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Carlo Maria Martini

Camminate senza stancarvi

Riflessioni sull'Avvento

Prefazione di Franco Brovelli


Collana Minuscoli

Il testo riporta le meditazioni registrate presso il monastero delle Sorelle


Povere di Santa Chiara di Milano. Si sono mantenute le caratteristiche del
linguaggio parlato.

© 2014 Àncora S.r.l.

Àncora Editrice
Via G.B. Niccolini, 8 - 20154 Milano
editrice@ancoralibri.it
www.ancoralibri.it
ISBN 978-88-514-1511-2
Prima edizione digitale: novembre 2014
Prefazione

Sono ambiti piccoli, per tanti aspetti «marginali», quelli in cui si


collocano queste pagine. Si tratta delle omelie con cui il cardinal
Carlo Maria Martini ha voluto esprimere vicinanza e attenzione alle
Sorelle Povere di santa Chiara, che abitano il monastero di Milano.
Sono tempi brevi di sosta con loro in preghiera, per lo più in Avvento
e negli anni di inizio del suo ministero episcopale nella diocesi. Nulla
di più, nella ferialità, guidati dalle pagine bibliche che la liturgia
proponeva. Eppure, quanto viene evocato dalle sue parole spazia e
invita a entrare in «territori» molto più vasti: quello dell’anno liturgico,
nel suo insieme, inteso come lo svelarsi dell’agire di Dio nella nostra
storia di uomini; e di un «Dio che viene», come ci ricorda il tempo
dell’Avvento; e quello della vita della città e della gente che l’abita,
destinataria di una parola che bussa alla porta e ne interpella il
cammino.
Queste parole lasciano intravedere anche i primi passi di un
vescovo che inizia il suo ministero e vorrebbe apprendere l’arte per
meglio far dono del volto del Pastore buono, nel cui nome è stato
inviato. La Parola commentata diviene invito alla preghiera, a uno
sguardo nuovo sulla vita. Per intero il cammino si snoda nei ritmi
della promessa e della speranza: «E il tempo dell’Avvento è quello di
interrogazione su di noi: qual è il calore della mia speranza, cosicché
io possa appoggiarmi sulle promesse di Gesù e da esse ricavare la
forza sostanziale per vincere la stanchezza, la noia, la ripugnanza, la
mediocrità della ripetizione degli stessi atti della vita quotidiana,
attraverso la rigenerazione che ci viene dalla promessa? E ciò
attraverso queste piccole perle, quei piccoli segni di adempimento
della promessa che Gesù ci dà, perché questa promessa rimane
aperta all’avvenire, ma già con alcune anticipazioni nel presente che
sostengono la nostra speranza» (C.M. Martini, Omelia del 13
dicembre 1989).
Una comunità monastica di preghiera, nel cuore della grande città
viene così aiutata a riconoscere meglio se stessa e il perché del suo
esserci, nel tumulto e nella complessità della metropoli. Chi si
consegna alla Parola e se ne lascia condurre diviene più capace di
dire a se stesso e agli altri che l’esito delle nostre fatiche è una casa
in cui si trova ristoro, un albero frondoso che accoglie e rigenera:
«Venite a me, voi che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò».
Franco Brovelli
I
Vegliate, vigilate!1

