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Lezione 1

Alcuni concetti geografici introduttivi

Non-luogo: Disneyland, centri commerciali, areoporti


Il non-luogo è privo di identità, relazioni e storia. È caratterizzato dall’accelerazione spazio-
temporale della società moderna.

Eterotopie: concetto proposto da Foucault nel 1986


Sono luoghi reali frutti del fenomeno di commistione culturale e migrazioni (es: moschee nei Paesi
cristiani, ghetti ebraici, ecc…).
Nella teorizzazione originale di Faucault, il concetto di eterotopie era associato a luoghi di morte e
sofferenza, che la popolazione voleva lontano da sé e relegava ai margini della città (es: ospedali,
cimiteri).
Sono luoghi di emarginazione sociale e mancata integrazione socio-culturale.
Il concetto di Eterotopie è stato poi esteso all’Alterità culturale: luoghi difficilmente interpretabili
dalla cultura dominante.

Proiezione di Peters (1973)


È un planisfero che restituisce la corretta proporzione alle varie superfici della Terra. È una carta
più realistica rispetto alla Proiezione di Mercatore (carta classica) e meno eurocentrica.

Lezione 2
Lo spazio delle disuguaglianze globali: gli squilibri territoriali

La globalizzazione è il processo di unificazione mondiale dell’economia attraverso 3 strategie:


- Internazionalizzazione della produzione (divisione internazionale del lavoro, multinazionali)
- Internazionalizzazione finanziaria
- Diffusione delle tecnologie informatiche

È un fenomeno di interrelazione di elementi economici, politici, culturali e scientifici.

Avviene in 2 fasi:
- Mondializzazione: creazione di reti globali di comunicazione (reti di informazione:
televisione e telefono; Internet)
- Globalizzazione (conseguenza della 1° fase): standardizzazione dei beni e diffusione a scala
globale. Utilizzo di strategie di persuasione globali.

Secondo Vandana Shiva, esistono due movimenti di resistenza al processo di standardizzazione


della globalizzazione:
- Movimento estremista che predica la “talibanizzazione” della cultura, che riproduce
l’atteggiamento aggressivo dei colonizzatori.
- Movimenti per la pace, la giustizia e la sostenibilità che difendono la diversità culturale
attraverso un atteggiamento solidale e ripudiano qualsiasi forma di conquista o dominio.

Impatti della globalizzazione sullo spazio


L’effetto più visibile è quello della standardizzazione, riduzione della diversità biologica e culturale.
Effetti della globalizzazione
Aumento delle disparità e delle disuguaglianze tra Paesi sviluppati e non sviluppati.
Le opportunità globali sono distribuite in modo disomogeneo, con un’ampia fetta del reddito
mondiale nelle mani di una limitata percentuale di popolazione che vive nei Paesi più
industrializzati.

Globalizzazione vs sviluppo
L’obiettivo teorico della globalizzazione è quello di portare sviluppo su scala globale. Tuttavia, si
assiste ad effetti evidenti negativi.
Lo studio dello sviluppo è interrelato allo studio della globalizzazione.

A partire dal secondo dopoguerra sono stati creati diversi modelli spaziali che descrivevano le
relazioni tra Paesi (sviluppati e arretrati). Si tratta però di modelli che sono stati fortemente
criticati, poiché modelli statici che non erano in grado di adeguarsi ai continui cambiamenti nella
relazione tra le aree del pianeta.

I vecchi modelli (statici)

• Nord/Sud del Mondo


È un modello che rappresenta le relazioni di potere tra Paesi del Nord e Sud del mondo. È
caratterizzato dalla linea Brandt, che è un equatore geopolitico che effettua una divisione dei Paesi
in base alle loro economie (PIL pro capite).
L’Australia si colloca nel Nord del mondo.

• Primo/Secondo/Terzo Mondo (nato durante la Guerra Fredda)


- Primo Mondo: Paesi a economia capitalista
- Secondo Mondo: Paesi a economia socialista (pianificata)
- Terzo Mondo: Paesi non allineati, sottosviluppati (e deboli economicamente)

- Quarto Mondo: Paesi meno sviluppati (Least Developed Countries)


Si tratta di 47 Paesi classificati come Least Developed Countries dall’ONU, sulla base di 3 indicatori:
PIL, risorse umane (cibo, sanità, scuola) e vulnerabilità economica.
Alcuni Paesi sono usciti da questa classificazione e sono diventati “developing countries”:
Botswana, Maldive, Guinea Equatoriale ed altri.

Alcune caratteristiche:
Bassa qualità della vita, elevata pressione demografica e dipendenza economica, diffusa
disoccupazione e bassa produttività delle risorse, debolezza istituzionale e carenza di capitali, di
risparmio ed investimenti.

Molti di questi Paesi rientrano nella categoria dei Heavily Indebted Poor Countries (Paesi Poveri
Altamente Indebitati: debito estero).
Modelli più recenti

• Modello Centro/Periferia (a partire dagli anni ’80)


Individua tre aree:
- Aree Centrali: ruolo trainante nell’economia mondiale
- Aree Periferiche: dipendenza dai Paesi più ricchi
- Aree Semi Periferiche: aree di transizione, economie in crescita ma ancora dipendenti dai
Paesi centrali

Un mondo policentrico
• BRIC (Brasile, Russia, India e Cina): termine coniato all’inizio del 2000 per indicare un gruppo di
Paesi che sta vivendo un’ascesa politico-economica.
• G20: nato nel 1999, è un organismo composto dai Paesi più industrializzati che rappresentano
l’80% del PIL mondiale. Ne fanno parte anche Paesi che nei modelli antichi rientravano nel Sud del
Mondo (Cina, India e Sudafrica).

Come si è arrivati a questi squilibri territoriali?


Le cause delle disuguaglianze territoriali sono molteplici e si intrecciano tra loro in scenari molto
complessi.
In generale, si possono individuare tre tipologie di cause degli squilibri territoriali (che da sole non
spiegano la creazione degli scenari di povertà e arretratezza, ma che vanno considerate
congiuntamente per spiegare le dinamiche che hanno condotto il Mondo a una divisione in aree di
benessere e aree di povertà):
• cause naturali: condizioni ambientali e malattie endemiche
• cause umane: incrementi demografici insostenibili, scarsità di risorse umane, militarizzazione
delle relazioni internazionali, corruzione élite locali, scarsità di risorse umane e finanziarie
• cause storiche/economiche: colonialismo, neocolonialismo, agricoltura arretrata/di
sussistenza/di piantagione, scarsa industrializzazione, terziario ipertrofico, economia non
differenziata: mono-esportazione, diminuzione prezzi delle materie prime, apertura dei mercati e
debito estero (Least Developed Poor Countries)

Il settore terziario nei Paesi poveri è molto sviluppato, ma è un settore che prevede attività molto
spesso svolte nell’illegalità.

Debito estero
È il debito contratto dai Paesi in via di sviluppo nei confronti degli enti internazionali e dei Paesi
esteri per realizzare politiche di sviluppo locale.
Infatti, a partire dagli anni ’70 (boom dei prezzi del petrolio) le Banche concedono prestiti ai PVS
per finanziare politiche di sviluppo locali.
All’inizio degli anni ’80, vi è un calo dell’importazione di materie prime da parte dei Paesi sviluppati
ed un aumento dei tassi di interesse. Questo porta ad un aumento generale dei debiti.
Nel 1982 il Messico sospende il pagamento del debito, perché privo di fondi.

Le soluzioni di Banca Mondiale (BM) e Fondo Monetario Internazionale (FMI)


Pacchetto di Aggiustamento Strutturale (PAC): forte taglio alle spese, privatizzazione di imprese
pubbliche, licenziamenti, politiche economiche di apertura liberale dei commerci e
democratizzazione.
In molti Paesi gli effetti sono stati un crollo del sistema sanitario e dell’istruzione ed un
peggioramento delle condizioni di vita dei più poveri.

La PAC è ancora attiva: nel 2008 la Grecia ha dovuto accettare queste condizioni.

Heavily Indebted Poor Countries


Si tratta di un programma internazionale promosso dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario
Internazionale che ha l’obiettivo di cancellare una quota del debito estero (fino al 90%) a fronte
dell’attuazione di strategie di riduzione della povertà.

Condizioni per entrare a far parte di questo programma:


- Debito insostenibile per le risorse del Paese
- Stabilire riforme guidate dalla Banca Mondiale (BM) e dal Fondo Monetario Internazionale
(FMI)
- Sviluppare un Documento di Strategia di Riduzione della Povertà: processi partecipativi

Ad oggi, 36 Paesi (di cui 30 in Africa) sono risultati idonei alla riduzione totale del debito estero.

Si aspira ad un miglioramento della gestione del debito e delle finanze pubbliche.

Le proposte per rimediare agli squilibri territoriali


Organismi internazionali (BM, FMI, ONU):
- Controllo delle nascite
- Democratizzazione
- Politiche per l’istruzione
- Diffusione di IT e ICT (tecnologia e informatica)
- Uso di tecnologie adeguate alle esigenze locali
- Condono debito estero
- Maggiore liberalizzazione dei commerci

Proposte alternative:
- Azione locale  bottom-up vs top-down policies
- Microcredito: strumento di sviluppo economico che permette l’accesso ai servizi finanziari
alle persone in condizioni di povertà ed emarginazione.
- Smantellamento del concetto di sviluppo
- Decrescita
- Potenziamento dell’economia informale
- Movimenti ambientalisti
- Transition Movement
Lezione 3: la Geografia della popolazione
3.1 Indicatori e strumenti per l’analisi demografica territoriale

Indicatori demografici e indicatori di sviluppo

Tasso di Natalità: N° nati in un anno x 1000 / Tot. Popolazione


Tasso di Fecondità: N° nati x 1000 / Donne in età feconda (15-49 anni) ! molto importante
Tasso di Mortalità: N° morti in un anno x 1000 / Tot. Popolazione
Tasso di Mortalità Infantile: N° bambini < 1 anno morti in un anno x 1000 / N° bambini nati in un
anno
Tasso di Incremento Naturale: (Tasso natalità-Tasso mortalità)
Sex Ratio o Indice di Mascolinità: (Maschi nati) x 100 / Femmine nate

L’indice di Natalità è particolarmente alto nel continente africano.

L’indice di Fertilità calcola il numero di bambini nati in un anno da donne in età feconda (15-49
anni).
Si distingue in 3 gruppi: fecondità alta (> 5 bambini per donna; tipica di Paesi arretrati), fecondità
media (tra 2,1 e 5 bambini per donne; tipica di Paesi in corso di industrializzazione), fecondità
bassa (< 2,1 bambini per donna; tipica di Paesi evoluti demograficamente).

Fattori che incidono sulla fertilità


- Diritto all’educazione: scolarizzazione femminile (salute materna)
- Pianificazione familiare: disponibilità di servizi sociali
- Diffusione e accessibilità a metodi contraccettivi

La povertà incide fortemente sul tasso di fertilità.

La speranza di vita alla nascita (Life expectancy at birth): numero di anni che un individuo può
sperare di vivere in media
È condizionato da diversi fattori: sesso, aspetti medico-sanitari del Paese ed aspetti socio-
economici personali.

La transizione demografica (MODELLO)


È un modello che rappresenta le variazioni degli indici di natalità e mortalità creando situazioni di
crescita o arresto demografico, tarato sui Paesi occidentali industrializzati.
Presenta 4 fasi:
1. Alta natalità + alta mortalità
2. Alta natalità + mortalità in calo (progresso medico-sanitario)  crescita demografica
3. Natalità in calo (cambiamento culturale) + mortalità in calo  declino demografico
4. Bassa natalità + bassa mortalità  fase stazionaria o crescita 0

Esiste anche una 5° fase: calo demografico. La mortalità viene contenuta e la popolazione vive più
a lungo, contemporaneamente diminuiscono le nascite. Ad esempio, quando le donne scelgono la
carriera e non fanno figli (perché le donne lavoratrici non sono tutelate a sufficienza).
L’Italia si trova in questa fase.
Le piramidi dell’età (MODELLO)
È una rappresentazione grafica della distribuzione della popolazione per fasce di età, che permette
di analizzare l’andamento demografico di una popolazione.

Quanti siamo sul pianeta? Nel 2020 siamo circa 7,8 miliardi, di cui 1 miliardo collocato nelle aree
più sviluppato del mondo e i restanti 8 miliardi nelle aree meno sviluppate.
Si stima che nel 2050 saremo 9,2 miliardi.

La metà dell’attuale crescita demografica annuale è dovuta a 6 Paesi: India, Cina, Pakistan, Nigeria,
Bangladesh e Indonesia.
I 44 Paesi più industrializzati hanno tassi di fertilità inferiori al 2,1%.

Il problema dell’invecchiamento
Nei PVS: aumento di bambini; nei Paesi sviluppati si assiste invece ad un aumento di anziani e
diminuzione di giovani.
Questione della dipendenza demografica: la crescente popolazione anziana nei Paesi sviluppati si
trova a dipendere economicamente da una sempre più ridotta popolazione giovane.

Impatti socio-economici dell’invecchiamento della popolazione:


- Non avviene il ricambio generazionale
- Dipendenza economica: diminuisce la fascia di popolazione attiva
- Investimenti in pensioni, strutture per anziani, spese mediche che gravano sulle spalle della
ridotta popolazione attiva

Densità rurale: antico popolamento


Densità urbana: figlia della rivoluzione industriale
Spesso, però, nei PVS lo sviluppo urbano non si accompagna al benessere sociale: molti PVS hanno
capitali con densità altissima (es: Rio, Città del Messico), che confinano con le bidonvilles.

Sviluppo demografico e sviluppo economico hanno una relazione inversa: i PS aumentano in


ricchezza, ma diminuiscono in popolazione, mentre i PVS hanno una crescita demografica a scapito
del progresso tecnologico.

Malthus e i limiti dello sviluppo


È considerato il primo economista pessimista ed ha assistito ad un’enorme crescita demografica in
Inghilterra.
Mette in luce che le risorse naturali non saranno sufficienti per sempre e che esiste una reale
impossibilità di sostenere la crescita demografica.

Teorie neomalthusiane
Propone l’idea della limitatezza delle risorse che accompagna la nostra epoca, alcuni anni prima
della 1° crisi energetica del petrolio del 1973.
Ammonisce sulla necessità di usare in modo diverso capitali e impegno umano per affrontare i
limiti ecologici durante il XXI secolo.
Lezione 3.2
Indicatori e strumenti per l’analisi territoriale delle migrazioni

La geografia e le migrazioni

• La geografia umana studia le migrazioni come fenomeno territoriale


• L’approccio classico si concentrava sui modelli migratori, sui push/pull factors, sulla
distribuzione dei flussi e l’impatto sui territori
• Oggi lo studio si è ampliato, in risposta ad una maggiore complessità del fenomeno, che
mette in gioco concetti legati alla sovranità nazionale, agli aiuti umanitari, alla presenza della
criminalità organizzata, ai diritti umani, ma anche a quelli dei lavoratori, all’integrazioni, ecc…

Le migrazioni
• “Spostamento, permanente o a lungo termine, del luogo di residenza e dello spazio di
attività di un individuo”
• Elemento costante della storia umana, ma dagli ultimi decenni motivo di preoccupazioni
politiche, economiche e sociali a causa dell’alto numero di movimenti

Migrazioni come diritto umano riconosciuto


• La “Dichiarazione dei Diritti umani”, voluta dall’ONU nel 1945 tratta anche del diritto
all’immigrazione.
Così recita l’Articolo 14:
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni
Stato”,
“Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel
proprio Paese”,
“Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paese asilo dalle persecuzioni”.

Alcuni indicatori
• Tasso di immigrazione N° Immigrati x 1000/Pop Tot
• Tasso di emigrazione N° Emigrati x 1000/Pop Tot
• Saldo migratorio Immigrati-Emigrati
! • Saldo demografico (Nati-Morti) + (Immigrati-Emigrati)

Modelli migratori

Diverse classificazioni sulla base di:


• Entità: di massa/per infiltrazioni
• Tempo: permanenti/temporanee/pendolari
• Spazio politico interessato: interne/internazionali
• Per tipo di movimento: forzate/volontarie

Massa/per infiltrazione
• Storicamente le migrazioni di massa coincidevano con invasioni o fughe da situazioni
politiche o economiche devastanti (es: padri pellegrini sulla Mayflower, 1620; irlandesi a metà
del 1800)
• Migrazioni per infiltrazione: Europei verso i nuovi continenti nel periodo delle scoperte
(pochi e solo uomini)
Migrazioni stagionali

Migrazioni temporanee legate alla pastorizia quali:


• Alpeggio: “montificazione” dei bovini  spostare le mucche dai pascoli di valle a quelli di
montagna in estate
• Transumanza: spostare mandrie di ovini verso regioni calde nei mesi invernale  regioni
montuose del Mediterraneo (Abruzzo  Puglia), ma anche Anatolia e catene Himalaiane

Legate a pratiche agricole o industriali:


• “A rondinella”: verso le zone a colture cerealicole  mondine (verso la Pianura Padana); ma
anche verso zone a colture di ulivi, pomodori, vite…
• Verso zone di produzione industriale stagionale: zuccherifici, conservifici…
• Verso zone turistiche

Pendolarismo
È una forma di migrazione quotidiana, figlia della società moderna, legata all’industria o al
terziario e a fenomeni urbani:
• Decentramento dei luoghi di lavoro
• Decentramento dei luoghi abitativi
È fortemente influenzato dal progresso nei trasporti.

Modelli migratori per spazio politico coinvolto: migrazioni interne ed internazionali

- Migrazioni interne (o domestiche) sono sempre state frequenti nel nostro Paese:
questione meridionale dall’Unità d’Italia, spostamenti da sud a nord per ricerca di
maggiore benessere ed opportunità.
Ma anche spostamenti dalle campagne alle città  nel XXesimo secolo questo
fenomeno ha portato alla formazione delle bidonevilles (o favelas)
Abbandono delle montagne  grande investimento per il ripopolamento di queste zone
Spostamento verso zone climatiche favorevoli  fenomeno recente; es: pensionati
degli Stati Uniti che si spostano verso la Florida; Inghilterra, da nord a sud (in
Cornovaglia c’è un clima più mite); in Italia, da nord a sud + Cinque Terre in Liguria

Conseguenze economiche: afflusso di denaro, ma anche necessità di assistenza,


infrastrutture ed attività pensate per i pensionati

- Migrazioni internazionali: dal 16° secolo la colonizzazione in seguito alla scoperta delle
Americhe.
Non si tratta solo di rifugiati, ma anche all’interno dell’Unione Europea per obiettivi di
carriera

Migrazioni volontarie  le migrazioni economiche sono davvero migrazioni volontarie? C’è


spesso un fattore di forzatura esterna, ad esempio: fuga di cervelli

Migrazioni forzate (o coatte)


Es: diaspora degli ebrei (costretti a fuggire a causa di persecuzioni) e tratta degli schiavi (presi
e portati altrove con la forza)
Oggi si parla soprattutto di rifugiati politici  realtà belliche o condizioni economiche li porta
a chiedere rifugio in altri Paesi
Rifugiati politici:
- Interni  profughi  persone che non attraversano un confine politico, ma si ritrovano
a spostarsi all’interno del proprio Paese ad esempio quando un gruppo armato si
impossessa di una regione (spesso in Africa) e gli abitanti scappano dalla violenza,
morte e stupri.
- Internazionali  passano il confine nazionale  attraversano un confine politico e
possono beneficiare della convenzione di Ginevra

Sfollati = rifugiati

Push and pull factors  fattori di attrazione e spinta


Push factors: fattori che portano all’allontanamento dal Paese di origine (vedi slide)
Pull factors: fattori che spingono verso il Paese estero, ad es. possibilità di miglioramento delle
condizioni socio-economiche.

Un tempo si era meno portati a migrare in zone più vicine alla propria, perché vi erano meno
strumenti per conoscere la cultura e le condizioni di vita del posto.

Regola classica della geografia del rapporto inverso tra distanza e consistenza di flussi: oggi è
venuta a cadere grazie all’accesso a internet e all’accessibilità alle informazioni.

Scala sociale  fine ultimo dei migranti


La migrazione è molto spesso organizzata a livello familiare: parte il membro con più
potenzialità e invia denaro alla famiglia nel paese di origine, anche se lo stipendio è minimo
molto spesso il divario economico è talmente alto che consente condizioni di vita modeste.

Impatti delle migrazioni: vedi schema

Rimesse estere: da un punto di vista economico è un fattore positivo, perché permette di


mantenere viva l’economica del Paese di origine; da pdv sociale  nasce una sorta di
dipendenza dalle rimesse estere. Non ci si impegna a migliorare la propria condizione, facendo
esclusivamente affidamento sulle rimesse estere  fattore negativo
Inoltre, si può assistere ad una perdita di cultura  fattore negativo

4 tabelle nelle slide

Slide che indica le principali migrazioni europee.


Emigranti: in rosa gli europei, in nero gli africani (principalmente schiavi), in giallognolo gli
indiani che venivano adoperati in Africa, in arancione i giapponesi si sono spostati verso il
Brasile (in Brasile esiste una comunità giapponese molto sviluppata), in azzurro i cinesi.

Cronistoria delle migrazioni


A partire dal XV sec: pochi uomini avventurieri o missionari (a partire dalla scoperta delle
Americhe). Dal XIX sec. gli europei si spostano in maniera massiccia verso l’America del nord,
prevalentemente europei del nord ovest. Tra la fine del XIX sec e la fine della Prima guerra
mondiale iniziano i movimenti degli europei del sud-est verso le Americhe (sia America del
nord che America latina).
Dopo la Prima guerra mondiale cambia lo scenario internazionale in termini di accoglienza dei
migranti: nel 1921 gli Stati Uniti emisero un atto per regolarizzare i flussi migratori degli
europei verso il territorio americano, al fine di contenere la variabilità genetica (limitando la
variabilità genetica) di chi arrivava negli Stati Uniti. Si preferiva uomini bianchi, specialmente
del nord Europa o britannici. Non volevano che prendessero il sopravvento uomini di altre
etnie.
Lo spazio migratorio europeo oggi: 3 direttrici
Spazio euro-africano (direttrice Sud): con flussi prevalentemente dal Maghreb
Spazio euro-asiatico (direttrice Sud-Est): flussi prevalentemente dai Balcani e dal Medio
Oriente
Spazio continentale (direttrice Est): Europa centro orientale, Federazione Russa, Repubbliche
Asiatiche e CSI

Migrazioni in Unione Europea: dati ufficiali


21,8 milioni di persone (4,9%) dei 446,8 milioni che vivevano nella UE a inizio 2019 erano
Cittadini non UE. Quindi il 5% di persone che vivevano in Paesi dell’Unione Europea a inizio
2018 erano cittadini non UE.
Gli Stati UE hanno concesso la cittadinanza a 672 persone nel 2018.
Nel 2018 sono immigrate nell’Unione Europea 3,8 milioni di individui: di questi 2,4 milioni
venivano da Paesi non UE; 1,3 da altri Paesi UE (es: io dall’Italia emigro in Francia); 1,4 milioni
da un altro Paese UE di cui avevano la cittadinanza (rimpatri: sono tornati al proprio Paese).
Circa 11 mila erano apòlidi: persone che non godono di diritto di cittadinanza.
Sempre nel 2018 2,6 milioni di individui sono emigrati dall’Unione Europea (EU27), di cui 1,1
verso Paesi non EU27.
In termini assoluti, i Paesi dell’UE con il maggior numero di immigrati nel 2017 erano la
Germania, la Spagna, la Francia, l’Italia.
I Paesi con il maggior numero di emigranti erano Germania, Spagna, Francia, Romania e
Polonia. Notiamo Germania, Spagna e Francia che si posizionano nei Paesi con maggior
numero sia di immigrati che di emigranti.
Tabelle
Immigrati per 1000 abitanti
Distribuzione degli immigrati secondo la cittadinanza
Distribuzione degli immigrati per sesso
Percentuale di abitanti non-nazionali per Paese: il Paese con la maggiore percentuale è il
Lussemburgo
Numero di persone che hanno acquisito la cittadinanza di un Paese dell’Unione Europea dal
2009 al 2018: picco nel 2016 e progressiva diminuzione
Piramide dell’età di cittadini dell’UE, divisi tra cittadini dell’Unione Europea e immigrati. C’è
propensione di popolazione giovane tra gli immigrati.
Numero dei cittadini dell’Europa 27 normalmente residenti in altri Paesi dell’UE. Romania,
Polonia e Italia sono i 3 principali Paesi di emigranti che si spostano in altri Paesi dell’UE.
Popolazione di non-nazionali per Paese.

Caso dell’Italia
(transazione demografica: recupera appunti o registrazione)
L’Italia si trova in una quinta fase, una fase di calo demografico tipico in Paesi ad economia
molto avanzata nei quali non sono attivi degli strumenti di welfare state: sicurezza sociale che
agevola le coppie che vogliono avere figli. Esempio di walfare state è la Francia e i Paesi
nordici.
L’Italia sta vivendo un calo demografico, perché il numero di nuovi nati è inferiore al numero
di popolazione che muore. Il numero di nascite è inferiore rispetto al numero di morti.
Alcuni dati -0,3% di residenti (cioè -551 mila in 5 anni), -4,5% di nascite (record negativo
dall’Unità d’Italia), 126 mila italiani rimpatriati.

Gli stranieri in Italia secondo l’ISTAT


Sono state individuate 194 differenti cittadinanze, di cui le prime 5 sono rumeni, albanesi,
marocchini, cinesi e ucraini.
Al 31 dicembre 2019 gli stranieri sono l’8,8% del totale della popolazione residente in Italia,
con un aumento, rispetto all’inizio dell’anno, di 47 mila persone (+0,9%).
Nel 2019 sono aumentati i cittadini diventati italiani per acquisizione della cittadinanza
italiana: 127 mila, il 13% in più rispetto al 2018.
I nuovi cittadini italiani sono prevalentemente donne (52,7%) e risiedono per il 65,4% al Nord.

