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non venga confutato una seconda volta e sia di nuovo oggetto di risate. Tu, senza dubbio,
lo sai in maniera lampante, e questa non è, forse, che una minima parte tra le moltissime
discipline che conosci.
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verità? - Mirabilmente vero, o Socrate, disse Simmia, è codesto che dici.
7. L’idea di eguale e le cose eguali; separatezza delle idee; preesistenza delle idee e
dell’anima; reminiscenza (Fedone 74 b sgg.):
- Vedi allora, rispose Socrate, se la cosa sta così. C’è qualche cosa, è vero?, di cui noi
affermiamo che è eguale: e non già voglio dire di legno a legno, di pietra a pietra o di altro
simile; bensì di cosa che è di là e diversa da tutti questi eguali, dico l’eguale in sé. Possiamo
di questo eguale in sé affermare che è qualche cosa, o non è nulla affatto? - Dobbiamo
affermarlo sicuramente, disse Simmia; proprio così. - E conosciamo anche ciò [b] che esso
è in se stesso? - Certo, rispose. - E di dove l’abbiamo avuta questa conoscenza? Non
l’abbiamo avuta da quegli uguali di cui si parlava ora, o legni o pietre o altri oggetti
qualunque, a vedere che sono uguali? non siamo stati indotti da questi uguali a pensare a
quell’uguale, che è pur diverso da questi? O non ti pare che sia diverso? Considera anche
da questo punto. Pietre uguali e legni uguali non accade talvolta che appariscono, anche se
gli stessi, a uno eguali e a un altro no? - Sicuramente. - E dimmi, l’eguale in sé si dà mai il
caso che apparisca [c] disuguale, e insomma l’uguaglianza disuguaglianza? - Impossibile, o
Socrate. - Infatti non sono la stessa cosa, disse Socrate, questi uguali e l’uguale in sé. - Mi
par bene, o Socrate. - Ma pure, disse, è proprio per via di questi uguali, benché diversi da
quell’eguale, che tu hai potuto pensare a fermare nella mente la conoscenza di esso eguale,
non è vero? - Verissimo, disse. - E come di cosa o simile o dissimile da codesti, no? -
Precisamente. - Perché non fa differenza, aggiunse. Basta che tu, veduta una cosa, riesca
da codesta vista a pensarne [d] un’altra, sia essa simile o dissimile, ecco che proprio qui,
disse, in questo processo, tu hai avuto necessariamente un caso di reminiscenza. -
Benissimo. - E dimmi, riprese, succede a noi qualche cosa di simile rispetto a quegli eguali
che osserviamo nei legni e negli altri oggetti eguali di cui discorrevamo or ora? Ci
appariscono essi così eguali come appunto è l’eguale in sé, o difettano in qualche parte da
esso, quanto a essere tali e quali all’eguale o non difettano in nulla? - Molto anzi, egli disse,
ne difettano. - E allora, quando a uno, veduta una cosa, viene fatto di pensare così: “Questa
cosa che ora io vedo tende a essere come un’altra, e precisamente come uno di quegli
esseri che esistono per se stessi, e tuttavia [e] ne difetta, e non può essere come quello, e
anzi gli rimane inferiore”; ebbene, chi pensa così, non siamo noi d’accordo che colui ha da
essersi pur fatta dapprima, in qualche modo, un’idea di quel tale essere a cui dice che la
cosa veduta s’assomiglia, ma da cui è, in paragone, difettosa? - Necessariamente. - E allora,
dimmi, è avvenuto anche a noi qualche cosa di simile, o no, rispetto agli eguali e all’eguale
in sé? - Certo - Dunque è necessario che noi si sia avuta già prima un’idea dell’eguale;
[75a] prima cioè di quel tempo in cui, vedendo per la prima volta gli uguali, potemmo
pensare che tutti codesti eguali aspirano sì a essere come l’eguale, ma gli restano inferiori.
