringono a risposarsi.
Torello chiede di tornare a Pavia per evitare che si risposi.
Saladino chiede a un suo negromante di fare un incantesimo che lo porti direttamente a Pavia: solo la magia ci può
riuscire.
Questo lo fa, Torello torna dalla moglie.

Elemento magico nel Decameron è raro ma ce ne sono.


Nell’immaginario comune i musulmani erano dediti ad arti magiche. Gli infedeli sono servi del demonio, citato anche
da Boccaccio, ma in questo caso è descritto in maniera positiva e benevola, non viene demonizzato.

Abbiamo un grande elogio sui musulmani della


-Loro dirittura morale;
-Sull’amicizia fra i due protagonisti. Lui riteneva possibile questa amicizia. La comunanza affettiva è fattibile;
-Rispetto della parola data;
-La magia nera non ha un’aura negativa, anzi serve nella novella a salvare un matrimonio e impedire un’irregolarità.

...Saladin lo porta alla sua corte. Felice, ma poi si accorge che Torello è cupo. Vuole tornare a Pavia altrimenti morire
piuttosto che perderla.
Saladino sa che la moglie è di grande virtù, l’ha conosciuta anche lui a Pavia.
Saladino dice che se l’avesse saputo prima, avrei organizzato prima il viaggio. Ma conosce un negromante che può fare
un incantesimo.

L’incantesimo non viene descritto, Torello si risveglia nella chiesa di Pavia.

Domani la moglie avrebbe potuto sposarsi, l’anno di attesa era finito.


Tutti credevano che Torello fosse morto data la grande disfatta.
Torello quindi accetta.
Saladino lo porta dal negromante. Torello userà un letto ricamato che servirà nell’incantesimo come letto volante. È
molto sontuoso, ci sono perle e pietre preziose. Saladino vuole mandarlo indietro pieno di ricchezze. Ordinò che fosse
vestito come un saraceno, elegantissimo e con un turbante. Torello torna quindi con un incantesimo e vestito con un
saraceno.
I saraceni erano nemici, non erano amiche le due culture, ma Boccaccio le vuole rendere amiche.

Il vestire l’altro dei propri abiti è visto qui benevolmente, è un atto generoso e positivo.

Saldino dice che non può accompagnarlo sul letto volante, quasi piangendo, si salutano. Prima che parta gli chiede di
ricordarlo, l’amicizia fra un nobile cristiano, c’è un vincolo profondo di amicizia. Una volta sistemato il matrimonio,
torna in Egitto a trovarmi. Non possiamo vederci, forse mai più, ma scrivetemi e chiedetemi quello che volete, perché
per voi, più che per ogni altro uomo al mondo, io farò di tutto.
Torello non trattenne invece le lacrime. Si abbracciarono teneramente.
Si prepara per l’incantesimo che lo riporterà a casa.

Interessante vedere i rapporti tra due culture molto diverse, ma che possono alla fine trovare un punto di incontro.

Saladino supera qualunque barriera trovando in Torello un amico.

Boccaccio non darà nessun giudizio, di nessun genere, nemmeno sulla negromanzia, esiste solo l’amicizia fra queste
due persone che rappresentano le culture così diverse, islamica e cristiana.

Il Medioevo così sparisce, si chiude il periodo di odio (min 1.32)

14 lezione 22/10/2019

L’idea di uomo e di viaggio che vuole proporre Boccaccio è di movimento.

Approccio tematologico, la storia delle idee utopica e l’intertestualità sono le questioni che interessano al prof.
La visione dell’altro, tema importante dal Medioevo a oggi, Boccaccio scrive due novelle dove Boccaccio parla della
conoscenza degli altri.
Nel caso di Abraam è in gioco il rapporto tra comunità ebraica e cristiana (problema perenne) dove Boccaccio fa un
tentativo di unione universale fra le due religioni.
Dal punto di vista etico l’ebraismo non viene demonizzato come accadeva di solito, lui cercherà un punto di incontro.
Lui giudicherà più i cristiani.

Nella novella IX fa ancora un tentativo di avvicinamento fra un cristiano e un musulmano, in un periodo in cui gli
“infedeli” sono in guerra contro i “fedelI”, in un periodo delle crociate.
Saladino sapendo della terza crociata eminente viene in Europa per spiare la situazione travestito da mercante. Vicino a
Pavia trova un riparo per la notte da Torello che in maniera del tutto disinteressata ospita lui e anche i suoi compagni.
Scalando ogni impedimento sociale, tratta i suoi ospiti in maniera generosa, entrambi faranno a gara a chi sarà più
liberale (liberalità=generosità), più generoso. Torello dopo aver perso la battaglia e dopo la prigionia, viene ospitato da
Saladino che anche lo tratta come un famigliare. Torello dovrà tornare a casa così eviterà il matrimonio della moglie
(che lo crede morto) con un altro uomo. Saladino sfrutta l’unica possibilità, un negromante che in un secondo lo faccia
tornare a Pavia. Riuscirà a tornare.

Boccaccio fa un elogio morale ai musulmani, c’è rispetto della parola data, nonostante si credeva che i musulmani non
fossero affidabili.

La magia nera viene descritta in maniera neutra, sarà un elemento positivo per un amico che vuole tornare a casa.
La parola “demoniaco” non viene mai citata.

È un magico degli “infedeli” ma mai visto in maniera negativa.


Saladino e Torello sono convinti di non vedersi mai più quindi si scambiano gesti affettuosi come saluto, da veri amici.

Torniamo alla novella:

Torello deve bere, [magia non viene descritta in tutto il suo sviluppo, da notare che Boccaccio descrive le cose ma
con lo scopo diverso da quello di descrivere nello specifico le cose anche più minuziose.] un qualcosa per
addormentarsi, così starà tranquillo nel viaggio.
Il letto sparì e riapparì in una chiesa, di San Piero in Ciel d’oro di Pavia. Arriva un ecclesiastico che vede Torello e il
letto ricchissimo. Prese paura. Avvisò altri monaci che lo seguirono per vedere l’accaduto. Torello dormiva ancora.
Finito l’effetto del sonnifero Torello si sveglia. I monaci e l’abate si spaventano. [Fase dove prevale la paura.] Torello si
rende conto di essere circondato da monili d’oro, consegnatigli mentre lui dormiva e quindi non aveva visto.
L’abate era lo zio di Torello, l’abate prende ancora più paura perché credeva che fosse morto. Invece lo vede con le
vesti da saraceno, e soprattutto vivo.
Torello lo rassicura dandogli la verità, si rasserena avendo capito la situazione. Non bisogna avere paura, sono tornato
sopravvissuto a casa mia. L’intervento di Torello è importante, dice che è vivo, grazie a lui e alle arti magiche io mi
trovo qui, ma l’importante è che grazie a Dio io sono qui, vivo.
Non c’è nessuna demonizzazione dell’evento, della magia nera che viene usata. Il negromante è un mago che non ha
connotazioni negative.
Il giorno in cui ci troviamo adesso tua moglie si risposerà, le nozze sono già state predisposte. L’abate però dice
“Figliuol mio, tu sei tornato”, lascia solo una felice considerazione, il fatto che lui sia tornato.

Torello vuole vedere se la moglie gli è rimasta fedele.

L’abate, contento senza giudizio di quanto accaduto, ringrazia Dio, rimette tutto sotto il controllo di Dio. C’è un
tentativo di rappacificazione con le due culture.

Scoperte geografiche: Boccaccio fu molto interessato ai viaggi e alle esplorazioni, anche per il suo lavoro. Vediamo un
mondo che non si può concepire solo dall’angolatura di una singola nazione/città, ma stando super partes, guardarlo
nella sua integrità. Il mondo non è di Firenze/dell’Italia, ma il mondo, dove le culture si intrecciano per forza. Il mondo
è in continua mutazione e movimento, sa che ci saranno sempre più incontri.

Il “De Canaria”, prima della stesura definitiva del Decameron, quasi in preparazione, è sulla stessa scia antropologica,
di volontà di conoscere gli altri.

È il racconto di una spedizione del 1341, da Nicolò di Arecco, un viaggio di esplorazione (min 32) finanziata dal re di
Portogallo Alfonso IV nelle Canarie (alcune isole erano già state esplorate però). Erano un arcipelago mitico di cui si
conosceva qualcosa ma non in maniera approfondita.

Ci sarà un incontro con un indigeno di cultura insulare, un anticipo rispetto all’incontro con gli indigeni di Colombo.

La popolazione dei Guaci che abitavano le Canarie, quasi del tutto sterminati dagli spagnoli.

Boccaccio scrive in latino ma farà una traduzione (min 40) in volgare.

Finita l’esplorazione, Nicolò a Siviglia racconta l’accaduto. Lo racconta a un loro corrispondente anche lui
commerciante a Firenze.

Lo traduce perché vuole che abbia una grande diffusione.


Boccaccio resta colpito dal documento, lo traduce in un latino elaborato (la produzione del Boccaccio si divide in latino
e in volgare, come quella di Petrarca e di Dante, con diverse finalità comunicative).
“De Canaria et insulis reliquis ultra Ispaniam in Occeano noviter repertis”/La Canaraia e le altre isole
recentemente scoperte nell’Oceano oltre la Spagna”. (min 40)

Giovanni Boccaccio, Della Canaria e delle altre isole oltre Ispania nell’oceano nuovamente ritrovate, traduzione dal
latino di Sebastiano Ciampi (1830)
 
CORRENDO anni Domini MCCCXLI vennono a Fiorenza lettere de’ mercadanti fiorentini, che erano in Sivilia città de
la Spagna ulteriore, et quivi sugiellate a’ XV di novembre, dove era scritto quanto disotto racconteremo.
 
Dicono dunque come a dì primo luglio di questo anno sopradetto, dua navi provedute per lo re di Portogallo d’ogna
bisognevile per lo passaggio, et con esse un’altra navicella bene guernita, con giente de’ fiorentini, genovesi, et
spanioli catalani, et altra giente d’Ispania sciolte le vele dalla città di Lisbona presono l’alto, conducendo con se
cavalli, armi et macchine di guerra per isforzare cittadi et castella, et andaro a cercare quelle isole che volgarmente è
voce essere state trovate. Tutte le dette navi con favore di vento in capo al quinto dì arrivate colà, vennono in dietro, et
alle case di loro giunsono in novembre riportando le prede che ora diremo; et primieramente condussono quattro
huomini degli habitatori di quelle isole, et anchora pelli di becchi et di capre in buondato, et sevo, olio di pesce, et
spoglie di foche, et anche lignami rossi, tingenti quasi fussono verzino, e fatti a simile del verzino; sebbene que’ che di
tali cose hanno cognoscimento dicano non essere verzino; et anco portonno delle buccie degli alberi buone
similemente a tignere in rosso, et della terra rossa et simili. L’altro poi dei capitani delle navi chiamato Niccoloso,
genovese da Reccho, addimandato dicea essere circa miglia novecento da Siviglia a quelle isole, ma dal luogo che ora
Capo di san Vincentio è detto essere distanti meno dal Continente: che la isola prima ad essere trovata ha miglia quasi
CL di circuito; sassosa tutta, et selvosa et abondante di capre, et altri bestiami; gli huomini et le donne andare nude et
essere salvatiche per li costumi et li riti. Dicea se con li sua compagni aver in quest’isola preso la parte maggiore delle
pelli e del sevo; et non havere havuto arditanza d’entrare molto dentro a quella. Da quivi trapassati in altra isola quasi
maggiore, vidono venirsi all’incontro sul lido moltitudine grande, huomini et donne, che quasi tutti erano nudi. Alcuni
che pareano più alti vestivano pelli caprine tinte di giallo, et di rosso, e, secondo parea di lungi, morbidissime e
dilicatissime, cucite con assai artificio di corde de’ budelli; e come poteasi cognoscere dagli atti di loro mostravano
avere un principe, che riverito era da tutti et honorato. Quella moltitudine di giente mostrava desiderio di avere
abboccamento et commercio, et trattenersi con que’ di sopra le navi. Allora le più piccole di quelle navi andate più di
vicino al lido, nè potendo in maniera veruna capire l’idioma di quelli non ebbono animo di scendere. Avea, secondo
che dissono, quell’idioma molta polizia, et a modo dello italiano era spedito assai. Ma veggiendo coloro come niuno
delle navi scendesse, ve ne furo alcuni che si sforzaro d’arrivare a quelli notando; sì che ne presono certi, e sono li
condotti da loro. Finalmente veduto i marinai che non veniane loro utile nessuno, dipartironsi da quel luogo; e fatto il
giro di fuori dell’isola, conobbero quella essere molto meglio coltivata nelle parti del settentrione, che in quelle del
mezzodì. Vidervi case molte, fichi, et alberi, et palme sterili dei dattili, et ortaglie, et cavoli et erbaggi buoni da essere
mangiati; per che sbarcaronvi XXV de’ loro con armi, i quali cercando chi dentro fosse di quelle case, trovorno esservi
circa XXX persone tutte ignude: le quali spaurite in vedere quelli armati, se ne diero alcune a fuggire, et empiero di
alti gridori que’ luoghi. Entrati dentro nelle case viderle fabricate di pietre quadre con arte maravigliosa, e con legni
grandissimi et bellissimi ricoperte: et perchè trovorno le porte serate, e vollero vedere come dentro fossono, quelle
infransono co’ sassi et aprironle; per che gli abitatori che erano iti via, sdegnatisi empiero di grandissime grida que’
luoghi; all’ultimo rotte le porte quante n’ebbono trovate, entraro per le case, dove non altro era che fichi secchi, buoni
che pareano di que’ da Cesena, entro a sporte di palma, et frumento assai più bello che ’l nostro, havendo li grani più
lunghi et grossi, et sendo anche più bianco; et similmente dell’orzo, et altre biade di che quelli habitatori viveano. Le
case fatte, com’erano, di pietrami bellissimi, et di bellissimi legni, erano dentro imbiancate che pareano di giesso.
Vidono anche una chiesuola, dove pittura non era, nè altro adornamento, fuori di una statua di pietra avente la
imagine d’huomo con una palla in mano; coperte le vergogne con brache di palma secondo l’uso degli habitatori di
quel paese, e la tolsono, e caricatala sulle navi la portaro a Lisbona. È questa isola ripiena d’habitatori, et benissimo
coltivata, et vi ricolgono grano, biade, frutta, e più di qualunch’altra cosa, fichi. Il grano et le biade sono manucate da
loro od a modo degli uccelli, od in farina, che mangiano senza pane farne, et beono acqua.
Partendo i marinai da questa isola, et vedutene altre in lontananza, quale di V miglia, quali di X o di XX, o di XL,
andaro ad una terza isola, dove non trovaro altro che alberi altissimi e diritti inverso del cielo; di quivi passati in altra,
viderla abondare di rii et acque bonissime, et di legnami et di palombi che uccideanli con sassate, o con bastonate, et
poi mangiavanli; dicono quelli essere più grandi de’ nostri, ma uguali al gusto, o migliori; et trovaronvi ugualmente
de’ falconi, et altri uccelli che vivono di rapina. Ma per queste isole non molto vagarono, vedutele affatto diserte;
niente dimeno vidono dirimpetto un’altra isola dove pareano grandi montagne petrose, e la maggior parte di nugoli
sempre coperte con ispesse pioggie, ma che a tempo sereno mostrava d’essere bellissima, e a parere de’ risguardanti
habitata; e dopo quella passarono ad altre isole molte, quali habitate, quali no, XIII di numero; et quanto più innanzi
andavano tante di più ne vedeano, presso delle quali era il mare tranquillo più che non è tra noi; trovaronvi un fondo
molto adatto per le ancore, et sebbene con porti non molti; tutte abbondanti di acque. Cinque di quelle isole viderle
habitate; delle altre XIII alle quali giunsono ne trovaro molte non havere habitatori, nè ugualmente quelle sono
habitate; ma quali più, quali meno. Et oltra di ciò essere infra loro per li idiomi diversi sì che non intendonsi le une
coll’altre, et niuno ha navi, od altro arnese per far lo passaggio d’una in un’altra isola, ma vannovi a nuoto.
Trovorno anche un’altra isola, dove non vollero calare, perchè agli occhj di loro apparve una certa maraviglia.
Dicono che vi è uno monte altissimo, a stima XXX miglia, et anco di più, che vedesi molto di lungi, et sulla vetta vi
appare un certo biancore; e tutto il monte è sassoso; quello biancore ha sembianza d’una rocca, nè è rocca: ma lo
credono un sasso acutissimo, di cui sulla vetta sia un albero della grandezza dell’albero di qualche nave, cui stia
appesa un’antenna con vela di grande nave latina a simile d’uno scudo spianata, che tratta in aria per li venti
distendesi molto; e quindi sembra poco a poco ribassarsi, e poi di nuovo rialzarsi l’albero simigliante a quello di una
grossa nave, et così continuamente di nuovo.
Girando attorno dell’isola, da ogni lato vedeano accadere lo stesso; lo che stimando essere per virtù d’incantesimo,
non ebbono ardire di scendere in quella isola.
Molte altre cose trovorno che il detto Niccoloso non volle raccontare. Pare solo quelle isole non essere ricche,
imperciocchè i marinai appena poterono ripigliare le spese dello viatico. Erano i quattro homini che condussono, della
etade senza barba, et di bello sembiante, portavano brache, fatte così: haveano ricinta a’ lombi una corda, dalla quale
pendeano fila di palma spesse, o di giunchi da uno e mezzo a due palmi al più, et per esse cuopriansi le vergogne di
innanzi et di dietro, se non che il vento od altro le inalzasse; non sono tonduti, et hanno lunghi et biondi i capelli sino
quasi all’umbilico: cuopronsi di questi, et camminano a piedi nudi. La isola d’onde furono tolti ha nome Canaria, la
più abitata delle altre; nè possono intendere idioma nessuno, essendo stato parlato loro con diversi; in statura non
passano la nostra; sono membruti, animosi et forti, con intendimento grande, come se ne può fare giudicio. Parlano
con loro per accenni, et essi per accenni rispondono a maniera de’ mutoli; hannosi rispetto tra loro, ma
particolarmente verso di uno de’ loro; et ha questi brache di palma, et li altri hannole di giunchi tinte di giallo e di
rosso. Cantano dolcemente e ballano a maniera quasi fussono franciosi; sono giulivi et svelti, et assai dimestici più che
molti spaniuoli non sono.
Poichè entraro nella nave si misono a manucare de’ fichi et del pane, che pare loro buono assai, non avendone per
l’innanzi mangiato mai; il vino ricusanlo affatto, e beono acqua sola. Mangiano bensì frumento et orzo a giumellate,
cascio, et carne, che ne hanno delle buone, et in buondato; bovi, cammelli, asini non ne hanno, ma capre molte et
pecore et cinghiali. Furono mostrati loro i danari d’argiento; che non li conoscono, come ne anche li aromati di
qualunche natura. Mostrate collane d’oro, vasi intagliati, sciabole, spade d’ogna sorta, pare che non habbianne vedute
mai, nè avute; mostrano anche di havere fidanza, et lealtà grandissima infra di loro, per quanto si può far congettura,
principalmente perchè niuna cosa manucabile dassi ad alcuno di loro, senza che prima di manucarla la divida in
uguali porzioni, et ne dia ad ognuno la sua porzione.
Le donne di loro maritansi, et le già maritate portano brache a modo di homini; le tuttavia fanciulle vanno affatto
nude, non stimando vergogna di andare così. Hanno come noi le unità de’ numeri et mettonle dinanzi alle diecine così:
1, nait, 2, smetti, 3, amelotti, 4, acodetti, 5, simusetti, 6, sesetti, 7, satti, 8, tamatti, 9, aldamorana, 10, marava, 11, nait-
marava, 12, smatta-marava, 13, amierat-marava, 14, acodat-marava, 16, sesatti-marava, ec. 

Si tratta di uno dei primi momenti di incontro-scontro tra la cultura europea e indigena.

[Spila parla molto della situazione nel suo libro.]

Scontro e testo riprodotto moltissime volte dopo le grandi scoperte.

Vengono descritti i caratteri degli esploratori che vengono da diversi contesti sociali uniti in un unica esplorazione,
cercano di capire come sfruttare le Canarie dal punto di vista commerciale. Sugli esploratori vengono descritte le
strategie coloniali, partono molto armati.
-Carattere predatorio, si cerca di accaparrarsi quanto più possibile. Nel testo si racconta che gli invasori entrarono a
forza, con gli indigeni che si ribellavano.

Sono dinamiche che ritroveremo nella letteratura di viaggio del ‘500. Sempre.

Siamo nell’ambito della letteratura di viaggio di esplorazione.

Non scopi conoscitivi o filosofici. Il desiderio di conoscenza filosofica porta Boccaccio a tradurre il testo in latino, ma
chi compì il viaggio non era mosso dagli stessi intenti, ma solo da scopi commerciali.

C’è un ritratto morale positivo degli indigeni. Gli europei come colonizzatori bestiali che rubano ed entrano nelle case
degli indigeni.
Gli indigeni sono disposti a conoscere lo straniero, sono buoni, hanno una grande capacità artigianale, sanno cantare
(hanno canti evoluti), hanno un re verso il quale si riconoscono e a cui sono fedeli. Quindi vediamo delle dinamiche
politiche che si trovavano anche in Europa, quindi cosa positiva. Ci sono matrimoni, le donne maritate sono vestite,
quelle non maritate stanno nude ma non hanno problemi per questo. [Ricordiamo che la nudità è scandalosa per gli
europei].
Non conoscono le armi e neanche loro, non li vogliono. Sono propensi al pacifismo, non sono corrotti dalla bramosia di
ricchezza come gli europei. Hanno un sistema decimale simile a quello europeo.
Verranno riportati dei numeri nella lingua guanci.
L’edizione più ricca è quella a cura di Manlio Pastore Stocchi.

Vediamo il testo in traduzione di italiano di Sebastiano Ciampi, del 1930. (min 47)

Si comincia da una lettera datata nel 1341 da Siviglia.


La spedizione composta da diverse nazionalità, portoghesi (finanziano la cosa), fiorentini, catalani etc. supera le
colonne d’Ercole. È una spedizione armata che porta con se molte armi. Non è una spedizione pacifica, ma i viaggi di
conquista era così, per cercare di espugnare eventuali fortificazioni. Anche con Magellano erano presenti molte navi che
lo seguivano per contrastare eventuali nemici.
Tornarono dal viaggio riportando delle “prede”, tra cui anche quattro uomini, che sono anch’essi bottino: questi uomini,
legnami che servono alle tintorie per tingere di rosso, pelli di capre e di becchi, olio di pesce etc.
Si comincia ad elencare tutti i prodotti reperibili in queste isole. Queste isole sono meno distanti da Capo di San
Vincente rispetto a Siviglia. Quindi appartengono alla Corona portoghese, non spagnola. [Sottolineato chiaramente nel
testo].

Si incomincia la descrizione dei locali, nudi, non si addentrano nelle coste. Si sottolinea spesso il fatto che siano nudi.
Non è possibile capire di quale isola delle Canarie (forse si parla anche delle Azzorre) si sta parlando. È una geografia
vaga.
Con queste vesti di pelli caprine che parevano morbidissime, sono ben cucite. [Sottolineata la loro qualità di artigiani].
Hanno una monarchia [elemento a favore degli indigeni].
Mostravano di voler conoscere gli stranieri e di mercanteggiare con loro.
Le navi si avvicinano al lido ma nessuno vuole scendere, perché non capiscono la lingua locale. [Problema della
lingua!!!!!].
La lingua aveva molta polizia [elegante, bella], che poteva sembrare la lingua italiana, Niccolò, da genovese, la
conosceva.
Si prendono quattro indigeni che erano i più curiosi e che si erano avvicinati alle navi.
Videro che non c’era utilità nel possesso di quell’isola. [Tutta una questione di utilitarismo].
Passano ad un’altra.
Conobbero un’altra isola fertile in frutta, trovarono circa trenta persone nude. Questi indigeni sono intimoriti dalle armi
e così scappano dalla paura. Entrati nelle case videro fabbricate con legni pregiati e riccamente decorate. [Sono ricchi
questi anche senza aver invaso o rubato a nessuno. Noi europei non siamo mai stati in grado di fare una cosa del
genere].
Gli europei entrano nelle case nonostante fossero chiuse, fanno come se fossero a casa loro.

COMINCIA LA LETTERATURA DI CONQUISTA, DELLA COLONIZZAZIONE CON QUEST’OPERA.

C’è una statua di uomo con una palla in mano che copriva le sue vergogne con foglie di palma, aveva la stessa moda dei
devoti. I marinai la prendono e la portano a casa. Non hanno rispetto per l’elemento religioso.

L’isola, piena di abitanti e ben coltivata, è ricca di fichi, grano, mangiano la farina senza farne del pane.

Gli europei andarono in un’altra isola, completamente ricoperta da alberi altissimi.

Un’altra ricca di acque buonissime e potabili, e con colombi commestibili, e altri uccelli.

Un’altra ricoperta da montagne rocciose.


Passarono tredici isole, ma sono tantissime (forse parliamo di più arcipelaghi) [la geografia di questa lettera è da
prendere con le pinze].

Le popolazioni parlano lingue diverse a seconda della isola vista, se vogliono passare da un’isola all’altra devono farlo a
nuoto. Non si capiscono fra di loro.

I marinai vedono qualcosa di meraviglioso, Tenerife, vedono il Pico de Teide, dicono essere lungo 40 km (in realtà è di
3500). Vedono sulla cima un biancore che sembra la vela di una nave, in realtà è il pennacchio del vulcano che emette
fumo.
Evitano di scendere a terra, sono intimoriti, credono vi sia un incantesimo che protegge l’isola, è minacciosa per questi
navigatori.
Alla conoscenza si mischia anche il sovrannaturale.

Molte altre cose non racconta ai mercanti di Siviglia, essendo mandato dal re di Portogallo, quindi per riserbo di
carattere politico, non vuole spoilerare tutto agli spagnoli.
I marinai a mala pena recuperarono i soldi del viaggio [Niccolò forse lo fa per depistare chiunque voglia andarci che
non sia dalla Corona portoghese].

Questi uomini nell’isola si coprivano, non sono tonduti (=tosati). Camminano scalzi nella Gran Canaria. Non conoscono
nessun idioma europeo, quindi vuol dire che non hanno mai avuto contatti con loro. Non sono più alti di noi, hanno un
corpo forzuto, hanno capacità intellettiva molto grande [!!!!] che si capisce parlandoci. È importante questo!
Si parla con loro solo facendo dei gesti.
Sono tra di loro pacifici, hanno grande rispetto per il loro sovrano. Cantano e ballano come i francesi [francesi evoluti
nel canto e nel ballo, quindi è un bel complimento[. Sono svelti, domestici più che gli spagnoli [gli si da una possibilità
a questi stranieri!]

La letteratura di viaggi del ‘500 invece sarà terribile, diversa da questa del ‘300.

Assomigliano all’uomo che vive in uno stato di paradiso terrestre. Sono vicini a quel tipo di prototipo. Descritti in
maniera sfavorevole i conquistatori.

Entrarono nella nave. Mangiano il pane, che non avevano mai provato, carne, formaggio, evitano il vino. [Elemento che
sottolinea morigeratezza] In Occidente invece le persone sono traviate/violate da questo e altro.
Non hanno mai visto oro, vasellami raffinati o spade. Mostrano di essere leali fra loro. C’è un comunismo dei beni,
nessuno mangia prima di aver diviso in parti uguali il cibo.
Vivono in uno stato di purezza originaria.

Dietro questa riflessione sui selvaggi, c’è l’idea di società che ha Boccaccio di uomo occidentale, cresciuto in un mondo
di violenza, colpe sociali, legate sempre a lussuria, avarizia, superbia (tre Fiere). Nel Decameron non ci sarà nessun
comportamento così puro. Lì si entra nell’impurità. Nel Decameron invece si entra nel peccato. \

C’è il matrimonio, non sono unioni casuali, c’è l’istituto della donna maritata, vestita appunto in maniera diversa da
quella non maritata che vanno nude, senza vergogna.

Hanno i numeri e il sistema decimale simile al nostro.


Troviamo un glossario alla fine della lettera su questo sistema decimale.

Boccaccio ha un’interesse che va oltre il Decameron, fa una ricerca intellettuale, geografica, che potevano essere
a sua disposizione nel ‘300. Ha una predisposizione a conoscere l’uomo. Anche grazie a queste letture
antropologiche e geografiche scriverà lo Zibaldone etc.

Questi scrittori non sono solo gli autori di novelle/episodi rese celebre a scuola, ma ragionano sull’attualità che
viene sfruttata come alimento per le loro opere. (min 1.25)

L. Ariosto (1474-1533) scrive l’Orlando furioso nel 1532


Dove vengono esaltati in maniera suprema i valori cavallereschi dei saraceni.
Siamo al di qua della demonizzazione che in epoca riformistica si farà di questi. Nella Gerusalemme liberata invece c’è
una dimensione forte di disprezzo e odio verso i saraceni.
La dicotomia buoni cristiani-cattivi infedeli non c’è.

Vediamo l’episodio di Cloridano e Medoro, canti XVIII e XIX.

Le opere fanno dei grandi discorsi sociali, ragionano sulla società possibile, quella reale ma anche su come dovrebbe e
potrebbe essere.

Non possiamo ridurre queste opere come Il Milione o questa come opere di pura lettura leggera e fantasiosa, dobbiamo
cercare il discorso sociale di carattere più generale sull’uomo che l’opera sviluppa. L’Orlando furioso cerca di indicare
una strada fuori dalla pazzia, Orlando pazzo per l’amore di Angelica, che si concede a Medoro e non a lui, Ariosto
vuole mostrare la pazzia dell’essere umano, dei comportamenti violenti. Invece invita i lettori ad uscire dalla pazzia e a
tornare in uno stato di salute mentale. Ariosto cerca di indicare agli europei una via fuori dalla guerra, una via di unione,
pacificazione tolleranza (min 1.31)

15 lezione 23/10/2019

Nel testo sulle Canarie si parla di nuovi mondi che si aprono al dl là delle colonne d’Ercole.
Noi volevamo mostrare che gli scrittori che consideriamo classici (troppo uso di questa parola) esercitano sull’uomo
diverse ricerche che non sono quelle letterarie, il Boccaccio non è solo un lettore di romanzi cavallereschi e di Dante,
ma studia informazioni geografiche ed etnografiche. Studia letture anche non canoniche e imprevedibili.

Abbiamo visto una visione dell’altro in chiave positiva, Polo parlava dei tartari in maniera positiva e aperta, e insieme a
Boccaccio avevano uno sguardo globale sul mondo, non solo l’angolo visuale europeo.

Lo stesso impulso verso gli altri lo mostra Ariosto con l’”Orlando furioso”, (min 7)
La maggior parte della vicenda narrata in questa opera si svolge a Parigi, altri viaggi si innestano anche altrove ma
Parigi e i dintorni sono il fulcro.

È un’invenzione di Ariosto.

Vediamo l’episodio di Cloridano e Medoro, cercano di recuperare il corpo del loro signore a cui vogliono dare una
degna sepoltura, viene ferito gravemente, si unisce (min 9)
Angelica è centrale, figlia del Gran Khan del Catai. Protagonista con Adamante.

L. Ariosto (1474-1533), Orlando furioso (1532), canto XVIII


 
164
Tutta la notte per gli alloggiamenti
dei mal sicuri Saracini oppressi
si versan pianti, gemiti e lamenti,
ma quanto più si può, cheti e soppressi.
Altri, perché gli amici hanno e i parenti
lasciati morti, et altri per se stessi,
che son feriti, e con disagio stanno:
ma più è la tema del futuro danno.
 
165
Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
de’ quai l’istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
et or passato in Francia il mar con quello.
 
166
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era et isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la età novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia più gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
angel parea di quei del sommo coro.
 
167
Erano questi duo sopra i ripari
con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando la Notte fra distanzie pari
mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far che ’l signor suo non rammenti,
Dardinello d’Almonte, e che non piagna
che resti senza onor ne la campagna.
 
168
Vòlto al compagno, disse: - O Cloridano,
io non ti posso dir quanto m’incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimè! troppo degna esca.
Pensando come sempre mi fu umano,
mi par che quando ancor questa anima esca
in onor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui gli oblighi immensi.
 
169
Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e forse Dio vorrà ch’io vada occulto
là dove tace il campo del re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo;
che se Fortuna vieta sì bell’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scuopra. –
 
170
Stupisce Cloridan, che tanto core,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e cerca assai, perché gli porta amore,
di fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma non gli val, perch’un sì gran dolore
non riceve conforto né trastullo.
Medoro era disposto o di morire,
o ne la tomba il suo signor coprire.
 
171
Veduto che nol piega e che nol muove,
Cloridan gli risponde: - E verrò anch’io,
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove,
anch’io famosa morte amo e disio.
Qual cosa sarà mai che più mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Morir teco con l’arme è meglio molto,
che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto. –
 
172
Così disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.
 
173
Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
- Non son mai da lasciar l’occasioni.
Di questo stuol che ’l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisioni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spaziosa strada. -
 
[…]
 
176
Poi se ne vien dove col capo giace
appoggiato al barile il miser Grillo:
avealo vòto, e avea creduto in pace
godersi un sonno placido e tranquillo.
Troncògli il capo il Saracino audace:
esce col sangue il vin per uno spillo,
di che n’ha in corpo più d’una bigoncia;
e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia.
 
177
E presso a Grillo, un Greco et un Tedesco
spenge in dui colpi, Andropono e Conrado,
che de la notte avean goduto al fresco
gran parte, or con la tazza, ora col dado:
[…]
 
179
Venuto era ove il duca di Labretto
con una dama sua dormia abbracciato;
e l’un con l’altro si tenea sì stretto,
che non saria tra lor l’aere entrato.
Medoro ad ambi taglia il capo netto.
Oh felice morire! oh dolce fato!
che come erano i corpi, ho così fede
ch’andâr l’alme abbracciate alla lor sede.
[…]
Vengon nel campo, ove fra spade et archi
e scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
e sozzopra con gli uomini i cavalli.
 
183
Quivi dei corpi l’orrida mistura,
che piena avea la gran campagna intorno,
potea far vaneggiar la fedel cura
dei duo compagni insino al far del giorno,
se non traea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e così disse:
 
184
- O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. –
 
185
La Luna a quel pregar la nube aperse
(o fosse caso o pur la tanta fede),
bella come fu allor ch’ella s’offerse,
e nuda in braccio a Endimion si diede.
Con Parigi a quel lume si scoperse
l’un campo e l’altro; e ’l monte e ’l pian si vede:
si videro i duo colli di lontano,
Martire a destra, e Lerì all’altra mano.
 
186
Rifulse lo splendor molto più chiaro
ove d’Almonte giacea morto il figlio.
Medoro andò, piangendo, al signor caro;
che conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti.
 
187
Ma con sommessa voce e a pena udita;
non che riguardi a non si far sentire,
perch’abbia alcun pensier de la sua vita,
più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire:
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto re sugli omeri sospeso
di tramendui, tra lor partendo il peso.

C’è una mescolanza etnica non indifferente. Si vede quell’umanesimo aperto a culture differenti, umano, cerca di venire
in contro all’uomo, di trovare una tavola di valori comuni con diversi uomini. Non siamo ancora. nel Rinascimento in
crisi che vedrà diverse invasioni in Italia, la Riforma, il sacco di Roma, la Controriforma, che invade l’espressione
artistica letteraria. Siamo in un Rinascimento cosmopolitico, aperto anche al mondo pagano, che ama la cultura pagana,
che considera patrimonio comune da fare proprio, senza remora ideologica. Dal mondo pagano pesca senza remore
ideologiche.

Nell’Orlando gli invasori non sono quasi mai demonizzati, ma descritti come uomini virtuosi ed eroici, buoni, come
quelli del campo cristiano se non superiori. (min 13)
I cristiani sono così storditi dall’ubriachezza e dal sonno che non si accorgono di venir uccisi.

In un passaggio particolare, che attinge all’Eneide di Virgilio, dal canto IX dell’Eneide, quindi Ariosto sfrutta un testo
pagano (min 15) Medoro prega la luna (divinità) e gli chiede la grazia per dargli la luce per fargli trovare il corpo.
Medoro era sicuramente musulmano e non pagano, ma qui prega una divinità pagana. Situazione descritta con
benevolenza, vista come una preghiera cristiana. C’è un grande rispetto per l’alterità che è comunque degna di essere
ricevuta. Viene considerata un opera pia questa di Cloridano e Medoro, quella di trovare il capo. Sono uomini devoti e
rispettosi dell’ordine, hanno una forma di pietas comparabile a quella cristiana.

L’Orlando furioso è di 46 canti in ottave (tipico del poema cavalleresco) , 8 strofe in endecasillabi del metro ABAB CC
da musicalità al dettato. Questi testi venivano letti nelle corti.
È diviso in canti, che oralmente venivano ascoltati, era il loro intrattenimento. Ma c’è più di questo, fa attraverso
l’intrattenimento un discorso sociale nella corte degli Estensi di Ferrara. Ariosto lavora per loro, ha una proposta
letteraria pacifista, aperta verso le altre culture. Si fa educatore di un certo ceto politico del suo tempo, che vuole
educare in rispetto all’altro, in un periodo di cristi in Europa. Il sistema filosofico degli autori va cercato in concetti
chiave, nelle opere etc. e ci permette di capire la sua visione del mondo.

L’ “Orlando furioso” è una continuazione di “Orlando innamorato”/“Innamoramento di Orlando” di Boiardo, con una
bontà, una continuazione dell’innamoramento.
Ariosto volle diffondere l’opera con una massiccia stampa, voleva diffuso in tutta Europa, segue tutte le fasi della
stampa in prima persona, dalla composizione dei torchi fino alle prime prove di stampa dove continua ad operare
correzioni. Ha una mentalità moderna. Crede nella forza della stampa.
Tre redazioni, ‘16, ‘21, ’32
Ci sono molti elementi dialettali della corte ferrarese e dei suoi dintorni. Si tratta di un padanismo, non più il pulito
toscano.
Ci vuole un’altra lingua per avere forza di incisione sui lettori italiani ed europei.