Letture: 1Cor 1,1-9; Sal 144; Mt 24,42-51

Come testi di questa Eucaristia ho preferito le letture del giorno,


del lezionario quotidiano, perché ritengo molto importante che
prendiamo giorno per giorno, dalla lettura della Scrittura, ciò che la
Chiesa ci dà, cercando di comprendere come questa lezione biblica
quotidiana si inserisce nella nostra vita. La lettura di oggi ci riporta
uno degli ammonimenti fondamentali del Nuovo Testamento:
«Vegliate, vigilate!».
Questo ammonimento di Gesù è riportato negli ultimi capitoli prima
della passione ed è quella parte del Vangelo di Matteo in cui
l’evangelista, dopo avere descritto il Regno di Dio e la Chiesa nella
sua struttura e nella sua costituzione, quindi in una visione statica,
pacifica, parla della Chiesa che si costruisce nel tempo, a partire da
Cristo nella sua drammaticità, nella sua continua lotta e sofferenza.
Questi ultimi capitoli di Matteo sono quelli che preludono al mistero
pasquale, alla morte di Gesù e ci presentano il mistero della Chiesa,
che è il mistero su cui riflette l’evangelista Matteo, non soltanto nella
sua struttura statica, ma nel suo dinamismo, che è dinamismo di
lotta, di dramma, di sofferenza. Possiamo così capire anche le
terribili pagine che abbiamo letto nei giorni passati: le invettive, le
apostrofi di Gesù contro i farisei, contro le false figure del Nuovo
Testamento.
Queste parole di Gesù ci manifestano la natura drammatica, seria,
tremendamente seria del cristiano e dell’impegno della Chiesa. E qui
Gesù, in questa cornice, riassume con una esortazione chiave
questa percezione della serietà del momento storico che la Chiesa
vive nel mondo: «Vegliate, vigilate!».
Tale esortazione viene chiarita in questa pagina evangelica con
due paragoni: un paragone cattivo e uno buono, uno di vigilanza per
evitare il male, e uno di vigilanza per attendere un bene. La vigilanza
del padrone di casa che, se sapesse a che ora viene il ladro,
starebbe sveglio per non essere sorpreso da questa venuta ostile, e
il paragone del servo che, sapendo che il padrone arriva a un’ora
imprevista nella notte, dovrebbe stare sveglio per accogliere la
presenza amica di colui che attende.
Quindi sono due paragoni che in due modi diversi ripetono la
stessa verità: il cristiano è un vigilante, è uno che sa vegliare.
Queste due esortazioni, che Matteo riferisce agli eventi finali,
riguardano la vigilanza: per la venuta improvvisa del Figlio dell’uomo,
per la venuta improvvisa del padrone di casa, ma valgono per tutta
la vita cristiana, come mostra san Luca che le applica a tutto il
quadro dell’esistenza del cristiano e della vita della Chiesa. È il
passo tratto dal capitolo 21 di san Luca, là dove Gesù dice:
«Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di
sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al
Figlio dell’uomo».
Vegliate e pregate in ogni momento: tutta la vita del cristiano, tutta
la vita della Chiesa è una vita di vigilanza, di veglia. Sarebbe
interessante approfondire questo tema della vigilanza, della veglia,
come gli ultimi capitoli dei Vangeli, cioè i momenti in cui Gesù sta per
rivelare la pienezza del suo mistero, quindi anche la pienezza del
mistero della Chiesa, della storia.
Sarebbe interessante poter fare un’analisi dei verbi usati, che non
sono gli stessi in Matteo e Luca. Matteo usa un verbo greco,
grēgoreîte – da cui deriva il nome Gregorio «vigilante, colui che sa
vegliare» –, un verbo che significa colui che sa stare sveglio, che si
è svegliato nella notte fonda e che continua, con gli occhi aperti, a
guardarsi intorno. Mentre il verbo che usa Luca è un altro verbo
greco, agrupneîte, che potrebbe significare l’attività dei pastori che
vegliano sul gregge nella notte, nei campi. Sono quei pastori di cui ci
parla il capitolo 2 di san Luca, che stavano vegliando il gregge nella
notte. Qui c’è anche un motivo pastorale che ci presenta il pastore
come colui che veglia nella notte perché il gregge non sia sopraffatto
dai pericoli imminenti. Da qui potremmo fare una riflessione molto
ampia su ciò che è questo vigilare, vegliare della Chiesa pensando
alle figure dei grandi vigilanti. La prima grande vigilante è stata
Maria, la madre di Gesù, che ha saputo accogliere la parola del
Signore con animo attento come colui che è sempre pronto alla
chiamata di Dio, sempre attento a ciò che il Signore nella storia gli
chiede. Maria è anche l’immagine di questa vigilanza, con il suo
conservare attentamente e ripensare le parole di Gesù. Ella è
l’immagine della Chiesa che nella notte del tempo conserva, medita,
ripensa le parole del suo Signore.
Un grande vigilante della storia è anche Francesco d’Assisi, che ha
saputo riconoscere i segni dei tempi, cioè ha saputo evitare quello
che è il destino fatale di ogni uomo – e purtroppo anche dei cristiani
– se non vigila. San Luca dice: «State attenti a voi stessi, che i vostri
cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni
della vita». La vigilanza è opposta alla pesantezza del cuore, che è