Tabelle
La maggioranza di cittadini stranieri si è andata a stabilire nel Nord-Ovest del Paese.
Prime dieci nazionalità per numero di provvedimenti di espulsione in Italia: altra tabella che
misura l’impatto del Decreto sicurezza di Salvini. Aumento rispetto agli anni precedenti delle
espulsioni.
Minori stranieri non accompagnati: la maggioranza si concentra in Sicilia e provengono da
Albania, Egitto e Pakistan.
Alunni con cittadinanza straniera e alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia (principali
Paese di origine: Romania, Albania e Marocco).
Si tratta di un fenomeno complesso che prende in considerazione una quantità ingente di dati:
ha implicazioni sia nel Paese di origine che nel Paese di accoglienza, coinvolge il processo di
integrazione, del lavoro e dello sfruttamento dello stesso.
Non è possibile fare un discorso semplicistico sulle migrazioni: fenomeni che si intrecciano fra
di loro e che producono scenari geopolitici estremamente complessi.
Questo è il concetto di complessità.
Tipologie di stranieri in Italia
L’ingresso di cittadini stranieri in Italia è regolato dall’Accordo di Schengen (1985 e 1990) e da
accordi con i singoli Paesi. Chi entra in Italia senza aver adempiuto ai dettami del trattato di
Schengen o degli altri accordi internazionali lo fa illegalmente, senza rispettare la legge.
Distinguiamo quindi tra clandestini e irregolari. Non sono sinonimi.
I clandestini sono gli stranieri entrati in Italia senza regolare visto di ingresso: coloro che
valicano i confini senza permesso. Attualmente i confini del nostro Paese non sono granché
controllati. I clandestini entrano nel Paese senza aver soddisfatto i requisiti dell’Accordo di
Schengen.
Sono irregolari gli stranieri che hanno perduto i requisiti necessari per la permanenza sul
territorio nazionale (es: permesso di soggiorno scaduto e non rinnovato/visto), di cui erano
però in possesso all’ingresso in Italia. Molti irregolari non riescono a
rinnovare il proprio permesso di soggiorno in tempi utili a causa dei tempi burocratici del
nostro Paese. Non tutti gli irregolari rimangono in Italia per delinquere.
Gli extracomunitari sono gli immigrati che provengono da Paesi fuori dall’Unione Europea.
Anche un cittadino svizzero che si trasferisce in Italia è un extracomunitario.

(Molti italiani sono migrati in Argentina e hanno avuto la possibilità di avere la doppia
cittadinanza)

I richiedenti asilo
Possono chiedere asilo nel nostro Paese i perseguitati per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale e per le proprie opinioni politiche.
I richiedenti asilo sono coloro che, trovandosi fuori dal Paese in cui hanno residenza abituale,
non possono o non vogliono tornarvi per il timore di essere perseguitati per i motivi
sopracitati. Possono richiedere asilo nel nostro Paese presentando una domanda di
riconoscimento dello “status di rifugiato”.
Nel 2007 l’Italia riconosce oltre allo status di rifugiato anche quello di protezione sussidiaria.
Tale status veniva riconosciuto a quegli individui che, pur non possedendo i requisiti per
ottenere lo status di rifugiato, non possono essere coscientemente rinviati nel Paese di origine
oppure per chi è apolide, in quanto sussiste il timore che possa subire un danno alla sua vita o
incolumità. Status di protezione sussidiaria.

Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati (1951)


Ai rifugiati politici si applica una convenzione internazionale firmata a Ginevra nel 1951 in cui
per la prima volta viene riconosciuta la figura del rifugiato politico e vengono stabilite le
condizioni per garantire all’individuo protezione legale e assistenza all’infuori del proprio
Paese qualora si ritenga che all’interno del proprio Paese si possano subire delle
discriminazioni.
Questa convenzione è stata resa esecutiva in Italia nel 1954. Nell’articolo 1 A troviamo la
definizione di rifugiato: colui che temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche si
trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole avvalersi della protezione di
questo Paese; oppure colui che non avendo cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui
aveva residenza abituale non può o non vuole tornarvi per timore.
Il termine “persecuzione” non è definito all’interno della Convenzione di Ginevra. Tuttavia, a
partire dal 1992 secondo il manuale dell’UNHCR si può dedurre che costituisce persecuzione
ogni minaccia alla vita o alla libertà.
Integrazione all’applicazione della Convenzione di Ginevra (1951)
Nel 1967 è stata apportata una modifica alla Convenzione di Ginevra. Era precedentemente
presente una limitazione temporale e geografica per cui un individuo poteva richiedere asilo
politico solamente al primo Paese in cui arrivava, una volta lasciato il proprio Paese di origine.
A integrazione della Convenzione di Ginevra è intervenuto il Protocollo di New York nel 1967
che ha rimosso le limitazioni temporali e geografiche fissate nel testo originario
della Convenzione. A partire da questo momento un individuo può chiedere asilo politico ad
altri Paesi oltre al primo in cui arriva.
Con la legge Martelli, l’Italia ha questo obbligo, in Italia è ancora così.

Le persone costrette a lasciare il proprio Paese a causa di disastri naturali, di calamità, di


violenti rivolgimenti politici o di crisi belliche possono essere escluse dall’applicazione della
Convenzione. (Questa condizione è assimilabile a quella dei migranti climatici, che non hanno
alcun tipo di riconoscimento legale. Non esiste alcuna Convenzione internazionale che
garantisca protezione a chi scappa dal proprio Paese perché le condizioni ambientali del
proprio Paese lo hanno reso inabitabile).
In tali casi sono adottate misure di protezione straordinarie come per esempio la “protezione
temporanea”, come è accaduto quando sono stati accolti nel nostro Paese i cittadini della ex
Jugoslavia, della Somalia o dell’Albania.

Fondi nazionali ed europei per i rifugiati


Il fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo è gestito dal ministero dell’Interno, che
assegna contributi in favore degli Enti locali in modo che essi presentino progetti destinati
all’accoglienza di richiedenti asilo in attesa della pronuncia delle Commissioni territoriali, di
titolari dello status di rifugiato, di titolari di protezione sussidiaria.

Il Fondo Europeo per i Rifugiati promuove migliori passi nell’ambito delle politiche e dei
sistemi dell’asilo degli Stati membri, al fine di creare un sistema unico di asilo, improntato al
principio della parità di trattamento che garantisca alle persone effettivamente bisognose un
livello elevato di protezione, alle stesse condizioni in tutti gli Stati membri.

Il diritto d’asilo in Italia


Introduzione della “riserva geografica” che riconosce solamente i rifugiati appartenenti ad uno
Stato dell’Unione Europea.
Con la legge Martelli viene abolita la riserva geografica ed introdotta una nuova condizione
secondo cui l’asilo può essere garantito solamente nel primo Stato che lo straniero raggiunge
dopo il proprio.
Oggi, una volta presentata la domanda di richiesta asilo, lo straniero ha diritto ad un permesso
di soggiorno in attesa della risposta della commissione.

Decreto sicurezza 14 giugno 2019 di Salvini


Si tratta di un insieme di norme che riguardavano sicurezza urbana, lotta alla mafia e al
terrorismo ed immigrazioni. Decreto che ha imposto forte limitazioni e molte agevolazioni
concesse ai migranti con le leggi precedenti.
Venivano riconosciute limitazioni nella richiesta di asilo politico: a coloro che avevano
commesso dei reati (quali violenza sessuale, furto e lesioni aggravate a pubblico ufficiale)
veniva annullata la richiesta di asilo politico ed immediatamente espulsi dal Paese.
Abolizione di protezione umanitaria: tutti coloro che non usufruiscono di protezione
sussidiaria si trovano senza alcun tipo di supporto e aiuto.
Viene raddoppiato il tempo di trattenimento nei centri per il rimpatrio da un massimo di 90
giorni a 180 giorni.
Revoca della cittadinanza agli individui ritenuti un possibile pericolo per lo Stato (specialmente
per reati legati al terrorismo). Inoltre la domanda di cittadinanza può essere rigettata anche se
presentata da chi ha sposato un cittadino o cittadina italiana.
Viene inoltre rimosso il patrocinio gratuito.
Gli sprar, ossia i piccoli centri che ospitano i migranti, non possono più accogliere i richiedenti
asilo ma soltanto i minori non accompagnati.

Dal Decreto sicurezza al nuovo Decreto immigrazione dell’ottobre 2020


Sono state modificate in maniera radicale le parti sull’accoglienza, con il ripristino della
protezione umanitaria e del sistema di accoglienza dei centri sprar.
I migranti potranno essere trattenuti nei Centri di permanenza non più 180 giorni, ma 90,
rischiando però l’arresto e il processo per direttissima nel caso di danni arrecati al centro (in
risposta ai casi dei mesi scorsi). La permanenza è prorogabile di altri 30 giorni se lo straniero
accolto proviene da un Paese con cui l’Italia non ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri.
Questi centri sono finalizzati a verificare se gli stranieri che vi giungono abbiano o meno il
diritto di ottenere lo status di rifugiato. Non sono centri per identificare migranti economici.

In passato, l’Italia stabiliva ogni anno quote di migranti economici da accogliere per
compensare quei settori del lavoro che avrebbero beneficiato di manodopera straniera.
Tuttavia, a causa degli afflussi massici dei migranti della direttrice sud (Africa) e sud-est
(Balcani), l’Italia ha smesso di stabilire queste quote di migranti. Di conseguenza, tutti coloro
che prima facevano richiesta di entrare come migranti economici (e quindi facevano richiesta
solamente dopo avere la garanzia di un contratto di lavoro), oggi si mettono in viaggio anche
in maniera organizzata e ad arrivano in Italia rifugiati che si fingono migranti economici,
perché non trovano altra maniera per poter entrare nel nostro Paese.

Accesso ai porti alle navi delle ONG che soccorrono i migranti in mare
Con il Decreto sicurezza di Salvini si era deciso di chiudere alcuni porti.
Ad oggi, rimane in piedi il principio secondo cui il ministro dell’interno, in accordo con il
ministro della difesa e dei trasporti, può vietare l’ingresso ed il transito in acque italiane a navi
non militari. Tuttavia, se queste navi hanno effettuato soccorsi seguendo le convenzioni
internazionali ed hanno comunicato le operazioni alle autorità competenti, non è possibile
chiudere loro i porti.

Viene ripristinato il sistema di accoglienza gestito dai comuni (sprar) e data la possibilità ai
richiedenti asilo di accedervi e non solo ai casi più vulnerabili (minori).

Ingressi per motivi umanitari


Secondo i dati raccolti dall’agenzia europea Frontex il numero degli attraversamenti irregolari
delle frontiere nel 2018 ha raggiunto il livello più basso degli ultimi 5 anni, anche in seguito
agli accordi tra il nostro Paese e la Libia.
I migranti della rotta del Mediterraneo centrale sbarcati in Italia sono scesi a 23 mila in tutto il
2018 (l’80% in meno rispetto al 2017, in cui erano 119 mila).
Non diminuisce, invece, il numero di decessi in mare. Infatti, malgrado siano diminuiti i morti
in mare, nel 2018 è aumentata la pericolosità della traversata: ogni 35 arrivi si registra 1
decesso, mentre nel 2017 il rapporto era di 1 decesso ogni 50 arrivi riusciti.

Infografica sull’immigrazione nel 2019


Arrivi in Europa attraverso il Mediterraneo dal 1° gennaio al 1° ottobre 2019: 68 mila. Primi tre
Paesi di arrivo dei migranti sono Spagna, Italia e Grecia.
Morti e dispersi nella rotta centrale (2018): 1300 morti.

Lunedì 19/10/2020

Lezione 4.1
Sviluppo e sottosviluppo: indicatori

Cos’è la povertà?
Non è solo mancanza di beni e servizi (cioè condizione economica), ma è anche una questione
di possibilità.
La definizione di povertà riconosciuta dagli organismi internazionali è una mancanza di
opportunità (ad esempio: studiare).
Mancanza di possibilità ed opportunità.
Mancanza della possibilità di esprimere la propria opinione.

Un concetto molto importante legato alla povertà è quello di vulnerabilità.


Fattori sociali, ma anche naturali incidono sulla creazione o peggioramento delle condizioni di
povertà.
La vulnerabilità è la possibilità che un evento colpisca un individuo o un gruppo di persone e la
capacità di far fronte allo stesso.
Quindi gli stati poveri sono più vulnerabili perché hanno meno strumenti per far fronte alle
difficoltà e ai rischi; agli shock e crisi esterne ed interne (ad es: cambiamenti climatici).

La definizione di povertà delle Nazioni Unite (1998) come una negazione delle scelte e
opportunità; una violazione della dignità umana.

L’aspetto dell’istruzione è importantissimo: non solo mancato accesso ai guadagni, ma anche


ai diritti. Affinché gli individui abbiano possibilità di scelta, devono avere accesso all’istruzione
per sviluppare un pensiero critico ed imparare a pensare.

Quanti sono i poveri (persone in condizione di povertà) e come li misuriamo? Il modo di


misurare i poveri è cambiato nel tempo.
Si faceva riferimento a due soglie:
• 1$ al giorno
• 2$ al giorno
Si calcolava la % di persone che nei vari Paesi vivevano con meno di 1 o 2 $ al giorno.
Poi si è anche preso 1,25$ come soglia unica di povertà.
Oggi invece si prende 1,90$.
Si tratta di soglie convenzionali imposte per ricavare dati numerici.
Secondo la Banca Mondiale, nel 2017 689 milioni di persone (9,2%) vivevano con meno di
1,90$ al giorno. Nel 1990 erano 1,9 miliardi (36%).

La povertà in Italia
• Rapporto 2020 sulla povertà ed esclusione sociale in Italia redatto dalla Caritas.
Aumento dei “nuovi poveri”: salita al 45%, probabilmente a causa del COVID e della mancanza
di guadagni durante il lockdown.
• Calata la grave marginalità, cioè la povertà estrema.

Indicatori numerici: non solo economici!


• Reddito pro capite
• Diffusione di malattie: malaria [zanzara e particolari condizioni ambientali] e HIV (  COVID)
Una maggiore diffusione di malattie è indice della condizione di sviluppo.
HIV  conoscere come si trasmette, i metodi contraccettivi e le cure molto costose: sistemi
sanitari e sistema di monitoraggio
Molti Paesi del Sud del mondo, soprattutto in Africa meridionale (1 persona su 4) c’è una forte
incidenza di HIV perché mancano i meccanismi di educazione e prevenzione su come evitare la
malattia.

Popolazione senza accesso ad acqua potabile e servizi sanitari, soprattutto in Africa, dove
mancano investimenti in pozzi di acqua pulita (acqua non potabile ha una forte carica
batterica).

Popolazione senza accesso ad impianti sanitari adeguati: no gabinetti = batteri

Indice di mortalità (in Africa e Russia) ed indice di natalità (in Africa)


Indice di mortalità infantile  in Africa + alcuni Paesi del sud-est asiatico
Indice di fertilità  continente africano
Carte a confronto sul tasso di fertilità  1970 e 2004: globale abbassamento del numero di
figli

Stima per il futuro  per la fine del secolo la media dei figli sotto 2 figli per coppia (con Africa
subsahariana sopra la media, con 2,1]
Questo dato ci mostra un calo demografico generalizzato sul pianeta

Tasso di alfabetizzazione  adulti e bambini


Continente africano: in alcuni Paesi c’è un basso tasso di alfabetizzazione di bambini

Accesso al cibo: geografia della fame


Il concetto di fame ammette un triplice approccio

• fame acuta: sporadica (ad esempio, catastrofi ambientali critiche che portano alla perdita
del raccolto)
Un episodio saltuario al quale si pone fine attraverso politiche di aiuti internazionali: ad
esempio per porre fine ad una carestia o ad una siccità

• fame occulta (o malnutrizione): mancanza di varietà di alimenti che porta a malattie e


deperimento corporeo  ad esempio, un territorio in cui cresce solo riso
• fame cronica (o denutrizione)  continua carenza di cibo
C’è spesso iniquità nell’acceso al cibo ed accesso escluso
Disparità sociali
Carta  distribuzione della popolazione sottonutrita (scarso accesso al cibo)
In totale nel mondo  821 milioni di persone sono sottonutrite

Altri indicatori: lo Human Development Report


L’agenzia delle Nazioni Unite UNDP ha redatto un rapporto sulla situazione dello sviluppo a
scala globale.
Sviluppo umano
È un concetto che nasce a partire dagli anni ’90.
Per la prima volta accanto al concetto di sviluppo non c’è solamente quello economico (PIL),
ma anche sviluppo umano.

Crescita =/= sviluppo


(La crescita è solo uno dei fattori di sviluppo)

Il PIL e PIL Pro capite non sono indicatori adatti ad analizzare il concetto di sviluppo! Per la
prima volta a partire dagli anni ’90 non vengono ritenuti adatti.
A partire dagli anni ’90 sono introdotti 3 nuovi indicatori all’interno del Rapporto sullo
sviluppo umano:
• Indice di sviluppo umano
• Indice di povertà multidimensionale
• 2 indicatori di genere che analizzano il ruolo della donna nella società  Indice di sviluppo di
genere ed Indice di equità di genere

Giovedì 22/10/2020

HDI: indicatore introdotto nel 1990


HDI sta per Human Development Index, che si traduce in italiano con Indice di sviluppo umano
(ISU). Si tratta di un indicatore creato per definire il grado di sviluppo umano dei Paesi. È il risultato
della media di 3 indicatori: tenore di vita (calcolato usando il PIL pro capite), salute (calcolata
usando la speranza di vita media alla nascita) e l'educazione (che prende in considerazione il
numero di anni di scolarità degli adulti con età superiore a 25 anni, ossia quanti anni gli adulti sono
andati a scuola, e numero di anni che ci si attende che i bambini in età di iscriversi vadano a
scuola). Non si parla di alfabetizzazione, ma di scolarità: quantità di anni che gli individui passano a
scuola.
L'indice di sviluppo umano è un valore compreso tra 0 e 1, dove 1 è un altissimo sviluppo umano,
mentre 0 è un Paese a sviluppo umano pessimo.
E' possibile dividere i Paesi in 4 aree: primo 25% per Paesi a sviluppo umano molto alto, dal 25% al
50% per Paesi ad alto sviluppo umano, dal 50% al 75% per Paesi a medio sviluppo umano ed infine
l'ultimo 25% per Paesi a basso sviluppo umano.

Confronto tra la situazione nel 1990 e 2014. Notiamo miglioramenti in Africa e nel sud-est asiatico.
Prendendo come riferimento l'Indice di sviluppo umano del 2019, i Paesi con HDI più alto sono
Paesi principalmente dell'Europa: Norvegia, Svizzera, Irlanda, Germania, Hong Kong, Australia,
Islanda, Svezia, Singapore, Paesi Bassi. I Paesi con HDI più basso sono Mozambico (posizione 180),
Sierra Leone, Burkina Faso, Eritrea, Mali, Burundi, Sud Sudan, Ciad, Repubblica Centro Africana,
Niger. Paesi del continente africano.
L'Italia è 29esima e peggiora di una posizione ogni anno.

Multidimensional Poverty Index (Indice di Povertà Multidimensionale)


Nel 2010 nel Rapporto sullo Sviluppo Umano (UNDP) viene introdotto un indicatore specifico per
esaminare approfonditamente le privazioni cui i poveri sono sottoposti negli ambiti della salute,
istruzione e standard di vita. Ha l'obiettivo di studiare le privazioni e le difficoltà dei Paesi poveri.
L'Indice di Povertà Multidimensionale usa gli stessi indicatori dell'Indice di sviluppo umano. La
differenza sta nel fatto che questo studio specifico viene applicato esclusivamente ai Paesi più
arretrati nelle posizioni di Indice di sviluppo umano. Questo calcolo di Povertà multidimensionale
non viene fatto sui Paesi più avanzati rispetto all'Indice di sviluppo umano.
Gli indicatori sono gli stessi: salute, educazione e living standard (standard di vita, benessere socio-
economico).
Per quanto riguarda l'indicatore della salute, nel calcolare l'Indice di Povertà Multidimensionale si
prende in considerazione l'accesso al cibo e la mortalità infantile.
La mortalità infantile è una condizione che nei Paesi sviluppati desta scalpore (se ne parla nei
telegiornali) e per questo motivo non avrebbe senso prendere questo parametro a scala globale,
ma solo per un gruppo ristretto di Paese per cui le condizioni di vita sono particolarmente difficili.
Per quanto riguarda l'educazione i parametri rimangono invariati: anni di scolarità ed anni che i
bambini effettivamente frequentano a scuola.
Invece il parametro dello standard di vita (living standard) cambia completamente: non avrebbe
senso prendere come riferimento il PIL pro capite, perché spesso si tratta di Paesi che vivono con
meno di 1$ al giorno, per cui si parlerebbe di un PIL pro capite estremamente basso. Al suo posto,
si considerano il combustibile utilizzato per cuocere (cooking fuel) perché si tratta di Paesi in cui le
condizioni atmosferiche interne alle capanne (molto fumo) in cui abita la popolazione potrebbe
andare ad incidere negativamente sulla situazione bronchiale degli abitanti, soprattutto dei
bambini più fragili; sanitation, ossia l'accesso ai servizi igienici; accesso all'acqua; elettricità;
pavimento, perché le famiglie povere che vivono in capanne ed hanno il pavimento di terra battute
saranno esposte ad una produzione continua di polvere, che potrebbe avere conseguenze
all'apparato respiratorio delle fasce più delicate (bambini ed anziani); accesso ai beni.

Dall'analisi di 91 Paesi è emerso che circa 1,3 miliardi di persone sono colpite da almeno 2 tipologie
di carenza indicate dall'Indice di Povertà Multidimensionale. Si tratta del doppio delle persone che
vivono con meno di 1,90$ al giorno.
Questo indicatore va ad indagare la situazione di povertà estrema in cui vivono molti Paesi del sud
del mondo.

Dalla carta emerge che la maggior parte dei Paesi che vivono in condizioni di estrema povertà si
colloca nel continente africano. Sono Paesi che sperimentano povertà multidimensionale.

Indice di sviluppo di genere (GDI)


Si tratta di un indice che misura le carenze nello sviluppo femminile nelle 3 dimensioni dell'Indice
di sviluppo umano: salute, educazione ed economia.
L'Indice di sviluppo di genere rivela che esiste un divario tra donne e uomini nell'accesso allo
sviluppo umano.
A scala globale lo sviluppo umano delle donne è dell'8% inferiore rispetto a quello degli uomini,
anche se queste disparità sono più marcate in alcuni Paesi che in altri.
In alcuni Paesi questa discrepanza è alimentata dall'accesso di educazione, infatti in molti Paesi le
bambine non vengono mandate a scuola. Non si investe sull'educazione femminile.

Gender Inequality Index


È un indice che descrive le disparità tra uomini e donne nell'accesso alla salute riproduttiva
(mortalità materna, fertilità delle adolescenti strettamente collegato all'accesso all'istruzione),
all'empowerment (percentuale di donne elette in parlamento e percentuale di donne che hanno
accesso all'istruzione secondaria) e all'accesso al mercato del lavoro (percentuale di donne e
bambine sopra i 15 anni che hanno accesso alla forza lavoro. L'Africa mostra dati preoccupanti: più
del 60% di donne e bambine lavorano).
Non si tratta degli stessi indicatori presi in esame nell'Indice di sviluppo umano. Per questo motivo,
non necessariamente un valore alto di Gender Inequality Index indica un basso valore di Human
Development Index.
In passato il PIL era considerato l'indicatore principale per determinare il benessere economico di
un Paese.
Con gli anni Novanta viene messa in discussione la supremazia assoluta del PIL (come indicatore
che rappresenta il benessere economico di un Paese) e vengono introdotti nuovi indicatori, che
vengono visti in alternativa al PIL.
L'Indice di Sviluppo Umano è una rottura in relazione al dato meramente economico.

Di fianco a questi indicatori alternativi rispetto al PIL, esistono ulteriori indicatori che sono
veramente alternativi. Perché per quanto alternativo, l'Indice di Sviluppo Umano è comunque un
indicatore calcolato e riconosciuto da un'agenzia delle Nazioni Unite.

Indicatori che non hanno un riconoscimento istituzionale, ma sono proposti da gruppi di ricerca.
Un indice alternativo: la FIL
È l'Indice di felicità interna lorda, che in inglese prende il nome di gross national happiness (GNH),
al posto di gross national product (GNP = Prodotto Interno Lordo, PIL).
Indice di felicità.
Si tratta di un indicatore che vuole trovare una via alternativa per descrivere lo standard di vita
delle popolazioni. Propone una lettura degli aspetti sociali delle società del pianeta completamente
diverso rispetto agli altri indicatori.
Questo indicatore nasce negli anni Settanta dal re del Bhutan, che all'epoca era impegnato a
costruire un'economia moderna ma in linea con la cultura tradizionale del Paese sui valori spirituali
del buddhismo.
Nonostante nasca quasi come concetto filosofico, nel primo decennio del 2000 si è proposto un
approccio più econometrico alla FIL che ha permesso di individuare alcuni indicatori: benessere
economico (distribuzione del reddito), ambientale (inquinamento, rumore, traffico), fisico
(distribuzione di malatti gravi), mentale (uso di antidepressivi e aumento di pazienti in
psicoterapia), lavorativo (disoccupazione), sociale (discrminazione, sicurezza, crimini) e politico
(qualità della democrazia, libertà individuale e conflitti).
Nel 2011 le Nazioni Uniti hanno fatto un tentativo di istituzionalizzare questo indicatore, invitando
i Paesi ad avviare una misurazione della felicità dei propri cittadini ed è infatti stato lanciato il
World Happiness Report.
Tabelle: 25 Paesi più felici; Paesi che stavano diventando più felici (getting happier) e infelici
(getting more miserable).