Nel ‘20 del ‘500 lavora sulla questione della scrittura Pietro Bembo, dove nel 1525 cerca di risolvere il problema
del multilinguismo italiano, suggerisce un modo sul piano della scrittura letteraria per risolvere il problema. (Sul
piano dell’oralità era impossibile un’unità)
Si risolverebbe il problema imitando in poesia Petrarca, e in prosa il Boccaccio, credeva avessero raggiunto la
perfezione. Questa tesi di Bembo, viene ad essere vincitrice. Molti scrittori cominciano a imitare Boccaccio e Petrarca.
Boccaccio per le novelle meno comiche, quello della cornice, delle novelle più serie, che non provengono dal
parlato/popolo.
Tra ‘500 e ‘800 per questa la lingua italiana fu così uniforme. Non c’è una grande differenza linguistica.

Uno dei primi a sostenere Bembo è Ariosto, elimina tutti i locarismi, gli introiti dell’area padana e adegua il suo testo al
Canzoniere. Cerca di adeguare l’Orlando. Opera che ha un lessico molto simile a quello del Canzoniere.
Da questo punto la letteratura italiana diviene bipartita, chi segue Petrarca e Boccaccio, classicisti, o chi vuole essere
anticlassicista. Abbiamo una scelta monolinguistica oppure quella plurilinguista. Dal 1525 la letteratura risulta divisa
quindi in due filoni. Chi segue, e chi cerca un altro linguaggio.

Vediamo l’opera

I francesi stanno distruggendo i saraceni, è morto anche il capo (min 39) dei protagonisti.
Nascerebbe la casata degli Este, cerca di mostrare l’origine della casata a cui lui era legato. Ma è tutto fittizio. Sono
delle costruzioni pseudo-storiche. Parigi assediata dai musulmani non si è mai visto.

Siamo di notte. Per tutta la notte dai saraceni, momentaneamente sconfitti, si versano pianti e gemiti, contenuti, per non
dare troppa soddisfazione ai nemici.
Saraceni mostrati con umanità, sono orgogliosi ma provano anche sofferenza, perché hanno perso amici e parenti nella
battaglia, o perché sono feriti.
Due mori dalla Libia, (Tolomitta), la storia dei quali viene descritta da me, la vicenda che ha portato alla rovina
questi due amici, è degna di essere descritta perché esempio raro di vero amore. La situazione non è solo una
descrizione della battaglia. I musulmani possono essere un esempio morale per tutti i lettori, così anche gli altri
personaggi. Anche nel mondo islamico si abbia un mondo feudatario, dove il feudatario si porta dietro i suoi vassalli,
come accadeva in Europa. Interessante vedere come Ariosto descrive Medoro il moro, in maniera incredibile, lo
descrive come se fosse quasi un tedesco, con la pelle bianca e la guancia colorita, ha una faccia graziosa e più bella
degli altri soldati. Ha una chioma bionda, lo fa sembrare un serafino. Non lo mostra brutto con capelli neri e pelle scura,
ricondotto alla sfera demoniaca, ma biondo, bianco, bello, giocoso, allegro, piacevole all’aspetto tanto da essere
paragonabile ad un angelo.

Erano questi due nelle fortificazioni dell’accampamento quando ci si trovava a mezzanotte.


Medoro comincia ad esprimere sofferenza per il suo capo Dardinello d’Almonte che è morto in battaglia. Piange per
questo. Dice a Cloridano che ha degli obblighi verso di lui, “pensando come sempre mi fu umano” (veramente uomo in
senso alto del termine) dato a Dardinello, barone del campo musulmano. Devo andare a prendere il corpo, devo
attraversare il l’accampamento dei francesi per arrivare sul campo di battaglia. Se destino vuole che io muoia, dice a
Cloridano, questo scriverà della vicenda. Cloridano è sorpreso dall’animo cavalleresco di Medoro. Gli sembra inutile
morire per uno scopo irrealizzabile. L’impresa è impossibile da realizzare.
I ragionamenti sulla difficoltà dell’impresa non convincono Medoro, che è disposto a morire per compierla. Questi due
sono molto amici, si scopre nell’ottava, la morte di Medoro addolorerebbe tanto Cloridano che porterebbe anche lui alla
morte (per recuperarlo o per disperazione?)
Ariosto porta tutti i valori cavallereschi nel campo dei saraceni. Porta questo trasferimento di valori anche al campo
saraceno. I valori vengono conosciuti grazie alla diffusione che Ariosto vuole mettere in pratica. Vuole diffondere dei
valori con questi episodi. [C’è un programma ideologico dietro quest’opera]

Partono e vedono nel campo i cristiani. Comincia un moto denigratorio verso i cristiani che non piangono sulle loro
sciagure, ma stanno incuranti della situazione. Ariosto gli definisce “i nostri” (cristiani). Ariosto si riconosce in quel
campo.
Devono attraversare il campo che dorme, non ci sono nemmeno le guardie. Perché non hanno paura dei saraceni, sono
anche sconsiderati, non hanno rispetto del nemico che considerano tanto nullo da non mettere neanche delle guardie.
Immersi nel vino e nel sonno, dormono per ubriachezza. Mentre nell’altro campo il vin non c’è.

Medoro dice che non dovrebbe ucciderli visto che passa per il campo, come hanno fatto loro?
I nemici sono così storditi che non si rendono conto di star morendo. Cominciano queste uccisioni portate da Cloridano.
Il Grillo, cristiano, dorme con il capo poggiato al barile, l’aveva svuotato. Cloridano gli tronca la testa e dal collo esce
sangue e vino, e intanto da morto sogna perfino di bere. Uccide Andropono e Conrado, greco e tedesco, anche loro
ubriachi che giocano d’azzardo tra di loro. Trovano un duca che si è portato dietro la compagna con cui sta avvinghiato
nel sonno. Queste due anime andranno insieme alla loro sede. Qui si da per scontato che sia l’Inferno ma Ariosto non lo
specifica. Portarsi una donna dietro non era accettabile dal punto di vista cavalleresco.

Ariosto mostra la follia della guerra, c’è qualche suo intervento per far capire che è assurda e folle. Qui si è creato nel
campo un vermiglio di sangue dai cadaveri. Erano tutte battaglie ad arma bianca, si iniziano ad usare armi da fuoco ma
solitamente si usavano armi da taglio come le spade. C’è un miscuglio di animali e persone in questo vermiglio. È una
scena ripugnante, vuole mostrare la follia. Sembra contraddittorio perché il romanzo cavalleresco parla sempre della
guerra.

La mistura orrida di corpi che riempie la pianura, poteva rendere vana la preoccupazione dei due amici fino al far del
giorno. Impossibile trovare il capo, se non fosse stato per la luna che tirò fuori un lembo di luce dalla nube. Qui c’è un
ritorno alla cultura cristiana anche se erano saraceni.
Vengono usati dei sistemi lessicali cristiani per descrivere i comportamenti musulmani, come fece anche Polo. Si
cristianizzano “i nemici”, gli stranieri. (min 1.05)

La trinità ha un aspetto di triformità che Ariosto evoca. Non si può dimenticare il contesto cristiano di riferimento.
La preghiera alla santa dea, usato per definire una dea pagana.

Edimione, pastore amato dalla dea luna.

La luna proiettò la luce. Si è trattato di un caso? Della fede di Medoro? Ariosto deve inserire tutte e due le ipotesi,
ma si capisce che è più proiettato verso la seconda, perché la fede di Medoro merita di essere ascoltata, perché lui
è degno di fede.

Si vede Parigi. La lune illumina la campagna ma anche l’uomo che cercavano. Non può essere una coincidenza, stiamo
parlando di un intervento divino.
Medoro lo riconosce dallo stendardo, è straziato da questa vista. Cerca di contenere il rumore dei pianti non per paura
dei cristiani che possano ucciderlo, ormai vuole morire anche lui, ma perché vuole tornare indietro per compiere
un’opera pia (compiute di solito dai cristiani quelle pie), seppellire il capo. Lo portano in spalla un po’ per volta.

C’è una parificazione fra l’eroismo saraceno e quello cristiano.


Viene data dignità alla religione pagana.
Attributi degli attribuiti cristiani.
C’è un tentativo di comprendere l’altro, progetto culturale e ideologico.

Un altro approccio che parte dalle scoperte geografiche, vediamo l’altro americano, che ha dei risvolti molto negativi
rispetto a Polo, Boccaccio e Ariosto.
La conoscenza dell’altro si mischia sempre di più alla necessità di conquista, alla ricerca di denaro, e poi le persone
devo ascoltare i capi. Più si demonizzano le culture da invadere, più è facile conquistarlo e credere che sia giusto
sottomettere l’altro, la letteratura fu un grande strumento di propaganda pro conquista. Veniva così giustificata.

Anche Leopardi nel descrivere i “selvaggi” li demonizzava. (min 1.14) Nel “Scommessa di Prometeo” descrive le
popolazioni dell’America centrale come dedite all’antropofagia etc.

Vespucci dà la stura a tutte le demonizzazioni dei nativi americani.

Colombo, alla radice di queste narrazioni di viaggio, ha lasciato due scritti sul suo primo viaggio, la “Lettera a Luigi de
Santángel” del 1493, la scrive al suo protettore, ministro delle finanza di Isabella di Castiglia, che lo finanziò, diventò
famosissima.
L’altro sul primo incontro assoluto è il “Giornale di bordo del primo viaggio e della scoperta delle Indie”, di Colombo,
Rizzoli. (min 1.18)

Colombo è stato colui che ha realizzato l’Ulisse dantesco, ha scoperto un mondo nuovo agli antipodi rispetto
all’Europa. Ha chiuso con la geografia antica, tolemaica, che non contemplava il mondo nuovo.
Pensava di trovarsi in Giappone, nel Chipango.

Il primo che ha affermato pubblicamente che quella terra sono un mundus (=continente) novus, fu Amerigo Vespucci,
che troverà differenze molto forti fra Europa e America e capirà di essere in un nuovo continente.

Colombo ha un mandato da Ferdinando il cattolico e Isabella di Castiglia. Non è un viaggio di conoscenza. Cerca lo
sfruttamento e l’asservimento anche se predica la via “pacifica” e “dolce”.

Descrive gli indigeni buoni, hanno una predisposizione a essere convertiti, con la dolcezza sarà facile renderli sudditi
della Corona.

Parte da Palos in Spagna il 3 agosto 1492. (min 1.20)

Vediamo la lettera che Colombo manda al ministro delle finanze, il 15 febbraio 1493
Si annuncia la scoperta di queste nuove terre, lo fa in modo particolare, “è una vittoria di Nostro Signore”, non sua ma
di Dio. Impiegò 33 giorni per arrivare. Trovò molte isole popolate da molte persone, prendendone possesso per conto
dei Signori mandatari del viaggio, Isabelle e Ferdinando, con il vessillo reale, senza opposizioni di forza.
Gli indios danno il nome di Guanahaní, ma lui la rinomina San Salvador. Si capisce subito l’intento di Colombo,
prendere le isole come se fossero suo appannaggio, come se fossero sue.
Descrive poi Haiti, che lui chiama Ispaniola (=piccola Spagna). Interessante la descrizione perché lo fa come se fosse
un paradiso terrestre, dove regna perpetua primavera, si sorprende che ci sia un clima così primaverile. Haiti offre molti
porti sulla costa, molti fiumi. Pensa sempre alla conquista e a quello che potrebbe offrirgli l’isola. Pensa al guadagno.
Queste montagne sono più grandi di quelle delle Canarie (che ormai era diventata una tappa fissa), sono posti molto
fertili, fiori, alberi sempre verdi, uccelli (dice che cantava l’usignolo, anche se uno studioso ha fatto notare che non
esiste come specie, ma Colombo ha un retaggio europeo e usa questo termine). (min 1.30).

16 lezione 28/10/2019

Colombo è diventato un personaggio letterario che esaltarono la sua opera di scopritore/esploratore e sui suoi
componimenti lasciati all’opera letteraria del ‘500.

La lettera della scoperta del febbraio del 1493 tradotta da Pier Luigi Crovetto.

Altri testi interessanti:


Della letteratura di esplorazione in Italia nel ‘500:
-“Scopritori e viaggiatori del Cinquecento” di Ilaria Luzzana Caraci, del 1996;
-“Navigazioni e viaggi” di Marica Milanesi del 1978-1988;

Sulle logiche del viaggio di esplorazione e dominio:


-“Dove finiscono le mappe: storie di esplorazione e di conquista” di Attilio Brilli del 2017;

Sulla visione del nuovo mondo come Eden ritrovato:


-“La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura” di Gustavo Costa del 1972 (ma comunque attuale). (min 10)

Torniamo alla lettera di Colombo, scritta al ministro delle finanze, patrocinatore di Colombo.

Colombo è stato vissuto come colui che ha completato il viaggio fallito di Ulisse, Colombo invece è riuscito nel suo
intento, che però non è chiaro nella sua conoscenza geografica che si farà strada qualche decennio dopo con Vespucci.

Si rivolge al protettore, dice che ha avuto l’appoggio di Dio nel viaggio, per conto del Re e della Regina, prenderà
possesso di questi nuovi territori.
Parlerà delle isole incontrate, e si sofferma su Haiti, ribattezzata “Hispaniola” (=piccola Spagna), considerata come una
provincia. Parla di quanto sia bella, ricca di vegetazione e di fauna. Regna sempre un’eterna primavera (connotato
dell’Arcadian e dell’Eden). Quando parla dell’usignolo che in realtà non esiste nell’isola, parla di una reminiscenza
letteraria di Colombo che si rifà a poeti bucolici della grecità, dove l’usignolo non può mancare. C’è il miele, altro
connotato del miele e della Terra Promessa degli ebrei, luogo dove grondano miele e latte. I luoghi biblici dove la
natura splende. Si sottolinea il fatto che ci sono diverse anche miniere di metalli, punto fondamentale perché sono la
ragione degli spagnoli nell’isola.

Il canto 28esimo (XXVIII) Dante descrive la scalata fisica lungo la montagna del Purgatorio che porta all’Eden.
Virgilio lascia Dante da solo, ormai puro può affrontare il viaggio, Beatrice lo prenderà e lo porterà nel Regno dei Cieli.
Dante immagina l’Eden sulla sommità del Purgatorio.
Dante ricorda l’approdo all’Eden che sembra un approdo in un’isola, si parla di una riva (orlo esterno della foresta),
anche se non lo è davvero. Luogo fiorito, c’è un’aura, un venticello che è sempre costante, colpisce la fronte non più di
quanto faccia un soave vento. Non impediva questo che cantassero gli uccelli. Eden come la pineta di Classe a Ravenna
quando arriva lo scirocco. Con questo linguaggio popolare Dante avvicina i lettori con il correlativo oggettivo di quello
che ha visto nell’aldilà.

(min 21) Tutte le cose si rafforzano a vicenda. Vi sono grandi differenza fra Cuba. Ci sono grandi miniere d’oro e di
altri metalli. Poi parlerà degli abitanti delle altre isole che sono estremamente miti.
È un Eden anche dal punto di vista umano. Le persone sembrano essere mansuete e pacifiche. C’è lo spauracchio dei
cannibali, che non si sa da dove vengono, non li vede di persona Colombo. Gli indios a San Salvado e Hispaniola non
ne vedono. La gente è pacifica. Vanno nudi, eccetto certe donne che si coprono con una foglia o con del cotone in caso
di bisogno. Non conoscono l’uso del ferro e neanche la traduzione in armi dei metalli. Sono popolazioni pacifiche.
Hanno paura, sono mansueti all’eccesso, non conoscono altre armi se non quelle fatte con vegetali. Non le usano per
ignoranza. Sono pavidi, remissivi, per Colombo è una cosa positiva. Gli spagnoli possono farne ciò che vogliono,
possono ottenere cose di valore in cambio di cose inutili come pezzi di vetro e crocifissi, ma per gli indigeni erano
importanti perché nuovi.
Hanno fede nel Cielo, credevano che Colombo e gli altri siano divinità, gente venuta dal cielo. Non perché sono
ignoranti, ma per non aver mai visto gente come noi. Non hanno mai visto nessuno con questi abiti, armi/navi etc. Ma
sono di ingegno, anche navigatori esperti di quei mari.
Le persone si possono rendere sudditi della Corona di Spagna, perché sono mansueti.

Immaginario letterario si presta alla conquista, immaginario che Colombo descrive ora in maniera moderata. Anche
(min 28) “Letteratura di viaggio in Italia”: la letteratura di esplorazione del XVI sec. spesso è “portatrice [...] di
un’ottica imperialista, eurocentrice, pronta a prospettare gli occidentali come la punta più avanzata della civi (vedi
appunti prof) una letteratura pronta a considerare gli occidentali come (min 28)

Gli illuministi del ‘700 hanno rivisto l’immagine del selvaggio e anche nella letteratura hanno creato una visione
dell’altro puro e genuino, si aspetteranno 200 anni prima della visione del “Buon selvaggio”.

Il primo che dà un’immagine demonizzante di quello che vede è:


Amerigo Vespucci (Firenze 1454-1512)
Mondus Nuovus lettera tradotta in tutta Europa. Scritta a Lorenzo di Piero de’ Medici (nipote di Lorenzo il Magnifico)
Dal Brasile alla Patagonia afferma che quelle terre sono un nuovo continente, “Il mondo nuovo di Amerigo Vespucci”
Scrisse in latino per permettere la diffusione europea (min 35) purtroppo, perché scriverà cose molto negative. La lettera
non è sopravvissuta e abbiamo solo le traduzioni rimaste.
Partenza 14 maggio 1501, arrivo in Brasile in agosto del 1501.

Vediamo la lettera:
Si tratta di un viaggio di esplorazione, non si conosce con il mandato di un regnante ma autonomamente. Qui invece c’è
un mandatario. C’è consapevolezza che scoprì un mondo nuovo, anche se gli antichi erano convinti che non ci fosse
niente. Ho trovato un continente abitato da animali e popoli più numerosi che in Europa e in Asia. Vespucci mescola
anche nel suo racconto cose anche di cui ha sentito solo dire.
Parla della popolazione del Brasile (15 anni dalla lettera di Colombo): vanno tutti nudi dal ventre della madre alla terra
(alla morte) è un fattore sempre presente. Sono robusti, proporzionati, sani, alti, gentili e aggraziati sebbene si deturpino
da soli (prima nota dolente: piercing etc.). Hanno solo sul viso anche sette fori, alcuni che potrebbero contenere una
prugna. Si comincia a parlare del mostruoso, nell’Eden si incomincia a inserire “mostruoso”. Riemerge il tema della
teratologia, elemento che prende sempre più spazio. Non hanno abiti, non hanno oggetti propri. Qui non viene visto
come comunismo dei beni, ma come anarchia. Vivono senza autorità e ciascuno è padrone di se stesso. Vespucci vuole
mostrare anarchia dove prevale il più forte. Non c’è giustizia sociale. (min 45) Si sposano quante volte vogliono, si
accoppiano fra consanguinei, rompono il matrimonio quando vogliono. Gli indigeni ribaltano quindi due cose
fondamentali del cristianesimo, il matrimonio e la proprietà privata, e poi parla del fatto che sono idolatri, altro fattore
fondamentale. I popoli combattono fra loro senza disciplina, non c’è nessuna disciplina militare. Combattono fra di loro
senza arte cavalleresca/disciplina. Gli anziani hanno la capacità di plagiare i giovani, non hanno valore positivo quindi,
ma sono dei burattinai.

Quelli che in guerra non vengono uccisi, vengono tenuti in vita solo per mangiarli. Arrivano i racconti uditi, “ho parlato
con un uomo che dice di aver mangiato 300 uomini”, troviamo nelle case carne umana trattata come noi trattiamo il
lardo. Si sorprendono che noi non mangiamo i nostri nemici. Lottano nudi.
Abbiamo tentato di dissuaderli dal cambiare le loro brutte abitudini e ci hanno promesso che lo faranno.

Comincia con Vespucci il tema negativo della scoperta, che si protrarrà per secoli.
Anche Leopardi raccoglie questa tradizione che userà a suo piacimento (min 51). Interessa l’altro per il suo sistema
filosofico che tratterrà del male che corrompe i popoli.

Attenzione a non idolatrare troppo degli scrittori che usano racconti di viaggio che hanno demonizzato aldilà della realtà
questi popoli.

Gli indigeni sono violenti, irrazionali, libidinosi (epicurei) e antropofagi: semantica infernale. L’unico residuo è nella
sanità dei corpi di questi indigeni.

È importante notare come questo scritto di Vespucci ribalta quanto scritto prima sugli indigeni (min 54)

Antonio Pigafetta ha scritto in volgare italiano, “Relazione del primo viaggio attorno al mondo”, del 1523-1524. Era un
segretario di Magellano durante il suo viaggio intorno al mondo.
È uno dei pochi sopravvissuti, morirono 200 persone.
Descrive i metodi usati dai conquistatori, durante le conquiste.
Mischia il veneto a un italiano volgare, a certe parole indigene, scoperte durante il viaggio. È un resoconto in italo-
veneto e con parole indigene e spagnole. (min 57)
La lingua tende a uniformarsi come abbiamo visto, ci sarà un classicismo letterario.

Questa lingua usata può essere più simili a Dante che a Boccaccio o Petrarca.

Le circostanze che portano alla nascita delle relazioni di viaggio (una delle più importanti al mondo).
Lui vicentino, fu un uomo di fiducia sulla Trinidad di Ferdinando Magellano. Nel viaggio su 237 uomini ne tornano 18,
torna solo la Victoria fra le altre 3 navi (min 1.00)

L’esito fu la conferma della sfericità della terra. Il viaggio descrive il primo contatto con molte popolazioni fra America
del Sud e Oceania. Racconta l’incontro fra europeo con popolazioni mai state accennate nella letteratura.
L’autore è stato auctor, agens e patiens, viaggio di grande sofferenza dove il viaggiatore ha vissuto in maniera comoda
ma invece fu un viaggio di sofferenza.

-Brasile: demonizza l’antropofagia rivede la tradizione, usata per spiegare questo gesto dei brasiliani, userà il termine
“uzansa”,
-Patagonia ritorno della teratologia
-Riferimenti diversi a Dante;
-Si sofferma sulle strategie di controllo, in parte sul ruolo delle armi da fuoco, e di occidentalizzazione messe in atto da
Magellano.

Nell’opera: capitolo III parla del Brasile (Tera del Verzín/Brasile sono sinonimi, è una pianta che serve a colorare). È
molto grande, appartiene al Re di Portogallo, è uno stato immenso. La popolazione non è cristiana, non adorano niente,
vivono secondo uso di natura, vivono per anni. Hanno case lunghe chiamate “boii”, barche create con un solo tronco, In
ognuna ci stanno 100 persone. Quando navigano sembrano i dannati dell’Inferno di Dante (primo riferimento a Dante e
soprattutto all’Inferno.

Mangiano carne umana non per piacere ma per una tradizione. L’uzansa vediamo che al principio c’è una vecchia, che
aveva un figliolo ammazzato da qualcuno. Questa ha un nemico davanti, gli morde una spalla come una cagna rabbiosa.
Questo torna alla sua tribù mostrando il morso. Dall’aggressione nasce l’usanza di mangiare i nemici. Non se mangiano
subito, si torna a casa con un pezzo e si lascia affumicare.
Questa gente si fa dei tatuaggi con arnesi roventi. Si dipingevano tutto il corpo. È una descrizione demonizzante,
Pigaffetta vuole mostrare le grandi differenza tra noi e loro, e lo fa con due passi dell’Inferno dantesco che gli prestano
le immagini per questa descrizione dei popoli incontrati.

Pigafetta descrive i dannati della palude stigia, Vediamo come Dante descrive questi iracondi che hanno avuto in vita un
eccesso di ira. (min 1.14):
Canto VII:
Con un vlto iracondo, queste si facevano a pezzi con i morsi.

Per Pigafetta non ci sono differenze fra queste e gli indigeni.

Poi nel Canto XXX Dante incontra i falsari di vario tipo, di metalli/monete/persona (impersonato qualcuno nella vita) e
i bugiardi. Sono messi nella bolgia dove sono continuamente colpiti da terribili malattie che gli affliggono. Sono sempre
arrabbiati, mangiano gli altri dannati che sono riversi per terra.
Quando descrive i cannibali brasiliani si ricorda dell’episodio che (min 1.17)

Vediamo il Canto XXX


Il corpo quando sa che sta per essere attaccato, si alza in preda a una forte rabbia. (min 1.20)

Mirra si maschererà pur di giacere con suo padre.

Pigafetta in un ambito dove non ci si aspetta che faccia uso di Dante, lo fa.

L’immaginario dantesco è molto frequente e molto radicato.

“La redazione del primo viaggio attorno al mondo” del 1524 toscana di Gian Battista (min 1.22)

In Patagonia:

Immaginario dell’Inferno di Dante. Sono esseri giganteschi che portano Dante e Virgilio.

I giganti sono coloro che si sono ribellati a Giove,


MA QUANTE NE SA IL PROF AIUTOOOOOO
Sono simbolo di blasfemia, ribellione di Dio come nell’inferno dantesco.

Arrivammo a 49 gradi sotto zero. Aspettano. Non passò nessuno se non un uomo gigante che cantava. Gigante
avvicinato dagli uomini di Magellano, che credette venissero dal cielo. Di fronte (min 1.29) allo specchio di acciaio, si
spaventa e con un salto all’indietro fa spostare 3 uomini. L’esempio di indigeno davanti a uno specchio si userà ancora.
L’incontro con il gigante prosegue e assume sviluppi interessanti.

17 lezione 29/10/2019

Rivediamo la Relazione del primo viaggio attorno al mondo. (min 2)

Abbiamo una visione negativa dell’altro, Pigafetta ha visto di persona le cose che narra, il resto lo raccoglie dalle
persone che incontra nel viaggio, è agens/patiens e auctor (come Dante) (ricostruzione memoriale basata su appunti di
viaggio).

Nella descrizione dei cannibali in Brasile (atto di uzansa), Pigafetta si serve dell’Inferno dantesco (Stige, falsari di
persona, Pozzo dei giganti) nella descrizione di quanto visto.
Vediamo il testo di Pigafetta:

Il gigante pensa che Magellano venga dal cielo. L’indigeno era molto grande, gli arrivavano alla cinta, aveva una testa
grande, aveva due buoi tatuati sulle guance, c’è un primo incontro con questo gigante. Di fronte allo specchio si tira
indietro, si spaventa.
Ci sono altri incontri con altri giganti. Sempre in Patagonia: era grazioso e trattabile, gli diedero il nome Giovanni
(facendogli pronunciare delle preghiere). Il capitano gli regalò molte cose, una camicia, spazzola, specchio etc. Lo
vestono all’occidentale, gli cambiano nome etc. Lo rendono uomo occidentale italiano. Nessuno lo rivide più, forse fu
ucciso dei suoi per aver conversato con noi. Sicuramente avrà avuto davanti persone robuste e grandi, ma non da
legittimare la descrizione fantastica che fa Pigafetta. (min 12)

Inferno XXXI
Legati i giganti con catene fortissime, sono i ribelli per antonomasia, Quando Pigafetta parla di queste popolazioni,
ricorda l’immaginario demoniaco, non lo fa a caso. (min 14)
Gli sembra di vedere una cinta muraria, in realtà si tratta di una corona di giganti legati.
Non sono torri, affrettati a raggiungere il pozzo dei giganti. Giganteschi svettano. Il resto se ne sta nella parte
sottostante. Giove li minaccia ancora con fulmini.
Dante dimostra di credere che i giganti siano esistiti, nel ‘300 non più, ma esistono. Per lui giganti erano degli animali
poi estinti (dono della natura la loro estinzione).

Pigafetta descrive figure di persone sacrileghe, rifacendosi all’immaginario dantesco. (min 18)

La descrizione chiara di credenze demoniache fra gli indigeni:


Capitolo III:
Siamo ancora in Patagonia. Quando un gigante muore, 10/12 demoni festeggiano.
Il gigante che presero nella nave dice di aver visto i demoni, con capelli lunghi, sputavano fuoco dal deretano (torna a
Dante)

Dante nel XXI dell’Inferno (vv.136-139), accompagnato da Barbariccia e altri, dice che il demonio emette una
scoreggia.

Quindi molte raffigurazioni di Pegafetta ritornano a Dante.

Il gigante invoca un demone, sarebbe stato posseduto, in punto di morte accetta di convertirsi e di farsi cristiano. Lo
chiamarono Paolo.

Questa è l’immagine che ci arriva degli indigeni. I racconti ebbero ambia diffusione nel ‘500/‘600. Legittimarono la
politica coloniale con queste rappresentazioni.

Meno legato al piano religioso, la relazione di Pigafetta è importante, mostra come venivano messe in pratica delle
strategie di dominio nel viaggio.

Le bombarde e cannoni sono già diffusi nelle guerre. Portate anche nei viaggi intorno al mondo.
Nei cap. X-XI sono nelle Filippine, si dice come l’esercito di Magellano entra nelle Filippine.
Entrano nel porto di Zubut (Cebu). Quando la flotta arrivava in un luogo da soggiogare, entravano sparando tutta
l’artiglieria. Come se fosse di usanza europea. (min 28)
Volevano entrare alle Molucche, erano i ben venuti. Il re accetta le merci da Magellano ma vuole un tributo in cambio.
Non era la prima volta che un occidentale metteva piede in quei luoghi.
Alla richiesta di pagare il tributo, il traduttore di Magellano disse: percioché [...] (min 30)
Questi sono quelli che hanno conquistato Calicut e Malacha. Se il re non vorrà essere amico del re di Spagna, questo
ultimo manderà molti soldati che lo distruggeranno.

Quella di Pigafetta è importante soprattutto perché è una delle prime relazioni di viaggio.

La visione negativa dura molti secoli. Leopardi anche nelle “Operette morali” raccolgono un retaggio che ha poco di
moderno.

Le Operette morali sono importanti per la prosa italiana, Calvino dichiara che Leopardi fu il suo maestro letterario.
Sono racconti o dialoghetti fra personaggi inventati e reali che affrontano una tematica filosofica. Hanno avuto tre
edizioni in vita dell’autore, Milano ‘27, Firenze ’34, ‘35 Napoli (min 35)
Vedranno la luce nel ‘45, prima censurate. Non si poteva sostenere di essere atei. Si sosteneva che la terra girava
intorno al sole, teoria osteggiata dalle autorità. Il dialogo su Copernico infatti non viene pubblicato.
Parla del suicidio, altro tema che in vita non pubblicherà mai. In vita l’approccio scolastico è semplificatorio, fu
un’opera perseguitata.

L’operetta del 1824 La scommessa di Prometeo racconta di un premio in palio dalle muse per l’invenzione migliore di
uno degli Dei. In cambio una corona di alloro. Le muse premiano determinate invenzioni tutte molto banali, es. olio per
ungere il corpo, etc. ma non premiano chi inventò l’uomo che lo plasmò dal fango, fatto da Prometeo. È colui che gli
ama maggiormente, li considera la creatura migliore. Scommette con Momo, divinità amica, e dice che avrebbe dovuto
vincere. Lo manda in Colombia, India e Londra per fargli vedere che l’essere umano meritava di vincere.
L’opera si ispira a resoconti di viaggio di esplorazione diretti: Parte primera de la Chronica del Perù del 1554 di Pedro
Cieza de Léon, cronista spagnolo, e indiretti “La missione al Gran Mogor del p. Ridolfo d’Acquaviva, m. 1583,
raccontata da Daniello Bartoli, 1663, nell’ambito dell’“Istoria della Compagnia di Gesù”. (min 42)

Vediamo il testo leopardiano del 1824:


Il collegio delle muse, povero, (le muse, le arti, non portano ricchezza ma solo gloria), misero in palio questo premio
per l’invenzione che sia più fruttuosa. Deve essere utile a qualcosa.
Il vincitore sarebbe stato rappresentano in statue di marmo e bronzo. Premio attribuito senza corruzione/favori/promesse
occulte etc., ma dato in onestà. Premiati tre dei:
-Bacco per il vino;
-Minerva per olio [del corpo];
-Vulcano per una pentola economica di rame che fa cuocere il cibo in fretta.
Gli altri dei lo prendono in giro per l’aver creato l’umanità. (min 50)

Prometeo conduce uomo nelle Americhe. Si fermarono a Popaian (Colombia). I villaggi sono sulla strada della
civilizzazione, si vedono villaggi e strade, alberi tagliati. È un luogo non civilizzato alla maniera occidentale ma ci sono
strade, abitazioni, sepolture, uso del sepolcro che indica un avviamento di organizzazione sociale. Ogni casa è
circondata da un recinto. Le persone vicine alle capanne stanno sedute intorno a un fuoco. Le persone salutano.
Prometeo parla con il capo famiglia, che dichiara che ha creato la famiglia solo per nutrirsene. Il figlio è in
cottura. Penso di mangiare presto la madre che non può più partorire. Le altre donne che tiene le mangerà
similmente. C’è la battuta “fra le popolazioni corre ben un rigagnolo”, quindi in realtà anche se viste lontane, sono
territorialmente vicine. Mangia in nemici (min 56).
Leopardi cita in nota i racconti di viaggio a cui si è ispirato.
Prometeo si rivolse all’Asia. Arrivano in India, Agra, assistiamo al rogo di una vedova, cosa che aveva colpito molto
l’immaginario europeo.
I missionari si trovavano davanti a scene incredibili. Le donne che restavano senza marito dovevano bruciare vive.
Assistono allo spettacolo che gli inorridisce e decidono di andare in Europa, il luogo più “evoluto”. (min 1.00)
L’unica risposta che sa dare Prometeo, dopo aver visto indigeni, poi gli indiani, civiltà mezzadria, sono poco evoluti.
L’Europa ti darà stupore. Se l’uomo è il più perfetto genere, lo dovrebbe essere a qualunque stadio evolutivo. In questo
siamo inferiori agli animali che non mangiano la prole se non in casi eccezionali, non la creano per mangiarle e non si
danno fuoco da soli.

Londra, la più progredita insieme a Parigi. In questa casa privata trovano una persona supina sul letto con la pistola
sulla mano destra e due bambini morti con lui. Tanta gente intorno. Chi gli ha uccisi? Il padre. Prometeo pensa lo abbia
fatto per una qualche disgrazia/sventura. In realtà non è accaduto niente. Era forse povero?? No, era di successo, ricca,
non aveva cause esterne che giustificavano questo gesto di ammazzare se stesso. Lo fece per noi. Aveva anche persone
a cui dare i bambini, piuttosto che ammazzarli. Ma non lo fece. Salvò il cane. Non i figli.
Solo l’uomo potrebbe ammazzare se stesso. Solo l’uomo è capace di suicidarsi e di uccidere per noia altri esseri umani.

Prometeo si dichiara sconfitto alla luce dei fatti, riconosce che l’uomo non è la più perfetta delle creature, ma in realtà è
la più imperfetta. (min 1.07)

Il selvaggio puro per Leopardi è l’uomo che vive allo stato di natura completamente solo, senza civiltà, non si aggrega,
vive come se fosse un animale solitario che lotta per se stesso per sopravvivere. Accoppiamento solo in rari casi, per
necessità.
Il selvaggio/barbaro ha invece un’organizzazione minima sociale (quelli di Prometeo). Ha abbandonato il peccato
originale, ha un principio di civiltà.

Pensiero dello Zibaldone, nr. 4185, scritto a Bologna:


Le tribù selvagge d’America non sono composte da uomini del tutto naturali, sono in qualche modo vittime della
ragione, per questo conoscono la guerra. Lo stato naturale deriva da questo. È quasi introvabile questo stato selvaggio
puro. È molto difficile. Motivo per cui questo selvaggio è già dedito alla guerra. Nello stato selvaggio puro, la guerra
non esiste, l’uomo vive in perpetua pace. I concetti di guerra ed egoismo emergono quando l’uomo inizia a conoscere la
ragione, la civiltà.

Pensiero 3789
L’uomo odia i suoi simili più di quanto gli animali odiano le altre specie, nuoce più di tutte le altre specie ed è l’essere
più asociale di tutti. Quando si concretizza una società, domina l’egoismo e la lotta di classe. (Leopardi fu uno dei primi
a parlare di lotta di classe, e lo fece nello Zibaldone).

Leopardi raccoglie dai racconti dei viaggiatori delle guerre tra selvaggi e legittima così le persone, perché hanno un
inizio di civiltà che crea la voglia di guerra.
I selvaggi puri sono gli abitanti della bassa California, i Californi, i quali vivono senza nessun tipo di società, non si
aggregano, vivono in stato animale. Non hanno tecnologia/lingua, sono isolati come i nomadi. È una popolazione che
colpisce l’immaginario, i missionari stanno all’inizio dell’‘800.
Anche in Leopardi troviamo un’immagine positiva, perché il selvaggio vive come un animale dei boschi, è ignaro,
senza cultura o tecnologia. È quasi un mito. Gli spagnoli cercano di convertirli. (min 1.20)

Gian Battista Vico compone “Principi di una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle
nazioni” si afferma l’esistenza di un rapporto fra sviluppo naturale psichico dell’essere umano, e lo sviluppo delle
nazioni, dal nascere al morire. Vico fa il parallelo fra ontogenesi e filogenesi, come le nazioni passano dalla vecchiaia e
poi muoiono, lo schema evolutivo arriva dalla nascita alla morte. Le popolazioni più antiche sono quelle più vicine allo
stato di felicità, più puro. I primitivi, coloro che sono fuori dallo stato civile europeo, e sono in una condizione pre-
civile, sono simili fra loro, e vicino al mondo dei bambini. Riescono ad avere tanta immaginazione come sono i
bambini.

Rousseau e il tema del “buon selvaggio”, non parla di bontà in senso etico, ma dice che gli uomini in natura proprio
perché non hanno ragione, sono più felici e più sani. Idea che qualunque cosa che sia più vicino al naturale, sia più
giusto e più pulito, non corrotto.

Diderot, “Supplemento al viaggio di Bougainville” del 1773. Diderot fa una serie di considerazioni su questo viaggio.
Lascia parlare i Tahitiani, afferma che la cultura tahitiana sia superiore a quella parigina, (anche dal punto di vista
sessuale), più chiusa, in pieno Regime. I bisogni indotti dagli europei ha creato angosce inutili a chi non aveva bisogno
di altro (bisogni indotti). Più si creano bisogni, aumenterà il lavoro per soddisfarli, idea che poi si sviluppa con Marx.
Discorso sul desiderio, il fatto che non si può desiderare qualcosa che non si conosce, gli uomini di Tahiti non si
annoiano mai.

Riflessione illuministica (Vico anticipa, non era illuminista) anticipano Leopardi.