quella forma di stordimento provocata da cose in sé anche buone: gli
affanni della vita, le preoccupazioni e le ansietà. Per queste cose
però una persona praticamente si interessa soltanto del momento
che ha davanti e non coglie i segni dei tempi, non coglie il significato
del momento storico che sta vivendo e quindi vive, come si dice,
«con la testa nel sacco», alla giornata, col cuore ottuso.
Francesco d’Assisi, grazie alla sua vita di dedizione al Crocifisso,
di preghiera, di penitenza, è stato invece uno spirito vigile, che ha
saputo conoscere, per istinto dello Spirito Santo e grazie alla sua
vigilanza del cuore, le necessità della Chiesa del suo tempo e ha
insegnato a santa Chiara e a tanti altri a essere vigilanti, cioè
persone che nella preghiera, nella disciplina, nell’austerità e nella
penitenza, vanno al di là delle mode e delle preoccupazioni
immediate e guardano invece al significato globale, complessivo del
tempo presente, della realtà che stanno vivendo.
Quindi siate anche voi vigilanti, anche voi vegliate sulla città.
Quando immagino questo monastero, lo vedo come un luogo di
veglia, cioè di attenzione ai tempi e ai momenti di Dio, nella storia,
per questa città, per questa Chiesa.
E poi chi dovrebbe essere l’altro grande vigilante? Di per sé è il
vescovo che, come dice il suo nome, è uno che guarda dall’alto,
quindi è anche uno che veglia dall’alto. Il vescovo dovrebbe essere
uno che vigila, una persona il cui cuore non è appesantito dagli
affanni della vita, ma che, stando un po’ al di sopra delle cose,
intende i segni dei tempi per la sua Chiesa. Ma, come sapete,
questo è difficile perché le necessità quotidiane impongono una tale
attenzione alle singole cose di ogni momento, che spesso si perde il
senso delle grandi realtà, del significato della storia. Da qui il
bisogno particolarissimo che ha il vescovo di veglia, di preghiera,
perché il suo cuore non si appesantisca, magari per i dispiaceri
quotidiani, per gli affanni, per le cose che non vanno bene, per tante
situazioni negative… e non viva soltanto alla giornata per rispondere
alle esigenze immediate, che spesso non sono le più vere. E come
un vescovo potrà fare questo, se non è sostenuto nella sua
vigilanza?
È importante che i cristiani, i battezzati nella Chiesa, siano tutti in
veglia con lui. Tra le esperienze che possiamo fare, richiamo la bella
esperienza di veglia, di preghiera che abbiamo fatto con i giovani
ogni mese in Duomo, in cui migliaia di giovani si sono uniti con il
vescovo in vigilanza, in preghiera, per comprendere i segni di Dio sul
presente. Ci sarebbe da citare qui la parte finale della Lettera agli
Ebrei, che applica questo tema della vigilanza al pastore e ci
permette quindi di comprendere l’importanza di questo
atteggiamento nella morale evangelica, che è una morale di
vigilanza, di attenzione.
L’essere morale dell’uomo non è semplicemente quello di un
esecutore di ordini, di leggi, ma di chi continuamente veglia per
conoscere la volontà di Dio sul tempo presente. Ed è quella parte
della Lettera agli Ebrei, l’ultima anche in questo caso, dove dice:
«Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi perché essi vegliano
su di voi. […] Obbedite perché facciano questo con gioia e non
gemendo».
Quindi un responsabile di comunità, un superiore di comunità, un
padre provinciale, un vescovo, dovrebbero essere in grado di fare il
loro dovere con gioia e non gemendo, perché, dice l’autore della
Lettera: «Non sarebbe vantaggioso per voi» se questo ufficio
venisse compiuto con pesantezza, col cuore pesante.
Si coglie qui l’importanza di pregare, di vegliare, perché il cuore sia
libero, perché sia possibile compiere questo servizio con gioia e non
gemendo, non come sotto un peso quasi insopportabile.
Ecco quindi delle intenzioni per la nostra preghiera, soprattutto
delle riflessioni per la nostra vita. Come Maria, come Francesco
d’Assisi, come santa Chiara, vegliare in preghiera sulla città, sulla
Chiesa; vegliare con la Chiesa, col vescovo, con la Chiesa locale,
con il papa; vegliare «perché siamo fatti degni di comparire davanti
al Figlio dell’Uomo». La nostra veglia è la veglia della sposa per lo
Sposo; non è veglia di paura, ma di attesa gioiosa. Ed è per questo
che la nostra veglia è fatta soprattutto attorno all’Eucaristia, perché
l’Eucaristia è già la presenza del mistero che si manifesterà.
Noi vegliamo in adorazione attorno all’Eucaristia, facciamo
dell’Eucaristia il centro della nostra veglia, della nostra preghiera,
perché Cristo è il tesoro della Chiesa, è il padrone che deve venire,
è il Signore che deve manifestarsi, Colui che verrà a rapire la nostra
anima per portarla con sé nella pienezza della sua gioia.
Preghiamo la Madonna, san Francesco, santa Chiara, che ci
insegnino questo spirito di vigilanza, con questa tensione interiore di
silenzio, di preghiera, di adorazione, che ci permette di riconoscere il
Signore Gesù presente in mezzo a noi nell’Eucaristia.

