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Filologia Della Letteratura Italiana

Prima Lezione (20/04/2020)

Che cos'è la filologia? Per introdurre questo argomento potremmo riprendere la citazione di un


filosofo, poeta romantico tedesco, di nome Friedrich Schlegel, il quale agli albori della scienza
filologica, intesa in senso moderno-contemporaneo, ci dice qualcosa di interessante.  Ci dice
innanzitutto che ogni volta che leggiamo, facciamo un atto filologico, cioè scegliamo un testo con la
consapevolezza che quel testo sia un testo d'autore. Leggere, dice Schlegel, è un atto filologico.
Scegliamo questa citazione perché conoscere un testo in qualsiasi formato questo testo si presenti,
ha bisogno di un atto di coscienza filologico; non tutti i testi sono testi d'autore. Infatti lo scopo
principale della filologia è l’Institutio Texit, cioè la "Costituzione del Testo”. Questo deve essere
ricostruito nella sua autenticità e nella sua veste autentica, intesa come unica espressione legittima
della volontà di un autore. Il testo di opere antiche e moderne va ripristinato compiendo ogni sforzo
per eliminare e allo stesso tempo documentare anche guasti, fraintendimenti, deformazioni
arbitrarie, che nel tempo, per cause differenti, possono essere introdotte nelle alterne vicende nella
trasmissione di un testo. Per questo procedimento si usano terminologie e più tecniche rispetto alla
parola nuda "Filologia"; si usano infatti espressioni come "Filologia Testuale", "Critica del Testo",
"Critica Testuale", o "Ecdotica”. Tuttavia, la parola "Critica”, non va Intesa come "Critica
Letteraria”, come critica intesa come interpretazione generale dei testi, ma la "Critica Testuale”,
porta a quel processo che ci conduce alla autenticità del testo. La filologia è una disciplina tecnica
che ha tutto un lessico specifico; ha tante procedure da seguire, ma è anche una disciplina che si fa
ogni volta sui singoli testi. 
La testimonianza di quanto detto proviene da uno dei filologi (degli editori) più importanti della
nostra tradizione della filologia della letteratura italiana. Forse il primo filologo che, accanto al suo
maestro Pio Rajna, ci forniscono due testi fondamentali della nostra tradizione letteraria.
Pio Rajna ci fornisce l'edizione critica (l'edizione del testo secondo le ultime verità dell'autore, cioè
quell’operazione che appartiene proprio alla filologia testuale) del "De Vulgari Eloquentia” di
Dante, mentre Michele Barbi ci fornisce l'edizione critica del testo della "Vita Nova” di Dante.
E proprio Barbi, parlando della scuola di Rajna, sostiene come la filologia sia un atto che si fa, e
non un sistema chiuso e complesso. Egli afferma come "Ogni testo ha il suo problema critico, ogni
problema la sua soluzione, e che quindi le edizioni non si fanno su modello e a macchina.
Non bisogna credere che tutto consista nell'apprendere norme fisse applicabili ad ogni caso, ma il
più si impara facendo".  Quindi noi abbiamo un sistema di regole, ma questo sistema di regole va di
volta in volta applicato al testo e alla tradizione del testo che guardiamo.
A questo punto potremmo chiederci "Che cos'è un testo?". Il concetto di testualità si è molto
allargato oggi, vista la relativa facilità di accesso a testi disparati. Con il passare del tempo infatti
abbiamo la possibilità di trovare svariati testi in rete; questo però ci impone una riflessione sul ruolo
della filologia, perché ogni volta bisogna verificare la veridicità dei testi e agire filologicamente,
chiedendosi cosa abbia voluto dire veramente l'autore, se possa essere un testo d'autore o un testo
studio, e quindi ricostruirne la storia e ripristinare le vere attribuzioni. Oggi si fa presto a dire che
siamo in presenza di un testo, ma il problema della testualità è molto evidente, soprattutto nel
mondo di oggi nel quale abbiamo a disposizione tanti strumenti. Ad esempio noi crediamo che,
facendo una ricerca su Google, di avere a disposizione il vero testo di un autore, quando in realtà
non è così. Oggi si presenta un problema filologico che forse era lo stesso di quello che un tempo si
presentò agli occhi dei primi stampatori, quando si ritrovavano di fronte a stampare le opere
fondamentali della nostra tradizione (come ad esempio la Bibbia, per quanto riguarda la letteratura
Europea, o la “Commedia” di Dante per quanto riguarda la nostra letteratura).
Questi si ritrovarono di fronte a tanti codici, e ne dovevano scegliere uno.
La “Vita Nova” di Dante viene ripresa da due tradizione critiche (cioè gli editori del testo) diverse:
- una, che è quella di Michele Barbi del 1907, che la intitola "Vita Nuova”
-l'altra, che è quella di Guglielmo Gorni, il quale nel 1997 interviene nell'edizione critica del
Barbi, cambiando innanzitutto il titolo in “Vita Nova”.
Quindi dire “Vita Nuova” o “Vita Nova” significava essere sostenitori di una tradizione o dell'altra. 
Nel 2015 uscì il testo della Vita Nova di Dante nell'edizione della "Salerno Editrici” , nella quale il
testo riprende il titolo che tutta la tradizione critica (nel senso di filologica)  ha dato, cioè la ”Vita
Nuova”.
Che cosa significa "Edizione Critica”? Innanzitutto in un'opera troviamo una prefazione, una
prefazione di tipo discorsivo, nella quale l'autore può specificare i motivi che lo hanno condotto a
fare un lavoro di questo tipo. Poi abbiamo un’introduzione; qui il filologo fa non solo un lavoro di
confronto tra tutti i manoscritti che contengono l'intera opera, ma non può fare a meno di conoscere
tutta la storia della tradizione. L’autore, nell'introduzione, ci parla del lavoro dell'editore critico. Ad
esempio, nell'edizione del Barbi della Vita Nuova, sono rappresentati tutti i manoscritti che egli ha
collazionato ad uno ad uno. Collazionare significa che l'autore andava nelle varie biblioteche e
controllava parola per parola quali fossero le varianti. Dopodichè cominciò a collazionare le prime
edizioni a stampa, cioè controllava se avessero delle varianti significative che ci potessero
testimoniare altri spunti dell'autore. In seguito ha classificato i codici secondo alcune tradizioni
fondamentali. 
In definitiva, possiamo dire che “testo”, oggi più che mai, non significa essere sicuri se questo testo
rispetti la volontà dell'autore.
La filologia della letteratura italiana ha come capostipite il problema di Dante. Questo perché Dante
è l'autore della nostra tradizione letteraria che non ci ha lasciato autografi. Infatti, il problema che si
è presentato per tutti coloro che sono venuti dopo Dante, è stato “Qual è il testo che ci ha lasciato
veramente Dante?". Una delle tradizioni più importanti nello studiare Dante, è stato rappresentato
da Boccaccio, il quale si era creato un libro delle opere di Dante; si era creato una propria silloge
dove aveva aggiunto quella sua introduzione sulla vita di Dante, che oggi conosciamo come
"Trattatello in Laude”. Quindi la filologia italiana si è sempre interrogata sui testi di Dante fin da
Boccaccio, e poi nel corso del tempo. La  filologia contemporanea però, nascerà proprio con due
opere di Dante:
 De Vulgari Eloquentia, Pio Rajna, 1896.
 Vita Nuova, Michele Barbi, 1907.

Seconda Lezione (21/04/2020)

Nella scorsa lezione abbiamo riportato subito una definizione romantica che ci fa entrare nel nucleo
del sistema, cioè ci fa comprendere che l’operazione filologica non è una operazione meramente
tecnica, ma è un'operazione storica; cioè non solo ci aiuta a leggere i testi, ma ci aiuta ad educarci
tecnicamente e a metterci di fronte ai testi in una disposizione critica.  La parola “critica” viene
dalla parola greca “crino”; la parola crino vuol dire non solo soltanto guardare ma anche discernere
(scegliere). La disposizione critica nei confronti della lettura viene per l'appunto da questo atto di
discernimento, cioè non tutto quello che leggiamo ne vale la pena che sia letto o che sia valutato
allo stesso modo, quindi è chiaro che solo nella filologia noi possiamo esercitare la critica nella sua
interezza. Le nozioni di “Filologia” sono complicate, Poterla definire, richiede infatti delle
competenze che forse uno studente non ha. Le definizioni di "filologia" nel Grande Dizionario della
Lingua Italiana (del Battaglia) e di Gianfranco Contini nell'enciclopedia del 900 sono complicate,
richiedono delle competenze che forse uno studente non ha; risultano quasi incomprensibili agli
occhi di uno che si avvicina all’enciclopedia.
A queste definizioni vale la pena di aggiungere nel Dizionario Tedesco la parola filologia viene
definita "la filologia che comprende in sé una conoscenza critica dei libri e delle lingue". E’ una
definizione molto generica che porta la filologia verso la linguistica.
Abbiamo detto che si fa presto a dire testo, ma non sempre i testi che troviamo sono corretti e
corrispondono al vero testo d'autore. Bisogna interrogarsi su casi concreti.
I  2 casi concreti di cui ci occuperemo saranno la “Vita Nuova” di Dante e la “Fiaccola sotto il
moggio di D’Annunzio”; la Vita Nuova come caso di filologia antica fondata su manoscritti, e la
Fiaccola sotto il moggio come caso di filologia contemporanea più orientata su quella branca della
filologia che si chiama variantistica d'autore, che è stata per prima esercitata sui testi contemporanei
( quelli cioè di cui avevamo sia il manoscritto sia la stampa con le ultime volontà dell'autore),  ma
anche sui testi della tradizione classica.
Una domanda ricorrente in questo ambito è “Che cos’è un testo?”. Probabilmente qualunque cosa
scritta è un testo; noi distinguiamo nei testi, i testi letterari dai documenti. Testo letterario oggi non
è soltanto quello che viene pubblicato e stampato, ma anche quello che viene pubblicato su supporti
diversi. 
Oggi però ancora di più, difronte a testi che hanno una tradizione, e soprattutto a testi d'autore,
dobbiamo di volta in volta verificarne la veridicità, che è il primo atto filologico che facciamo ogni
volta che leggiamo un testo; non possiamo accontentarci di leggere la prima redazione di un testo.
Se noi prendessimo ad esempio la “Vita Nuova”, ci accorgeremo che ci sono siti nei quali c'è
proprio il libro in PDF (abbiamo la prima edizione della Vita Nuova di Barbi), e siti nei quali il
testo della Vita Nuova ha diverse redazioni, e come abbiamo notato, soprattutto diversi titoli (Vita
Nuova - Vita Nova). 
Il testo della Vita Nuova più utilizzato dagli studenti è quello presente su Wikisource. 
Qui il testo della Vita Nuova è un'edizione del 1829, mentre in tutti gli altri, Abbiamo visto che c'è
stato uno sforzo degli Editori, di dire che si affidano per esempio alla tradizione del Barbi, o alla
nuova tradizione di Gorni del 1996. In Wikisource invece abbiamo difronte un testo qualsiasi, senza
alcuna attenzione filologica alla scelta della fonte.
Lo scopo della filologia è la Restitutio Textus, cioè la costituzione del testo; testo da ricostruire
nella sua integrità è nella sua veste autentica (intesa come unica espressione legittima della volontà
dell'autore). vuole di costruire i testi di opere antiche e moderne compiendo ogni sforzo per
eliminare e nello stesso tempo documentare guasti, fraintendimenti, arbitrarie deformazioni che nel
tempo possono essere state introdotte nelle vicende alterne nella trasmissione del testo. Quindi più
lontano è da noi il testo più è difficile ricostruire la serie di errori e l'ultima volontà dell'autore.
 Dante è per i filologi italiani un caso esemplare; questo perché di Dante non abbiamo nemmeno
una traccia di un autografo; non sappiamo nemmeno come fosse la sua grafia.
E’ ovvio che la filologia testuale, quella cioè che ci restituisce i testi, sia applicata,secondo me
dobbiamo fare ci dobbiamo levare zaino ci prendiamo cosa dice non è sicuro titolare per oggi ho da
quando gioca e poi ci prendiamo uno è sicuro intitolare la mia così rimpiazziamo Allora secondo
me perché dobbiamo fa' ci dobbiamo levare eriksen e prendere paga lì perché basta che ci non è
titolare fisso però quando gioca e ci vediamo anche a Zai però posto di Zaira Ci dobbiamo prenderli
trovare pizza così abbiamo tutti i titolari e passa da me nel caso di Dante, fin dal principio del
rapporto che abbiamo avuto nella nostra tradizione letteraria con le opere di Dante. 
Abbiamo detto che una delle tradizioni più importanti nello studiare Dante, è stato rappresentato da
Boccaccio, il quale si era creato un libro delle opere di Dante.
Boccaccio allestì una sorta di manoscritto come se fosse un’antologia. Il manoscritto che Boccaccio
fa fabbricare è composto da una sua opera che si intitola “Trattatello in Laude di Dante”; è
importante questo libro di Boccaccio perché oltre ad essere una copia unica (allora non esistevano
le stampanti e macchine fotografiche, quindi era difficile produrre più versioni), contiene tutta la
Vita Nuova, un'antologia di canzoni e tutta la Commedia di Dante.
Dunque è proprio il nostro rapporto con Dante che ci fa capire l'esigenza che abbiamo di stabilire i
testi.
Tra la fine dell’800 e l'inizio del 900, in quel tempo che si chiama Positivismo (che cerca delle
risposte più tecniche al nostro studio della letteratura, e quindi si rivolge agli studi più scientifici),
troviamo Pio Rajna (il maestro di Michele Barbi) con l'edizione dei testi danteschi; egli da vita
all'inizio della filologia italiana come scienza contemporanea. L'operazione filologica non è mai
strettamente tecnica, ma interpretata; cioè la costituzione di un testo non può prescindere dalla sua
comprensione profonda e dalla sua interpretazione autentica. Quindi ci vuole una buona base
culturale per mettersi di fronte ai testi o guardarli con un occhio filologico.
L’atto di nascita della filologia come scienza viene attribuita a Lorenzo Valla, che quando si
accinge a studiare un documento ritenuto a lungo fondamentale nei rapporti tra Chiesa e Stato, 
capisce che quel documento è un falso storico, studiandolo però  da un punto di vista  linguistico
( cioè questo documento non può essere del 300 d.C, dell'epoca di Costantino, perché riporta usi
linguistici che sono successivi all'epoca di Costantino; è stato scritto in un latino che sicuramente è
successivo all'epoca di Costantino, dimostrandolo.
La costituzione di un testo contiene implicitamente la sua interpretazione e la sua valutazione
critica; cioè noi scegliendo semplicemente una parola, facciamo un'interpretazione critica. Non a
caso, i più importanti editori dei testi classici (mondo greco-latino) sono non soltanto Editori ma
anche i maggiori interpreti di questo testo classico, perché giustificano le loro scelte in base al
sistema culturale dell'autore.
Quindi il filologo e contemporaneamente storico nel senso più ampio del termine, perché non solo
si deve avvalere delle nozioni tecniche (i generi letterari come la retorica, la metrica), ma anche
delle Scienze (come la paleografia oppure la linguistica storica) che sono in stretto contatto con la
filologia.
La filologia è stata praticata sin dall'antichità; addirittura affonda le sue radici nella biblioteca di
Alessandria. Questi studiosi della biblioteca di Alessandria si occupavano di dare un testo definitivo
alla Bibbia, che è considerato il testo dei testi.
Con l'invenzione della stampa a metà del Quattrocento si instaura una sorta di culto per quello che
si chiama Vulgata di un testo, cioè per quello che è la trasmissione dei testi a stampa. Di solito lo
stampatore si rivolge al testo più noto di una qualsiasi opera; e quindi la prima stampa di una
qualsiasi opera nell'antichità classica o anche dell'antichità medievale viene ripresa da quella che
viene definita Vulgata.
Dobbiamo a Karl Lachmann due termini che sono fondamentali per la filologia, cioè la Recensio
(la distinzione di tutti i codici), e l’Emendatio (cioè le correzioni apportate ad un testo).
Importante poi è l’Archetipo;è la parola chiave della filologia che significa "il primo dei manoscritti
a cui dobbiamo far riferimento, che probabilmente è quello più vicino alle ultime volontà dell'autore
(all'autografo)”. L’Archetipo è quello da cui parte una tradizione testuale.
Terza Lezione (27/04/2020)

ALBERTO VARVARO “PRIME LEZIONI DI FILOLOGIA” (riassunto pag-142-144)

Cominciamo dalla considerazione finale che ci fa Alberto Varvaro nel testo “Prima Lezione di
Filologia”. Varvaro era un grande filologo romanzo che ha sempre avuto considerazioni
fondamentali in materia filologica. Ha insegnato nell'università di Napoli (era siciliano di origine), è
stato allievo di Salvatore Battaglia (colui che ha realizzato il “Grande dizionario della lingua
italiana). Varvaro diceva che la filologia non godeva di molta considerazione; i filologi sono
accusati di occuparsi di argomenti vecchi e di problemi che non interessano a nessuno, perché
hanno scarsa o nessuna importanza per la cultura di oggi e nessun peso nella vita moderna.
Infatti, se uno pensa alla fatica che ci vuole per stabilire un testo di filologia delle varianti 
(come per esempio il caso della professoressa nella “Fiaccola sotto il moggio”), se uno pensa a
decifrare i manoscritti (fossero anche carteggi e lettere di autori), potrebbe pensare che è tutta una
perdita di tempo; però a noi non interessa tanto il singolo soggetto per quanto complesso, ma quello
che interessa al filologo, è avere la massima cura per la trasmissione dei testi (orali e scritti) e
insegnare quanto sia complesso interpretarli correttamente. Avere la massima cura per la
trasmissione dei testi significa trasmetterli così come volevano gli autori. Questo vale non solo per i
testi scritti e orali, ma vale anche (soprattutto oggi) per un messaggio di WhatsApp o per un
messaggio su Facebook, poiché oggi le forme di scrittura si sono moltiplicate.
Dice Varvaro che il filologo deve essere Innanzitutto onesto; non deve sovrapporre la sua voce alla
voce del testo che ha difronte. Varvaro ci dice anche che oltre al problema del testo, c'è un
problema più grave, cioè la superficialità e la trascuratezza che si usano per interpretare un testo. La
trascuratezza Varvaro la trova ancora più colpevole quando uno non sa nulla delle tecniche di
trasmissione dei testi e quindi storpia un testo (introduce cioè degli errori meccanici che alterano
per sempre il significato). In alcuni casi lo fa volutamente per lasciare in sospeso l'interpretazione o
per manomettere il testo originale.
Varvaro ci invita quindi a guardare con più attenzione i testi; ci dice che oggi soprattutto, se noi
prendessimo un giornale (nel quale viene trattato un determinato argomento), di solito il titolo viene
stravolto, indica un qualcosa di diverso (che viene riformulato) creando caos nelle persone, le quali
sono profeti di qualche verità. Per esempio il caso dei test sierologici; infatti gli scienziati ci dicono
di andare cauti perché non sono molto sicuri; tutti però non conoscendo la materia si sentono
maestri della stessa materia. 
A questo punto potremmo chiederci:” Che c'entra la filologia con tutto questo?”
C’entra molto perché la filologia ci fa ricorrere e scegliere il testo giusto (cioè l'unico, quello che
contiene se non la verità una parziale verità che conduce ad un testo d'autore).
Possiamo dire che il nostro scopo è conoscere la filologia e i suoi strumenti per poterli tirare fuori
ogni volta che ci risulteranno utili; ad esempio è importante conoscere la definizione di “Varianti”
proprio perché queste nozioni ci saranno utili per accostarci di volta in volta ai testi.