18 lezione 30/10/2019 oggi il prof è iper felice, TI AMO CAMPANA

4-5-6 no lezione

Daniele Lobartoli racconta di un’esperienza nell’India del Nord, (min 7)

Leopardi fa una distinzione fra selvaggio puro (non conosce ragione o società, es. californi isolati nelle foreste e non
accettano contatti con la civiltà o l’opera missionaria di evangelizzazione) o quello barbaro, quello impuro. Corrisponde
nella sua mentalità all’età dell’oro. La civiltà sta sempre più cancellando (min 9), più corrotto rispetto al selvaggio puro
e originario.
Sopravvivono dei gruppi dei selvaggi californi, scrive di loro Leopardi nell’Inno ai Patriarchi, o De’principii del
genere umano (1822).
Leopardi si fa alla tradizione demonizzante anche di Pigafetta e altri. Salva però la natura dei selvaggi, in opere come
Inno ai patriarchi dove l’età dell’oro esiste ancora, specie fra i californi che non conoscono la società.
Al tempo di Diderot c’era già una struttura produttiva in Europa che creava bisogni indotti.
La rivalutazione della cultura primitiva con Rousseau è positiva, Diderot dice che l’etica sessuale degli indigeni è
preferibile a quella europea perché vi è una libertà sessuale maggiore. (Costruzione che fa dal viaggio di Bougainville
costruisce la sua idea di selvaggio) (min 16)

Le rivalutazioni ricominciano ai primi del ‘700.


Leopardi le abbozzava prima i prosa e poi le faceva in versi (per la difficoltà del lavoro). (min 19)

Nell’Inno ai patriarchi dice che lo stato endemico esiste e lo troviamo nei californi, che ancora vivono nello stato
endemico. La civilizzazione (min 21)
È una battaglia ideologica contro la civilizzazione europea, contro le missioni che cercano di evangelizzare gli indigeni.
Cosa è l’Eden di cui parlano i grandi poeti dell’antichità, luogo iniziale in cui vi era la pace fra uomini, fra uomini e
bestie, la guerra che Darwin avrebbe descritto per la loro sopravvivenza, nell’età dell’oro non esisteva, la natura dava
tutto quello di cui si aveva bisogno.
Leopardi dice che questo stato esiste, l’uomo vi si trova quando è totalmente lontano dalla società e dall’organizzazione
civile.

Dice nell’Inno dei patriarchi: (min 25)


Il canto degli antichi e la voce della fama non nutrono la plebe, il mito dell’oro ne parlano ma non è completamente una
favole, è esistito. Non bisogna pensare che sia un’età con monti costruiti da latte, che fosse tutto bello e felice. L’età
dell’oro è un’altra cosa. Non bisogna pensare ai luoghi comuni. Ma vi fu un’età dove l’umanità visse senza affanni.
Mossi dal puro istinto gli uomini erano meno consapevoli. Un molle velo copre le segrete leggi del Cielo e della natura.
L’uomo in un certo stato naturale non si rende conto delle leggi della natura. L’uomo non vedeva tutte le cose
corruttibili grazie a questo velo. (min 33)
È consapevole di un prima e di un dopo, nell’uomo primordiale il tempo divoratore non esisteva. Questa originaria
civiltà ancora c’è tra le selve vaste della bassa California. Tra queste nasce beata prode. Nasce ancora oggi una beata
prole, fra le vaste californie selve. L’angoscia del timore del domani non c’è, le membra non soggiaciono alla feroce
cancrena cui fisico invecchiando deve soggiacere. Questo non succede agli indigeni, loro non invecchiano male. Le
californie selve offrono riparo, acqua potabile e per loro è insospettato il giorno della morte, è qualcosa di insospettato.
La natura da all’uomo tutto ciò che gli serve per sopravvivere e tiene un velo sulla morte oscura e spaventosa.
Gli europei cercano di distruggere la sacca di Eden puro. Come sono inermi, il nostro è un ardimento scellerato contro
cui non possono nulla. L’uomo ammazza la natura. (min 39)
Questo nostro furor educa queste genti violentate a una violenza che non hanno mai provato, a desideri tipici della
civiltà a loro sconosciuti. La felicità è fugace e nuda (ricordando i popoli).

Leopardi costruisce un ponte fra l’Eden, lo stato selvaggio puro (min 41)

Vediamo la sua riflessione sui bisogni indotti, dove Leopardi dice:


Entrambe società nasce il bisogno, aumentano i bisogni man mano che la società avanza. Quanti bisogni l’uomo vede
moltiplicarsi nella sua vita. Leopardi già nel 1820 la circolazione dei consumi era evidente a Leopardi, crescono i
bisogni e cresce la fatica necessaria a soddisfarli.

Abbozzo autografo in prosa dell’Inno ai patriarchi


Le missioni che venivano chiamate anche riduzioni, Leopardi è contro, impongono la loro religione, è
un’evangelizzazione avviata. In poesia se la prende con il nostro furor, si guarda bene a citare i missionari, non li cita
esplicitamente ma chi deve intendere, intenda. La famiglia di Leopardi era vicina al Papa, vicina alle gerarchia romane.
È implicito che i missionari siano dei protagonisti in negativo. (min 43)
La gente non conosce la civiltà e non sa cosa sia. La cultura per Leopardi è un elemento di corruzione umano.
Contemplare liberamente la volta e l’ampiezza dei cieli è il sogno di felicità che Leopardi indica ai lettori, non una vita
nella ragione, ma una vita dove si possa contemplare il mondo senza ragione. Idea utopistica di libertà. (min 44)
I corpi dei selvaggi sono robusti e non conoscono le malattie dell’uomo civile. La scienza delle malattie dicono sia un
portato della civiltà. Vedono la morte/morire ma non se lo immaginano. Lo constatano solo quando avviene, come gli
animali probabilmente. In una vita si risolve il tutto. L’occhio allegro e vivace non alberga tristezza e noia (arrivate con
la civiltà). La loro vita è uniforme, si ripropone ogni giorno in schemi fissi ma la routine non li riempie di noia, al
contrario di noi che ci riempiamo di dolore per questa ripetizione.
Leopardi invita la civiltà a non esistere. Si chiede come mai pur esistendo la noia e l’infelicità perché si continua a
procreare. “Se la vita è dura perché continuiamo la sventura?” Perché continuiamo a procreare. Diverso da Kant che
credeva nell’uscire dalla ragione per svilupparci, era positivo. Che diritto abbiamo noi europei di portare la noia e il
dolore dove questi non sono conosciuti? Non basta alla nostra ragione d’averla perseguitata ed estinta in eterno in così
gran parte della stirpe nostra?
Leopardi chiede di smettere di civilizzare. I missionari sono molto presenti in California.
Ci provano da tempo, propongono di istruirli, di trattenere nelle loro riduzioni costringendoli a pregare, ma questi
cominciano a dimagrire, perdere il loro colore consueto, i loro occhi smorti, riescono tanto nell’europeizzazione che li
trasformano a diventare brutti come loro. (min 50)

Non sappiamo se e quando Leopardi abbia letto Vico, di lui se ne parlava in molte opere, l’idea di un primitivo più
felice rispetto all’uomo civile e più potente nell’interiorità si trova anche in Vico. Vico dice “discovrire il disegno di
una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni”, le nazioni procedono, per
provvidenza divina, da uno stato “ferino” verso uno sociale, civile e infine iper-civile, per poi tornare a quello
“ferino”=DOTTRINA DEI CORSI E RICORSI STORICI. (min 58)
Problema quando diventa una società complessa e ultra raffinata, dominata dalla scienza e della ragione, disastro per
l’umanità che prima o poi rifiuterà, si ribellerà, si autodistruggerà, si ritornerà allo stato ferino.
Questa filogenesi, questo sviluppo della nazione umana è riprodotto in piccolo (min 1.00)
Da infanzia (ferinità) fanciullo (mondo sociale e protocivile), adulto, vecchiaia , a morte (mondo civile/adulto).
Sovrapposizione fra ontogenesi e filogenesi.

Conseguenze di questa impostazione:


-nasce il mito occidentale del primitivo nell’originario puro, quando si è vicini a quell’età, tanto più si è puri. Siamo a
trent’anni prima di Rousseau. Ribalta uno dei più antichi paradigmi del viaggio, la civiltà è peggio di ciò che è civile,
tutto ciò che è scienza esatta, è peggio della natura. Quello primitivo è il vero poeta, ha (min 1.03)
Gli antichi e i primitivi sono naturalmente poeti, costruiscono miti e racconti che servono a capire bene il mondo.
La natura di piante/fiori/nuvole/e gli oggetti della vita quotidiana, e la circolità con il mondo naturale non si oppongono
all’esterno del soggetto, ma sono anche loro oggetti con cui l’uomo può comunicare. L’uomo può anche ricevere
risposte da questi oggetti. (min 1.08)

Vico, “Principj di una scienza nuova d’intorno .......................

XXXII
Quando gli uomini non conoscono scientificamente al mondo, distribuiscono alle cose la natura umana, considerano
animate come loro. Quando c’è ignoranza nelle cause, la mente umana cerca di far se le regole dell’universo. La
maraviglia è figlia dell’ignoranza (non conoscenza scientifica del mondo), meno si conosce più si è meravigliati del
mondo. Le scoperte geografiche tolgono la sorpresa e la meraviglia al mondo. (min 1.13)

XXXVII
Il più sublime compito della poesia è di dare vita alle cose inanimate, giocandoci, parlare con loro come se fossero
viventi. Come riuscendo ad avere un contatto con la realtà. Gli uomini del mondo fanciullo furono sublimi poeti. La
sapienza poetica, del mondo pagano, (min 1.14)
Erano in grado di percezioni molto forti, violente, avevano fantasie estremamente vigorose. La fantasia e robusti sensi
(sentire le esperienze) è il grado più alto dell’umanità, al livello dei fanciulli.

Costruisce un ponte fra gli antichi, primitivi, americani, fanciulli. Tutti della stessa fase evolutiva umana. Tutti
vedevano la stessa cosa. Pasolini fa riferimento ad uno schema simile. Il mondo dei fanciulli è più gratificante. Avevano
una fantasia potentissima in grado di costruire immagini tangibili. Di questa forza originaria della fantasia primitiva
sono residuo le metafore che ancora oggi usiamo nella quotidianità, non consideriamo ormai concrete, ma sono un
ritorno alla vita animista. Quando i primi uomini inventarono la metafora del collo della bottiglia, per loro quel collo
ricordava la fisionomia umana e quindi era pieno di vita. La metafora viene più lodata quando (min 1.20). Ogni
metafora che esprime l’animazione di un oggetto è anche una piccola favola, quello che è degno di osservazione è che
ci sono delle ripetizioni per tutte le lingue: capo, cima, principio, fronte, spalle, avanti, dietro, labro, pettine, barbe,
fauce o foce, cuore per il mezzo, sangue della vite cioè il vino etc., metafore che per Vico rappresentavano la vita
animista. Anche nel mondo italiano sopravvivono queste parole, anche l’Italia ha vissuto l’età della fanciullezza.

Leopardi: “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica” (1818):


L’uso del mondo antico per Madame era da superare in nome del romanticismo, specie tedesco che voleva tornare a uno
stato anteriore. Leopardi si distacca dai romantici, l’uomo non può tornare a essere antico, finché rimane lo stato di
civiltà non può essere libero.

Quello che furono gli antichi siamo stati noi tutti. Gli antichi come i fanciulli, ormai non ci sono più. Il mondo naturale,
ma anche le nostre mura di casa costituivano con noi un rapporto di amicizia o inimicizia. Non vi era un rapporto
distaccato. In nessun luogo ci sentivamo soli, in nessun luogo. Ci sentivamo sempre in compagnia. La meraviglia
continuamente ci possedeva. Vediamo (min 1.29)
19 lezione 11/11/2019 (percorso di letture nr. 3)

La storia della letteratura di viaggio

In particolare sul:

-Viaggio conoscitivo (scientifico, filosofico o moralistico), ha come primo obbiettivo la conoscenza e il progresso,
l’incremento delle conoscenze umane. Può essere moralistico se la conoscenza è di carattere antropologico e la
conoscenza della natura umana. (min 3)

-Viaggio intimistico (sentimentale e simbolico).

Vedremo che la letteratura italiana è anche scrittura di viaggio intimistico e conoscitivo.

Il tipo di viaggio che abbiamo visto fino ad ora `Ωe stato quello esplorativo (utilitaristico-colonialistico, visti con i
viaggi di esplorazione mercantile, missionaria o coloniale).
Attilio Brilli Dove finiscono le mappe.

Prevedono:

-L’esistenza di un committente di viaggio, un garante economico o politico, laico o ecclesiastico, al quale il traveller
obbedisce e deve rendere conto del proprio operato.
Da un programma e i risultati devo essere provati con una documentazione precisa e prevedono anche oggetti raccolti
durante il viaggio;

-La presa di possesso, da parte del traveller a capo della spedizione, e per conto del potere ordinante, dei luoghi
esplorati;

-La diffusione ed esportazione (pesantemente impositiva) in contesto extra europeo di valori etici ed usi europei ritenuti
superiori e pertanto educativi; es. Robinson Crusoe esporta la civiltà occidentale, occidentalizza Venerdì, l’indigeno che
incontra nella sua esperienza di viaggio. Nei Viaggi di Gulliver il mondo invece viene rispettato, Gulliver viene
dominato da quel mondo e non viceversa. Entrambi del ‘700 ma con due visioni diverse. Si insinuano nella letteratura
commerciale tramite i romanzi che danno dei paradigmi alla società;

-Lo sfruttamento economico delle zone visitate. Sono luoghi da sfruttare.

Il viaggio conoscitivo scientifico-filosofico è nuovo rispetto al viaggio esplorativo, che incomincia appunto ad avere dei
competitor.
Questo tipo di viaggio prevede:
-l’esistenza di un committente, come nei viaggi di Spalanzani nelle due Sicilie e in Oriente. (min 14) Anche nei casi
dove nel viaggio conoscitivo c’è un committente ma è una presenza secondaria. Algarotti che va in Russia nel ‘700 e
partecipa a una spedizione diplomatica, quindi c’è un committente ma è assolutamente libero. Si aggrega nel viaggio
organizzato. La conoscenza rimane il momento fondamentale.
La presa di possesso e lo sfruttamento economico sono del tutto assenti.

Si cerca di liberarsi dall’idea dell’eurocentrismo. (min 16)

Quando nasce questa mentalità? Prima di Bacone, ma le abbiamo viste anche nel Milione, e anche con Boccaccio, ma il
viaggio come momento di osservazione scientifica è portato dalla rivoluzione galileiana e quella baconiana, dal
pensiero che si forma sull’osservazione diretta della realtà. Da lì si possono trarre delle teorie, ma sempre partendo
dall’osservazione del reale.

Luca Clerici in Introduzione a Scrittori italiani di viaggio, 2008 dice che: (min 19)
“Con la diffusione del metodo sperimentale si passa dalla speculazione filosofica “stanziale” (quella degli scienziati “da
gabinetto”) all’indagine mobile sul territorio, e così il rapporto con la realtà acquista concretezza rispetto all’astrazione
speculativa degli intellettuali tradizionali”.

C’è un autore che dice come stanno le cose in maniera definitiva. Es. come le persone devono comportarsi se cortigiani.
Nel dialogo è diverso, ci sono oppositori diversi, che vediamo con Giordano Bruno e Galileo Galilei. Bruno cerca di
arrivare a una realtà provvisoria, è uno dei motivi per cui verrà arso vivo. Ci sarà quindi un dialogo. Questo è il
correlativo oggettivo del viaggio: muoversi significa muoversi, chi vuole scrivere dialoghi sul mondo deve ascoltare le
voci di chi lo vive.

RIccciarda Ricorda in Introduzione, dice che:


Tra ‘500 e ‘600 “il viaggiatore diviene osservatore attento della natura e dell’uomo: si viaggia soprattutto per vedere e
conoscere il mondo, registrarlo e metterne insieme un’immagine completa e particolareggiata, nella condivisione
dell’esigenza, fondamentale nella scienza moderna [...] di attivare una precisa separazione appunto tra osservatore e
osservato, tra soggetto e oggetto.

Galileo è uno dei più grandi scrittori della letteratura italiana, ha fondato il metodo sperimentale che ancora domina
attraverso le scienze esatte ma lo ha fatto attraverso la letteratura, usando un grande uso della sintassi, ma anche molte
parti poetiche, narrative, attraverso cui Galileo dimostra diverse sue teorie. È uno scienziato-scrittore. Non si può
parlare di metodo sperimentale che ha rivoluzionato la scienza senza la letteratura. Questo passa in secondo piano di
solito.

(min 27) Lamenta che cultura umanistica-scientifica si siano separate. Prima del ‘700 si era grandi scienziati se si
era contemporaneamente anche grande scrittore.

Calvino definisce Galileo, insieme a Leopardi, come il più grande scrittore italiano.

Per capire la svolta che stiamo guardando dobbiamo contestualizzare la svolta in cui Galileo pubblica Il dialogo sui
massimi sistemi, nel periodo della Controriforma, dalla fine del Concilio di Trento, 1545-1563, l’Italia è pervasa dalla
Controriforma.
Il Concilio di Trento ha portato al:
-rafforzamento dell’Inquisizione;
-creazione da parte di papa Paolo IV Carafa dell’Index librorum prohibitorum (1559): il suo richiamo poteva anche
implicare la morte. Quindi si fa una lista di libri che si possono leggere solo se si ottiene una dispensa, a rischio e
pericolo del lettore. Pochi anni dopo, Antonio Possevino, gesuita mantovano, pubblica per conto della Santa Sede, la
Bibliotheca selecta, i libri che si possono leggere e che possono portare alla salvezza.
L’Italia entra in questa forca di libri che si possono leggere e che non si possono leggere. Leopardi per leggere alcuni
libri deve chiedere a suo padre che dovrà chiedere alla Santa Sede il permesso, come Locke, e altri grandi illuministi
francesi e inglesi. E siamo a inizio dell’‘800.
Domina la monarchia assoluta, il re ha potere assoluto su tutto, anche sulla vita e sulla morte delle persone. Le
monarchie fra ‘600 e ‘700 il sovrano si definisce di natura divina.
Ci sono i ceti sociali, esistono i borghesi, i nobili, passare da un ceto all’altro era praticamente impossibile.
Nell’Arcadia c’è una certa mescolanza fra ceti nel 1590. L’Arcadia vede anche le donne, cominciano a scambiare
epistolari con gli uomini. È un movimento importantissimo che però oggi non viene più considerato. L’Italia torna ad
essere un paese feudale. L’Italia è in mano agli stranieri, nel ‘600 dominano gli spagnoli, da Napoli in giù, in Sardegna,
nel milanese.
Questo è il contesto in cui si collocano le scritture scientifiche specialmente di Galileo e di Bruno.
Giordano Bruno (1548-1600) parte da De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Niccolò Copernico (min 37) e
scriverà Dialoghi cosmologici (1584), La cena de le Ceneri, De la causa, principio e uno, De l’infinito, universo e
mondi.
Afferma l’esistenza della vita extra terrestre. (min 42)

Nel De l’infinito dice:


“Uno dunque è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale, l’eterea ragione per la quale il tutto (vedi su
iol, settima settimana).

In questo contesto si inserisce anche Galileo, non esistono solo Dante e Petrarca etc., Bruno e Galilei vanno considerati
al loro pari.

Una delle più grandi scoperte (non proprio sua, fece un insieme di diversi elementi) fu il cannocchiale, scoperta dei
quattro satelliti di Giove, che chiama “pianeti medicei” dedicandoli al Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici. Vede
quello che prima non si vedeva.

Nel 1613 scrive una lettera a un suo allievo, Benedetto Castelli, dove Galilei divide tra scienza e sacra scrittura, dicendo
che la scienza ha come obbiettivo le dimostrazioni sensate, l’esegesi ha come obbiettivo l’interpretazione delle sacre
scritture, sono due campi di indagine completamente diverse e le loro verità possono anche non coincidere. [paraculo
forse per far accertare il suo testo]. Deve farlo per sgombrare il campo dalle scienze religiose, come se Dio non ci fosse.
Nel momento in cui ci si confronta con la natura, si deve analizzare, come stando fuori da una stanza.
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo è l’opera che poi lo manderà a giudizio.
Il Saggiatore è una lettera di risposta a Lotario Sarsi Sigensano, anagramma di Oratio Grassi savonese, Libra
astronomica ac philosophica qua Galilaei Galilaei opiniones de Cometis a Mario Guiducio expositae examinantur,
Perugia 1619, dove esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario
Sarsi, Roma 1623. (min 52)

Galileo vuole subito scegliere un titolo che si distingua dall’avversario, dice che non pesa le cose grossolanamente, dice
che usa la bilancia esquisita, cioè precisissima.
Il saggiatore contro la libra. La bilancia di precisione degli orafi contro la grossolana stadera.
Quello che ci interessa di più nel saggiatore è di come deve essere la figura dello scienziato, diventa un argomento
saggiativo in cui un uomo dotato da natura d’uno ingegno perspicacissimo e d’una curiosità straordinaria” è un
viaggiatore-naturalista, prototipo di ogni viaggiatore filosofo di età moderna e contemporanea. (min 54)
Dimostra come l’uomo deve muoversi, è il prototipo del viaggiatore scienziato che esce dalla sua casa/studio e va a
vedere direttamente la realtà in cui si trova. È uno dei primi casi assoluti in cui si vede questo viaggiatore naturalista e
ha un valore fondativo. (min 55)

Galileo Galilei, Il Saggiatore

Invita alla prudenza nel definire le comete, la natura è lontana ed è spiazzante, non bisogna cadere nei pregiudizi di
quello che si vede.
Per lunghe esperienze ha osservato che gli uomini troppo spesso vogliono discorrere di cose che non sanno e che non
capiscono Man mano che si procede con la conoscenza, più di deve essere cauti. Nasce questo scienziato tipo in un
luogo solitario, che sta in un paese dove non c’è la scienza o cultura, dove si sente isolato rispetto agli altri e rispetto al
mondo. Galilei qua non parla di soldi/sfruttamento di una scoperta. L’uomo-scienziato deve avere in se un grande
ingegno e una curiosità straordinaria. Questo uomo è un allevatore di uccelli che producono canti diversi l’uno
dall’altro. Ha sempre avuto degli uccelli, ha sempre sentito il loro canto melodioso, ma da fuori casa sente un suono
melodioso che sembra quello degli uccelli, ma che andando fuori casa capisce che è un pastorello che suona una specie
di flauto. Che effetto ha questa scoperta? Donò un vitello al pastore per aver quello zufulo (flauto). Avendo fatto questa
scoperta che fuori casa c’è una verità che non avrebbe mai immaginato o preventivato, ragionando, crede che ci saranno
altre verità, lui scoprirà viaggiando. Quindi volle allontanarsi da casa credendo di trovare altre avventure. È l’inizio del
viaggio conoscitivo. Motivo di conoscere il piacere della conoscenza, quello che muoverà questo scienziato e così altri.
Fa diverse conoscenza man mano che vede il mondo. Non sta chiuso in casa. Conoscerà un altro
strumento ad archetto. Se fosse rimasto in casa non avrebbe conosciuto questo e neanche lo zufulo. Come scopre che ci
sono questi due modi inaspettati di creare i suoni, crede che ce ne potrebbero essere altri. Continua raccontando altre
scoperte che questo uomo di ingegno farà. Per avere queste esperienze deve uscire di casa. Deve uscire dal suo
cabinetto, dalla sua prigione intellettuale e conoscere il mondo.
Oggi crediamo tutti questo, uscendo dalle aule dominate dai libri si può consumare nel mondo e per strada la
conoscenza. Nel 1623 non era scontato. Galileo era fra i primi a sostenere queste idee, quello che oggi è saldamente
insito nelle nostre idee.
Sempre più scienziati sul modello di quell’uomo cominciano ad abbandonare le loro polverose biblioteche e cominciano
a girare per il mondo e a conoscerlo attraverso l’ispezione diretta.

Antonio Vallisneri (1661-1730) rappresenta uno dei primi esempi di viaggio scientifico, era un filosofo della natura
(fino al ‘700 non c’era una grande differenza fra fisico, medico, astronomo, si occupavano tutti della natura, le
discipline scientifiche erano un tutt’uno).
Nel 1714 compone Lezione accademica intorno l’origine delle fontane (1714;1726). Si occupava di capire come
funzionassero le fontane, credevano nascessero dalla condensazione di acqua marina che poi finivano nel sottosuolo
delle montagne, dove vi era molto calore e con la condensa poi avrebbero formato fiumi. (min 1.13)
Fu uno dei primi a capire il ciclo idrogeologico. Nel primo ‘700 non era una banalità. Per dimostrare il ciclo, capisce
l’esistenza andando a vedere le sorgenti del fiume Secchia fra Reggio Emilia e Massa Carrara (Appennino tosco-
emiliano). Racconta anche come avvenivano le spedizioni, arruolati dei protatori con le strumentazioni, c’era un
notevole dispendio fisico, non vi erano strade o grandi mezzi di trasporto, ma gli scienziati sentono il dovere di
vedere/studiare il mondo.
Descrive una realtà svolta fuori dall’accademia, oggetto di una lezione accademica. Raccolta in una prosa molto
elegante, l’esperienza ai suoi colleghi. Troviamo gli stessi versi e sostantivi che riferiscono ai campi semantici del
movimento in correlazione ai moti della conoscenza, cioè guardare, osservare etc. (min 1.15) Ricordiamo che le lezioni
un tempo si tenevano leggendo per ore e ore lunghi testi. Lezione vuol dire questo.

Antonio Vallisneri, Lezione accedemica intorno l’origine delle fontane (1714)

Alla base ci sono due sorgenti, ma lui va in cima per vedere da dove arrivano le sorgenti.
È bramoso di vedere. È andato su un alto aspromonte, pieno di desiderio di conoscere quello che ha visto, e trovare
che sotto la cima queste due fontane. Dopo aver visto l’origine del fiume (sorgenti), vuole vedere le origini di queste
acque. Scrive una prosa scientifica per far capire la realtà. I ghiacciai riempiono le falde acquifere. Sottolinea il fatto
che vide quanto descritto. Questi sono i lambicchi, strati sedimentari di terra che ricevono le acque distillate dalle nubi,
non dalla terra.
Così, andando di persona, dimostra come funziona il ciclo dell’acqua.

Un altro passo parla della Grotta che urla, grotta delle Alpi Apuane, e quando ci si trova nell’imboccatura interna, si
sente questo urlo come di una bestia.
Vallisneri vuole andare a vedere di persona questa grotta, dove le persone credevano ci fosse una creatura mostruosa,
che minacciava il visitatore, lo speleologo. Ci si cala dentro.
Dice che andando dentro, dove scorrono due rivi, capirà che in realtà non ha niente di misterioso, ma solo acque che
cadendo dall’altro e insinuandosi nella roccia, producono una specie di urlo.

Angelo Spalanzani andrà a vedere in Calabria nello Stretto di Messina, si sente come un verso di cani. Vuole andare a
vedere il motivo vero del latrato, che scoprirà essere il mare contro gli scogli, non Scila il mostro.

Questi scienziati cercano di demistificare questi miti. Es. Polo con il rinoceronte di Sumatra dimostra non essere un
unicorno.
Dimostrano il mondo com’è, si toglie intanto sempre più disincanto dalla natura.
Per dimostrarlo gli scrittori devono muoversi. È una visione nuova della realtà. Non si può più avere immaginazione,
ma si può avere nel teatro, nella poesia, ma non nella scienza, questa non ammette più miti o mistificazioni.

Il principio della verificabilità empirica, applicato al viaggiare, una delle prime volte che accade questo, principio per
cui bisogna dare alla propria memoria scientifica (min 1.29) lo scienziato deve dare ai viaggiatori scientifici tutti i
luoghi per far capire che i luoghi sono veri ????????? Chiunque poteva seguire quelle mappe, tornare sui suoi passi,
“m’è paruto diritto (per soddisfare a molti amici, che ciò richiedono) [...] citare particolarmente luoghi, dove ho fatte le
Osservazioni, acciocchè, se alcuno volesse certificarsene, possa rifarle” (Vallisneri, Lezione). Il mondo è diventato un
laboratorio, un oggetto sperimentale. Siamo nel 1714. Quello che leggiamo è anche letteratura, Vallisneri esprime
questo sempre con una prosa raffinata. Lo fanno anche gli scienziati di oggi.

20 lezione 12/11/2019 ❤️❤️❤️❤️❤️bellissimaaa [il prof ci rende patriottici]

Abbiamo visto il viaggio conoscitivo e intimistico, prima di questi abbiamo marcato le differenze rispetto al tipo di
viaggio predominante dell’epoca che precede Galileo e le affermazioni dei viaggi scientifici-deterministici cioè il
viaggio esplorativo, il viaggio della tradizione medievale della prima età moderna, il viaggio delle grandi scoperte e le
loro caratteristiche come l’esistenza di un committente, la presa di possesso dei paesi visitati, l’esportazione di valori
etici e usi considerati superiori, lo sfruttamento economico dei luoghi visitati etc. niente di tutto questo c’è nel viaggio
conoscitivo che a partire dal ‘600 si afferma in Europa e di cui abbiamo traccia nella letteratura di viaggio, se non per
l’esistenza talvolta di un committente, che qualcuno, un ente, una figura che finanzi il viaggio, ma il fine principale del
viaggio esula da questa committenza, ed è invece la conoscenza della natura e degli uomini, delle cose del mondo.
Questo viaggio del mondo ha quasi il suo avvio dalla rivoluzione galileiana, dal suo metodo sperimentale,
l’affermazione del un pensiero evolutivo che cerca nell’esperienza la conoscenza e che poi si trasferisce
dall’osservazione laboratoriale, all’osservazione nel laboratorio “natura”, che Galileo affermando nel Dialogo sui
massimi sistemi definisce il “Gran libro della natura”, idea anche paradossale questa natura come libro, ma per lo
scienziato si comporta come un libro e va letta al pari dei libri: volgersi al gran libro della natura, non solo ai libri in
biblioteca. Rousseau lo chiamerà invece Grande libro del mondo.
Così comincia l’esperienza del viaggio scientifico-conoscitivo-moralistico.

Eravamo arrivati all’esempio che Galilei nel Saggiatore da di viaggiatore notturnista, nelle prime pagine dell’opera in
cui rappresenta un uomo dotato di ingegno perspicacissimo e di una curiosità straordinaria, il quale esce di casa per
individuare l’origine di alcuni suoni che ode dalla finestra. Andando all’esterno scopre degli strumenti, come lo zufulo e
un tipo di violino che producono suoni meravigliosi ma di cui non conosceva l’esistenza. A partire da questa esperienza
compie altre esplorazioni di mondo e scopre/ascolta altri suoni inaspettati, ascolta perfino il sibilo che esce dalle
cerniere di una porta di un tempio in chiesa, che cigolando producono un suono particolare.
Per capire l’origine dei suoni bisogna uscire di casa e andare a conoscere il mondo. È il prototipo di ogni viaggiatore,
filosofo, naturalista della nostra epoca, colui che va fuori casa per cercare l’origine dei fenomeni.
Abbiamo visto l’indicazione galileiana realizzata da un galileiano doc, Antonio Vallisneri, il quale fa esattamente come
l’uomo di ingegno perspicacissimo e va a vedere l’origine delle sorgenti, va direttamente a scoprire come funziona il
ciclo idrogeologico e scriverà la memoria accademica Lezione accademica intorno all’origine delle fontane, letta
all’interno dell’università dove lui opera come insegnante di medicina, anche se non ha un accademismo tradizionale
alla sua base. La scienza andrà sempre di più verso queste lezioni, nate da sopralluoghi fatti all’esterno, nella natura,
cominceranno le indagini naturalistiche intorno all’Italia, con la registrazione di piante e specie che non ha precedenti
nella letteratura prima del ‘700.
Il ‘700 è il secolo del muma (?), del movimento (Ricciarda), in cui il movimento diventa un elemento fondamentale
della vita culturale, non si può più immaginare la cultura come qualcosa di stanziale, che sta fermo, chiuso, ma sempre
in movimento fisico ma anche evolutivo, il progress.
Un passo di Vallisneri demistifica il mito del mostro che sta all’interno della tana che ulula, lo fa calandosi nella grotta
e dimostrando che non c’è nessun mostro, ma che si tratta solo di acque che sbattono nelle cavità delle rocce, quindi
conduce alla natura il mistero, mossa demistificante che lo scienziato sempre più spesso fa. Ma soprattutto nel finale
della Memoria dell’azione (??????) applica il principio della verificabilità empirica, già nato con Galileo e implicito
nel metodo induttivo-deduttivo di Galileo, quello delle sensate esperienze e necessarie dimostrazioni, che chiunque
potesse volendo rifare l’esperimento in condizioni identiche per raggiungere gli stessi risultati del ricercatore. Vallisneri
l’adatta al viaggio naturalistico e allora accompagna alla sua descrizione del viaggio, la mappatura esatta di tutti i luoghi
visitati, in modo che chiunque possa capirli, ripercorrerli e rivedere le stesse cose che ha visto lui. Considera ormai la
natura come l’oggetto di indagine da laboratorio.

Un altro esempio di viaggiatore naturalistico del ‘700, parlando di pre-illuminismo, è


Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730), conte bolognese, personaggio straordinario, di statura europea che ha fondato
nel 1711 l’Istituto delle Scienze di Bologna che andava ad affiancarsi alla pari dell’Accademia di Francia e la Royal
Academy di Londra, ora associazione culturale, rimasta solo accademia delle scienze, che aggrega scienziati, letterati,
legisti, quasi tutti universitari, ma che nel primo ‘800 era un centro di ricerca fondamentale e all’avanguardia. Fondato a
Palazzo Poggi, avvalendosi di alcuni grandi studiosi dell’epoca come Ustacchio Manfredi, Francesco Maria Zanotti.
Fu un grandissimo viaggiatore, inaugura un uso dello scienziato viaggiatore, lui è il primo scienziato viaggiatore
italiano. Vallisneri compì viaggi limitati, Marsili invece compì viaggi globali, conosce la civiltà europea in tutti i suoi
aspetti, viaggiò in Turchia, in Olanda, Inghilterra, Ungheria, Francia, e ha riportato osservazioni scientifiche-
naturalistiche da ciascuno di questi luoghi. Gli studi sulla talassografia, gli studi dedicati al mare e alle correnti, e alla
flora e alla fauna marina sono ancora oggi usati come base di studio per scienziati del settore.

Vediamo l’inizio del proemio delle famose Osservazioni intorno a Bosforo Tracio, garante di Costantinopoli che
Marsili pubblica nel 1681. Si era recato presso lo Stretto del Bosforo, e aveva compiuto studi approfonditi sulle
correnti, sui pesci, sulle piante, sugli organismi in questo tratto di mare, lasciando questa memoria straordinaria, sia per
contenuti, sia per la scrittura scientifica molto bella, dedicata a Cristina di Svezia, regina convertita al cattolicesimo che
negli anni ‘80 del ‘600 cerca rifugio in Italia sfuggendo dalla Svezia protestante, ispiratrice dell’Arcadia italiana, quindi
personaggio molto rilevante.
Marsili qui osserva che il ‘700 è il secolo del movimento, sostituito alla quiete della conoscenza. Il movimento è la
nuova parola chiave della cultura, movimento anche attraverso i viaggi.

Marsili dice nel testo:

L’uomo deve imitare la natura perché essa è prodotta da Dio, è di creazione divina. Ogni suo parto aumenta o produce il
moto (simile a Boccaccio che affermava alla fine del Decameron che niente nel mondo è stabile, ma tutto in
movimento, qui però il moto è concepito in modo diverso, qui come una natura a cui gli scienziati nella loro conoscenza
devono affidarsi e seguire). Se qualcosa rimane senza moto, il suo progresso si arresta, anche riferendosi agli scienziati
del suo tempo, afferma che anche le loro (le sue comprese) ricerche senza moto muoiono. Quindi muoviamoci. Ne
abbiamo chiaro esempio negli animali. Si rivolge a Cristina di Svezia, sua maestra e che imitando la natura, abbandonò
le mura. Assecondando la natura, anche io ho abbandonato le sicure mura paterne, e corso per molte parti del mondo
conosciuto. E tutto mi è servito per la mia crescita interiore.
Prima del ‘700 Marsili, come tutti gli altri scienziati viaggiatori, avranno in mente questa idea, che il moto è la legge
della conoscenza e dello scienziato, ed è per questo che bisogna muoversi per conoscere, sposare la conoscenza e il
movimento, non rimanere stanziali.
Il più importante scrittore di viaggi scientifici italiani è Lazzaro Spallanzani (1729-1799) è un grandissimo scrittore,
gesuita, biologo naturalista, che per tutta la vita fu docente di storia naturale a Pavia, lì fondò il museo di storia naturale.
Non fece mai parte dell’Illuminismo, anche se ci sono molti aspetti della sua vita che si richiamano all’illuminismo.
Ha compiuto due importantissimi viaggi per la sua vita:
-a Costantinopoli, seguito dal bailo (una specie di ambasciatore/funzionario diplomatico dell’antico regime), lui voleva
conoscere la natura fra Venezia a Costantinopoli. (1782)
-nel regno borbonico delle Due Sicilie (1788), il resoconto di questo viaggio e tutte le osservazioni scientifiche, nasce il
capolavoro del viaggio scientifico Viaggio alle due Sicilie (1792), si concentra specialmente su indagini vulcanologiche,
si incentra sui vulcani di Napoli e della Sicilia, analizzati specialmente il Vesuvio e l’Etna, ma anche i vulcani delle
Isole Eolie, ci sono dei racconti meravigliosi sullo Stromboli del 1788 e uno dei primi racconti è su Arcuti, isola
meravigliosa e intatta ancora oggi, che Spallanzani visitò per fare dei rilevamenti mineralogici, su una barchetta, ci fu
un approdo complicato e quasi mortale. Troviamo un aspetto romanzesco nei suoi racconti di viaggio, lui si presenta
come un eroe della conoscenza, che rischia la vita per vedere le cose, si cala dentro lo Stromboli e assiste a una violenta
eruzione dello Stromboli, rischiando quasi la vita. Questi personaggi erano così, compivano queste esperienze per la
prima volta straordinarie di conoscenza.
I caratteri di questo viaggio sono di tipo conoscitivo, si configura come uno spostamento inserito nell’attività
accademica, ma è un’attività che mira all’approfondimento della conoscenza. Nelle sue vacanze estive compie questi
viaggi e registra queste osservazioni.
Non si trovano motivazioni esterne alla scienza. Ricerca il progresso delle conoscenze a beneficio di molti. Non si fa
cenno a mecenati o a missioni particolari affidate al traveller. Siamo solo di fronte a un caso assoluto di viaggio
conoscitivo. Sembra di essere di fronte a una libera scelta di iniziativa personale, anche se finalizzata al bene comune
discenti (si riportano conoscenze di cui tutti poi potranno usufruire. La conoscenza è l’obbiettivo unico.
In molti altri casi di viaggi precedenti quelli di Spallanzani la conoscenza non era l’obbiettivo primario.
Secondo Spallanzani la ricerca è perennemente in progress e ampliabile, non esistono delle acquisizioni definitive, e
questo lui lo dimostra con i suoi viaggi.
Dice nel Viaggio delle due Sicilie: dice che lo spirito umano è illimitato, non riesce mai a esaurire il soggetto che
considera, quindi a conoscere fino in fondo la cosa che vuole conoscere.