Nota
1 Omelia del 26 agosto 1982. Messa votiva dell’Eucaristia. Giovedì della XXI settimana del
Tempo Ordinario.
II
Gesù, servo umile2

Letture: Is 42,1-4.6-7; Sal 28; At 10,34-38; Mt 3,13-17

Prima di tutto presento il mio saluto e il mio augurio a tutte voi


carissime sorelle. Sono venuto proprio per questo, per presentarvi il
saluto e l’augurio ancora nel tempo natalizio – con questa festa,
infatti, si conclude il Tempo di Natale – e all’inizio di questo anno.
Non mi è possibile venire sovente da voi, ma volevo assicurarvi che
vi ricordo e so di essere ricordato da voi, e per questo sentivo il
bisogno da qualche tempo di fare una visita, anche se molto breve,
per poter unire la mia preghiera alla vostra e la vostra preghiera alla
mia.
Il Signore unisce le nostre preghiere in questa festa del Battesimo
di Gesù, che è la manifestazione della scelta messianica di Gesù.
Gesù, con il suo battesimo, facendosi battezzare insieme ai
peccatori, immergendosi anche lui nell’acqua di purificazione, che è
di per sé il cammino dell’uomo peccatore, mostra di voler essere
vicino a ciascuno di noi, di voler entrare, di voler scendere nella
sofferenza, nella debolezza, accanto alla debolezza di ciascuno.
Gesù così dimostra che il suo modo di essere Messia è quello del
servo di JHWH predetto da Isaia, di cui ci parla anche la prima
lettura, cioè quel servo umile, coraggioso, ma insieme pronto a
soffrire e a soffrire per gli altri.
Gesù vive una vita simile alla nostra, portando in questa vita
l’adorazione al Padre, la sottomissione a lui e l’offerta di sé per la
salvezza degli uomini. Dunque la sua è una vita pienamente umana
che partecipa da vicino della fragilità e debolezza di ciascuno di noi
e porta in questa vita l’offerta, l’obbedienza, la dedizione totale al
Padre come segno della presenza di Dio.
Si potrebbe vedere sotto questa luce anche la vostra vita, in un
monastero come questo, che è un monastero di città, quindi
partecipe, anche soltanto per la presenza fisica, delle sofferenze,
della fragilità, della fatica di tutti gli uomini e le donne della città,
anche della fatica e della sofferenza che essi fanno nel loro
cammino di fede. La vostra vita quotidiana non può non farsi vicina
alla ricerca sofferta di Dio che vivono gli uomini e le donne della città
moderna. La vostra preghiera partecipa, da una parte, alla gioia e
alla consolazione della conoscenza di Dio e, dall’altra, all’aridità, alla
sofferenza, alla desolazione, alla fatica della stessa ricerca di Dio,
mettendo in questa partecipazione il senso dell’adorazione di Dio
solo, il senso dell’offerta, il senso della dedicazione di voi stesse.
Questo è un grande dono di Dio, che egli rinnova quotidianamente
nei vostri cuori.
Voi dovete pregare ogni giorno, perché Dio solo può dare e
rinnovare il dono della nostra esistenza quotidiana. Io dunque prego
per voi, prego per il vostro cammino di preghiera e di povertà in
questa città, prego perché la vostra esistenza abbia significato per
questo mondo minacciato dalla spirale del consumismo, con tutte le
conseguenze negative che ne derivano sul piano economico e sul
piano morale. Affido alla vostra preghiera tutta questa città, tutte le
persone che in essa si affaticano, irretite talora da una rete di
avvenimenti che sembrano chiudere una visuale soprannaturale
dell’esistenza.
Attraverso luoghi come questi si aprono i cieli, come è detto nel
battesimo di Gesù, e si alimenta la certezza della comunicazione di
Dio con la realtà quotidiana che noi stiamo vivendo donandoci la
possibilità di crescere nella speranza.
Chiedo al Signore di benedire voi tutte e di esaudire le vostre
preghiere e i vostri desideri che offriamo con questa Eucaristia.