RIASSUNTO PAG. 24-36

“La filologia riguarda solo i testi letterari?”.

Un'altra domanda importante è: “La filologia riguarda solo i testi letterari?”.


Cioè uno storico ha a che fare solo con testi letterari o ci vuole uno sguardo filologico anche per un
altro tipo di testi. Varvaro ci dice che la filologia è spesso e soltanto dedicata, nel nostro
immaginario collettivo e anche nella dizione che ne danno i vocabolari, ai soli testi letterari; tuttavia
egli si chiede se questa limitazione fosse legittima. Questa è una limitazione che deriva dall'origine
della disciplina filologica, perché la filologia ha origine dallo studio dei testi classici e della Bibbia,
in entrambi i casi si tratta di testi letterari.
La specificazione che la filologia riguarderebbe i testi letterari ha avuto come conseguenza, per
quanto infondata possa sembrare, la diffusione della formula opposta: cioè che i testi letterari non
abbiano bisogno di cure filologiche. Questo principio veniva violato nel caso di testi non letterari di
particolare importanza storica perché arcaici: un esempio è la fibula prenestina del VII secolo A.C.
con incisa un’iscrizione, trovata a Preneste, vicino Roma. Era il filologo che decideva se valeva la
pena di applicare ad un testo non letterario la stessa metodologia applicata ad un testo letterario. Nel
caso dei documenti di archivio, la pressi prevalente è stata quella dell’edizione detta “diplomatica”
che prevede la riproduzione degli originali manoscritti rispettandone al massimo tutte le
caratteristiche, e quindi conservandone la divisione delle parole, l’uso delle maiuscole e minuscole,
le abbreviazioni e così via. Oggi la riproduzione diplomatica è sempre più sostituita dalla
riproduzione digitale del documento tale e quale. Nel caso di cronache o diari, l’editore è più attento
al significato del testo che alle minuzie formali. Si pensi alle grafie: non si può senza pericolo
ignorare che gli usi sono cambiati nel tempo e quindi interpretare o attualizzare una grafia antica
senza sapere quale fosse l’uso grafico di chi avesse steso il testo. Ne derivano errate identificazioni
di persone e di luoghi o anche la deformazione di frasi intere. Ciò accade anche perché l’editore di
questo tipo di testi è di norma molto più interessato al contenuto che alla forma, fino al punto da
distorcere involontariamente anche il contenuto. A pagina 28 possiamo renderci conto, nell'esempio
di Varvaro, come i due testi hanno un'importante differenza che non è soltanto interpretativa ma
anche grafica.  
Nel testo di Luigi Chiappelli troviamo questo passaggio: “LI DISSEM CHE DEDENS LANCIA
DELL’ORO MI DREBBE LO PIU’ CHE POTESSE”; in realtà il codice dice: “LI DISSEM CHE
DEDENS LA CIANDELLORO MI DREBBE LO PIU’ CHE POTESSE”.
Come possiamo notare il senso cambia profondamente, perché nel secondo caso vuol dire “Mi disse
che avrebbe dato tutto quello che potesse alla Candelora”, quindi non c'entra LANCIA DELL’ORO.
Quindi qualsiasi testo scritto deve essere trattato con i metodi e gli strumenti della filologia.

“La filologia si applica solo ai testi scritti?”.

Particolarmente interessante è anche la domanda: “ La filologia si applica solo ai testi scritti?”.


In base alle definizioni osservate nei vocabolari, sembrerebbe che lo studio filologico non
comprende i testi orali, limitandosi a quelli scritti; in realtà, anche questa affermazione non è del
tutto corretta e si basa sulla tradizione della filologia classica, che ha sempre operato su testi
tramandati per iscritto con tradizione millenaria (come nel caso dei classici greco - latini o della
Bibbia). Tuttavia, sono di interesse (studio) filologico quei testi letterari che, tanto narrativi quanto
poetici, fanno parte della letteratura popolare e, data la loro origine, sono generalmente trasmessi
oralmente. In passato, fino al secolo scorso, per studiare i medesimi bisognava attendere che
qualche copista li mettesse per iscritto, mentre adesso si lavora ascoltando registrazioni sonore o
filmati che ne riprendono l’esecuzione; inoltre, questo studio sui testi tendenzialmente orali è
iniziato soprattutto con il Romanticismo, che aveva posto grande interesse nella riscoperta delle
tradizioni locali e popolari ma spesso tali studi sono stati condotti senza alcun criterio filologico.
L’esempio che vieni qui riportato per i testi orali letterari riguarda il poemetto “La baronessa di
Carini”, che ebbe grande fortuna sopratutto a partire dal 1870, quando lo fece pubblicare Salvatore
Salomone Marino, cultore del folclore e delle tradizioni popolari in Sicilia; lui stesso curò altre due
edizioni con notevoli differenze rispetto alla prima. Tuttavia, quando l’opera venne presentata,
Marino sosteneva di averla scritta sulla base di “un buon numero di versioni”, intendendo con esse
le varie persone che conoscevano la storia e avevano dato il loro contributo.
Nel 1963 un altro scrittore, Aurelio Rigoli, pubblicò le 392 versioni raccolte da Marino,
evidenziando come il suo era stato non un lavoro di restauro, bensì di riorganizzazione delle tessere
di un mosaico, ottenendo un prodotto finale - il poema integrale; quindi, pur avendo forgiato
un’opera del tutto nuova, un falso erudito del XIX secolo,Marino ebbe il plauso della critica e
grande successo, in quanto il suo racconto è stato pubblicato dall’amico Pitrè (folclorista siciliano) e
nel “Canzoniere italiano” di Pier Paolo Pasolini. La storia, comunque, riprendeva un avvenimento
realmente avvenuto nel paesino siciliano nel 1563, vale a dire l’assassinio della baronessa e del suo
amante, riportato anche nei registri della locale parrocchia; Marino è come se avesse attinto da un
ipotetico testo orale (dato dall’insieme delle versioni del racconto) che sarebbe stato formulato di lì’
a poco allo svolgersi dei fatti, magari per suscitare sdegno e allo stesso tempo compianto presso il
popolo. Dice però Varvaro che il testo popolare non è nato immediatamente dopo l'uccisione della
Baronessa di Carini insieme al suo amante, ma questo canto popolare è nato molto lontano da
questo assassinio, perché quando gli storici si sono occupati del caso della Baronessa di Carini, si
sono accorti che l'assassinio era maturato per ragioni politiche e non tanto per ragioni qui accennate,
e addirittura la fanciulla era stata uccisa dal padre. Quindi la storia è completamente deformata
rispetto alla leggenda che ne viene ricavata. Quello che è difficile per il filologo è capire quando la
storia si è formata nell'orizzonte popolare, perché la distanza dal fatto storico in sé, determina la
differenza e la trasmissione della vicenda; non è scontato che un testo popolare ci trasmetta la
vicenda così come è avvenuta, ma può essere che ci trasmetta la leggenda di questa vicenda.

Caso di Isabella di Morra

Di questa storia noi abbiamo solo un documento che è molto lontano dai fatti; è un documento di un
pronipote di Isabella di Morra, il quale in due righe liquida questa vicenda cercando di mantenere il
silenzio. Questa storia verrà tirata fuori tra la fine dell'800 e l'inizio del 900, quando vengono
ripubblicate quelle poche poesie di Isabella di Morra. Si tratta in totale di 13 componimenti, quasi
tutti i sonetti e 3 canzoni; questo “Canzoniere” ci viene tramandato da un editore del 1600 di nome
Antonio Bulifon. Sono poesie molto belle che ti inseriscono in quella linea dei Canzonieri
cinquecenteschi (sul modello di Petrarca); tuttavia sono poesie di una certa inquietudine, nelle quali
però Isabella di Morra non parla mai di questa sua storia d'amore, ma parla soltanto della nostalgia
per il padre lontano e della sua difficoltà interiore (come Leopardi) di vivere in un borgo ristretto.
Poi un famoso orientalista di quel tempo di nome Angelo De Gubernatis, trova la cronaca del
pronipote di Isabella, quindi mette insieme quelle 13 poesie venute fuori alla fine dell'800 con la
vera vicenda di Isabella di Morra. Questa è una vicenda totalmente interessante tanto da
occuparsene Benedetto Croce; egli scrive infatti un bel lavoro storico- filologico.

Riassunto pag. 96-108

L’Apparato

L’edizione critica, a differenza della diplomatica e di quella interpretativa, presenta, generalmente a


piè di pagina, una struttura che raccoglie l’insieme delle varianti alle lezioni introdotte nel testo: tale
struttura prende il nome di apparato critico ed è spesso confuso dagli inesperti con l’insieme delle
note esplicative, anch’esse spesso inserite a piè di pagina ma con struttura e funzione totalmente
diverse. Le lezioni che compaiono nell’apparato sono tutte quelle degli altri testimoni recensiti (e in
altre parti) utilizzati per l’edizione ma che sono state preferite alle lezioni riportate nel testo;
l’apparato consente anche di dare un resoconto complessivo della selezione delle varianti. La
stesura dell’apparato non è semplice e spesso diventa anche difficile collegare lezioni del testo con
le possibili varianti, specie quando esse sono innumerevoli; per evitare che esso assuma dimensioni
macroscopiche, dall’apparato vengono esclusi generalmente i commenti o i giudizi dell’autore sulle
lezioni o varianti in questione, al massimo riportati nelle note esplicative.
Tra gli elementi esclusi, sempre per questioni di estensione, vi sono sovente le varianti grafiche,
eccezion fatta per alcuni testimoni autografi. E’ altresì frequente che, per scegliere le varianti che
compongono l’apparato, si guardi esclusivamente a quelle più alte della tradizione (vicini al
presunto antigrafo). Nella maggior parte dei casi, quindi, non abbiamo apparati completi, in quanto
non vengono selezionate tutte le varianti e questo può comportare problemi nel caso in cui, durante
la stesura dell’edizione, pervenga un ulteriore (e fino allora sconosciuto) testimone del testo in
questione, che in assenza di tutti gli elementi diventa difficile collocare nello stemma (e quindi
nell’apparato) in quanto è impossibile individuarne il ramo di appartenenza senza poter confrontare
con gli altri testimoni gli eventuali errori comuni. Nella incompletezza degli apparati rientra anche
il caso della frequente selezione delle lezioni desunte dai codici più antichi, specie per i testi
classici, di cui non disponiamo lezioni desunte dai testimoni (copie) tardo - medievali che pure
erano stati redatti ( XIII - XV secolo). Proprio per la retrodatazione dei codici selezionati, risulta
sempre più difficile individuare l’eventuale testo base da cui si è proceduto al volgarizzamento; la
vera difficoltà, più che l’individuazione del testo base, risiede nell’accertare se quanto è stato
volgarizzato rispecchia effettivamente ciò che voleva comunicare l’autore di epoca classica o se
invece si tratti di un errore di interpretazione ( o traduzione) da parte del copista medioevale. Gli
apparati critici vengono spesso trascurati anche dagli stessi filologi; essi comunque, a detta del
filologo Rosario Coluccia, ci ricordano comunque che le varianti scartate hanno piena dignità
linguistica e valore documentario, analizzate in termini di fonetica, lessico, morfologia ecc. (più che
sul piano “testimoniale”, volto alla ricostruzione). L’apparato potrebbe anche essere una risorsa
essenziale per il recupero degli “hapax”, termini attestati una sola volta; più facile invece che esso si
presti come specchio degli errori da parte anche dei più autorevoli filologi.
Negli apparati, troviamo spesso lezioni che gli editori hanno ritenuto errate ma che in realtà non lo
sono; è questo il caso di un’edizione di Folena a proposito di un volgarizzamento in siciliano
dell’Eneide, nel quale ritiene errata (e riporta in apparato) la forma “la ventri”, corretta in siciliano e
attestata fin dal lontano XIV secolo.

Il commento

Oltre alla distinzione tra struttura e funzione dell’apparato critico e delle note esplicative, bisogna
sottolineare anche che non tutti i testi sono muniti delle note, quindi del commento. Ad esempio di
ciò, basti pensare alle raccolte della casa editrice Oxford sui testi classici o persino alla raccolta
“Scrittori di Italia”, curata da Benedetto Croce, che riteneva il commento come un potenziale
disturbo che impediva il rapporto diretto tra testo e lettore. La presenza del commento è importante
anche per l’autore dell’edizione stesso, giacché esso raccoglie l’insieme delle informazioni extra -
testuali che sono indispensabili anche per la redazione di un’edizione critica; è piuttosto assurdo
pensare che l’autore si sottragga dal fornire al lettore le stesse informazioni di cui lui stesso si è
dovuto servire per l’interpretazione complessiva del testo, che in più di un punto potrebbe rivelarsi
di ardua comprensione. Un principio generale che accomuna tutte le tipologie di testi consiste nel
fare riferimento ad un universo implicito di conoscenze che, specie i lettori posteriori e non
contemporanei, non possono condividere o, ancor prima, conoscere. Questo universo implicito
dovrebbe aver cura di recuperarlo il filologo e contestualmente metterlo a disposizione del lettore:
per le opere contemporanee, questo è anche facoltativo ma si rende assolutamente necessario man
mano che aumenta la distanza cronologica tra opera e pubblico. Anche per fini didattici, non sono
mai privi di commento i testi classici (su tutti, l’Eneide, per anni modello assoluto) né tantomeno
testi biblici - giuridici o con tali riferimenti (in questo caso, fondamentale l’esempio della
Commedia dantesca, fin da subito commentata anche dai figli del poeta). Sovente, inoltre, si è
presentato, per testi di tradizione secolare, un eccessivo sovraccarico del paratesto esplicativo; la
spropositata abbondanza del commento è tipica, ad oggi, di alcune celebri raccolte di testi letterari,
come I meridiani (Mondadori) o La Pleiade (in Francia).
Per i testi della collana italiana, si è osservata una progressiva crescita dell’estensione del
commento, che è passata dal 10% circa dei primi testi classici raccolti nelle prime edizioni degli
anni ’30 al 30% nelle raccolte più o meno contemporanee (anni 70 del XX secolo);
consequenzialmente, questo ha portato ad un abnorme incremento delle pagine di questi volumi (da
circa 800 si è passati a oltre 2000). Ben lungi da dire che tale lavoro sia inutile o spropositato, anche
in questo caso è preferibile chiarire chi siano i potenziali destinatari di una simile opera, non
escludendo il fatto che un lettore medio, di norma, si attenga esclusivamente a ciò che gli è di
maggiore interesse, ovvero il testo, trascurando commento, introduzione ed apparato, di maggiore
interesse invece, per un pubblico colto o di studiosi. Il critico e filologo Francesco Bruni ha
sottolineato che se da un lato gli studiosi italiani trascurano le numerose informazioni disponibili su
un’opera o un autore ben preciso, dall’altro troppe informazioni finiscono per stufare il lettore, così
come questo si riscontra, nell’era digitale, con le troppe informazioni che corredano le edizioni
digitalizzate dei testi, presenti su Internet. I traduttori dei classici, provenienti da altri paesi si sono
meglio adattati dei colleghi italiani a proposito dei commenti, limitando questi solo alle edizioni che
non circolano nei circuiti comuni, tranne per autori basilari come Shakespeare o Dante. Tale
adattamento, spesso, ha permesso loro di editare intere collezioni anche in formati piuttosto
maneggevoli, come nel caso dell’opera David Copperfield di Dickens, edita in formato tascabile
dalla Everyman’s Library inglese, che nonostante il formato contenuto ha pregevolmente inserito le
illustrazioni che corredavano l’opera originaria (8); il medesimo testo possiede in un massimo di
dieci pagine per ogni sezione tutti gli elementi paratestuali (appendice, bibliografia, apparato
critico, prefazione e commento).