Nella sua scrittura il momento essenziale è la descrizione, quindi l’uso letterario della scrittura, descrivere gli ambienti,
i reperti naturali, attraverso taccuini che lo scrittore viaggiatore porta con se, elabora e rifinisce, ma che già lo
accompagnano durante il viaggio. Per lui è fondamentale saper descrivere l’oggetto che si osserva è un momento
fondante per la scienza. Le descrizioni particolareggiate formano la base di un solido sapere. Forse lui prende anche
dalla pittura questa idea di una descrizione dal vivo dei fenomeni attraverso i taccuini: descrive infatti in presa diretta
tutto quello che vede, come i blocchi di fogli per un pittore.
È fondamentale descrivere le cose per un solido piacere. Lui ancóra la sua idea di scienza alla scrittura perché la
descrizione si può fare solo attraverso la scrittura, quindi la dettagliata di un fenomeno, sia esso naturale o umano o
minerale, è letteratura.
È un momento in cui l’uomo cerca di articolare il suo linguaggio per catturare in maniera dettagliata i particolari di un
oggetto. Questo è l’uso espressivo/artistico della letteratura. La letteratura non è solo la descrizione di una
sensazione durante una poesia, ma è anche la descrizione di un sasso. Come Van Gogh che faceva di un paio di
zoccoli faceva l’oggetto centrale della sua pittura, e nessun pittore un secolo prima fece una cosa del genere, porre al
centro di un tema oggetti insignificanti, così anche la letteratura può inventare dei temi e delle situazioni e anche
ritrarre il reale, rimanendo comunque letteratura.

Spallanzani afferma anche che lo scienziato vede ciò che l’uomo comune non può vedere. Ha quindi una capacità
di sguardo superiore a quello dell’uomo comune. C’è una distinzione fra l’occhio scientifico e l’occhio dell’uomo
comune.
C’è un passo nel Viaggio delle Due Sicilie dove Spallanzani si trova ad assistere allo svuotamento delle reti dei
pescatori dello Stretto di Messina. Si mescola spesso agli artigiani, alle attività popolaresche che però Spallanzani
sfrutta per le sue osservazioni. Con lo svuotamento delle reti scopre molti organismi per lui importanti, alcuni neanche
mai registrati da Linneo nella sua catalogazione. I marinai tengono i pesci più buoni, lo scienziato invece trova nuove
specie da registrare.
Scriverà:
Anche nelle cose più piccole e che sembrano insignificanti per l’uomo comune dedito al lavoro, per la scienza possono
racchiudere grandi meraviglie. Ripone nei vasi di vetro degli esseri che a lui sembravano interessanti, tra cui una specie
scoperta già da Linneo. Scoprì anche una nuova specie di polipetti. Le descrizioni degli animali verranno accompagnate
da figure.
Nella fase finale, i resoconti di viaggio si servivano anche di disegnatori di professione per tradurre le descrizioni
verbali in descrizioni coliche, cioè da disegni e tavole.

Anche in Spallanzani lo scienziato è colui che demitizza il mondo, colui che ha quasi il dovere di togliere la favola al
mondo, di annullare il favoleggiare degli antichi. È una funzione demistificante che gli è propria. È molto chiaro sia nel
Viaggio in Oriente e nel Viaggio delle Due Sicilie.
C’è un passo molto celebre del Viaggio in Oriente dove Spallanzani visita l’Isola di Citera, isola greca sotto il
Peloponneso dove secondo il mito nacque Venere, quindi è la sua isola, che molti poeti dell’antichità, tra cui Omero,
avevano favoleggiato e cantato nei loro versi. Quindi è un’isola dalla forte pregnanza mitologica nell’immaginario
neoclassico settecentesco, perché questi decenni centrali del secolo sono i decenni del neoclassicismo, c’è una
riscoperta molto interessata all’antico, soprattutto a seguito dei ritrovamenti di Pompei, Ercolano e Stabia, effettuati nel
secolo e che riportavano moltissimi reperti di ambienti e anche affreschi della cultura magno-greca. L’Europa così
riscopriva l’antico, la mitologia, le favore antiche dei greci e dei latini. Spallanzani va su un’altra direzione: gli interessa
l’approccio demitizzante del mondo, così si reca sull’Isola di Citera, isola del mito per antonomasia, e qui la descrive
come uno scoglio scabrio, brullo e privo di qualunque attrattiva mitologica/poetica. Interessante però per la grande
quantità di reperti fossili che offre, non perché è la culla di venere.
In questo viaggio in Oriente dice che non esiste traccia del Tempio di Venere, e l’Isola è solo una congerie di scogli e
montagne inospitali. Qui la funzione rinoceronte, salamandra, del Milione raggiunge l’apice assoluto e non è un caso
che Leopardi pochi decenni dopo queste pagine rimpianga la morte delle illusioni che la scienza moderna ha portato nel
mondo, questa scienza vuole spazzarle via.
Continua dicendo che il mondo è totalmente demitizzato ed è diventato ormai un oggetto di osservazione scientifica:
se tolta la patina del mito, rimane solo l’oggetto naturale da osservare senza nessun filtro.
Per questo motivo Spallanzani si recherà a Scilla, a Reggio Calabria, per vedere il famoso scoglio di Scilla e capire cosa
è che produce il latrato di cui si parla nell’Odissea nel libro XII a proposito del mostro Scilla (Scilla sta dalla parte
calabra e Cariddi nella parte siciliana). Constaterà che il rumore è prodotto dalle acque che si infilano nelle grotte nelle
cavità sotto lo scoglio: una tendenza simile a quella dell’uomo di Galileo nel Saggiatore che cerca l’origine dei suoni, o
del Vallisneri che cerca l’origine del suono cupo della grotta che ulula.

Anche con questo approccio demitizzante e oggettivo, il mondo ha una sua bellezza.
Si sostituisce semplicemente alla meraviglia antica, la meraviglia delle favole, una nuova meraviglia, la meraviglia
della conoscenza, del vero e del conoscere che per Leopardi sarà un problema, “l’arido vero”, per gli scienziati-
viaggiatori è straordinario, è piacere e meraviglia scoprire questo vero naturale.

A un certo punto nel ‘700 però subentra come oggetto dei viaggiatori conoscitivi l’uomo.
[Gli esempi di Vallisneri, Marsili e Spallanzani si concentravano soprattutto sulla natura, sugli
animali/piante/minerali/mare, ma quasi mai sull’osservazione degli uomini].
Nel ‘700 invece comincia a diventare oggetto di osservazione anche l’uomo, come qualsiasi altra forma di oggetto
studiato fino ad allora.
Il viaggio conoscitivo sempre più spesso si sposta sul piano moralistico.
Non è un viaggio scientifico-antropologico come possiamo intenderlo noi oggi, qui parliamo di moralismo, quindi di
analisi di usi e costumi che non ha una scientificità paragonabile agli studi attuali dell’antropologia, però fa comunque
dell’uomo un oggetto di osservazione/riflessione durante i viaggi. Già prima dell’Illuminismo succede questo. Non
nasce con l’Illuminismo questo viaggio conoscitivo moralistico, cioè legato agli uomini.
Nasce pian piano nel ‘700 un relativismo etico, che poi consente al viaggiatore di spostare la sua osservazione dalla
natura agli uomini, e quindi a conoscerli meglio insieme a tutti gli altri fenomeni: per poter osservare gli uomini in
maniera obbiettiva bisogna attivare un relativismo: uscire dal pregiudizio, considerarsi superiori a quegli oggetti e
avvicinarsi in punta di piedi a questo oggetto di osservazione. Questo nuovo avvicinamento al fenomeno umano
comincia a diffondersi fra il ‘600 e ‘700, ma non era mai appartenuto alla letteratura italiana precedente: abbiamo visto
come i viaggiatori del ‘500 considerassero le popolazioni incontrate nei viaggi americani, della fortissima
consapevolezza di una superiorità della propria cultura rispetto a quella degli uomini incontrati, quindi non si poteva
conoscere veramente con rispetto e con una volontà effettiva.
Dal ‘700 il relativismo etico vede un momento importante nella riflessione in Italia, che è segnato inaspettatamente da
un grandissimo cosmografo, realizzatore di carte geografiche e mondi, il padre Vincenzo Maria Coronelli (1650-
1718), un francescano minore, [per dimostrare che anche in ambito ecclesiastico ci sono stati sentimenti pre-
illuministici o illuministici, c’è stato un cristianesimo illuminato, galileiano, che non è un fenomeno che appartiene solo
all’ambito laico ma anche in buona parte ecclesiastico], cosmografo per conto della Serenissima e dello Stato veneto.
Viaggiò molto in tutta Europa.
Possiamo leggere nella prefazione al Viaggio d’Italia e d’Inghilterra, scritta nel 1697, un’importante affermazione di
relativismo etico: l’intitolerà Dell’utilità de’ viaggi, nella quale cerca di dimostrare al lettore in cosa possono essere utili
i viaggi nella formazione umana.
In questo anticiperà Rousseau nell’Emilio (Libro V) dove dirà che i viaggi sono il completamento di una formazione,
quindi bisogna completarla.
Già sessant’anni prima Coronelli aveva scritto queste cose.

Dice:

Se noi trovassimo tutto ciò che c’è buono nel nostro paese, non viaggeremo, se esiste il viaggio vuol dire che sentiamo
l’esigenza di trovare qualcosa che soddisfi i nostri desideri anche fuori dalla nostra patria. Ogni terra produce i suoi
frutti, ogni clima ha i suoi privilegi: non esiste un paese che si possa definire superiore/migliore di a un altro.
[Erano molto più intelligenti un tempo].
Riconduce la varietà antropologica del mondo al volere e alla sapienza divina, che vuole che le parti del mondo siano
diverse e che vuole che dialoghi fra di loro, che si scambiano qualcosa. Questo è volontà della provvidenza (è
provvidenziale) che ci sia questo interscambio fra i popoli. Nella società umana non tutti facciamo lo stesso mestiere,
ciascuno ha le sue inclinazioni, ma servono al funzionamento della società, e così ogni cultura ha le proprie
caratteristiche positive che servono al mantenimento della macchina mondiale, al funzionamento dell’insieme.
Come Leopardi, crede che i climi influenzano le culture. Non si acquistano nuove conoscenze se non attraverso il
viaggio, lasciando le domestiche pareti. Un uomo che non è mai uscito di casa non conosce il mondo, e questo è il più
grande rimprovero che si possa fare ad un uomo. Per diventare un grande uomo, un grande principe, bisogna viaggiare
(la base del Grand Tour, che completava la formazione degli uomini in quest’epoca).
In casa d’altri, bisogna viaggiare come sordi e come muti, limitandosi a osservare, senza reagire. Il viaggiatore
deve adeguarsi ai luoghi per non offendere chi abita quei luoghi. Rispettando le culture altrui si arricchisce
l’amore universale.
Siamo all’alba di una nuova cultura che ha come obbiettivo non l’osservazione della natura ma dell’uomo.
Coronelli si interessa solo del fattore uomo.

Cose non molto dissimili verranno dette da Rousseau nell’Émile (1762), inno al viaggio contemporaneo. Ma Coronelli
diceva cose simili a Rousseau 60 anni prima di lui. [patriottismo cavoloooo]
Rousseau rivolge al suo pupillo un esplicito invito a viaggiare per dare adeguato compimento alla propria formazione:
(libro V dell’opera) il fine precipuo dell’ “art de penser” (la filosofia) è studiare l’uomo (con i suoi usi, costumi e
istituzioni) e formare su di esso una teoria generale; e solo viaggiando si può raggiungere al più alto grado di questo
risultato. (min 1.00)
Quello che Rousseau cercò di fare in tutta la sua carriera.

Rousseau, Emilio (De viaggi)


Le letture che effettuiamo ci possono rendere presuntuosi ignoranti se non abbiamo letto il libro del mondo, cioè se non
viaggiamo (ritorno al libro di Galileo, siamo in quel contesto semantico, il mondo è un libro da leggere, per completare
la nostra cultura vera e autentica). Nella scienza moderna è un’idea che ricorre spesso. Se uno ha visto solo un popolo,
non conosce l’uomo.
Il vero scopo di un viaggio è il sistema filosofico, non l’interesse e questo non si lega alla conoscenza. Si è
completamente smarcato dal viaggio che tra ‘500-‘600 poteva avere delle finalità commerciali e delle finalità
scientifiche, ma questo viaggio non può avere altro interesse.
Il viaggiare non è un vedere paesi, bei paesaggi, bei musei, ma conoscere popoli nel profondo (si distacca dai turisti
e dal Grand Tour), solo questo è il vero amore del sapere. Il primo oggetto di osservazione è l’uomo. I viaggi
affrettano il pieno sviluppo delle inclinazioni naturali e portano a termine la formazione dell’uomo.

Esiste un illuminismo italiano, abbiamo avuto grandi scrittori illuministi ma eclissati da quelli francesi. Ma è un
fenomeno importante anche in Italia. Ne vedremo qualcuno anche dedito al viaggiare, come Francesco Algarotti. Al
dimostrazione che la cultura italiana, come quello francese, dove nasce l’Illuminismo (nell’antico regime), che si crede
abbia fatto nascere la Rivoluzione francese. Ma anche in Italia ha attecchito con il potere dominante per fare delle
riforme della società, come è accaduto a Napoli (al pari di quello francese) e a Milano (es. con Beccaria), poli
importantissimi.
(min 1.10)
Esce la prima traduzione in Italia ancora quando l”Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des
métiers, (1751-1772) (Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, arti e mestieri) quindi comprende anche la
scienza e l’artigianato, le scienze applicate, questa è vera educazione circolare, la vera enciclopedia. Tutto questo aiuta a
formare l’individuo.
Per illuminismo noi siamo stati contemporanei dell’Illuminismo francese. La traduzione dell’enciclopedia in Italia
avvenne contemporaneamente che all’estero.
Alcune differenze fra l’illuminismo:
-Quello italiano è riformatore, idea che la cultura vada svecchiata, si evitano rotture forti con il potere. Illuminismo
tende a lavorare alle autorità, ai principi dei vari stati. Si eliminano nell’illuminismo italiano gli estremismi religiosi,
l’ateismo sfrenato di alcuni illuministi francesi. Cerca di distribuire la felicità al maggior numero di persone possibili,
migliorando la vita e la cultura di queste;
-Opera di svecchiamento della cultura italiana, muore il culto dei classici a cui la cultura italiana era legata. Colpo
micidiale al classicismo;
-Si introduce una nuova lingua più aderente alle cose, più aperta ad un vocabolario internazionale che tende a includere
diversi saperi dell’agire umano, ha come obbiettivo l’aderenza alle cose. Questo è l’obbiettivo degli illuministi.

-Giuseppe Beretti (1719-1789) fonda la La frusta Letteraria. L’attacco ai poteri dominanti nasce qui a Venezia, con
questa rivista.
-Pietro Verri (1728-1797) fonda Il Caffè, (con il fratello Alessandro Verri) si allude al luogo (min 1.12)
-Cesare Beccaria
I caffè diventano luoghi di discussione dove le persone di diversi ceti possono incontrarsi. Nasce nel contesto milanese
del ‘700. I fratelli Verri immaginano di riportare discussioni presenti nelle botteghe del caffè.
-Carlo Goldoni ci tiene a diffondere gli ideali illuministi, con la sua opera La bottega del caffè.
(min 1.20)
Alessandro Verri nell’articolo Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della
Crusca, prende ufficialmente le distanze dal verbo classicista, cerca un italiano più internazionale e più appropriato al
tempo.

Gli autori del Caffè, nel loro cenacolo, scrivono sono contro qualunque cosa che si allontani dalla libertà. Vogliono dare
pieno sfogo alla libertà. Siamo portati a preferire le parole alle idee. Come i classici al loro tempo sono stati dei grandi
innovatori, erano al tempo degli inventori del linguaggio, come lo hanno fatto loro, noi vogliamo essere dei grandi
inventori della lingua, anche noi vogliamo inventare la nostra lingua nuova nella nostra rivista. Almeno che non si
dimostri che la lingua si arrivata alla perfezione, cosa impossibile (min 1.25)
Se italianizzando le parole straniere potremmo rendere meglio le nostre idee, non ci sarà nessuna autorità che ci
impedirà di farlo, non ci asterremo di farlo per timore o del Casa o del Crescinbeni.
Ci vuole buon senso con i foresterismi, ma se anteponiamo le idee alle parole, noi prendiamo quello scopo anche se le
parole arrivano dall’estero.
È un discorso che parte dalla lingua ma è illuministico in senso più ampio. Protestiamo che useremo dalla Calabria alle
Alpi, se parliamo di italiano come base, non è quello toscano ma quello che si parla in Italia dalla Calabria alle Alpi, su
questa base di Italiano sovraregionale, possiamo prendere forme sintattiche da tutte le regioni, noi vestiamo anche
parole straniere. C’è un’apertura assoluta a tutti i viaggi.
Nasce una prosa nuova, quella alla quale noi siamo ancora abituati oggi a maneggiare, una prosa che non ha confini,
sovra-regionale. Bisogna spalancare le porte della lingua italiana a forme più inclusive. Quando questa inclusione può
essere protratta e sfociare in una rottura della lingua italiana? È un problema affrontato anche in epoca dei Verri ma che
mostrano nel Caffè una grande apertura. Da qui nasce il nostro giornalismo migliore.

21 lezione 13/11/2019

Rilevazione

Siamo nel pieno dell’Illuminismo italiano.


Con Francesco Algarotti (1712-1764) si entra nel pieno dell’Illuminismo italiano.

L’opera Encyclopédie promuove un’educazione circolare.


In Italia il progetto assume tinte moderate, rivolto più al riformismo sociale (trasformazione della società), della protesta
contro i tiranni e delle ideologie che presto porteranno alla Rivoluzione francese.
I Verri scrivono contro la pena di morte, con I delitti e delle pene Beccaria porta avanti una battaglia contro la pena di
morte, seguita appunto dai Verri.

L’articolo dei Verri, (Pietro era più un filosofo, Beccaria più giurista) chiede di una maggiore comunicabilità del testo
filosofico, si va oltre però, dicendo che bisogna andare oltre la lingua della Crusca per aprire il linguaggio a parole più
tecniche, usando anche parole regionali, e un’apertura ai foresterismi, non importa da dove venissero queste parole.
(????????????)

Un altro personaggio importantissimo dell’Illuminismo è Giuseppe Parini, protagonista assoluto dell’Illuminismo, non
fece parte dell’Accedemia dei Pugni (Verri), ma di un’altra Accademia, quella dei Trasformati. (min 10) di cui fa parte
Parini.

Giuseppe Parini (1729-1799) scrive Il Giorno è un poema didascalico, tratta di un uomo che non ha ancora incarichi
politici ma che avrà in futuro, la voce che narra nel giorno è un istitutore, il piccolo borghese che forse è lo stesso
Parini. Prende in giro gli usi e i costumi di questo signore nullafacente. (min 10)
Verrà pubblicato in anonimo. Mai pubblicato in vita. Le uniche due parti pubblicate sono Il Mattino e Il Mezzogiorno. È
un vero attacco al potere e alla nobiltà, è un opera di grande impegno civile.

Le odi, anche di grande impegno politico, composte negli anni ‘50 del poeta, escono in tre edizioni, ‘91, ‘95 e poi
postuma nel 1851.
La giustizia si riferisce a quella di Beccaria.

Nel Bisogno sostiene che molti delitti sono commessi perché gli uomini sottostanno al bisogno, dipendono dal carico di
ingiustizia che la società riversa su di loro. Il male è una necessità legata alle urgenze della vita che non vengono
soddisfatte. Dedica l’opera ad Antonio Wirtz De Rudenza, pretore in Svizzera (Repubblica Elvetica).

Si riferisce subito al bisogno, tiranno signore dei miseri mortali, il motore principale dei miseri dannati. La virtù può
circondare il cuore da recinti di diamanti, ma il bisogno urta e percuote. Si è vittima del bisogno e il male non può
resistere. La ragione non basta. La legge umana con le sue posizioni minaccia dall’alto i malviventi, ma il pericolo
lontano di essere incarcerati non impedisce di commettere il male. Le leggi e le punizioni del carcere, e anche la pena di
morte non sono un deterrente. Non serve a niente torturare o uccidere, o una legge violenta se gli uomini sono vittime
del bisogno. I versi parlano di una visione di giustizia che in quegli anni era necessaria. Se tu legislatore vuoi eliminare i
delitti, devi eliminare il malessere sociale, perché è questo il vero problema.

È lo stesso che disse Beccaria in Dei delitti e delle pene. Grande opera per gli storici del diritto, scritta con grande
efficacia e ancora oggi esemplare.
Nel capitolo XLI (41) i delitti vanno prevenuti, non punirli, quindi evitare che avvengano migliorando le condizioni
sociali, fine principale di ogni legislazione, per condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo di infelicità,
concetto filosofico ma anche poetico. Essa è qualcosa che riempie l’animo di gioia. Quello è lo scopo di uno Stato.
Questo lo dice esplicitamente.

Siamo di fronte ad una nuova idea di Stato e di lingua, che porta a una ventata di novità alla nostra cultura, che la
cambia nel profondo.

Francesco Algarotti è un personaggio cosmopolita, ha viaggiato per molte nazioni europee, ha uno sguardo europeo, fu
un ciambellano nella corte di Federico II di Prussia, era un umanista, conoscitore della cultura classicistica, figura
perfetta dell’enciclopedica. Cittadino del mondo. È un apolide che considera l’Europa intera sua casa.
Ha avuto il merito di divulgare tesi scientifiche di Copern (min 24)
Per il suo newtonianismo finì anche nell’indice dei libri proibiti. Aveva contatti anche con Voltaire, il suo genere
letterario è di lettera e saggio, quindi di forma breve su un argomento di decidere.
Il saggio sull’Impero degli Incas, fortemente malvista, lui rivaluta la loro forma di Stato e la loro cultura.

I Viaggi di Russia è prototipo di altri viaggi conoscitivi di tipo scientifico-moralistico.


I giornalisti successivi come Calvino, Montale, Claudio Magris, si richiamano a questa tradizione illuministica del
viaggio filosofico.
È uno degli ultimi capolavori del viaggio filosofico-moralistico.
Algarotti si aggrega a una delegazione, incaricato dalla Corona di Giorgio d’Inghilterra (min 30) Il matrimonio rinsalda
rapporti stretti fra la Russia e la Germania, si aggrega alla delegazione, non ha un ruolo fondamentale ma racconta di
tutti i Paesi che vengono attraversati. Parte dalla costa inglese da Gravesend, sulla “The Augusta” e arrivano a San
Pietroburgo, dove si sarebbero svolte le nozze. Algarotti conosce dell’esotismo russo. Vuole rimuovere, come fanno gli
scienziati in ambito naturale, rimuovere tutti i miti/pregiudizi e favole e anche le sue idee, nel suo resoconto di viaggio.
Algarotti scrive su un Giornale di viaggio in forma idealistica, e parla di tutto il viaggio. È molto dettagliato ed
elaborato dal punto di vista letterario. Non sono appunti sparsi ma hanno una loro forma precisa. Quando scrive della
sua esperienza non scrive del Giornale, decide di riscrivere l’esperienza in un’altra forma perché lì era pesante e
pervasiva la presenza delle sue impressioni. Lui capisce che il suo primo giornale ha troppa impronta autobiografica e
capisce che questo approccio non va bene per la descrizione della società russa. Riscrive il testo eliminando tutti i
portati più personali, o riducendoli almeno al minimo. Ripensa a questo giornale trasformandolo in 12 lettere fittizie che
ripercorrono il viaggio e vengono pubblicate nel ‘60 e poi nel ‘64, dedicate a due amici, Harvey e (min 35)

Caratteri della relazione di viaggio algarottiana:


-Algarotti vuole essere oggettivo, vuole capire la società russa senza pregiudizi, mostrarla per come si presenta, e
neutrale. Vuole fare quello che si stava espandendo, la critica (distinguere il vero dal falso: dal greco, krìno “separare il
grano dalla pula”, cioè il “vero dal falso”. Ogni volta che pubblichiamo la critica dobbiamo avere idea che sia un
esercizio di divisione dal vero al falso, senza ingannare nessuno. Vuole riportare la verità dei fatti con lo sguardo da
scienziato. Grande novità, che i Viaggi hanno contribuito a creare.
-Tolleranza
-Attenzione alla storia, alla politica, la geografia (confini etc.) e scienza. Tutto il resto non gli interessa.
Per farlo deve usare lingue settoriali, parole spesso da lessici tecnici, molto usato il lessico marinaresco, ma anche dal
lessico militare, economico, commerciale etc.
Nell’opera la denotazione (asciutta descrizione della realtà) tende ad annullare la connotazione, che è una descrizione
soggettiva dal proprio punto di vista, arricchita da impressioni che provengono dal proprio io. (min 40)
Algarotti cerca di comporre una scrittura in cui l’io non esiste emozionalmente. Parla in quanto mente critica che
affronta i problemi, ma senza le impressioni/ricordi/gusti che vengono erosi dalla pagina. Riuscita solo in parte.
Ma nel 1760 Algarotti era consapevole di questo problema, che la scrittura che vuole essere filosofica non può essere
infettata dall’io, e bisogna cercare uno sguardo neutrale. Nel 1760 ha idea di questa scrittura conoscitiva.

Algarotti nella lettera a Voltaire, dice che la vera Accademia è l’unica vera Accademia intellettuale. Verri diranno che
questo lo era il caffè. Ma Algarotti vuole portare fuori la vera cultura dalle mura accademiche, e portarla nelle capitali
europee. In un Accademia c’è una mescolanza di persone che rendono buono il vino della vita, e della cultura, ed è
buono che queste idee si mescolino per creare il vino migliore. Questa mescolanza porterà ad un arte/giornalismo
maturi, ad una conversazione autentica. Nascerà una cultura nuova dalle capitali europee, dall’internazionalismo delle
capitali europee, quindi è proiettato nel futuro, da una lingua franca, che la nostra società oggi tenderebbe a realizzare.

F. Algarotti, Viaggi di Russia (1764)

Lettera I di queste lettere a John Hervey, politico wig degli inglesi, democratici progressisti. Avversi a toreys, i
conservatori.
A questi progressisti si rivolge anche nei Viaggi, rivolgendosi appunto a Hervey, uno dei rappresentanti più importanti.

Helsingor era uno degli stretti fondamentali per arrivare alla Russia. Nella lettera però si racconta dell’attraversata fino
alla Danimarca: momento topico dello scritto.
Stanno ancora facendo l’attraversata. Log termine tecnico della marina per indicare la velocità della nave. 5 kmh. I
marinai non hanno tempo di essere troppo precisi e usano le leghe, più facili da considerare, 5 1/2 km. Descrive la
tempesta sul mare brevemente. Non vuole soffermarsi su questi aspetti, chi la vuole leggere può leggerla su Omero o
Virgilio. Non gli interessa. Alfieri invece descriverà bene le burrasche perché gli interessano questi aspetti affettivi e
funzionali. Lui è uno scienziato, un filosofo, non cede a queste descrizioni.
È un’opera ingrata dal punto di vista dell’arricchimento poetico, tende alla pura referenzialità, non bisogna aspettarsi
delle rappresentazioni che cercano il bello.
Algarotti non cerca il bello, ma il vero. Per lui il bello è la descrizione oggettiva dei fatti.

Descriverà il porto di Helsingor. (Il prof ha messo in grassetto le parole che sono straniere o diverse dalle solite.
Svezzesi sono gli svedesi. [ah ah]
Elenca chiunque passi dallo stretto. I russi non conoscevano la scienza della navigazione, la nautica, che ora cominciano
a conoscere.
Sono tutte descrizioni dalla partenza all’arrivo, puramente referenziali, quantitative e catalogative, ma Algarotti trova in
questo il bello, il conoscere nuovi oggetti.

C’è ancora un’idea di meraviglioso, ma diverso da quello passato. L’uomo è meraviglioso. Vedere e descrivere cose
nuove, che non appartengono al suo mondo solito, cose che non ha mai visto e che sembrano aliene, senza nessun tipo
di giudizio, per Algarotti è il massimo del piacere.

Questo tipo di relazione di viaggio filosofico-moralistico e anche illuministico, che con questo raggiunge una sua
coscienza critica, dal via a una grandissima tradizione che nel ‘900 troviamo ancora, moltissimi casi di reportage, di
viaggi filosofici-moralistici, viaggio come saggio di conoscenza critica, non hanno al centro i sentimenti dell’autore ma
vogliono avere uno sguardo critico sulla realtà. Calvino è dentro la cultura illuministica, nel Barone rampante i suoi
riferimenti sono i grandi illuministi francesi, specialmente Voltaire. Crede come loro in una scrittura dedita
all’oggettività, all’asciutezza comunicativa. Ha un impulso totalmente laico come quella algarottiana.
Troviamo qui anche Montale che In fuori casa racconta nel Corriere della Sera, lui grande giornalista, e Calvino nel
Diario americano come grande dirigente dell’Einaudi, erano figure del mondo dell’editoria/giornalismo. Magris
docente di letteratura tedesca e giornalista nel Corriere. Anche Magris si inserisce nel contesto illuministico, scrive di
una scrittura illuministica, diversa da quella notturna del patetico. Gli interessa la scrittura diurna, illuministica.

Diario americano di Calvino (1959-1960) racconta di un viaggio negli USA, non ancora conosciuti approfonditamente
nella cultura italiana. Si cominciava negli anni ‘50 a conoscerli.
Calvino contribuì molto alla loro conoscenza con questo diario, pubblicato successivamente in altre opere. È un diario
di 6 mesi di viaggio compiuti per conto dell’Einaudi con un grant della Ford, borsa di studio che gli permette di
conoscere alcune delle più importanti città americane, anche per conoscenza personale.

Due punti importantissimi:


-inizio, quando nel ‘59 Calvino arriva a NY, per lui città straordinaria e rappresenta per lui una Ipereuropa, “tutta
centrata”, c’è un centro forte e riconoscibile, dove c’è una vita pulsante e di carattere europeo, che ricorda l’agorà, con
il centro dove tutto avviene. La forma di città che Algarotti descriveva a Voltaire, un centro, una periferia e una parte di
non città, questa è la rappresentazione migliore dell’Europa.
Ma anche:
-deprecazione di Los Angeles, per lui città priva di centro dove non è riconosciuta una struttura tradizionale. È “un
brodo di città”, che si distribuisce in maniera casuale senza un centro di riferimento. Città assolutamente antieruopea.
Aliena e anonimizza gli esseri umani, e quindi irrompe le possibilità di dialogo e interazione, fa vivere gli umani senza
interruzione. L’incubo di questo nuovo umanesimo americano riaffiora in Bretislea nelle Città invisibili, città pericolosa
descritta in chiave molto negativa, senza struttura classica, che tenderebbe ad aggregare i cittadini e a portarli a fondersi.

22 lezione 18/11/2019

Continuiamo con il viaggio conoscitivo (filosofico-moralistico).


La tradizione prosegue nella nostra cultura attraverso il giornalismo e la leporica (racconti di viaggio):
Vedremo:
-Italo Calvino;
-Eugenio Montale;
-Claudio Magris;

Ancora oggi è molto praticata nel giornalismo e che deriva dalla rivoluzione galileiana e nel giornalismo Settecentesco
e avvia la nostra civiltà letteraria. Cerca questo giornalismo di studiare i diversi fenomeni sociali.
Italo Calvino e la società americana, figlio della cultura illuministica, ha sempre avuto contatto con autori stranieri e
italiani, nel 1959-1960 compie un viaggio lungo in USA.
Pubblicherà il Viaggio americano e Un turista in America, aveva intenzione di pubblicare, alla fine arrivò alle seconde
bozze ma all’ultimo decise di non pubblicare. Nel 2014 la Mondadori lo pubblica, nell’arco di 200 pagine racconta
questa esperienza di viaggio che nel Diario americano era stato raccontato in maniera succinta all’amico Einaudi.
Questione controversa perché lui non voleva che fossero pubblicare, ma per la completezza della sua letteratura viene
pubblicato.
In brevi appunti Calvino descrive le sue impressioni sull’America.
Emerge un concetto fondamentale, (opera decisiva) elogia soprattutto quelle città che hanno una forte vocazione
metropolitana, ad essere città che fanno tutte centro, come NY, quindi è una città che esalta i valori della cultura urbana
europea che dalla polis a quella rinascimentale poneva la piazza al centro, in un centro architettonico distinguibile,
quindi che ha un centro forte di vita. C’è un’urbanità riconoscibile, l’altra America invece, fatta di città che si
sparpagliano della periferia, sono deprecabili secondo lui. L’idea di una città contemporanea distinta fra i centri urbani e
i non centri urbani. Calvino non è contro la vita e la metropoli, purché si tratti di una città aggregante, fitta di elementi
di coesione e con un centro riconoscibile.
Contro l’urbanizzazione scollata di periferie.

Il discorso verrà esaltato anche in Città invisibili, sarà un elogio alle città come centro di discussione e aggregazione
sociale. La città di Pentasilea sarà LA, senza centro. Di solito si tace questo essere di calvino uno scrittore di viaggio.
Non si devono limitare gli scrittori conosciuti per vulgata. Le città invisibili sarebbero incomprensibili senza il viaggio
in USA.

I. Calvino, Diario americano, 1959-1960

Arriva a NY, Calvino appartiene a una classe privilegiata, non è un migrante che conosce poco la cultura americana. È
un osservatore colto, da uno sguardo all’Alabama, lui inorridito per il forte razzismo presente in quell’area, essendo un
illuminista.
È un’opera interessante anche dal punto di vista storico.
Lui ha una grande apertura, è un’intellettuale aperto alle novità, diverso da Montale che tende a difendere l’umanesimo
tradizionale e si apre poco alla nuova società comunista, questo lo porterà fuori dal PCI.
Descrive NY la più spettacolare visione data su questa terra, cosa che fa passare la noia del viaggio, viene compensata
dalla vista.
È un complicatissimo disegno di forme. Tutto silenzioso e deserto ma poi si vedono le auto. L’aria da città tedesca.
Ipereuropea, porta all’apice tutti i vantaggi delle capitali europee. Siamo al solco della capitale come luogo ideale. Idea
di società che mescola sempre di più per creare il vino buono. Vede il crogiolo di NY come qualcosa di positivo.

Descrizione dell’evento consumistico principale, e forse più aberrante per un italiano, il natale dell’ostentazione di
lusso, per Calvino è positivo. Dice del natale che è una cosa fantasmagorica, fatta di luci e meravigliosa. È molto di più
di quanto si possa immaginare. Non è più natale ma una civiltà. Santa Claus è il dio indiscusso. È una descrizione piena
di meraviglia positiva.
[Voleva mettere il titolo Un ottimista in America], diverso per gli italiani ancora nel pieno della ripresa post-guerra,
mostrare in altri autori che contrastano con questa NY descritta da Calvino. L’Italia non conosce ancora questa forma di
consumismo negli anni ‘50. Calvino dovrà trasferirsi a Parigi per ritrovare lo stesso ambiente, o almeno qualcosa di
simile. Descriverà la ricchezza culturale con biblioteche, caffè letterari, arte, un tessuto culturale molto vitale e ricco.
Oppure i luoghi in cui Calvino vede la televisione a colori, per lui un artificio meraviglioso.

Qualcosa si incrina nella visione in USA quanto arriva a LA, non un centro dove si diramano poi tutte le strade e
periferie, ma una strada interminabile. Questo incrina la sua immagine di America perché incrina anche la sua visione
illuministica dell’America.
Cerca di sondare la psicologia delle persone, si cerca di capire le dinamiche sociali in atto, è più interessato a raccontare
i mores, che vede. Parla poco di se stesso. Parla per esaltare la complessità dei fenomeni in cui si trova immerso.
LA è un’alterità assoluta. Dicono tutti da quando sono arrivato in America che la odierà, San Francisco invece mi
piacerà.
All’inizio mi piace LA, ma sondandola bene mi accorgo che è disperante, la vita sociale è impossibile date le grandi
distanze, a parte le persone nei vari comuni fra di loro, come quelli di Beverly Hills fra di loro.
Devo sempre dipendere da qualcuno che mi deve venire a prendere oppure io prendo l’auto ma mi annoio.
Alla mancanza di forma corrisponde una mancanza di anima della città, non è una città, ma un conglomerato di
gente che guadagna, ha mezzi eccellenti per lavorare bene ma nessun legame. Intravedrà questo nelle città post-
moderne.
Città nella quale ancora noi viviamo.

Ha una volontà di capire attraverso l’analisi e la scrittura quali sono le evoluzioni in atto. Questo appartiene al viaggio
illuministico.
Come appartiene alla tradizione
Eugenio Montale, che curò un intero volume al viaggio Fuori di casa, opera curata da lui, ha un tempo più prosastico,
meno legata alle origini come Ossi di seppia. La saggistica in lui prende il posto della poesia, nella sua graduatoria
espressiva. Pensando a Montale non pensiamo solo alla Triade ma anche al suo essere un grande prosatore che vanno
considerati quanto la produzione poetica. Montale appartiene alla cultura di eredità illuministica a cui apparterrà anche
Claudio Magris.
Genovese, famiglia borghese, liberalismo europeizzante laico illuministico che sempre cozzare con la sua poesia dove
parla anche dell’oltre metafisico. Ma la sua è una scrittura illuministica e anti-fascista. Lui firmerà il testo di Croce nel
1925 il manifesto anti-fascista. Questo gli costerà anche un po’ la carriera, lui già famoso con Ossi di seppia, lui cratore
del Gabinetto Vieusseaux di Firenze e ne venne escluso perché non iscritto al partito.
Non ci furono grandi eventi nella sua vita, si lega alla moglie che chiama mosca nelle sue poesie. (min 34)
Scrive Le Occasioni (1939)
Dal 1948 giornalista del Corriere della Sera a Milano;
La bufera e altro (1956);
Satura (1971), c’è una forte prosaicità nei costumi, nella vita più vieta e quotidiana;
Senatore a vita con Giuseppe Saragat nel 1967
Premio Nobel per la letteratura nel 1975;
Prima edizione critica (min 36)

Rappresenta una sopravvivenza dell’Essay illuministico.


