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Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 24 luglio 2009, n.

17358

Svolgimento del processo

L’Ufficio delle II.DD. di Civitavecchia accertava redditi d’impresa non dichiarati nei confronti della
s.r.l. A. per gli anni dal 1990 al 1992 e basava su ciò tre avvisi con i quali accertava
presuntivamente redditi di partecipazione nei confronti di C.F. corrispondenti alla sua quota di
partecipazione societaria pari al 60%.
La C.T.P. accoglieva il ricorso del C. ritenendo che in mancanza di prove certe la presunzione di
percezione degli utili da parte del socio doveva basarsi su requisiti di gravità, precisione e
concordanza.
La C.T.R. del Lazio accoglieva invece l’appello dell’amministrazione finanziaria rilevando che, per
costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’appartenenza a una società a ristretta base
azionaria può costituire prova dell’avvenuta distribuzione degli utili in assenza di una prova
contraria il cui onere grava sui soci, in conseguenza dell’inattendibilità del bilancio societario.
Ricorre per Cassazione C. deducendo sette motivi di impugnazione.
Si difendono con controricorso il MEF e l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 345
c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 57 e 58, errores in procedendo.
Lamenta il ricorrente che con l’atto di appello l’amministrazione finanziaria ha prodotto in giudizio
la decisione passata in giudicato della C.T.P. che aveva respinto il ricorso della A. s.r.l. e rileva che
i giudici di appello hanno assunto tale decisione a fondamento dell’accoglimento dell’appello
dell’Ufficio finanziario consentendo così una modifica dell’originaria contestazione attraverso la
irrituale allegazione di nuove prove.
Il motivo è infondato perchè, come correttamente rileva la controricorrente, la pretesa trovava
fondamento negli accertamenti effettuati nei confronti della società A.e in nessun modo può
ritenersi modificata con la produzione in giudizio della decisione che ha respinto il ricorso della
società A..
Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 24 Cost.,
degli artt. 2492 e 2433 c.c., del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 1, del D.P.R. n. 597 del 1973, art. 43,
dell’art. 2729 c.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38.
Secondo il ricorrente l’Ufficio ha basato il suo accertamento su una doppia presunzione, il
conseguimento di redditi di impresa da parte della A.s.r.l. e la distribuzione degli utili ai soci,
costruita su una equazione, ristrettezza della base sociale uguale distribuzione di utili in nero,
gravemente lesiva per il diritto di difesa.
L’affermazione del ricorrente è infondata.
L’Ufficio è partito dal dato oggettivo (che ha trovato conferma nel giudizio di opposizione prima
citato) del riscontro di utili non contabilizzati, derivanti dall’attività di impresa di una società a
ristretta base sociale, e ne ha dedotto che tali utili si dovessero presumere distribuiti ai soci cui
incombeva semmai la prova della loro diversa destinazione.
Tale impostazione trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui nel caso di una
società di capitali, pur non sussistendo - a differenza di quanto previsto per le società di persone -
una presunzione legale di distribuzione dell’utile ai soci, l’appartenenza della società ad una stretta
cerchia familiare può costituire, sul piano degli indizi, elemento di prova dell’avvenuta
distribuzione degli utili in questione (Cassazione civile sezione 5^, n. 2390 del 3 marzo 2000, cfr.
altresì Cassazione civile, sezione 5^, n. 3254 del 20 marzo 2000 secondo cui, in tema di
accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristrettissima base familiare,
pur non sussistendo - a differenza delle società di persone - una presunzione legale di distribuzione
degli utili ai soci, non può considerarsi illogica - tenuto conto della "complicità", che normalmente
avvince un gruppo così composto - la presunzione semplice di distribuzione degli utili
extracontabili ai soci. Pertanto, una volta stabilito che la titolarità delle azioni e l’organizzazione
aziendale sono concentrate in una stretta cerchia familiare, il giudice di merito non può escludere la
distribuzione ai soci di utili non contabilizzati, limitandosi ad enunciare l’inapplicabilità del D.P.R.
22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 nonchè Cassazione civile, sezione 5^, n. 4695 del 2 aprile 2002).
Con il terzo motivo di ricorso si deduce omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto
decisivo della controversia.
Il ricorrente censura nuovamente sotto il profilo del difetto della motivazione quella che ritiene una
equazione non dimostrata in nessuno dei suoi presupposti (distribuzione ai soci degli utili realizzati