- E’ proprio così. - E quindi siamo d’accordo anche in questo, che non da altro s’è potuto
formare in noi codesto pensiero, né da altro è possibile che si formi, se non dal vedere o
dal toccare o da alcun’altra di queste sensazioni; ché tutte per me valgono ora lo stesso. -
Valgono lo stesso, o Socrate, rispetto a ciò che ora vuol dimostrare il nostro ragionamento.
- Ma, naturalmente, proprio da queste sensazioni deve formarsi in noi il pensiero che tutti
[b] gli eguali che cadono sotto di esse sensazioni aspirano a esser quello che è l’uguale in sé
e a cui tuttavia rimangono inferiori. O come vogliamo dire? - Così. - Dunque, prima che
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noi cominciassimo a vedere e a udire e insomma a far uso degli altri nostri sensi,
bisognava pure che già ci trovassimo in possesso della conoscenza dell’eguale in sé, che
cosa realmente esso è, se poi dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni,
riportarli a quello, e pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello,
mentre poi gli rimangono al di sotto. - Da quello che s’è detto, o Socrate, bisogna
concludere così. - Or dunque, sùbito appena nati, non vedevamo noi, non udivamo, non
avevamo tutti gli altri sensi? - Senza [c] dubbio. - E non bisognava anche, abbiamo detto,
che, prima di tutto ciò, fossimo già in possesso della conoscenza dell’uguale in sé? - Sì. - E
dunque, come pare, già prima di nascere noi dovevamo essere in possesso di codesta
conoscenza. - Così pare.
9. La stabilità delle idee nella Repubblica. Solo i filosofi (coloro che pervengono alla
contemplazione delle idee) sanno distinguere il giusto dall’ingiusto e il bene dal
male. Lo stato deve essere governato dai filosofi (Resp. VI, 484 b-d):
Poiché filosofi sono coloro che riescono ad arrivare a ciò che sempre permane
invariabilmente costante, mentre coloro che non ci riescono, ma si perdono nella
molteplicità del variabile non sono filosofi, a quali spetta la funzione direttiva dello stato? -
Come dobbiamo esprimerci, disse, per dare una risposta appropriata? - Così, risposi;
costituire guardiani quelli che diano garanzia di saper [c] custodire le leggi e le tradizioni
degli stati. - Giusto, disse. - Ora, feci io, si può dubitare se convenga affidare la
sorveglianza di un oggetto qualsiasi a un guardiano cieco o a uno di vista acuta? - E come
si può dubitarne?, chiese. - Ti sembra dunque che ci sia qualche differenza tra i ciechi e
coloro che sono realmente sprovvisti della conoscenza di ciascuna cosa che è, che non
posseggono nell’anima loro alcun luminoso modello e non riescono, come fanno i pittori,
a guardare la somma verità, a riportarvisi [d] sempre, a contemplarla più esattamente
possibile, e così a stabilire per questo nostro mondo i canoni relativi alle cose belle, giuste,
buone, se occorre stabilirli, e a custodire e conservare i canoni già vigenti? –
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10. L’analogia Sole-Bene (Resp. VI, 508 d- 509 c):
- Allo stesso modo considera anche il caso dell’anima, così come ti dico. Quando essa si
fissa saldamente su ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, ecco che lo coglie e lo co-
nosce, ed è evidente la sua intelligenza; quando invece si fissa su ciò che è misto di tenebra
e che nasce e perisce, allora essa non ha che opinioni e s’offusca, rivolta in sù e in giù, mu-
tandole, le sue opinioni e rassomiglia a persona senza intelletto. - Le somiglia proprio. -
Ora, que-[e] sto elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce dà
la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’idea del bene; e devi pensarla causa della scienza e
della verità, in quanto conosciute. Ma per belle che siano ambedue, conoscenza e verità,
avrai ragione se riterrai che diverso e ancora più bello di loro sia quell’elemento. E [509a]
come in quell’altro àmbito è giusto giudicare simili al sole la luce e la vista, ma non rite-
nerle il sole, così anche in questo è giusto giudicare simili al bene ambedue questi valori, la
scienza e la verità, ma non ritenere il bene l’una o l’altra delle due. La condizione del bene
dev’essere tenuta in pregio ancora maggiore. - Straordinaria deve essere, rispose, la bellez-