Scrive per il Corriere, spesso telegrafati. Compie viaggi europei ma anche in Libano e in Terra Santa, al seguito di
Paolo VI per promuovere una riconciliazione fra ebrei e musulmani.
Sono tutte mete di carattere Mediterraneo o europeo. Usa una lingua letteraria ricercata, che si apre anche al quotidiano
e alle lingue anche straniere (min 39) Sarà un prosatore che mescola su un fondo di italiano letterario scritture europee
della società civile. È una lingua aperta al mondo ed enciclopedica. Tutto si mescola in un dettato profondo, a volte
snob, ricco di riferimenti alla realtà. Stesso stile anche di Magris, sempre sulla scia delle teorie linguistiche, piena di
citazioni da altre lingue e da altri repertori.
Dentro gli scritti ci sono molti sottogeneri, ritratto di costume,
C’è una distanza notevole fra la produzione in poesia e la produzione in prosa. Si può scrivere in un modo in prosa e in
un altro in poesia. È un fenomeno che ritroviamo anche in Pasolini, che nella prosa sembra Voltaire, un illuminista, a
volte cartesiano in poesia è meno razionale.

In Montale c’è una grande differenza fra prosa e poesia. Fa riferimento all’uso del correlativo oggettivo e all’uso in
chiave ermetica degli oggetti (min 42), cioè oggetti e occasioni reali che vengono caricati di allusioni simboliche.

Spesso il male di vivere ho incontrato

Fa un grande uso qui del correlativo oggettivo. Montale prima dichiara di aver visto il male di vivere, “il rivo strozzato
che gorgoglia” `e il primo correlativo oggettivo, l’incartocciarsi di una foglia, il cavallo che stramazza per il calore,
scene che ricordano il male di vivere. Ma incontrerà anche il bene di vivere. Il non essere coinvolti nelle cose, essere
indifferenti, come fa Esterina che non si cura del tempo che passa, pensa solo alla sua vita nell’istante e non nella
sofferenza di collocare la vita in un quadro più alto.
Il falco che guarda in basso non conosce il male di vivere, e così gli oggetti.
Usa la realtà in chiave fortemente simbolica per descrivere realtà profonde e anche nascoste.
L’uso del correlativo oggettivo proviene da Pascoli e da Montale. Pascoli traghetta molti usi della poesia simbolistica
francese e che l’ha acclimatata a usi e costumi italiani, ispirati come Ungaretti al simbolismo pascoliano. (min 50)

Pascoli, Lavandare

Descrive la situazione di un aratro abbandonato, come l’uomo abbandonato nella terra, nel mondo. Osserva questo
aratro, in un campo per metà aratro e per metà no, si sentono le cantilene delle lavandare che in un canale lavano i
panni. Riporta il loro canto per risollevarsi dalla fatica. Si crea una circolarità tra il soggetto del canto della lavandare
che è sola, forse l’uomo l’ha abbandonata per imigrare, e l’ha lasciata come un aratro. (min 53)
Anticipazione del correlativo oggettivo. Non esiste solo Elliot. Guardiamo anche agli autori italiani.

-Ermetismo: tendenza a chiudere e proteggere il significato dentro il significante, alla cripticità voluta del senso. Poeti
cercano di fuggire alle maglie repressive del regime chiudendosi in un dettato poetico cifrato, che solo fra loro, fra gli
ermetici, capiscono. Come Ungaretti,
L’ermetismo si deve capire in chiave anti-fascista, è un’istituzione di un cifrario che cerca di evadere dal fascismo. (min
54)

Montale non ha fiducia nella potenza della poesia di penetrare la realtà, diversamente da Ungaretti, (min 55)
Montale dice nel ‘25 in Ossi di seppia

Non chiederci il tipo di parola che cerchi di squadrare l’animo umano, una parola critica che analizzi nel profondo
l’analogia dei comportamenti umani. Poesia e critica sono incomunicanti per Montale.
Si può dire qualcosa in chiave negativa ma non in positiva. La poesia non è una formula che schiude mondi, ma un
ramo distorto. Non ha un valore filosofico, conoscitivo. Per Montale ce l’ha la prosa questo.
Completamente diverso per Ungaretti, che per lui la poesia conosce la verità.

L’Allegria
È un’esperienza di conoscenza della verità. (min 59)
Il mondo fiorisce dalla parola, non il contrario. La parola esce come limpida meraviglia da un fermento delirante.
La parola poetica va in profondità dell’uomo.
La fiducia conoscitiva della parola poetica non è presente in Montale.

Montale abbandona la poesia ermetica, iper letteraria, colta, e trasforma la sua poesia in prosa, facendo un esperimento,
Satura dove tenta di fare una prosa-poesia perché ha capito che ha più capacità la prosa di entrare nel profondo della
vita. Poesia prosastica Satura, si divide in versi e cerca di arrivare alla poesia in modo diverso, dopo Sbarbaro è il
massimo di proisicità che vedrà la letteratura italiana.

A pianterreno
Montale e la moglie lasciano la pasta al ragù ad un riccio con i figlioletti.
Usa un linguaggio prosastico, ha perso la fiducia nel linguaggio poetico.

La prosa di Fuori di casa con un intellettuale che ha piena fiducia nella prosa, e nella modernità tecnologica (min 1.02),
difficoltà nello stabilire un rapporto.

Scrive nel ‘48 sugli studi della BBC a Londra, I primi anni della TV, dove in Italia hanno paura del mezzo televisivo,
che mina la privacy individuale. La riflessione si collega a Horwell che negli stessi anni, parla di questo Grande Fratello
che guarda attraverso lo schermo Big brother is watching you, si comincia a discutere della privacy nei mezzi di
comunicazione.

Montale scrive di questa esperienza ad Alexandra Palace, non riflette sul proprio io, non gli interessa, gli interessa
riflettere su fenomeni collettivi di grande portata. L’autore viaggiando si interessa (min 1.10)
L’Italia conosceva appena la tv, avevano più una funzione collettiva all’inizio, nei bar, nelle parrocchie, ma non
venivano usati nelle case. Si ha molto lentamente la diffusione negli anni ‘50-’60. Non ci sarà più libertà di movimento
perché si rischierà di finire su un cine-giornale, in una presa poi diffusa nella tv. Problema della privacy qui poco
discusso da Montale ma è ancora un grande problema oggi, per regolamentare la proprietà individuale. Una delle più
grandi libertà dell’uomo è di non vedere e non sapere. Il rispetto per quei valori sono fondamentali nella cultura
illuministica.
Fa elogio dello slow travel, fuori dalle logiche del viaggio turistico individuale, passa attraverso viaggi di locomozione
individuale, attraversa zone meno note, un corrispettivo dello slow food in ambito del viaggio, cosa sempre più diffusa.
Montale prende le difese del modo di viaggiare contemporaneo. Lui critica la velocizzazione della vita che il nostro
tempo ha accelerato e che impedisce la conoscenza del mondo. Parla di osservare la realtà e i fenomeni con la dovuta
lentezza, senza farsi travolgere dalle logiche turistiche.
Luglio 1950 si svolge il volo Roma-NY da parte della LAI, linee aeree italiane. Gli immigrati prima in settimane
raggiungevano l’America in nave. Qui parliamo di un volo intercontinentale in 90 ore di viaggio. Volo non diretto ma
con scali, lascia sgomento Montale, che si fa registratore per il Corriere della Sera.

La forma di velocizzazione degli spostamenti contrastano con l’uomo umanistico che crede nella lentezza. Polemica di
Montale contro la velocizzazione.

Magris fa anche nell’Infinito viaggiare, un viaggio continuo, che non si arriva mai. Figlio di questa tradizione
illuministica che ha avuto in Calvino e soprattutto Montale i predecessori. Uomo umanistico non completamente
Magris.
Ha scritto tre opere importanti:
-Danubio
-Infinito cosmi (????)
-Infinito viaggiare, che pubblica a Parigi nel 2002, quindi la prima edizione in un’altra lingua. Ricorda lo scritto di
Marco Polo, non vuole chiudersi in un discorso nazionalistico, e la seconda edizione, la prima italiana, nel 2005 per la
Mondadori, raccoglie 20 anni di resoconti di viaggio, rispetto a Montale c’è un’apertura ampia rispetto a Mondale,
Paesi dell’asse centrale europea, di Austria, Balcani, Germania, sono i suoi preferiti ma viaggerà anche in Svezia, Iran,
Cina, Vietnam, Australia. Lui Triestino, guarderà molto come Saba e Svevo, che dovremmo leggere dice il prof. [Ha
troppa fiducia in noi povero].
Parla della porzione di Europa parlando del fiume che scorre, ripercorrendo anche gli usi, costumi e storia degli Stati
che attraversa.
Non è meno importante Microcosmi, descrive i piccoli luoghi del Friuli, Slovenia, Croazia, Alto Adige. Da leggere. Ha
vinto anche il Premio Strega. È un must.
Non sono viaggi intellettuali, non dell’io. Sue interpretazione e intelligenza critica, come descrive i fenomeni, con un
occhio filosofico-moralistico.
Citazionismo, descrittivismo plastico e coloristico, articolate analisi psicologiche, ricerca stilistica e retorica.
È un autore ancora tutto da conoscere e analizzare. È una frontiera da superare, un mondo da conoscere, conosciuto fino
ad ora per sommi capi.

Si richiama alla cultura illuministica e ai caffè come luogo di discussione ideale di civiltà, luogo dove ci si rivolge
all’esterno, non solo all’interno del proprio gruppo. Viene definito accademia platonica. Racconta di Caffè San Marco,
da Microcosmi, a Trieste, frequentato anche da Joyce.
Magris scrive che il Caffè, specie San Marco, è un porto, luogo del pluralismo culturale, c’è vitalità, è un’accademia
platonica, che procede attraverso domande come quella platonica. La risposta idealogica degli studenti portava a
risposte o ad altre domande.
Si può chiacchierare, ama il prossimo tuo come te stesso, si possono sopportare diversi tic del tuo vicino. In questo
luogo del disincanto, non c’è posto per i falsi maestri. Si raggiunge una conoscenza in maniera non faziosa, non
impositiva, non predicatoria ma dialogante, idealogica, libera. È il sogno di Claudio Magris, tutti dovremmo partire da
questi presupposti per capire che cultura vogliamo.

23 lezione 19/11/2019

Magris fonda quasi un nuovo ordine saggistico.


Si rivolge a una realtà europea, non solo italiana, è un figlio dell’illuminismo. Deriva questo anche dalla sua cultura
Mitteleuropea, una letteratura sull’asse Vienna, Germania e Trieste, con attenzione al Danubio e all’Europa dell’est
anche.
Stavamo analizzando un saggio di apertura di Microcosmi sul Caffè di San Marco, ma conta il significato che gli da
Magris, non quel luogo specifico. Il viaggio all’interno di un caffè, il viaggio non è solo un viaggio fisico attraverso
luoghi specifici, fiumi o città d’arte ma anche luoghi, oggetti, musei, che rappresentano luoghi da vivere e da visitare,
da provare. Può essere un viaggio anche un caffè se si guarda con gli occhi giusti. Ancora negli anni ‘90 propone il
paradigma del caffè come luogo di discussione, è il vero caffè caratterizzato dal pluralismo liberale, Magris prospetta
un’esogamia, una pluralità culturale. (min 7) non è che Magris compone solo le sue opere a San marco, è un’immagine
di spazio culturale a cui lui fa riferimento. C’è un’idea di ideologia intellettuale. Luogo in cui ci sono interlocutori che
contribuiscono alla pari a raggiungere libertà di pensiero. Contro ogni cultura dogmatica, ogni cultura che cerca di
imporre il suo canone, cosa in cui ancora oggi ci sbattiamo. Idea che gli studenti debbano prendere il canone e subirlo,
ma c’è invece un canone anche più sfaccettato che diventi più interlocutorio.
Il caffè come simbolo e centro di una cultura che è ancora illuministico. Le classi si mescolano, le eterogeneità si
mescolano, forse è ancora un’utopia, un’idea che risale al ‘700.
Usa questo termine che dovrebbe diventare attuale, non solo nella storia o nell’analisi sociologica, l’idea del
microcosmo. Magris ha lasciato una prefazione, del 30 giugno 2005 Infinito viaggiare dove mostra la sua idea di
viaggio. Danubio e Microcosmi vengono presentati come resoconti di viaggio. La prefazione racconta cosa è la sua idea
di viaggio. L’idea che contiene questa prefazione valgono per qualunque approccio culturale. L’idea di microcosmo è
ideale nelle coscienza di Magris. Lo scrittore ha il dovere di portare a riaffiorare microcosmi, piccoli mondi che una
volta penetrati si rivelano giganteschi, con un’idea di concentricità, cosa impossibile da raggiungere perché ogni luogo
contiene microcosmi che contengono altri microcosmi. Non vive lui gli spazi delle culture come qualcosa di
travagliante come Calvino, che con Paloma capisce che è impossibile raggiungere la cultura. Paloma si impegna a
descrivere gli elementi minimi della vita quotidiana, che vorrebbe essere esaustive ma non ci riescono. C’è sempre uno
scarto fra la ricerca, l’osservazione, e l’oggetto di osservazione, che non si possono mai raggiungere del tutto. Magris
vede questa ricerca come qualcosa di entusiasmante. Magris si sofferma su piccoli luoghi, su minoranze culturali anche
delle persone dell’Istria, rumeni immigrati in Istria con cultura Cici e Cirbili, che hanno una loro cultura, per Magris
sono interessanti, cercano di sopravvivere al macrocosmo, c’è quindi anche una difesa delle minoranze su cui lui cerca
di salvare e portare alla conoscenza. Le Canarie per lui sono interessanti perché diverse culture si sono incontrate e oggi
convivono, qualcosa che dovrebbe essere un modello per l’Europa. Microcosmi non solo umani, un figlio down e il
padre che cerca di mostrare l’importanza delle opere, cui Magris mostra l’aspetto psicologico dietro con emozione. (min
17) Da un’interpretazione anche in chiave religiosa, parla del museo della cultura di (min 17) I microcosmi sono umani
ma anche oggettuali, anche dei locali possono rappresentare dei mondi che possono venire conosciuti come gli altri
elementi della vita. Un’idea quindi di piccoli luoghi, ogni luogo è costellato da microcosmi o è un microcosmo lui
stesso. Noi stesso conteniamo dei mondi che solo un’analisi approfondita può scoprire. C’è anche un’idea di
archeologia applicata al paesaggio, ai luoghi e agli oggetti.
Nella prefazione Infinito viaggiare dice che il viaggio è insieme un viaggio nel tempo e contro il tempo. (min 20)
Ogni persona è un paesaggio stratificato che ha le rughe e l’espressioni, connotati fisici di quel paesaggio. Sono tutte
stratificazioni di tempi passati. C’è l’idea di durata, della psicanalisi freudiana in cui l’uomo si stratifica nel corso
dell’età/tempo.
Andrea Zanzotto cerca anch’egli di analizzare i paesaggi veneti che vede. Tutto si stratifica nella conoscenza dell’altro,
geografico o umano. Non solo architettura ma è anche società, persone, abitudini, fedi, gesti, come Emilio Fede che
crede di dover analizzare l’uomo, per conoscere l’uomo e l’umanità. Siamo nella stessa lunghezza d’onda roussouriana.
Lo scrittore scende nei vari strati della realtà. Un’archeologia del paesaggio che deve leggere i vari strati e raccogliere
quante più esistenza possibili e salvarle dal fiume del tempo, costruendo un’arca di Noè. Luogo in cui si cerca di
salvare le esistenze e le storie dal tempo. Monito che da agli scrittori contemporanei in questa forma. (min 25)
Si pensa al ruolo degli anziani che muoiono, portano con se un bagaglio di conoscenze straordinario che nessuno ha mai
scritto e riportato. Ci sono persone che hanno vissuto le due Guerre, che non hanno lasciato niente di scritto. La scrittura
è indifferente a questo processo. Si stanno perdendo dei libri umani che noi non abbiamo registrato. Magris dice di
salvare le memorie che poi scompaiono, per sempre.
Una fiducia enorme nella critica, nella possibilità razionale del linguaggio, che vuole affermare dei problemi, quale
squadrarli da ogni lato (Montale, non è una possibilità della sua poesia e forse di tutta la poesia del ‘900), in maniera
oggettiva e integrale. Magris ha ancora fiducia nella ragione parla di una scrittura della luce, che illumina, che vuole
illuminare i problemi in maniera chiara, positiva, non solo cedere all’irrazionale o a espressioni dei sentimenti,
irrazionali, come la nostra epoca è portata a fare. Crede che la mente umana abbia ancora la capacità di illuminare il
mondo. Ernesto Sabato, scrittore argentino da Magris studiato, fa questa distinzione fra scrittura diurna o notturna.
Fiducia che la mente umana ha di capire la realtà, di fornire delle informazioni e aiutare la contemporaneità. Città
invisibili (min 29)
La scrittura diurna cerca di collocare i singoli destini nella totalità del reale. La scrittura del sole, dell’illuminazione, che
cerca di capire il mondo. Sintagma anche tronfio, che vuole capire che senso ha, collocare i singoli destini, trovare il
significato in una prospettiva laica. Non incorre quasi mai la religione in Magris se non in questa sua simpatia profonda
verso l’ebraismo, ma non torna a una visione positiva della religione come il cristianesimo. Ha una visione religiosa
laica. Ha confessionale l’uomo, ha la possibilità di capire il mondo e ricollocare i destini religiosi e ricollocarli in un
significato. (min 32)
Lui cerca di corrispondere a questo progetto con la sua scrittura, si può verificare con il testo di Infinito viaggiare.
Il mondo della scrittura notturna: il mondo dell’io più profondo, dell’individualità passionale, il mondo intimo, cerca di
mostrare il mondo ma mostra in realtà il se, porta ad emergere anche i lati più oscuri e corrotti dell’animo umano. A
Magris questo non interessa, almeno nell’Infinito viaggiare, più importante per lui togliere l’io, la ragione critica fa
parte dell’io. (min 40)
Dobbiamo chiederci se questa scrittura è possibile, che non sia puramente referenziale, un referto di fatti registrati,
Magris parla di una letteratura, una forma di elaborazione del linguaggio in chiave significativa. Magris scrive di un
futuro che abbandona la poesia e il romanzo, ma sulla saggistica, abbandonare le parti confessionali e immaginative, e
di praticare una scrittura ancora possibile per lui della realtà.

Parla del rapporto noi-altri, che gli scrittori italiani hanno, Magris fa un’affermazione importante secondo cui nell’altro
ci siamo noi e l’altro è noi. C’è una circolarità. Nella storia culturale si può facilmente scoprire che nell’altro c’è del
noi, cosa che l’Europa del futuro dovrà accettare, regolarsi per costruire il futuro. Nel riconoscere questo Magris deve
ragionare sulla frontiera, cos`è il confine. Fisicamente in maniera più dura, come il Muro di Berlino, ma anche le
frontiere senza muri escludono l’altro, una frattura fra noi e gli altri. Magris da un’impostazione diversa. Dice che la
frontiera serve a tracciare l’individualità, è indispensabile, ma non è un’idolo, non è mai uccisa in maniera indelebile.
Deve esistere ma non va idolatrata, fa considerata fluida. Ogni frontiera ci separa dall’ignoto ma anche del noto, quello
che possiamo trovare nell’altro.

Dice che non c’è viaggio dove si separano le frontiere.


Magris dice che è sbagliato considerare le frontiere da un punto di vista geografico, ci sono altre frontiere come
linguistiche/psicologiche, che separano gli individui più degli altri. Affronta il problema in chiave generale, quindi non
solo quelle fra stato e stato. Si devono anche amare, senza idolatrarle, idoli che esigono sacrifici di sangue. Vanno
considerate provvisorie, flessibili. Messaggio alla comunità europea, difficile da accettare perché si idolatra sempre la
propria frontiera. Viaggiare significa andare dall’altra parte della frontiera ma anche scoprire di essere sempre pure
dall’altra parte. Molti istriani di cultura italiana andavano via dall’Istria di Tito per andare a Trieste, dal ‘47 in poi
coinvolge moltissime persone. Scappano in una cultura anche diversa ma anche simile. Marisa Madieri in Verde acqua
parla di questo, diventa poi la moglie. Lei scoprirà le origini slave della sua famiglia. Costretta a venire in Italia ma
trova anche un sottofondo comune della cultura che la ospita. Cosa che molti esuli scoprono. Territori fra il Friuli e
l’Istria sono significativi per la frontiera, caratterizzati da diversi incontri. Bisogna tenere conto del fenomeno, il noto
che diventa ignoto e l’ignoto che diventa noto [Quaranta docet].
Le frontiere esistono, ma costruendo un ponte, non si capisce più quale sia e di chi sia la sponda. La natura può dare dei
suggerimenti per la convivenza umana, come i pesci fra Spagna e Portogallo che vivono nello stesso fiume diviso fra i
due Stati.
Idea di viaggio come vagabondaggio conoscitivo-intellettuale. Magris era contro il viaggio turistico, data l’impossibilità
dell’uomo illuministico di andare a fondo delle cose.
Anche Montale ne aveva parlato, ma in Magris troviamo in maniera più approfondita la questione del ritmo del viaggio,
una conoscenza profondamente filosofica dei viaggi. Deve essere un viaggio senza finalità completa, si toglie dal
viaggio esplorativo che ha una committenza. Il viaggio deve essere libero e deve essere un momento di vagabondaggio,
con una mappa alla base ma essere liberi di viaggiare senza alcun tipo di mete. Bisogna muoversi lentamente senza
cedere alla velocità, liberi da ogni committenza e necessità. Magris parla della contemporaneità, parla al mondo
indicando un altro modo di viaggiare, cosa scalzata da una nuova forma di viaggio organizzatissimo con sole poche
mete da visitare. Ci si muove per ozio, ma senza idea di vagabondaggio, soprattutto nell’articolo In Bisiacarìa, regione
della Gorizia dove si parla fuori contesto, si parla in bisiaco, dialetto friulano a Gorizia, vero microcosmo in cui Magri
si sofferma nell’Infinito viaggiare.
Parla della foce dell’Isonzo, appunto nella Bisiacaria, e parla del viaggio ottimale, vagabondaggio conosciutivo.

Non c’entra se lo spazio geografico è ristretto, ma conta l’attenzione che gli diamo noi, che decidiamo se contrarre o
dilatare. Solo un perdigiorno incuriosito può fare questa archeologia, uno che abbia tutto il tempo del mondo. Chi è se
non l’ingegno dell’apologo del viaggiatore? Resta sempre lo stesso personaggio che Galileo parlava nel suo testo. (min
50)
Trovando universi incasellati uno con l’altro, e che si serve della natura per esprimersi. Si serve della costruzione di
immagini che la letteratura fornisce, Magris non parla della scrittura scientifica ma letteraria, parla dell’unione fra
scienza ed elasticità, tornando a un umanesimo-scienza nel ‘700, dove si era scienziati, poeti e filosofi. Magris sembra
indicare diverse culture, dei saggi che sono belli dal punto di vista letterario dove spiegano fenomeni anche di carattere
scientifico-letterario. La letteratura al servizio della conoscenza.

Bisogna guardare le cose a lungo, fino ad entrare in una sorta di apercezione della realtà, le cose osservate poco dicono
poco. Le cose osservate con scuola di percezione, diventano più profonde. Stesso principio di viaggio, di scuola dello
sguardo riferito alla realtà si può applicare anche al testo letterario.
Qualunque genere della letteratura va osservato. Magris legge il mondo come un testo, come il Libro della natura, il
mondo. Come in un libro ci sono diverse stratificazioni, il mondo è un intreccio, qualcosa che è tessuto insieme.

Nella Bisiacaria non c’è niente da vedere ma è una scuola di percezione dice Paolo Bozzi che insegna come i nostri
sensi afferrano il mondo, non come è fatto il mondo.
Scienza per puro piacere della conoscenza del mondo, che contrasta con le modalità della ricerca che oggi si afferrano
nel mondo, oggi sempre più oggetto di mercificazione.
La Bisiacaria è un luogo continuo alla nostra realtà quotidiana, cui si passa accanto spesso ma in cui non si entra quasi
mai, grande problema del mondo post-moderno o forse di tutte le epoche. Magari non si capisce a cosa passiamo vicino,
ma che non osserviamo quasi mai. Monte di Paderno da guardare, chiusa di Casalecchio. Lo scrittore deve fare il
tentativo di vedere il microcosmo che sta accanto a lui ma che di solito non si considera. Il vagabondaggio non cerca
ricordi o nostalgie, o l’io, ma cerca la conoscenza, il mondo al di là della siepe.

Non si parla di fiction, di letteratura finzionale, fantasie, ma di una letteratura che cerca di osservare la realtà con occhio
filosofico.

Anche gli oggetti sono paesaggi, se vengono ben osservati possono rappresentare dei microcosmi. Un esempio di
Magris è quando si reca a LA osserva la scrivania di Schönberg, perseguitato dal nazismo per essere ebreo, grande
artista viennese, costretto a lasciare il suo paese. Al’Arnol Schönberg Institute, luogo non troppo visitato Magris studia i
microcosmi della sua vita, gli oggetti che facevano parte della sua vita. Scriverà Il tavoro di Schönberg, articolo del
1989, 2 ottobre, fa un ritratto psicologico e morale attraverso l’osservazione di una scrivania.
Ogni luogo di vita può essere comunque osservato, per capire la spiritualità e morale di ogni persona.

Anche il tavolo (lasciato così come l’ha lasciato l’artista) è zeppo di oggetti, come zeppa di note è la musica, accatastati
a profusione in quell’apparente disordine di cui solo chi li ha messi e disperi in quel modo (min 1.14), l’ordine
costruttivo di quella scrivania è solo nella mente di chi l’ha lasciata così. Su quella scrivania c’è di tutto. Tutti gli
oggetti parlano della sua opera, della sua musica, non si tratta di una scrivania qualunque ma sono di un artista che si è
anche creato degli oggetti, si è creato un suo mondo, come Robinson Crusoe, come ogni artista che si costruisce il suo
mondo. L’ingegno creativo prevede di costruire a piacimento oggetti.
Il tavolo si trova a LA, non a Vienna. Questo significa qualcosa. S. operò la sua rivoluzione musicale specialmente a
Vienna. Molti uomini liberi dovettero scappare. È un modo per parlare di S., della cacofonia, del nazismo, ma
arrivandoci in maniera indiretta con osservazioni della realtà effettiva. 6000 pagine di manoscritti musicali, letterari,
personali. C’è di tutto, testimonianze della sua vita. Tutto è utile a ricostruire la sua vita.
Il tavolo per`ø non fa pensare all’esilio, allo sradicamento o alla lontananza, bensì alla casa, ai Lari, a una vita piena di
affetti e pulsante attività. Quella ricchezza di oggetti, della quotidianità di S., raccontano della sua appartenenza alla
comunità ebraica, che nessuna persecuzione non potrà mai distruggere, la casa dell’ebreo della diaspora, il quale non ha
patria ma ha una patria nel cuore, che porta sempre con se e che niente può annientare.
Attraverso la descrizione degli oggetti Magris parla della cultura viennese, dei rapporti persecutori tra il nazismo e
l’arte, tra la cultura ebraica, ma ci da anche un’idea di cosa può essere un grande artista, non privo di affetti e chiuso in
uno stanzino, ma ricco di rapporti, ha una rete di conoscenze e amicizie, molto diverso da quello che la vulgata
romantica ha conosciuto e presentato.

Caso di Alberto Moravia, il quale nel 1961 compie un viaggio molto importante in India, insieme all’amico Pierpaolo
Pasolini ed Elsa Morante. Da questo soggiorno a caldo nasceranno due opere di viaggio fondamentali, un’Idea
dell’India di Moravia e L’odore dell’India di Pasolini.
Viaggio sentimentale di Pasolini, ha spazio l’emotività e la pulsionalità, molto autobiografico, Moravia invece cerca di
capire la società attraverso il suo stato d’animo, cerca di mostrare la sua ricerca umana di primitivismo puro, che lui
ritrova in India, e di altri paesi considerati da lui primitivi in modo positivo. (min 1.24)
Uno incentrato sulla conoscenza e diffusione Moravia
e Pasolini dalla parte dell’io, cerca di mostrare le sue pulsioni, della cultura indiana che cerca di mostrare ma invece
mostra molto di più l’io, le vibrazioni che prova nell’attraversamento di quello Stato.

Viaggio sentimentale che concentra tutto sull’io, sull’affettività e sul privato che nasce nel ‘700 pochi anni dopo il
viaggio conoscitivo-filosofico, ha però una storia parallela.

Viaggio sentimentale, ancora oggi un genere di viaggio molto praticato, come il viaggio di Annamaria Oltese, ancora
oggi si affianca a quello di Magris e altri, di carattere conoscitivo-filosofico. È la sensibilità del viaggiatore l’aspetto più
importante. Nasce come evoluzione del modello formativo del Grand Tour, nella seconda metà del ‘700, compiuto per
completare adeguatamente la propria formazione, non sono libresca e accademica, vissuta in concreto per le strade del
mondo, per giovani che non erano mai usciti di casa e che vivevano nella bambagia, scoprendo società diverse dalla
propria, con un viaggio di istruzione finale (Grand Tour), altrimenti la formazione sarebbe stata solo libresca e non
sarebbe risultata sufficiente. Questi giovani cominciano sempre più spesso a tenere dei diari, quindi inizialmente è un
viaggio di conoscenza, vedevano musei, gabinetti scientifici prestigiosi, per leggere libri/verificati della realtà che
hanno studiato, ma osservano poi i veri monumenti in diversi luoghi. Un viaggio che nasce come formativo, istruttivo e
scolastico, ma poi sempre di più terranno diari che assumono sempre più la forma di confessione romanzesca, come
confessione dei propri sentimenti, delle emozioni provate nel viaggio, come esperienza dell’io, poi numerosi resoconti
verranno fuori, parlando della loro profonda conversione spirituale, di grande tenore spirituale ed emotivo passionale.

24 lezione 20/11/2019 da piangere. Fantastica

Du i principali approcci alla letteratura di viaggio:


-Viaggio conoscitivo (Magris, Calvino e Montale);
-Viaggio sentimentale, dell’io e dell’intimità, in cui è predominante l’io. Si vive il viaggio come un’esperienza emotiva
e non di conoscenza. Alfieri es. non visita mai le città in cui si trova, ha un’insofferenza per lo stare fermo, cerca di
vedere paesaggi meravigliosi, gli interessa la velocità e il cambiamento, e la ricerca del sublime, che si stacchi dalla vita
quotidiana. Non gli interessa la conoscenza. Gli interessa acquisire le competenze letterarie per diventare tragediografo.
La tragedia non ha avuto un grande successo al suo tempo in Italia, quindi lui decide di diventare tragediografo, di
praticare soprattutto la tragedia, per scopo solistico, affermando se stesso e il proprio io.
Parte dal presupposto che l’argomento più importante per se stessi è l’io, parlare della propria interiorità. Tutti gli altri
argomenti sono dei gradini sotto.
Il viaggio sentimentale si forma in periodo illuministico parallelamente a quello filosofico-illuministico, parte
dall’istituzione europea che è il Grand Tour, viaggio sul quale Attiglio Brigli (massimo esperto della letteratura di
viaggio), scrive Quando viaggiare era un’arte: il romanzo del “Grand Tour”. Esiste un Grand Tour per ogni Nazione
europea.
Questo viaggio con la V maiuscola, forse unico, le facoltà per effettuare viaggi internazionali non erano a disposizione
di tutti, difficile anche per i ricchi. Erano i viaggi della vita, duravano molti mesi o qualche anno, di durata variabile
quindi. Portavano il viaggiatore, fra i 18 e i 20 a passare per Paesi molto diversi, nel senso moderno, ovviamente se si
visitava l’Italia si passava attraverso diversi Stati, serviva un passaporto per passare dallo Stato Pontificio a quello
Veneto, non erano regioni ma Stati politicamente autonomi. Quindi c’era una geopolitica completamente diversa. Ogni
Stato aveva la sua lingua. Non c’era un italiano per la comunicazione quotidiana, più banale, si usava il dialetto di
appartenenza.
Venivano nel nostro paese persone da tutta Europa, l’Italia era una tappa obbligata, soprattutto alcune città come
Venezia, Firenze, Roma e Napoli. Soprattutto Roma. Si aggiungeva Bologna soprattutto per alcune delle sue istituzioni
com Palazzo Poggi.
-Quindi abbiamo un viaggio educativo, tappa obbligatoria della formazione intellettuale dei ceti alti; e:
-Viaggio verso mete meno conosciute, europee, il cui scopo è la formazione culturale (storio-geografica/artistico-
letteraria), (min 16) andare nel centro sud d’Italia era un’esperienza forte di esotismo in Europa. L’Italia era
completamente diversa.
I giovani, più ricettivi e interessati ad affermare se stessi, cominciano a scrivere i diari del viaggio, taccuini che poi
venivano rielaborati durante il ritorno. Pubblicati quelli più importanti, sono un po’ delle guide turistiche, si descrive in
chiave pittoresca quanto visto. Fra tutte le scritture di viaggio qualcuna spicca per la presenza di un io che invade
sempre più la pagina. Es. l’ascensione al Vesuvio era un must, uno dei vulcani più disponibili. Era anche molto attivo.
Oggi non avremmo mai potuto scrivere La Ginestra, sentire un canto di lamento contro la natura. È una minaccia
continua per il territorio. Ci sono dei luoghi suggestivi che erano come un trofeo, es. rovine di Pompei ed Ercolano, era
prestigioso e rappresentava uno sfoggio.

Il I caso di resoconto sentimentale del Grand Tour è di Goethe, viaggio interiorizzato, scriverà Viaggio in Italia.
Racconterà di un viaggio spirituale, di trasformazione profonda dell’individuo, si racconta dei propri stati d’animo. Poi
ci sarà una messa in discussione del Grand Tour come quella di Alfieri, che rielaborerà il viaggio in chiave
sentimentale.

Sterne, con Sentimental Journey through France and Italy (1768), non racconta niente dei Grand Tour classici, racconta
di momenti secondari, come la carrozza, all’ambiente in cui viaggia il protagonista, viene dato poco spazio al
paesaggio, per prendere in giro la moda del Grand Tour

Per capire Goethe (1749-1832) dobbiamo capire l’essenza del Grand Tour in Italia, considerata luogo di attrazione
straordinaria, degli intellettuali stranieri, uno è Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), ama i monumenti di Roma,
vorrebbe che la vita moderna assomigliasse a quella degli antichi greci e romani. Riconversione storica è infattibile e gli
artisti se ne renderanno conto. Non si può attingere alla grandezza dell’antichità classica, ma per le forme, della moda,
degli utensili, la trasformazione formale di moda è fattibile. Si cominciano a diffondere piatti/tovaglie/vestiti, fatti
secondo la moda romana, antica. C’è quindi un processo di trasformazione.
Soprattuto dopo le grandi scoperte archeologiche, Ercolano nel 1709, scavi nel 1738, Pompei nel 1748, Stabia nel 1749,
che l’eruzione del 69 d.C. permise di mantenere di fotografare una giornata tipo del tempo. Dalla I metà del ‘700 si
conosce l’esistenza di queste città che lentamente vengono disseppellite, ed ebbero anche l’effetto di rilanciare le
rovine, oltre che a creare una nuova moda. Sono pur sempre rovine però, qualcosa che rimane legato e che non si può
ripristinare. Il tema delle rovine, la distanza con quella cultura antica, rimane incolmabile. Gianbattista Piranesi disegnò
anche delle rovine romaniche, enormi, titaniche, rispetto alla grandezza degli uomini che le visitano, piccolissimi in
confronto.
Fussli, nell’opera La disperazione dell’artista davanti alle rovine, nel 1768,i moderni di fronte alla grandezza
scomparsa del passato non possono far altro che disperarsi, quella grandezza è irrecuperabile. Momento di grande
sgomento, ma anche tristezza e nostalgia per la perdita del passato.
Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto militante, zoomorfico, del 1831-1837, accusa del governo
borbonico per non aver ancora disseppellito i resti di Ercolano, Pompei e Stavia, furono solo un poco trafugati, gli
stranieri sono più sensibili rispetto agli italiani stessi delle loro rovine. Prima volta forse che si fa una riflessione su
questo patrimonio che non viene considerato. Vi erano solo dei cunicoli in cui gli stranieri, es. per vedere Ercolano,
devono calarvisi dentro, con delle fiaccole.

Nel testo dice che Ercolano è sepolta e sopra vi è un’ignobile cittadina fatta di taverne.
Fa un attacco dicendo che se le rovine si trovassero in Germania o in Inghilterra non servirebbero fiaccole per visitarle.
Sarebbe già stata scoperta tutta Pompei. Questi governi come quello borbonico apprezzano maggiormente il tesoro che
tirano fuori, che possono mercificare, più che tirare fuori il mistero delle città urbane. Ed è una vergogna sanpiterna per
l’Italia.
Questa è la situazione del ‘700 in Italia. Gli scavi sono ancora da compiere e questa è una vergogna. Lui stando a
Napoli vedeva bene quello che succedeva, come gli stranieri prendevano d’assalto i resti.

Si è già affermato (min 43) il movimento proto-romantico/pre-romantico tedesco Sturm und Drang, di cui fa parte
anche Goethe, lui attratto anche dalle scienze naturali, studierà anche la pietra fosforica bolognese che trattandola si
illumina al buio. Goethe ne era affascinato. Ha molti interessi culturali, scrittura neo-classica misurata, diversa da quella
alfieriana dell’ostentazione passionale. Descrive il suo viaggio in Italia come una conversione, non come una moda o un
passaggio obbligato della sua formazione ma come un passo avanti per il suo spirito, una rifondazione interiore, una
nuova nascita, una metamorfosi. Un modo di concepire il viaggio quindi non solo educativa. Il viaggio è qualcosa che
trasforma l’individuo, fa fare un balzo in avanti allo spirito. Dice che solo a Roma ha sentito che cosa voglia dire essere
un uomo. “Non sono mai più ritornato ad uno stato d’animo così elevato, ne a una tale felicità di sentire. Con (vedi 8
settimana su iol)
Esaltazione in un contesto di rivalutazione dello stato d’animo antico, come luogo solare, l’antico è apollineo, il luogo
del sole, la modernità è il luogo del freddo. Goethe come moto di apertura ha scritto Et in Arcadia ego, sono stato anche
in nell’Arcadia (min 47)
Da qui in poi il viaggio avrà sempre più la possibilità di esprimersi, visto come un’esperienza esteriore, presenta in
Occidente questa possibilità di conversione interiore. Cosa che non era mai stata fatta.