Quarta Lezione (28/04/2020)

ARMANDO BALDUINO-MANUALE DI FILOLOGIA ITALIANA

Metodi Antiquati

Ora vediamo i vari tipi di edizioni che ci consiglia Armando Balduino. Noi sappiamo infatti che
ogni caso di studio è un caso diversissimo e che c'è una bella differenza tra la filologia che riguarda
i manoscritti contemporanei e la filologia della letteratura italiana che riguarda codici e manoscritti
antichi. Tanto per dire noi non abbiamo nessuna autografo di Dante; abbiamo molti manoscritti che
sono stati scritti da altri, ma non abbiamo nessun autografo di Dante. Qualcuno potrebbe dire che
anche di Petrarca abbiamo un manoscritto che non l'ha realizzato lui, ma sappiamo benissimo che è
stato scritto sotto la sua visione; quindi è un manoscritto allografo (cioè scritto da un altro) ma
controllato e sottoscritto (cioè firmato) dall'autore. Vediamo i casi che si possono trovare e quali tipi
di edizione possiamo avere trovandoci di fronte a un testo. Balduino fa riferimento ad un famoso
lavoro di un filologo classico di nome Paul Maas, un lavoro fondamentale che ci riporta tra i metodi
antiquati, cioè tutti quei metodi che riguardano la trasmissione dei testi antichi (quindi vale anche
per i testi medievali, quelli cioè prima dell'edizione della stampa) che si rifanno a questa
metodologia del Codex Optimus. Il Codex Optimus è un riferimento preciso ad una pratica dei
primi stampatori delle opere antiche; per esempio il caso dell'officina di Aldo Manuzio. Aldo
Manuzio è uno dei più famosi stampatori del mondo; è stato un punto di riferimento per i filologi
classici e per i filologi della letteratura italiana. Egli adottò un criterio per stampare le opere; si
accorse subito che, se voleva stampare ad esempio l'Eneide di Virgilio, si trovava di fronte a
problemi testuali (problemi come “quale Omero trasmettere?”, oppure “quale testo trasmettere?”),
quindi andava a cercare le edizioni migliori (quindi il Codex Optimus, “il miglior codice”); non
faceva confronti con le voci ma si riferisce esclusivamente alla lezione di quel codice.
Codex Optimus è quindi una tradizione che si riferisce ad un solo codice detto ottimo (è l'unico
punto di riferimento da cui partire). Il Textus Receptus è invece il ”Testo Ricevuto” alla lettera.
E’ la tradizione che si basa su quella difesa del testo più diffuso nel tempo; il fatto però che sia
molto diffuso non significa che sia quello più autentico (perchè noi cerchiamo il testo più vicino alle
ultime volontà dell'autore). C’è una bella differenza quindi tra il Codex Optimus, che ci sembra
quello migliore e quello che si avvicina alla volontà dell'autore, e il Textus Receptus, cioè quello
che è più diffuso tra il pubblico. Questo Textus Receptus si basa anche sulla considerazione che un
testo diffuso è un testo famoso tra i lettori e quindi è il testo a cui lettori si sono rifatti. La parola che
viene usata in questi casi è Vulgata; la Vulgata è l'edizione più divulgata; la vulgata è per esempio
l'edizione della Bibbia di San Girolamo. San Girolamo non realizza un'edizione critica del testo
della Bibbia, ma si riferisce a quella più diffusa tra il popolo (e la definizione è vulgata).
Ovviamente il metodo del Codices Plurimi (cioè dei più codici, quindi di avere riferimento lezioni
diverse per stabilire la lezione d'autore) è il metodo da cui parte Lachmann per regalarci una
tradizione che possa affondare il suo riferimento in quello che i filologi definiscono “Archetipo”
(ovvero i filologi prendono tanti codici, li mettono vicini e vedono se per esempio una parola è
tramandata in modo diverso, cercando di capire qual è la parola dell'autore). Dobbiamo dire che la
definizione di errore in filologia è ben diversa da una condizione democratica. Cioè se io ho 10
codici e in 9 di questi codici trova una parola mentre in un solo codice trovo un'altra parola, mi
devo interrogare sei in questi 9 codici si tratta di una cosiddetta “Lectio Facilior” (lezione facile), e
nell'altro codice mi devo interrogare se si tratta della cosiddetta “Lectio Difficilior” (che è quella
che è più vicina alle ultime volontà dell'autore). Quindi il filologo non si basa sul metodo “che la
maggioranza vince”, ma al contrario, anche se c'è un solo codice che attesta una lezione, la lezione
probabilmente fa riferimento a quella d'autore. Balduino ci presenta poi una citazione importante
che potremmo così interpretarla; io mi trovo di fronte ad un manoscritto che per tante ragioni ci fa
pensare di essere quasi uno dei migliori della tradizione di un testo, tuttavia non è detto (dicono i
filologi) che quel testo corrisponda effettivamente alle ultime volontà dell'autore. Dobbiamo sempre
guardare anche ai manoscritti che probabilmente nella nostra idea non sono buoni.

Quinta Lezione (04/05/2020)

Edizione Diplomatica ed Edizione Diplomatico-Interpretativa (Balduino)

Abbiamo detto che non esistono edizioni puramente diplomatiche anche in presenza di un unico
testimone (cioè di un unico testo di riferimento). Quando abbiamo a che fare con un unico originale
che in filologia si chiama “testimone”, l'edizione sarà puramente di trascrizione, cioè sarà
diplomatica; oppure quando abbiamo a che fare con un documento di archivio, dovremmo agire con
una trascrizione diplomatica. Ma abbiamo detto che edizioni diplomatiche, cioè così come sono
scritte, non ce ne sono, perché c'è sempre bisogno dell'interprete, come ci ha insegnato Varvaro
(cioè c'è sempre bisogno di ripristinare ad esempio le consonanti, ricorrere al corsivo).
Quindi la trascrizione ha sempre bisogno dell'intervento dell'editore critico, cioè di un filologo che
di fronte al testo lo interpreta. In questo caso, soprattutto se si tratta di documenti antichi, bisognerà
conoscere molti segreti della paleografia e avere anche molta esperienza.
Edizione Meccanica

Balduino aggiunge poi questa idea dell'edizione cosiddetta meccanica, che è in realtà una foto
riproduzione (una fototipia). Ai suoi tempi non esistevano le comodità e le tecnologie di oggi (noi
invece abbiamo visto che possiamo fare una foto e mandare il testo in digitale); si riteneva che
avere a disposizione una fototipia (tecnica fotografica) che consentisse di fotografare il testo così
come si presentava ai nostri occhi, potesse evitare il problema dell'interpretazione dell'autografo.
Tuttavia come nel caso dell’edizione diplomatica (la pura trascrizione di un documento) ci troviamo
sempre di fronte ad una situazione che non consente al lettore di capire direttamente un testo; quindi
l'intervento del filologo è sempre utile. Oggi con il progredire della tecnologia si è diffusa la
convinzione secondo cui si possa sostituire il lavoro del filologo con un lavoro puramente
elettronico, quindi di fidarsi delle macchine per interpretare i testi. Tuttavia l'edizione digitale ci
pone molti problemi filologici, come il problema del rapporto con il manoscritto e soprattutto ci
pone il problema che la trascrizione può essere del tutto scorretta (cioè l'entusiasmo di utilizzare
questi strumenti tecnologici si sta attenuando dal momento che si possono creare danni ai diversi
tipi di testo).

Il Metodo dei Loci Critici

Molto interessante è il metodo dei cosiddetti Loci Critici, che è il metodo che è stato usato da
Giorgio Petrocchi per l'edizione della Divina Commedia. Petrocchi aveva disposizione 600 codici,
quindi per fare un'edizione critica avrebbe dovuto via via eliminare i testimoni per costruire un
diagramma ad albero e per avere i testi più vicini al cosiddetto “archetipo” (cioè all'autografo
dell'autore. Naturalmente non poteva né con gli strumenti di allora (egli ha realizzato l'edizione
della Divina Commedia negli anni sessanta del Novecento), né con gli strumenti di oggi (perchè
molti codici non si possono riprodurre meccanicamente) guardare a tutta la tradizione con le
dimensioni che aveva la Divina Commedia, quindi Petrocchi prese dei Loci Critici (cioè dei luoghi
particolari della Divina Commedia) lavorando come oggi fanno i virologi per le analisi, cioè
lavorando a campione. Egli prese non tanto luoghi statistici (cioè versi disparati) ma versi che
presentavano delle lezioni differenti. Per esempio Dante, nell'edizione critica di Petrocchi, dice
“ non ragioniam di loro ma guarda e passa”, mentre noi oggi diciamo “ non ti curar di loro ma
guarda e passa”. Questo è un luogo che già si conosceva, prima di avere a che fare con questi 600
codici, di essere un luogo emblematico (cioè un luogo difficile dal punto di vista dell'edizione
critica). La domanda cioè era questa: “Chi ha ragione? Chi dice noi ragioniam oppure chi dice non
ti curar”? E quindi Petrocchi lavora facendo un canone di luoghi critici così come aveva fatto il
Barbi; un canone di 396 luoghi critici (versi particolarmente difficili) per poter arrivare ad una
ricostruzione di uno stemma della commedia e per poter eliminare quei codici che sono uguali uno
all'altro. Per capirci quando i filologi realizzano un'edizione critica di un testo d'autore, se non
hanno l'autografo (o anche se ce l'hanno ma non hanno le ultime volontà dell'autore) devono
guardare a tutta la tradizione testuale per poter individuare o il testo base a cui fa riferimento oppure
quello che potrebbe essere l'archetipo. Come lo individuano? Cercano di eliminare dalla tradizione
tutti quei codici che si presentano uguali. Quando prendono invece in considerazione i codici
nuovi? Quando questi hanno lezioni diverse da tutta la tradizione. Si cerca di distribuire i codici per
famiglie; cioè i filologi prendono tutti i codici di una famiglia in base alla loro stessa dizione e li
mettono in A. Poi vedono che ci sono dei codici che presentano delle lezioni differenti, in quel caso
li mettono nella famiglia B. Tutto questo Giorgio Petrocchi l'ha fatto per la Divina Commedia in
base a un numero di Loci Critici predeterminato.
Edizione Critica

Vediamo ora quando possiamo parlare di “Edizione Critica”. L’edizione critica non è quella
commentata (quella con le note di commento), ma è un testo stabilito a condizione che siano state
fatte tutte le ricerche sulla base delle testimonianze rintracciabili e con ogni mezzo utile ai fini della
Restitutio Textus.Cioè per poter realizzare un'edizione critica, i filologi cercano Innanzitutto tutti i
testimoni dell'opera, stabiliscono un archetipo e poi in apparato (si chiamano così le note al testo di
un'edizione critica) documentano tutti i passaggi che gli hanno portati a scegliere una lezione
anziché un'altra, e poi documentano dove queste lezioni divergenti sono rappresentate. Quindi si
può parlare di edizione critica soltanto se i filologi mettono di fronte al lettore tutto il risultato delle
loro ricerche rigorose e puntuali,e mettono di fronte al lettore tutte le lezioni che essi hanno
rifiutato, mettendo a testo quelle accettate.

Le ricerche che si fanno per realizzare un'edizione critica sono:

-Censimento = (cioè raccolta) di tutta la tradizione dei testi fino a quelli contemporanei e a stampa;

-Collatio = cioè confronto integrale di tutti i testi, dei testimoni manoscritti e a stampa. per vedere
dove ci sono divergenze;

-La loro classificazione = volta a precisare i rapporti genetici che separano o legano le varie copie
tra loro, fino a comprendere le vie della trasmissione in uno schema grafico chiamato “Albero
Genealogico” o “Stemma Codicum”;

-Per realizzare un'edizione critica ci vuole una nota al testo a cui ci si attiene;

- Infine il testo critico deve essere ricostruito in base alle risultanze della Recensio (e quindi
dell’Emendatio) e con ulteriori correzioni attraverso interventi congetturali nei punti dove si
riconoscono dei guasti.

Il secondo punto per ottenere un’edizione critica è quello di documentare tutto questo lavoro in
un'introduzione (o Nota al Testo) che esporrà le motivazioni che sorreggono le conclusioni
raggiunte; cioè si tiene conto delle scelte operate dall'editore nella costituzione del testo stesso.
Edizione Nazionale Delle Opere Di Gabriele D’Annunzio

La fiaccola sotto il moggio (edizione critica a cura della prof)

Vediamo nello specifico, con un’edizione curata direttamente dalla prof, cosa vuol dire edizione
critica. Molto spesso nelle edizioni critiche vengono presentati subito i criteri delle abbreviazioni e
delle sigle; questo perché è fondamentale conoscere a che cosa si riferisce quando noi utilizziamo
delle abbreviazioni e soprattutto delle sigle. Innanzitutto abbiamo le sigle che riguardano i
Testimoni (quali sono i testimoni di quest’opera). Noi abbiamo l’autografo che abbiamo definito
“A”, la “B” è la bozza di stampa della princeps con correzioni autografe (abbiamo cioè una bozza di
stampa con correzioni autografe), e poi abbiamo “St” cioè le stampe; stampe che sono “TR” (prima
stampa-1905) presa dal nome Treves, “NY” presa da New York Press of Vincent Ciocia (l’edizione
a stampa che esce nello stesso anno della princeps-1905), poi abbiamo “NZ” che sarebbe l’edizione
del 1929 sorvegliata dall’autore e condotta per l’Istituto Nazionale per la Edizione Di Tutte Le
Opere di Gabriele D’Annunzio (perché D’Annunzio è uno dei pochi autori che ha sistemato di
persona tutte le sue opere); infine un ultima edizione, che si chiama “OL”, discende direttamente da
“NZ” (cioè dall’edizione nazionale) che fu stampata nel 1936 (quando D’Annunzio era vivo), ma di
questa non siamo certi che D’Annunzio l’abbia sorvegliata. Dopodiché abbiamo le sigle per la
“Collocazione” di questi manoscritti. “AGV” è la sigla per l’Archivio Generale del Vittoriale,
“APV” è la sigla dell’Archivio Privato del Vittoriale, poi abbiamo “BNCR” che è la sigla della
Biblioteca Nazionale Centrale << Vittorio Emanuele II >> di Roma, e infine abbiamo “G” (Gardone
– Vittoriale degli Italiani) che è la sigla della casa di D’Annunzio dove si trovano questi
manoscritti. Successivamente troviamo le “Abbreviature” (come da, su, ins, agg, deest) che
abbiamo utilizzato e i “Segni Diacritici” (come la freccetta, le parentesi, la virgoletta unica,
l’asterisco, la barra e la croce). Con tutti questi segni abbiamo descritto il nostro lavoro
nell’apparato critico. In seguito troviamo un’introduzione, un’introduzione piuttosto ampia che non
entra nel lavoro diretto del filologo (cioè questa introduzione è un’introduzione critica, ed è
un’aggiunta dell’edizione nazionale di D’Annunzio). Viene descritta la vicenda, perché avendo
testimonianze è stato possibile descrivere la creazione dell’opera. Quindi è stato possibile
descrivere tutto il processo creativo dell'artista dal punto di vista generale, dopodiché si descrive il
manoscritto dell'opera, che è un testo molto bello.

Criteri di Edizione

Ci vuole sempre una nota al testo che descriva i criteri di edizione. Come si scrive una nota al testo?
Che cosa si scrive dentro la nota al testo? Il testo base per la presente edizione della “Fiaccola sotto
il Moggio” è quello di “OL” (1936), l'ultima stampa apparsa quando D'Annunzio era ancora vivo
(quindi sorvegliata da lui perché ancora vivo in quel periodo). Si tiene presente però che il testo di
“OL” non si discosta da “NZ”, di cui accoglie varianti e correzioni rispetto alla Princeps.
Dopodiché si elencano le differenze tra l'edizione nazionale del 1929 e l'edizione della Princeps così
come sono state collazionate (cioè sono stati messi i due testi a confronto, e parola per parola si
guardano quali fossero le differenze). Le differenze sono le lezioni a vari versi, la punteggiatura o la
grafia, l'accentazione di singole parole (quindi anche i segni minimi), infine la distribuzione grafica
dei versi. Nella distribuzione grafica, D'Annunzio segnalava che per esempio un endecasillabo è
spezzato tra un personaggio e l'altro; cioè questa distribuzione grafica ci fa capire se è un
endecasillabo o settenario. Poi si assume una tabella come riferimento riepilogativo, cioè quali sono
le differenze tra la TR (Treves e quindi Princeps) e NZ. Dopodiché finisce questa considerazione
che riguarda il testo base e si parla dell'apparato; l'apparato (a pag 13, in basso, dove c’è scritto
“103 infuria…”) descrive sia le fasi dell'elaborazione testuale sia le differenze tra un manoscritto e
le stampe.
Nell’indice tutto quello che non riguarda direttamente l'opera è numerato con numeri romani; tutto
quello che è nell'indice con numeri romani riguarda quello che ha scritto il filologo. Poi è stata
aggiunta un'appendice, perché quest'opera non si fondava soltanto su una tradizione scritta ma
anche su una tradizione drammaturgica. Quindi D'Annunzio stesso aveva scritto delle “Varianti per
l'atto IV" (quindi per il finale della tragedia - pag 173), che andavano in scena al posto di quelle che
erano scritte nel testo. Quando venne rappresentata per la prima volta la tragedia con il finale come
era stato scritto da D'Annunzio, egli ricevette diverse critiche, perché era un finale troppo tragico
(tutti i personaggi morirono); quindi Organizza delle varianti all'atto IV e il capocomico del tempo
(1905) le accoglie nella sua pratica di rappresentazione. Quindi D'Annunzio non voleva cambiare il
finale tragico, però nella pratica, era stato lui stesso a fornire ai capocomici le sue stesse varianti
dell'atto IV, che quindi diventano in questa edizione critica, una parte integrante del testo ma non
inserite al posto dell'atto IV (proprio perché la volontà dell'autore era quella di conservare il testo
originale), ma inserite come appendice. Con questo volume i filologi hanno cercato di ricostruire
non soltanto il testo d'autore, ma anche tutto il contorno che già intorno a questo testo d'autore.

Sesta Lezione (05/05/2020)

Appunti di Filologia della prof. Imbriani

Abbiamo parlato in precedenza dei “Metodi Antiquati”; in questi metodi rientra quello che si
chiama Textus Receptus, cioè l'accettazione e la difesa della vulgata (la vulgata sarebbe la
tradizione del testo più nota al pubblico, anche se questa vulgata presenta delle differenze
fondamentali con le ultime volontà dell'autore). Un esempio famoso è quello di Ludovico Ariosto, il
quale vide pubblicati quelli che si chiamano i “5 Canti” (composti tra il 1518-1519); si vide
pubblicati questi 5 canti dell'Orlando Furioso perché il pubblico voleva leggerli senza che lui
intervenisse. Quindi che vuol dire Textus Receptus? Vuol dire difesa del testo più noto al pubblico,
quello che ha avuto più diffusione; però questo rappresenta un tradimento alla volontà dell'autore,
quindi un filologo non dovrebbe accettare il testo della vulgata.