Genuine Progress Indicator (GPI)


È un indicatore alternativo dell'economia verde, che vuole sostituire il PIL come misuratore dello
sviluppo economico: misura più attendibilmente il progresso economico, poiché distingue fra
sviluppo utile e sviluppo poco economico.
Distingue tra valore positivo e valore negativo di tutte le voci di cui si compone il PIL.
Consta di 26 indicatori, divisi in 3 ambiti: economico, ambientale e sociale.
Questo indicatore viene calcolato distinguendo tra spese positive (che aumentano il benessere,
come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, incidenti
stradali).
Diversamente dal PIL che considera tutte le spese come positive e che non considera tutte quelle
attività che, pur non registrando flussi monetari, contribuiscono ad accrescere il benessere di una
società (ad esempio le casalinghe, che si prendono cura del benessere psicofisico della propria
famiglia oppure il volontariato).

GPI vs PIL
Mentre il PIL globale è andato crescendo, il GPI per alcuni Paesi ha mostrato una decrescita.
Almeno 11 Paesi hanno ricalcolato il loro PIL usando il GIP. I dati, per i Paesi UE e USA, mostrano
che mentre il PIL è cresciuto negli ultimi decenni, il GPI è aumentato solo fino ai primi anni 70,
dopodiché ha iniziato a decrescere.
Ciò indica fondamentalmente come benessere economico e psicofisico non sempre vadano di pari
passo: il benessere economico può aumentare (PIL) a discapito di quello fisico e mentale (GPI).

Lezione 4.2
Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e i nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile

Nasce la Dichiarazione del Millennio, vale a dire una sorta di piano di sviluppo globale adottata
dalle Nazioni Unite nel Settembre 2000 da realizzare entro il 2015.
Le Nazioni Unite, come ente sovranazionale, dà linee guida a tutti i Paesi del mondo con l'obiettivo
di migliorare le condizioni di sviluppo umano.

La Dichiarazione del Millennio era suddivisa in 8 obiettivi (i cosiddetti Obiettivi del Millennio),
sviluppati in 18 traguardi.
Si stima che il costo di questa operazione ammonti ad una cifra compresa tra 40 e 70 miliardi di $
ogni anno.

Gli 8 Obiettivi del Millennio:


1. Eliminare la povertà estrema e la Fame
     1. Dimezzare entro il 2015 la % di popolazione che vive con meno di 1$ al giorno
     2. Dimezzare entro il 2015 la % di popolazione che soffre la fame
2. Raggiungere l'educazione primaria globale
     3. Assicurare l'istruzione primaria a tutti i bambini entro il 2015
3. Promuovere l'equità tra i sessi
     4. Eliminare le disuguaglianze di genere nell'accesso a istruzione primaria e secondaria entro il
2005; a tutti i livelli entro il 2015
4. Ridurre la mortalità infantile
     5. Ridurre di 2/3 la mortalità sotto i 5 anni entro il 2015
5. Migliorare la salute materna
     6. Ridurre di 3/4 la mortalità puerperale entro il 2015
6. Combattere HIV/AIDS, malaria e altre malattie
     7. Fermare HIV/AIDS entro il 2015
     8. Fermare malaria e altre malattie entro il 2015
7. Assicurare la sostenibilità ambientale
     9. Interare i principi dello sviluppo sostenibile nelle politiche e programmi nazionali e fermare la
perdita di risorse naturali
     10. Dimezzare entro il 2015 la % di popolazione senza accesso a risorse idriche potabili e sanità
di base
     11. Raggiungere entro il 2020 un netto miglioramento nelle vite di almeno 100 milioni di
persone che vivono in slums e bidonvilles
8. Sviluppare una partnership globale per lo sviluppo
     12. Sviluppare un sistema di commercio e finanziario aperto, regolato e non-discriminatorio
     13. Risolvere le speciali necessità dei Paesi poveri
     14. Risolvere le speciali necessità dei paesi land-locked e delle piccole isole-stato
     15. Adottare politiche nazionali e internazionali comprensive nei confronti del debito dei Paesi
poveri o diluirli sul lungo termine
     16. Cooperare con i PVS per sviluppare condizioni di lavoro decenti e produttive per i giovani
     17. Cooperare con le case farmaceutiche per garantire ai PVS accesso a medicine basilari
     18. Cooperare col settore privato per garantire ai PVS accesso alle nuove tecnologie (IT e ICT)

Il piano globale era da realizzare entro il 2015, ma alcuni obiettivi erano stabiliti per il 2005.
Tutto questo era possibile grazie ad un massiccio flusso di denaro verso i Paesi con economie e
Indice di Sviluppo Umano più arretrato. I soldi vengono da aiuti internazionali: i Paesi più avanzati
economicamente, sottoscrivendo questo impegno globale, donavano una quota del loro PIL per
realizzare azioni di aiuto verso i Paesi più poveri.
Questi ultimi si impegnavano ad attuare strategie nazionali volte alla riduzione della povertà e
quindi al raggiungimento degli Obiettivi.

Programmi Strategici per la Riduzione della Povertà. Ne abbiamo parlato in riferimento al


Programma Heavily Indebted Poor Countries, il programma delle Nazioni Unite e Fondo Monetario
che prevedeva di ridurre il debito estero di molti Paesi purché questi soddisfacessero alcune
condizioni, tra cui aver realizzato questo Programma Strategico per la Riduzione della Povertà, vale
a dire un programma politico che stabilisse in maniera precisa quali azioni intraprendere per
ridurre la povertà.
Questo programma di sviluppi internazionale si struttura come una forma neoliberista di
aggiustamento strutturale: riproduce la dinamica dell'aggiustamento strutturale. Per poter
accedere a questi benefici i Paesi più poveri devono soddisfare le richieste della metà del mondo
più ricca, dove domina il capitale.

Azioni a rapido successo


Sono azioni finalizzate a realizzare in tempo rapido degli obiettivi che avrebbero avuto forti
ricadute positive sulla popolazione.
Ad esempio, per quanto riguarda la salute: vaccinazione annua di tutti gli scolari nelle zone a
rischio; programmi nutritivi per donne incinte e di educazione all'allattamento al seno
(l'allattamento al seno è fondamentale per passare al neonato gli anticorpi della madre e
quindi garantire una salute migliore. Tuttavia, alcune multinazionali che producono latte in polvere
hanno iniziato nei Paesi più arretrati delle campagne contro il latte materno a favore del latte in
polvere. Di conseguenza, famiglie povere hanno dovuto spendere dei soldi per comprare un
prodotto di cui fondamentalmente la madre disponeva già. Inoltre, la preparazione di latte in
polvere richiede l'utilizzo di acqua, che è molto spesso acqua di pozzo e provoca dissenterie che
possono condurre alla morte. Per questo motivo molte ONG hanno iniziato campagne di
sensibilizzazione verso l'allattamento al seno delle madri, con risultati positivi verso la mortalità
infantile); distribuzione di zanzariere a tutti i bambini in zone malariche.
In termini di infrastrutture e amministrazione: migliorare l'efficienza di ospedali e scuole.
Per quanto riguarda le donne si agisce sull'empowerment femminile.

I nuovi obiettivi di Sviluppo Sostenibile


Il 25 settembre 2015, l’ONU ha adottato un nuovo insieme di obiettivi per eliminare la povertà,
proteggere il pianeta e assicurare prosperità per tutti: è l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
I 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibile e i 169 target partono dagli Obiettivi del Millennio e cercano di
realizzare ciò che essi non sono mai riusciti a garantire, a partire da diritti umani ed empowerment
femminile.
Integrano le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: quella economica, sociale ed ambientale.

Parole chiave dell’Agenda 2030

Persone: mettere al centro le persone povere con l’obiettivo di porre fine alla povertà e alla fame,
e di assicurare che tutti gli esseri umani possano realizzare il proprio potenziale con dignità ed
uguaglianza in un ambiente sano.
Pianeta: proteggere il pianeta dalla degradazione, attraverso un consumo ed una produzione
consapevoli, gestendo le sue risorse naturali in maniera sostenibile e adottando misure urgenti
riguardo il cambiamento climatico.
Prosperità: assicurare che tutti gli esseri umani possano godere di vite prosperose e soddisfacenti e
che il progresso economico, sociale e tecnologico avvenga in armonia con la natura.
Pace: promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla
violenza.

Si tratta di grandi obiettivi che devono essere perseguiti attraverso la collaborazione:


collaborazione globale (tra Paesi più avanzati e altri più arretrati) per lo sviluppo Sostenibile,
basata su uno spirito di solidarietà globale, concentrato in particolare sui bisogni dei più poveri e
dei più vulnerabili.
Le interconnessioni degli obiettivi dello Sviluppo Sostenibile sono di importanza cruciale
nell’assicurare che lo scopo della nuova Agenda venga realizzato.

17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile


Povertà zero
Fame zero
Salute e benessere
Istruzione di qualità
Uguaglianza di genere
Acqua pulita e igiene
Energia pulita e accessibile
Lavoro dignitoso e crescita economica (obiettivo nuovo rispetto al precedente)
Industria, innovazione e infrastrutture (obiettivo nuovo)
Ridurre le disuguaglianze
Città e comunità sostenibili
Consumo e produzione responsabili
Agire per il clima (obiettivo nuovo)
La vita sott’acqua
La vita sulla Terra
Pace, giustizia e istituzioni forti
Partnership per gli obiettivi
In Italia l’agenzia Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) annualmente produce un
report sull’andamento dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile nel nostro Paese.

Se la Dichiarazione del millennio era affidata a report annuali, l’Agenda 2030 viene sottoposta
anch’essa a report annuali, ma ad una più intensa azione di monitoraggio.
Infatti, nel 2016 stato infatti approvato un sistema di 240 indicatori statistici sulla base dei quali
viene monitorato il processo di avvicinamento agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per ogni Paese.
Annualmente vengono valutato i progressi, i risultati e le sfide rilevanti per tutti i Paesi. Ogni anno
viene redatto un Rapporto sull’andamento degli obiettivi.

Il Rapporto annuale dal 2016 ad oggi fotografa una situazione pressoché immutata nel tempo.
Sono rapporti abbastanza ripetitivi.

Concludendo gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio: il Rapporto 2015


L’Ultimo Rapporto relativo agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio del 2015 viene preso come
momento storico in cui è stata fotografata la conclusione del primo blocco di 15 anni.
Cosa emerge: i 15 anni di sforzi per raggiungere gli 8 obiettivi hanno portato ad alcuni risultati
positivi, ma in diversi ambiti i risultati ottenuti non sono stati quelli sperati.
Obiettivi che sono stati raggiunti nel programma del Millennio (firmato nel 2000, con il programma
di essere raggiunti entro il 2015).
Dal rapporto emerge che pochi tra i 18 target sono stati raggiunti.
Dimezzamento della popolazione che vive nell’estrema povertà: da 47% nel 1990 a 22% nel 2010
(circa 700 milioni di persone in meno).
La partecipazione femminile nei parlamenti è cresciuta e in 46 Paesi le donne ricoprono più del
30% dei seggi parlamentari.
Lotta a malaria e tubercolosi: malaria -25% tra il 2000 ed il 2010 (-11 milioni di morti), tubercolosi
tra 1995 e 2011 sono stati trattati 51 milioni di malati.
Dimezzamento della popolazione che non ha accesso all’acqua potabile: nel 1990 il 76% della
popolazione globale aveva accesso all’acqua potabile, nel 2010 l’89% (con un aumento di 2,3
miliardi di persone)
Importante!! Miglioramento delle condizioni degli slums: tra il 2000 e il 2010, 200 milioni di
abitanti in queste aree hanno avuto accesso ad acqua potabile ed igiene (l’obiettivo era di 100
milioni).
Aiuti internazionali e lotta al debito: nel 2013 si assiste ad una ripresa degli aiuti internazionali (è
importante ricordare che la Dichiarazione del Millennio è stata attraversata dal fenomeno di crisi
finanziaria del 2008), mentre il rapporto tra debito estero ed esportazioni è passato dal 12% nel
2000 al 3% nel 2012.

Gli obiettivi che necessitano di maggiore impegno:


Sostenibilità ambientale (dimezzando ad esempio le emissioni di CO2)
Dimezzamento popolazione che soffre la fame
Assicurare l’educazione primaria a tutti i bambini (obiettivo previsto per il 2005)
Eliminazione disuguaglianze di genere nell’accesso all’educazione primaria
Ridurre di 2/3 la mortalità infantile
Ridurre la mortalità materna
Lotta all’AIDS
Dimezzamento della popolazione che non ha accesso a servizi sanitari
In tutti questi ambiti è stata ridotta la %, ma gli obiettivi non sono stati centrati

Gli 8 Obiettivi del Millennio

Goal 1. Eliminare la povertà estrema e la fame


• Dimezzare entro il 2015% ecc… Questo obiettivo è stato effettivamente raggiunto
• Achieve, full and productive employment and decent work for all, including women and young
people. Questo obiettivo ha subito un duro contraccolpo a causa della crisi economica iniziata nel
2008. Essa ha ridotto fortemente la crescita economica. La Banca Nazionale ha stimato che questa
crisi ha prodotto 50 milioni di poveri in più nel 2009 e 64 milioni in più nel 2010, soprattutto in
Africa Sub-Sahariana e Asia orientale e sud orientale.
Inoltre, la crisi ha aumentato il numero di persone che ha perso il lavoro o che si è ritrovata in una
condizione di lavoro precaria. A tal proposito si parla di working poors per fare riferimento a
persone che pur lavorando vivono con meno di 1,25$ al giorno. Sono cioè persone che pur
lavorando non riescono ad uscire dalla condizione di povertà.
• Dimezzare entro il 2015% la popolazione che soffre la fame. Negli anni la percentuale di persone
sottonutrite è diminuita, tuttavia circa 870 milioni di individui continuano ad essere sottonutriti,
dei quali 850 milioni nei Paesi più poveri.
Con la crisi del 2008 si ha avuto un contraccolpo sul costo dei prodotti alimentari e si pensa che nel
futuro il costo degli alimenti aumenterà ancora come conseguenza dei cambiamenti climatici, che
ridurranno la produttività agricola di molte zone (di conseguenza, essendoci meno cibo ed
aumentando la richiesta è molto probabile che il costo del cibo aumenti. Questo meccanismo
andrà a discapito delle fasce di popolazione più povera). Il prezzo del cibo è salito nel corso del
2008 a fronte di una riduzione dei redditi.

Povertà e conflitti
La povertà e la mancanza di accesso al cibo incidono sulle situazioni di conflitti e guerriglie interni.
Nel rapporto del 2015 ci si soffermava sulla questione dei rifugiati che fuggivano dal proprio Paese.
Due cartine: rifugiati per Paese di origine nel 2017 e rifugiati per Paese ospitante nel 2017.

Goal 2. Raggiungere l’educazione primaria globale.


• Raggiungere entro il 2015 l’educazione primaria globale.
Questo obiettivo non è stato raggiunto, nonostante ci sia stato un miglioramento generale in tutti i
Paesi con una crescita della scolarizzazione. I Paesi dell’Africa subshariana registrano la
performance peggiore a livello di scolarizzazione dei bambini.

Goal 3. Promuovere l’equità tra i sessi.


• Eliminare la disparità di genere nell’educazione primaria e secondaria, preferibilmente entro il
2005, e in tutti i livelli di educazione entro il 2015.
L’obiettivo è stato raggiunto quasi ovunque a livello della scuola primaria: nel 2008 nelle regioni in
via di sviluppo per ogni 100 bambini iscritti c’erano 96 bambine nella scuola primaria e 95 nella
secondaria. Nel 1999 il rapporto era 91:100 e 88:100. Tuttavia, l’obiettivo doveva essere raggiunto
nel 2005!
La povertà è un fattore di disparità di genere: le bambine provenienti dalle famiglie più povere
sono 3 volte più esposte al rischio di dover abbandonare la scuola rispetto alle bambine delle
famiglie più ricche.

Donne e impiego
La maggior parte delle donne povere trova impiego nel settore agricolo. Nel 2015% si è registrato
un aumento del 41% delle donne impiegate globalmente al di fuori del settore agricolo.
In alcune regioni la situazione è ancora molto a favore degli uomini.
La crisi ha inoltre fatto aumentare il lavoro informale, come conseguenza della perdita di posti nel
settore formale: in alcuni Paesi l’80% dei lavoratori ha un impiego informale: tra questi le donne
sono la maggioranza.

Top-level jobs e donne


I lavori di alto livello sono ancora dominio degli uomini: solo 1 su 4 senior officials e manager sono
donne.
C’è stato un aumento della presenza femminile nei parlamenti, ma l’obiettivo dell’equità di genere
è ancora lontano dall’essere raggiunto.
Solo 6 Paesi al mondo non hanno donne nei loro parlamenti: Haiti, Micronesia, Nauru, Palau,
Quatar e Vanuatu, mentre nel 2013 per la prima volta le donne sono entrate nel parlamento
dell’Arabia Saudita.
Confronto tra due mappe che rappresentano la percentuale di donne in Parlamento nel 1997 e nel
2010. La situazione è indubbiamente molto migliorata.

Goal 4. Ridurre la mortalità infantile


• Ridurre di 2/3 la mortalità infantile sotto i 5 anni entro il 2015.
Sono stati ottenuti progressi significativi nella riduzione della mortalità infantile, che è passata dal
90% nel 1990 al 43% nel 2015.
I miglioramenti più significativi sono stati fatti in Africa settentrionale, Asia orientale e sud-
orientale, America Latina e Caraibi.
Tuttavia, molti Paesi continuano ad avere tassi di mortalità infantile inaccettabili e non sono in
grado di adottare misure di riduzione significative: la maggior parte di questi si trova in Africa
subshariana (dove la riduzione è stata inferiore al 40%).
Tra le cause di morte le principali sono da imputarsi a 4 malattie: polmonite, diarrea, malaria e
AIDS, responsabili per il 43% delle morti dei bambini sotto i 5 anni.

Goal 5. Migliorare la salute materna.


• Ridurre di 3/4 la mortalità materna al momento del parto.
Nel mondo occidentale, la morte di una donna durante il parto è qualcosa che crea scalpore.
Purtroppo, in molti Paesi del sud del mondo questa è una condizione molto diffusa, soprattutto
perché il parto non avviene necessariamente in ospedali ma può avvenire nelle loro abitazioni
(molto spesso capanne). Per questo si è cercato di inserire la privatizzazione della sanità tra gli
obiettivi.
Molte donne partoriscono senza l’assistenza di personale preparato, sopratutto nelle aree rurali.
La maggior parte di queste morti sono evitabili: le principali cause della mortalità materna nelle
regioni in via di sviluppo sono date da emorragia e ipertensione, ma anche malaria e HIV/AIDS;
anche complicazioni dell’anestesia o del cesareo.
• Raggiungere entro il 2015 accesso universale alla salute riproduttiva.
Progressi nella diffusione di cure prenatali (cioè prima del parto) si riscontrano in tutte le aree, ma
l’Africa settentrionale, l’Asia orientale e meridionale spiccano per i buoni risultati (riduzione di
circa 2/3). Tuttavia, molte disparità nell’accesso a queste cure si riscontrano ancora soprattutto
nell’Africa subsahariana (dove è grande la disparità di accesso alle cure fra le donne di città e
quelle che risiedono in zone rurali. 89% vs 66% ha avuto accesso).
Povertà e gravidanza
Le adolescenti delle famiglie più povere sono considerate tra le fasce di popolazione più
vulnerabile.
Nell’Africa subsahariana il tasso di gravidanza tra le adolescenti è estremamente dipendente dal
reddito familiare: le figlie femmine di famiglie molto povere sono più propense a rimanere incinte
in età adolescenziale. L’uso di contraccettivi è superiore tra le donne più adulte che hanno ricevuto
un’educazione secondaria.
Le adolescenti delle famiglie più povere e senza un livello elevato di educazione sono 3 volte più
esposte al rischio di restare incinta rispetto alle loro coetanee delle famiglie più ricche e rispetto a
quelle che hanno ricevuto un’educazione scolastica più elevata.
La pianificazione familiare consentirebbe una migliore salute materna e ridurrebbe la mortalità
materna.

Goal 6. Combattere HIV/AIDS, malaria e altre malattie


• Fermare HIV/AIDS entro 2015.
L’incidenza di HIV e AIDS è aumentata anche tra le fasce giovani dei Paesi più avanzati
economicamente a causa di un abbassamento di guardia. Si tratta di generazioni di giovani che
hanno un accesso all’istruzione.
L’impatto ed il contagio nei Paesi in cui le popolazioni non hanno accesso all’istruzione è
chiaramente molto maggiore. Ne consegue che i bambini nati dall’unione di genitori infetti sono
esposti non solo al rischio del contagio ma anche alla povertà, alla fame, alla mancanza di salute,
educazione e probabilmente saranno vittime di discriminazioni.
L’Africa subsahariana continua ad essere la regione più colpita, a causa della mancanza di
conoscenza di come difendersi dal contagio.
Nel 2013, 210mila bambini sono morti da cause legate all’AIDS.

Grafico che riporta la conoscenza di uomini e donne su come si diffonde il contagio di HIV. Donne e
uomini (15-24 anni) con corretta e completa comprensione di come si trasmette l’HIV.
% di uomini e donne (15-24 anni) che utilizza sistemi contraccettivi nell’Africa subsahariana.
Bisogna considerare anche il tabù culturale che fa sì che l’utilizzo di protezioni nell’atto sessuale
vada contro le pratiche religiose.
Numero di bambini che hanno perso uno o entrambi i genitori come conseguenza dell’AIDS
nell’Africa subsahariana.
• Raggiungere accesso universale al trattamento contro HIV e AIDS
Il problema principale dei Paesi più poveri è la mancanza di cure antiretrovirali: non esiste un
sistema sanitario nazionale e inoltre queste cure sono molto costose. Ciò incide sul numero di
morti per AIDS nell’Africa subsahariana. Per questo motivo, diverse ONG hanno cominciato ad
implementare dei progetti di screening e prescrizione di questi farmaci a persone infette.
• Fermare malaria e altre malattie entro 2015
Altre malattie sono malaria e tubercolosi. Tendenzialmente la malaria non conduce alla morte, ma
ad un forte indebolimento della persona a causa delle frequenti febbri, rendendola inadatta ad
una vita lavorativa proficua. Molti Paesi stanno finanziando strategie di lotta alla malaria e
consentono la distribuzione gratuita di farmaci e di zanzariere alle famiglie più povere.
In molti Paesi del sud del mondo la tubercolosi è la seconda causa di morte, dopo l’HIV.

Goal 7. Assicurare la sostenibilità ambientale


• Integrare i principi dello sviluppo sostenibile nelle politiche e programmi nazionali e fermare la
perdita di risorse naturali.
Il rapporto del 2015 mette in luce che alcune problematicità non sono state risolte, soprattutto per
quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica nell’aria, che ha continuato ad aumentare.
Inquinamento.
Inoltre, nonostante molti investimenti siano stati indirizzati alla conservazione ambientale e molti
Paesi abbiano destinato ampie aree alla conservazione, la perdita di biodiversità non è ad oggi
stata frenata a sufficienza e questo può far aumentare il rischio per la sopravvivenza di alcune
specie già in pericolo di estinzione.
Avanzamento della deforestazione.
• Dimezzare entro il 2015 la % di popolazione senza accesso a risorse idriche potabili e sanità di
base.
Popolazione che non ha accesso all’acqua potabile e alle strutture igieniche di base: progressi
significativi sono stati raggiunti in tutte le aree dei Paesi in via di sviluppo (azioni a rapido
successo), anche se rimangono disparità significative tra le aree urbane e quelle rurali.
• Raggiungere entro il 2020 un netto miglioramento nelle vite di almeno 100 milioni di persone che
vivono in slums e bidonvilles.
La questione degli slums è indicata come il più grande successo all’interno di questo rapporto del
2015, perché oltre 200 milioni di persone hanno migliorato le loro condizioni di vita, ottenendo
accesso all’acqua potabile e servizi igienici e superando l’obiettivo (che era di 100 milioni).

Goal 8. Sviluppare una partnership globale per lo sviluppo


Questo obiettivo riguarda tematiche di cooperazione tra Paesi.
• Sviluppare le necessità dei paesi land-locked e dei piccoli stati insulari.
Un bisogno particolare riguarda i piccoli stati insulari e i cosiddetti Paesi land-locked (vale a dire i
Paesi senza sbocco sul mare, che confinano solo con altri Stati).
Questi programmi si basano sulla cooperazione internazionale e sulla cessione da parte dei Paesi
più avanzati economicamente di una quota molto piccola del loro PIL ai Paesi più poveri per
realizzare queste strategie di sviluppo. L’idea era di far salire questa quota del PIL nel corso degli
anni, ma con la crisi economica del 2008 gli aiuti internazionali sono stati interrotti e bloccati. Molti
Paesi hanno smesso di aiutare i Paesi più poveri: una delle principali cause che hanno impedito la
realizzazione di molti degli obiettivi del Millennio, senza dimenticare che molti di questi obiettivi
erano ambiziosi.
La quota di PIL nazionale che si voleva raggiungere era quella dello 0,7% nei Paesi più avanzati, ma
la maggior parte dei Paesi donatori non ha mai raggiunto questa quota. Solamente Danimarca,
Lussemburgo, Norvegia, Svezia e Regno Unito a partire dal 2014 hanno ricominciato a donare
parte del loro PIL ai Paesi in difficoltà e hanno raggiunto lo 0,7%. L’Italia dona lo 0,2%.
Chiaramente, questi calcoli andranno rivisti il prossimo anno: a fronte dell’emergenza sanitaria del
Coronavirus, che ha messo in seria difficoltà molti Paesi, risulta difficile sperare che la percentuale
di PIL donato ai Paesi in difficoltà si possa alzare.