za che gli attribuisci, se è il bene a conferire scienza e verità e se le supera in bellezza; per-
ché dicendo “bene” non intendi certo riferirti al piacere. - Zitto, feci io; continua piuttosto
a esaminare la sua [b] immagine, così. - Come? - Dirai, credo, che agli oggetti visibili il sole
conferisce non solo la facoltà di essere visti, ma anche la generazione, la crescita e il nutri-
mento, pur senza essere esso stesso generazione. - E come potrebbe esserlo? - Puoi dire
dunque che anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal bene la proprietà di essere
conosciuti, ma ne ottengono ancora l’esistenza e l’essenza (τὸ εἶναί τε καὶ τὴν οὐσίαν),
anche se il bene non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l’essenza
(ἐπέκεινα τῆς οὐσίας). [c] XX. E Glaucone assai comicamente: - O Apollo, disse, che sovru-
mana eccellenza! -
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11. La linea della conoscenza: l’immagine della linea divisa (Resp. VI, 509 d- 511 e):
[509d] Ebbene, ripresi, immagina che, come stiamo dicendo, siano essi due princìpi, e che
reggano uno il genere e il mondo intelligibile, l’altro quello visibile. Mi esprimo così perché
dicendo ‘mondo celeste’ non ti dìa l’impressione di sofisticare sul nome. Ti rendi conto di
queste due specie, visibile e intelligibile? - Me ne rendo conto. - Supponi ora di prendere
una linea bisecata in segmenti ineguali e, mantenendo costante il rapporto, dividi a sua
volta ciascuno dei due segmenti, quello che rappresenta il genere visibile e quello che rap-
presenta il genere intelligibile; e, secondo la rispettiva chiarezza e oscurità, tu avrai, [e] nel
mondo visibile, un primo segmento, le immagini. Intendo per immagini in primo luogo le
ombre, poi i [510a] riflessi nell’acqua e in tutti gli oggetti formati da materia compatta, li-
scia e lucida, e ogni fenomeno simile, se comprendi. - Certo che comprendo. - Considera
ora il secondo, cui il primo somiglia: gli animali che ci circondano, ogni sorta di piante e
tutti gli oggetti artificiali. - Lo considero, rispose. - Non vorrai ammettere, feci io, che il
genere visibile è diviso secondo verità e non verità, ossia che l’oggetto simile sta al suo mo-
dello come l’opinabile [b] sta al conoscibile? - Io sì, disse, certamente. - Esamina poi anche
in quale maniera si deve dividere la sezione dell’intelligibile. - Come? - Ecco: l’anima è co-
stretta a cercarne la prima parte ricorrendo, come a immagini, a quelle che nel caso prece-
dente erano le cose imitate; e partendo da ipotesi, procedendo non verso un principio, ma
verso una conclusione. Quanto alla seconda parte, quella che mette capo a un principio
non ipotetico, è costretta a cercarla movendo dall’ipotesi e conducendo questa sua ricerca
senza le immagini cui ricorreva in quell’altro caso, con le sole idee e per mezzo loro. - Non
ho ben compreso, rispose, queste tue parole. - Ebbene, [c] ripresi, torniamoci sopra: com-
prenderai più facilmente quando si sarà fatta questa premessa. Tu sai, credo, che coloro
che si occupano di geometria, di calcoli e di simili studi, ammettono in via d’ipotesi il pari
e il dispari, le figure, tre specie di angoli e altre cose analoghe a queste, secondo il loro par-
ticolare campo d’indagine; e, come se ne avessero piena coscienza, le riducono a ipotesi e
pensano che non meriti più renderne conto né a se stessi né ad [d] altri, come cose a ognu-
no evidenti. E partendo da queste, eccoli svolgere i restanti punti dell’argomentazione e fi-
nire, in piena coerenza, a quel risultato che si erano mossi a cercare. - Senza dubbio, ri-
spose, questo lo so bene. - E quindi sai pure che essi si servono e discorrono di figure
visibili, ma non pensando a queste, sì invece a quelle di cui queste sono copia: discorrono
del quadrato in sé e della diagonale in sé, ma non di quella che tracciano, e [e] così via; e di
quelle stesse figure che modellano e tracciano, figure che danno luogo a ombre e riflessi in
acqua, si servono a loro volta come di immagini, per cercar di [511a] vedere quelle cose in
sé che non si possono vedere se non con il pensiero, dianoeticamente.- E’ vero quello che
dici, rispose.