Per quanto riguarda il metodo del Codices Plurimi dobbiamo dire che questo metodo ha il difetto di
non avere la collazione; fare quindi una collazione per campionatura potrebbe non restituire la vera
consistenza di un testo, perché non è detto che 10 codici che riportano una lezione siano più
importanti di un codice che potrebbe testimoniare una vicinanza maggiore al testo d'autore. Tra i
metodi antiquati è andato molto in voga anche quello detto Codex Optimus, cioè un metodo che fa
riferimento soltanto alla testimonianza di un unico codice che per vari motivi risulta il più degno di
ascolto. Per esempio è ovvio per i filologi che il codice della Vita Nuova, fatto ricopiare da
Boccaccio, sia stato quello più vicino alle ultime volontà di Dante; questa cosa si dovrebbe
dimostrare, però un indizio che forse lo testimonia è l'autorevolezza della fonte e la vicinanza
temporale di Boccaccio a Dante. Se i filologi prendono il Codex Optimus potrebbero avere
comunque dei problemi, perché nessun codice (anche in presenza di una Recensio) è privo di errori.
L’unico codice che può essere considerato Codex Optimus è l'autografo o le testimonianze ad esso
assimilabili, come le bozze, le copie riviste e ricopiate dall'autore ecc

L'altro metodo antiquato è quello che si basa sul Testimone Base, che va considerato solo per cause
di forza maggiore; cioè va considerato quando la tradizione si bipartisce in due soli rami, ognuno
dei quali portatori di lezioni equipollenti. Quindi la scelta di un Testimone Base avrà almeno il
pregio della coerenza, impedendo una costruzione di un testo storicamente mai esistito. Per capirci,
nell'edizione della professoressa il testo di riferimento per l'edizione era quello “OC” (cioè l'ultima
stampa apparsa quando l'autore era vivo), tuttavia conteneva delle modifiche.
E’ questo il Testimone Base su cui poi si apportano delle modifiche, proprio perché “OC”
rappresentava l'ultima stampa verosimilmente rivista dall'autore. Quindi avere a che fare con un
Testimone Base ci può aiutare a costruire il sistema della variantistica; cioè noi ci riferiamo a quello
apportando però delle modifiche. Il Testimone Base può essere anche utilizzato quando non si
riescono a stabilire rapporti genealogici tra i testi ,soprattutto nel caso di testi antichi di cui non si
possiedono autografi o stampe direttamente riconducibili all'autore. Quindi bisogna ricostruire
l'eventuale autografo, quello che i filologi chiamano "X” nella tradizione (cioè non c'è l’X, ma
viene ricostruito logicamente dal filologo), però spesso non si riesce a stabilire quale possa essere
questo testo “X” e quindi ci si attiene al manoscritto più antico.

Fasi del Testo

Il filologo si documenta anche sulla cosiddetta “Preistoria Testuale”; così facendo il filologo entra
nel laboratorio dell'autore. La preistoria di un testo è precisabile solo in modo astratto e,
probabilmente, quando i filologi hanno gli appunti di un autore, questi appunti riportano delle
considerazioni che hanno fatto già nascere il testo. Per capire il concetto possiamo citare l'esempio
di Vittorio Alfieri, il quale stato un grande tragediografo. Di Polinice (sua tragedia) abbiamo uno
schema in francese che è del 28 maggio 1775 e poi anche due versioni in prosa, una in francese che
si colloca al 29 maggio e 4 giugno del 1775, e poi una prosa italiana realizzata tra il 6 e l'11 luglio
del 1775. Quindi Alfieri prima stese uno schema e una prosa di questo testo, e poi dopo arriva alla
versificazione. Come possiamo notare Alfieri ritorna sull'opera dopo 6 anni e la versifica in due
fasi:

- una fase documentabile tra il 14 maggio e il 9 giugno del 1781, e il luogo dove viene versificato è
Pisa
- una seconda fase tra Roma e Napoli, documentabile tra il 6 e l’11 luglio 1781.

Tutta questa parte di costruzione del testo entra nella “Storia Testuale” più che nella “Preistoria
Testuale”. Dopodiché abbiamo la Princeps (1783), poi abbiamo una testimonianza di un cosiddetto
“apografo”; sarebbe un apografo se non sapessimo che invece l'ha dettato lui (è stato realizzato
sotto il controllo dell'autore), e quindi noi lo chiamiamo “idiografo”. Successivamente nel 1787
troviamo le correzioni per l'edizione parigina di pugno dell'autore e poi, sempre nello stesso anno,
troviamo l'edizione parigina e le correzioni di pugno dell'autore per l'edizione definitiva che viene
pubblicata in Italia. Che cosa deve conoscere l'editore di un testo? Deve conoscere innanzitutto la
fortuna dell'opera in vita dell'autore, in vista delle sue modificazioni; Quindi se l'autore ha avuto
successo questa fortuna ha un suo impatto nella tradizione di un testo. Poi deve conoscere
sicuramente quando è avvenuta la pubblicazione; può essere avvenuta in vita, post mortem, per sua
volontà o a sua insaputa, se per cause esterne (come la censura) ecc. Quindi l'esempio di Alfieri è
stato fatto per capire quali modificazioni intervengono nel testo già in vita dell'autore. Però
solamente in casi molto fortunati, come quello di Vittorio Alfieri, ti conosce una corretta
elaborazione di un testo (cioè sono documentabili tutte le fasi di un testo, dalla sua preistoria
testuale alle fasi di correzione e alle motivazioni delle correzioni).
C'è poi da stabilire cosa si intende per originale, pensiamo al caso di Torquato Tasso. Tasso scrive
due volte la “Gerusalemme Liberata “, una volta la intitola la “Gerusalemme Liberata”, la seconda
volta la “Gerusalemme Conquistata”. Però già quando manda in stampa La Gerusalemme Liberata,
il suo testo è un testo molto tormentato, infatti questo è stato elaborato sotto la spinta di una doppia
censura:

- abbiamo da un lato la “censura stilistica”, che deriva dalla conoscenza dell'irruzione, nelle società
cinquecentesche, della tradizione della poetica di Aristotele, la quale condizionava le opere con
quelle che nel rinascimento si chiamano “le 3 unità” (unità di tempo, di luogo, di azione). Quindi
questo suo tormento lo spinge a dare più unità al poema dal punto di vista tematico e stilistico.

-dall'altro lato però Tasso era sotto lo stretto controllo della Santa Inquisizione e quindi di una
censura ecclesiastica.

Tasso interverrà molte volte sul testo fino a darci un'altra edizione intitolata la Gerusalemme
Conquistata. Ora il filologo dovrebbe dire che le ultime volontà di Tasso sono nella Gerusalemme
Conquistata, però la tradizione testuale ci dice che il testo più noto di Tasso è la Gerusalemme
Liberata; quindi filologi sono condizionati anche dal successo (dalla fortuna) che proviene dalla
tradizione testuale. Alla fine la domanda che filologi si fanno è “Qual è l'originale?”, “Il il primo o
l'ultimo?” Il filologo dovrebbe dire l'ultimo, ma in questo caso il successo di Tasso deriva dalla
Gerusalemme Liberata. La fortuna del filologo e che Tasso ha intitolato diversamente la seconda
opera, quindi questa sua seconda opera può essere dimenticata e non entrare nella tradizione
testuale. Se l’avesse intitolata La Gerusalemme Liberata, avrebbe voluto dire che quella era l'ultima
edizione a cui fare riferimento

Ricostruire l’originale

Questo passaggio ci fa parlare di un altro tipo di lessico della filologia. Noi sappiamo che possiamo
avere un autografo (quello ho scritto direttamente dall'autore), un idiografo (manoscritto non
direttamente scritto dall'autore, ma rivisto) e anche gli apografi, che sono le copie che nella maggior
parte dei casi sono gli unici "documenti” che i filologi hanno (ad esempio di Dante abbiamo solo le
copie dei manoscritti). Se i filologi hanno tutti apografi e non hanno ne autografi ne idiografi,
devono ricostruire quello che chiamiamo “archetipo”. Spesso nella tradizione filologica le copie
perdute fanno riferimento all'importanza dell'opera, oppure alla serie di incidenti della storia che ci
privano di testimoni esemplari. Il caso di Dante è esemplare, perché non sappiamo che fine hanno
fatto i suoi autografi, se qualcuno li ha conservati, dove sono ecc.

Ora vediamo le abbreviazioni che si utilizzano:

Carta si dice c puntata (C.)

Carte si dice cc.

Le edizioni possono essere in foglio, in quarto, in ottavo, in sedicesimo; i codici sono di solito in
foglio (ripiegati uno solo alla volta), in quarto sono piegati due volte e danno luogo a quattro
pagine, in ottavo sono piegati quattro volte, in sedicesimo sono piegati 8 volte e danno luogo a 16
pagine.
Codici

I codici possono essere di vario tipo; si dice di codice esemplato quello copiato da uno o più nomi.
Che cos'è il Colophon? Il Colophon è una parte del testo relativo alle notizie editoriali; di solito
riporta nei manoscritti il titolo dell'opera è il nome dell'autore. Di solito il Colophon disegna una
figura geometrica, cioè le parole sono scritte quasi sempre in una figura geometrica a triangolo
rovesciato. Nel codice c'è un Explicit che significa "alla fine" ed è spesso sottolineato da una forma
di congedo, per esempio "qui finisce l'opera di questo autore". Ci possono essere nel codice delle
notizie editoriali dette “Soscrizione” e “Sottoscrizione”, cioè tutte le informazioni che sono extra
testuali (come per esempio le date e il nome del copista, il luogo d'origine). Importanti poi sono le
“Rubriche” che sono di solito dei titoletti o brevi sommari con inchiostro rosso: Fanno riferimento
anche al copista le “Didascalie” (avvertenze) che troviamo negli antichi codici, le “Chiose” (che
sono commenti ai testi, possono essere laterali o inserite all'interno del testo con altra grafia), e le
“Glosse o Postille”. Le Glosse sono ai margini o nell'interlinea e contengono spiegazioni, rettifiche
ecc. Sono particolarmente importanti per i codici antichi; cioè quando i copisti ricopiavano i codici
antichi che riguardavano la tradizione classica Greco-Latina, spesso spiegavano le parole, e quindi
“glossa” è quel piccolo intervento, esterno al testo, che spiega la parola che è stata ricopiata.

I codici possono essere di vario tipo:

-Il codice può essere Miscellaneo, perché soprattutto nel Medioevo, c'era l'uso di copiare in uno
stesso codice testi diversi.

- Può essere Misto se composto di materiali diversi (come la pergamena, carta) ed esemplato
insieme come se fosse un codice unico

-Può essere Composito, ovvero ci sono più codici rilegati insieme; ad esempio nelle antiche
biblioteche è probabile che dei codici molto brevi si facesse una rilegatura insieme

-Può essere Adespoto, vuol dire che manca il nome dell'autore dell'opera

- Può essere Anepigrafo se è privo dell'intitolazione

- Può essere Opistografo quando il verso è occupato da un'opera diversa rispetto al Recto

- Può essere Acefalo, ovvero quando mancano le carte iniziali (senza testa)

- Può essere Mutilo, ovvero se mancano pagine alla fine

- Può essere Lacunoso se mancano pagine in mezzo

Molto interessante è il caso dei “Palinsesti”, perché il palinsesto è una pergamena che viene
raschiata per togliere i segni di inchiostro per poi essere riutilizzata; con gli strumenti moderni i
filologi riescono a leggere quello che c'è scritto sotto il testo. Questa nozione di Palinsesto è molto
interessante perché è come se si intravedesse sotto un testo scritto un altro testo di cui è rimasta
traccia e che è stato raschiato per ragioni diverse.
Errori

La filologia si basa su diverse categorie di errori, perché l'atto manuale della scrittura è soggetto a
diverse forme di imperfezione. Quali sono i tipi di errori più frequenti? Abbiamo l'errore per
Aplografia, cioè l'omissione di lettere identiche. Ad esempio invece di “popolo” si scrive “polo”,
oppure invece di scrivere “filologia” si scrive “filogia”. Quindi non si ripete il gruppo identico.
L’errore contrario a quello dell’Aplografia è la Dittografia, cioè l'aggiunta di lettere identiche.
Ad esempio “se ne va” viene ripetuto dando vita a “se se ne va”, oppure “sperare” diventa
“sperperare”. L’errore potrebbe quindi nascondere un'insidia per ii filologi perché potrebbero
trovarsi di fronte a lezione differenti. Un altro errore è l’Omoteleuto, cioè la contrazione tra parole
che terminano con le stesse lettere, per esempio il testo originale dice " ha parenti contenti”, mentre
il copista potrebbe scrivere solo ”parenti”. Altri tipi di errori sono l’Omeoarto (simile al
precedente), e poi possiamo trovare il “Salto du men au men”. Alcuni errori poi sono facilmente
individuabili perché privi di senso, altri invece sono subdoli perché dotati di senso come “sperare-
sperperare”. Quindi è molto difficile scegliere una variante o l'altra nel caso in cui il senso della
frase sia molto vicino.

Esempio di una variante chiamata Adiafora

Se i filologi si trovano di fronte ad una variante come questa "Durerà quanto ‘l moto lontana” e
“Durerà quanto ‘l mondo lontana” (Inferno, canto ll, verso 60) avranno delle difficoltà importanti.
La tradizione si scinde infatti in due rami:

- Da un lato abbiamo "Durerà quanto ‘l moto lontana”

-Dall'altro lato invece “Durerà quanto ‘l mondo lontana”

Se noi andassimo a vedere qual è stata la scelta di un testo della Divina Commedia su internet, ci
accorgeremo che la scelta del filologo va sulla seconda lezione (mondo lontana). Qui l'ambivalenza
è grande perché Beatrice poteva riferirsi anche al moto dell'universo e quindi questo tipo di
situazione rappresenta la difficoltà di scelta che filologo si trova davanti; ecco perché questo tipo di
varianti vengono chiamate “Adiafore”, proprio perché sono neutre ed equivalenti. Difronte a questi
casi il filologo deve intervenire e poi giustificare la sua scelta. Tra i fraintendimenti che si possono
trovare vanno aggiunti quelli della scrittura ottica che dipendono dalle grafie; pensiamo ad esempio
a parole come “una” che si scrive “uua”. Questo può creare dei fraintendimenti nel copista
soprattutto se questo non conosce il testo. Altri fraintendimenti grafici si creano anche per le lettere
“e/c/t” minuscole, oppure le lettere F/S, perché la s solitamente viene rappresentata lunga come la f.
Un altro tipo di errore può essere causato dalla lettura sintetica, cioè quell'errore che noi creiamo
quando scriviamo una parola sui nostri cellulari; noi ad esempio dobbiamo scrivere “tradizione” e
invece scriviamo "traduzione". Cioè sostituiamo il più noto al meno noto. Questo processo di
banalizzazione dei manoscritti ci conduce a quelle LEXIO DIFFICILIOR e LEXIO FACILIOR che
determinano il modello filologico dei filologi e che viene riassunto molto bene da una filologa che
si chiama Franca Ageno.
Ageno ci dice che i criteri base per individuare errori significativi sono:

a) L’autore non può avere scritto una cosa apertamente assurda e contraria alla logica e al buon
senso, o che appaia palesemente contradditoria rispetto a quanto risulta dal contesto.

b) L'autore non può aver scritto una cosa palesemente scorretta, quindi sarà opportuno in questo
caso conoscere la grammatica storica e la lingua di riferimento di questo autore (cioè se dovessimo
realizzare un testo di filologia germanica dovremmo conoscere la lingua antica in cui questi testi
sono redatti)

c) Questo è un punto importante ma labile dal punto di vista della filologia; quello che dobbiamo
tenere presenti di questo punto è che, conoscere tutta l'opera dello scrittore quando ci si accinge a
entrare nel suo testo in modo filologico, può aiutare a capire certe sue abitudini anche di scrittura,
soprattutto quando si parla di una affermazione tanto discordante dal contesto

d) Sono errori le lacune di senso; il filologo, Se non dovesse trovare altri testimoni, dovrebbe
utilizzare quella parentesi quadra e quei puntini sospensivi (quel segno grafico che mostra il suo
intervento) per dire " qui c'è una lacuna del testo”, e magari spiegare nella nota al testo in che senso
ci si muove su questa lacuna

e) Un tipo di errore significativo è la ripetizione di una parola che, oltre a comparire al suo posto,
prende anche quello di una parola che segue

f) Altrettanto significativo, perché è inammissibile che due copisti lo commettano identico in


maniera indipendente, è l’errore di anticipo: il copista, che ha letto una frase più o meno lunga nel
suo modello, rimettendosi a scrivere, inserisce una parola che è alla fine della frase letta, al posto di
una parola che è al principio

Questi criteri base per individuare errori significativi vanno tenuti a mente nella collazione dei
codici, per procedere poi a quel lavoro che aspetta ai filologi e che viene chiamato
“Eliminatio Codicum Descriptorum”, ovvero l'eliminazione dei codici che vengono chiamati
descritti, cioè che sono copiati da un altro codice e che rappresentano solo un ramo della nostra
tradizione.