• Garantire ai PVS accesso alle nuove tecnologie


Diffusione di nuove tecnologie: aspetto fondamentale nelle politiche di sviluppo locale.
Sembra che, rispetto alla telefonia fissa, la telefonia mobile abbia costituto un grosso passo avanti.
Si stima che alla fine del 2014 gli utenti di telefonia mobile fossero circa 7 miliardi di persone, di cui
il 77% si collocava nei Paesi in via di sviluppo.
La tecnologia mobile è uno strumento importante di diffusione di conoscenza.
Persone che vivono in zone remote: accesso a informazioni, garantire loro la possibilità di
informarsi e comprendere ciò che sta succedendo nel mondo. La telefonia mobile ha un ruolo
anche nelle scelte migratorie: permette di rimanere in contatto con i parenti rimasti nel Paese di
origine o di comunicare con chi è già partito. Diventa un elemento fondamentale nel guidare le
scelte migratorie di molte persone.

La povertà è una condizione di estrema complessità, che come abbiamo visto va analizzata
prendendo in considerazione tutta una serie di fattori e condizioni.

Lezione 5
Teorie sullo sviluppo

Cos’è lo sviluppo?
È la condizione propria dei Paesi che presentano indicatori positivi negli ambiti dello sviluppo
umano.
Questo termine ha una storia. Il concetto di sviluppo è divenuto ciò che abbiamo visto
recentemente, ossia a partire dal 1990.
Prima era una condizione economica, ma non solo.
La retorica dello sviluppo identificava questo concetto nella supposta superiorità economica e
sociale dell’Occidente, soprattutto dell’Europa.
Per molto tempo il termine “sviluppo” è stato concepito in maniera del tutto acritica. Inizialmente
il significato che si dava a questo termine era quello del progresso tecnologico che aveva
caratterizzato l’Europa dalla seconda rivoluzione industriale in poi (cioè dalla seconda metà del
Settecento). Questa idea di progresso tecnologico si è associata all’imperialismo: l’idea di sviluppo
è stata portata avanti nell’ambito delle dinamiche delle colonizzazioni. Colonizzazione interpretata
come un’azione benefica delle potenze coloniali che portavano ai popoli “primitivi” le loro
innovazioni ed avanzamenti tecnologici e sociali propri dell’Europa post-illuministica.
Questa è una visione estremamente eurocentrica del concetto di sviluppo, che ha dominato
l’economia dall’epoca dell’Illuminismo sino alle lotte per la dipendenza dalle ex colonie.
Dominio occidentale ed imposizione di un pensiero occidentale sul resto de mondo, mascherata
come un’azione benefica di portare benefici in termini economici e conoscitivi a popoli ritenuti
inferiori tecnologicamente, culturalmente e talvolta intellettualmente. Le popolazioni che
venivano assoggettate erano rappresentate come selvaggi o bambini che non avevano ancora
raggiunto la maturità intellettuale.

Economisti: Trickle down effect: ricadute benefiche della crescita economica.


Se un Paese ha delle zone che esplodo economicamente, le ricadute di quei guadagni porteranno
un beneficio a quelle popolazioni.
Di conseguenza, nel caso del colonialismo l’impatto positivo delle potenze coloniali si manifestava
attraverso una ricaduta economica degli investimenti coloniali nei Paesi che si andava a dominare.
Una crescita economica porta a miglioramenti di tipo sociale.
Questa visione di sviluppo ha un fortissimo bias culturale, vale a dire un condizionamento culturale
derivante dall’eurocentrismo che ha da sempre dominato la relazione tra Paesi europei e altre
parti del pianeta.
A partire dalla seconda metà del XX secolo nasce un approccio critico nei confronti del termine
“sviluppo”. Nasce in ambiente marxista.
Ci sono 3 condizioni che alimentano la riflessione critica di stampo marxista:
la creazione del terzo blocco: in piena Guerra Fredda si radunano a Bandung (in Indonesia) i
rappresentanti politici di alcuni Paesi poveri (ex colonie) che si riconoscono come potenzialmente
importanti nello scenario globale. Danno vita al blocco di Paesi non allineati, che cioè non si
schierano né con il blocco capitalista né con il blocco socialista, ma che seguono i propri interessi
territoriali. Questo blocco in realtà non ebbe grande successo, ma a livello globale si assiste alla
presa di coscienza di questi Paesi.
In America Latina (in particolare l’Argentina) nasce una teoria di sviluppo fortemente critica che
prende il nome di teoria della dipendenza economica.
Osservazione che dopo la Seconda Guerra mondiale aumenti il divario tra Paesi poveri e Paesi
ricchi, nonostante la nascita del Fondo Monetario Internazionale, il cui scopo era quello di
contenere le disuguaglianze globali ed investire nei PVS per permettere loro lo sviluppo.

Nuove chiavi interpretative


Hettne: è l’Europa che ha creato nei Paesi il bisogno di svilupparsi. Prospettive di crescita
economica eccessivamente ambiziose e di conseguenza fallimentari.
Questa visione critica nasce negli anni Settanta e porta ad una distinzione tra crescita economica e
sviluppo. Per crescita economica si intende un miglioramento quantitativo degli indicatori
economici (PIL). Lo sviluppo invece riguarda un miglioramento qualitativo della vita (indicatori visti
nella lezione precedente).

Cos’è il sottosviluppo?
Utilizzando una parola in contrapposizione con il concetto di sviluppo in accezione negativa diamo
per scontato che sia necessario che si debba seguire una sola ed unica strada, vale a dire quella
dello sviluppo.
La parola “sottosviluppo” viene utilizzata per la prima volta in un articolo pubblicato nel secondo
dopoguerra (1942) come condizione nella quale si collocano i Paesi che non hanno le
caratteristiche per essere considerate sviluppate. Nel 1949 si ottiene la consacrazione nazionale
del termine, quando il presidente americano Truman afferma che è responsabilità dei Paesi più
sviluppati quella nell’aiutare i Paesi più poveri affinché anch’essi possano raggiungere un livello di
sviluppo adeguato.
Nasce ufficialmente il termine sottosviluppo.

Teorizzare lo sviluppo
Le teorie dello sviluppo si riconducono in 2 macro-sfere. Una che vede lo sviluppo come una
componente della storia naturale dei popoli: vede lo sviluppo come qualcosa di naturale, quindi
una sorta di progresso da un organismo unicellulare ad un essere umano completo. In questo
ambito, un mancato sviluppo è conseguenza di mancanza di capacità di compiere appieno la
trasformazione. All’interno di questo discorso si riconosce che è la capacità di pensiero e
sviluppare tecnologia propria degli esseri umani il vero motore dello sviluppo.
Il secondo approccio invece non parte dall’idea che lo sviluppo sia qualcosa di naturale, ma
riconosce invece che lo sviluppo è un processo umano. È un processo evolutivo ed economico, non
biologico, ed è costruito dagli esseri umani. Lo sviluppo è un processo di
trasformazione economica che può avvenire sia all’interno del mondo liberista che mondo
socialista e che questo processo economico (originato in Europa dalle classi capitaliste) ha
colonizzato l’intero pianeta (all’inizio attraverso il colonialismo storico, poi attraverso il
neocolonialismo economico). Tutta la critica marxista si concentra su questo secondo approccio: lo
sviluppo e il sottosviluppo sono una conseguenza delle politiche e delle trasformazioni della
società dettate fondamentalmente dal capitale.

Si riconoscono 4 macro-gruppi di teorie sullo sviluppo.


- La teoria della modernizzazione
Nasce immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale. Lo sviluppo è una condizione naturale
che in alcuni casi è stata arrestata (come conseguenza della guerra) e grazie all’aiuto degli Stati
Uniti è possibile riprendere questo percorso naturale. Teoria della modernizzazione. Il
sottosviluppo è una condizione che può essere superata, copiando quello cha ha fatto gli Stati Uniti
(o Russia, nel modello sovietico). Massiccia industrializzazione, sviluppo economico, blocco
capitalista guidato dal capitale (nel blocco socialista, piano quinquennale guidato dallo Stato).
Questo primo paradigma di sviluppo crolla negli anni Sessanta. Proprio in questo periodo iniziano a
manifestarsi problemi in America Latina: la sua economia aveva seguito fedelmente la teoria della
modernizzazione (massiccia industrializzazione), ma senza ottenere i risultati sperati, perché
mancava la classe media che potesse acquistare i beni che venivano prodotti.
Ciò evidenzia l’inconsistenza delle tesi moderniste e delle strategie di sviluppo proposte, facendo
crollare la fiducia nella modernizzazione come motore di sviluppo.

A questo punto, data la sfiducia per il paradigma modernista nasce una nuova visione critica di
stampo marxista.
La teoria della dipendenza (o dependencia, perché nasce in America Latina)
Si diffonde intorno agli anni 70 e pone la sua attenzione sullo sfruttamento delle ex colonie da
parte delle madrepatrie. Il motivo che loro vedono dietro il mancato sviluppo è il legame con l’ex
madrepatria che li continua a mantenere soggiogati dentro regole troppo restrittive. Le potenze
coloniali non hanno realmente contribuito a sviluppare una classe culturalmente preparata a
guidare il Paese nella fase post decolonizzazione.
Tra i teorici della dipendenza troviamo Samir Amin che ritiene che l’unico modo per slegare dai
lacci delle ex colonie sia quello di attuare il delinking, eliminando qualsiasi tipo di rapporto
economico con i Paesi ex madrepatrie, i quali continuerebbero ad essere responsabili della
condizione di povertà delle ex colonie.

Questa visione è stata nel corso degli anni 80 sconfessata dalla crescita economica dei NIC: Newly
Industrialized Countries. Paesi del sud-est asiatico (Singapore, Malesia, Hong Kong e Taiwan), che
legandosi sempre di più al mondo tecnologico delle economie più avanzate hanno visto un’enorme
crescita economica. Si tratta di un chiaro esempio di confutazione della teoria della dipendenza.

Le teorie neoclassiche
Si affermano negli anni ’80 e ’90. Sono le teorie all’interno delle quali si sviluppano le teorie di
aggiustamento strutturale (per il debito estero).
Riconoscono come principale problematica la corruzione e l’esistenza di un apparato statale
eccessivo, che deve essere smantellato. Ci sono studiosi che promuovono l’idea della
privatizzazione. Sono teorie che hanno trovato grandissimo seguito e che sono ancora oggi le
teorie dominanti, perché tutte le politiche di aiuto internazionale si inquadrano dentro le politiche
di sviluppo neoliberiste, ossia neoclassiche (taglio delle spese statali, privatizzazione, investimento
statale nelle politiche di riduzione della povertà, prestiti internazionali).

Sono tre teorie mainstream: modernizzazione, dipendenza e neoclassica.


A questa si aggiunge un altro gruppo: le teorie alternative.

Lunedì 26/10/2020

(Nel manuale di Grandi la suddivisione delle teorie dello sviluppo è leggermente diversa: teorie
mainstream, teorie alternative e teorie post-sviluppiste. Alcuni autori includono le teorie post-
sviluppiste nelle teorie alternative.)

Le teorie alternative
Durante gli anni ’90 sono emerse nuove riflessioni sulle teorie dello sviluppo, a seguito
dell’evidenza dell’incapacità delle teorie mainstream di spiegare il sottosviluppo e di proporre
soluzioni concrete.

Sono teorie molto diversificate tra di loro che prendono in considerazione temi diversi e
discordanti: il ruolo della società civile e delle ONG (Associazioni Non Governative); la giustizia e la
democrazia; l’ambiente; lo sviluppo locale (bottom-up: partenza dal basso, ossia inclusione delle
popolazioni locali; i movimenti dal basso possono divenire strumenti che vanno ad impattare le
scelte dei governi. Il bottom-up nasce come teoria alternativa, ma ad oggi ha un’importanza
dominante all’interno delle politiche di sviluppo.) e le comunità locali; sviluppo sostenibile (che
oggi è diventato mainstream).

Tutti questi temi confluiscono nel gruppo delle teorie alternative, molte delle quali non hanno
grande seguito nel mondo accademico e tuttavia stanno conoscendo grande attenzione da parte
dell’opinione pubblica.

Alcuni esempi di teorie alternative

Movimento della decrescita di Latouche


Latouche sostiene che bisogna uscire da un’ottica di continua crescita economica. Il suo concetto
di decrescita è da intendere più come una acrescita: un’assenza di corsa frenetica verso la crescita
degli indicatori economici.
Il tema centrale della sua riflessione è il benessere degli individui, che si raggiunge rallentando,
producendo meno e consumando meno.
Il concetto di decrescita secondo Latouche quindi non è da intendersi come un passo indietro ed
un impoverimento, ma anzi uno sfruttamento di quei servizi realmente fondamentali, lasciando
indietro quei servizi superflui.
È critico verso il termine “sviluppo sostenibile”, considerato un ossimoro che non si può realmente
realizzare. Latouche parla di tossicodipendenza da crescita.

La produzione letteraria di Latouche si focalizza su alcuni nodi tematici: tossicodipendenza da


crescita, ossia un bisogno spasmodico sopratutto della società occidentale di consumare.
Come si è passati da una società frugale ad una società di consumo?
La pubblicità (che crea insoddisfazione e ci fa credere di avere costantemente bisogno di qualcosa),
il credito (avere accesso ad una possibilità di spesa al di fuori del nostro limite monetario mensile
ci porta a pensare al consumo con leggerezza), obsolescenza programmata (una scelta della
produzione che fa in modo che i beni tecnologici deperiscano molto rapidamente o si rompano;
una sorta di rottura programmata, che fa sì che i consumatori abbiano bisogno di comprare nuovi
oggetti).
Latouche lotta contro questi tre fattori, mettendoli in relazione al limite (etico) che ognuno di noi
travalica ogni volta che acquista beni superflui.

Il circolo virtuoso: le otto “R”


Come risolvere il problema della povertà e dell’eccessiva pressione della popolazione
sull’ambiente. Individua otto azioni virtuose che contribuiscono a trasformare la società da una
società dei consumi ad una società della decrescita.
Rivalutare
Riconcettualizzare: il cambiamento dei valori dà luogo ad una visione diversa del mondo. Occorre
ridefinire concetti come ricchezza/povertà, rarità/abbondanza.
Ristrutturare
Ridistribuire
Rilocalizzare
Ridurre
Riutilizzare/Riciclare

Un’utopia concreta
La sua teoria ha subito grandi critiche.
Latouche non propone di smettere di produrre o tornare indietro ad una vita agreste; propone di
rallentare, di concentrarsi sulla produzione di beni utili, di strumenti tecnologici sempre più
avanzati che possano ridurre la pressione del lavoro sulle popolazioni. Ha un concetto di sviluppo
legato alla gestione del tempo del lavoro.
Abbassare il prelievo di risorse.

Latouche chiama questo suo mondo un’utopia concreta: proposta utopica, ma realizzabile.
Questo suo progetto di sviluppo non si è mai tradotto in un progetto politico.

Latouche ha inoltre un’avversione nei confronti dei viaggi.


Il viaggio (soprattutto in aereo) è un elemento da eliminare: è una forma di consumo del territorio
altamente inquinante ed è un bisogno non necessario, che deriva da una società contemporanea
che è diventato sinonimo di benessere e di acquisizione di conoscenza.

La seconda proposta alternativa è il Transition Town Movement (Movimento della transizione).


Nasce nel primo decennio del 2000 in due piccole cittadine dell’Irlanda e Regno Unito.
Il docente Hopkins e i suoi studenti fanno proposte per abituare la società attuale ad una vita
futura senza combustibili fossili.

Alcuni concetti da prendere in considerazione.


Governance e partecipazione: la governance è uno strumento di governo territoriale basato sulla
partecipazione della popolazione. È una forma di governo più diretto nella quale le popolazioni
sono parte attiva, perché ciascuna persona può dare un proprio contributo a seconda delle proprie
abilità. Questo è un approccio tipico dei movimenti dal basso: la popolazione viene coinvolta nel
processo decisionale (decision making).
Comunitarismo: concetto sviluppato all’interno della filosofia dell’anarchico americano Bookchin.
Partecipazione delle popolazioni nel processo decisionale delle scelte territoriali. Bookchin è stato
un pensatore fondamentale per strutturare concettualmente la relazione tra globalismo (governo
nazionale) e comunitarismo (governo dal basso attraverso le comunità).
Resilienza
Capacità di qualsiasi sistema (anche di una comunità) di resistere e di mantenere il proprio
funzionamento nonostante un cambiamento o uno shock esterno.
Ritornando nella sua posizione iniziale o sviluppando forme di azione territoriale che portano ad
individuare una nuova posizione di equilibrio (individuando gli impatti dallo shock).

Lo shock che si prevede per il futuro è quello della fine del petrolio.
Hopkins professore insieme ai suoi studenti comincia a studiare i possibili scenari che si verranno a
creare una volta terminato il petrolio.
È una strategia di progressivo adattamento e di una progressiva resilienza, perché è certo che in un
momento del futuro il petrolio cesserà di essere disponibile sul pianeta.

Concetti chiave:
Petrolio: sostanza biologica depositata sui fondali oceanici tra 150 e 90 milioni di anni fa. Deriva
dallo zooplancton e dalle alghe preistoriche (micro organismi animali e vegetali). Questo materiale
viene sottoposto a pressioni talmente elevate da trasformarsi in petrolio. Circa 4 litri di petrolio
contiene l’equivalente di 98 tonnellate di materiale organico originale.
Intervallo petrolifero: estensione temporale durante la quale la società umana ha scoperto il
petrolio e l’ha introdotto nei propri sistemi di produzione. È un periodo di circa 200 anni.
Picco di petrolio: il momento in cui si raggiungerà la massima estrazione di petrolio a scala globale.
È un momento impreciso, perché non possiamo sapere con esattezza quando verrà raggiunto. Si sa
che in un determinato momento (del passato o del futuro) verrà estratta dalla Terra la maggior
quantità di petrolio. Dopo questo picco si avrà una discesa nei processi estrattivi, cioè la società si
avvierà verso un declino nell’accessibilità e disponibilità del petrolio.
Il professore Hopkins e i suoi studenti vogliono creare consapevolezza tra la popolazione del
cambiamento climatico e della scarsità di petrolio come fattori che domineranno la vita della città
nel breve-medio termine. Per questo motivo pensano che se si comincerà a costruire una società
senza petrolio solo nel momento in cui il petrolio sarà finito, ci troveremo in una società
completamente disagiata. Preparare la società ad un mondo senza petrolio, ma
contemporaneamente è un progetto che cerca di cambiare culturalmente il tipo di società
costruita dopo la Seconda guerra mondiale (società neoliberista, dei consumi) per introdurre una
società in cui i consumi vengono ridotti e vengono riscoperti valori propri della vita contadina.
La soluzione è costruire fin da ora processi per aiutare le popolazioni a vivere in una società che
vedrà mancanza di petrolio.
Questa è l’idea su cui si base la teoria della transizione, che si basa sulla decarbonizzazione totale
della società non attraverso l’uso di tasse, ma del cambiamento radicale del comportamento
radicale.
Questo progetto si base sul concetto di governance e comunitarismo: avviene ad una scala
territoriale piccola ed è portato avanti da piccole e grandi cittadine, dove si formano gruppi di
sensibilizzazione che progressivamente si allargano finché l’amministrazione comunale,
provinciale, regionale non comincia ad introdurre strumenti legislativi e istituzionali che vadano in
questa direzione.
Le azioni che vengono realizzato dalle città in transizione sono fortemente correlate con l’idea di
comunitarismo, acquisendo una forte connotazione ambientale.
Tra le strategie: consumare cibo prodotto localmente, creare orti cittadini, creare monete locali,
ridurre il consumo energetico e introdurre nuove forme energetiche, realizzare azioni di buona
vicinanza (es: banca del tempo, GAS…).
In parte combacia con il concetto di Latouche di acrescita.

Lo sviluppo sostenibile
Nasce come teoria alternativa, ma è diventata oggigiorno una parte fondamentale anche delle
politiche neoliberiste mainstream.
Latouche critica la parola “sostenibile”, che sarebbe diventata una parola di cui si è appropriato il
capitale.

Breve storia dell’ambiente nella teoria economica

• Fisiocratici (Francia)
Percepiscono la natura come qualcosa a disposizione delle comunità umane: una madre
amorevole. Si riconosce l’importanza della natura, ma non la finitezza delle sue risorse.

• Economisti classici (Inghilterra)


Caratterizzati da un approccio ottimistico all’infinita disponibilità di risorse naturali e dall’idea che il
surplus sia creato dal lavoro dell’uomo favorito dal progresso tecnologico. Approccio ottimistico
all’infinita disponibilità di risorse naturali.

Breve storia dell’ambiente nella teoria economica

Il primo pessimista: Thomas Malthus (1798)


• Limiti alimentari imposti ad una società in crescita demografica
• L’agricoltura, prima o poi, non potrà produrre surplus a sufficienza per tutta la popolazione
• Le risorse naturali sono finite
• Soluzioni: controllo delle nascite

Economisti neoclassici (fine XIX sec)


• Ambiente = esternalità rispetto all’economia, da usare senza troppa preoccupazione. L’ambiente
è una risorsa illimitata
• Pigou (1920) è stato il primo a parlare di esternalità negative, causate dall’inquinamento (costo
relativo alla gestione economica dell’inquinamento).

Economia dell’ambiente (Anni ’60-’70 del XX sec)


• Attenzione alle problematiche ambientali sempre più diffuse
• Diverse pubblicazioni mettono in relazione l’economia con l’inquinamento (costi-benefici),
seguendo il discorso già introdotto da Pigou sulle esternalità negative
• Quali soluzioni? Tasse pigouviane, secondo il “polluter pays principle”

• L’economia dell’ambiente ha prodotto due modelli economici in relazione all’ambiente:


Modello del Cow-boy: di fronte alla conquista del West americano, l’uomo crede di avere a
disposizione uno spazio infinito, con risorse infine da utilizzare.
Modello della Navicella spaziale: su un’astronave gli uomini hanno risorse ed energie limitate, da
risparmiare e riciclare.

Economia ecologica (anni ’80 del XX secolo)


• Nuovo approccio multidisciplinare, o olistico, ai problemi ambientali, in relazione allo sviluppo
• Punto di partenza: complessità del mondo vivente costruito dall’interrelazione tra attività umane
e ambiente naturale
• L’economia ecologica rientra nel filone di studi sistemici che in campo geografico ha prodotto la
geografia sistemica

La leggi dell’entropia negli studi ambientali:


• Georgescu-Roegen (1971): “The entropy law and the economic process”: applicazione delle leggi
della termodinamica allo studio del mondo economico.
1a legge: nulla si crea e nulla si distrugge
2° legge: un sistema isolato tende inesorabilmente a passare da uno stato di ordine ad uno di
disordine (es: diminuzione di risorse e aumento di rifiuti): irreversibilità dei fenomeni.
Società e ambiente naturale sono interrelati

Sviluppo sostenibile come nuova teoria di sviluppo


• Dall’economia ecologica e dalla geografia è sistemica è scaturito il progetto dello sviluppo
sostenibile, l’ultimo modello di sviluppo che supera tutte le teorie precedentemente create
inserendo il tema dello sviluppo in un discorso più ampio, multidisciplinare e multitematico.

Cos’è la sostenibilità?
• È un paradigma di sviluppo, un’ideologia, che integra aspetti economici, sociali e ambientali.
• Obiettivi:
- Miglioramento condizioni di vita delle popolazioni
- Mantenimento degli ecosistemi
• Aspirazione globale

Sostenibilità Debole e Sostenibilità Forte


• Sostenibilità Debole: le risorse naturali esaurite possono essere sostituite da altre prodotte
dall’uomo
• Sostenibilità Forte: le risorse naturali non possono essere sostituite

Principio di PRECAUZIONE  non si possono prevedere gli effetti sull’ecosistema terrestre


derivanti dalla perdita delle risorse

Sviluppo Sostenibile: i principi

Lo sviluppo sostenibile ha 3 principi di base.


• Integrità dell’Ecosistema: si costruisce con un uso limitato delle risorse naturali non rinnovabili,
un uso di risorse rinnovabili che sia compatibile con il loro tasso di rigenerazione e l’imposizione di
un limite della quantità di rifiuti che vengono immensi nell’ambiente naturale.
• Efficienza dell’Economia: massimizzazione dei profitti. All’interno dello sviluppo sostenibile la
massimizzazione dell’economia si ha quando si minimizza il consumo di risorse naturali non
rinnovabili. Le risorse non rinnovabili sono quelle che in tempi rapidi non possono essere
ricostituite.
• Equità Sociale: aspetto innovativo dello Sviluppo Sostenibile.
Si parla per la prima volta del benessere degli individui, che si costruisce su due livelli:
intragenerazionale (pari diritto di tutti i popoli della Terra di partecipare allo sviluppo; pari accesso
a risorse e servizi) e intergenerazionale (diritto delle generazioni future di usufruire delle stesse
risorse disponibili alla generazione presente).
Momenti importanti all’interno della riflessione sullo Sviluppo Sostenibile.

Anni ’70: due avvenimenti importanti che hanno contribuito all’istituzione del concetto di Sviluppo
Sostenibile.