Goethe, Viaggio in Italia


1 novembre 1786, lui definisce Roma caput mundi, perché rappresenta uno spirito che ha portato l’Occidente al suo
massimo livello sentimentale.
Per affrettare l’arrivo a Roma salta Firenze, la vede solo 3 ore. Ha inizio la sua vita vedendo Roma. Anche le sue
osservazioni diventano nuove. La frequentazione di Roma porta le sue qualità interiori ad emergere, ad esplodere. Di
quante mete si può dire una cosa del genere?

10 novembre 1786
Dice di essere immerso in una classicità, immerso nella luce, perché l’antico rappresenta la luce, a differenza del
crepuscolo di noi moderni. Vive in uno stato di chiarità, di cui da tempo non aveva neanche idea. In questo stato di
chiarità si trova felice. Vedendo quelle cose ci si rinsalda. Le emozioni del viaggiatore vengono dettagliate,
approfondite al lettore che si suppone interessato all’esperienza. Crede di non aver mai apprezzato qui il valore delle
cose di questo mondo e si rallegra delle conseguenze che ne ritrarrà per tutta la vita.
Ci dicono come gli stranieri tedeschi vedessero l’Italia nel ‘700, come un luogo di conversione al bello e sublime, di
vera vita, che è luminosa, che si respira a Roma.

2 febbraio 1787
Roma di notte, nel plenilunio. Si mescolano diverse visioni, del Colosseo, dei mendicanti, della luna, è una descrizione
di una grande esperienza esteriore, che non ha niente a che fare con il turismo.

Roma occupa gran parte della descrizione, bella anche quella di Napoli e la visita al Vesuvio.

Questi aspetti della vita di Goethe, Alfieri comincia a stendere la sua vita, Alfieri non ha sott’occhio il testo di Goethe,
ma Alfieri in maniera più rivoluzionaria. In Alfieri nella giovinezza, epoca dedicata ai viaggi, ogni riga è dedicata ai
viaggi.

Alfieri (1749-1803) è colui che ha quasi fondato in Italia il romanticismo parallelo a quello tedesco. Introduce una
fenomenologia di tipo romantico. Personaggio importantissimo per la nostra cultura letteraria. Si contraddistingue per le
tragedie, scriverà di Saul, re d’Israele che entrerà in conflitto con Dio che alla fine metterà Samuele, un uomo comune,
al suo posto. È un grande ribelle del creatore, il Dio ebraico. Scandaloso, mostra l’amore incestuoso di Emira per il
padre. (min 1.03) Descritta per i suoi sentimenti, senza condanna morale da parte del tragediografo. Alfieri è stato
innovativo, anche nella poesia dedicata agli affetti, vuole raccontare con sincerità i propri affetti. Noi diamo per
scontato che un poeta descriva i propri sentimenti e lo stato d’animo, ma non è sempre stato così, soprattutto dalla metà
del ‘500 al ‘700 gli scrittori fingevano, affettavano il racconto. Scrivevano soprattutto di altro.
L’idea di oggi romantica sulla poesia la dobbiamo ad Alfieri probabilmente, dell’amore extra-coniugale con l’amata,
che solo dopo la morte del marito poterono vivere insieme.
È un primo caso di romanticismo in Italia. Ha criticato l’antico regime, con il Trattato della tirannide e il Principe delle
lettere, lo scrittore dice, deve essere svincolato dal potere. (min 1.07)

Decise a 42 anni di scrivere un’autobiografia, cosa che solitamente avveniva quando si faceva un bilancio a posteriori
della propria vita. Scelta che lascia spiazzato il lettore, nasconde la persuasione di avere di aver qualcosa di importante
da dire al pubblico.
Sconvolge il paradigma del Gran Tour:
Comincia a viaggiare con un precettore inglese, nei viaggi si viaggiava quasi sempre in compagnia, i precettori erano
affidabili moralmente, non erano viaggi liberi, solitari ma di gruppo, all’ombra del precettore che controllavano i
giovani.

Alfieri scappa, abbandona la compagnia di stranieri e comincia a viaggiare solo in compagnia del suo servitore,
Francesco Lia, del ceto sociale più basso. Alfieri ne fa un compagno di strada alla pari quasi, fu quasi una guida, un
Virgilio, persona molto intelligente, pieno di esperienza, si muove nei casi più disparati della vita.
Innovativo è il fatto che Alfieri non ha nessuna meta.
Ne Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia di Battistini, dice che Alfieri è un viaggiatore irrequieto, al quale
importa più il muoversi che l’arrivare. Ha come unico scopo girovagare, sfuggire alla noia. Descrive l’esperienza della
vita annotando l’io su tutte le cose. Personalizza il paesaggio con il suo io, investendolo di umori, o meglio, del proprio
spleen. Usa il paesaggio e la sua rappresentazione per parlare di se stesso. La lingua da denotativa si fa connotativa (min
1.15)

Viaggio diviso in 4 epoche,


-Puerizia; Anche la fanciullezza è un’età in grande crisi nella letteratura, si è poco più che vegetali, stupidi e privi di
coscienza, privi di forma. Si vive in balia degli altri, non diretti da se stessi.
-Adolescenza; Non impara, disimpara quello che sa. Piomba in un’inerzia assoluta.
-Giovinezza; età dei viaggi
-Virilità, età in cui lui comincia a scrivere, è l’età della scrittura, età della maturità fisica, intellettuale e letteraria.
La vecchiaia non viene da lui contemplata. Lui considera la virilità come la parte migliore dell’essere umano. Anche
Dante se pensiamo lo credeva, ci si può finalmente liberare dal peccato e conoscere la strada giusta. La vecchiaia no.
(min 1.20)

Contro le due grandi istituzioni della vita:


-la famiglia, gabbia di una persona;
-l’accademia militare cui i nobili erano costretti a fare, che dava formazione di carattere militare ma anche di carattere
erudito.
Puerizia e adolescenza sono da sottovalutare, l’individuo non può viaggiare e rendersi padrone di se stesso. Gli stessi
educatori delle accademie, non avendo viaggiato, non possono insegnare niente di fruttuoso.
La Vita quindi è anche un discorso sociale, che cerca di porre le basi per una società diversa, idea anche di educazione
diversa. La fanciullezza è invece l’età dei viaggi. La virilità della scrittura.

Introduzione alla Vita


L’uomo deve amare se stesso, considerarsi come un oggetto di attenzione, essere il primo argomento. Il mio io vale, è
importante, allora ti costringo lettore a leggermi. Idea alla base della scrittura erudita e di tutta la poetica alfierana. Idea
che si va ad unire alla ricerca di spontaneità, “spontanea naturalezza”, tanto che Alfieri parlerà di “scrittura automatica”.
Nello scrivere la vita lui dice di aver lasciato fare alla penna, che ha preso vita propria. Cerca di far in modo che la
scrittura e alla penna vadano da sole, con naturalezza. Questo si riflette sullo stile di Alfieri, con sintassi dissonante, non
organizzata con sistemi classicisti ci equilibrio e armonia.
Scrittura della dismisura, spiazza per le pause che la compongono, senza logica, per l’uso dei puntini di sospensione,
uso anomalo della punteggiatura, parole che spesso entrano nella sfera del patetico e del razionale, scrittura specchio di
un’interiorità, che vuole trasformarsi in natura in maniera diretta.

Introduzione

Io non cerco scuse di carattere culturale, non scrivo di me per le persone che vogliano seguire il mio esempio o trovare
in me qualcosa di esemplare, scrivo per amore di me stesso, perché considero la mia interiorità grande e ve la spiattello
sulla pagine, senza finalità educative. Alfieri dice che i poeti sono egocentrici, l’egocentrismo è il succo della poesia.
(min 1.30). Scrivono perché amano loro stessi e perché vogliono far conoscere agli altri loro stessi, senza questioni di
denuncia in mezzo. Ogni altro operare dell’uomo proviene dall’amore per se stesso. Se uno non si ama, non si considera
grande, non può fare niente di grande. Lascia scrivere alla penna, mi lascio dominare dalla penna in una scrittura
automatica, in una naturalezza, una forza naturale spontanea e anche triviale, a volte volgare, non necessariamente ben
educata. Ma spontanea, e per questo spontanea e naturale, per questo giusta.

25 lezione 25/11/2019

Alfieri da Parigi assiste all’inizio della Rivoluzione francese.

Il viaggio viene concepito quando Alfieri ha 41 anni e rompe l’idea di Grand Tour che si aveva fino ad allora come
viaggio di formazione, di carattere erudito/artistico di conoscenza turistica dei principali monumenti/musei/accademie
scientifiche che erano segnati come tappe indispensabili nella formazione della persona.
Alfieri compirà il suo viaggio come ricerca di se stessi, un viaggio come ha notato Battistini nel suo saggio sulle
autobiografie settecentesche Lo specchio di Dedalo, interessa più muoversi che arrivare. Lo sentirsi sradicato dal
proprio contesto sociale, famigliare e culturale, lo sentirsi fuori dal mondo per cercare una fuga, anche dagli stati
d’animo quotidiani.
La rappresentazione non si fa più denotativa ma connotativa.
Le prime due epoche di una persona sono le più inutili (puerizia e adolescenza), invece le altre due epoche
rappresenteranno l’età dei viaggi, della vera formazione (giovinezza), Alfieri può cominciare ad essere autonomo, e
liberato da tutte le pastoie della società può cercare se stesso, e trovare la sua strada da adulto, quella dell’autore tragico,
riuscendoci, con Saul e Mirra. L’autore sa che sono personaggi negativi ma che vengono presentati senza pregiudizi al
lettore.
Alla base della poetica alfierana c’è un’idea romantica in sé che l’amor proprio, il “molto amor di sé stesso” è
fondamentale, perché si ritiene che questo sia il più interessante tema letterario, e si deve lasciar lavorare la penna, con
piena spontaneità nella scrittura, senza il controllo rigido della morale o della retorica tradizionale, della retorica della
forma, perché (min 10).
La spontanea naturalezza deve anche poter esplodere contro la razionalità e contro la scrittura tradizionale.
Alfieri dice che vuole essere sincero con chi lo legge, scrive non per fornire un esempio di comportamento o che le sue
esperienze fossero tesoro per altri giovani, ma perché ama se stesso e le sue esperienze. Soprattutto gli scrittori e i poeti
scrivono di se stessi, perché egocentrici. Non è un amore scriteriato che muove le emozioni umane ma un trasporto per
il bello, il fine educativo della scrittura sono comunque un prodotto dell’amor di se.
Riguardo allo stile, lascia fare alla penna, come lui lascia fare al suo cuore, al suo amore per se stesso, lascia che il suo
stile si formi sulla pagina con estrema naturalità.
L’opera è dettata dal cuore e non dall’ingegno. È un manifesto romantico, una scrittura in cui si trova anche squilibrio,
la prosa di Alfieri è tutte queste cose insieme, sono frequenti i costrutti sintattici, abbiamo passi poco chiari, espressioni
che si perdono nel vuoto, di invasamento interiore, di entusiasmo della scrittura, (min 16), è quell’equilibrio misto
squilibrio, un amore anche illimitato, disordinato, il sublime è una forma di piacere che mescola il piacere, l’orrido,
scenari naturali apocalittici come crepacci, maremoti, vulcani, la natura rappresentata nel momento in cui cerca di
soggiogare l’uomo, una natura in cui gli agenti atmosferici sono disastrosi, l’uomo perde la sua centralità, tutto questo è
sublime. (min 17)

Ci parla di due criteri estetici, il forte sentire, che si trova nel periodo della virilità e l’impulso naturale.
Del forte sentire parla nella Virilità, quando Alfieri si trova a Pisa, nell’ateneo dell’università, (min 19), Alfieri deve
perdere la conoscenza del francese e del piemontese, e conoscere il vero italiano anche accademico presso l’ateneo di
Pisa. Ma si sente a disagio non conoscendo niente della cultura letteraria, ma vuole essere ignorante. La cultura per lui è
un elemento di corruzione per l’uomo e la fantasia, dice che sarebbe meglio essere scrittori ignoranti che colti. Ridurre
il peso della retorica e della tradizione sarebbe meglio ma è una cosa impossibile.

Nel testo:
Nel viaggio in Toscana dice che non si è mai accinto a nessun genere di composizione in cui non avesse un impulso.
Non può avere un progetto e scrivere senza un qualche impulso. Cerca di raccogliere un po’ di info sulla retorica e sulla
lingua italiana, sta attendo a non smascherare la sua ignoranza, dato che pensò solo a viaggiare fino a quel momento.
Finge di essere esperto di letteratura ma non lo è. Alla fine non gli interessava neanche molto di questa insapienza, è
convinto che per fare qualunque forma di arte il primo sapere è il forte sentire che non si impara da nessuna parte.
Bisogna imparare quel minimo di strumenti per far sentire la sua arte e il suo io.

Nella lettera a Teresa Regoli Mocenni, parla di un amico in comune, Mario Bianchi, morto da poco, dice che il primo
pregio dell’uomo è il sentire, la prima facoltà che deve avere un autore, ma dice anche che le scienze spingono in
direzione opposta rispetto all’espressione artistica, in un’epoca ancora neoclassica, meglio essere ignoranti che colti e
aridi. Filosofi troppo teorici e aridi, che lui vede nei francesi, il paese del razionalismo e del pensiero, e anche gli
scienziati, sono cani, quindi non esseri umani, la vera società è quella sentente, che sa provare forti sentimenti, che è
viva nel profondo, che non è mossa solo dal calcolo.

Su queste problematiche vi rifletté su un trattato Del principe e delle lettere, dove afferma che gli artisti devono essere
liberi dal potere e dal mecenatismo, e anche poveri se necessario. Non ci può essere nessun vincolo, ma un’assoluta e
piena libertà, deve essere sradicato da ogni potere e protezione economica, parte per se stesso e se necessario vivere
sconosciuto, emarginato e povero. Alfieri non crede nella possibilità che l’arte diventi un’attività di consumo, ma deve
essere un’arte fatta di libertà, in preda all’impulso naturale, e per esserlo deve essere libera dal denaro. Bisogna aver
dentro di se una grande passione, una volontà di imporre se stessi al mondo, di essere primo fra gli ottimi ed essere
nulla. Esprimere se stessi è l’impulso di Alfieri che muove la sua vita.

Rime, una delle prime raccolte di poesia italiana, degli affetti, cerca di esprimere in profondità i sentimenti dell’autore,
fuori dall’imposizione dei modelli dall’alto, cerca di dire qual è la verità di se stesso, non con la bocca di Petrarca ma di
se stesso. Prima opera concepita in maniera contemporanea, dell’autentica espressione dell’io più profondo, senza il
classico sistema manieristico che ha caratterizzato la poesia prima.

Il sonetto fu composto passeggiando per parigi il 23 novembre 1783. Folle o menzogna:


(Se il titolo non c’è, si cita il primo verso o accorciato).
I lettori volgari, già lo so, sembreranno le cose che io scrivo in rima, menzogne, perché la poesia italiana si è abituata a
questo, scrittori che scrivono cose che non hanno mai pensato, si poteva usare classicisticamente un modello senza
provare davvero qualcosa.
Alfieri conosce bene questo problema e così specifica che sono cose sincere. Chi non ha mai provato un amore sublime
come me, non può credere a quello che dico.
Non è l’ingegno o l’arte che pongono foci a lavorare d’amore, le quali vengono messe da me col pianto più che con
l’inchiostro, il suo è il sentimento vero.
Le parole nascono dal dolore, che autenticamente mi divide l’anima e sono tratte dal profondo del mio cuore.
“Le mie parole nascon di dolore,
Che veramente l’anima mi parte,
E tratte son dal profondo del core”
Qui in questi versi nasce la poesia italiana.

Ora possiamo meglio appostarci alla vita e al concetto di viaggio in questa autobiografia. Parliamo della Giovinezza
dove incomincia il discorso del viaggio, che durano dal ‘66 al ‘75 che coinvolgono l’Italia e l’Europa. Nel 1766 Alfieri
esce dall’Accademia militare di Torino, dove acquisì una finta educazione dai precettori dell’accademia. (min 40)
Alfieri si aggrega al piccolo gruppo di viaggiatori, un aio, un precettore scelto dalla famiglia di origine, un controllore e
pedagogo che accompagnava i giovani nel viaggio, anche perché le strade non erano sicure e vi era una pericolosità
morale, si giravano luoghi poco raccomandati, il denaro poteva venir rubato oppure sperperato. Alfieri parla dell’aio
inglese cattolico (!)).
Si aggrega ma poi diventando insofferente verso di lui, ottiene il permesso di svincolarsi e di girare in autonomia.
Sceglie come compagno un servitore dello zio, Francesco Elia, come compagno di viaggio nell’esperienza dei viaggi
italiani ed europeo, la sua unica guida, che diventerà per lui una specie di padre. Un nobile sceglie come guida un uomo
del popolo, non di alta cultura, invece di un precettore ecclesiastico, sotto l’ortodossia religiosa. Non di cultura ma un
uomo di grande intelligenza. Rivincita per le classi basse che diventeranno sempre più protagonisti della grande storia,
della letteratura, come vedremo fra pochi anni nei Promessi Sposi di Manzoni, dove la figura del popolano diverrà
sempre più frequente per poi finire ad essere alla pari dei grandi letterati.
(min 46) Anche con Primo Levi rappresenteranno i veri protagonisti del romanzo.

Epoca Terza, Giovinezza, Abbraccia dieci anni di (min 47) Capitolo Primo
I protagonisti sono in viaggio su una carrozza. Elia era un viaggio di mondo, aveva già compiuto viaggi in diverse parti
d’Europa. Elia valeva più di tutti noi otto, uomini inesperti del mondo (min 49)

Capitolo Secondo
A Radicofani Elia cadde dal cavallo e si era rotto il braccio. Da solo si rialza, prende le redini del cavallo, va nella città
più vicina, Radicofani per cercare un chirurgo, ma siccome tarda, si cura da solo. e quando arriva può solo fasciarlo.
Collocano il ferito in carrozza, baldanzoso e forte pativa comunque molto per il braccio rotto. Si rompe pure il timone
della carrozza, ma quel solo Elia era più forte di tutti noi altri per riparare il timone. Si da da fare più di tutti gli altri. I
nobili incapaci, e l’aio, e gli altri servitori, non sanno fare niente. Sulla strada sopravvivono solo figure come Francesco
Elia, non gli altri fatti per la vita dei salotti. C’è un eroizzazione di questo personaggio. Alfieri dice che le fasce popolari
ne sanno più dei nobili, e dei prelati. Non sottovalutiamo la cultura popolare, forse superiore a noi. Esce da uno
snobismo classico della cultura italiana, erano oggetto di satira e parodia, non avevano una presentazione alta sulle
pagine. Fa Alfieri un ribaltamento del sistema sociale e dei rapporti sociali. Racconterà poi l’arrivo a Napoli. Dovunque
andavano i nobili entravano in contatto con l’intelllighenzia locale, venivano accolti tra pari, in questo caso da un
ministro. È il periodo del carnevale a Napoli. Racconta comunque che pur essendo giovane, bello e pieno di soldi,
bastante per divertirsi, ritrovava dappertutto noia, dolore e insazietà. Il suo piacere più grande era l’opera buffa del
Teatro Nuovo, ma anche queste cose che dovevano essere più divertenti, lo rattristavano. Preferiva andare a riflettere da
solo sulla sua condizione sulle spiagge. La sua condizione era solitaria, non vuole amicizie con nessuno, ha una natura
ritrosa che lo allontanano dagli altri, è asociale e vuole esserlo. Conosce molte persone ma non è amico di nessuno. È
isolato rispetto agli altri giovani. Come con Leopardi nel Passero solitario, schiva i divertimenti che gli altri inseguono.
Vuole stare con se stesso, crogiolarsi nella sua malinconia, non cerca ne l’amicizia maschile ne quella femminile, solo
le donne sfacciate lo inseguono, ma lui cerca le donne modeste. Questo desiderio di viaggiare il mondo gli impediva di
innamorarsi, rifiutava l’amore perché vissuto da lui come un impedimento al viaggio. Si muoveva con calesseti vedendo
le cose lontane, gli interessava fare la strada, non gli interessa vedere musei/piazza/architetture, ma gli interessa solo
fare la strada, correre, cambiare scenari in solitudine.

C’è un’inversione totale del Grand Tour, abbiamo un viaggiatore che non vuole conoscere niente di quello che vede, ma
sperimentare la velocità, il fuggire alla noia.
Questo tipo di traveller mosso solo dagli interessi interiori, che pone il servitore come unica guida, che vuole stare da
solo, che non vuole avere rapporti di società, non può stare dentro le strutture del Grand Tour e le sue logiche, deve fare
un altro tipo di esperienza.

I suoi compagni di viaggio sono rimasti indietro rispetto alla sua esperienza.

L’aio non era particolarmente oppressivo verso i giovani, ma non prendeva mai decisioni in fretta, aveva molte cautele,
aveva paura a muoversi, spostarsi, a organizzare il viaggio, date anche le grandi responsabilità. Alfieri deve chiedere ai
regnanti sabaudi di avere la libertà di spostarsi, credendo di avere le capacità di farlo. La ottenne. Impaziente di lasciare
Napoli e vedere Roma, e di fare il viaggio da solo, lontano dalla sua prigione natia, Asti, nobiltà e famiglia, parte con
Elia, in tempo per la festa dell’Ascensione a Venezia, molto famosa e bella.

Ritratto un uomo che vuole fare parte per se stesso, completamente libero dai doveri, segue i suoi itinerari, in piena
libertà, inseguendo la propria passione e il proprio desiderio di essere libero. Prelude alla figura di Kerwack in On the
road, di viaggiatore libero che non accetta il controllo.

Legato all’insofferenza dello stare, fonte di noia, a cui si contrappone la libertà del viaggiatore, la libertà come forma di
vita. Alfieri paga i vetturini per andare a briglia sciolta, per andare più veloce. Alfieri sarà sempre un grande
cavallerizzo.
La velocità sarà spesso al centro della letteratura, specie nel ‘900. L’uomo gode nel provare la velocità. Alfieri ne
parlerà con grande interesse della velocità, che si contrappone alla noiosa immobilità. (min 1.14)

A Venezia da solo. Fin da ragazzo assistette alle opere di Goldoni. Venezia era una città di grande divertimento, polo
insieme a Napoli appunto di divertimento, piena di forestieri e teatri, locali, dove i turisti si recavano per godere dei suoi
piaceri. Venezia comunque non lo divertì. Appena la novità, feste, folle etc., arrivava la malinconia e la noia, alla
sofferenza dello stare. In nessuna parte riesce ad accasarsi, gli viene tutto a noia passata la novità.
A Venezia non esce neanche di casa. L’unica cosa che decide di fare dopo i primi giorni di entusiasmo è bighellonare,
facendo qualche breve dialoghetto con una signorina che abitava nel palazzo di fronte. Passa i giorni lunghissimi
ruminando, meditando su qualcosa di cui neanche aveva idea, i sentimenti lo portano pure al pianto, senza mai trovare
pace. Un uomo che si rappresenta romanticamente in preda a sentimenti negativi e alla sofferenza. Butta via il proprio
tempo senza fare nulla di costruttivo. Un paradigma di uomo diverso dalla tradizione dell’uomo umanistico che cerca di
costruire una sua autonomia di uomo intellettuale. Si lascia crogiolare nei sentimenti. Insegue i brevi momenti in cui
può sentire di essere attratto in un’altra sfera, in sentimenti non ordinari, sente un forte sentimento che arriva dal
paesaggio. (min 1.20)

La notte diventa un momento fondamentale della vita umana, è la natura che parla e gli scrittori tendono l’orecchio per
sentire il sublime, che catapultano l’uomo in un’altra atmosfera. È un momento casuale in cui passando per un qualche
luogo, all’improvviso si sente rapito di un sentimento superiore, come accade es. in Svezia o Marsiglia in Francia, in un
luogo che conosce solo lui dove vuole provare sentimenti sconfinati.

Nel 1767 va a fare dei bagni a Marsiglia. C’è un luogo nella spiaggia dove va abitualmente, città alle spalle, vede solo
l’infinità de mare e del cielo. Qui passava un’ora di delizie fantasticando con la mente e con il cuore di fronte
all’immensità del mare e del cielo non distratto da altre distrazioni. Lì avrebbe scritto in rima o in prosa se fosse stato in
grado. Descrive questo momento di comunione in questo luogo, totalmente fuori dalle logiche turistiche, non è un luogo
che i giovani del Grand Tour devono visitare, solo lo scrittore ha trovato e vi va a passare il tempo, perché cerca altre
sensazioni, non vuole la cultura ma sperimentare in se l’infinito.

Lo vediamo anche in Leopardi ne L’infinito, nel 1819 (dai Canti) dove scrive di un colle che gli fece provare l’infinito.
Va a sentire il sublime su questo colle. C’è ovviamente una grande diversità rispetto ad Alfieri, che non vede altro se
non cielo e mare, perché lo scoglio gli toglie la vista. Invece Leopardi ha davanti una siepe che gli copre l’infinito e il
panorama, ma l’esperienza è uguale, l’allontanarsi da soli e provare da soli la quiete dello spazio, il sublime, che porta
sgomento. (min. 1.29) Il naufragare nel mare sublime gli è dolce.
Si pone su questa linea romantica della poesia come esperienza del sublime, nei Canti Leopardi pratica il viaggio
sentimentale, l’infinito è una promenade poetica. (min 1.31) Anche la passeggiata diventa un argomento di poesia che
parte soprattutto con Leopardi, il poeta cammina e si sposta, si concentra sulle emozioni che prova, un poeta che esce
dal palazzo e prova da solo questa esperienza di sublimità, è un piccolo viaggio sentimentale.

26 lezione 26/11/2019

Giovinezza (1766-1775)
1) Inizio dei viaggi, presenta Elia come suo servitore. È lui la chiave di volta della giovinezza (“il solo e vero
nocchiero”)= è l’uomo esperienza, che guida nel viaggio l’inesperto del mondo;
2) Liberazione dal “tardissimo Aio”);
3) “Insofferenza dello stare”= non è la curiosità del turista a muoverlo ma l’inquietudine.
Figura di immoderatus e solitarus viator, Alfieri è un viaggiatore che viaggia solo nel senso che si ritrae da solo, Elia
serve solo ai pernottamenti o in alcune faccende più pratiche, ma viaggia da solo e vive la sue esperienza da solo;
4) Percezione del sublime= episodio del “luoghetto” di Marsiglia..o della Svezia, con la slitta, o dell’Aragona, luoghi in
cui si ricerca il sublime naturale e di cui si fa esperienza.
Al tempo gli artisti cercavano il paesaggio classico e delle forme geometriche, ma non è quello che interessa ad Alfieri.
Leopardi invece percepisce interiorità (min 16)
L’uomo è misura di tutte le cose,

Svezia, luogo amato da Alfieri, molto inospitale, non c’erano strade se non battuti sulle piste. I viaggi nel nord
aggiungevano strade inefficienti e freddo polare. Ma questi aspetti in particolare lo attraggono, dice di esserne
innamorato e si trasferirebbe volentieri lì.

Dal testo, nel Sund (canale Svezia-Danimarca), arriva anche a Stoccolma, lo spettacolo della greggia (rozza) natura che
lo sta trasportantdo, lui la immagina così, più che vederla dal vero in questo modo. Poetica del forte sentire, come base
della sua creatività. Gli piacciono molto gli svedesi, è uno dei paesi che gli sono andati più a genio. La Svezia con la sua
ruvidezza gli ha dato meravigliose sensazioni e grandi silenzi.
Nel deserto dell’Aragona, Alfieri lo attraversa con il cavallo. Ha un’idea di natura diversa da quanto si immagina di
solito, è una natura minimale e stereotipata, i fiumi dalle acque limpide e tranquille, i venti sempre tranquilli, parla di
fiori etc. probabilmente ricordando il suo viaggio in Provenza scrive dell’Aragona. Tornano le descrizioni di natura
stereotipata, di stampo petrarchesco. Con Tasso abbiamo l’unico caso he esclude questa modalità.
Per ripristinare la misura petrarchesca, il petrarchesco classico, viene creata a Roma l’Accademia Arcadia. (min 26)

Paoli Rolli, vediamo una serie di strofette ottonari, con rime alternate, rappresenta il proprio struggimento amoroso, si
rifugia in un bosco e racconta ai fiori i suoi sentimenti.
Poesia molto ritmata, viene rappresentata una natura tranquilla e silenziosa. Forse la donna non è neanche mai esistita.
Spesso la vostra ombra, piante, ha coperto i nostri incontri. Anche se tornerà, lo farà per piangere sul mio corpo morto
di dolore o suicida. Le fronde sono grate, amiche, il ruscello scorre con fresco umor fra i fraschi.

Alfieri invece descrive in modo diverso il suo inselvarsi. Rime, Tacito orror di solitaria selva

Questa selva solitaria è dominata da un tacito orror, che mi riempie il cuore di beatitudine. Siamo di fronte a un luogo
buio e orrido che come una belva va a perdersi fra le piante.

Non vado a nascondermi nei bosci perché odio gli uomini o perché mi considero migliore degli altri. Non mi credo più
appresso al buon sentier, quindi alla retta via, ma perché disprezzo il mio secolo, e solo qui i miei problemi non mi
parlano, e i doveri da nobile non mi tediano. Vuole stare solo.

Vediamo la differenza, dell’uomo in armonia con la natura, è in armonia con la natura più sconvolta e inospitale.

Troviamo nei deserti dell’Aragona, troviamo la stessa modalità, rifiuta l’amicizia e l’amore perché sono impedimenti di
trovare se stesso e il sublime della vita.
Viaggia da solo. Sono luoghi inospitali, forse non visitati dai grand turisti. Voleva fare la strada a piedi, cammina con il
cavallo accanto e parla con lui. Gli piaceva molto questo. Ogni tanto il servitore gli procura di che mangiare con il
fucile. Sembra Don Chisciotte. Sfortunatamente per lui (o fortunatamente per gli altri), non poteva scrivere, non aveva i
materiali, peccato perché avrebbe scritto molto dato che i deserti lo riempivano di scene terribili e liete, un misto di
piacere, dolore e pazzia. Il fatto di ridere e piangere avrebbero significato pazzia per la gente normale, a meno che
queste emozioni non fossero state scritte in poesia. ❤️
Poi va a Madrid e ci resta un mese.

L’io viene imposto al lettore, non c’è nessuna finalità sociale/filosofica, ma uno scrutarsi dietro attraverso i paesaggi
che si conoscono.
Questa forma di viaggio verrà sempre più a galla, anche per Leopardi il viaggio non è più solo un evento educativo, un
Grand tour, ma un momento di realizzazione dell’essere umano, di emancipazione e degli obblighi sociali. Leopardi
affermerà che per conoscere se stessi è fondamentale allontanarsi dal padre e dalla famiglia, saranno il momento
migliore per la crescita. Viaggio come momento capitale dell’emancipazione.

La famiglia di Leopardi non prevedeva che lui uscisse mai di casa, ma conoscendo Pietro Giordani, decide di fuggire,
abbandonare tutto, si rompeva così ogni legame di appartenenza, era un tradimento verso anche la monarchia. Questa
fuga è per lui fondamentale, per scappare dai vincoli della sua casta. Lui suddito dello Stato Pontificio, quindi tradendo
il Papa, quindi diventando nemico dello Stato, rubò anche dalla cassa di famiglia, appena raggiunta la maturità nel
1819, a 21 anni, decide di scappare.

Sta già per partire sul calesse, scrive la lettera al padre nel luglio 1819. Non ha il coraggio di consegnargliela, la fuga
non avviene perché il padre gli impedisce di fuggire. Il fratello Carlo nasconderà la lettera, restata segreta nei secoli fra i
documenti segreti.
È una lettera terribile contro la famiglia che impone dei doveri non voluti ai figli.
Importante perché mostra la situazione di un giovane intellettuale italiano (e non). È una nuova sensibilità di ribellione
introdotta dal Romanticismo che è molto evidente in Leopardi.
È una resa dei conti prima di fuggire:

Vuole prendere commiato dal padre. Fino ai 21 anni sono stato più prudente di chiunque altro, e sempre bravo e buono.
[Si da del “voi” ai genitori] Ho conosciuto moltissime persone, valgo molto, non posso più stare chiuso in questa
prigione. C’è un’esaltazione dell’io, l’amore di se stesso giustifica la lettera, la legittima. Nonostante i talenti mi
costringevi a vivere a Recanati, molto periferica, non come le più grandi città dell’epoca. Nonostante io sia già
diventato maggiorenne, non mi veniva lasciata libertà di agire. Comincia a recriminare i genitori che non contribuiscono
a fare emergere il figlio, come altri facevano. E quindi deve liberarsi da questa famiglia. L’appartenenza alla famiglia
nobiliare, esigeva il sacrificio delle loro inclinazioni della loro vita. Il padre voleva che Leopardi diventasse un vescovo,
o comunque che intraprendesse la carriera ecclesiastica. Qui si sta consumando, la sua immaginazione gli sta
procurando indicibili sofferenze. I giovani sentivano la sofferenza dello stare, dal quale volevano liberarsi. Da questa
terribile noia e malinconia, Leopardi decide di fuggire, intraprendendo una vita povera.
Questa lettera segna la fine del Grand Tour, c’è ora l’uomo che vuole liberarsi, l’individuo, la sua felicità e (min 58)
vengono prima. Se vuole realizzare le sue istante più profonde, si deve andare a vivere in altri luoghi, fare altre
esperienze, nelle grandi città della cultura, lui vuole vederle, affermare se stesso, anche a costo di perdere tutto. (min
1.00)

La fuga è una variante tematica del viaggio, dove il traveller cerca di sfuggire a una minaccia, cerca di fuggire a una
situazione che lo imprigiona, che sia la famiglia, la casa o la natura. (min 1.03) Es. Canto notturno di un pastore
errante dall’Asia

Leopardi ha un grandissimo peso ed è costretto a correre per la natura per poi precipitare in un fosso, per poi cadere e
perdersi.

Canto notturno di un pastore errante dall’Asia


Pastore che chiede alla luna il significato della vita. La vita di un vecchierello, bianco e infermo, va per montagne
disagevoli, sotto la tempesta, l’afa, per poi precipitare in un abisso immenso.

Qui è uno dei rari casi in cui Leopardi è così esplicito verso la morte dell’anima.

Leopardi fa questa scoperta della famiglia-gabbia da cui fuggire e come l’uomo è nella
gabbia-natura, l’uomo è sempre in fuga. Leopardi paragona la vita umana come una foglia sballottata dal vento.
Afferma che la vita di tutti è una foglia sballottata.
Va verso il disfacimento. Un vento perpetuo la sballotta ovunque e questa non capisce cosa le sta succedendo, e va poi
dove tutte le altre foglie vanno, verso la morte.

È sempre una concezione del viaggio.

Il viaggio sentimentale si trova spesso nei canti, 6 casi vistosi e in altre volte; comunque nella forma di promenade.
Vediamo J.J. Rousseau Le fantasticherie del passeggiare solitario, diventano un momento in cui l’io può fermarsi a
riflettere, provare delle sensazioni di raccoglimento e di forte emotività. La passeggiata diventerà un argomento poetico
sempre più usuale, fino alla parodia di Aldo Palazzeschi, che racconta una passeggiata in città in maniera comica, ma
che è solo la fine di una lunga tradizione.

Uno dei primi poeti italiani che portano questo al massimo livello è Leopardi, es. quando scrive all’affezionata sorella
Paolina, il 25 febbraio 1828 lettera da Pisa.

Intanto i rapporti si sono ristabiliti con la famiglia e fra Giacomo e Monaldo, i due diventarono degli amici, dei
confidenti, soprattutto alla fine degli anni ‘20/‘30. Parla in modo molto affettuoso. Racconta di una strada, Via delle
rimembranze, che passa quando vuole provare rimembranze ed emozioni forti. Scriverà grandi poesie degli affetti in
questo periodo.
Ci perdiamo nei nostri pensieri e nei nostri ricordi. Questa esperienza inizia a far parte della poesia italiana da Leopardi.
Anche dove non sembrano esserlo, esempi di passeggiata poetica:
-L’infinito
-Alla luna
-La vita solitaria
-Ultimo canto di Saffo
-Il passero solitario, passero sulla torre antica di Recanati che vuole starsene da solo in disparte ma che racconta in
realtà la passeggiata del poeta fuori da Recanati;
-La ginestra o il fiore del deserto min 1.17)

Ha ora una visione razionalizzata, una:


teoria degli oggetti doppi per cui tutte le cose che noi vediamo e luoghi che attraversiamo, valgono per se stessi e per i
ricordi che sollevano in noi. (min 1.18) e l’altra:
Teoria della rimembranza, per cui il centro del cuore umano è la rimembranza, il ricordo e non avere ricordi significa
non essere vivi. Dobbiamo anche sollecitarli per sentirci vivi, crogiolarci nella memoria perché danno senso alla realtà
attuale in cui viviamo.
L’idea di una memoria involontaria è già anticipata da Leopardi nello Zibaldone.
Noi riceviamo la sensazione degli oggetti che ci circondano, ma il bello degli oggetti sta in quello che ci fanno
riaffiorare quando li vediamo.