Varianti Adiafore

Vediamo quello che succede nel caso del De Vulgari Eloquentia nelle parole di un filologo illustre
di nome Pier Vincenzo Mengaldo; egli si è occupato sia di filologia antica sia di filologia di critica
delle varianti. Mengaldo si pone su una questione che, nel De Vulgari Eloquentia, decide per una
tradizione anziché per un'altra. In questa situazione del De Vulgari Eloquentia (che fu stabilito da
Pio Rajna agli albori della filologia italiana) sono due le tradizioni equivalenti, quella di A e quella
di B. Però secondo Mengaldo, una volta che un filologo stabilisce che più o meno sono equivalenti,
poi cerca di stabilire quello che sembra più vicino al testo d'autore, anche se portatore di varianti
adiafore. Quindi Mengaldo dice che in questi casi forse è opportuno riferirsi a un codice come se
fosse un Codex Optimus
Settima Lezione (07/05/2020)

Esempio di Varianti Adiafore con il caso di “A Silvia” di Leopardi

Abbiamo detto in una delle prime lezioni che la filologia ha delle regole fondamentali come lo
Stemma Codicum nel caso in cui abbiamo più materiali manoscritti che ci riportano la stessa cosa,
ma anche il Criterio degli Errori e quindi il Criterio della Variantistica, che spesso è anche
variantistica d’autore come nel caso di Leopardi. Abbiamo il manoscritto del 19/20 Aprile 1828 di
uno dei canti più famosi del canto di Leopardi "A Silvia”. Il primo verso presenta una lezione che
noi non conosciamo, perché qui Leopardi scrive "Silvia sovvienti ancora “quando nella tradizione
sappiamo che si dice "Silvia rimembri ancora". Sappiamo però che un filologo esperto non deve
guardare soltanto a questa testimonianza ma deve guardare a tutte le testimonianze che riguardano
un testo che sono state rese finché l'autore è in vita. Questo manoscritto è abbastanza tormentato, lo
notiamo dalle numerose cancellature e dalla divisione del foglio di carta, in modo tale da poter
intervenire con eventuali correzioni. Tuttavia i filologi sono propensi a credere che questa è già una
bella copia rispetto probabilmente a un originale dove aveva appuntato queste cose. Questo
manoscritto, datato 1828, è il primo testimone della composizione della poesia "A Silvia”.
Dopodiché abbiamo, nella nostra tradizione testuale, dei testi a stampa; il primo testo a stampa dove
compare la poesia "A Silvia" è un'edizione dei canti leopardiani pubblicati a Firenze nel 1831.
Come possiamo notare, Leopardi (che era ancora in vita) presenta la lezione “Silvia sovvienti
ancora”, cioè esattamente identica al manoscritto. Tra i testimoni in vita dell'autore c'è anche
l'edizione di Napoli del 1835; qui “sovvienti” è stato sostituito da ”rammenti”. I filologi però non
hanno una situazione intermedia del testo, quindi probabilmente Leopardi, consegnando all'editore
Stella di Napoli i suoi canti già pubblicati, abbia corretto quel “sovvienti” in “rammenti; quindi
l'editore ha stampato “rammenti”. Questa sarebbe l'ultima stampa apparsa in vita di Leopardi, ma la
fortuna dei filologi in questo caso è tale che essi hanno questo stesso libro in una bozza corretta da
Giacomo prima che morisse. Nella bozza corretta del 35, Leopardi sovrappone a “rammenti” il
verbo che noi conosciamo nella tradizione testuale e cioè “rimembri”. Questo è l'ultimo testimone
in vita dell'autore e quindi questo rappresenta le sue ultime volontà. Quando poi l'amico di
Leopardi, Antonio Ranieri, dette l'edizione definitiva dei canti leopardiani corretta su
quell’esemplare (cioè viene utilizzato rimembri) aggiunse poi l'ultimo canto (Il tramonto della
luna), che in quell'edizione non compariva ma che lui aveva introdotto. Il filologo in un caso come
questo prende l'ultima edizione apparsa in vita dell'autore, quindi non è "Silvia sovvienti”, non è
“Silvia rammenti” ma “Silvia rimembri”. Noi abbiamo la prova provata che la correzione è stata di
pugno dell'autore, ma se questa copia i filologi non l'avessero trovata, come avrebbero dovuto
comportarsi? Nel caso di Sovvienti, Rammenti, Rimembri siamo di fronte a quelle varianti che non
sono errori ma sono dette neutre, sono cioè quelle che i filologi chiamano “adiafore”; sono
equivalenti, potrebbero essere nate tutte dalla penna dell'autore e nel caso di Leopardi sappiamo che
sono nate dalla sua penna. Quindi se non avessero questa correzione come avrebbero dovuto
comportarsi i filologi? I filologi dovevano credere a Ranieri che ha realizzato la prima edizione post
mortem? Quello di Ranieri sarebbe diventato quello che noi chiamiamo codice (o stampa) di
riferimento Quindi dobbiamo dire che nell'edizione N (Napoli) 35 (cioè del 1825) c (corretta),
Leopardi è intervenuto aggiustando la punteggiatura, quindi quella edizione è diventata per i filologi
il punto di riferimento della tradizione poetica di Leopardi. Sappiamo però che l’'editore critico
deve documentare questo passaggio dell'edizione leopardiana mettendo le sue note vicine al testo in
quello che si chiama “apparato” e mettendo a testo l'ultima edizione dell'autore.
Storia Testuale (Balduino)

Come si origina un testo? Il filologo deve attraversare questi problemi per mettersi di fronte ad
un'opera antica, moderna o contemporanea che sia. Cioè quello che ci dobbiamo domandare è:
“ Qual è la storia di un'opera letteraria?” Immaginare come nasce un testo è la prima domanda utile
per qualsiasi rapporto con i testi, sia in senso più precisamente filologico per la ricostruzione del
testo quanto più vicino alle ultime volontà dell'autore, sia anche in rapporto più vicino al commento
di quest'opera (cioè tanto più conosciamo di una determinata opera tanto più siamo in grado di
capirla e di commentarla). Noi possiamo ricostruire quelli che sono gli elementi esterni ma non
possiamo entrare nella testa dell'autore. Nel caso della "Fiaccola sotto il Moggio”, la prof ha
ricostruito alcuni elementi che conducono alle caratteristiche più evidenti di quel testo. Per esempio
D'Annunzio usciva dalla tempestosa storia d'amore con Eleonora Duse e quindi quando si trova a
scrivere la “Fiaccola sotto il Moggio” si trova di fronte a tutta una serie di problemi pratici da
risolvere. Il primo problema pratico è avere una compagnia che rappresenti l'opera; ma una
compagnia di cui lui abbia il completo controllo, perché agli albori del 900, D'Annunzio si rende
conto che queste compagnie (che avevano grande successo in teatro) sottraevano all'autore molti dei
guadagni, che erano però determinati dal fatto che portavano in scena l'opera dell'autore. Quindi
D'Annunzio tra il 1900 e il 1905 manda i suoi segretari ad agire per poter fondare quella che noi
oggi chiamiamo SIAE (società italiana degli autori e degli editori) e che deve salvaguardare
l'autore. Il suo primo problema è cercare di sottrarre agli allora capocomici (oggi gli attuali registi)
il guadagno dell'opera. Per farlo, nell'opera introduce un personaggio, Simonetto, e affida la parte al
secondogenito Gabriellino D'Annunzio, il quale si era iscritto contro la volontà del padre ad una
famosa scuola di teatro. Al figlio D'Annunzio affido questa parte affinché possa sorvegliare l'attività
del capocomico. D'Annunzio aveva però osservato un altro problema rispetto alla messa in scena
delle opere; lui aveva scritto prima la "Francesca da Rimini", la quale aveva bisogno di una
scenografia importante, e poi scrisse la "Figlia di Iorio” che pure aveva bisogno di cambi di scena.
Decide però che per questa tragedia della “Fiaccola sotto il Moggio" debba ritornare alle 3 categorie
aristoteliche di unità (cioè unità di tempo, di luogo, di azione) e quindi inventa una scena unica
all'interno del palazzo e chiede ai suoi amici e in particolare al suo pittore di fiducia di nome Adolfo
De Carolis, di fare una bozzetta di questa stanza all'interno del castello dei Sangro (di questa aula
vastissima, così come la chiama D'Annunzio). Così facendo risolve due problemi pratici: sceglie
un'unità di tempo, di luogo e di azione, sceglie di non cambiare la scenografia e anche un nuovo
capocomico. Come abbiamo potuto notare la prof ha ricostruito degli elementi del tutto esterni al
testo, cioè che non giustificano il testo ma che sicuramente entrarono nella testa dell'autore per
poter comporre l'opera. Le domande che il filologo si deve fare, dice Balduino sono: Quando è
avvenuta la pubblicazione del testo? L’autore l’ha diffuso quando era in vita, oppure è stato diffuso
dopo la sua morte? La pubblicazione è avvenuta sotto il suo controllo? (cioè lui stesso ha corretto le
bozze se ti tratta di stampe o ha diffuso un idiografo?). Poi dobbiamo chiederci se ci sono interventi
esterni al testo (come la censura) come avvenne nel caso di Galileo con l'opera "Il Saggiatore”.
Quest’opera infatti venne sottoposta a interventi censori e addirittura si è diffusa una redazione
completamente diversa dalle volontà dell'autore. Possiamo dire inoltre che sapere non soltanto cosa
ha voluto dire l'autore, ma perché quello opera ci è arrivata in questi termini, e da dove quest'opera
proviene è molto importante. Naturalmente il processo della concreta elaborazione è ricostruibile
solo in fortunatissime circostanze, quindi non è facile avere tutti gli elementi.
L’Originale

Le domande che i filologi si devono porre sono: Qual è l’originale? Che cosa dobbiamo intendere
per originale? Questo è un concetto semplice all'apparenza ma che in molti aspetti si rivela
caratterizzato da tante definizioni. I filologi vorrebbero arrivare sicuramente ad un originale che sia
stato approvato dall'autore, cioè che sia uscito direttamente dal suo laboratorio, ma non per tutti i
testi della nostra tradizione è così. Possiamo dire che la definizione di “originale” riuscirà ad essere
soddisfatta, solo quando il filologo potrà riferirsi ad un testo che in ogni sua parte possa essere
considerato come autentica e definitiva espressione della volontà dell’autore. Il compito
dell’editore, dunque, sarà relativamente facile soltanto se un testo cosi precisato è non solo
effettivamente esistito, ma è direttamente raggiungibile attraverso l’autografo definitivo o un
testimone di pari autorità. L’originale stesso, tuttavia, potrebbe contenere alcuni errori e
sorgerebbero pertanto nuove difficoltà; anche l’autore può infatti incorrere in omissioni, sviste,
distrazioni che non si differenziano da quelle di un qualsiasi amanuense. Quindi il filologo non
riprodurrà l'originale ma dovrà ricostruirlo anche quando ha materiale autografo.

Ottava Lezione (11/05/2020)

Riprendiamo il concetto sull'”originale”. Ci siamo chiesti cosa significasse originale.


Abbiamo detto che Balduino dice che la parola “originale”, viene soddisfatta nella sua totalità solo
se siamo in presenza non soltanto dell'autografo dell'autore ma di quel testo concluso che possa
essere considerato come autentica e come definitiva espressione dell'autore.
Per molti autori però non esiste questo testo; cioè anche se i filologi hanno degli autografi, non
hanno però il testo che loro considerano originale, il testo cioè che si fermi in un tempo preciso e
rappresenta totalmente l'ultima volontà dell'autore. Un caso di recente esaminato e importante in
questo senso è quello di Rocco Scotellaro. E’stato uno dei più importanti poeti del 900 italiano,
morì a 30 anni lasciando molti autografi (carte d'autore) e lasciando un volume di poesie intitolato
“E’ fatto giorno”, che poi viene preso in mano da Carlo Levi e viene pubblicato all'indomani della
sua morte. I filologi hanno sempre ritenuto che l'edizione di Carlo Levi rispettasse del tutto l'ultima
volontà dell'autore; però nel corso del tempo, oltre a venir fuori tanto altro materiale del testo
inedito rispetto a quella silloge Leviana, sono venute fuori anche le contraddizioni di Levi, cioè
l'intervento che Levi ha introdotto sull'originale Scotellariano. Nel 2019 è uscita tutta la silloge delle
opere di Scotellaro curata da Franco Vitelli, il quale arrivò a stabilire questo testo. Tuttavia i filologi
non sanno se questo testo fosse quello che l'autore ci ha dato, ma rispetto alle testimonianze che
abbiamo, è quello più vicino alla volontà dell'autore. Sono state recuperate poi tante opere di
Scotellaro non soltanto sul versante della poesia ma anche sul versante della prosa, tra cui racconti
pubblicati su delle riviste della Svizzera italiana di cui finora non si era a conoscenza.
Quindi di fronte a questo volume di Scotellaro, per quanto questo volume nasca in modo artificiale
(cioè non era sulla scrivania di Scotellaro così come è stato edito, ma nasce dallo studio dei filologi)
la domanda che si fanno i filologi è: “Ci troviamo di fronte a un vero originale?”. Se il filologo ha
operato in modo rigoroso e corretto ci troveremo quanto più vicini possibili in quel campo che si
chiama originale; in ogni caso l'edizione di Levi diventa sempre un punto di riferimento essenziale e
un punto di partenza per qualsiasi avventura testuale successiva. Naturalmente l'editore critico è
anche aperto alla possibilità che dopo tutto questo lavoro salti fuori dal cassetto di un determinato
autore, un originale confezionato proprio dall'autore e probabilmente poco prima di morire.
L'esempio che ci porta invece Balduino è piuttosto noto, cioè quello delle “Grazie“ di Foscolo.
Quello che abbiamo delle “Grazie“ di Foscolo sono frammenti, alcuni anche pubblicati dall'autore;
quindi è controversa poi la ricostruzione di che cosa sarebbe stata quest'opera, anche perché Foscolo
ci lascia tanti appunti. Alla fine possiamo dire che il filologo non riprodurrà l'originale ma dovrà
ricostruirlo anche quando ha materiale autografo.

Sopravvivenza dei Testimoni (leggi bene appunti Balduino)

Dobbiamo aggiungere che per ricostruire questo originale dobbiamo guardare ai testimoni.
In molti casi, soprattutto nel caso degli autori antichi, materiali autografi o esemplari visti
dall'autore (idiografi) non sono più nel possesso dei filologi. Quindi l'originale andrà ricostruito
attraverso la risultanza della collazione dei testimoni.

Le Stampe (leggi bene appunti Balduino)

La stampa è la prima sistemazione di un’opera. Dobbiamo dire che i filologi, soprattutto per la
prima stampa, possono osservare differenze tra una copia e un'altra. Quindi se sopravvivono due o
tre stampe in due o tre biblioteche, occorre sempre guardare tutto, perché nella stampa a caratteri
mobili (nella stampa a caratteri mobili si compongono le parole lettera per lettera) si potevano avere
anche minime variazioni da una copia stampata all'altra. Dunque nel caso di stampe soprattutto
antiche, vanno considerate tutte le copie manoscritte che potrebbero presentare all'interno della
tradizione testuale, delle varianti. Dobbiamo tener presente che quando i filologi vanno a guardare
le stampe, quella che risulta più autorevole è l’Editio Princeps, cioè la prima edizione.
L’Editio Princeps, allo stesso modo dell'originale di un'opera, può essere controllata dall'autore,
quindi la prima edizione a stampa di un'opera può essere stata edita sotto la sorveglianza dell'autore;
l'autore ha corretto le bozze ed ha dato quello che si dice “Imprimatur”, cioè ha dato il permesso di
stampa. La storia della tradizione di un testo, dunque, è per il filologo importantissima e addirittura,
accanto a tutte le altre discipline di supporto alla filologia, c'è quella che si chiama “Bibliografia
Testuale. Con questa definizione si intende la ricerca bibliografica applicata ai problemi della critica
testuale, cioè quel settore della filologia che si occupa di guardare agli effetti prodotti dal processo
della stampa (dalle stampe più antiche a quelle di oggi) sulla correttezza del testo.
Su questa Bibliografia Testuale va tenuto presente come funziona un’officina tipografica, che è
sicuramente il mezzo meccanico più importante, in quanto è in grado di realizzare e poi stampare
qualsiasi tipologia di materiale su qualsiasi supporto di stampa.

Tradizione Indiretta

Dobbiamo tenere conto che non di tutti gli autori abbiamo una tradizione diretta, cioè una tradizione
formata da manoscritti e stampe che sono state conservate, ma per alcune opere abbiamo una
tradizione indiretta. Che cosa vuol dire? Vuol dire che non abbiamo l'opera completa ma abbiamo
degli “Excerpta”, cioè delle sintesi dell'opera di un qualche autore, abbiamo quindi soltanto dei
frammenti di un'opera di un qualche autore; frammenti che si trovano casualmente un po' dovunque.
Possiamo citare, a proposito, il caso di un autore che pone tanti problemi ai filologi e che porta una
testimonianza antica relativa alla città di Potenza. L’autore si chiama Eustachio da Matera o anche
da Venosa e sappiamo che egli nel Medioevo scrisse un'opera dal titolo “Planctus Italiae”, una sorta
di lamentazione del destino dell'Italia tutta all'indomani della morte di Federico II di Svevia.
E’ un'opera molto antica che si riferisce a fatti storici molto antichi di cui probabilmente questo
Eustachio fu testimone. Quest’opera è andata perduta, ma ne abbiamo un ampio frammento che è
stato trascritto, alla fine dell'800, da storici locali e da filologi. Questi trovarono un ampio
frammento del “Planctus Italiae”, relativo alla città di Potenza, in un antifonale (testo in musica) del
convento dei frati minori di Santa Maria.
Questo antifonale ci dimostra che il monaco dei Frati Minori aveva trovato in un'opera questo
frammento che riguarda la città dove evidentemente lui viveva e operava. Questo ampio frammento
(in latino) è un “Excerpta”, cioè è un estratto di un'opera più ampia di cui non abbiamo nulla; questa
è dunque una tradizione indiretta.

Collatio

La Collatio è il confronto tra i testimoni di un'opera, quando non si possiede un materiale così
sicuro che possa essere considerato alle origini di una tradizione. Questa operazione è un'operazione
strettamente meccanica, tuttavia ha bisogno di una sua logica all'interno; bisogna scegliere
l'esemplare di collazione, cioè il testo che costituirà il termine costante di confronto (il testo che va
confrontato nelle sue dizioni). Poi il testo va diviso in segmenti relativamente brevi, come ottave
(nel caso delle poesie), sonetti (se ci sono elementi brevi nel testo) oppure paragrafi; va diviso
perché altrimenti il filologo si confonde e fa altri errori. Quando il numero dei testimoni da
collazionare è cospicuo, diventa importante trovare un sistema funzionale per incolonnare le
varianti via via reperite, così che in un secondo tempo, ne risulti agevolato il raggruppamento.
Nel segnare le varianti occorre attenersi sempre all’esatta grafia del codice; questo è fondamentale
perché vale anche per l'ortografia e per la punteggiatura. Oggi i filologi sono orientati a guardare
anche alle differenze di punteggiatura, perché queste differenze, a volte diventano congrue per
l'edizione di un testo, e fanno entrare i filologi all'interno delle logiche testuali.
La punteggiatura sembra qualcosa di irrilevante ma a volte ha importanti differenze di senso.
Poi bisogna decidere che cosa può essere tralasciato, tenendo conto che nel dubbio, è sempre
preferibile abbondare; però a volte registrare varianti superflue può complicare il lavoro di
raggruppamento e di classificazione dei filologi. Sono importanti le differenze di senso, le lacune,
gli spostamenti nell'ordine delle parole, delle strofe, dei capitoli. Potranno essere invece considerate
superflue le varianti puramente grafiche, ma anche qui occorre estrema cautela.
La Collatio è un'operazione fondamentale, perché ogni errore compiuto in questa fase, ha
conseguenze più o meno gravi nella “Constitutio Textus”. Varvaro ci dice che, all'inizio di un
lavoro, non si sa dov'è questo lavoro potrà portare i filologi, quindi questi guardano a tutte le
attestazioni. Questa attenzione porta a considerazioni diverse; cioè un filologo può partire da
un'ipotesi e invece poi verifica che queste ipotesi non ha valore valore.