Nota
2 Omelia del 9 gennaio 1984. Festa del Battesimo di Gesù.
III
Levate in alto i vostri occhi3

Letture: Is 40,25-31; Sal 102; Mt 11,28-30

In questa settimana di Avvento la lettura fondamentale è quella


tratta dal profeta Isaia, cominciando dai primissimi capitoli e
andando avanti, giorno per giorno, con alcuni dei brani più
significativi in senso messianico: 11,1-9, la radice di Jesse; 25,6 ss, il
banchetto messianico; 26,1 ss, la città forte… Le letture del Vangelo,
in queste settimane, sono in relazione alla profezia di Isaia che viene
proclamata, dando luogo a un fenomeno che non avviene mai
durante l’anno liturgico, dove, di solito, è il brano evangelico che
comanda la scelta della lettura dell’Antico Testamento. Qui invece è
la lettura di Isaia a richiamare a sé i testi dei Vangeli che risuonano,
riprendono e portano a compimento il messaggio profetico. Viene
concesso un privilegio straordinario per questo profeta il cui scritto è
chiamato anche «vangelo»: è il più rilevante dei profeti, il più vicino
alla predicazione evangelica, quello che interpreta con una visuale
universale il mistero della promessa e della salvezza.
Così avviene anche per la lettura del capitolo 40, nella seconda
parte del libro di Isaia, chiamato Libro delle consolazioni:
«Consolate, consolate il mio popolo». Sono consolazioni per il
popolo esiliato e oppresso, parole di speranza, di fiducia e di
conforto: «Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua
tribolazione è compiuta».
Nel brano di oggi troviamo parole di fiducia, l’invito a sperare e a
confidare. Naturalmente, esprimendo i motivi per confidare, si
evidenzia anche la sfiducia di Israele, la sua poca fede, la sua
tristezza: «Perché dici, Giacobbe, e tu, Israele, ripeti: “La mia via è
nascosta al Signore e il mio diritto è trascurato dal mio Dio?”».
È un lamento che viene rivolto al Signore: «Mi hai trascurato,
abbandonato…». Sono parole di sconforto che qualche volta
salgono anche dalla miseria del nostro cuore. Aspettavamo,
speravamo, credevamo… poi ci siamo sentiti un po’ delusi dal
Signore e allora salgono dentro di noi, come dei fumi oscuri, queste
parole di diffidenza: «La mia sorte è nascosta al Signore». Come se
il Signore non vedesse…: «Il mio diritto è trascurato dal mio Dio».
Anche santa Teresa del Bambino Gesù prova lo stesso sentimento
paragonando se stessa all’immagine della palla con cui giocava
Gesù Bambino. Egli d’un tratto l’aveva lasciata da parte ed ella si era
sentita trascurata. Partendo da questo sentimento di abbandono, il
profeta Isaia dà motivi ed esortazioni di speranza: «Levate in alto i
vostri occhi». Ascoltando queste parole ci ricordiamo della parola
evangelica al capitolo 21 di san Luca, quando Gesù parla della
distruzione di Gerusalemme, della catastrofe alla fine del mondo:
«Quando vedrete queste cose, levate in alto i vostri occhi», levate in
alto le vostre teste, guardate in alto. Qui, però, «il guardare in alto»
non è ancora motivato dalla imminenza della fine del mondo, ma è
un invito a contemplare la potenza di Dio creatore: «Levate in alto i
vostri occhi e guardate: chi ha creato quegli astri?».
Noi, in certe sere, soprattutto nelle sere invernali, quando si
celebra l’ora di vespero, guardiamo in alto e guardando le stelle
abbiamo un qualche senso, una percezione della potenza di Dio,