in nero da una società a ristretta base sociale).
Il motivo è del tutto ripetitivo del precedente è appare smentito dal carattere esaustivo e
consequenziale della motivazione rispetto alla giurisprudenza di legittimità citata dalla C.T.R..
Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost. e dell’art.
2909 c.c..
Rileva il ricorrente che l’attribuzione di rilevanza vincolante al giudicato sugli accertamenti a carico
della società comporta una violazione del diritto di difesa costituzionalmente protetto dei soci che
non hanno partecipato a tale giudizio.
Come si è detto in precedenza la C.T.R. non attribuisce rilevanza risolutiva al giudicato formatosi
nei confronti della società ma riscontra piuttosto che il contribuente non ha fornito una prova che
potesse smentire la realizzazione di utili non contabilizzati da parte della società nè comprovare la
diversa destinazione degli utili in questione in presenza di una ristrettezza della base sociale.
Il diverso regime giuridico delle società di capitali comporta - come correttamente ha ricordato la
C.T.R. - che ben diverso sia il regime probatorio e gli effetti dell’accertamento nei confronti della
società di capitali. Come è noto, invece, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che
l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle
società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 e dei soci
delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente
alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta
che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla
società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci (Cassazione civile, sezioni unite, n.
14815 del 4 giugno 2008). Ma un principio corrispondente non può essere posto per quanto riguarda
le società di capitali e infatti la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cassazione civile, sezione 5^, n.
18640 dell’8 luglio 2008) afferma che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di
società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione, ai soci,
degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la
prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, per essere stati,
invece, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti, non risultando tuttavia a tal fine
sufficiente nè la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite
contabili nè il definitivo accertamento di una perdita contabile, circostanza che non esclude che i
ricavi non contabilizzati, non risultando nè accantonati nè investiti, siano stati distribuiti ai soci.
Con il quinto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c..
Il ricorrente contesta alla luce della disposizione citata l’affermazione non provata, ma considerata
come tale dalla C.T.R., secondo cui per l’anno 1990 l’accertamento nei confronti della società
doveva considerarsi definitivo per mancata impugnazione dello stesso.
Il motivo è palesemente privo di fondamento: nessuna violazione di legge è stata posta in essere con
tale affermazione dalla C.T.R. mentre è evidente che il ricorrente avrebbe potuto fare riferimento ad
eventuale controversia non rilevata dalla C.T.R., unica ipotesi idonea a smentire l’affermazione
della C.T.R..
Con il sesto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 277 c.p.c.,
omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.
Il ricorrente lamenta che la C.T.R. non ha preso in considerazione le eccezioni di prescrizione e
decadenza sollevate in primo grado e riproposte cautelativamente in appello.
Non risulta che tali eccezioni siano state proposte dal ricorrente anteriormente al ricorso per
Cassazione nè vi è stato alcun riferimento concreto alle ragioni per cui gli accertamenti sarebbero
colpiti da prescrizione o decadenza.
Con il settimo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dello statuto del
contribuente (L. n. 212 del 2000) e della L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3 nullità del
procedimento e della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.
Secondo il ricorrente l’accertamento fiscale avrebbe dovuto indicare, a pena di nullità, le ragioni
giuridiche e i presupposti di fatto posti a base della maggiore pretesa impositiva.
Anche questo motivo viene proposto in maniera del tutto generica e smentendo le ragioni che sono
state addotte dal ricorrente nella sua opposizione agli accertamenti.
Il ricorso va pertanto respinto con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali del
giudizio di cassazione.
P.Q.M.

la Corte Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio
di cassazione che liquida in complessivi Euro 1.600,00, di cui 100,00 per spese, oltre spese generali
e accessori di legge.

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