XXI. - Ecco dunque che cosa intendevo per specie intelligibile, e dicevo che, ricercandola,
l’anima è costretta a ricorrere a ipotesi, senza arrivare al principio, perché non può tra-
scendere le ipotesi; essa si serve, come d’immagini, di quegli oggetti stessi di cui quelli del-
la classe inferiore sono copie e che in confronto a questi ultimi sono ritenuti e stimati evi-
denti realtà. - Comprendo, disse, che ti [b] riferisci al mondo della geometria e delle arti
che le sono sorelle. - Allora comprendi che per secondo segmento dell’intelligibile io in-
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tendo quello cui il discorso attinge con il potere dialettico, considerando le ipotesi non
princìpi, ma ipotesi nel senso reale della parola, punti di appoggio e di slancio per arrivare
a ciò che è immune da ipotesi, al principio del tutto; e, dopo averlo raggiunto, ripiegare at-
tenendosi rigorosamente alle conseguenze che ne derivano, e così discendere alla conclu-
sione senza assolu-[c] tamente ricorrere a niente di sensibile, ma alle sole idee, mediante le
idee passando alle idee; e nelle idee termina tutto il processo. - Comprendo, rispose, ma
non abbastanza. Mi sembra che tu parli di una operazione complessa. Comprendo però il
tuo desiderio di precisare che quella parte dell’essere e dell’intelligibile che è contemplata
dalla scienza dialettica è più chiara di quella contemplata dalle cosiddette arti, per le quali
le ipotesi sono princìpi; e coloro che osservano gli oggetti delle arti sono costretti, sì, a os-
servarli con il pensiero senza ricorrere ai sensi, ma [d] poiché li esaminano senza risalire al
principio, bensì per via d’ipotesi, a te sembrano incapaci d’intenderli, anche se questi og-
getti sono intelligibili con un principio. E, a mio avviso, tu chiami pensiero dianoetico, ma
non intelletto, la condizione degli studiosi di geometria e di simili dotti, come se il pensie-
ro dianoetico venisse a essere qualcosa di intermedio tra l’opinione e l’intelletto. - Hai ca-
pito benissimo, feci io. Ora applicami ai quattro segmenti questi quattro processi che si
svolgono nell’anima: applica l’intel-[e] lezione al più alto, il pensiero dianoetico al secondo,
al terzo assegna la credenza e all’ultimo l’immaginazione; e ordinali proporzionalmente,
ritenendo che essi abbiano tanta chiarezza quanta è la verità posseduta dai loro rispettivi
oggetti. - Comprendo, rispose, sono d’accordo e li ordino come dici.
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APPENDICE
Definizioni, 414 b–c:
Sapienza scienza non ipotetica; scienza degli esseri eterni; scienza che si occupa delle
cause degli esseri.
Filosofia brama di conoscere gli esseri eterni; stato in cui s’indaga la verità, in quanto
verità; sollecitudine dell’anima sostenuta dalla retta ragione.