• Viene redatto il rapporto “I limiti dello sviluppo”, che è stato redatto dall’MIT di Boston su
richiesta del Club di Roma (associazione costituita da scienziati, politici, ecc) che osservano le
problematiche ambientali e commissionano un rapporto che studiasse la relazione tra risorse
naturali e benessere della società.
In questo rapporto si applicano per la prima volta delle teorie neo-malthusiane. L’idea di base è
che le risorse naturali sono finite e che la crescita demografica inciderà negativamente sul loro
consumo.
Nonostante un potere di calcolo altamente avanzato per l’epoca, questo rapporto si è dimostrato
fasullo, perché non è avvenuto realmente quanto si era predetto (vale a dire il momento in cui
sarebbero finite le risorse naturali), perché non avevano inserito all’interno dell’algoritmo la
possibilità di rinvenire nuovi giacimenti e nuove disponibilità di risorse, ma si sono basati
esclusivamente sulla quantità disponibile all’epoca.
Si tratta di un rapporto importantissimo, che per la prima volta ha posto agli scienziati la questione
della relazione della crescita demografica e della disponibilità di petrolio.

• Conferenza di Stoccolma “Man and his Environment”: si affrontava la problematica della


relazione dell’uomo e dell’ambiente naturale. Ha avuto il grande merito di portare all’opinione
pubblica le tematiche sui problemi ambientali.
La Dichiarazione di Stoccolma: grande attenzione mediatica su questi temi (uso e conservazione di
risorse naturali, lotta all’inquinamento, sviluppo economico e sottosviluppo, pianificazione
ambientale, ricerca scientifica ed educazione, cooperazione tra Stati e diritto internazionale).
La conferenza di Stoccolma è considerata la prima accettazione globale che sviluppo e ambiente
sono legati intrinsecamente.

Anni ’80

Nel 1980 viene pubblicato il World Conservation Strategy che unisce gli obiettivi per la gestione
sostenibile del pianeta ad una definizione di sviluppo.
Nel 1983 l’ONU predispone la nascita di una commissione (la World Commission on Environment
and Development) presieduta dalla prima ministra della Norvegia, con il compito di studiare la
relazione tra deterioramento dell’ambiente e delle risorse naturali e le conseguenze sullo sviluppo
economico e sociale.
Nel 1987 questa stessa commissione pubblica il Rapporto Brundtland (dal nome della prima
ministra norvegese) “Our Common Future”, in cui per la prima volta si dà una definizione di cosa
sia lo sviluppo sostenibile. Si parla anche degli obiettivi dello sviluppo sostenibile e degli ostacoli
alla sua realizzazione.

Lo sviluppo sostenibile è un tipo di sviluppo che soddisfi i bisogni del presente, senza
compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.
Concetti di equità inter e intra generazionale.

I due elementi innovativi di questo rapporto:


• Concetto di bisogni, sopratutto dei bisogni essenziali della popolazione più povera del pianeta a
cui va data priorità assoluta. È un elemento di grande innovazione: mai prima di allora era stata
presa in considerazione la responsabilità della generazione presente nei confronti delle
generazioni future.
• Limiti, intesi come le limitazioni imposte in primis dell’ambiente naturale, ma anche limiti
tecnologici e sociali che vengono posti all’avanzamento della conoscenza e all’implementazione
delle politiche di sviluppo sostenibili.

Questo rapporto riconosce anche tre ostacoli principali alla realizzazione dello sviluppo sostenibile
a scala globale:
dipendenza dai combustibili fossili
esplosione demografica dei Paesi del Terzo Mondo (dove non c’è un controllo sulle nascite; in
futuro la popolazione attuale raggiungerà i 9 miliardi di individui, 8 miliardi dei quali si troverà nei
Paesi meno avanzati economicamente)
inadeguatezza istituzionali: mancanza di un organismo sovranazionale che monitorasse
l’avanzamento delle politiche di sviluppo sostenibile e la loro applicazione nei vari Paesi

Giovedì 05/11/2020

Anni ’90
Oltre alla pubblicazione di una strategia per la salvaguardia della natura, i veri momenti fondativi
sono due:

• Nel 1992 si tiene a Rio de Janeiro (città di un PVS) la seconda conferenza mondiale su uomo e
ambiente. La prima è stata a Stoccolma nel 1972.
Vengono redatti 5 documenti:
Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo
Agenda 21
Dichiarazione sulla Biodiversità: ha l’obiettivo di sviluppare strategie nazionali per la conservazione
e l’utilizzo sostenibile della diversità biologica.
I Principi sulle Foreste per la salvaguardia del patrimonio forestale.
L’idea originaria era quella di firmare una Convenzione che, una volta firmata, avrebbe impegnato i
Paesi ad attuare delle leggi finalizzate a tutelare le foreste. Tuttavia, due Paesi si sono opposti a
questa convenzione, in quanto fortemente dipendenti dalle risorse forestali per il proprio sviluppo
economico: Brasile ed Indonesia.
Data questa opposizione, è nato un testo di intenti che riconosceva l’importanza di tutelare le
foreste, ma che non ha alcun valore legale. Esempio di fallimento della governance ambientale
globale, dovuta al peso politico che questi due Paesi hanno avuto all’interno di una discussione
globale.

Dichiarazione sui Cambiamenti Climatici: firmata una convenzione

Nel 1997: Conferenza di Kyoto


Il Protocollo di Kyoto è una strategia politica che deriva da un impegno preso a livello globale
durante la Conferenza di Rio nel 1992.

La Conferenza di Rio
Riemerge il tema del rapporto problematico tra ambiente e sviluppo.
L’obiettivo è affrontare la risoluzione delle questioni ambientali più importanti, quali esaurimento
delle risorse, riscaldamento globale, lotta all’inquinamento, protezione del patrimonio forestale,
del patrimonio marino e della biodiversità naturale.

172 nazioni presero parte a questa conferenza, che ebbe una forte risonanza mediatica. Per la
prima volta i media furono abbondantemente presenti nel testimoniare che il problema non
riguardava più solamente una piccola parte di esperti in campo, ma l’intera popolazione mondiale.
Ciò che emerse da questa conferenza è che solo una trasformazione degli atteggiamenti e dei
comportamenti dell’umanità può produrre i cambiamenti necessari a limitare i danni ambientali.
Interazione e cooperazione fra diversi governi.

Nel corso di questa conferenza sono stati redatti 5 documenti:

Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo: dichiarazione di intenti firmata dai Paesi
partecipanti basato su 27 principi.

• Ruolo centrale dell’uomo nello sviluppo sostenibile


• Riconosce il diritto degli Stati di sfruttare le proprie risorse: può sembrare contraddittorio, in
quanto lo sfruttamento delle proprie risorse naturali spesso porta ad inquinamento. Tuttavia,
bisogna ricordare che la protezione dell’ambiente necessariamente non può escludere un diritto di
sfruttamento. Altrimenti gli Stati perderebbero una parte importante delle proprie entrate.
Si vuole promuovere uno sfruttamento sostenibile, in modo tale che il patrimonio non risenta dello
sfruttamento. Per esempio, quando si taglia un albero se ne pianta subito un altro. Continua
sostituzione delle risorse che vengono sfruttate.
• Creazione di leggi ambientali per ridurre l’inquinamento: “Polluter pays Principle” (l’inquinatore
paga). Si tratta di un principio assolutamente innovativo, che per la prima volta sanziona il grande
capitale nelle sue produzioni industriali (principale inquinatore).
• Inserimento di donne e popolazioni indigene nelle politiche di sviluppo, nella chiave di riduzione
della povertà.
• Interdipendenza e indivisibilità di pace, sviluppo sostenibile e tutela ambientale.

Agenda 21

Piano d’azione globale per raggiungere la sostenibilità nel Ventunesimo secolo.


Indica le linee guida attraverso le quali costruire la sostenibilità globale, attraverso un approccio
multilivello, cioè ammette diversi livelli di intervento (globale, sovranazionale, nazionale, locale).
La città di Ferrara è stata la prima città a proporre un proprio piano di sviluppo locale che si rifà
all’Agenda 21.
L’Agenda 21 offre un approccio olistico ai problemi ambientali globali considerando
congiuntamente problemi precedentemente considerati separatamente (politiche economiche e
sociali, politica e ambiente).

(Approccio olistico ai problemi ambientali: gestione dei problemi ambientali che non si concentri
su un singolo problema, ma che inserisca la singola problematica all’interno di un quadro più
ampio. Riconosce l’interdipendenza e la complessità di un fenomeno.
Esempio della correlazione tra Coronavirus ed inquinamento: gli abitanti delle zone più inquinate
hanno un sistema respiratorio più debole.
Inoltre, le zone più inquinate sono anche le zone ad insediamento più denso).

Anni 2000

• Nel 2000 nasce la Dichiarazione del Millennio e Obiettivi del Millennio per lo sviluppo

• Nel 2001 l’UNESCO firma l’Universal Declaration on Cultural Diversity grazie al quale la diversità
culturale viene per la prima volta considerata un importante fattore di sviluppo.

• Nel 2002 viene indetta una nuova conferenza a Johannesburg (Rio + 10)
I temi chiave sono l’acqua, sanità e igiene per tutti, energia, salute, protezione dell’ambiente
naturale, gestire la globalizzazione, modelli di produzione e di consumo (!), l’Africa.

• Nel 2012 abbiamo un’altra conferenza a Rio: The future we want (Rio + 20)
Queste conferenze hanno avuto una grandissima attenzione mediatica, grazie ad internet e ai
social media.
Temi principali: rinnovare l’impegno allo sviluppo sostenibile, valutazione delle lacune, riconoscere
e affrontare le nuove sfide.

• Nel 2015 è stata avviata l’Agenda 2030 come nuovo piano di sviluppo globale.

(Movimento grass-root: movimento dal basso, che muove grandi masse di popolazione sopratutto
grazie all’uso di social media. Un esempio è il movimento Friday for Future di Greta Thunberg).

Lezione 6.1
Uomo, ambiente e sviluppo
Parte 1: Risorse naturali

Alcune definizioni
Ambiente è l’insieme di elementi naturali caratterizzato da 2 componenti: una vivente, (biotica) ed
una non vivente (abiotica), formata da elementi solidi (litosfera, cioè il suolo), gassosi (atmosfera)
e liquidi (idrosfera).
Ecosistema: insieme degli organismi viventi e dei fattori abiotici presenti in un dato ambiente, e
delle relazioni che legano tali elementi. Fa riferimento allo scambio tra questi elementi: è un
concetto più ampio rispetto a quello di ambiente.
Biodiversità: caratteristica data dalla ricchezza della componente biotica. Varietà di specie,
ecosistemi e geni. La varietà genetica è fondamentale per il benessere di un ecosistema, perché in
assenza di essa una specie non è più in grado di riprodursi.
Capacità di carico: numero massimo di individui di una specie o di organismi che un ecosistema
può sostenere senza essere distrutto. Ogni ecosistema ha una certa capacità di carico che gli
consente di garantire la sopravvivenza ad un certo numero di individui per ogni specie. Se questo
numero viene superato, l’ecosistema si degrada e di conseguenza questo peggiora la qualità di vita
delle specie.
Preservazione: severa protezione di un’area e della sua flora e fauna. L’approccio di preservazione
impedisce l’intervento dell’uomo e alcun uso delle risorse naturali.
Conservazione: un ecosistema viene protetto senza allontanare l’uomo, ma integrando l’esistenza
degli esseri umani all’interno dell’ecosistema. Le attività umani sono permesse purché avvengano
in misura sostenibile. Si pone quindi maggiore attenzione alle necessità umane: è concesso un
utilizzo sostenibile delle risorse per assicurare il benessere presente e futuro dell’uomo.

Le riserve naturali sono un esempio di tutela ambientale.


In Italia e nella maggior parte dei Paesi europei l’approccio che si predilige è quello di
conservazione. Quando si stabilisce che un’area va protetta, le comunità vengono integrate
all’interno dell’area che proseguono le proprie attività agricole.
Le riserve integrali sono zone che tutelano risorse naturali inserite in un ecosistema fragile, ad
esempio una risorsa in via di scomparsa (es. specie animale). In questo caso si predilige l’approccio
di preservazione.
In generale, quindi, nel mondo occidentale troviamo prevalentemente aree a conservazione,
all’interno delle quali possiamo trovare piccole aree a preservazione.
Nei PVS, invece, le aree a tutela ambientale sono preservative (es. parchi naturali in Africa).

Perché è importante l’Ambiente Naturale?

Perché produce risorse naturali utili all’uomo (cibo, medicine, vestiti…), alcune delle quali ancora
non conosciamo. Quindi ci fornisce di risorse di base.
Accoglie i nostri rifiuti, benché con limiti (capacità di carico dell’ecosistema).
Ci consente di ricrearci e svagarci.
È un bene estetico (paesaggio) per tutta l’umanità, anche in chiave turistica e di promozione del
territorio.

Valore delle Risorse Naturali

• Valore d’uso, ossia un valore economico. Esso può essere legato ad uno sfruttamento diretto
(tradizionale come agricoltura, pastorizia, estrazione di risorse e non tradizionale, come il turismo)
o indiretto.
L’uso indiretto è legato al valore potenziale delle risorse naturali: preservare la natura per uno
sfruttamento futuro. Ad esempio, perché al momento l’uomo non è in grado di sfruttarle a causa di
mancanza di tecnologia (es: petrolio in zone difficili da trivellare).
È legato all’importanza di riconoscere che ci sono risorse naturali che potenzialmente possono
essere molto importanti per la società, anche se al momento attuale non siamo in grado di
sfruttarle. Quando si parla di tutela dell’ambiente questo è un aspetto fondamentale, perché
significa lasciare zone naturali incontaminate per preservare piante che in un futuro potrebbero
darci risorse preziose.
• Valore di non uso, legato al valore culturale e spirituale, che lega una comunità al proprio
territorio. In società poco avanzate economicamente questo aspetto è ancora radicato (es: foreste
sacre): non è un valore monetario, ma rappresenta l’identità comune.

Risorse rinnovabili e non rinnovabili (non solo energetiche!)

(Vento e Sole sono esempi di risorse energetiche rinnovabili: non implicano utilizzo di combustibili
fossili e si riproducono.
Le risorse energetiche non rinnovabili sono quelle legate ai combustibili fossili).
• Risorse rinnovabili: risorse naturali (materie ed energie) che vengono reintegrate naturalmente
in un periodo di tempo relativamente breve: per caratteristiche naturali o per effetto della
coltivazione dell’uomo (es: piantare alberi), si rinnovano nel tempo e risultano disponibili per la
sopravvivenza umana pressoché indefinitamente.

La vegetazione (foreste, piante, alghe), il suolo e l’acqua sono risorse potenzialmente rinnovabili.
Bisogna però fare alcune considerazioni.
Lo sfruttamento intensivo del suolo sul lungo termine lo rende sterile e lo impoverisce, con
conseguenza di dover introdurre l’uso di fertilizzanti chimici per garantirne la fertilità.
Anche l’acqua, secondo il proprio ciclo vitale (evaporazione e ricostituzione sottoforma di acqua), è
una risorsa rinnovabile. Tuttavia, la disponibilità di quantità di acqua potabile rischia di diminuire, a
causa della contaminazione di acqua dolce da parte di attività industriali ed agricole.
Concludiamo che lo sfruttamento eccessivo da parte dell’uomo delle risorse rinnovabili potrebbe
renderle non rinnovabili con il passare del tempo.

• Risorse non rinnovabili: risorse naturali (materie ed energie) che derivano da risorse che tendono
ad esaurirsi sulla scala dei tempi umani, diventando troppo costose o troppo inquinanti per
l’ambiente.

Le risorse energetiche (da Pianeta in riserva)


Possono essere suddivise in tre grandi categorie:

Fossile: non rinnovabili e sottoposte alla preoccupazione delle prospettive di esaurimento dei
giacimenti e del grande dispendio energetico necessario all’estrazione. Attualmente l’80% di
energia prodotta globalmente proviene da fonti non rinnovabili.
Nucleare: potrebbe essere una soluzione al problema energetico mondiale, ma presenta anche
aspetti negativi, quali costo e smaltimento delle scorie. Attualmente fornisce circa il 6%
dell’energia usata globalmente. Lo classifichiamo come energia non rinnovabile.
Rinnovabile: sorgente energetica alternativa pulita ed inesauribile.
Attualmente fornisce circa il 13% di energia.

Energia nucleare
PRO CONTRO
Piccole quantità di combustibili sono in Costi di realizzazione e payback time, ossia
grado di produrre grandi quantità di il tempo in cui l’investimento iniziale viene
energia. ammortizzato. Si tratta di un tempo molto
(Il materiale che serve per produrre energia lungo: le centrali nucleari hanno costi di
nucleare, ossia l’uranio, viene estratto dal realizzazione molto elevati e il payback time
suolo. Ha perciò anch’esso una quantità può arrivare fino a 40 anni
finita. Il motivo per cui viene spesso inserito
tra le risorse rinnovabili è che è necessaria
una piccola quantità di materia prima per
produrre grande quantità di energia. Si
pensa perciò che l’uranio disponibile sul
pianeta potrà bastare all’uomo per il
futuro.)

È come se fosse una risorsa rinnovabile, Incidenti (Chernobyl, Ucraina - 1986;


perciò è una risorsa inesauribile (?) Fukushima, Giappone - 2011)
Presenta minori problemi di Approvvigionamento uranio e altri
approvvigionamento del combustibile (?) combustibili nucleari (controllo risorse!)
Investire nel nucleare potrebbe avere un Connessione con industria bellica, perché le
impatto positivo sull’occupazione e scorie di plutonio potrebbero essere
sull’economia di un Paese utilizzate per produrre armi
La fissione nucleare non produce gas serra. Obsolescenza reattori: incidente di
Nel periodo di funzionamento della Fukushima
centrale, l’energia prodotta non deriva da
una combustione; tuttavia, nel periodo di
costruzione della centrale viene prodotto
gas serra (trasporti camion, ecc…)
Gestione delle scorie e della tossicità

Mappa che indica dove si collocano le principali riserve di petrolio sul pianeta: zone che sono (o
sono state) al centro di conflitti armati.
Le risorse energetiche rinnovabili devono prendere il posto di carbone, nucleare, gas e petrolio per
evitare l’aggravarsi del riscaldamento globale e l’inasprirsi di conflitti geopolitici per il controllo
delle scorte rimaste di combustibili fossili.

I biocarburanti

Spesso indicati come soluzione al problema dell’inquinamento.


Sono combustibili naturali prodotti attraverso la trasformazione di sostanze di origine biologica.
Attualmente la ricerca si concentra principalmente su bioetanolo e biodiesel.
Nascono dalla fermentazione di prodotti agricoli come frutta, patate, cereali (mais, sorgo,
frumento e orzo), canna da zucchero e barbabietola oppure olii vegetali. Il composto che si ottiene
può essere miscelato fino al 30% alla benzina tradizionale.
È un settore in forte crescita: l’Unione Europea è uno degli investitori mondiali principali nel
settore dei biocarburanti.
Come conseguenza dell’aumento del prezzo del petrolio a causa della diminuzione delle sue
scorte, si sta investendo sempre più nel settore dei biocarburanti.

C’è inoltre un interesse globale verso le questioni ambientali: diminuire l’uso di combustibili fossili
riduce le emissioni di gas serra. I biocarburanti, provenendo da fonti rinnovabili, sembrano
provocare un minor impatto sull’ambiente.
Sebbene anche le piante emettano anidride carbonica quando vengono tagliate e bruciate per
ottenere biocarburante, esse compensano queste emissioni con il fatto che durante la loro vita
vegetativa come piante hanno catturato anidride carbonica e prodotto ossigeno (fotosintesi
clorofilliana). È stato stimato che la quantità di anidride carbonica che le piante emettono in fase di
combustione è equivalente alla quantità di ossigeno che ogni pianta emette nell’atmosfera
durante la propria fase vegetativa.

Biocombustibili in Africa

Come conseguenza a tutto ciò, molte multinazionali e investitori stranieri hanno iniziato a ricercare
vasti territori dove coltivare le materie prime necessarie per la produzione di biocarburanti (canna
da zucchero, mais, patate, colza, soia).
Il continente che ha suscitato maggior interesse per condizioni climatiche favorevoli e grande
disponibilità di terreno (a basso costo) è l’Africa.

Il territorio africano possiede vasti terreni che non sono ancora stati destinati alla produzione
agricola e questo attira ulteriormente l’attenzione delle multinazionali straniere, che si
appropriano dei territori utilizzando spesso forme di inganno.
Acquistano terreni da contadini poveri, spesso analfabeti, che vengono di fatto espropriati dal
proprio terreno.
Questo fenomeno negativo prende il nome di Land grabbing.

Land grabbing

La presenza di multinazionali sul territorio africano può avere effetti positivi sulla vita delle
popolazioni locali dell’Africa sub-sahariana, sopratutto grazie alla creazione di nuovi posti di lavoro.
Tuttavia, non sempre le popolazioni locali sono adeguatamente informate sui progetti che le
compagnie private intendono compiere e l’acquisizione delle terre può avvenire senza il loro
consenso: stavolta, i piccoli proprietari terrieri (contadini analfabeti) vengono forzatamente
sfrattati, trovandosi costretti a cercare altre terre in cui vivere.

Impatti positivi della produzione a piccola scala (di biocarburanti)

La produzione di biocarburanti su piccola scala potrebbe fornire un contributo economico


importante per le comunità locali povere: i contadini rimangono gli unici proprietari delle proprie
terre e destinano solo una parte dei loro campi alla produzione di biocarburanti.
In questo modo si genera un reddito supplementare per le popolazioni locali e si garantisce loro
autonomia energetica.

Impatti negativi della produzione a grande scala


La produzione di biocombustibili su larga scala, cioè a livello internazionale e finalizzata
all’esportazione, non aiuta le comunità locali a ridurre la povertà.
Ricaduta di tipo socio-economico: se le compagnie straniere sfruttano i terreni (convertendo i suoli
a grandi monocolture con utilizzo di fertilizzanti e concimi) che precedentemente erano utilizzati
dalle comunità locali per la sussistenza, mettono a rischio la loro sicurezza alimentare causando
inevitabilmente anche l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. Infatti, se la quantità globale di
cibo che viene prodotto diminuisce, i prezzi aumentano.
Multinazionali trasformano aree precedentemente adibite a coltivazione di sussistenza a aree di
monocoltura che non confluiranno nel mercato alimentare: diminuisce la quantità globale di cibo
che viene prodotto, con l’inevitabile conseguenza che il prezzo del cibo aumenterà.

I governi dei PVS sono favorevoli all’appropriazione di terreno da parte di queste multinazionali,
dietro pagamento di una tassa. Tuttavia, spesso le multinazionali riescono a contrattare con i
governi.
La conversione di suoli agricoli in grandi monocolture indebolisce il suolo, l’economia nazionale e
la capacità delle popolazioni più povere di sfamarsi.

Impatto politico

L’uso del suolo per produrre carburanti innesca una questione di grande rilevanza: l’uso delle
produzioni agricole come arma politica.
La conversione di suoli agricoli in suoli per la produzione di biocarburanti fa ridurre la quantità di
cibo disponibile, che di conseguenza vede aumentare il suo costo.

Conseguenze ambientali:

• Erosione e degrado dei suoli.


La monocoltura incide maggiormente sulla degradazione del suolo: la rotazione serve proprio per
mantenere la fertilità del suolo. Il suolo a monocoltura si impoverisce e diventa indispensabile
l’utilizzo massiccio di fertilizzanti chimici altamente inquinanti per renderlo nuovamente un
terreno fertile. Rischio di desertificazione ed inquinamento delle riserve idriche.

• Perdita di biodiversità
Il grande consumo di fertilizzanti e concimi riduce biodiversità di specie di animali e insetti e porta
a deforestazione. Infatti, per ottenere grandi aree di terreno si bruciano spesso intere foreste (es.
America Latina).

• Produzione di gas serra


I biocarburanti sono definiti carbon neutral, in quanto mentre sono in vita assorbono la CO2
liberata durante la loro combustione. Tuttavia, analizzando il ciclo che va dalla produzione alla
distribuzione di biocarburanti si osserva che il quantitativo di CO2 emesso non è minore rispetto a
quello che proviene dai carburanti fossili tradizionali.
Inoltre, per piantare queste monocolture molto spesso si tagliano grandi estensioni di foreste.
È quindi importante notare che per essere realmente attendibili e corretti nel calcolo del bilancio
energetico dei biocarburanti, bisogna tenere conto di una serie di fattori.
[Punti da ricordare: produzione effettuata a grande scala, molto spesso con processi di Land
grabbing e con enorme impatto ambientale (biodiversità, inquinamento falde acquifere,
distruzione foreste, consumo del suolo legato al passaggio da policoltura di sussistenza a
monocoltura). Competizione in atto tra utilizzo di suolo per la produzione di cibo e piante che
finiscono nell’industria del biocombustile, con conseguente aumento del prezzo del cibo, che va ad
impattare prevalentemente le popolazioni più fragili.]

Lunedì 09/11/2020

L’impronta ecologica

Questo concetto nasce agli inizi del 2000 e fa riferimento all’area biologicamente produttiva di
terra o di acqua necessaria per produrre le risorse richieste da un individuo, un Paese o un’attività
e contemporaneamente smaltire i rifiuti che questo genera.
È quindi la quantità di terra e di acqua che ciascuno di noi come individuo necessita per soddisfare
i propri bisogni quotidiani (lavarci, vestirci, ecc..).

Questo termine deve essere associato a quello di “biocapacità”, ossia la quantità di terra e acqua
che ciascun individuo (o Paese o azienda) ha realmente a disposizione. Si può dire che l’impronta
ecologica rappresenta il lato della domanda di risorse naturali (le risorse richieste), mentre la
biocapacità indica l’offerta (la disponibilità di risorse per ogni individuo).