dell’onnipotenza, del vigore e della forza di Dio. Ora, qual è il senso
di questo appello a guardare in alto, fatto qui da Isaia?
È la sua proclamazione dell’unità tra il Dio creatore e il Dio
redentore, tra il Dio della creazione e il Dio della storia. Dio, che ha
creato i cieli, è quello che governa la storia dell’universo, è quello
che governa la mia storia, e quindi come non viene meno nei cieli,
non viene meno verso di me. Dunque ho la certezza che il Dio
creatore è il Dio Signore della storia.
Questo dell’unità tra il Dio creatore e il Dio salvatore non è un
concetto così facile, tanto è vero che, ancora oggi, noi talora
istintivamente opponiamo le due cose: non riusciamo, da una parte,
a cogliere nella storia la presenza del Dio creatore e, dall’altra, a
cogliere nella natura la potenza di Dio, e separiamo l’una dall’altra.
Qui c’è l’affermazione dell’identità tra il Dio che ha creato tutte le
cose e Colui che governa la piccola vita di ciascuno.
«Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra» e quindi anche di
tutta la storia; «Egli non si affatica e non si stanca», cioè questo Dio
così potente non è venuto meno e non viene meno nella sua
attenzione all’uomo. «La sua intelligenza è inscrutabile», quindi tu,
che sei sostenuto da questa forza e da questa intelligenza, non devi
temere la stanchezza.
«Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche
i giovani faticano e si stancano, ma quanti sperano nel Signore
riacquistano forza». Il Signore, che crea l’universo, che è vicino alla
sorte di ciascuno perché è il Signore della storia, non si stanca e dà
vigore allo stanco e all’affaticato. Gesù è questo Signore della
creazione e della salvezza, è colui che promette il ristoro a chi è
affaticato e oppresso.
Preparandoci al Natale, possiamo cogliere dentro di noi tutti i
motivi di oppressione e di stanchezza. Nella nostra vita ci sono
sempre motivi di affaticamento fisico, spirituale, morale; talora di
aridità interiore, di desolazione, oscurità, cioè stanchezza dell’anima,
mancanza di entusiasmo, caduta della tensione interiore. Ci
sentiamo mancare il fiato, necessario per guardare il bene nella vita,
nella giornata, nella preghiera.
Questa nostra situazione è simile a quella di Israele e di Giacobbe
nel loro cammino storico; è simile a quella di coloro a cui si rivolge
Gesù. Ecco, nella venuta di Gesù «quanti sperano nel Signore
riacquistano forza, corrono senza affannarsi, camminano senza
stancarsi». Con ciò non dico che la nostra speranza talvolta non
venga meno, o non ci abbandoni; a volte è un ideale che sembra
quasi irraggiungibile, come correre senza stancarsi, soprattutto
quando l’età cresce e basta che uno faccia le scale, o le faccia con
un passo di corsa, e si sente affannato; mentre invece «coloro che
sperano nel Signore corrono senza affannarsi» e camminano anche
per giornate intere nel deserto e nell’aridità senza stancarsi.
Ecco l’augurio per il prossimo Natale: che la venuta di Gesù vi dia
questa forza interiore, così che possiate correre senza affannarvi e
camminare senza stancarvi. E naturalmente chiedo questa grazia
anche per me e per tutto il cammino della diocesi, anzi la chiediamo
per tutto il cammino della Chiesa, la quale nel mondo vive tante
situazioni pesanti e difficili, ma ristorata dalla presenza del suo
Signore.