Piccolo riassunto pag.141

Siccome i filologi devono classificare i codici in base ai loro errori interni (a quelle che sono
chiamate varianti), sono portati a pensare che gli errori li portino a classificare i codici con errori
uguali; cioè tutti i codici che presentano lo stesso errore vengono inseriti nella stessa filiazione. Però
bisogna stare anche in questo caso attenti, perché tutte queste varianti non è detto che conducano i
filologi ad un sistema sicuro di classificazione dei testi.
Nona Lezione (12/05/2020)

Eliminatio Codicum Descriptorum

Il concetto di “Codice Descritto” significa che il testimone discende sicuramente da un codice che
noi abbiamo considerato come testimone che contiene la stessa redazione; Il codice descritto è
quello che i filologi possono eliminare nelle loro considerazioni della tradizione.
Eliminare dalla tradizione non significa che non devono più studiarlo (bisogna comunque
documentare i suoi errori), però è un codice che appesantisce inutilmente il lavoro dei filologi nel
caso in cui devono arrivare ad una edizione critica. I rapporti tra testimoni sono quindi
fondamentali, e come abbiamo potuto notare, i filologi devono guardare quelli che possono essere
definiti come “Errori Congiuntivi” e “Errori Separativi”. Che cosa vogliamo dire con queste
definizioni? Un errore congiuntivo è come un frammento di DNA ereditato da un progenitore, che
si trasmette a tutti i 'discendenti'. tra i testimoni. Un errore separativo, presente in A e non in B,
implica che questo secondo non dipende dal primo, perché il copista non può aver corretto l'errore
per congettura. Si tratta di quegli errori considerati dai filologi non sanabili e quindi di errori che li
fanno giungere ad una sicura eliminazione di uno dei codici. La Collatio, quando dimostra che tra
due testimoni sussistono rapporti strettissimi, porta i filologi a fare delle considerazioni via via che
si va avanti per l'articolazione dello stemma.
I filologi prendono in considerazione i codici nei loro più particolari rapporti; quindi possiamo
avere appunto diversi casi:

A B X

B A A B

B discende da A, oppure A discende da B, oppure A e B sono una coppia di testimoni che hanno è
errore totalmente diversi, e quindi dimostrano di discendere da uno stesso antigrafo che sarebbe
descritto X.

In realtà la tradizione che possiamo descrivere è la seguente:

A B

Con la O possiamo intendere l'originale da cui discende l’antigrafo X, e da cui discendono A e B.


Questo è una prima possibilità di rapporti che possiamo incontrare con il testo.
Possiamo ritenere che A e B sono copia di una copia dell'originale (cioè non abbiamo
testimonianze, non abbiamo prove che A o B siano discendenti direttamente dall'originale).
L'altra situazione che si potrebbe creare è questa:

A B

Noi sappiamo che A e B sono direttamente discendenti dallo stesso originale; abbiamo prove esterni
al testo che ci portano a pensare che sia A che B siano stati prodotti copiando l'originale dell'autore.
Possiamo dire che entrambi gli schemi.
Se noi ritornassimo alla prima situazione (primo schema) dobbiamo dire che i filologi devono
essere molto cauti, perché non è detto che non ci siano testimoni intermedi in questa tradizione, ma
certamente gli errori che troviamo in A e B testimoniano che entrambi discendono probabilmente da
una stessa tradizione. Con X abbiamo detto che si designa l'archetipo, ma questo non vuol dire che
tale archetipo sia esistito in un unico esemplare o che sia esistito proprio fisicamente.

Naturalmente possiamo avere molte altre situazioni:

A B C D

Dall’originale possiamo avere un solito archetipo e possiamo avere una tradizione bipartita,
tripartita, quadripartita ecc. I filologi devono stare attenti perché casi di questo tipo sono piuttosto
rari; quindi è ovvio che bisogna raggruppare i testimoni a disposizione per famiglie.

Un'altra situazione può essere questa:

C D E

AB

Posto un originale O e posto un testo intermedio di nome X (che connette tutta la tradizione
all'originale), non è detto che da X non possano discendere due diverse tradizioni testuali.
Non è detto che, per esempio, da uno stesso esemplare non possa essere testimoniata una famiglia
bipartita riconducibile ad una copia intermedia “a” e poi altri testimoni (C-D-E) che invece
testimoniano di essere direttamente collegati alla nostra X. In questo caso, la presenza di “a”, ha
cambiato i rapporti tra i testimoni conservati; quindi non sono tutti sullo stesso piano, ma A e B
sono testimoni di una tradizione diversa da quella di C-D-E.
Naturalmente A e B vanno considerati “Codici Descripti”, e quindi si prenderanno in
considerazione (per la variantistica e per la nostra edizione critica) a-C-D-E.
I casi possono essere ancora più complicati:

a b

A B C D c

E F

Sempre posto un originale O e una copia X (da cui l'originale discende), non è detto che invece la
tradizione non possa essere rappresentata e descritta in due rami: possiamo avere infatti la famiglia
“a” e la famiglia “b”. Da “a” possiamo avere i due testimoni A e B, mentre da “b” possiamo avere
altri due testimoni C e D; inoltre da “b” possiamo avere anche un'altra famiglia separata, C, che ci
testimonia altri due rami della tradizione, E e F.

-Quindi alla famiglia di “a” noi abbiamo messo A+B

-Alla famiglia di C abbiamo messo E+F

-Alla famiglia di “b” abbiamo messo C+D+c ricostruito o ipotetico

-Mentre per X abbiamo ricostruito una tradizione che è formata da a+b.

Questo tipo di casistica va fatto a partire dalla collatio degli errori; soltanto la Collatio degli errori ci
può portare a considerazioni tali che ci portino a immaginare un codice stemmatico e diviso per
macro gruppi che si chiamano famiglie.

In tutti questi casi è comunque indispensabile ricorrere a quella nozione che si chiama Lectio
Difficilior. La Lectio Difficilior si presenta come una lezione differente; la forma Difficilior è una
forma che non può essere stata introdotta da un copista, perché il copista tende sempre a
semplificare. Quindi il codice che presenta una lezione più difficile di quelle degli altri codici, è
sicuramente più autorevole di quanto non siano tutti gli altri codici che ci presentano quelle lezioni
che vengono definite Facilior.

Stemma Codicum “Vita Nuova” di Michele Barbi (Pagina 14- capitolo 2 (manoscritti)

Vediamo ora lo Stemma Codicum che Michele Barbi ci presenta nella sua opera della Vita Nuova.
Questo Stemma Codicum si basa su un autografo che lui ha definito con una stella, dopodiché
direttamente dall'autografo, possiamo notare come discenda un antigrafo caratterizzato da un
asterisco. Stella e asterisco significa che non abbiamo né l'uno né l'altra. Non abbiamo nemmeno
alfa e beta (i codici che testimoniano la divisione in due rami di famiglie per quello che riguarda i
codici posseduti dai filologi). Per leggere però questo Stemma Codicum dobbiamo tornare alla
classificazione di testi che fa Barbi. Barbi comincia subito con la descrizione di tutti i codici a
disposizione di questa sua edizione critica; come possiamo notare sono tantissimi. I codici della
“Vita Nuova” che ci rimangono e di cui abbiamo notizie sono 39 compresi i frammentari, e quasi
altrettanto sono gli estratti delle poesie. Abbiamo quindi un totale di una sessantina di testimoni, a
cui si aggiunge quella appendice di un nuovo codice ritrovato a Pesaro.
Che cosa fa in primo luogo un editore critico quando sistema il testo per l'edizione critica?
Ci dà tutto il filo dei suoi ragionamenti cominciando proprio dalla descrizione dei codici.
Ecco come ce lo descrive: intanto ci dà la segnatura archivistica “Chigiano L, VIII, 305” che lui
definirà da ora in poi “K”. Quindi quando noi troveremo “K” (sigla che definisce l'autografo)
sappiamo che il riferimento di questo autografo è “Chigiano L, VIII, 305”.
Dopodiché ce lo descrive; ci dice che non soltanto questo codice è molto interessante ma è anche
alla base di una tradizione di scritti linguistici del 600 che lo citano però sotto il nome di
“Manoscritto Strozzi” e non con quello di “Chigiano”. Quindi possiamo dire che per i filologi le
cose si complicano molto quando hanno due nomi diversi per indicare lo stesso testimone. Barbi ci
dice che è un codice “Membranaceo”, cioè un codice fatto di carta ricavata dalle membrane,
ricoperto da una copertina pesante pergamenata, con lo stemma del Chigi e che si presenta con un
dorso (cioè le pagine sono unite con un dorso). Barbi ci parla poi delle carte che sono 130.
Sappiamo che i codici si segnano con il numero delle carte; l’abbrevizione delle carte va segnata
così “cc.”, mentre per la carta “c.” La “numerazione recente” significa che le carte non sono
numerate all'inizio nell'originale ma sono state aggiunte a matita (a lapis). Le prime due pagine (o
carte) sono bianche; delle 4 seguenti (queste sono cartacee, quindi di un’altra natura rispetto a
quelle membranacee), la prima e la seconda sono stati aggiunte al codice originale. Possiamo notare
poi, andando avanti nella lettura, come Barbi debba affrontare un problema già nella sola
descrizione di questo codice, e cioè come definire le pagine. Cioè se noi volessimo dire che questo
testo è contenuto alla pagina 1 (alla carta numero 1) ci dobbiamo riferire anche alla numerazione
interna del codice, in modo tale che il lettore possa essere sempre ricondotto a quella numerazione.
Quindi nella descrizione di questo codice vanno identificate tutte le diverse sovrapposizioni di
numerazione che si trovano. Altri problemi nascono poi per quei filologi che hanno a che fare con
testimoni manoscritti, cioè la descrizione del testimone. Questo testimone può essere stato
esemplato in tempi diversi, cioè può essere stato realizzato da diversi copisti; quindi bisogna
innanzitutto capire a quale secolo corrisponde in base agli elementi esterni, e poi entrare via via
nella descrizione di questo esemplare dando tutte le spiegazioni del caso. Naturalmente, a seconda
di quanto sia esperto il filologo di codicologia, tanto più le descrizioni saranno corrette.
Possiamo dire che, nonostante ci troviamo ancora agli albori della filologia contemporanea, Barbi
descrive già minuziosamente questo codice, perché per lui questo Chigiano (K) è di fondamentale
importanza sia per la datazione che per il testo che contiene. Barbi poi ci dice come è stata trascritta
la Vita Nuova; ci dice che è senza titolo, senza Explicit (senza fine; Explicit vuol dire "qui finisce il
testo"), e non ha distinzione di paragrafi. Questo codice è particolarmente interessante perché ci
dimostra che il lettore che l'ha fatto esemplare voleva solo testi volgari, e infatti, i passi Latini che
sono stati inseriti nella Vita Nuova da un grande Incipit, sono stati poi tradotti a margine. Questa
traduzione è interessante anche dal punto di vista della storia della lingua; Barbi ce lo trascrive qui
perché non farà parte dell'edizione critica, però è interessante anche come testimonianza di
qualcos'altro.

Poi possiamo notare il secondo codice Chigiano della seconda metà del quattordicesimo secolo.
Il codice è composto da: - La Vita di Dante e la Vita Nuova in tre quaderni e un duerno;
-La correzione di Cavalcanti in “Donna me Prega”, con commento di Dino del Garbo;
-Il carme del Boccaccio, le canzoni di Dante e le rime del Petrarca.
Quindi viene presa in considerazione una parte di letteratura trecentesca, che evidentemente veniva
considerata di grande importanza da parte dei lettori. Il 39esimo codice è quello Pesarese, di cui
Barbi dice che ha a disposizione l'edizione del 1829. E’ importante il codice Pesarese perché Dante
morì a Ravenna, in quella zona della Romagna detta dei Polenta (cioè tra Pesaro, Rimini ecc).
Secondo Barbi questo codice pesarese, su cui è esemplata l'edizione del 29, coincide con quello
dell'università di Cornell.
Però, alla fine di questa edizione, Barbi mostra la sua onestà intellettuale; in un’appendice egli si
autocorregge, ma non inserisce questa correzione nelle pagine iniziali, ma ne dà notizia alla fine di
questo studio. Cioè Barbi prima aveva ipotizzato che il codice di Pesaro fosse quello della
biblioteca di New York, dopodiché avendolo trovato fisicamente, ne dà notizia nell'appendice.
Il filologo deve essere infatti onesto, nel senso che deve dimostrare quello che dice.

Decima Lezione (14/05/2020)

Per l’Eliminatio Codicum Descriptorum dobbiamo guardare alla classificazione dei codici,
ricordandoci che i filologi hanno la possibilità di individuare diversi rapporti:

A ; cioè da A discende B (in questo caso, A potrebbe essere l’autografo)

B ; cioè da B discende A (la classificazione viene fatta in base agli errori congiunti o separativi)

Oppure possiamo avere una tradizione bipartita: O

A B

Cioè da un ipotetico originale (O) discendono sia A che B; in questo caso non è possibile eliminare
nessuno di questi codici perché gli errori di entrambi sono significativi e danno luogo a una
variantistica (che potrebbe essere anche d’autore) o a della ipotesi che possono essere scambievoli
tra l’uno e l’altro (cioè delle lezioni di A potrebbero essere più valide delle lezioni di B, e delle
lezioni di B potrebbero essere più valide di quelle di A). Abbiamo detto che in questo tipo di albero,
ci potrebbe essere, per entrambi i codici, un antigrafo che si connette tra l’originale (x).

Se noi abbiamo una testimonianza di 3 codici manoscritti per una stessa opera che chiamiamo A-B-
C, abbiamo diverse possibilità di classificazione di questi codici.
Potremmo avere un rapporto di questo tipo: A oppure di questo tipo: A (da A avremo B e C).

B B C

Oppure potremmo avere un altro tipo di rapporto: A

B C

Cioè da A possiamo avere un testo intermedio detto “Beta”, e che da questo testo intermedio
discendano B e C.
ά

A Ꞵ

B C

Oppure possiamo avere un testo detto “alfa” da cui discende A, e poi ipotizzare un testo “beta” da
cui discendono B e C.

A C

Possiamo poi trovare un testo alfa da cui discende A, ed A discende B, mentre C rappresenta una
tradizione indipendente.

A B C

Infine possiamo trovare questa situazione; da un testo alfa possono discendere diversamente (con
errori separativi evidenti) tutti e 3 i testi che abbiamo preso in considerazione.
Alla fine possiamo dire che la classificazione dei codici ci porta a capire la natura dei loro supporti
genealogici che sono fondamentali, perché ci possono condurre, attraverso gli errori guida, ad un
elemento sicuro. Importante è la tavola degli errori guida (cioè la tavola di confronto dei codici) che
serve a testimoniare la serietà del lavoro dei filologi nel caso in cui hanno deciso che alcuni di
questi codici sono “Descripti”.

Vediamo ora alcune sigle che ci servono per poter leggere un’edizione. Abbiamo detto che di solito,
al punto più alto dello Stemma, collochiamo quello che chiamiamo “Autografo” (oppure lo
possiamo chiamare “O” intendendolo come originale). Con una linea verticale si indicano i rapporti
tra i diversi testi della nostra tradizione; dobbiamo ricordare che i filologi, in caso di più ipotesi,
possono utilizzare per il Codice Stemmatico anche la linea tratteggiata.
Sotto la linea verticale si indica quello che viene chiamato “Archetipo”; di solito l’archetipo si
indica con “x”, perché con “x” si indicano tutti i passaggi intermedi che i filologi ipotizzano, ma di
cui non hanno la possibilità di immaginare la loro vera esistenza.
Invece, le lettere dell’alfabeto greco, indicano quello che i filologi chiamano “Subarchetipo", cioè
capostipiti perduti eventualmente dalle famiglie individuate nella tradizione.
Con le lettere latine minuscole (a,b,c) si possono indicare anche degli eventuali capostipiti di
qualche sottogruppo (cioè all’interno di una famiglia ci può essere alfa, poi ci può essere “a”, e da
“a” arrivano i codici perduti A e B) ά

A B
Con le lettere latine maiuscole (A-B-C) si possono indicare le sigle dei manoscritti (dei testimoni
superstiti), ma i testimoni superstiti possono essere anche indicati con altri tipi di sigle a seconda
dell’editore (ad esempio “R” per Riccardiano). I rapporti genealogici si indicano con le sbarre
oblique (/ ) e possono essere tanto lunghe quanto i filologi immaginano la distanza temporale che
sussiste. Possiamo guardare con attenzione (a pag 158 del libro di Balduino) allo Stemma della
Commedia di Dante individuato da Giorgio Petrocchi. Qui Petrocchi ci ha indicato quali sono i
rapporti temporali che lui ha individuato attraverso le diverse tradizioni dei codici.
L’originale lo fa risalire al 1321, alla data di morte di Dante, poi troviamo le famiglie “a”, “b”, “c”,
“d”, e “e” (quindi 5 famiglie costituiscono la tradizione della Divina Commedia secondo la
ricostruzione del Petrocchi). Individuate le 5 famiglie di appartenenza dei diversi manoscritti che
testimoniano la Divina Commedia, ha poi individuato 2 archetipi “alfa” e “beta”; alfa che si pone
come anello intermedio delle famiglie “a”, ”b”, “c” e beta che invece si pone come capostipite della
famiglia “d”, con diretta filiazione della famiglia “e”.

Ora bisogna discutere di una cosa molto importante, cioè della scelta delle varianti.
La domanda che dovremmo farci è: che varianti decide l’editore critico di mettere nel testo?
L’editore critico, quando si trova difronte a situazioni complesse, scegliere di mettere una variante
anziché un’altra. Prendiamo per esempio la Commedia di Dante sul sito “danteonline.it”, e
prendiamo precisamente un passo del Canto XV del Paradiso.
Al verso 70 dice Dante. “Io mi volsi a Beatrice, e quella udio pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l'ali al voler mio”. La parola sulla quale occorre riflettere è “Arrisemi un cenno”
che vuol dire “Mi elargì, sorridendo, un cenno”. L’altra lezione che la maggioranza dei codici
presenta è “Arrosemi un cenno”, con oscillazione grafica in altri codici “Arossemi un cenno”.
Ora potremmo chiederci: come mai avviene questo?