È un concetto problematico: la biocapacità è data dal totale delle terre fertili e delle acque
disponibili diviso il totale della popolazione mondiale. Quando aumenta la popolazione mondiale o
le acque e suolo diminuiscono (ad es. perché vengono inquinanti), ovviamente la biocapacità
diminuisce.

È stato calcolato che attualmente la biocapacità totale del pianeta è di 1,65 ettari l’anno, cioè ogni
anno ciascun individuo ha a disposizione 1,65 di terra e acqua.
Tuttavia, il consumo reale è di 2,65 ettari per individuo. Ciò significa che consumiamo più risorse di
quante ne avremmo realmente disponibili.

All’attuale tasso di utilizzo delle risorse servirebbero 1,6 pianeti affinché l’umanità possa
mantenere inalterato il proprio stile di vita medio, considerando che il maggiore impatto sulle
risorse naturali è causato dalle abitudini delle popolazioni dei Paesi più sviluppati
economicamente.
Questo eccessivo consumo di risorse e di territorio da parte delle popolazioni dei Paesi più
industrializzati deriva sia dalla mancanza di informazione e di consapevolezza sia dalla mancanza di
linee guida concrete di gestione ambientale che integrino la conservazione degli habitat, della
diverta biologica e della resilienza.

Questo discorso si collega al concetto di acrescita di Latouche: bisogna ridurre il consumo delle
risorse per riportare ciascun Paese entro la propria capacità di carico, vale a dire per riallineare la
propria impronta ecologica e biocapacità.

Infografica: la Cina consuma 2,5 volte risorse in più rispetto alla propria capacità.
Il Giappone consuma 7 volte di più e l’Italia 4.
Possiamo concludere che il nostro pianeta non è sufficiente: per sostenere la

World Overshoot day


Gli attuali modelli di consumo generano un tasso di utilizzo delle risorse naturali molto
Ogni anno consumiamo più risorse rispetto a quelle di cui abbiamo a disposizione.

Il World Overshoot Day è il giorno in cui il pianeta supera l’utilizzo delle risorse disponibili per
quell’anno, andando ad intaccare ed utilizzare le risorse dell’anno seguente.
A partire dal 1970, il World Overshoot Day viene anticipato ogni anno sempre di più. Nel 2018 il
World Overshoot day è stato ad agosto.

Il Living Planet report: analisi dello stato di salute del pianeta


È un rapporto realizzato dal WWF che analizza il grado di degrado nell’ambiente naturale,
attraverso un indicatore che prende in esame la quantità di individui di molte specie di vertebrati.
Calcola quindi la biodiversità globale.
Da questo rapporto è emerso che negli ultimi 35 anni c’è stato un progressivo calo nel numero
degli individui, come conseguenza dell’impatto delle società umane sull’ambiente naturale.
A partire dall’anno 2000, a questo report è stato integrato anche l’indice dell’Impronta ecologica e
nel 2008 anche l’impronta idrica (quantità di risorse idriche utilizzata a scala globale).

Carta che indica l’impronta ecologica di ciascun Paese.

Impronta ecologica > biocapacità (Giappone e Stati Uniti)


Notiamo che l’Africa ha un’impronta ecologica molto minore rispetto alla propria biocapacità:
consuma meno risorse di quante ne dispone.

Andamento impronta ecologica a scala mondiale: a partire dagli anni ’80 abbiamo iniziato a
consumare più risorse di quante abbiamo realmente a disposizione. È quindi subentrato il concetto
di Overshoot: sorpasso.

Carta
Rosso e arancione: Paesi che hanno un’impronta superiore alla loro biocapacità.
Verde: Paesi che hanno un’impronta inferiore alla loro biocapacità.
Risulta evidente che i Paesi più poveri contribuiscono meno al consumo di risorse e vengono
quindi sfruttati dai Paesi più ricchi.
Lo squilibrio ecologico che emerge da questa carta è il riflesso di uno squilibrio di potere
economico e politico.

È un indicatore arbitrario, i cui parametri sono stati decisi autonomamente.


Biden vuole rientrare dentro gli accordi di Parigi, dopo che Trump aveva

Soluzioni globali:
Controllare e ridurre la produzione ed il consumo di energia
Produrre energia in maniera più efficiente e da fonti rinnovabili
Ridurre/controllare la crescita della popolazione

Soluzioni individuali:
Riciclare
Risparmiare energia per riscaldare e raffreddare la casa
Utilizzare lampadine a basso consumo
Sostituire l’automobile con il trasporto pubblico
Usare automobili che inquinano meno
Utilizzare meno acqua calda
Non utilizzare sacchetti di plastica
Spegnere gli elettrodomestici

Lezione 6.2
Uomo, ambiente e sviluppo
Parte 2: Inquinamento e degrado ambientale

In geografia distinguiamo il concetto di inquinamento da quello di degrado ambientale.

Inquinamento: alterazione di una realtà ambientale dovuta all’immissione di sostanze estranee


superiore alla capacità di carico. Può avvenire per cause naturali (ad esempio le eruzioni
vulcaniche, che immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas) o umane (cause antropiche).
Degrado ambientale: cambiamento negativo dell’ecosistema in una delle sue caratteristiche, che lo
porta ad un allontanamento dallo stato ottimale. Non viene menzionata l’immissione di sostanze
estranee.
L’inquinamento è in un certo senso un sottoinsieme del degrado ambientale.

Tipi di inquinamento
Inquinamento del suolo
Inquinamento idrico (fluviale e marino)
Inquinamento atmosferico
piogge acide
buco nell’ozono
effetto serra
acustico, luminoso, olfattivo (?)

Tipi di degrado ambientale


Deforestazione
Desertificazione
Perdita della biodiversità
Deforestazione
Indica il processo che porta al taglio massiccio di alberi: taglio indiscriminato degli alberi nelle
foreste primarie del pianeta dove la presenza umana è limitata.
Si tratta solitamente di foreste con grande varietà di specie (piccole comunità per un vasto numero
di specie diverse).

Le cause della deforestazione sono molteplici.


Fin dal principio della storia dell’umanità, gli alberi vengono tagliati per poter utilizzare il legname
come combustibile.
Uso commerciale del legname e dei prodotti forestali non legnosi (tuberi, piante medicinali, ecc..)
che vengono estratte dalle aree forestali per un consumo globale. Per poter commercializzare
prodotti a scala globale.
Sono inoltre emersi nuovi bisogni: uso industriale della deforestazione, in cui estensioni territoriali
di foreste vengono abbattute per aprire nuovi spazi all’agricoltura, specialmente nei Paesi in via di
sviluppo (come nel caso dei biocombustibili, con la monocoltura). Questa tecnica prende il nome di
“Taglia e brucia”. Ancora oggi, popolazioni semi-nomadi utilizzano questa tecnica: giunte in
un’area bruciano il bosco per potervisi insediare.
Aprire nuovi spazi all’allevamento di bestiame su larga scala: i bovini sono i principali responsabili
delle emissioni di gas metano nell’atmosfera. A partire dagli anni Novanta questo fenomeno
prende il nome di hamburger connection, perché si è assistito ad una massiccia deforestazione
(soprattutto della foresta Amazzonica) per fare spazio ad allevamenti di bovini, che avrebbero poi
alimentato il mercato degli Stati Uniti.
Costruzione di infrastrutture (es. dighe).

Gli effetti sono la perdita di biodiversità e del valore potenziale delle risorse forestali, l’immissione
in atmosfera di grosse quantità di CO2. (Gli alberi sono i principali produttori di ossigeno sul
pianeta e quando vengono tagliati diminuisce la quantità totale di anidride carbonica che viene
immagazzinata e la quantità di ossigeno liberata nell’atmosfera; in più, molto spesso anche
durante al taglio industriale degli alberi si assiste ad un enorme processo di incendi del sottobosco,
con lo scopo di ripulire ingenti estensioni forestali. Questi roghi immettono nell’atmosfera grande
quantità di anidride carbonica).
Inoltre, avremo generale destabilizzazione degli ecosistemi e perdita di culture associate agli
ecosistemi forestali. Come conseguenza si ha un’apertura all’antropizzazione.

La Convenzione di Rio sulle Foreste


È stata discussa nel corso del Summit per la Terra di Rio de Janeiro (1992), non approvata come
documento finale a causa del rifiuto di Paesi come il Brasile e l’Indonesia.
Alcuni obiettivi che si pone sono il riconoscimento del ruolo delle foreste nel proteggere gli
ecosistemi fragili, la partecipazione delle comunità locali alla pianificazione di politiche forestali, la
promozione della cooperazione internazionale.

Un’altra conseguenza che la deforestazione porta con sé è un incremento della desertificazione.

Desertificazione
Nella Convenzione per combattere la Desertificazione del 1994 è stata messa a punto la seguente
definizione: degrado del suolo in aree aride, semi aride e aride-semi umide, causato da attività
umane e da variazioni climatiche.

La causa principale della desertificazione è la deforestazione.


L’humus è lo strato superficiale di suolo che viene rigenerato come conseguenza della
decomposizione del materiale vegetale. Ciò permette un suolo continuamente rigenerato.
Tuttavia, questo processo non avviene nelle foreste tropicali, perché le alte temperature e l’alta
umidità portano ad un rapido degrado del materiale biologico che cade a terra. Di conseguenza,
nelle aree dove prima si estendevano grandi aree tropicali, con il taglio delle foreste non si ha una
fertilità prolungata, ma al contrario una fertilità limitata a pochi anni successivi. Nella loro vita, le
foreste tropicali non riescono ad accumulare uno strato di humus molto elevato e spesso, ma
soltanto piccoli strati perché ogni anno calore e umidità tendono a degradare la parte superficiale
di suolo.
Come conseguenza di questo fenomeno, le culture intensive delle aree in cui prima si trovavano le
foreste tropicali (e che in seguito alla deforestazione vengono messe a monocoltura) hanno
bisogno di un importante investimento in fertilizzanti.
Altre cause della desertificazione sono legate a tecniche agricole che impoveriscono il suolo (ad es.
uso di trattori pesanti), terreni aridi adibiti a pascolo (zoccoli pesanti delle mucche), siccità e
variazioni del regime pluviometrico, salinizzazione (ossia immissione di acqua salata), mancati
investimenti in programmi per limitare l’avanzata del deserto (es. in Israele sono stati impiantati
sistemi di irrigazione ad altissimo costo).

La desertificazione è un processo che colpisce tutti i Paesi del mondo. Anche i Paesi più sviluppati
ne sono interessati: l’Italia stessa è un Paese ad alto rischio di desertificazione, soprattutto nelle
aree mediterranee (Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna sono regioni con territori già semi-aridi).
È particolarmente grave in Africa (dove il 66% di tutti i terreni è arido o semi arido) e nei PVS in
Asia, America Latina e Caraibi.
Il 39% circa della superficie terrestre è colpita, con più di 100 Paesi interessati: 250 milioni di
persone vivono in regioni aride.
Questa condizione ha anche importanti conseguenze economiche: perdita di reddito, circa 45
miliardi di dollari ogni anno.
Inoltre, la desertificazione impoverisce la biodiversità.

Giovedì 12/11/2020

Perdita della Biodiversità

La biodiversità (o diversità biologica) non riguarda solamente la diversità di specie, ma anche di


ecosistemi in cui queste specie vivono e soprattutto la diversità genetica che garantisce la
riproducibilità delle specie.
(Diversità biologica: varietà di ecosistemi, specie e geni. Importante la componente genetica).
Un esempio riguarda le specie animali in grave pericolo di estinzione, che se raggiungono una
soglia critica si considerano già estinte, perché il patrimonio genetico conservato in un numero
troppo limitato di individui non garantisce la riproduzione di individui che siano essi stessi fertili in
futuro.

Le cause sono associate alla perdita di vaste estensioni territoriali, che vengono cementificate o
deforestate (e di conseguenza desertificate). (Distruzione habitat: deforestazione inquinamento)
È legata ad uno sfruttamento insostenibile delle specie vegetali, caccia illegale e commercio
internazionale di specie protette.
Mancate politiche di tutela.
Il valore della biodiversità è estetico, commerciale e potenziale.
Ad oggi non è chiaro quante specie di organismi viventi ci siano. Non sappiamo neanche l’ordine di
grandezza, si stima tra i 10 e i 100 milioni di specie.
Molte specie non sono state neppure catalogate.

Animali estinti per l’azione dell’uomo: dodo, quagga, tigre della Tasmania
La scomparsa della biodiversità è associata alla scomparsa delle culture e delle lingue. Una branca
della linguistica studia la scomparsa delle lingue, studiando la relazione tra diversità linguistica e
diversità biologica. È stato osservato che le comunità che vivono nelle aree più remote del pianeta
parlanti lingue a rischio di estinzione sono lingue
Quando questi territori vengono distrutti, queste comunità sono costrette a fuggire e si rifugiano
nelle città più vicine, dove nel corso del tempo si integrano alla vita urbana e perdono la propria
cultura. Con la scomparsa della loro cultura scompare molto spesso anche la loro lingua. Con la
scomparsa della loro lingua scompaiono anche termini propri della loro cultura che indicavano
animali o piante proprie dell’ambiente in cui la comunità viveva tradizionalmente. Molto spesso
queste comunità avevano un bagaglio di conoscenze specifiche sull’uso che si può fare di
determinate specie (es. uso medicinale di piante).
Far scomparire un pezzo di ambiente naturale ha svariate conseguenze: scomparsa di cultura,
lingua e conoscenze che il popolo possedeva sul loro ambiente naturale tradizionale.

È importante preservare le aree forestali dei tropici perché potrebbero essere una sorta di banca
di varietà genetica che potrà risultare fondamentale per le società umane globali del futuro.

Da un punto di vista linguistico, le lingue parlate dalle popolazioni che vivono nelle zone più
remote del pianeta sono delle botaniche verbali.
La questione della biodiversità si lega al benessere della popolazione futura.

Convenzione sulla Biodiversità (dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992)

È una convenzione che vincola i Paesi firmatari ad attuare sul proprio territorio nazionale delle
misure per contenere la perdita di biodiversità.
La conservazione può essere fatta in due modi: in-situ, ossia presso il Paese di cui la specie è
originaria, attraverso l’istituzione di parchi o aree protette; oppure ex-situ, portando la specie in
pericolo presso un altro Paese in modo tale da garantire la salvaguardia di alcuni individui della
specie.
A questa strategia va affiancato un uso sostenibile delle risorse, cooperazione tra Paesi e ricerca.

CITES (Convention on International Trade in Endangered Species) del 1975


Si tratta di un accordo volontario tra Stati per proteggere la propria riserva di flora e fauna,
soprattutto quella in pericolo di estinzione.
È stato approvato nel 1973 ed entrato in vigore nel 1975.
Nel 2014 erano 180 gli Stati che vi hanno aderito, mentre ad oggi se ne contano 183.
L’obiettivo è di regolare il commercio internazionale di specie protette, attraverso un sistema di
autorizzazioni e controlli.
Questa convenzione funziona su tre livelli di protezione:
Il primo livello include tutte le specie minacciate di estinzione.
Il secondo gruppo include specie non necessariamente minacciate, ma il cui commercio va
controllato.
Infine, il terzo gruppo include le specie protette almeno in un Paese, che chiede alla comunità
internazionale di aiutarlo a far sì che non venga fatto un commercio illecito di quella specie.

In Italia i due organi incaricati di verificare l’attuazione della CITES nei Paesi firmatari sono la
Guardia di Finanza ed il Corpo forestale.
In molti aeroporti sono presenti cartelli promozionali che spiegano cosa sia la CITES.
Altri accordi a tutela delle risorse del pianeta: sfruttamento insostenibile di risorse
Convenzione ONU sul diritto internazionale del mare, che riguarda lo sfruttamento delle risorse dei
fondali.
Trattato Antartico, un accordo internazionale con il quale è stato stabilito che l’Antartide non può
essere utilizzata per finalità commerciale o bellico, ma esclusivamente per utilizzo di tipo
scientifico.
Trattato sullo spazio extra-atmosferico, la Luna e gli altri corpi celesti, con il quale si è stabilito che
il cosmo, i pianeti e la Luna non possono essere utilizzati per sviluppare tattiche militari o fare test
di armi.
L’inquinamento

Gli effetti dell’inquinamento sull’uomo


Riduzione degli spazi produttivi a causa della desertificazione
Scarsità di acqua dolce, sia per l’irrigazione sia per l’uso umano
Innalzamento degli oceani
Riduzione della produzione agricola e aumento dell’inquinamento del suolo e delle acque
Scomparsa delle risorse naturali e del loro valore potenziale
Scomparsa delle foreste e perdita di una fonte di ossigeno
Gravi conseguenze sul clima e sulla salute dell’uomo

L’inquinamento del suolo


Cause chimiche, legate a cause antropiche: versamenti industriali e agricoli ed inquinamento che
deriva dagli insediamenti urbani
Cause fisiche: erosione del suolo, estrazioni minerali e disastri naturali (cicloni, terremoti, ecc…)

L’inquinamento idrico
Marino, che può avere cause dirette (scarichi urbani o di navi in mare; incidenti navali e delle
petroliere) o indirette (inquinamento portato al mare dai fiumi; scarichi dei fiumi)
Fluviale (inquinamento di acqua dolce), provocato da scarichi industriali, agricoli, urbani ed alte
temperature

L’inquinamento atmosferico

Può essere di origine antropica (provocato dall’uomo) o naturale (ad esempio: eruzione vulcaniche
che immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas).
Esistono due tipi di inquinanti:
Primari, liberati nell’atmosfera come conseguenza di attività umane (biossido di zolfo, monossido
di azoto)
Secondari, che si formano successivamente in atmosfera attraverso reazioni con gas già presenti
(acido solforico)
Fonti di inquinamento antropogenico (cioè causato dall’uomo):
grandi sorgenti fisse (industrie)
piccole sorgenti fisse (riscaldamento domestico)
sorgenti mobili (traffico veicolare)

Il buco nell’ozono

(Il buco nell’ozono e l’effetto serra sono due fenomeni naturali divenuti causa di una crisi
ambientale perché, come conseguenza di attività antropiche, la dimensione del fenomeno naturale
è divenuta molto più consistente, facendo sì che fosse necessaria l’azione di una politica globale
per poter porre un freno ai meccanismi innescati)
L’ozono è un gas che fa da barriera protettiva contro le radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole.
Questo tipo di radiazioni sono quelle responsabili dell’abbronzatura.
(L’effetto serra è associato alle radiazioni infrarosse, responsabili della percezione del calore).

Il buco nell’ozono si trova sopra l’Antartide e nasce come un fenomeno naturale: ogni anno si apre
un buco nello strato protettivo, come reazione alla presenza di radiazioni massicce provenienti dal
Sole. (Quando nell’emisfero australe è estate il buco si apre, quando è inverno si richiude).
Dagli anni Ottanta gli scienziati hanno cominciato ad osservare che questo buco si allargava
sempre di più e non si richiudeva, a causa dell’azione dell’uomo (cause antropiche).
La causa dell’allargamento di questo buco è la presenza in atmosfera di composti chimici in grado
di attaccare l’ozono: Clorofluorocarburi, Idroclorofluorocarburi e Bromofluorocarburi. La presenza
di questi gas, immessi nell’atmosfera dalle attività umane, porta le molecole di ozono a scindersi.
In questo modo lo strato protettivo di ozono si indebolisce e le radiazioni ultraviolette riescono a
raggiungere la superficie della Terra.
L’inquinamento arriva al Polo sud per via della rotazione terrestre e delle correnti aeree.

Gli effetti del buco nell’ozono sono molteplici:


• Danni al DNA delle cellule, causando melanomi e tumori alla pelle
• Effetti sulla retina dell’occhio
• Effetti maggiori sugli organismi più piccoli, come zooplancton e fitoplancton alla base della
catena alimentare marina, mettendo in pericolo l’esistenza delle specie marine
• Effetti sulle piante: rallentamento della crescita fogliare

Nel 1997 è stato firmato il Protocollo di Montreal, con il quale si limitava la produzione e l’uso di
diversi CFC e gas Halon, sostituendoli con gas non dannosi per l’atmosfera.
Questo Protocollo viene considerato il primo esempio positivo di accordo globale finalizzato a
trovare una soluzione alla crisi ambientale. (Molto spesso si dice che il Protocollo di Kyoto è stato
un fallimento, mentre quello di Montreal è stato un successo).
Dopo l’istituzione di questo protocollo ci sono stati effetti positivi nella riduzione del buco
nell’ozono, ma non solo: eliminando la produzione e l’utilizzo di CFC, il Protocollo di Montreal ha
portato beneficio anche al problema legato all’effetto serra.
(Attenzione! Buco nell’ozono ed effetto serra non sono la stessa cosa, benché condividano alcune
delle loro cause).

Il Protocollo di Montreal è entrato in vigore nel 1987 ed è stato poi aggiornato nel 1997. Le
ricadute positive dell’implementazioni di questo accordo sono state molto lente: sono stati
necessari decenni per vedere risultati positivi nella riduzione del buco nell’ozono.

Le piogge acide

Le piogge acide sono l’effetto della ricaduta dall’atmosfera di particelle, gas e precipitazioni acide.
Alcuni gas inquinanti presenti nell’atmosfera (come conseguenza dell’attività antropica,
prevalentemente attività industriali), ossia ossidi di zolfo e ossidi d’azoto, entrano a contatto con
l’acqua atmosferica e originano acido solforico e nitrico.
Per gli esseri umani, le piogge acide non costituiscono direttamente un problema (alla pelle o
salute dell’uomo), ma esse portano ad un’acidificazione di laghi e corsi d’acqua, danni alla
vegetazione e suoli forestali e danni ai materiali di costruzione e alle vernici.

Nonostante non si tratti di un fenomeno che esercita dirette conseguenze sulla salute dell’uomo,
esso rimane un fenomeno di rilevanza per la sua persistenza nell’atmosfera.
Questi due gas inquinanti, ossido di zolfo e ossido d’azoto, hanno una diversa permanenza
nell’atmosfera.
• L’ossido di zolfo rimane nell’atmosfera 2-4 giorni, per poi ricadere sulla Terra sottoforma di
pioggia acida. Vi è una ricaduta vicino al luogo di emissione dell’inquinante/alla fonte.
Prendiamo come esempio una fabbrica, che immette nell’atmosfera ossido di zolfo. Questo gas
inquinante, incontrando molecole di acqua, forma pioggia acida che ricade direttamente su quel
territorio.
• L’ossido di azoto, invece, ha una permanenza nell’atmosfera più lunga (anche qualche
settimana), con il risultato che, per effetti di venti e correnti, questo gas può essere trasportato
anche molto lontano. Di conseguenza può provocare piogge acide in zone lontane dal luogo di
emissione.

Quando parliamo di inquinamento non bisogna dimenticare la relazione tra locale e globale. Le
forme di inquinamento hanno difficilmente un mero impatto locale, ma molto più spesso hanno
una ricaduta a scala globale.
L’inquinamento è un fenomeno che è l’esempio perfetto di relazione tra locale e globale: data la
natura globale dell’inquinamento è necessario che le misure di intervento siano anch’esse globali
(Protocollo di Kyoto).
Immagine che indica l’estensione del buco dell’ozono dal 1979 al 2019.
All’inizio degli anni 2000 il buco dell’ozono aveva raggiunto la sua estensione massima, poi con le
implementazioni del protocollo di Monreal il buco è andato restringendosi. Tra gli anni 2019 e
2020 il buco si sta restringendo. 
Nella politica internazionale, il protocollo di Montreal rappresenta un successo positivo. 
Entrato in vigore nel 1987 e aggiornato nel 1997. Le ricadute positive dell’implementazione di
questo accordo sono state molto lente: sono stati necessari decenni per vedere effetti positivi. 
Allo stesso modo, se aspettiamo per agire sull’effetto serra, probabilmente gli effetti positivi li
vedremo fra molto tempo. 

L’effetto serra

È un fenomeno naturale, proprio come il buco nell’ozono, che riguarda l’atmosfera terrestre.
L’atmosfera è formata da gas e circonda il nostro pianeta. È composta per il 78% da azoto, 21%
ossigeno e 1% miscela di gas responsabili dell’effetto serra, tra cui vapore acqueo, anidride
carbonica, metano e ozono. Questi gas sono molto importanti perché responsabili del fenomeno
dell’effetto serra, che garantisce una temperatura media piuttosto elevata sul pianeta.
L’effetto serra è un fenomeno naturale che regola la temperatura terrestre: è stato calcolato che
senza l’effetto serra la temperatura media del nostro pianeta sarebbe di -18°. L’effetto serra
permette di mantenerla a +15°.

Come funziona: 
I raggi solari attraversano l’atmosfera e riscaldano la superficie terrestre. Dalla superficie terrestre,
il calore s’irradia nell’atmosfera sottoforma di radiazioni infrarosse (si tratta di quelle radiazioni il
cui compito è di riscaldare, non sono le radiazioni responsabili del buco nell’ozono). Il 30% circa
della radiazione infrarossa si perde nello spazio. In condizioni naturali, il 70% circa della radiazione
infrarossa è assorbito dai gas serra presenti nell’atmosfera che lo riflettono nuovamente sulla
superficie terrestre. 
La quantità di radiazioni infrarosse intrappolate nell’atmosfera è aumentata progressivamente a
partire dalla rivoluzione industriale. A partire da quel momento sono stati immessi all’interno
dell’atmosfera una quantità sempre crescente di gas ad effetto serra. 
Questi gas fanno diminuire la percentuale di gas trattenuti nell’atmosfera e come conseguenza la
temperatura aumenta.