In Un altro pensiero dice che un oggetto qualunque che non dia


L’attuale non può essere poetico, il ricordare sì. Leopardi ha un’idea di realtà intrisa di sentimentalismo, è una forma di
sentimento che si appicca alle cose e porta quelle cose dentro di noi, e quando le rivediamo, quel sentimento si riattiva
dentro di noi. La realtà non è una piatta manifestazione filomenica ma un continuo ricordo della vita. (min 1.23)

1829 Leopardi sente arrivare il rintocco dell’ora della torre del borgo (di Recanati). Mi ricordo quando questo rintocco
mi faceva compagnia nel buio della stanza mentre venivo lasciato solo quando ero più piccolo, anche se avevo paura del
buio. I bambini venivano schiafati [cit prof] dai genitori, non come ora. Il trauma di Leopardi resta così impresso che
ancora se ne ricorda nel 1829. Non c’è una realtà banale, fredda, ma c’è ed è carica di ricordi, infatti non c’è niente che
non gli ricordi qualcosa in quella stanza. Il ricordo è doloroso ma è piacevole ricordare. (min 1.28)

Altre poesie nella categoria passeggiate:


Alla luna
Ancora oggi ti vedo dalla stessa altura in cui ti vedevo un anno fa, la vita non è cambiata. Questo gli da piacere,
ricordare è piacevole. Come il passero rifiuta gli altri uccelli, il poeta preferisce andare solo per la campagna mentre la
gioventù è in festa, tutti eleganti, mirano e sono mirati, si rallegrano di questo gioco di sguardi, essenza della nostra vita
comune mondana e di questo gioco, ma Leopardi preferisce andare per la promenade da solo. Come Alfieri che
preferisce la solitudine piuttosto che gli amici, le donne, l’amore.

27 lezione 27/11/2019

Corto viaggio sentimentale, la promenade, chiamata così da Rousseau. Diventa sempre più un’abitudine letteraria fare
queste passeggiate fuori porta collegandole a un discorso interiore.
Leopardi racconta la sua abitudine frequente di fare queste passeggiate, es. alla sorella Paolina, facendo la Via delle
rimembranze, (ogni poeta ha una via delle rimembranze) dove lui appunto pensa a ricordi, riflessioni e sentimenti. Il
passaggio centrale de Il passero solitario, un canto di incertissima data (1831-1835) il prof dice che è degli anni ‘20,
testo che si è lasciato indietro per 20 anni nei suoi cassetti.
Lui va in campagna, con i propri sentieri e sentimenti e prende un’altra strada rispetto ai giovani che fanno festa a
Recanati.
Come ne La ginestra o il fiore del deserto (1836) si trova in una villa a Torre del greco, a Napoli perversa il colera,
quindi restano alle pendici del Vesuvio, vedono le colate laviche e le ginestre che nascono e crescono in quei luoghi
desertici. Il poeta paragona se stesso ad un fiore che nasce dalla lava pietrificata e non piegare il capo fino all’ultimo,
quando la colata lavica prenderà il sopravvento, solo al passaggio del fuoco.
Solo il cronotopo, (unione di tempo e luogo (min 7) racconta anche di passeggiate a Pompei, dove ammira quel poco
disotterrato della città antica.

Si rappresenta all’aperto in un momento in cui sta ammirando i cespi solitari delle ginestre sulle pendici del Vesuvio. La
lava pietrificata che a colui che va in visita rimbomba perché sotto è vuota.
Più avanti descrive la passeggiata dove vede il purissimo azzurro del cielo di notte, con le stelle del firmamento. Questi
canti desolati sono resi scuri dal frutto lavico indurito, asciugato, e assomigliano alle onde del mare. Io mi siedo la notte
sulle rive desolate e vedo in alto fiammeggiar le stelle dell’alto firmamento. Questo “seren brillare il mondo” è un
classico, cercare momenti con la natura. Leopardi mira l’infinità del cosmo. Quando vedo le stelle lontanissime che
sembrano un punto ma invece sono immense, o le nebulose, noi non sappiamo cosa c’è lì e loro non sanno cosa c’è qui,
cosa mi sembri uomo quando faccio dei ragionamenti al cielo; è un caso di sublime naturale, la nostra posizione nel
cosmo risulta decentrata.

Ungaretti ha sintetizzato il sublime al massimo, “mi illumino d’immenso”, nelle marce forzate es. di mattina dove deve
ridurre al minimo le sensazioni provate, saltando la descrizione dell’arrivo al luogo dove prova quelle sensazioni, o
anche con Montale dove si riduce all’osso la sensazione della passeggiata poetica.

Il viaggio sentimentale non finisce con Alfieri o con le ultime lettere di Jacopo Ortis, con Foscolo e ci sono molti
esempi di viaggi sentimentali nel ‘900, uno è la Tregua, Odore dell’India di Pasolini o (min 15)

Primo Levi (1919-1987) descrive il ritorno dal lager di Buna Monowitz viene descritto dal ‘45 al ‘63, Se questo è un
uomo invece come abbiamo visto viene scritto a caldo per denunciare l’orrore del lager.
La Tregua appunto è un’opera meditata, Levi grande conoscitore dell’opera classica impasta Omero, Dante etc.
È un autore sempre più importante per i critici di oggi.
Sommersi e salvati è un discorso sul male, la discesa agli inferi in Se questo è un uomo e il ritorno dall’inferno in La
tregua (Purgatorio), manca la dimensione del paradiso, della Tregua, le vessazioni minacciano sempre di tornare, la
pace non è mai duratura ne definitiva. È uno degli ultimi esempi di poeta scrittore scienziato, che unisce appunto
scienza e letteratura.
Non è uno scrittore praticante, appartiene però alla cultura ebraica ed è intriso di tutti i background culturali di quella
cultura. Entra in una banda partigiana nel ‘43 ed entra nel ‘44.
Si troverà a Buna-Monowitz, fabbrica di gomma. La liberazione avverrà il 27 febbraio del ‘45 da parte dell’Armata
Rossa. Il viaggio di ritorno da Auschwitz a Torino, è un viaggio molto tortuoso, lento e dura una decina di mesi.
Automaticamente nella sua menta di autore, va a collocarsi vicino all’epopea di Ulisse di ritorno da Troia a Itaca e al
ritorno degli ebrei dall’Egitto, un’altra deportazione che devo subire gli ebrei da parte del faraone d’Egitto
(testimonianza soprattutto nel Pentateuco) e poi del viaggio di 40 anni nel deserto. Della deportazione babilonese si
parlerà invece nei Salmi. Levi penserà a questi quando ripenserà alla sua esperienza.
Il viaggio di ritorno ha una valenza sentimentale effettiva, non è puro racconto di fatti elencati dall’autore dalla
liberazione all’arrivo, ma parla di crescita interiore, che vive l’autore, tenendo conto della Bibbia, del Pentateuco, i
Salmi, Dante e Odissea. Il Dante dell’Inferno era presente più in Se questo è un uomo, perché più simile alla sua
sensazione nel lager, invece La tregua è più vicina al Purgatorio, e ricorda anche il testo di Dante all’arrivo al
Purgatorio e l’antipurgatorio, luogo di luce contrapposto alle tenebre precedenti, dove la temperatura si fa più nitida e
da speranza al pellegrino che ha appena attraversato l’inferno, ma che può ora vedere la luce, anche se da lontano.
Il I capitolo della Tregua vede un calore che sta salendo, rispetto al grande freddo degli ultimi momenti nel lager. 4
soldati aprono i cancelli, sembrano degli angeli dal Purgatorio, danno speranza ai sopravvissuti. I russi appena preso il
controllo sottopongono a un bagno antisettico le persone rimaste nel lager che vivevano in condizioni sovrumane. La
salita al Purgatorio di Dante è possibile grazie a un bagno purificatore.
Abbiamo una serie di riferimenti al Purgatorio dantesco.
Abbiamo riferimenti al neorealismo, degli anni ‘30, con Moravia Gli indifferenti che descrive la borghesia, e poi
prosegue con Pavese, Fenoglio, Vittorini, Pasolini, fino a Levi, con una narrativa che cerca di descrivere una realtà
senza fingimenti, con la descrizione della realtà italiana del tempo, Fenogli racconta della brigata, Pavese racconta della
realtà borghese e delle abitudini normali degli italiani, es. Ferie di agosto, nelle Ceneri di Gramsci o Pasolini che
racconta la vita del sottoproletariato romano. Si concentra sulla restituzione idealistica della realtà sociale.
Anche Levi non idealizza quanto vede. Racconta in maniera violenta quanto vede, descrive torture e situazioni di
immonda sporcizia e disumanità, di insopportabile sadismo, non scrive con fingimenti realistici. Ma neorealismo nn
vuol dire solo attaccatura alla schietta realtà, non parliamo di Verga che elimina l’io completamente, e di costruire
un’opera di pure oggettività che si sembra creata da se, ma vuol dire anche grande passione e realtà che si mescolano
insieme, sono dei racconti che partono dalla cronaca, crudi e brutali, Levi è un grande scrittore neorealista, racconta la
realtà ma anche l’io e la sua situazione attuale.

Salmi, 137
Nella Babilonia del VII sec. a.C. gli ebrei rifiutavano di cantare e di manifestare gioia perché lontani dalla loro terra. La
cultura ebraica si nutre di questo schema, l’idea che il popolo si trovi in esilio e che ha sempre Gerusalemme nella
memoria e che non può mai dimenticarla.
Che nel ‘900 anche i non ebrei hanno fatto propria, es. S. Quasimodo in Alle fronde dei salici (da Giorno, 1947), che sa
che non possono cantare sotto l’invasione nazista italiana, il piede straniero è quello dei tedeschi.
Come potevamo cantare con il piede straniero sopra il cuore.
Era un riuso diffuso di questo immaginario biblico della deportazione anche in aree non strettamente ebraiche e che
veniva emergere in quegli anni difficili della guerra. Quindi a maggior ragione è presente in un autore come Levi.
Nell’ippotesto (testo che sta sotto il testo che stiamo leggendo), quindi se Levi si riferisce ai libri della Bibbia,
l’ippotesto è la Bibbia. (min 40)
Tregua vuol dire momento di pausa, la normalità della vita umana è caratterizzata da un continuum di orrori e violenze
ma qualche volta c’è un momento di tregua. Levi non vuol dire che ci sarà un ritorno al lager, ok dice anche questo, ma
universalizza il discorso dicendo che il ritorno del male è sempre possibile, e la liberazione dalla schiavitù non è rapida
ed efficiente, ma sempre faticosa, e gli ebrei liberati dai russi non vengono subito mandati a casa, ma sottoposti a un
lungo processo di ritorno a casa dove vengono sballottati in maniera macchinosa per l’Europa.

Mappa del viaggio descritto ne La tregua:


Da Auschwitz, Polonia, URSS, Romania, Ungheria, Austria, Italia. I treni sembrano giocattoli rotti ma la maggior parte
del viaggio viene compiuto a piedi, la lingua poi sarà un grandissimo problema. Possiamo vedere come la letteratura di
viaggio, lo spostarsi, abbia senso anche nel pieno del ‘900, con un testo che potrebbe essere collocato anche nel
Medioevo, a piedi, con un piccolo fardello sulle spalle.

La poesia posta in righe composition, in anello, con il finale. L’esergo, la poesia di apertura che propone le tematiche
dell’opera, si ricollega con quella finale come un anello. Con l’ordine dei Kapò in polacco, che ordinavano di alzarsi
all’alba per ricominciare il lavoro. Il grido risuona nella sua memoria, è anche un grido più profondo che cerca di
riportare gli uomini alla loro condizione umana e di sottomissione al male.
Levi diceL
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo..
Quando eravamo nel lager, non dormivamo, facevano incubi tra la realtà, non facevano sogni dolci e piacevoli. Tornare,
mangiare, raccontare (i sogni). Molti sognavano di poter tornare, il ritorno e il racconto sono le cose che più desidera
Levi. Però all’alba risuonava il grido di alzarsi.

La prima strofa ricorda la condizione del lager, la seconda invece è ambientata nel ritorno dal lager dove i deportati
sono a casa, hanno il ventre sazio, hanno finito di raccontare. Hanno esaudito i desideri. Ma presto tornerà il comando
straniero, si tornerà nel lager, per dire che si è sempre in bilico tra due persecuzioni dell’essere umano, qua si parla di
tutti gli uomini. Si entra nell’essenza del viaggio sentimentale de La Tregua.

Ha il terrore continuo di non essersi liberato veramente del terrore. Solo due pagine e mezzo su Torino, si parla nel libro
delle dinamiche affettive non tanto dell’arrivo.
Nessuno lo aspettava, tutti i famigliari vivi. Non lo sapeva questo. Se lo vedono arrivare senza nessun preannuncio. Non
è una situazione ospitale subito. Era gonfio, barbuto e lacero. Il corpo sfigurati. Fece fatica a farsi riconoscere,
riferimento a Ulisse che nessuno lo riconosce. Il travestimento aveva lo scopo di vedere la fedeltà dei sudditi, per Levi è
diverso, è sfigurato senza volerlo. In poche righe racconta la parte positiva del ritorno. Levi per mesi guarda per terra,
come faceva nel lager per cercare dei rifiuti da mangiare. Torna a ricongiungersi con la poesia iniziale, un sogno che lo
ossessiona, continua a visitarlo, con intervalli fissi o radi, nella sua vita di uomo tornato alla normalità. È un sogno
dentro un altro sogno, vario e ricco di sostanza. A tavola con la famiglia, in campagna, al lavoro, in un ambiente senza
pena, è un sogno dentro l’altro sogno anche perché la realtà è un sogno. (min 56) in questo sogno in cui vede la realtà
famigliare intorno a lui, le cose lentamente si smantellano. La realtà si smonta e l’angoscia si fa avanti. Tutto è avvolto
in caos, spariscono tutta la casa, gli amici, la campagna. So cosa è, sono tornato nel lager, sembra di aver sognato anche
il ritorno a casa e il ritorno a Torino. Sente risuonare ancora il grido del lager Wstawac, è un monito per tutti perché le
nostre case, gli ambienti pacifici e placidi dei nostri amici e divertimenti, sono un sogno di pace e il comando del lager è
sempre dietro l’angolo che farebbe cadere le quinte del teatro.
È un massaggio anche per il suo tempo, dal valore militante, entrando nei problemi di quegli anni.

Il ritorno del dolore, vede l’ippotesto del Cantico del gallo silvestre, che dice: “Su mortali destatevi. Il dì rinasce: torna
la verità sulla terra.. VEDI SU IOL
È vicino alla sensibilità di levi

Non è un ritorno piacevole, Dizionario dei temi letterari UTET, sul tema del ritorno, di Simona Corso oppure
Raccontare il ritorno. Temi e trame della letteratura, di Di Rocco. Si concentra sui temi e non sulle
forme/stile/filologia.
Corso dice che c’è il tema del ritorno con l’Odissea, composta tra il IX-VIII da diversi autori che hanno col tempo
scritto temi epici unendoli nell’Odissea e la Parabola del figliuol prodigo, parabola di Gesù nel Vangelo di Luca, una
famiglia ebraica che ha questo figlio che se ne va, l’altro lavora con il padre. Questo figliuol sperpera tutti i soldi i
divertimenti. Si poteva fare questa cosa di prendere dei soldi da giovani della famiglia. Lui finirà ad occuparsi dei
maiali, il gradino più basso della società per gli ebrei. Torna a casa e davvero viene accolto bene dal padre con tutti gli
onori. Questo ritorno rappresenta un momento di gioia, senza ferite, la parte enfa è stata traumatica, ma il ritorno fu un
grande successo.
Nell’Odissea il paradigma fu diverso, anche perché Ulisse è costretto a non tornare a Itaca, è costretto dal ruolo di re
greco di seguire i greci che vanno a liberare Elena, come i deportati nei lager. E nel ritorno, mentre nel figliuol non si
parla delle difficoltà del ritorno, nell’Odissea si parla tantissimo di questo e quando Ulisse torna a casa deve superare
delle prove per tornare nel suo ruolo. Ci sono delle ferite necessarie per il reinserimento. La maga lo traveste da
mendicante. All’inizio vuole vedere chi gli è restato fedele. Vede che Argo è trascurato da tutti, giace pieno di zecche
sullo sterco, deve sterminare i nemici (Proci) insediati, deve dimostrare a Penelope di come è fatto il talamo nuziale,
ricavato da un ceppo di ulivo sotto il giaciglio, da cui è stata costruita tutta la stanza, per dimostrare di essere lui.

Questa difficoltà di reinserimento la mostra Levi, che ha difficoltà a esser creduto. Non è un ritorno veloce e positivo.
Qualcosa di simile del racconto finale dell’incubo tornato a Torino si ha in Se questo è un uomo in una pagina dove
Levi racconta le notti nel lager dei deportati.
Dice che non sa chi sia il suo vicino, dormono in direzioni diverse per occupare meno spazio, conosce meglio i suoi
piedi e il suo dorso. Comincia subito a russare appena arriva. Questo russare si trasformerà subito in un incubo. Scivola
nel sonno e si risveglia sui binari del treno, arriva subito l’incubo. Il treno arriva, il russare del vicino si trasforma in
locomotiva che arriva su di lui disteso. Non è ancora così addormentato da non capire di cosa si tratta, è la locomotiva
di oggi, che scaricava la gomma che dovevamo lavorare. Si avvicina sempre di più ma non lo colpisce mai. Si sforza di
svegliarsi, ma non troppo, per restare fra incoscienza e coscienza, non vuole aprire gli occhi per non distruggere il
sonno. Vuole riprendere il sogno, sente il suono che in realtà è fuori nel lager, quindi si mischia sogno e realtà. Il fischio
della locomotiva è il simbolo della sofferenza del lavoro del campo, come Wstawc diventerà simbolo dell’incubo de La
tregua. In questo incubo ad Auschwitz immagina di essere a casa a raccontare gli orrori e le violenze vissute, ma nel
sogno le persone sono lì ma non lo ascoltano veramente. Sono indifferenti e parlano fra di loro. La sostanza più
profonda dell’incubo è la sofferenza di non essere ascoltati, anche la sorella, la persona più importante, si alza e se ne
va. Vuole finalmente uscire da questo incubo che è il più doloroso, l’indifferenza degli ascoltanti o che fanno a finta di
non ascoltare. Molti deportati del lager hanno questo incubo, di non essere ascoltati.
Il vero ritorno è impossibile, è solo un momento di tregua.

Altri episodi de La tregua, per dimostrare che il viaggio non abbia solo un aspetto cronachistico ma simbolico, evidente
dall’episodio del bagno a cui i russi sottopongono i deportati che lo stesso Levi connota simbolicamente, il bagno
rappresenta un’ombra simbolica, rappresenta qualcosa di superiore. Non si può ridurre la realtà ad una successione di
fenomeni oggettivi, ma c’è un ricorrere di leggi, un qualcosa di più profondo.

Capitolo II Il campo grande, si racconta che i russi dopo aver liberato i superstiti, li portano tutti nel campo grande, li
uniscono, cosa che ha senso dal punto di vista organizzativo, ma vediamo come Levi vive questa cosa:
Era sorpreso, avevano bisogno di altre cose, anche nell’entrata nel lager vengono lavati. Quel bagno era un bagno di
umiliazione, demoniaco, una messa nera, che segnava la discesa nell’Inferno, e neppure un bagno nell’Inferno fatto in
maniera americana, descritto più avanti. Ma alla maniera russa, a misura umana, estemporaneo, approssimativo. Anche i
liberatori vogliono imporre il loro marchio sui liberati, assorbirli della loro sfera, spogliarli delle loro vestigia, e vestirli
come loro, vogliono domare le persone liberate, non è una liberazione altruistica e di totale abnegazione di se, ma di
controllo, almeno viene vista così da Levi. Lui racconta la sua esperienza ma la proietta in una dimensione superiore e
diretta, raccontarla con una chiave simbolica di interpretazione. Gli umani fra di loro sono così, quando liberano
qualcun altro lo fanno per imporre nella liberazione un nuovo marchio, c’è un grande pessimismo, che contro i russi è
diffuso per tutta l’opera, perché secondo Levi non c’è niente di bontà allo stato puro. Ci sono gradi diversi di libertà. È
un viaggio che ha questi momenti, approfondisce l’io e la condizione umana, ha diverse venature simboliche, sono
eventi che hanno la chiave di lettura del destino [credo sia qualcosa che acquisisce chi ha vissuto una tale barbarie].
Il viaggio si esplica come un viaggio di ritorno interminabile, intorno alla Terra Promessa, Levi lo descrive con
l’Odissea e la Bibbia, la Terra Promessa è Torino. Nel viaggio gli ebrei, mentre Mosè riceve le Tavole della legge, il
popolo sotto si corrompe, Dio punisce gli ebrei e li costringe alla perigrazione nel deserto per 40 anni. Levi si chiede se
è una punizione divina quello che vive.

Un passo all’inizio dell’opera si incontra un personaggio chiave, Mordo Nahum, greco che nei primi giorni (soprattutto)
diventa un amico di Levi, un compagno. I prigionieri aspettano un treno per andarsene, alla stazione in attesa, incontra
altri ex prigionieri, c’era un rottame umano che parlava da solo forse in yiddish e c’era finalmente il greco, con cui il
destino doveva congiungermi per una indimenticabile settimana randagia. Rappresenta Ulisse, Levi è il compagno nel
gruppo di persone che tornano in patria, anche se vive come Odissea. Il greco sarà Ulisse, e poi più avanti Cesare, figure
volitive che si impongono, con ingegno multiforme, che danno a Levi la possibilità di pensare a diverse cose.

Lezione 28 02/12/2019 ❤️

Nella Tregua assistiamo alla trasformazione profonda dell’individuo che attraverso il viaggio di ritorno e dell’incontro
con gli ex deportati, con questo mondo vivo, anche Levi fa una crescita
interiore da sprovveduto, cresce e diventa un uomo più esperto delle cose. (min 4)
Ci sono molte riflessioni sul lager, è una riflessione sull’olocausto insieme agli altri due capolavori di Levi, che sono
riflessioni sul male che lo scrittore ha vissuto in prima persona.
Nel racconto spicca il termine “tregua”, un momento di interruzione delle violenze, degli orrori che costellano la realtà.
Un momento di pausa nel continuum di orrori e violenze dell’umanità. Anche il rientro non sarà così idilliaco, ci sarà la
paura di tornare nel lager e la paura di non riuscire ad acclimatarsi nella sua terra di origine, ma soprattutto di non essere
creduto, incubo che tormenta anche altri internati.
Un ritorno difficile, tornare alla normalità è impossibile, e anche il suicidio di Levi è da iscrivere a questa idea che il
ritorno è impossibile, che certi orrori non si cancellano e hanno aperto un’interpretazione di quello che la natura è. Se il
momento di liberazione è solo una tregua, è chiaro che non si potrà mai tornare alla normalità.
Un episodio che abbiamo visto importante è il bagno nel campo grande dove è evidente l’interpretazione autobiografica
di una trasformazione di Levi ma anche simbolica, quello che Levi dice di se si può allargare a qualunque essere
umano. Levi non parla solo dell’olocausto degli ebrei ma di questo come destino più grande, tutti potremmo essere al
posto degli ebrei, viene universalizzata questa esperienza, cosa evidente. Anche i liberatori vogliono imporre i propri
scopi sugli internati. Non sono del tutto limpidi come potrebbe apparire a un lettore comune.
Il tremendo destino dei liberati, i 10 mesi di passaggio furono mesi tormentosi. C’è stato il travaglio anche del post
lager che ha avuto un risvolto di crescita interiore. (min 13)
Come Ulisse che riesce a piegare attraverso l’uso della parola le persone intorno a lui, e da persona molto acuta con i
mezzi di sopravvivenza, ha la metis, l’arguzia di uscire attraverso qualunque scappatoia. Ha un multiforme ingegno. È
un politropo. E così è Mordo Nahum.

Nel testo, Levi va verso Cracovia, un soldato russo prende dei prigionieri e li mette su un binario del treno che li
caricherà. C’è Levi e Nahum. Il russo non li rassicura, li indicherà solo la via che prenderanno. Qui c’è quest’uomo,
impazzito dopo l’internamento, questo rottame umano dall’età indefinibile che parlava solo yiddish. E c’era il greco,
che aiuta Levi nei primi giorni fuori dal lager, senza di lui sarebbe morto. Levi mette in evidenza gli oggetti che
compaiono sulla persona del greco, a prima vista sembrava solo un internato, ma poi ci sono le sue scarpe, di cuoio
nuovo, incredibile dato il luogo e il tempo. Stridono con l’ambiente e le circostanze. Ha poi un sacco pieno di cose.
Strano per un ex prigioniero. Parlava anche spagnolo, francese, italiano, turco, bulgaro e albanese. Gli permettevano di
comunicare con tutti, Levi da borghese italiano non conosceva queste lingue, conosceva latino, greco, qualche parola di
tedesco, forse francese e inglese ma non le lingue più utili dell’Europa dell’Est. Questo Mordo sembrava un rapace. Un
uccello notturno che non poteva far venire fuori la sua vera natura, quindi un uomo capace. Aveva nell’aspetto le tracce
del suo carattere più profondo.
L’attesa è interminabile, avevano fame e freddo, non si vedevano tetto o riparo. Questi passeggeri vedono l’arrivo di
uno striminzito convoglio di carri merci, trainati da una locomotiva che solitamente serve a trainare i treni nelle
stazioni. Non può compiere grandi distanze a grandi velocità. Pensava di essere portato subito in Italia con un treno
veloce. Non accadde. Non c’è una buona disposizione di chi sta già sul treno, i contadini non sono socievoli. Si erano
illusi di ricevere una bella accoglienza. Il contrasto tra ideale e ideale, vediamo che colpisce. (min 24)
Cominciano a capire dove stavano andando, capendo che il viaggio non sarebbe stato comodo.
Cracovia scoppiava di ex prigionieri, non era un grande luogo desiderabile dove farsi ricoverare, data la grande
presenza di bisognosi. Le strade brulicavano di gente di tutte le razze, di cui molti diventati persone poco per bene,
furfanti e balordi.
Speravano di avere un viaggio sicuro verso la patria, confortevole, cosa che faceva parte di un desiderio più grande, la
vicenda del Levi deportato viene collocata in una sfera più generale, di essere trattati bene, la speranza di un mondo più
dritto e giusto dopo un’eternità di stravolgimenti. Ma invece il mondo non funziona così, era una speranza ingenua.
Avevano una distinzione troppo netta tra bene e male, credevano che dopo la cessazione de male sarebbe arrivato il
bene, ma non fu così.
Dirà nei Sommersi e salvati che la sensazione di ingiustizia e indolore, l’avranno soprattutto gli uomini di cultura che ad
Auschwitz sopravvissero in maniera limitata, erano quelli che soffrivano di più, (min 30), sopravvissuti nella filosofia
sentivano di più il dolore.
Levi raffigurava in se un mondo perfetto della liberazione. Non fu così. La libertà (non pensavano sarebbe mai arrivata)
non fu come sperata.
Non sarà un viaggio quarantennale ma fu molto lungo.
I liberati non raggiungono subito la Terra Promessa, ma raggiunsero la Russia, e affrontarono freddo e paura come gli
ebrei con Mosè. Riferimento all’ippotesto biblico.
Arrivano a Cracovia, devono raggiungere la città a piedi, anche se solo pochi km con le scarpe che hanno. Levi ha delle
pezze ai piedi. Mordo delle scarpe di cuoio. Il viaggio fino a Cracovia lo compiono insieme. Levi si carica sulle spalle il
sacco di Mordo che glielo appioppa. Io l’ho raggruppata, e può servire alla nostra sopravvivenza e tu devi renderti utile.
È la divisone del lavoro. Aveva vari strati di tessuto per provare a combattere il freddo. Greco che esce dal lager con le
scarpe nuove e il sacco, guarda le cose di Levi con disprezzo e dispetto. Levi con le scarpe di cuoio poco resistenti e le
poche cose della sacca ormai quasi vuota. Nei 7 km le sue scarpe si stavano sfaldando. Il greco aveva mantenuto un
silenzio sprezzante e quando Levi decide di sedersi, gli chiede l’età, Levi disse di avere 25 anni (!!!!!) e greco gli disse
che era uno sciocco, chi non ha scarpe è uno sciocco. Gli chiese la professione, e fece intendere che anche se era un
laureato, non importava, le conoscenze della vita erano più importanti. C’è una differenza ontologica fra i due, uno ha
dei rottami ai piedi, e l’altro delle belle scarpe, anche se uno era un laureato e l’altro un furfante di Salonicco. Meritavo
la libertà? Il greco forse ne dubitava. Levi incomincia a dubitarne, ma Levi comincia a giustificarsi dicendo che stava
male. Ma questa era una debolezza, fisica e mentale. Il greco capì anche da malato che aveva bisogno di scarpe. Non si
fermò davanti alla sua condizione fisica, non si fermò davanti al russo con il mitra che controllava il magazzino, e prese
le scarpe e il sacco. Questo è previdenza disse il greco. La tua stupidità. Io non mi fermo davanti a niente. Levi la fa
pronunciare a Mordo nel 1963, non si rivolge solo a chi vuole sapere qualcosa di Auschwitz ma a tutti gli italiani, sul
rapporto che ha il letterato sulle cose. È una riflessione sul ruolo dell’intellettuale, la cui formazione non è sufficiente a
rapportasi con il mondo, c’è un’altra umanità che ha rapporti diversi con la realtà e qui essere dell’élite non fa
differenza. Mette sul piedistallo persone come Mordo che diventano modelli per lui, dei termini di riflessione per tutte
la cultura italiana degli anni ‘60, fa una riflessione sulla cultura accademica alta dello studioso a tavolino. È la stessa
uscita dallo studio che abbiamo visto con Galileo e Vallisneri. Ribalta il suo sistema di valori e saperi. Mordo diventa
l’eroe della situazione, quando i due a Cracovia cercano di entrare in una caserma, piena di militari italiani, e dove si
trovava il ricovero per la notte, già piena di ospiti e forse non può ospitare Mordo e Levi. Ma Mordo risolve la
situazione con la sua astuzia. Arrivati alla caserma perquisita dai russi. Stare fuori di notte significa morte. Alla
sentinella non importa di loro. Si ospitavano soprattutto militari. Non era facile comunque introdurre il greco data la
campagna italiana in Grecia e in Albania. Levi prova a intenerire un maresciallo italiano ma ha pochi argomenti e
deboli, il greco avrebbe parlato poco, e in italiano. Ma Mordo trova la soluzione. Lo spinse da parte. Con l’oggetto della
sacca, un sacco di maiale in scatola, riescono a corrompere il maresciallo ed entrare nella caserma.
Ci si aspetterebbe una difficoltà ad accogliere un greco, invece no. C’era grande abbondanza nella caserma. Stavano
molto larghi. Tutti ci colmarono di cortesie. Mordo diventa il centro della camerata, alcuni reduci parlavano il greco,
rievocavano luoghi e fatti del paese invaso. Il suo non era un greco qualunque ma un super greco. Aveva compiuto un
miracolo in pochi minuti: un’atmosfera. Riesce a creare una grande simpatia nei suoi confronti. Con la parola, aveva
compiuto un miracolo. Come Ulisse che riesce ad affabulare le persone con la sua parola, lo stesso fa il greco. Sapeva la
lingua e conosceva gli argomenti preferiti dal popolo, tagliatelle, Juventus, vino, borsa nera, motori, ragazze etc. Ha una
cultura multiforme. Con Levi parlava poco. Con gli altri tanto e gli ammaliava. Aveva fatto la campagna di Grecia, era
un sergente.
Le fila di tutto il discorso, scarpe e caserma, vengono tratte quando Levi e Mordo si trovano insieme alla mensa dei
poveri. Sono stati al mercato, Mordo vendetta la camicia di Levi al mercato nero, ottengono qualcosa, e alla fine se ne
vanno alla mensa, dove troviamo i due seduti a tavola. Presero due minestre e una sola razione di fagioli e lardo,
punizione perché Levi non voleva andare al mercato, perché non credeva fosse onesto. Era duro con Levi. Dopo la
minestra si ammorbidì e gli lasciò un po’ di fagioli. Si sentiva in vena pedagogica. Il rapporto cambia sempre più, prima
trattava Levi come uno schiavo, poi come un salariato e poi come un fratello minore. Torna al discorso delle scarpe,
così si chiude il cerchio. Prima bisogna pensare alle scarpe e poi al cibo, non viceversa come pensa lo stolto. Perché con
le scarpe puoi trovare il cibo. Ma Levi replica che c’era la guerra. Mordo dice che la guerra non finisce mai, homo
homini lupus di Hobbes, guerra globale in cui tutti siamo immersi, che Levi non era arrivato a capire con lucidità.
Mordo che non ha studiato molto, riuscì comunque ad acquisire grandi conoscenze. Questa grande verità sulla vita
umana, fa capire a Levi che non esiste una verità superiore estratta dall’alto, a priori, nessuno nasce con un decalogo in
corpo, ciascuno si costruisce per strada. Il decalogo nasce per strada sulla base delle esperienze vissute. Levi sta
cominciando a maturare una cultura diversa da quella di origine, sta cominciando a crescere. Levi non parla solo ai suoi
lettori, ma parla alla cultura italiana, attenzione, non esiste un decalogo a priori, ma si crea con l’esperienza, la teoria e
l’astrazione generano delle incomprensioni con la realtà. Mordo unisce la natura di Ulisse, per la sua mentis e
politropia, uomo dal multiforme ingegno e aggiunge la cultura di guida, acquisita dall’esperienza, come Francesco Elia.
Levi dice a tutta la sua epoca che il popolo ha una cultura che può insegnare qualcosa alla sua cultura. L’uomo incolto,
l’uomo di strada, ha qualcosa da insegnare a noi, uomini di élite. È forse uno dei più grandi attestati del neorealismo
dire che l’uomo di strada è una figura umana su cui scommettere, da imitare, per capire il funzionamento del mondo,
dove l’alta cultura sta andando.
Nella seconda parte del romanzo, arriva il romano Cesare che diventa la guida di Primo, che è un gregario, si
accompagna a delle guide che lo difendono e lo direzionano. Mordo sparisce e poi ricomparirà. Levi non è il
protagonista dell’azione.
Cesare sembra la traduzione italiana di Mordo, la natura è simile a quella di Mordo, come se Levi volesse mostrare la
guida latina e greca, Virgilio e Ulisse.
Prende per mano Levi, però Levi dimostra, verso la metà dell’opera, di essere cresciuto molto interiormente, di essere
diventato un poco di più Mordo e Cesare. Non abbandonerà mai la sua natura, però riuscirà ad imparare qualcosa da
loro. Questo è evidente in un episodio del capito X dell’opera, La curizetta (=la gallina), uno dei passi anche più
comici:

Nel testo:
Verso Staryje Doroghi (vanno senza sapere il perché), dove il capo carovana è molto cattivo, loro vogliono invece stare
tranquilli, nella foresta con il fuoco, Cesare vuole mangiare una gallina arrosto. Prende il suo assistente Levi, e vanno in
un villaggio per prendere una gallina, e scambiarla con altro cibo dato dai russi nel percorso. Gridano al villaggio per
farsi riconoscere, perché avvicinarsi al buio avrebbe potuto significare una schioppettata. Loro dicono di essere amici,
italiani, in romanesco. Arriva uno sparo. Urlano di volere una gallina, c’è un approccio poco funzionale da parte di
Cesare, anche se affrontò situazioni simili in cui se la cavò. Non arrivarono altri spari. Cesare continua il suo discorso.
Levi dietro. 30 persone circa al villaggio, poche case. Emerse il vecchio barbuto con il moschetto. Cesare considerava
esaurita la sua parte, dice che tocca a Levi. Manda avanti il suo discepolo per prendere in mano la situazione, con la sua
scarsa conoscenza del polacco. Quelli del villaggio si persuasero che vestiti così non sarebbero dovuti essere pericolosi.
Ripetè Levi “Italianski” e anche il vecchio cominciò a ripeterlo. Tutti si erano calmati, anche i cani. Cesare pensa che la
cultura di Levi possano aiutarli. Gli mostrano i piatti, capiscono la traduzione in russo. Levi sta per dare i piatti, ma
Cesare dice che non li daranno gratis, si arrabbia, Levi inizia a pensare e a provare a dire uccello in tutti i modi che
conosceva. Cesare non sa come uscire dalla situazione comincia ad arrabbiarsi. Situazione simili a Dante e Virgilio, in
difficoltà, es. nel canto VIII quando entrano alle porte dell’Inferno, i diavoli impediscono loro di entrare e Virgilio non
sa come fare, e si arrabbia.
Cesare si arrabbia, Cesare bestemmia e si arrabbia [oddio sono Cesare, coccodè porcod*o] e comincia a copiare una
gallina, a fare le stesse gesta. Ci presero sicuramente per matto. Si sforza di fare l’uovo. I contadini cominciano ad
essere disturbati, una signora si avvicina nervosamente al vecchio. Levi diventa maestro, prende in mano la situazione.
Fa calmare Cesare. Va dove una luce illumina una parte di suolo. Disegna per terra una gallina. Avevano tentato con il
mimo, la lingua, a Primo viene invece in mente di provare con il disegno. Una vecchietta cominciò a capire e disse
“Kuritsa”, felice anche di aver capito per prima la questione. Tutti erano contenti e festeggiavano. Ritorna con una
gallina in mano, già spennata. Prende i piatti, e se ne andò. La transazione funzionò. Tornano, svegliano i compagni e
mangiarono. Sulle mani.
È una chiave di volta questo. Levi diventa padrone del suo destino, trova il sistema che la sua guida non trovò, e sistema
la situazione, lo ha eguagliato. Ha imparato una nuova forma di comunicazione. Non è stata la capacità della lingua a
farlo uscire da questa situazione ma l’esperienza della strada, che gli offre strumenti che la sua cultura iniziale non
riuscì a insegnargli. (min 1.27)
Riflette sulla sua nuova cultura di intellettuale, come nei Sommersi e salvati dove dice che la cultura di élite non è
sufficiente alla sopravvivenza. È un capitolo bello dell’opera.
Altri casi di viaggio sentimentale:
-Pasolini, L’odore dell’India, 1962, viaggio del 1961
-Anna Maria Ortese, La lente scura, 1991, raccoglie scritti di viaggio dal 1939-1964, dove riprende l’eredità alfierano,
che connota il paesaggio vestendolo dei propri pensieri, in maniera più efficace di Alfieri, es. di come il viaggio
sentimentale può essere praticato ed è presente in un capolavoro della letteratura di viaggio. [Letture pasquali o estive
da gustare cit. prof]