- Arrisemi + Accusativo

- Arrosemi/Arossemi + Accusativo

Questo è proprio un caso di una variante adiafora; Arrosemi significa “mi aggiunse un segno”.
Quindi nel primo caso "mi sorrise facendo un cenno", nel secondo caso "aggiunse un cenno".
Questa tradizione ci dimostra come il filologo debba decidere per l'una o per l'altra, mancando la
prova provata del manoscritto di Dante (cioè la domanda è: Cosa scrisse Dante? Arrisemi o
Arrosemi?). Quindi l'editore critico si trova di fronte a quel caso che abbiamo definito di "Variante
Adiafora”, cioè o l'una o l'altra lezione possono essere corrette e testimoniare l'ultima volontà
dell'opera di Dante. Perchè poi gli editori decidono per Arrisemi? Lo giustifica uno dei primi
commentatori delle varianti del testo di Dante, cioè Tommaso Casini. Il ragionamento di Casini
(che sceglie “Arrisemi” per quanto sia quella minoritaria) non è un ragionamento puramente
filologico (cioè che riguarda una sola parola) ma riguarda il contesto. Dice Casini Che non si
capisce perché Dante dovrebbe aggiungere un cenno; forse la spiegazione semantica di questo testo
è "mi sorrise facendo un cenno che aumentò la mia volontà". Questa è la spiegazione per cui Casini
preferisce la lezione “Arrisemi” e così anche poi Petrocchi; però ci sono dei filologi che hanno
scelto la lezione “Arrosemi”. Naturalmente nessuno ci può dare la prova provata che Dante abbia
scritto “Arrisemi” al posto di “Arrosemi”, se non il manoscritto di Dante che toglierebbe qualunque
discussione.
Possiamo fare un altro esempio dantesco che ci può portare a comprendere quanto sia importante
l'editore critico nella ricostruzione di un testo. Prendiamo (sempre su danteonline.it) i versi 33-36
del IV canto dell'Inferno. Qui siamo di fronte ad un altro caso che si potrebbe definire "variante
adiafora" oppure "Lectio difficilior". La parola incriminata è "Porta”. Dobbiamo tener conto che
nella tradizione testuale questa parola è imparentata con “Parte”. Se noi inserissimo “Parte” al posto
di “Porta” ci accorgeremmo che siamo di fronte ad un caso di variante adiafora, cioè di una variante
significativa in tutte e due i sensi (o porta o parte hanno lo stesso significato). Ma dobbiamo
aggiungere che soltanto un codice, quello che è definito “Cortonese”, ha la lezione “Porta”, tutti gli
altri codici (che sono numerosissimi) hanno “Parte”. Ora per quale motivo un editore critico (in
questo caso Petrocchi) scegli la lezione di Porta piuttosto di quella di Parte? In questo particolare
luogo noi abbiamo persino una chiosa boccacciana (cioè una spiegazione di Boccaccio) che spiega
proprio questo verso num. 36. Boccaccio sceglierà la lezione di “Parte”. E’ ovvio che se c'è la
possibilità che “Parte” sia un errore di lettura, è anche stabilito dal fatto che molti codici portano
l'abbreviazione “pta”, dove OR/AR possono essere ripristinati dai lettori, quindi c'è anche un
problema grafico. Alla fine “Porta” sembra essere più coerente per quello che vuole dire Dante;
tutto questo si presenta come una “Lectio Difficilior”. Quindi nonostante ci sia solo un codice che
presenta la lezione “Porta”, questa lezione viene preferita perché qui siamo di fronte ad una “Lectio
Difficilior”che viene ripiegata anche dal contesto.

Ora ricostruiamo gli elementi che conducono alla scelta di una lezione anziché di un'altra.
Abbiamo innanzitutto: - la coerenza semantica (cioè la coerenza del significato del testo);
- la facilità di un eventuale travisamento grafico;
- i riscontri interni che si richiamano, da un lato a testi vicini al poeta, dall'altro all’
“Usus Scribendi” del poeta di riferimento.

Abbiamo ora disposizione tutti gli elementi che, attraverso l’Examinatio dei testi, ci conducano alla
Emendatio (correzione di un codice). L’Emendatio deve essere basata su alcune caratteristiche
principali.

- dobbiamo scoprire l'esistenza di un errore e dobbiamo anche documentare questa esistenza di un


errore,

- dobbiamo localizzarlo all'interno della tradizione documentando anche le dimensioni di questo è


errore; cioè se da questo errore se ne generano altri

- dobbiamo eventualmente scoprire una lacuna testuale,

- dobbiamo sanare l'errore; sanarlo è possibile sia per ipotesi (se noi scopriamo che c'è una lacuna
del testo dobbiamo ricostruirlo tra parentesi quadre), sia in base a quella che viene chiamata "Lectio
Difficilior”.
L’emendazione degli errori (cioè la correzione di questi errori per arrivare all'originale dell'autore) è
la parte più complessa del lavoro del filologo. Dobbiamo ricordare a questo punto, che la situazione
di partenza sarà per l'editore (filologo) una delle seguenti:

- abbiamo l'autografo; è una delle situazioni più favorevoli per i filologi. Avere l'autografo
definitivo oppure avere più autografi che testimoniano diverse fasi razionali è favorevole perché i
filologi devono correggere solo quando c'è qualcosa di formalmente errato riconducibile anche a
disattenzioni dello stesso autore;

- l'altro caso è che i filologi hanno l'autografo e un certo numero di copie; con un autografo in
presenza di copie, i filologi devono comunque operare l’Emendazione.

-oppure i filologi hanno una sola copia lontana dall'originale: anche qui il lavoro di emendazione
dovrà essere fatto in base a dei rilievi che riguardano la coerenza interna al testo.

- oppure restano più copie di diverso luogo, produzione e tempo, dove i filologi possono lavorare
anche alla classificazione (Recensio) degli errori.

I segni diacritici che possono configurare le lacune e le emendazioni possono essere i seguenti:
le graffette (<>) o le parentesi quadre; di solito vengono utilizzate le parentesi quadre.
Il segno “+” (croce) indica in filologia quello che viene chiamato “Crux Desperationis” oppure
“Locus Desperatus”, che vuol dire che c'è un buco nel codice e i filologi non possono ricostruirlo;
queste cose vengono discusse nelle note al testo. Importante, infine, è il criterio dell'apparato
testuale; nell'apparato vanno messe le lezioni dell'archetipo, le varianti, le sottovarianti, le lezioni
che concordano tra loro.

Undicesima Lezione (18/05/2020)

Oggi vedremo la variantistica d'autore (o critica delle varianti), che è una partizione particolarmente
interessante della letteratura italiana in generale delle letterature contemporanee, che ha consentito
ai filologi di capire meglio il lavoro del laboratorio editoriale e di arrivare a delle considerazioni che
da un certo punto di vista sono molto simili a quelle che bisognerebbe applicare per la filologia
classica e medievale - moderna. Noi faremo questo esempio prendendo in considerazione quella
tragedia (l’edizione critica) intitolata “La Fiaccola sotto il Moggio”, perché di quello la prof
possiede i materiali manoscritti e può mostrarci direttamente il manoscritto d'autore.
La prof ha preso una serie di materiali dannunziani perché dobbiamo fare delle considerazioni a
partire dai materiali che sono stati conservati, per arrivare poi a questa edizione critica della
“Fiaccola sotto il Moggio”., che è una tragedia dannunziana di una certa importanza nella nostra
tradizione teatrale; è una tragedia su cui D'Annunzio lavorò velocemente ma mostrando un “Intentio
Auctoris” molto chiaro quando si vanno a guardare i materiali a nostra disposizione.
La cosa interessante di questo manoscritto dannunziano è che D'Annunzio utilizza una carta fatto a
mano dalle officine Fabriano, che ha in filigrana il motto che D'Annunzio utilizzava negli anni in
cui questa tragedia è stata vergata (stilata). Il moto è “Per non dormire per non morire”; è un motto
che D'Annunzio riprende da Petrarca. Che vuol dire “Si fa filigranare le carte?” D'Annunzio si fa
fabbricare questa carta a mano in un formato speciale, e lui utilizza vergarla solamente in recto: non
c'è nessuna vergata di queste carte sul verso. Questo manoscritto ci dimostra una serie di usi
d'autore: ad esempio D'Annunzio inseriva una carta o cambiava i numeri quando ce n'era bisogno,
oppure inseriva delle sottolineature ho una croce asteriscata.
Un altro uso dannunziano e usare il cartiglio, cioè una metà del foglio che lui usa viene incollata
sotto un'altra carta; così facendo introduce o riscrive dei versi che non entravano nella pagina e che
dovevano essere aggiunti separatamente. Possiamo dire che siamo di fronte a un manoscritto
"tormentato", perché possiamo notare molte correzioni; inoltre manifesta il fatto che sia un
manoscritto di composizione dell'opera (cioè quando vediamo numerose correzioni vuol dire che sta
scrivendo la tragedia). Come possiamo notare poi, molte delle correzioni sono determinate dalle
questioni metriche, e questo è importantissimo da sottolineare (come a pagina 80-81 del
manoscritto) perché le questioni metriche sono alla base per riconoscere anche la tradizione dei testi
antichi; quindi va guardata sempre la metrica. Successivamente notiamo come alcune delle
correzioni sono fatte “Currenti Calamo”, cioè sono state fatte mentre D'Annunzio scriveva, altre
correzioni invece sono state fatte nel momento della revisione. Possiamo quindi dire che la
variantistica d'autore si occupa non soltanto di stabilire il testo definitivo dell'opera ma di
documentare tutti i passaggi attraverso i quali l'autore è arrivato alla stesura dell'opera stessa.
Dobbiamo ricordare inoltre che la tragedia andrà in scena per la prima volta il 27 marzo 1905 al
Teatro Manzoni di Milano.

Adesso vediamo il materiale posseduto dai filologi a proposito della “Fiaccola sotto il Moggio”.
Hanno un manoscritto, detto A (autografo, è conservato nella biblioteca nazionale di Roma), ma
hanno anche un idiografo (B, che è conservato presso il Vittoriale degli Italiani) che è la bozza di
stampa della Princeps con correzione autografa. Le correzioni autografe di questa bozza di stampa
della Princeps sono fondamentali perché portano i filologi direttamente alla prima stampa (a quella
che viene chiamata Princeps) che fu pubblicata a Milano per i fratelli Treves nel 1905.
Nell’autografo i filologi hanno delle lezioni, però alcune di queste lezioni non sono confermate poi
nella stampa. Quindi dove finiscono queste elezioni? Siccome queste lezioni non sono state
cancellate nell’autografo la domanda è: "Chi ha ragione?" L'autografo o la stampa (che D'Annunzio
seguì)?. I filologi hanno la testimonianza intermedia di “B”. In questa testimonianza di B sappiamo
che l'autore ha corretto alcune parti del testo e le ha cassate (cioè ha tolto segni scritti con un tratto
di penna o raschiando). Quindi l'autografo ha delle lezioni ma nella bozza di stampa l'autore le
cancella, per cui la Treves non le ha. Ricordiamoci poi che nei testimoni, oltre ai manoscritti A e B,
abbiamo delle stampe, cioè la Princeps (la Treves 1905), poi la stampa che fu fatta a New York; fu
fatta a New York perché per D'Annunzio era importante portare il suo teatro anche fuori l'Italia,
quindi si rivolge a Vincent Ciocia per far stampare una copia di questa tragedia. La New York è
molto interessante perché i filologi capiscono, dal fatto che delle lezioni sono state cancellate in B,
che è stata mandata a stampare quando lui ha chiuso il manoscritto. Infine tra le stampe abbiamo la
"Prima Edizione Nazionale” del 1929 (Milano), e la sua diretta discendente che i filologi chiamano
“OL” (Oleandro, Roma). Diciamo diretta discendente perché quest'ultima stampa è rivista
dall'autore ma in un'edizione più economica; la “Prima Edizione Nazionale” infatti era di carta
molto più pregiata e costosa, mentre questa società dell'Oleandro si costituisce affinché le opere
dannunziane possano essere presenti in tutte le biblioteche scolastiche e universitarie.

Ora vediamo cosa significa una bozza di stampa corretta dall'autore (B). E’ un manoscritto
conservato al Vittoriale, numero 5648; si tratta di 76 carte numerate, sono numerate da 1 a 71 ma
manca la 63, poi ci sono altre carte (65-69-70-71) che sono ripetute (quindi evidentemente all'autore
sono state date due serie di bozze di stampa e solo su una ci ha lavorato): inoltre ci sono due carte
non numerate e che ci fanno vedere il testo come andrebbe inquadrato nella stampa. Per quanto
riguarda l'edizione del 1905 di Treves, possiamo dire che gli editori Treves inaugurarono una forma
di libro "bella e non costosa" (così come lo definiva D'Annunzio) per poter fornire a poco prezzo
un’edizione curata in tutti i particolari; in questa edizione D'Annunzio pretende un rosso in
copertina (che lui chiama rosso fiaccola) e l'illustrazione di Adolfo De Carolis.
Vediamo ora una testimonianza del lavoro in divenire di D'Annunzio. E’ una testimonianza molto
significativa perché ci proviene da Marino Moretti, che è uno degli autori più interessanti di inizio
900. In quel periodo della sua vita (aveva 20 anni) viveva a Firenze e frequentava una scuola di
teatro insieme al figlio di D'Annunzio (Gabrielino); egli doveva avere una parte e pare che
D'Annunzio consegni (mentre sta ancora finendo di scrivere la tragedia) la parte (il manoscritto) che
riguardava Gabriellino proprio a Moretti. Egli quindi ci testimonia la preziosa presenza di questo
manoscritto. Il manoscritto “A” (l’originale) è stato definito dai filologi “VE 1499”, cioè Vittorio
Emanuele 1499 (che è la sua collocazione); Vittorio Emanuele è la biblioteca nazionale di Roma.
Questo manoscritto è in possesso del popolo italiano e fu acquistato il 30 marzo 1976 dal ministero
per i Beni Culturali. E’ composto da 231 fogli sciolti, nel formato in quarto grande, vergati solo sul
recto (sulla parte anteriore del foglio) sulla carta fatta fabbricare appositamente per lui da Fabriano,
dove è filigranato il motto “per non dormire”. Le carte presentano una numerazione autografa da 1
a 223: manca la carta 7 come autonoma; sono doppie e marcate con la dizione “bis” accanto al
numero d'ordine le carte 8-9-10-32-34-50-96-172-176. Alle carte 93-118-147-181-221 erano
incollati cartigli conservati ora separatamente.
C’è un'altra questione da tenere presente e cioè che non soltanto c'è questo manoscritto (VE 1499),
ma ci sono anche 13 carte che vengono chiamate doppie; cioè abbiamo manoscritto tutto intero e
dopo queste 13 carte: si tratta delle carte 7-9-11-12-26-32-86-94-95-96-115-171-213.
I filologi hanno definito queste carte ad esempio “7a”, perché manifestano una redazione prima;
quindi alla carta “7a” subentrano le carte “8 “ e “8 bis”, cioè la carta “7a” contiene il testo delle
carte “8” e “8 bis”. Alla fine dobbiamo dire che D'Annunzio ha rifiutato queste 13 carte doppie e le
ha ricopiate. Quando si parla di un manoscritto bisogna poi guardare se ci sono delle postille, cioè
delle scritte che poi non entreranno nella tradizione testuale. In questo manoscritto poi ci sono delle
aggiunte di altra mano che sono per i filologi molto importanti perché confermano che il
manoscritto fu consegnato all'editore Treves per la stampa; infatti su alcune carte sono apposte le
firme a matita di altra mano che potrebbero essere quelle dei vari compositori.
L’altra considerazione che va fatta rispetto al materiale del manoscritto è la dilatazione del testo.
Questa dilatazione del testo corrisponde proprio a un “Usus Scribendi” dell'autore; quindi, come
possiamo notare, entriamo non soltanto negli scartafacci dell'autore, ma andiamo a vedere come
quest'opera si sia via via manifestata. A proposito, dice uno dei più grandi critici, Piero Gibellini,
che le carte doppie e i cartigli testimoniano che una sorta di “molla dilatatoria irrompe a turbare il
filo della scrittura”, con l'inserzione di porzioni di testo che o strabordano all'esterno o inducono
una nuova numerazione.
Dodicesima Lezione (19/05/2020)

Riprendiamo l'analisi del manoscritto "La fiaccola sotto il Moggio” e vediamo in particolare le fasi
dell'allestimento dell'edizione critica e poi le emendazioni (emendationes).
Ricordiamo che le emendationes, in filologia, è un termine usato dai grammatici antichi, poi dagli
umanisti e dai filologi, soprattutto classici, per indicare l’operazione di apportare a un testo le
correzioni, in genere congetturali, per renderne la lezione più accettabile e più vicina all’originale.
Dobbiamo dire che le emendazioni vengono introdotte dai filologi anche nel caso in cui si ha tutta
la tradizione testuale completa e sorvegliata dall'autore; l'editore critico interviene a correggere,
quindi a procurare delle emendationes che devono essere indicate nella nota al testo in tutti i casi di
edizione critica. Si indica poi qual è il testo base; in questo caso il testo base per l'edizione della
“Fiaccola sotto il Moggio” è quello di “OL” (1936), l'ultima stampa apparsa in vita di D'Annunzio.
Poi si indicano gli interventi con delle rettifiche di tipo grafico, come la disposizione dei versi
distribuiti tra più personaggi, quando su “OL” non era stata rispettata la misura dell'endecasillabo e
del settenario; quindi un’emendazione che riguarda la misura del verso (la metrica del verso), e
infine si recuperano due lezioni del manoscritto. Quindi i filologi quando devono darci i criteri di
edizione di un testo, ci dicono subito su quale testo hanno basato la loro edizione (cioè il testo base)
e poi dichiarano le emendationes. Ora dobbiamo chiederci: Qual è lo scopo dell'editore che fa la
critica delle varianti? Se noi prendessimo l'edizione della “Fiaccola sotto il Moggio” i filologi si
rendono conto che, quando vanno sul testo, hanno un apparato che rappresenta con dei segni
diacritici e con delle parole uno stadio di evoluzione del testo; cioè l'editore critico che fa critica
delle varianti è indotto dal suo lavoro a descrivere in che modo queste varianti si sono generate.
In questo caso i filologi utilizzano in apparato due didascalie: le didascalie “da” e “su”, che
indicano che ci si trova di fronte a due diverse tipologie di varianti.
Pietro Gibellini è stato un grande filologo che si è occupato della variantistica d'autore; egli
sosteneva che le varianti fossero di due tipi nel testo di un autore che sta scrivendo:

- una variante di tipo sostitutiva


- una variante di tipo evolutiva

Cosa vogliono dire queste definizioni? Intanto dobbiamo precisare che ai filologi non interessa
come sono state fatte queste varianti (cioè se c'è un ricalco, una sovrascrittura, un inserimento), ma
interessa come possono definirle. Il caso del verso 709 è un caso di variante sostitutiva, perché
l'editore che si interessa di variantistica d'autore ci deve dire come l'autore è arrivato al testo.
Il testo è: “Eri velata. Vivere ho potuto, esiliato dall'anima tua, con l'amore dell'esule pel piccolo
giardino ove non entra più, per la vena fresca ove non beve più…”.
Ma questo testo definitivo viene fuori da un lavoro d'autore che ha avuto una redazione precedente
totalmente diversa (si capisce che il testo ha avuto uno stadio intermedio confermato dalla
newyorkese). Cioè il testo doveva essere così: “Eri velata. ed ho potuto vivere (qui c'è una
sostituzione) esiliato dall'anima tua, con l'amore dell'esule verso il piccolo giardino (anche qui)
dove non entra più, per la piccola fonte ove non beve più”. Quindi possiamo dire che le varianti
sostitutive sono molto importanti non soltanto per entrare nel laboratorio dello scrittore ma anche
per comprendere quale processo di revisione c'è sui testi. Abbiamo quindi capito che la scrittura
(come si capisce dalla variantistica d'autore) non ha mai una forma definitiva; l'abbiamo intuito in
quel lavoro che Leopardi fa su una singola parola (sovvienti), fino ad arrivare alla parola più
coerente con il significato del testo (rimembri). Quindi possiamo dire che il lavoro dello scrittore si
dimostra proprio nella correzione.
Per quanto riguarda invece la variante di tipo evolutiva possiamo dire che è una lezione o
incompiuta, o rimasta in tronco e subito sostituita. Un esempio è la parola “gocciola”; ad un certo
punto l'autore pare scrivere “goccia”, poi probabilmente ci ritorna su e scrive “goccia”.
Il nucleo centrale di questa tragedia è l'antefatto, cioè come è avvenuto l'omicidio della Contessa
Monica. Sappiamo che la “Fiaccola sotto il Moggio” è ripresa da una fonte evangelica, e che è
ambientata nel terzo decennio dell'800, alla vigilia della Pentecoste. Proprio durante questo periodo
successe il misfatto; per quanto riguarda l’assassinio D'Annunzio ha ripetuto un episodio
rintracciato in una fiaba tradizionale abruzzese che si intitola “La Mala Matrè” di Antonio De Nino.
L’omicidio è avvenuto decapitando la contessa Monica con un arcone, cioè un'enorme cassapanca
che viene aperta, la contessa Monica viene invitata a guardare dentro, e poi il coperchio della
cassapanca si ribalta sulla sua testa uccidendola; questo arcone è una sorta di ghigliottina che cadde
sulla testa della Contessa. Questa decollazione domestica con il nome arcone è una spia
significativa che ci rende sicuri che nel testo D'Annunzio è intervenuto in primo luogo per
esplicitare le sue fonti e poi per nasconderle. Se noi leggessimo la fiaba che abbiamo citato (La
Mala Matrè) ci accorgeremmo che lo scenario che si è verificato è quasi lo stesso con quello
avvenuto nella “Fiaccola sotto il Moggio”; infatti nella fiabasi parla di un certo Pantaleone e una
certa Menca: erano marito e moglie e avevano due figli, un maschietto e una femminuccia.
I figli andavano a scuola tutti i giorni, però la loro maestra voleva sposarsi con Pantaleone e disse ai
bambini che "se voi fate calare il coperchio dell'arcone sul capo della vostra mamma che è tanto
avara, io mi sposerò vostro padre e vi concederò di fare tutto". I figli quindi, una mattina, prima di
andare a scuola, chiesero alla madre due noci; la madre aprì il pesante coperchio dell'arcone con
l'intenzione di dargliele e abbassò la testa. Allora i figli fecero cadere il pesante coperchio, e la
madre morì. Il padre credette che fosse stata una disgrazia, e si rassegnò al volere di Dio.
Come possiamo notare ci sono molti spunti assimilabili alla tragedia dannunziana, tra questi
sicuramente il più importante è la similitudine tra il maschietto, che è il personaggio di Simonetto, e
la femminuccia che è invece il personaggio di Gigliola. Che cosa nasconde antropologicamente
questo episodio così crudo? Intanto il collegamento con un antefatto di Cenerentola è chiarissimo se
andiamo a prendere "La Gatta Cenerentola” di Giambattista Basile. Noi siamo abituati a vedere una
Cenerentola edulcorata (addolcita, ammorbidita) che si trova già con una matrigna che ha due figli.
Ma nella “Gatta Cenerentola” di Basile, noi sappiamo che questa Cenerentola viene indotta dalla
maestra (come nella Mala Matrè) a eliminare la matrigna in un modo del tutto analogo alla fiaba.
Allora qual è l'attenzione di D'Annunzio nei confronti di questa fiaba? L'attenzione di D'Annunzio è
nei riguardi del personaggio femminile (del ruolo femminile) all'interno di una società patriarcale
(sistema sociale in cui gli uomini detengono il potere), e quindi all'interno di una società nuova,
dove di fatto le donne perdono quel ruolo che miticamente nella tradizione occidentale (nella
tradizione non solo religiosa ma anche mitico-favolistica, e quindi sia dei classici antichi sia delle
fiabe popolari) hanno sempre avuto. Quale ruolo? Quello di custodi della casa.
Perchè? Perchè dietro c'è il mito profondo (disagio profondo) del fatto che la donna è necessaria per
la continuazione della stirpe: però è elemento estraneo rispetto alla casa del padre.
Dunque cosa contengono questi miti? Contengono una profonda verità: cioè che una madre che
genera figli è sempre meglio di una matrigna (di un elemento esterno) che con i figli del padre non
ha niente a che fare. Quindi l'elemento esterno (la donna) è accettato, ma questo elemento esterno
deve essere collocato all'interno della casa del padre, deve appartenere alla casa del padre e quindi
deve essere riconosciuto dai figli come elemento cogente (obbligato), e non sostituibile da una
qualsiasi altra donna. Dentro questo mito antropologico, D'Annunzio si pone il problema della
modernità, tanto è vero che questa casata magnatizia dei Sangro è destinata a scomparire.
Questa tragedia ci porta all'interno del laboratorio dannunziano e della grande arte di D'Annunzio,
perché D'Annunzio riesce a mettere insieme un mito antico con una fiaba contemporanea e
contemporaneamente utilizza il linguaggio religioso che apre questa tragedia alla disponibilità di un
pubblico più allargato. Ora entriamo nella questione filologica, cioè dobbiamo vedere come i
filologi si sono accorti che questo è un nucleo centrale e perché è un nucleo centrale. Se ne sono
accorti innanzitutto dalla parola “arcone”. La parola "arcone" sfugge più volte a D'Annunzio nella
redazione della tragedia.
Dobbiamo chiederci: quante volte entra questa parola nel testo di D'Annunzio? Se andassimo a
vedere, la parola sembra non utilizzata; la troviamo soltanto nell'apparato correttorio. E’ una parola
che D'Annunzio tiene molto a cancellarla più volte; ma, allo stesso tempo, è una parola di cui si
serve D'Annunzio per ordinare quella scena che abbiamo visto all'inizio (quel bozzetto della “scena
unica”, il grande arco o arcone, la foto). Dove la cancella? Se noi prendessimo il manoscritto, ci
accorgeremo della presenza dei versi nei quali viene descritto l'assassinio; tuttavia questi versi, nel
testo della relazione finale, non sono presenti. Nel manoscritto infatti abbiamo questi versi “La mia
gola non è strangolata? Non è rotta, senza speranza di guarire? Il coperchio dell'arco non mi calò sul
collo, anche a me? Non ho qui la lividura”. Mentre nel testo della relazione finale abbiamo "Non
ho qui nella gola anch'io la lividura”. Come possiamo notare c'è una bella differenza; alla fine,
abbiamo soltanto l'illusione ma non il racconto della vicenda. Quando ha cancellato questi versi? Li
ha cancellati in bozza; qui si nota la grafia dannunziana, possiamo trovare una croce “+” come
simbolo di correzione di bozze (questa croce significa che bisogna cancellare dei versi) e poi mette
l'inserimento che vuole avere nel testo finale.
L'ultima questione filologica che va tenuta presente in questo testo e che rende questo testo
particolarmente interessante riguarda le "Varianti del finale". Le ragioni del pubblico dettano con
certezza la variante del finale, per cui D'Annunzio si rimette al tavolino, mentre la compagnia
Fumagalli è già in tournée e le bozze sono ormai in tipografia. Approntata per le repliche fiorentine
della metà di aprile, la variante viene accolta con un senso di sollievo; tuttavia non viene mai
introdotta nella stampa, tranne nella traduzione francese del 1928. Quindi c'è una traduzione
francese dove oltre al finale che si conosce, D'Annunzio fa stampare questa variante che in uso nelle
compagnie. La variante si conserva ma non scritta in due versioni:

- una prima abbozzata in carte duplicate di B (sarebbero le bozze) e sistemata poi sulla solita carta
filigranata nell’aprile 1905;

- una seconda approntata appositamente per Giacinta Pezzana, invitata a interpretare Donna
Aldegrina (la nonna di Gigliola) al Teatro Argentina di Roma nel marzo 1906.

Le varianti del finale sono state poi valutate dalla prof così: come variante del 1905 che è stata poi
riesumata nel 1927 per l'inaugurazione dell'Istituto Nazionale per la rappresentazione dei drammi di
Gabriele D'Annunzio”. Quindi nel 1927 gli attori recitano questa variante che D'Annunzio però non
ha mai voluto mettere nel testo; l'ha fatta mettere soltanto sul testo francese.
Tredicesima Lezione (21/05/2020)

Manoscritto Dannunziano
ARC.21.61/4= è la nota archivistica di collocazione di questo manoscritto

Vediamo ora alcune considerazioni di filologia che ci possono aiutare in tante attività.
Innanzitutto facciamo una considerazione su materiali che possiamo trovare negli archivi dello
scrittore (in questo caso D'Annunzio); siamo in presenza delle pagine interne di un taccuino
dannunziano che ci mostra un D'Annunzio meno impegnato dal punto di vista grafico. Il taccuino è
piccolo ed è tutto vergato con il lapis (a matita), a parte la prima pagina che era rimasta in bianco
dove abbiamo una annotazione in matita blu, c'è poi un’annotazione a penna (con il pennino e
l'inchiostro), e poi tutto il resto del taccuino è vergato a lapis. I segni a matita corrispondono a degli
appunti presi in “res” (cioè via via che la situazione si poneva sotto gli occhi di D'Annunzio);
questo taccuino è relativo a una gita per l'occasione di una festa popolare (la gita alla Madonna dei
Miracoli). I segni che vediamo vergati rosso e blu corrispondono al riuso che di questo taccuino ha
fatto D'Annunzio; egli si è servito di questo taccuino per il romanzo “Il Trionfo della morte “.
Si capisce che l'annotazione avviene di getto e probabilmente, nel momento in cui sotto gli occhi di
D'Annunzio appaiono le scene di cui lui tratta. Questo taccuino rappresenta un materiale
preparatorio per il romanzo del “Trionfo della morte”, e quindi ha tutta la legittimità di essere
considerato filologicamente, soprattutto se i filologi volessero creare un'edizione critica del Trionfo
della morte. Quindi possiamo dire che in questo taccuino troviamo un uomo che come un
giornalista appunta le cose che vede sotto i suoi occhi, e aggiunge su queste cose delle annotazioni,
perché poi dovranno tornargli alla memoria. Che cosa deve ricordare? Nel taccuino le uniche
informazioni che abbiamo sono: deve ricordare “dentro la Chiesa, davanti l'altare, la bella sposa
fresca e possente, insieme col parentado, porta il giovine sposo colpito d’impotenza per implorare la
grazia della Madonna”. Nel Trionfo invece tutto viene ampliato a dismisura, e il recupero delle
immagini della memoria viene condito dall’arte dello scrittore. L'episodio è narrato in tutti i suoi
particolari; particolari che probabilmente sono stati aggiunti a posteriori e che quindi hanno caricato
e aumentato il tutto. Possiamo notare che tra il taccuino e il Trionfo ci sono delle relazioni
importanti; lo intuiamo dalla ripresa di parole già presenti nel taccuino e ripetute poi nel Trionfo,
come “parentado” o “fresca e possente”. Questi due aggettivi “fresca e possente”, che gli appaiono
sotto gli occhi mentre vede la scena, gli servono a far affiorare questa descrizione che potrebbe
essere caricata dall'esperienza di grande scrittore che è D'Annunzio.

Carteggio D’Ancona

Tra i lavori filologici della prof, spicca un “Carteggio d'Ancona”. Questa collana dei “Carteggi
d’Ancona” è particolarmente interessante, perché è una collana che rende certa la trascrizione delle
lettere; nel realizzarla la prof si è attenuta a dei criteri editoriali della “Scuola Normale” di Pisa. I
criteri filologici sono riassunti nella “Nota al Testo”. Il carteggio comprende 226 lettere; quelle di
Alessandro D'Ancona sono 76, di cui 11 conservate tra le “Carte Torraca” della Società Nazionale
di Scienze Lettere e Arti in Napoli. Il problema che si pone in questo caso, e che la nota anticipa
rimandando all'appendice, è come mai le lettere di D’Ancona sono solo 11 nelle “Carte Torraca” e
le restanti lettere di Alessandro D'Ancona sono depositate in “Carteggio D’Ancona, INS, 15, busta
153”, presso la biblioteca qui della Scuola Normale Superiore di Pisa? I filologi hanno spiegato che
Torraca stesso le mando a Giuseppe d’Ancona che ne aveva fatto richiesta. In questa edizione le
lettere sono state ordinate cronologicamente, la trascrizione dei testi riproduce fedelmente
l'originale di cui si rispettano punteggiatura, maiuscole, corsivi e capoversi. Nelle lettere le date
possono essere messe all'inizio, alla fine o addirittura possono essere ricostruibile dal timbro
postale. Dunque questi usi sono tutti uniformati per dare un carattere di omogeneità al carteggio.
Quattordicesima Lezione (25/05/2020)

Ora vediamo un testo molto importante di Raul Mordenti. Egli è un critico letterario
(un teorico della letteratura più che filologo); intervenne con molta sapienza in un articolo chiamato
“La Filologia Digitale (a partire dal lavoro per l'edizione informatica dello Zibaldone Laurenziano
di Boccaccio)”. E’ intervenuto su questo codice boccaccesco spiegandoci i problemi che si
presentano ai nuovi editori che oggi si trovano di fronte a un problema di edizione critica.
Nell’Abstarct (indice), Mordenti affermava che il passaggio del testo dalla modalità pre-informatica
e guttemberghiana, a quella segnata dall'informatica o digitale, è tale da cambiare sostanzialmente
non soltanto il concetto di testo ma anche la natura stessa della filologia. Questo testo è interessante
perché ci porta all'interno del nesso tra le tecnologie del testo e le diverse idee di testo; cioè l'autore
si pone il problema che le nuove tecnologie digitali cambiano il concetto di testualità, e quindi ci
portano fuori dall'ambito della filologia e ci fanno entrare in un universo nel quale non sappiamo
quali orizzonti ci apre e dove ci porterà. Mordenti mette insieme sia il problema tecnico della
filologia sia il problema più strettamente congetturale. I filologi hanno di fronte una sfida epocale
nella storia della testualità; essi sono passati da uno stadio dominato dall'oralità pura e ci si affidava
alla memoria per la trasmissibilità di un testo (ad esempio per molto tempo l'Iliade e l'Odissea si
erano affidati alla memoria). Poi c'è stato il passaggio dall'oralità alla scrittura chirografica
(perdita d’importanza della memoria, sviluppo pensiero analitico, nascita concetti di “io”, “logos”,
“psyche”). Un’altro passaggio è quello dalla chirografia alla stampa come modalità dominante
(e modellizzante) dellla testualità (cioè i libri seguono una loro architettura; devono avere una
copertina, un frontespizio, un indice e i capitoli). E infine l'ultimo stadio è quello dalla “Galassia di
Guttenberg” all'informatica; qui entriamo in una dimensione che filologi stessi non possono
comprendere. Il loro problema principale però è sicuramente “come tutte queste novità possano
intervenire sull' esperienza del libro, e soprattutto sulla documentazione propria del lavoro
filologico”. Queste riflessioni sono fondamentali, aprono un orizzonte sconfinato di possibilità,
perché i filologi oggi sono ad una svolta esattamente come si trovarono ad una svolta coloro che
dovettero, con l'invenzione della stampa di Guttenberg, fare i conti con quello che i filologi
chiamano “universo”. Mordenti ci lascia 10 comandamenti; questi comandamenti invitano i filologi
a porre come base l'attenzione a un testo cosa che spesso è tradita nelle edizioni che hanno
consultato.

-Il primo comandamento invita ad assumere un atteggiamento monoteistico verso il testo.


-Il secondo invita a non abbassare il valore conoscitivo- culturale- storico del testo.
- Il terzo recita di perseguire la gratuità del testo, cioè non è detto che questo testo debba essere
venduto per forza; questo comandamento in realtà si può tralasciare, perché oggi anche
l’informatica umanistica ha un orizzonte economico.
- Il quarto comandamento invita a non dimenticare la tradizione di un testo e di utilizzarla in un
modo "sacro".
- Il quinto è un invito ancora più radicale; dice di non far morire la memoria. Cioè dato che il testo
è il prodotto di un uomo, la filologia si baserà sul rispetto della memoria dell'uomo.
- Il sesto invita “a non contaminare”, a non corrompere (non inquinare) il testo e l'informazione che
esso trasmette.
-Il settimo invita a non utilizzare mai nulla che non sia tuo senza citare la fonte. Bisogna avere
onestà intellettuale.
-L’ottavo invita alla veridicità della testimonianza, cioè enunciare sempre e chiaramente i nostri
criteri, i nostri metodi, le nostre ipotesi, i nostri risultati e anche i limiti della nostra ricerca.
-Il nono ci invita a non confondere il lavoro di editore del testo con il lavoro d'autore.
-Infine il decimo invita a coloro che custodiscono i testi per sé, a metterli a disposizione di tutti.
Abbiamo visto poi le problematiche che pone l’edizione critica pirandelliana intitolata “Omnia”;
tuttavia, l’equipe dell'università di Catania, non soltanto non le ha risolte, ma addirittura sembra che
moltiplichino la difficoltà del nostro rapporto ai testi, e che quindi tradiscono l'idea che abbiamo
sulla filologia. Infatti, se noi andassimo a prendere questa edizione, troveremmo molti tradimenti
(errori) di trascrizione, come il mancato utilizzo di maiuscole o minuscole, o il mancato utilizzo di
virgole.

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