Alcuni dati 
• Immissione nell’atmosfera di gas che provengono da attività industriali. La concentrazione di
anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata di 50 ppm (parti per milione) tra il 1750 ed il 1970 e
di 60 ppm nei soli ultimi 40 anni (dal 1970 al 2010).
• Questo aumento è dovuto alla combustione di combustibili fossili come petrolio e carbone,
mentre la seconda causa è la deforestazione. 
• Nel corso degli ultimi 150 anni, la temperatura media è aumentata di quasi 0,8°C a livello globale
e di circa 1°C in Europa. 
 
Grafico che mette in relazione la concentrazione di anidride carbonica e la
temperatura dell’atmosfera negli ultimi 400 mila anni.
Come ricavare la concentrazione di anidride carbonica: analisi dei ghiacci nell’Antartide; per
ricavare la temperatura, si osservano i cerchi degli alberi.
All’aumento di concentrazione di anidride carbonica aumenta anche la temperatura. 
Altra considerazione: nel corso degli ultimi 400 mila anni ci sono stati innalzamenti nella
temperatura. Questi picchi erano probabilmente dovuti a fenomeni naturali (chiaramente 400 mila
anni fa non c’erano attività umane: probabilmente grandi eruzioni vulcaniche che portavano
nell’atmosfera grandi quantità di anidride carbonica). 
Oggi siamo a più di 400 ppm. 
Fino ad ora non c’erano mai stati esseri umani che avevano interessi a preservare la vita sul
pianeta. Vivevano sulla terra organismi monocellulari che non avevano gli strumenti per
comprendere ciò che stava accadendo e per frenare questo fenomeno.
Oggi noi avremmo le potenzialità tecnologiche per ridurlo, ma il problema è che realmente non ci
stiamo impegnando per farlo. 
 
Aumento di temperatura previsto tra il 2020 ed il 2099 nel caso in cui non vengano imposti
limiti all’azione dell’uomo: la prima immagine ritrae il cambiamento di temperatura che potrebbe
verificarsi tra l’anno 2020 ed il 2029 agendo ora; la seconda, l’incredibile innalzamento che
potrebbe accadere tra il 2090 ed il 2099. 
Le zone che andranno incontro al più forte innalzamento delle temperature sono quelle dell’Artico,
perché il bianco del ghiaccio ha una grande capacità riflettente (effetto albedo). Questo effetto fa
sì che il bianco sia in grado di riflettere le radiazioni infrarosse. Tuttavia, se la
temperatura aumenta, i ghiacci cominciano a sciogliersi, questo significa che ci saranno meno
superfici bianche che riflettono le radiazioni infrarosse. Progressivamente, con la scomparsa dei
ghiacci non ci sarà più ghiaccio, ma acqua marina, che con un colore più scuro assorbe le radiazioni
infrarosse invece di rifletterle. 
L’acqua marina si riscalda, facendo sciogliere sempre di più il ghiaccio. Per questo motivo l’artico
sarà la zona con il maggiore aumento di temperatura a scala globale. Come conseguenza i ghiacci
si sciolgono, il livello dei mari aumentano. Questo è lo scenario drammatico che rappresenta una
situazione in cui non vengono prese azioni per contrastare questa emergenza. Sperabilmente, non
si verificherà mai. 
Le zone che soffriranno maggiormente l’aumento di temperature sono chiamate Hotspot climatici
(Artico, zone dove si collocano i deserti e zone tendenzialmente tropicali). 
 
Effetti dell’effetto serra (hanno natura diversificata a seconda dei territori)

• Aumento dell’albedo (riflessione delle superfici): aumento di temperatura > aumento di


temperatura > maggiore scioglimento dei ghiacci > diminuzione complessiva superfici glaciali >
innalzamento livello medio del mare > scomparsa di città costiere e isole.
• Scioglimento dei ghiacci > impatti sulle correnti marine che regolano il clima > nuova era
glaciale? 
I ghiacci della Groenlandia sono ghiacci di acqua dolce che, sciogliendosi e riversandosi in mare,
andrebbero a diminuire la salinità dell’oceano. Diminuendo la salinità dell’Oceano Atlantico ci
sarebbe un impatto sulle correnti marine, che funzionano grazie ai diversi livelli di salinità. 
L’effetto sull’Europa settentrionale della corrente del Golfo finirà e si ripresenterà l’era glaciale. 
• Aumento dell’evaporazione dei grandi bacini idrici > aumento delle precipitazioni (piogge
violente, cicloni, ecc). 
• Zone tropicali: riduzione dell’umidità del suolo > minore resa agricola 
• Rischio di desertificazione 
• Rischio per la produzione di cibo a livello globale 
• Maggiore diffusione delle malattie (es: le malattie che si diffondono in clima umidi e caldi)
Il COVID stesso viene connesso ai cambiamenti climatici e alla presenza di inquinanti ambientali.
• Aumento rischi a carico di persone con problemi cardiaci o respiratori 
 
La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici
La grande crisi globale del buco dell’ozono ha trovato una sua soluzione politica grazie al
protocollo di Montreal.

Nel 1992 durante la Conferenza di Rio de Janeiro è stata indetta una Commissione Quadro sui
Cambiamenti Climatici: esperti climatici riuniti per trovare una soluzione a questo problema. 
Nasce quindi il Protocollo di Kyoto: accordo sulla riduzione delle emissioni di gas serra di natura
globale. Questo accordo viene riconosciuto durante la conferenza del 1997 a Kyoto (in Giappone).
L’obiettivo è ottenere la stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera ad un
livello che non diventino mai pericolose per il sistema climatico. 
L’obiettivo è quello di ridurre le emissioni globali di gas serra ad un livello inferiore rispetto a
quello del 1990. Il 1990 è l’anno di riferimento: all’interno del protocollo di Kyoto tutti i Paesi del
mondo si impegnano a ridurre le emissioni entro il 2012. 
Questo accordo globale avrebbe potuto portare risultati positivi come il protocollo di Montreal,
ma questo non è avvenuto perché alcuni Paesi (in particolare gli Stati Uniti) si sono ritirati dagli
impegni presi. Nel 1997, sotto la presidenza di Bill Clinton gli Stati Uniti firmano il Protocollo, ma 3
anni dopo con la vittoria di George Bush, come prima azione politica gli USA si ritirano dall’accordo
di Kyoto per non ridurre la crescita economica del Paese. 

Il Protocollo di Kyoto si basa su alcuni principi:


• Principio di Responsabilità Comuni ma Differenziate: tutti i Paesi del mondo sono responsabili del
cambiamento climatico, ma in modo diversificato. Ad esempio, i PVS hanno
una responsabilità molto minore rispetto ai Paesi industrializzati (a cui spetta il maggior
impegno nella riduzione delle emissioni). 
• Principio di Precauzione: quando non è possibile prevedere gli effetti di una scelta è meglio
astenersi. E’ necessario intraprendere delle scelte per evitare che un effetto a catena porti
a conseguenze negative per il clima. 
• Principio di Cooperazione tra le Parti: cooperazione tra Paesi più avanzati economicamente e
Paesi meno avanzati, per raggiungere l’obiettivo comune di ridurre le emissioni di gas serra. 

Strategie

I Paesi in via di sviluppo non erano vincolati dal protocollo di Kyoto a ridurre le proprie emissioni e
hanno quindi potuto continuare la propria ascesa economica senza limitazioni che avrebbero
rallentato la loro crescita.
Questo è il principio etico che ha consentito a Cina e India di svilupparsi enormemente tra gli anni
90 e primo decennio del 2000 senza particolari preoccupazioni rispetto alle emissioni di gas serra. 
Bush motiva la decisione di ritirarsi dal Protocollo di Kyoto dicendo che se gli Stati Uniti avessero
aderito, avrebbero perso rispetto alla concorrenza (ritenuta sleale) della Cina. A quell’epoca la Cina
era un PVS e per questo motivo non era obbligata ad aderire al Protocollo di Kyoto. Gli USA non
aderiscono perché non vogliono assistere ad un crollo dell’economia e ad un conseguente
sorpasso cinese in termini di crescita economica.
 
I ruoli delle parti: all’interno del protocollo di Kyoto è stata fatta una divisione di tutti i Paesi del
mondo in 3 liste.

• Annesso I: include tutti i Paesi industrializzati che hanno contribuito in misura massiccia
all’inquinamento globale. Questi Paesi hanno concordato di ridurre del 5% le emissioni dei loro gas
serra entro il 2012 rispetto al 1990. Di questa lista fa parte anche l’Italia.
• Annesso II: Paesi industrializzati che si sono resi disponibili a concedere risorse finanziarie
e tecnologiche ai Paesi i via di sviluppo, al fine di aiutarli nella loro transizione verso un’economia
sostenibile e con minore impatto di emissioni di gas serra. (Italia)
• Annesso III: Paesi in via di sviluppo, ai quali è permesso di aderire al protocollo di Kyoto, ma non
sono di fatto obbligati ad attuare alcuna riduzione. A loro è concesso di progredire nel loro diritto
all’industrializzazione. Possono iniziare ad introdurre nella loro economia delle tecnologie per la
riduzione delle emissioni.
 

Il Protocollo di Kyoto, 1997 

La Convenzione Quadro, nota col nome di Protocollo di Kyoto, viene fermata nel 1997.
Il trattato prevedeva di essere firmato e ratificato da almeno 55 Paesi (1) che dovevano essere i
responsabili di non meno del 55% delle emissioni di anidride carbonica immesse nel 1990.
Sono quindi state calcolate le emissioni di tutti i Paesi del mondo degli anni Novanta. 
Queste due condizioni vengono raggiunte solamente nel 2004.
• Nel marzo del 2002 si raggiungono i 55 Paesi grazie alla firma e ratifica dell’Islanda, ma non si era
ancora raggiunto il 55%.
• Nel novembre del 2004, con la ratifica della Russia, si raggiunge il 55%.
Come previsto, il Protocollo di Kyoto entra in vigore 90 giorni dopo il raggiungimento di questi due
obiettivi, il 16 Febbraio 2005.

Il protocollo di Kyoto è stato un fallimento: un processo lento nella propria attuazione.


 
Il Protocollo e i PVS 
• I PVS contribuiscono meno ai cambiamenti del clima e tuttavia ne subiscono gli effetti.
• I PVS che sottoscrivono l’accordo non devono impegnarsi verso specifici obiettivi, ma rendere
noti I loro livelli di emissione.
• Cina ed India, tra i più grossi inquinatori potenziali con enormi popolazioni ed economie in
crescita, hanno sottoscritto l’accordo, ma in quanto PVS non saranno legate a rispettarlo fino a
quando non usciranno da questa condizione.
 
Gli strumenti del Protocollo: i carbon sinks

Fondamentalmente, il Protocollo di Kyoto ammette che si agisca aumentando l’assorbimento dei


gas emessi piuttosto che contenendone la produzione. Per questo motivo, è previsto l’utilizzo di
sinks (pozzi di carbonio), con cui si indica qualunque tipo di processo e attività che assorba un gas
serra (ad esempio, i maggiori carbon sinks sono gli alberi e le piante che assorbono CO2).
Dal momento che molti Paesi avrebbero potuto avere difficoltà nell’ampliare i propri sinks, è stata
prevista la possibilità di migliorare o implementare la forestazione (in modo tale da abbassare la
quantità di CO2 e aumentare la produzione di ossigeno) in altri Paesi, ovviamente a spese del
Paese responsabile della produzione in eccesso di anidride carbonica.

Gli strumenti del Protocollo: i Meccanismi flessibili


• International Emission Trading: il Protocollo di Kyoto consente la compravendita delle quote di
emissioni di CO2 inutilizzate. Il Protocollo stabilisce una quota di emissioni di CO2 per ogni Paese e
qualora uno dovesse superarla, può comprare crediti di carbonio da quei Paesi che inquinano
meno. È un vero e proprio mercato di anidride carbonica, che consente ai Paesi che inquinano
troppo di acquistare crediti di carbonio da quei Paesi che inquinano meno.
Si tratta naturalmente di un escamotage: lo spostamento dei crediti di carbonio non ha portato ad
una reale soluzione del problema. I Paesi maggiormente responsabili di emissioni di anidride
carbonica non si impegnano in un’effettiva riduzione, ma comprano quote di carbonio inutilizzate
di altri Paesi.
• Joint Implementation mechanism: Paesi dell’Annesso I finanziano progetti di riduzione (ad
esempio riforestazione) in altre parti. Creazione di carbon sinks.
Molti Paesi avanzati economicamente hanno deciso di destinare parti della propria produzione
particolarmente inquinante in Paesi terzi (PVS), dove la legislazione è molto meno stringente.
Critiche al Protocollo 
L’impatto è stato estremamente irrilevante: non avere imposto anche ai PVS di sottostare a
limitazioni ha consentito loro di crescere non solo economicamente, ma anche in termini di
inquinamento. L’efficacia di questo protocollo è molto dubbia: nel breve-medio periodo si stima
che i 2/3 delle nuove emissioni proverrà dai PVS che non hanno firmato o che non sono ancora
sottoposti alle riduzioni (come Cina, India, Indonesia, Brasile). Le previsioni indicano che dopo il
2030 le emissioni di questi Paesi raggiungeranno il 50% del totale. 
Giovedì 19/11/2020

L’Italia e il Protocollo

La situazione dell’Italia è stata descritta di successo rispetto ai risultati del Protocollo di Kyoto. Il
nostro Paese ha raggiunto l’obiettivo di Kyoto, riducendo le sue emissioni di gas serra del 6.5%
rispetto al 1990, tra il 2008 ed il 2012.
Tuttavia, come emerge dai dati del 2013 è anche una situazione in cui i risultati erano stati ottenuti
anche grazie alla crisi economica del 2008, che aveva impoverito una fetta consistente della
popolazione, la quale non ha più fatto uso di combustibili fossili per i propri mezzi di trasporto e
molto spesso anche per riscaldare la casa.
Si può quindi fare una considerazione amara dei risultati positivi ottenuti dall’Italia. Vediamo una
situazione simile oggi: durante il lockdown si parlava ovunque della diminuzione di inquinamento,
ma è triste pensare che questo risultato si sia ottenuto perché le persone sono state costrette a
rimanere chiuse in casa durante una pandemia globale e non per un reale sforzo ed impegno
collettivo.

Il post-Kyoto (per individuare meccanismi volti a portare i Paesi a ridurre le proprie emissioni)

A partire dal 2007 è nata una discussione volta a cambiare l’impegno a livello globale, in termini di
riduzione delle emissioni inquinanti. Nel corso della conferenza del 2007 che si è tenuta a Bali, è
stata stabilita la “Road map”, ossia un piano per avviare le negoziazioni per un accordo successivo
al protocollo di Kyoto. Essa prevedeva di individuare i meccanismi per portare i Paesi a ridurre le
proprie emissioni, attraverso l’appoggio tecnologico ed economico dei Paesi sviluppati verso i Paesi
in via di sviluppo (PVS). Si tratta di un sostegno decisivo per ridurre le emissioni di gas serra.
Alla “Road map” hanno aderito anche gli Stati Uniti ed i Paesi ad economia emergente quali Cina
ed India.

La Conferenza di Copenhagen COP15 (2009)


In questa occasione sono stati presi importanti provvedimenti:
• Si è concordato che i piani futuri di riduzione delle emissioni dovevano avere come obiettivo un
aumento massimo di +2° rispetto al valore attuale: mantenere entro 2 gradi l’aumento delle
temperature nei prossimi decenni, con una rispettiva diminuzione di emissioni di CO2 del 50%
entro il 2050.
• Tagliare le emissioni dei Paesi industrializzati dell’80%, impegno non accettato da Cina e Brasile.
Purtroppo, però, questa riduzione dell’80% non è stata realmente raggiunta.

Uno degli aspetti più critici emerso durante la conferenza di Copenhagen è che l’accordo di Kyoto
ha fallito perché non aveva previsto una progressiva inclusione dei Paesi in via di sviluppo.
Cina, Brasile, Sudafrica, India ecc. sono Paesi che agli inizi dei negoziati di Kyoto figuravano come
Paesi in via di sviluppo, ma durante la fase Kyoto (inizio nuovo millennio), alcuni di essi hanno
conosciuto un’importante crescita economica. Sono i Paesi che conosciamo con l’acronimo BRICS:
Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Attualmente invece sono Paesi importanti nella scena
economica globale, che nel corso degli anni hanno contribuito all’emissione di gas serra.

Nel corso della conferenza di Copenhagen la Cina propone di tagliare le emissioni su base
procapite.
Secondo l’accordo di Kyoto, la riduzione delle emissioni avveniva su calcolo a base nazionale:
venivano calcolate le emissioni di tutti i Paesi aderenti, per poi stabilire quote di riduzione (o
aumento, perché alcuni Paesi nel 1990 inquinavano molto poco, per cui veniva concesso loro di
continuare la loro crescita senza alcuna imposizione di restrizioni).
La proposta di ridurre le emissioni su base procapite viene dalla Cina, che cercava di tutelare la
propria posizione all’interno del protocollo di Kyoto, ossia continuare la crescita economica senza
doversi curare delle emissioni e senza obbligo di riduzione.
Dalla Cina viene dunque la proposta di conteggiare la riduzione di emissioni a livello procapite: in
questo modo non figura tra i 10 Paesi più responsabili di produrre emissioni, perché la quantità di
emissioni di gas serra che la Cina produce a livello nazionale è spalmata in maniera molto
disuniforme all’interno del Paese. (Una fetta di popolazione più piccola, vale a dire quella che vive
prevalentemente nelle aree urbanizzate ed industriali contribuisce maggiormente, mentre una
massa molto più consistente di popolazione al contrario contribuisce in maniera limitata
all’emissione di gas).

Gli Stati Uniti, insieme a molti altri Paesi avanzati economicamente, si sono opposti a questa
proposta: questa soluzione peserebbe maggiormente sugli USA e poco sulla Cina, entrambe tra i
maggiori emettitori di gas serra.

Durante la Conferenza di Copenhagen, i Paesi più sviluppati hanno deciso di creare un fondo di 100
miliardi di $ annuali, volto ad aiutare i Paesi arretrati economicamente e tecnologicamente a
sviluppare i propri settori economici in maniera compatibile rispetto alla riduzione di gas serra.
Questa promessa non verrà mantenuta.
Ciò è stato reso possibile grazie alla donazione di aiuti internazionali da parte di economie ricche.
Questa decisione è stata presa a Copenhagen ed è stata confermata nel corso della Conferenza di
Cancun (Messico), durante la quale è stato effettivamente istituito il Fondo per il Clima, con
l’obiettivo di aiutare le nazioni in via di sviluppo ad adattarsi ai cambiamenti climatici.
Il momento successivo più rilevante è nel 2014, quando è stato raggiunto un accordo per la fase
post-Kyoto, che sarebbe stato firmato l’anno successivo a Parigi (2015), con l’intenzione di entrare
in vigore nel 2020.

Campagna promozionale di sensibilizzazione tenuta nel 2006/2007 all’interno dell’Unione Europea


“You control climate change”, con l’intenzione di dimostrare che l’apporto di ogni singola famiglia
può essere molto rilevante nella lotta al global warming.

Parigi 2015 (enorme attenzione mediatica)


Scelta della strategia per il conteggio delle emissioni: riduzione a base nazionale o procapite?
Nessuno dei due.
Diversamente dal protocollo di Kyoto, l’accordo di Parigi non assegna delle quote di riduzione ai
singoli Paesi, ma lascia che ciascun Paese aderente possa definire i propri obiettivi di riduzione.
Vale a dire che ogni Paese individualmente si impegna a ridurre una quota di emissioni di gas.
Nasce in questo modo il meccanismo degli Intended Nationally Determined Contributions (INDC),
ossia un piano d’azione climatica nazionale nel quale viene indicata la quota di emissioni che lo
Stato si impegna a ridurre e le azioni di resilienza climatica da realizzare.
Questo sistema mostra una problematica: la mancanza di un meccanismo sovrazionale che
stabilisca per ogni Paese una quota di riduzione.

Critiche all’accordo di Parigi


• Nonostante all’interno dell’accordo di Parigi venga riconosciuta l’importanza di mantenere
l’innalzamento delle temperature global “ben al di sotto” dei 2°C entro il 2050 (ancor meglio un
contenimento entro 1,5°C), non viene imposto un ulteriore taglio delle emissioni, affidandosi
esclusivamente agli INDC presentati a Parigi.
È stato calcolato che le riduzioni di gas serra ipotizzate dagli INDC depositati fino ad oggi (166
Paesi) siano sufficienti solo per contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2,7°C.

• Gli impegni di riduzione presi da ciascun Paese attraverso gli INDC non sono obblighi vincolanti,
legati a sanzioni nel caso non vengano rispettati.

• Mancanza di un organismo sovranazionale che monitori, ma soprattutto punisca i Paesi che non
adempiono ai loro doveri: non sono previste forme di controllo, ma solo verifiche quinquennali
effettuate da parte degli Stati stessi.

• Scarsa collaborazione finanziaria e tecnologica dei Paesi più industrializzati.


Durante la Conferenza di Copenhagen, i Paesi sviluppati si erano impegnati ad investire 100
miliardi di $ all’anno per sostenere l’attuazione di politiche di mitigazione e adattamento ai
cambiamenti climatici nei Paesi meno sviluppati, ma è emerso che questo impegno non è stato
realmente soddisfatto. L’anno in cui si sono raccolti più soldi è stato il 2014 con 62 miliardi di $.

• Infine, nell’accordo di Parigi si fa solo un vago accenno alla necessità di raggiungere il picco delle
emissioni di gas serra quanto prima, così da poter iniziare a beneficiare rapidamente delle azioni di
mitigazione individuate negli INDC.
Il picco di emissioni verrà quindi posticipato.
La cessazione di emissioni non è un processo immediato: anche se eliminassimo qualsiasi forma di
immissione di gas serra in questo istante, la concentrazione rimarrebbe comunque alta per un
periodo relativamente lungo.
Differenza tra emissioni e concentrazione di gas serra. Paragone con vasca piena di acqua.

Dopo Parigi si sono tenute altre 4 importanti conferenze.


Ricordiamo la Conferenza di Katowice del 2018.
REDD PLUS (REDD+): processo di riforestazione finanziato da un Fondo per il Clima, con l’obiettivo
di mantenere in vita aree forestali in pericolo di vita.

La Conferenza di Parigi è stata firmata da Obama nel 2015, ma a partire dal 2017 il presidente
Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti sarebbero usciti dall’accordo di Parigi.
Attualmente, il nuovo presidente americano Joe Biden ha dichiarato che gli USA rientreranno in
questo accordo.

Lezione 7
Popolazione, alimentazione e risorse in un pianeta finito

Crescita demografica
Nel 2020 siamo 7,8 miliardi e cresciamo di circa 80 milioni all’anno.
Nel 2050 saremo verosimilmente 9,2 miliardi (di cui 8 miliardi nei Paesi di sviluppo e 1 miliardo nei
Paesi sviluppati). Nel 2100 saremo circa 11 miliardi.
L’enorme crescita demografica che il pianeta sta conoscendo (soprattutto nelle aree più povere)
porta inevitabilmente molte preoccupazioni: sarà possibile sfamare tutta questa popolazione?

Come sfamare la popolazione del futuro? Ogm, agricoltura biologica, alimentazione vegetariana e
vegana, agricoltura alternativa (sistema idroponico)?
Il pianeta è sufficiente? Impronta ecologica!

Risorse naturali, povertà e rischi ambientali

Dall’Human Development Report del 2011 emergono una serie di dati.


A livello globale, circa il 40% dei terreni è degradato a causa di erosione dei suoli e pascolo
intensivo, con conseguente diminuzione della produttività e dei raccolti.
L’agricoltura ha un impatto del 70-85% sull’impiego idrico.
Nei prossimi decenni questi fattori ambientali faranno salire i prezzi mondiali degli alimenti (anche
del 50%), con gravi ripercussioni per le famiglie povere.
I rischi maggiori sono corsi dagli 1,3 miliardi di persone che vivono di agricoltura, pesca, caccia e
raccolta.
È probabile che il peso del degrado ambientale e del cambiamento climatico aumenti le
disuguaglianze: molti poveri rurali dipendono in modo preponderante dalle risorse naturali per il
loro reddito.
La nostra impronta ecologica: 1,6 pianeti!

L’impatto dell’agricoltura

L’agricoltura si estende sul 10% della superficie terrestre (circa 15 milioni di Km 2).
È un’attività in forte calo nei Paesi sviluppati: in Italia, riguarda solo il 3,5% degli occupati; è ancora
molto forte nei PSV per contributo al PIL e per numero di occupati (90% di occupati in Burkina
Faso).
Vi è una grande differenza tra le diverse tipologie di agricoltura praticate nel mondo.

Carta che indica dove l’agricoltura contribuisce in misura più consistente al PIL (continente
africano).
Carta che mostra la % di impiegati nel settore agricolo. Notiamo un’alta % nel continente africano.

Agricoltura di sussistenza

• Estensiva, praticata su vaste aree con poca manodopera e bassa resa.


Si fa riferimento al nomadismo pastorale praticato nelle steppe asiatiche e nelle zone semiaride
africane, ma anche all’agricoltura itinerante praticata in America centrale, in Africa e nel sud-est
Asiatico.

• Intensiva, praticata su aree ridotte, molta manodopera e alta resa.


Per lo più associata a forme di policoltura, vi si dedica circa il 45% della popolazione mondiale (es:
produzione di riso in Cina, Indonesia, Bangladesh).
Tipica anche delle campagne italiane fino alla fine dell’Ottocento.

Agricoltura di mercato
Questo sistema è caratterizzato da una forte specializzazione, vendita esterna e interdipendenza di
produttori e acquirenti (mercato). Sistema agroindustriale.
Il campo viene equiparato alla fabbrica sia nella gestione che nella produzione e
commercializzazione.
• Estensiva: si stende su vaste aree e ha rese basse, associate a bassi investimenti. È associata a
grandi fattorie commerciali o grandi allevamenti allo stato bravo (America meridionale).