29 lezione 03/12/2019 penultima lezione uuuuh

Le città invisibili di Italo Calvino. È un compendio della tradizione, è un viaggio simbolico post-moderno, che sfugge
a qualsiasi descrizione classica del viaggio moderno.
È una nuova frontiera del viaggio. È un viaggio concreto, pieno di simboli, di conoscenza moralistica, ma non
rientra in nessuna categoria tradizionale.
Esce con Einaudi nel 1972, Calvino fu anche dirigente dell’Einaudi. La sua narrativa è diversa rispetto all’inizio, di
solito la sua narrativa si divide in tre esperienze che appartengono a periodi diversi:
-Neorealista: Sentiero dei nidi di ragno, legata all’urgenza storica, alla resistenza, alla situazione italiana nel
dopoguerra, narrativa che cerca di aderire alla realtà in chiave verosimile;
-Una svolta negli anni ‘50 per il fiabesco, per la raccolta delle Fiabe italiane nel ‘56, in forma orale raccolse i racconti e
li trascrisse in un italiano moderno e leggero. È una svolta di interessi, si allontana dalla realtà urgente della
ricostruzione alla fiaba, da qui nascono i racconti lunghi della Trilogia dei nostri antenati. (min 5) dove racconta
vicende a metà strada tra immaginazione e storie effettive;
-Anni ‘60 terza fase con l’avvicinamento di Calvino all’ambiente parigino della letteratura che praticano la scrittura
come arte di combinazione, non ha uno sviluppo diegetico tradizionale ma cerca di seguire anche con delle forme
matematiche (min 6) i propri racconti e la propria materia narrativa. Le città invisibili si inseriscono qui, (min 7) Anche
in questa fase e nelle Città invisibili la realtà non sparisce del tutto. È una specie di riscrittura del Milione e lo riscrive in
chiave nuova. Ma questa opera odeporica, dove racconta dei viaggi di Polo, riferisce al suo signore quello che ha visto.
Questa è la gabbia dove si inseriscono le città, fittizie. Con Polo invece c’erano città esistite davvero. Nel testo di
Calvino le città hanno un loro funzionamento ma quasi sicuramente nascondono esperienze veramente vissute. (min 10)
Calvino fu un grande viaggiatore, molti viaggio raccontati in Descrizioni di sabbia ma ci sono altre esperienze dirette o
indirette, es. Diario americano, altri scritti sulla cultura europea, Calvino è un viaggiatore globale, conosce i problemi,
ha vissuto la realtà parigina es. e i problemi della città contemporanea, post-moderna.
Non bisogna prendere questa opera come pura fantasia, è una lettura surreale ma le città sono emblemi di problemi che
si toccano nella realtà contemporanea. È una dimensione della realtà che non toccava tut cours le città italiane, solo
qualcuna. Lentamente ci coinvolgerà.
È un’opera di fantasia ma dove la riflessione sul reale, la base realistica è presente ed è reale.
Il testo è tenuto insieme da una cornice, c’è una situazione narrativa di partenza che rende lecito il racconto delle
singole novelle. Una cornice che tiene insieme il libro. All’apertura e chiusura del libro, ci sono dei dialoghi fra Polo e
Khan, che chiede a Polo di descrivergli il suo impero città per città e lo fa con il suo linguaggio, non in chiave statistica,
burocratica, ma poetica, come uno scrittore che fa dello stile/dell’arte espressiva, della poesia, la sua arma principale.
Vuole emozionare, vuole descrivere riflessi, percezioni.
Unisce la dimensione del viaggio esplorativo, sia di quello conoscitivo filosofico-moralistico ed ha un valore
sentimentale, perché Polo fa molte annotazioni personali, percezioni della sua sensibilità, importante per la
comprensione dell’opera.
55 racconti divisi in 9 capitoli, dal 2-8 cinque cap. più le cornici in corsivo dove comunicano Polo e Khan, i
dialoghi sono 18 in tutto. Le città sono invisibili perché non vengono visitate effettivamente nella narrazione (che
non si svolge sulla scena), diventano visibili nella descrizione di Polo ma per Khan sono invisibili che sta nella sua
capitale.
Ogni città si riconosce per un tratto distintivo, es. modalità di funzionamento della vita collettiva, un’ossessione per
il quale sono caduti, c’è qualcosa insomma che distingue ogni città dalle altre.
Rubriche la città e il desiderio/scambi/il nome/morti/cielo.
A ogni città corrisponde un racconto e a ogni racconto si inserisce in una città.
Perché il Milione? È uno dei libri di riferimento di Calvino. (min 19)
ha lavorato a lungo sul soggetto Milione al cinema ma poi l’esperienza non si concretizza, lavora fra metà ‘50-‘60. Ha
una carica visionaria forte, (min 20)
È un’opera che ha già in se una tendenza alla meraviglia, descrive luoghi (min 22)
Il Milione è stato visto come opera visionaria anche nel corso della letteratura visionaria (min 22)
Coleridge in Kublai Khan del 1816.
“Utopia” coniato da Thomas Moore dove descrive l’isola di Utopia come comunità desiderabile, per lui significa non
luogo, perché non esiste da nessuna parte ma è anche un luogo perfetto che si prende come modello di una società
perfetta.
La distopia (dal gr. dius=contrario) (min 24). [aiutooooo troppe info per dei poveri coglioni come noi].
Le utopie possono essere letterarie, (min 25). Comunità comunistica dei beni, molte delle utopie che nell’occidente si
sono manifestate nella realtà hanno carattere comunistico, Campanella nel 1602 nel pieno dell’Antico regime propone
la società comunistica e verrà scambiato per pazzo.
L’Atlante di Francis Bacon etc. ci sono molte utopie letterarie che vengono citate come modello dell’opera, Calvino
dichiara di essersi ispirato a queste utopie, ma anche a utopie reali, come (min 28) Owen cerca di far vivere i suoi
dipendenti con condizioni di lavorative oneste e umane, vietato il lavoro minorile, 10 ore di lavoro con pausa pranzo,
aperte scuole per i bambini degli operai, delle biblioteche, un centro di utopismo socialista diventato poi patrimonio
UNESCO, New Lanark o Icaria, utopista francese costruisce la comunità a base comunistica negli USA nel ‘48. Queste
due città utopiche reali vengono citati da Calvino come riferimenti per le città invisibili. Il Milione viene avvicinato
all’utopia.
La nuova narrativa di Calvino si basa su 4 principi (opera aperta, casualità, processo combinatorio,
partecipazione attiva del lettore), dalle Cosmicomiche (‘65) a Ti con zero (‘67) come opera aperta che può essere
allargata all’infinito, non c’è un limite alla materia narrativa della sua opera, c’è solo un taglio della materia per renderla
fruibile da parte del lettore.
È importante la casualità, (la disposizione dei materiali casuali), non c’è uno sviluppo diacronico dall’inizio alla fine,
ma sincronico. Es. nel romanzo tradizionale non si possono disporre gli elementi in maniera casuale. Le opere
andrebbero (min 33) Il lettore viene chiamato all’interpretazione dell’opera che non è palese ma si offre
all’interpretazione libera del lettore. In questa narrativa si possono trovare moltissimi significati diversi, perché non
esiste un’interpretazione giusta neanche da parte del lettore. Si può fare un’interpretazione generale e la vedremo dal
prof, ma è un’opera aperta che chiede al lettore di fare l’esegeta. Il lettore può leggere anche dal centro, poi leggere la
fine e ultimo l’inizio. Non c’è una forzatura da parte dell’autore a indirizzare alla fruizione. Opera narrativa contro la
tradizione. Nel romanzo la partecipazione attiva del lettore era molto limitata, il lettore non poteva dare qualunque
interpretazione, c’era già quella dell’autore. I promessi sposi non si aprono a possibilità infinite. È così più difficile fare
un’interpretazione esegetica. Tutto quello che non rientra nel plot del matrimonio, viene messo sullo sfondo o escluso.
Calvino passa dal racconto alla descrizione nelle sue opere. Nelle Cosmicomiche (min 38).
Lo scrittore si avvicina alla descrizione e con Le Città invisibili manca lo sviluppo narrativo ma c’è la descrizione
della realtà e dei fenomeni nella scrittura. Nei racconti di Montecristo mette in scena la situazione del conte che
vuole sfuggire, cerca di uscire dalla fortezza e alla fine del racconto il narratore interviene mettendo in bocca questa
affermazione: l’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione”, che descrive
l’intenzione più profonda dell’uomo moderno che sta nella prigione di conoscenza, è prigioniero dell’ignoranza e per
sfuggirla deve capirla, per uscire dalla prigione che sono diventate le nostre città, dobbiamo capirle e descriverle, per
trovare il punto di fuga, ciò che inferno non è, e dargli spazio, riformarla, e capirla, bisogna descrivere tutti i suoi
risvolti.
Il prof dice che possiamo interpretare l’opera così (suggerimento, le interpretazioni sono infinite):
-L’impero di Khan: il nostro mondo, il mondo post-moderno, (usiamo questa categoria contestata, ma per il prof
definisce ancora il nostro modo di vivere in modo oggettivo, e la da per scontata), labirintico e caotico, molteplice e
secondo Calvino, che ne da un giudizio negativo, è caotico e in rovina, uno sfacelo senza fine ne forma, ogni città
rappresenta un singolo aspetto di questo impero decadente. Forse è tutto il mondo occidentale? È quello in cui
viviamo.

Cap. I
La cornice narrativa comincia dicendo che non è detto che Khan creda a tutto quello che Polo dice. Accorda un
privilegio come nel Milione, lo ascolta con più attenzione di qualunque altro messo. Descrive l’attività del potere,
della politica di accumulare introiti, denaro, cose che non possono trovare il senso profondo delle cose. Al di là delle
ricchezze provenienti dai regni, c’è qualcosa che il politico non può sapere. È il momento disperato in cui si
scoprono i limiti della vita, della società, al di là dell’accumulo, dove si scopre che tutto è uno sfacelo, la politica
non riesce a trovare riparo a questa corruzione, e insieme all’economia non possono gestire da sole quanto
accumulato, che va verso la rovina. Solo nei racconti di Polo, Khan vede la filigrana di un disegno e su cui costruire la
sua opera di politico.
-Khan rappresenta la gestione del potere in tutte le sue forme, che in questa opera è negativo e pessimista. È
un’imperatore nostalgico e malinconico che si appella a Polo perché non sa più affrontare da solo i problemi che
gli si presentano. È inerte davanti alle problematiche che gli si presentano;
-Polo è l’antidoto al potere, rappresenta lo scrittore, l’artista, e il poeta, colui che muove pensieri e sentimenti,
positivo e ottimista, uno scrittore che crede ancora nella riforma dell’umanità che con i propri strumenti, poesia,
emozione, descrizione suggestiva, artificio retorico. Il potere umano del post-moderno potrebbe essere arrivato al
termine delle sue possibilità se non ascolta gli scrittori, se si ferma e non si alimenta. Polo è uno scrittore che con
gli elementi della poesia cerca di indicare a Khan come incentivare cosa c’è di buono. Non si esprime con il
linguaggio della scienza, burocrazia e politica, ma punta sul particolare e sulla simbologia, si esprime con un
linguaggio poetico, dell’arte, della poesia, dello stile. Calvino (min 53) trova una funzione positiva dell’artista che
può affiancarsi al potere con la riforma della realtà, è anzi uno strumento a cui il potere deve attaccarsi. [come
l’impero austriaco nel ‘700, come con la vaiolizzazione e l’Innesto del vaiuolo di Parini.]
Ci vogliono le voci dei poeti, e FORSE solo così si possono salvare le sorti.
Al Khan riferivano notizie burocratiche, elementi matematici, statistici, per un’illusione di possedere
scientificamente il suo impero. Ma quando parlava Polo la comunicazione era diversa da quella in cifre. Il modo
in cui Polo, ignaro della diplomazia e della nomenclatura, si serve dei suoi strumenti personali e si mette anche a
fare i versi degli animali per descrivere quello che ha visto, strumenti non canonici e con oggetti raccolti che come i
bambini tiene nelle sue tasche, che lo aiutano a raccontare i luoghi visitati. Polo non descrive la città in generale, le
dimensioni che la definiscono, ma lo fa in maniera dialogica e irrazionale, in immagini che ha visto che per lui
rappresentano meglio le città visitate.
Se noi vediamo le descrizioni delle città, il margine di interpretazione resta molto ampio, non capiamo sempre quello
che vuole dire. Trasformava la realtà vista in un emblema. Così profondo che diventava emblema della città. (min 1.00)
Ci sono giochi di parole di Polo. Una serie di descrizioni poetiche ed evocative che vanno interpretate ma servono al
regno più dei burocrati.
Difficile far passare alla mentalità dei potenti che la poesia possa essere utile, per loro è meglio basarsi su dati
concreti. Il compito dello scrittore post-moderno è riconoscere chi/cosa è e sta in mezzo all’inferno, e chi/cosa non
lo è e farlo durare e dargli spazio. È una strada rischiosa questa ricerca e il non essere negativi tout court. Ci
sono in tutte queste città degli aspetti negativi, ma anche potenzialmente positivi sul quale andrebbero fatti degli
investimenti. E su questi aspetti potremmo costruire degli effetti migliori.
Khan ha ascoltato tutti i 55 racconti però rimane pessimista, sfiduciato sulle possibilità di riformare l’impero.
L’ultimo approdo è la città infernale, la morte e la distruzione definitiva, è verso questo che ci risucchia la corrente.
Non bisogna lasciarsi atterrire dall’inferno dell’al di là (è un Calvino laico che parla), perché l’inferno è sulla
terra, è qui, che abitiamo. Si può lasciare che ci scorra davanti, diventare indifferenti e scivolare nell’indifferenza,
oppure, come detto prima, riconoscere il non inferno e farlo durare.
Calvino dice che la vita è un inferno, ma c’è qualcosa che non lo è e questa cosa va coltivata e fatta crescere.
In una di queste città, a Raissa, in mezzo all’inferno si mescola il non inferno, chi sa osservare riesce a trovare un
filo rosso di positività, occorre vedere il buono e solo un poeta come Polo è in grado di vederlo.
Nel testo:
Siamo nel gruppo delle città nascoste nr. 2:
Non è facile la vita a Raissa, Tutti hanno sguardi torvi. Dentro le case è peggio, ci sono litigi, quello che appare
all’esterno, eppure non c’è solo questo. C’è un bambino che ride, una donna innamorata, In questa città dove tutto
appare infelice all’occhio superficiale, di chi l’attraversa con superficialità, al qualunquista, sembra tutta da buttare. Ma
vedendo più a fondo, corre un filo invisibile di felicità, gioia, amore, attimi di vita gioiosa, piena, pura, che si
nascondono in un grigiore generale dove magari la gente vuole nascondersi, per un attimo si disfa, la felicità compare e
sparisce, ma bisogna cogliere l’attimo per leggere. E leggere questo positivo tra il negativo, che schiaccia con la sua
evidenza il positivo che c’è, e va portato a emersione, ma solo il potente lo può fare. Chi si muove solo negli strumenti
meccanici non può trovare il filo rosso. Trovare questo non inferno (min 1.12) a Raissa si può trovare il non inferno, lo
scrittore lo può fare, la realtà può essere descritta in tutti i suoi aspetti.
Entra l’emblema del ponte delle pietre che troviamo a metà dell’opera descritto da Polo, nella cornice dice che lo
descrive pietra per pietra, anche se a Khan non interessa la descrizione minuziosa delle cose, Polo gli racconta che il
ponte è sostenuto dalla linea dell’arco che esse formano: la realtà non si può descrivere a pezzi, e così i problemi
da una sola prospettiva, ma bisogna essere pluriprospettici, esaurire tutte le prospettive, Calvino non ce la farà,
ma è la sua idea di base. Non si può descrivere la struttura esterna del ponte ma anche pietra per pietra, perché senza
pietre non c’è arco. Quando si affrontano i problemi [sociali], bisogna vedere il problema da tutte le prospettive e
da tutti i punti di vista (dice Calvino). Il problema va analizzato in tutte le sue sfaccettature. Questa è una presa di
posizione estemologica di Calvino, il non essere superficiali nella descrizione dei fenomeni, ma andare nel particolare.
Non si parla di città perché il cuore della crisi della contemporanea è la vita delle città, la loro forma di vita. Calvino
attraverso le parole di Polo denuncia la realtà delle città, il modo in cui si vive in un agglomerato urbano. Questo
è il momento di associazione più in crisi.
Per capire le città invisibili è importante capire Il risvolto di copertina del ‘72, l’opera compie un “unico viaggio
ancora possibile: quello che si svolge all’interno (min 1.19) del rapporto tra i luoghi e i loro abitanti, dentro i
desideri e le angosce che ci portano a vivere le città, a farne il nostro elemento, a soffrirle”.
Nel Dattiloscritto di un discorso tenuto alla Columbia University di NY dell’‘83:
Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo atto di amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile
viverle come città, intesa come polis, come luogo di discussione, vita associata. Forse stiamo avvicinandoci a un
momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili.
Dobbiamo capire come renderle vivibili.
Calvino cerca di concentrare nell’opera una sua visione della realtà, della letteratura, e queste hanno un valore militante,
Calvino quando scrive lo fa per il pubblico italiano anche di politici, scrittori, anche se viveva a Parigi, non era di sicuro
indifferente alla realtà italiana del suo tempo.
(min 1.24)
Città che rimandano al costruttivismo, all’arte di Melotti, es. cara a Calvino, che fa della struttura il suo contenuto
principale. Dentro l’apparenza surreale, nascondono crediamo il reale.
Nel Diario americano Calvino avrà un’esperienza completamente diversa da quella che poteva vivere in Italia, le città
per la loro forma, struttura, essenza, erano completamente diverse da quelle italiane.
Los Angeles viene deprecata, disprezzata e vista con un certo distacco perché fatta tutta di periferia, senza centro, non si
possono tessere rapporti umani. Diversa da NY dove i legami umani sono incentivati dalla forma stessa della città, e
sono molto presenti.
NY gli piace perché è la rappresentazione mastodontica della città europea.
A LA tra un quartiere e l’altro (cities) ci sono enormi montagne deserte, popolate da daini e puma, dalla parte del mare,
mari stupendi, ma è un vero paesaggio dell’America. Dopo pochi giorni si accorge che la vita è impossibile. Superata
l’opinione superficiale, inizia a giudicarla male. È tutta una vita e una provincia, ciò che sta fuori dalla città. Come
avevamo già visto deve farsi scarrozzare in giro. Alla mancanza di forma corrisponde la mancanza di anima. È un
conglomerato di gente che vive ma si muove senza legame. Paradossalmente una città che non lo è, senza centro.
Ricorda (min 1.32) che Calvino ha voluto trasformare in città invisibili nel libro. Opera che attinge molto in profondità
alla realtà vera, è fittizia ma forse opera di viaggio reale, forse ci sono città vere trasfigurate da Calvino con la fantasia,
ma viste.

30 lezione 04/12/2019 ULTIMA LEZIONE :(((

Abbiamo visto 3 grandi tipologie di viaggio:


-Viaggio di esplorazione, finalizzata a scopi pratici, viaggio che veniva commissionato da un potere, organizzato da un
potere che aveva interesse allo svolgimento di questo viaggio, i viaggi del ‘500 verso i nuovi mondi avevano questo
scopo; i viaggi di tipo mercantilistico, organizzati in versione più piccola, come abbiamo visto nel Decameron o nel
Milione;
-Viaggio di conoscenza, vuole conoscere il mondo, entrare in contatto con la natura, hanno un’organizzazione diversa
rispetto alla nostra per progredire nelle scienze;
-Viaggio sentimentale, più vicino a noi, da metà del ‘700, dove conta parlare di se e dell’io interiore;
Il viaggio di Calvino orienta il mondo nel viaggio esplorativo, in 55 viaggi compiuti in varie città, per Calvino il valore
della città è di centro urbano, nel Milione aveva significato anche di territorio, regione a cui faceva capo una certa città.
Calvino le prende come agglomerati urbani.
C’è la dimensione di viaggio conoscitivo, se è vero che molti di questi viaggi parlano di esperienze reali, si rifanno
anche a Calvino, la conoscenza di Calvino da espressione in questo libro. Polo non si esprime come un ambasciatore
ufficiale ma si esprime come un poeta, un artista, come colui che usa un linguaggio descrittivo della realtà, intento a
spiegare l’anima della città, Polo fa delle pantomime per descrivere quanto visto nelle città.
Quest’opera riesce a tenere insieme anche in maniera enigmatica tutte le forme della letteratura di viaggio, lo
possiamo definire viaggio post-moderno (min 7), con l’intervento del lettore, la fruibilità dei piani dell’opera,
però bisogna dire che questo viaggio simbolico post-moderno ragiona su una lunga tradizione, apre delle
possibilità sul futuro, anche fantascientifico, certe città sono vicine al fantascientifico e questo dimostra che si
possono descrivere dei viaggi così.
Un esperimento complesso, rappresenta per emblemi la realtà contemporanea. Il grande problema di Calvino è
trovare ancora una funzione alla scrittura e dello scrittore. Un’opera che ragiona su cosa significa fare
letteratura.
Riflessione partita dai racconti cosmicomici (da Le Cosmicomiche) , dove al Conte di Montecristo, chiuso nella
fortezza, ispirato dal romanzo di Dumas, cerca di sfuggire e per lui l’unico modo è conoscere la fortezza, tutte le
curvature, angoli, muri, raccogliendo gli indizi che dall’interno della sua cella lui riesce a raccogliere. Descrivere la
realtà diventa uno strumento per l’uscita dal labirinto, dalla prigione in cui l’uomo contemporaneo si trova, la
funzione della letteratura è anche di descrivere la realtà, con umiltà, dove vi è un inferno generale contrapposto a un
non-inferno, Calvino non afferma ciò che è buono con ciò che è cattivo, ma afferma che esiste qualcosa che è non-
inferno. Qui si ferma la sua posizione di valori. Solo la letteratura può farlo.
Inserisce il discorso in una costruzione macchinosa, il lettore si perde, c’è una numerologia complessa, difficile da
scovare. Il Milione è una scrittura odeporica, Calvino lo aveva conosciuto come editore, lo mette in relazione al
romanticismo, e lo mette in relazione con la letteratura utopica, reale o letterale, utopia che significa non luogo o
distopia, (min 14).
Il Milione è solo il punto di partenza, poi stravolgerà il testo andando oltre l’originale.
La possibile chiave di lettura del prof, è una possibile [prof ma quante ne saii, non ti contesteremo]. Lui da
l’interpretazione in chiave sociologica, mettendo in riferimento potere-intellettuali, Calvino preso sempre come un
autore comico, in realtà è molto pessimista, cede spesso alla negatività, ha una visione del mondo negativa, dice che il
mondo è uno sfacelo senza fine né forma. È un impero in decadenza. Forse solo il mondo occidentale? Comunque è
un mondo in rovina. E lo legge Khan, che usa il potere come gestione economica, tecnologica e politica. Polo è altro, è
radicalmente diverso da altri ambasciatori che pensano solo alle statistiche, la conoscenza del mondo ce l’ha solo Polo.
In una delle prime letture fatte di Polo si diceva (nei primi capitoletti) che fu nominato primo ambasciatore da Khan,
sapeva conoscere il contesto sociale ed economico in cui vivevano i popoli, era un portavoce ma anche un grande
osservatore, e Calvino ne fa il tratto distintivo del protagonista. Diventa uno scrittore, artista, un intellettuale che
sa creare, ha grande fantasia. Questo uomo sa vedere la filigrana di un disegno, la traccia di un possibile segno
nelle cose. Gli altri no. È un fanciullo che ama le piccole cose, sembra di vedere il fanciullino di Pascoli, ha un
rapporto fanciullesco con le cose e questo gli permette di conoscere in profondità le cose. Calvino dice che la
letteratura, poesia, scrittura, l’arte in tutte le sue forme hanno ancora un ruolo di guida nel mondo, hanno una
funzione insostituibile. Sembra essere superiore alla burocrazia, alla scienza, alla politica come gestione materiale
delle cose. Calvino tenta un recupero forte della funzione dell’arte come recupero della realtà, funziona
anacronistica dove nel mondo viete tutto trasformato in oggetto quantificabile e vendibile. Calvino dice che i poeti
possono ancora dire molto alla società, cosa che nel ‘68 era stata molto trattato il ruolo della fantasia nel mondo
moderno. Calvino da una sua risposta fuori dai partiti, ormai aveva abbandonato il PC da vent’anni, con un’idea di
riformismo, che la realtà si possa modificare, che non sia ineluttabile il cambiamento, che si possa tornare indietro e
riconoscere chi e cosa è non-inferno, primo compito del poeta che non è un politico.
In Raissa si vede una realtà dove tutti sono insoddisfatti e stralunati, ma il poeta riesce a vedere il filo che corre nella
vita di questa persone.
Nel testo c’è una lunga narrazione di particolari che a prima vista non si vedono, corre un filo invisibile che allaccia un
essere vivente a un altro nel caos di male, che in un attimo si disfa, una confusione di male, stress, fiducia generale che
c’è nel mondo.
La descrizione della realtà in profondità è un problemone, i media al tempo di Calvino dice che non raccontano la
realtà.
Nel testo dove scrive un ponte, oggetto suo problema, lo descrive pietra per pietra, Khan dice che non gli interessa la
realtà nei suoi particolari, dice che gli interessano le osservazioni schematiche della realtà, non i particolari, ma Polo-
Calvino dice che senza pietre non c’è arco. Anche un punto limite la descrizione totale di qualcosa, ma si dovrebbe
puntare a quello. Discussione anche con i media del suo tempo, che non lo fanno, ma lo scrittore dovrebbe. La funzione
della letteratura può essere l’espletare la descrizione del mondo pietra per pietra, altre descrizioni non hanno
questa capacità. In Palomar descrive molto approfonditamente tutti gli oggetti, cosa di per sé già difficile, e i media
non riescono e non possono farlo. Per la letteratura come descrizione ricordiamo la scrittura di Spallanzani nel
‘700, che diceva che il compito dello scienziato era la letteratura, la descrizione, cosa che oggi non si fa più, idea
che è passata dal viaggio scientifico a quello di oggi, con Calvino che dice che è la cosa da fare.
Per Calvino la città è il centro, limite stesso dello scrittore se vediamo solo la città come centro di vita ideale, che
sappiamo non essere l’unica forma possibile di coesistenza. Ma la polis con il centro per Calvino è la dimensione
ideale delle persone. Gli interessa la dimensione urbana. La visione del prof dice che Calvino si rifà anche ad altri testi,
es. Risvolto di copertina (min 34), sorprende tutti quando esce perché abbandona l’io precedente, investe tutto su una
nuova forma narrativa testuale, offre un’opera enigmatica che non ha un significato comprensibile. Con un lettore che
aveva in mente la linea manzoniana, di una narrazione diacronica comprensibile, una selezione di fatti, una narrativa di
tipo naturalistico. [io muoio.] Anche Moravia e altri sono dentro la letteratura ottocentesca, si rifanno a una simbologia
anche non reale, e in questo caso si rifà ai problemi di vivere le città oggi. Dice che le città invisibile nascondono città
invivibili. Sono città solo raccontate e non viste.
L’affiliazione delle città invisibili con città reali è visibile anche grazie al testo del Diario americano e da qui trae
il diario Ottimista in America che poi decide di non pubblicare (infine pubblicato postumo) anche se il testo era
completo. Non conosciamo le ragioni del perché Calvino decide di lasciarlo nel cassetto. L’autore arriverà al negozio di
stampa, momento in cui praticamente non si può più tornare indietro, e decide di non pubblicarlo. Crede probabilmente
che Un ottimista in America non funzioni più. Sembra pensare che non sia più un ottimista in America, dove
prevale la dimensione dell’amore, della positività, tutte le cose viste in America non sono positive/ottimiste, solo NY
lo è, e il testo viene sostituito da Città invisibili, [opinione del prof] che è più calzante per lui. Perché ha visto che le
altre città rappresentano una decadenza come LA, che lo lascia sgomento. Lui, con le radici illuministiche, erede
dell’Illuminismo, si trasferirà a breve a Parigi, che per lui rappresenta l’Europa del ‘700, del libero pensiero e che
incarna questa tradizione, però LA è un’altra cosa, città che non ha un centro, una piazza, luoghi di discussione, si
disincentiva il legame, tutta strutturata in orizzontale, qualcosa di inconcepibile per Calvino.

E lo vediamo anche in Pentesilea, nelle città continue, 5


Si entra in uno spazio chiuso che ha una sua realtà. [ti amo prof]
Nelle città tradizionali che conosciamo, se non ci entri non le conosci. A Pentesilea non c’è questa cosa. Non sai
quando entri effettivamente in città. È una città che è pigmento lattiginoso. Non c’è città. Sono interessanti le
domande che Polo fa agli abitanti, chiede “Per Pentesilea?” La gente fa gesti come dire di là, o qua, o più in là, vanno
solo lì per lavorare o dormire, non è una città dove si vive, è un’officina. Non è una vera città. La città dove si vive,
dove c’è la vera città, dove si discute, qui non c’è. Questa situazione appartiene solo a Pentesilea, o si riferisce a tutti?
Qua si ritorna al Diario americano, Calvino crea una netta distinzione fra il vivere europeo e quello che ha visto in
America, simile a Pentesilea. Le parole sembrano una bizzarria ma nascondono riflessioni sociologiche?
Antropologiche? Dietro la bizzarria le città nascondono domande fondamentali. Questo collegamento, rende
chiaro che dietro le Città invisibili ci sono vere esperienze di viaggio.
Altre problematiche per il mondo del ‘72 che si sta affermando.
Quali sono le città che descrive? Vediamo quelle più significative per il prof:
Città inferno e non-inferno, dove sono calcati elementi negativi o quelle dove il non-inferno spicca, dei lati della nostra
vita contemporanea su cui insistere. Anche in queste città più negative si può dedurre del positivo, come in Clarice
dove si dice che gli uomini hanno perso il senso del passato, es. capitelli, non sanno più quali siano le funzioni di
questi oggetti, si è perso il senso originario, per contrario si può intendere che per Calvino va ristabilita la memoria, si
può dedurre la sua posizione che si oppone alla tendenza. Per l’uomo medievale era tutto schiacciato in un’unica
compresenza, e forse l’uomo moderno dovrebbe tornare a questa forma di appiattimento delle funzioni. (min 54)

Nel testo dice che Clarice era gloriosa.


Le varie civiltà sono decadute, poi i sopravvissuti si sono rifatti una vita, cosa che richiede un cambiamento
socio-culturale.
Tutte le cose vengono usate in maniera diversa, eppure dell’antico splendore non si era perso quasi nulla, tutto era
solo messo in ordine diverso, a seconda delle funzioni del momento. Comincia un nuovo afflusso di stranieri, che
portano del nuovo, ci sono anche nuovi materiali. La nuova Clarice si distanzia sempre di più da quella vecchia. I
suppelletti del passato non rimane quasi nulla, tutto cambia uso. Che ci sia stata una prima Clarice è una credenza
diffusa, ma non ci sono prove che lo dimostrino. Calvino non parla di Clarice ma di un certo mondo, l’arte post-
moderna ha la tendenza di mescolare stili diversi, elementi dell’architettura greca si mescolano al modernismo
francese, si mescolano insieme in un miscuglio architettonico. Vogliono esprimere una situazione umana. (min 1.01)
Parla della nostra coscienza di uomini post-moderni che non sa più identificare gli oggetti, non ha più un
sentimento, l’idea di una storia, di una diacronia di fenomeni, la storia letteraria ha una grande difficoltà
contemporanea, cioè il non capire l’evoluzione, il non capire es. che Machiavelli sentiva la realtà in modo diverso da
Alfieri, capire che erano uomini completamente diversi, che l’Alfieri del ‘700 ha rapporti con l’Illuminismo, sente le
cose e i sentimenti in modo completamente diverso da noi e da Machiavelli, (specificità che Calvino denuncia in
Clarice), il non capire le declinazioni singole dei fenomeni storici, il fatto che non ci sia un ritorno delle cose, esse
sono irripetibili e vanno viste in una linea storica che è difficile da capire, ogni fenomeno è una pietra del ponte
della storia, si avrà sempre più difficoltà a capire che gli uomini in duecento anni sentono le cose e con gusti
completamente diversi dai nostri. Tutti i poeti dell’Arcadia leggevano, Manfredi veniva considerato in modo perfetto,
oggi preferiamo Ungaretti perché più simile ai nostri gusti. I fenomeni letterari vanno visti non come Clarice in
maniera mescolata, ma singolarmente.
Descrive una negatività che invita a superare, la vista dell’inferno può incitare a vedere il non-inferno.
Es. di città inferno:
A Cloe le persone non si conoscono, vivono i rapporti interiormente, non vivono realmente l’amore e l’idea che
hanno dentro di se dell’amore non coincide con quello che trovano fuori. Sono indifferenti l’uno all’altro in quanto
persone. Le persone che passano per le vie non si conoscono. Città in cui le persone non si conoscono realmente ma
immaginano di tutto dell’altro, costruiscono un’immaginazione di quello che sono gli altri, senza conoscerli. È
qualcosa che si consuma nell’immaginazione non nell’immaginario dei rapporti. Sembra il nostro mondo dei
social network in cui tutti ci muoviamo, ma i social mettono in interscambio delle fantasie, degli avatar, di persone che
vivono a distanza di una semplice vita di fantasia. Le persone si sfiorano, non si conoscono, inventano una personalità
degli altri.
A Leonia, domina la logica onnipotente del consumismo e della produzione di rifiuti, tutto ciò che gli abitanti hanno
lo buttano via. È una descrizione inquietante, Calvino è attento all’ecologia, es. Stagioni in città, Marco Baldo, dietro
questo personaggio comico, operaio fortunato, lavora in una ditta, la Sbav, dove vive la sua vita di impiegato, ma c’è
una lettura di problemi sociali, dell’ecologia, del problema dei rifiuti e dell’inquinamento. Leonia ogni giorno si rifà. È
una città descritta in modo inquietante, ricorda molto le città di oggi. Sembra si faccia la raccolta differenziata, al tempo
cosa molto strana e ancora da studiare. L’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate
via per far posto alle nuove. I raccoglitori di rifiuti sono considerati angeli, diventa la professione di maggior
rispetto, un rispetto silenzioso come un rito di devozione. Nessuno si chiede dove portino la spazzatura. Fuori città,
ma essa continua a crescere ogni anno, più si progredisce, più gli oggetti sono meno degradabili. Più espella roba,
più ne accumula. Non è solo Leonia che ha immondezzai che aumentano sempre di più, anche quelle vicine, gli
immondezzai crescono e si sostengono a vicenda ai confini delle città, i rifiuti sommergeranno tutti. Si prova ad
allontanare gli immondezzai ma che sempre di più crescono. È un racconto surreale ma è anche realtà e cronaca.
Procopia, città soggetta al sovrappopolamento, sempre più abitanti che non si sa più dove metterli, ovunque sbucano
persone che vanno nutrite, problema molto grosso, vi è un misto di grottesco e reale del numero delle metropoli che
cresce sempre di più e va affrontato e che è molto grave.
Tamara, città piena e schiacciata da segni, segnali, cartelli, pubblicità, segni che indicano cose, oggetti, che hanno
sommerso la città, si vedono solo segni e non più gli oggetti, essi rendono impossibile vedere la città stessa. Il mondo
di oggi pieno di segni che invitano a qualcos’altro che allontanano dalla realtà.
Zora è una città che non vuole cambiare. Siamo a “la città e la memoria”, 4.
Nel testo si ricorda Zora perché non cambia mai nella sua forma. L’uomo mentre dorme immagina di ripercorre le
strade [forse sono le città di oggi con gli abitanti che sono contro la modernità] di una città completamente immobile.
Gli uomini più sapienti del mondo sono quelli che sanno a mente Zora. Ma questa città che non ha mai voluto cambiare,
si è piano piano dissolta, disfatta, la terra l’ha dimenticata. Qui Calvino non dice che cerca una forma stabile in
contrapposizione al cambiamento. Per Calvino il fondamento è essenziale. Una città che non cambia muore, Zora è
questo, ed è per questo che la si ricorda, perché è tutto sempre uguale. Ed è per questo è morta, dopo essere diventata
sempre più debole. Il cambiamento ci vuole. Il non-inferno è il cambiamento, l’inferno la staticità. (min 1.25)
Es. di città di non-inferno:
Andria, che cambia lentamente con cambiamenti discussi, accetta cambiamenti anche importanti all’interno della
città. La forma che ha non cambia, la città ha inglobato cambiamenti in sé e gli ha resi possibili. Le novità sono
diventate città, che sembrano poi città originarie. Integrazione della novità. Calvino qui parla del cambiamento
utile, meditato, possibile e che volge all’integrazione, necessario.
Andria vs Zora.
Dietro le reti di città si dirama una filosofia interpretativa del mondo, non scritta in un linguaggio filosofico, ogni
città è un capitolo del libro che incarna il modo di vedere il mondo.
Eutropia è la città dove la vita sociale cambia, le persone cambiano spesso città e contesto, vista bene da Polo e da
Calvino che ne incarna il loro punto di vista. Cambiano e si improvvisano, sperimentano diverse attività, quello che
sperimentiamo noi oggi, cosa che per Calvino è una cosa su cui scommettere, contro chi non poteva lasciare nel passato
il suo ceto sociale, invece questo è caratteristico del nostro tempo.
Fedora è la città emblema del relativismo, raccoglie tutte le Fedora possibili ma che non sono mai state, contiene le
città che non si sono mai realizzate, per dire che la nostra cultura non va vista come unico punto di riferimento
incontestabile, solo una è arrivata in fondo e le altre sono possibilità mancante. Non traghetta come cambiamento
positivo (min 1.30)
Sofronia, unisce divertimento e dovere, ma il divertimento è il dovere. Qui convivono due città, quella del
divertimento (un circo), e la city, con vita economica, i palazzi, edifici, il dovere, la banca, la scuola etc. È una città
che smonta i tendoni. Il circo resta stabile in città. La cosa che resta sempre è il divertimento, la gioia e il piacere,
viene prima del dovere. La base su cui si deve fondare il divertimento è il piacere.
Ci aspetteremo che la città provvisoria sia il circo, invece no, è il dovere. Il circo che si sposta è quello produttivo.
Calvino prende una posizione precisa: la vita è fatta di doveri che devono restare stabili.
Lo zoccolo duro dell’esistenza è il circo, il gioire. Calvino non parla più solo di queste città, parla a noi, ci invita a
riflettere sul destino dell’umanità perché il nostro mondo va sempre di più verso la banca, la scuola, ma lo
zoccolo duro è l’autovolante, i bambini che si emozionano, la meraviglia e lo stupore. Questo è il non-inferno a cui
dare spazio. Il resto è l’inferno. Bisogna dare spazio a entrambi ma il circo deve sempre rimanere e sostanziare la
nostra vita.

TI AMO CAMPANA ❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️

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