Scienza concezione che non si può modificare con il [c] ragionamento; facoltà di
concepire una o più cose, non modificabile per mezzo del ragionamento; discorso vero che
saldamente poggia sulla facoltà intellettiva.
Opinione concezione che si lascia persuadere dal ragionamento; mutabilità del pensiero;
pensiero che può essere portato dal ragionamento al falso come al vero.
Sensazione mutabilità dell’anima; modificazione del pensiero per l’influenza del corpo;
avvertimento dato agli uomini opportunamente, donde deriva la facoltà irrazionale di
conoscere per mezzo del corpo
Eterno ciò che esiste per tutto il corso del tempo, nel passato e nel presente, senza cor-
rompersi. [411a]
Divinità vivente immortale, che basta da sé alla sua felicità; essenza eterna, principio na-
turale del bene.
Anima ciò che si muove da sé, principio del moto vitale dei viventi. [411c]
Filantropia inclinazione ad amare l'umanità; benevola disposizione nei rapporti con gli
uomini; benevolenza abituale; ricordo che si manifesta con le buone azioni. [412e]
Pietà giustizia verso gli dèi; volontario ossequio agli [413a] dèi; giusto riconoscimento
dell'onore dovuto agli dèi; scienza dell'onore che si deve agli dèi.
Bene ciò che ha il suo fine in sé.
Politica scienza del bene e dell'utile; scienza che tende a realizzare la giustizia nella città.
[413b]
[509d]
νόησον τοίνυν, ἦν δ᾽ ἐγώ, ὥσπερ λέγομεν, δύο αὐτὼ εἶναι, καὶ βασιλεύειν τὸ μὲν νοητοῦ γένους
τε καὶ τόπου, τὸ δ᾽ αὖ ὁρατοῦ, ἵνα μὴ οὐρανοῦ εἰπὼν δόξω σοι σοφίζεσθαι περὶ τὸ ὄνομα. ἀλλ᾽
οὖν ἔχεις ταῦτα διττὰ εἴδη, ὁρατόν, νοητόν;
ἔχω.
ὥσπερ τοίνυν γραμμὴν δίχα τετμημένην λαβὼν ἄνισα τμήματα, πάλιν τέμνε ἑκάτερον τὸ
τμῆμα ἀνὰ τὸν αὐτὸν λόγον, τό τε τοῦ ὁρωμένου γένους καὶ τὸ τοῦ νοουμένου, καί σοι ἔσται
σαφηνείᾳ καὶ ἀσαφείᾳ πρὸς ἄλληλα ἐν μὲν τῷ ὁρωμένῳ [509e] τὸ μὲν ἕτερον τμῆμα
εἰκόνες—λέγω δὲ τὰς εἰκόνας πρῶτον [510a] μὲν τὰς σκιάς, ἔπειτα τὰ ἐν τοῖς ὕδασι
φαντάσματα καὶ ἐν τοῖς ὅσα πυκνά τε καὶ λεῖα καὶ φανὰ συνέστηκεν, καὶ πᾶν τὸ τοιοῦτον, εἰ
κατανοεῖς.
ἀλλὰ κατανοῶ.
τὸ τοίνυν ἕτερον τίθει ᾧ τοῦτο ἔοικεν, τά τε περὶ ἡμᾶς ζῷς καὶ πᾶν τὸ φυτευτὸν καὶ τὸ
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σκευαστὸν ὅλον γένος.
τίθημι, ἔφη.
ἦ καὶ ἐθέλοις ἂν αὐτὸ φάναι, ἦν δ᾽ ἐγώ, διῃρῆσθαι ἀληθείᾳ τε καὶ μή, ὡς τὸ δοξαστὸν πρὸς τὸ
γνωστόν, οὕτω τὸ ὁμοιωθὲν πρὸς τὸ ᾧ ὡμοιώθη;
[510β]
ἔγωγ᾽, ἔφη, καὶ μάλα.