• Intensiva: si concentra sulla massimizzazione della resa (alta resa e basso impiego di
manodopera), ottenuta attraverso la meccanizzazione, uso di prodotti chimici, irrigazione e
selezione delle sementi (esempio dei Belts in USA).

Agricoltura di piantagione
Si tratta di una tipologia di agricoltura adottata prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo, a
causa del clima e dell’economia facilmente manipolabile.
Monocoltura speculativa praticata in aree climatiche favorevoli alla coltivazione di prodotti
tropicali (ananas, banane, tè, caffè, cacao…). È una forma di agricoltura fortemente specializzata:
questo tipo di produzione è adibita totalmente all’esportazione (proprietà di multinazionali,
vicinanza a vie di trasporto).
La forza lavoro è locale e sottopagata (contadini analfabeti).

Diritto al cibo e sicurezza alimentare: due concetti diversi

Diritto al cibo Sicurezza alimentare


Concetto LEGALE Concetto POLITICO
Nel 1941 viene indicato come diritto in un È un concetto successivo a quello di diritto al
discorso di Roosevelt e nel 1948 viene cibo.
riconosciuto come diritto dell’uomo nella
Dichiarazione Universale
Fa riferimento ad un duplice bisogno: essere Esso integra il concetto di accesso alla
liberi e di nutrirsi per sopravvivere quantità di cibo con quello di sicurezza
nutrizionale (buona qualità del cibo).
Fino agli anni ’70, il paradigma alimentare Alcuni momenti chiave:
era basato sul bisogno di migliorare i metodi 1974: non si parla più soltanto di
di produzione del cibo. Bisognava quindi un’adeguata produzione, ma anche
favorire un potenziamento della produzione, distribuzione del cibo.
attraverso la tecnologia e la rivoluzione 1996 World Food Summit: si dà una
verde. definizione di sicurezza alimentare quale
“accesso fisico ed economico ad alimenti
A partire dagli anni ’80 nasce un nuovo sicuri, in quantità sufficienti e nutrienti”.
paradigma in cui la questione del diritto al
cibo viene messa in collegamento con le
disuguaglianze globali. Ciò che diventa
dominante nell’interpretazione è che la
carenza di cibo non è dovuta all’incapacità
della Terra di produrlo, ma alla sua iniqua
distribuzione ed accesso ineguale.
L’obiettivo è quello di favorire politiche e Concorre al soddisfacimento del diritto al
movimenti del cibo. cibo.
La sicurezza alimentare è un concetto che
può portare ad un’estensione a scala globale
del concetto di diritto al cibo.

Sovranità alimentare: integra aspetti legali con aspetti di sicurezza e qualità del cibo, ma anche
aspetti sociopolitici che riguardano non solo i diritti ad avere cibo (equa distribuzione) e la sua
qualità, ma anche il diritto dei popoli di scegliere quale tipo di produzione agricola vogliono
portare avanti, che tipo di cibo.
È il diritto di ogni popolo di poter definire il propri sistema agricolo.
Prende in considerazione anche un’alimentazione vegetariana e vegana.

(In)sicurezza alimentare

Ciò che emerge da alcuni dati della FAO è che nei continenti più economicamente arretrati
coesistono all’incirca la stessa quantità di bambini sottonutriti e sovrappeso.
• Nel 2018 più di 820 milioni di persone erano sottonutrite (nel 2015 erano 784 milioni: la
riduzione delle terre coltivabili avrà un’enorme conseguenza sulle popolazioni povere che non
potranno procurarsi cibo).
• Circa 2 miliardi di persone conoscono una qualche forma di insicurezza alimentare.
• L’Africa è la regione con la maggiore incidenza di persone sottoalimentate: 20% della
popolazione.
• Nel 2018, 49,5 milioni di bambini sotto i 5 anni erano affetti da forme di malnutrizione severa o
rachitismo, mentre circa 40,1 milioni erano sovrappeso.
• Asia e Africa contano circa ¾ di tutti i bambini sovrappeso: 46,9% in Asia e 23,8% in Africa.
Sovrappeso causato da cibi processati e confezionati, ricchi di zuccheri e grassi.
Bambine vengono fatte ingrassare per renderle più appetibili per il matrimonio.

Carta che descrive le calorie procapite.


Carta che descrive la sottonutrizione nel mondo.
Carta che descrive la produzione di carne nel mondo: i Paesi più economicamente avanzati sono
quelli responsabili di una maggiore produzione di carne. Produzione di carne è strettamente legata
all’emissione di metano ed altri inquinanti (ruminazione dei bovini).
Carta che illustra la situazione di obesità nel mondo: gli Stati Uniti hanno la maggiore incidenza di
popolazione obesa. I dieci Paesi con più obesi: USA, Nuova Zelanda, Australia ecc.. con prevalenza
di donne.

Accesso a cibo di scarsa qualità


Dagli Stati Uniti nasce un concetto che indica l’impossibilità per alcune fasce di popolazione di
accedere a cibo di qualità, risultante in un’alimentazione costituita prevalentemente da junk food.
La causa è il benessere economico: disuguaglianze nella distribuzione del reddito.
Le fasce di popolazione a basso reddito, che spesso vivono nelle periferie delle grandi città, non
hanno disponibilità economica tale da poter permettere una libera scelta alimentare. Al contrario,
la loro scelta alimentare è forzata all’acquisto di cibo altamente processato, confezionato, ricco di
grassi e zuccheri.
La popolazione economicamente più debole degli Stati Uniti tende ad essere obesa.
Queste zone, aree che si collocano prevalentemente nelle periferie delle grandi città, vengono
chiamate Food deserts.
L’agricoltura è responsabile dell’immissione dei gas serra nell’atmosfera, ma è anche vittima di
questo fenomeno e dell’inevitabile innalzamento della temperatura (come conseguenza dei
cambiamenti climatici).

Impatti dell’agricoltura sui cambiamenti climatici


I cambiamenti nelle condizioni del suolo, derivanti sia da cambiamenti nell’uso del suolo o del
clima, impattano sul clima regionale e globale.
Tra il 2007 ed il 2016, l’agricoltura, silvicoltura ed altri usi del suolo hanno prodotto circa il 13% di
CO2, il 44% di metano e l’8% di anidride solforosa.
In totale, hanno contributo a quasi ¼ (23%) di tutte le emissioni di gas serra di origine antropica.

Impatti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare


Dall’epoca pre-industriale, la temperatura dell’aria al suolo è aumentata circa 2 volte di più della
temperatura media globale.
(Dall’epoca pre-industriale, la temperatura dell’atmosfera terrestre è aumentata di 1°C).

I cambiamenti climatici hanno inciso negativamente sulla sicurezza alimentare: peggiore resa
agricola a causa di fenomeni quali siccità, inondazioni, cicloni. La minore produttività porterà ad un
progressivo aumento del costo del cibo.
Impatti sempre crescenti sul suolo, sulla fertilità e produttività agricola: i poveri saranno sempre
più colpiti nel futuro.

Alcuni esempi di impatti:


• Riduzione della resa dei raccolti
• Aumento dei prezzi del cibo, dell’insicurezza alimentare e di disordini
• Si prevede che l’adattamento ai cambiamenti climatici nel futuro imporrà di eliminare la
produzione di quei raccolti ad alta emissione di gas ad effetto serra. Es: il kiwi, che necessita di
grande quantità di acqua, non potrà più essere coltivato in alcuni territori. Es: castagne.
Es: produzione di pomodori, che in futuro potranno essere non più coltivabili nell’Italia
meridionale, vittima di siccità dei territori. Stanno sperimentando la possibilità di coltivare
pomodori su terre salinizzate (terre costiere). Normalmente, le piante non sopravvivono se irrigate
con acqua salata.
Questo discorso si collega con il valore potenziale del territorio.

Carta tematica che rappresenta gli impatti previsti dei cambiamenti climatici sulla resa agricola.
Verde: aree favorite dai cambiamenti climatici nella produzione agricola (es: penisola scandinava,
generalmente molto fredda, avrà un clima più mite e quindi più favorevole); rosso: aree che si
troveranno in grossa difficoltà (maggiore siccità, con conseguente perdita di fertilità. Es: Australia).

Notiamo come la maggior parte delle aree verdi si trovino nel Nord del mondo, già oggi favorito
nella distribuzione alimentare.
Nel futuro, le aree oggi più povere subiranno un declino nella resa agricola.

(In)sicurezza alimentare e disordini sociali


Due carte: Food Security Risk e Civil Unrest
Dove c’è maggiore insicurezza alimentare c’è anche una maggiore instabilità politica: il controllo
delle risorse alimentari è un aspetto fondamentale per la pace sociale.
La mancanza di cibo provoca scontento generale.
Impatti sulla popolazione
Dipendono dalle condizioni socioeconomiche e ambientali delle popolazioni: se sono produttori o
consumatori di risorse, se producono per sussistenza o per il mercato e quanto velocemente
possono diversificare le loro tecniche di sopravvivenza, quanto accesso hanno alle risorse e quanta
capacità hanno di adattarsi.
Da qui nasce l’importanza di aumentare la resilienza delle popolazioni.
Resilienza: caratteristica propria di un gruppo umano in grado di adattarsi ad un cambiamento o
shock esterno senza essere stravolto nei propri valori costitutivi.

Si stima che gli impatti saranno negativi soprattutto nei Paesi con un Indice di Sviluppo Umano
basso. Vulnerabilità delle popolazioni più povere del pianeta.
Anche emergenza sanitaria che stiamo vivendo oggi: ad esempio, vengono aumentati posti in
terapia intensiva, comprate

I principali aspetti da considerare


• La gestione sostenibile del suolo può prevenire e ridurre il degrado, mantenere la produttività,
ridurre gli impatti dei cambiamenti climatici e preservare i servizi ecosistemici offerti dall’ambiente
(tra cui la cattura di CO2).
• Le strategie di adattamento devono integrare gli aspetti legati alla produzione alimentare:
passare a forme alimentare meno impattanti
• Sarà necessario rivedere alcune scelte alimentare (no accesso ad alcuni cibi): scelta vegetariana e
vegana benefica per la Terra
• Riduzione del consumo di suolo
• Necessità di ridurre lo spreco e la perdita di cibo
Importante:
• Riduzione delle disuguaglianze globali, così da garantire un accesso al cibo, un uso delle risorse e
una condivisione dei rischi più equi

Vulnerabilità climatica: si stima che l’Africa soffrirà i peggiori impatti dei cambiamenti climatici, pur
avendo contribuito in misura irrilevante all’emissione di CO2. Ingiustizia climatica: i popoli che
subiranno maggiormente gli effetti dei cambiamenti climatici, sono quelli che meno hanno
contribuito all’emissione di gas inquinanti nell’atmosfera.
(Il fatto che questi Paesi avessero contribuito di meno all’emissione di anidride carbonica è
diventato il principio etico per cui secondo il Protocollo di Kyoto questi Paesi potevano inquinare,
perché dovevano completare la propria crescita economica).

(Come il turismo toglie accesso alle risorse fondamentali e viene visto in maniera negativa dalle
popolazioni locali).
Come aumentare la disponibilità di cibo?

La “rivoluzione verde”
Avviata dagli anni ’70 del ‘900, fa riferimento all’introduzione di fertilizzanti chimici (a base di
fosforo e azoto, sintetizzati chimicamente per la prima volta nel 1842) e ad un miglioramento
progressivo delle sementi (/semi, attraverso una selezione di varietà più produttive o resistenti) e
della gestione (irrigazione, uso di fertilizzanti e pesticidi…)
Ciò ha portato ad una semplificazione della produzione del cibo in tutto il mondo e ad un aumento
nella produzione agricola mondiale.
Bisogna però ricordare che la rivoluzione verde non si è ancora estesa a tutto il pianeta. Infatti,
molte aree dei Paesi in via di sviluppo son ancora molto arretrate dal punto di vista della
tecnologia agricola.

Ha avuto anche impatti negativi:


• Ha introdotto l’obbligo di acquistare le sementi (/semi)
• Ha imposto un’estensione della pratica “malsana” della monocoltura su larga scala (che porta ad
un impoverimento del suolo), che a sua volta espone le colture a maggiori attacchi da parte di
parassiti e agenti patogeni e ha portato alla riduzione drastica del numero di specie coltivate e
all’erosione dei suoi. (Nelle policolture di sussistenza, invece, nonostante la presenza di agenti
patogeni il resto del raccolto viene preservato).
• Ha reso l’agricoltura dipendente da alti consumi energetici (ad esempio, servono combustibili
fossili per far funzionare i trattori e l’utilizzo di concimi chimici impone un alto consumo energetico
nella fase precedente al lavoro nel campo).
• Ha implicato un cambio culturale da parte dei contadini, che prima utilizzavano il letame come
unica fonte di fertilizzante. Cominciando a vedere i risultati positivi dei prodotti chimici, sono stati
responsabili di un enorme consumo di fertilizzanti e concimi chimici spesso sovraccaricando i
sistemi naturali di input esterni. Hanno imposto, contemporaneamente, una scarsa attenzione per
la preservazione dell’humus, tanto importante per i sistemi agricoli tradizionali.

È stato calcolato che ogni anno vengono utilizzati 2 milioni di tonnellate di presticidi. Essi sono
fondamentali per semplificare il lavoro degli agricoltori, ma hanno anche un forte impatto
sull’ambiente (perdita di humus, inquinamento suoli e falde acquifere, moria delle api,…) e sulla
salute dei consumatori.

La “rivoluzione verde” oggi


La “rivoluzione verde”, iniziata negli anni ’70, è proseguita fino ai giorni nostri divenendo una
“rivoluzione genetica”, attraverso l’uso di biotecnologie per produrre Organismi Geneticamente
Modificati (OGM).

Cos’è un OGM
È un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo
diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale.

(Tutte quelle forme di modificazione genetica che vengono fatte attraverso un meccanismo di
riproduzione naturale non vengono riconosciute come OGM.
La modificazione genetica delle specie vegetali e animali avviene da secoli, ma non rientra nella
definizione di OGM: tutto ciò che viene invece ottenuto con programmi di miglioramento genetico
convenzionale è escluso dalla definizione di OGM, pur comportando modificazioni del genoma.
Le piante OGM sono piante in cui una sequenza genetica viene presa e sostituita con la medesima
sequenza genetica di un’altra specie. Ciò permette a quella pianta di acquisire delle caratteristiche
non proprie).

A cosa servono gli OGM


Gli OGM autorizzati per la coltivazione (soia, mais, cotone, colza e tabacco sono tra i più diffusi)
sono stati sviluppati principalmente per due scopi:
• rendere le piante resistenti ad avversità di tipo biologico come virus o insetti. Sono gli OGM Bt: la
pianta acquisisce un insetticida interno, per cui l’agricoltore investe in questi semi per risparmiare
sugli insetticidi. (L’insetticida è contenuto nella sequenza genetica della pianta con cui viene fatta
trasformare).
• renderli tolleranti ad un erbicida. Sono gli OGM HT: la pianta resiste ai diserbanti. Viene presa
una sequenza genetica di una pianta che non subisce danni da quel particolare erbicida ed inserita
all’interno del codice genetico della pianta che si vuole andare a coltivare.
Le aziende che vendono l’erbicida a cui la pianta è immune aumentano i profitti.

Altri OGM
OGM arricchiti di nutrienti che scarseggiano nella dieta di determinati popoli, ad esempio il Golden
Rice, addizionato con pro-vitamina A, capace di risolvere il problema della carenza da vitamina A
nel Sud-Est Asiatico.

Importante: le sementi OGM non sono fertili.


Se tradizionalmente il contadino teneva da parte una quantità di semi per seminarle l’anno
successivo, questo discorso non è più valido con i semi OGM. Entrare nel mercato OGM significa
quindi mettere in conto di dover comprare ogni anno delle sementi che costano caro (frutto di
investimento tecnologico). Una volta entrati nel mercato degli OGM è molto difficile uscirne.

OGM e sicurezza alimentare


Distinzione tra sicurezza alimentare (la certezza della disponibilità di cibo soprattutto nei PVS) e
salubrità alimentare (qualità del cibo, concetto diffuso nei Paesi sviluppati).

L’UE ha rifiutato per lungo tempo l’accesso degli OGM alla produzione agricola sul territorio,
perché non era chiaro il loro impatto sulla salute dell’uomo.
Principio di precauzione: quando ci si trova di fronte ad una scelta di cui non si conoscono bene i
risultati, è meglio scegliere la via della prudenza ed attendere studi e testimonianze ufficiali.

Da numerosi studi emerge che gli OGM fino ad oggi autorizzati non manifestano un
comportamento diverso da quello delle colture tradizionali.

Regolamentazione UE e dibattito
Opposizione di alcuni Stati membri di introdurre gli OGM, in particolare la Francia (per
salvaguardare le peculiarità alimentari del proprio Paese).
Un altro motivo di questa opposizione è fondamentalmente quello di bloccare le importazioni di
OGM dagli Stati Uniti, che è il maggior produttore.
Fino al 2013 nessun OGM è stato autorizzato nell’Unione Europea, creando una crisi diplomatica
con gli Stati Uniti, che ritenevano che l’operazione dell’Europa fosse quella di mettere un veto alla
commercializzazione di prodotti americani su suolo europeo.
Possibilità di immettere sul mercato prodotti che contengono quote pari a 0,9% di presenza
accidentale di OGM; fino ad arrivare al 2015, quando la Commissione Europea ha dato il via libera
alla commercializzazione di 19 nuovi OGM, che si sono uniti ai 58 già autorizzati dal 2013 al 2015.

L’Italia e gli OGM


Dovendo attenersi alle direttive dell’UE, non è possibile limitare l’importazione di prodotti OGM
autorizzati a livello europeo né vietarne la coltivazione se non per motivazioni scientificamente
supportate.
La penetrazione delle colture geneticamente modificate in Italia è stata fortemente contrastata: la
soglia accettata di OGM nei prodotti commercializzati è di 0,5%.
In Italia la gran parte dei mangimi utilizzati negli allevamenti è prodotta a partire da soia e mais
geneticamente modificati.

Lunedì 23/11/2020

Economia: OGM e multinazionali. Alcune critiche agli OGM:


• Gli OGM sono sterili per scopi commerciali: la pianta non produce semi fertili ed il consumatore è
costretto a ritornare dal fornitore. Questo aspetto è estremamente problematico per i Paesi
poveri, nei quali l’agricoltura è basata molto sulla conservazione dei semi fertili per l’anno
successivo. I contadini sono costretti all’acquisto di nuove sementi ogni anno.
• Gli OGM sono coperti da diritti di riproduzione da brevetti: le multinazionali hanno brevettato
queste sementi e l’unico modo per acquistarle è quello di pagare anche i brevetti.
In questo modo si è creato un monopolio delle multinazionali attive nel mercato del seme.

[Grande problematica: contadini poveri in India.


Vandana Shiva è un’attivista indiana che lotta per il diritto al cibo. È contraria all’agro business e
favorisce riflessioni più di ordine sociale.
Dario Bressanini: parla dei vantaggi degli OGM.
Non ci sono reali motivi per vietare l’utilizzo di OGM, perché dopo anni di ricerche non è stato
riscontrato alcun problema sulla salute uomo. Tuttavia, potrebbe ridurre la diversità genetica di un
territorio (biodiversità).
In India l’OGM principale è il Golden rice.
Se durante l’anno il raccolto viene distrutto, il contadino non avrà i soldi per ripagare il debito che
ha fatto per acquistare le sementi. Ciò porta al suicidio o vendita della propria terra: spesso legato
al fenomeno di land grabbing.
Non potendo impiantare le sementi OGM dell’anno successivo perché sono sterili, il contadino si
trova senza niente da coltivare]

Chi guadagna nell’introduzione degli OGM?

(Nei Paesi estremamente poveri c’è molto interesse negli OGM Bt perché ridurrebbero le perdite
del raccolto. Nei Paesi sviluppati le aziende hanno fatto una scelta strategica: produrre OGM che
dessero vantaggi immediati agli agricoltori per mantenere la loro presenza sul mercato.)

Chi ci guadagna? I produttori che vendono i semi, gli agricoltori che possono avere rese maggiori e
minori costi di produzione ed i consumatori che trovano dei prezzi bassi, in quanto i costi di
gestione sono diminuiti.

Alcune considerazioni sulla produzione del cibo


(Mucca pazza: creare mangime per i bovini a partire da parti non utilizzate di bovini macellati)

• OGM e diritti intellettuali: brevetto che implica un pagamento per lo sfruttamento dei diritti
• Grande Distribuzione Organizzata (GDO) che ha introdotto il problema del packaging (e l’utilizzo
di grandi quantità di plastica) vs Consumo locale
• Packaging: produzione di rifiuti
• Ortaggi sempre più piccoli e colorati: abituati a pensare che gli ortaggi devono essere belli.
Meccanismo di selezione di specie che favorisce le specie che hanno una massimizzazione della
resa > impoverimento genetico
• Consumo del terreno, di acqua, di petrolio e di concimi chimici (inquinamento da composti
azotati), emissione di gas serra (deforestazione, allevamento bestiame: per ottenere 1 kg di carne
bovina servono tra i 700 e i 15'000 litri di acqua e vengono prodotti 16 kg di CO2).
• Politiche agricole incomprensibili (es: quote latte e set aside policy)
Allevatori ed agricoltori gettano parte del loro raccolto perché non possono metterlo in vendita sul
mercato: hanno grosse perdite perché non hanno una vendita garantita (es: contadini sardi).
• Sfruttamento di manodopera non qualificata (caporalato)
• Fame VS sovralimentazione: fenomeni che coesistono

Lezione 8
Turismo e sviluppo

Turismo: alla ricerca di una definizione (finestra temporale e motivazioni)


Il turismo è un’attività praticata da chi si sposta dal luogo abituale di vita e lavoro verso un’altra
zona per almeno una notte e per non più di un anno, con lo scopo di arricchire le proprie
conoscenze, migliorare la propria salute o divertirsi fuori dai normali comportamenti della vita
quotidiana.

Push and pull factors


Fattori di spinta (legati alla domanda) e di attrazione (legati all’offerta).

Fattori di spinta (motivi che spingono i turisti):


 Evadere dallo spazio quotidiano
 Disponibilità di tempo e di denaro
 Ricerca di condizioni climatiche migliori o adeguate
 Ricerca di un ruolo altro (bisogno di alienazione)

Fattori di attrazione:
 Accessibilità fisica (possibilità reale di raggiungere una destinazione) e psicologica
(disponibilità di recarsi di un luogo altro rispetto al quale provengono)
 Immagine turistica: potente strumento di attrazione
 Fattori esogeni: guerre e situazioni di instabilità politica, tassi di cambio, sicurezza, salute
 Dinamiche sociali e demografiche globali
 Trasporti
I bisogni dei turisti: la piramide dei bisogni Maslow
Bisogni primari (fisiologia e sicurezza), bisogni sociali (appartenenza e stima), bisogni del sé (auto-
realizzazione). Tutti questi bisogni concorrono anche a creare le aspettative turistiche.
Oggi il turista ha esigenze sempre più sofisticate e la vacanza deve soddisfare prevalentemente il
bisogno di autorealizzazione e, di conseguenza, tutti i livelli di questa scala di bisogni.

Componenti del fenomeno turistico


Il turismo presenta almeno 3 elementi che interagiscono:
 Un elemento dinamico: il viaggio
 Un elemento statico: il soggiorno
 Un elemento consequenziale: effetti sul sistema economico, socio-culturale e fisico con cui il
turista viene a contatto.
Ne risulta che il turismo è un sistema complesso che include i turisti ed i servizi ad essi associati.
Lo spazio turistico
Il turismo è un fenomeno spaziale che crea discontinuità.
Infatti, lo sfruttamento delle risorse turistiche è molto vario e questo provoca un’occupazione
discontinua dello spazio: spazio polarizzato.
All’interno dello spazio turistico convivono turisti e abitanti locali, che hanno una diversa
percezione del sito.

All’interno dello spazio turistico riconosciamo tre (3) zone principali:


 Spazio di partenza, da cui provengono i turisti.
È lo spazio su cui agisce la promozione turistica, attraverso la creazione di immaginari
turistici spesso stereotipati. Abbiamo anche una stereotipizzazione dei consumatori.
 Spazio attraversato, cioè lo spazio del viaggio.
È caratterizzato dalla presenza di nodi, ossia punti di passaggio obbligati che possono essere
fisici (es: fiume, mare), tecnici (es: ponte, porto) o geopolitici (dogana).
 Spazio di arrivo, ossia lo spazio destinato al turismo.
È spesso fortemente influenzato dalla scelta di divenire spazio turistico. Per questo motivo
l’ambiente naturale, la cultura e l’economia vengono spesso modificati per soddisfare gli
obiettivi del turismo.

Turismo e trasporti
I luoghi della terra diventano turistici nel momento in cui diventano accessibili per uno
sfruttamento turistico.
I trasporti hanno avuto e hanno tutt’ora un ruolo primario nello sviluppo turistico, ma anche nella
percezione dello spazio.

Fasi del turismo e mezzi di trasporto: età della ferrovia (da metà 1800 sino ad oggi)), età
dell’automobile (a fine del 1800; ha permesso l’allargamento dei flussi turistici del weekend e degli
escursionisti), età dell’aereo (dagli anni ’30; aeroporti internazionali).

Accessibilità (fisica e culturale)


L’accessibilità è connessa alla costruzione di adeguati mezzi di trasporto per far fronte alle
esigenze dei turisti. Si fa riferimento anche all’accessibilità culturale, promossa dallo sviluppo della
comunicazione di massa attraverso internet. Ha permesso di osservare realtà anche molto distanti
da noi grazie alla rete telematica.

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