Nota
3 Omelia dell’11 dicembre 1985. Mercoledì della II settimana di Avvento.
IV
Avvento di Dio, esodo dell’uomo4

Letture: Gdc 13,2-7.24-25; Sal 70; Lc 1,5-25

Siamo ormai prossimi alla festa di Natale e non ho voluto mancare


anche quest’anno di portare a voi, carissime sorelle, il mio augurio di
persona; anche per vivere insieme con voi un momento di
preparazione, su cui la Chiesa insiste soprattutto in questi ultimi
giorni facendoci meditare alcuni degli episodi preparatori alla venuta
di Gesù, sia nell’antichità di Israele, sia nell’imminenza della venuta
di Cristo.
Tutti questi episodi sono destinati a suscitare nel nostro cuore il
senso dell’importanza del gesto di Dio che ci prepariamo a
celebrare, o meglio, che celebriamo per tutto quanto l’anno liturgico,
perché tutta la liturgia della Chiesa celebra il venire di Dio all’uomo,
in Cristo. L’Avvento, il venire di Dio, è dunque il tema fondamentale
della celebrazione e della lode della Chiesa; per questo il venire di
Dio si celebra con attenzione particolare nel momento della nascita
di Gesù.
Il venire di Dio si celebra poi nella Pasqua: è Dio che viene per la
salvezza dell’uomo attraverso la croce e nella risurrezione di Gesù;
si celebra ancora nella Pentecoste quando il venire di Dio si
manifesta nello Spirito Santo inviato da Gesù sugli apostoli per
costituire la Chiesa. Tutta la Chiesa vive di questo venire di Dio.
È perché Dio viene che noi siamo qui, che la Chiesa è suscitata
nel mondo, che è diffusa fino ai confini della terra. A questo avvento
di Dio, che è come la sintesi di tutti i suoi misteri, corrisponde da
parte nostra la preparazione a riceverlo. Questa preparazione ha
anche un altro nome: esodo.
È l’uomo che esce dalla sua terra per andare incontro al Dio che
viene. La preparazione non vuol dire dunque stare solo seduti ad
aspettare, ma vuol dire muoversi, fare qualcosa, andare incontro; sia
che questo muoversi venga eseguito fisicamente, come Abramo che
si muove, come i pastori che si muovono, sia che questo avvenga in
un muoversi interiore.
Zaccaria deve uscire dalla sua incredulità e credere; la madre di
Sansone deve venir fuori dalla tristezza del suo popolo per credere
che il Signore viene incontro «con braccio forte».
Queste due componenti – l’avvento di Dio e l’esodo dell’uomo –
sono due costanti di tutta la storia della salvezza e anche della
nostra storia, perché Dio oggi viene e oggi noi siamo chiamati a
uscire da noi stessi, dalle nostre tristezze, dalle nostre pigrizie, dalla
preoccupazione di noi stessi, da tutto ciò che ci impedisce di
accorgerci del Dio che viene: tutte le spine, i sassi che soffocano la
Parola vanno tolti e sradicati, perché la Parola possa produrre frutto.
Queste giornate hanno dunque il significato di metterci in stato di
esodo per accogliere l’avvento quotidiano del Signore. Questo stato
di esodo riguarda ciascuno di noi come singoli, riguarda anche la
comunità umana, riguarda tutte le comunità intermedie, quindi anche
ogni comunità religiosa, ogni comunità monastica, e non ciascuno
per sé, ma ciascuno per gli altri.
Ci mettiamo in stato di esodo perché la nostra Chiesa locale, le
Chiese d’Italia, le Chiese di tutto il mondo, tutta l’umanità, possano
vivere questo momento di esodo in risposta all’avvento di Dio. Tutto
ciò che voi fate per prepararvi a questo Natale diventa la
preparazione della diocesi, della Chiesa particolare, di tutti i fedeli,
anche di coloro che non lo sanno o che in questo momento sono
preoccupati o affaticati da altre cose, così da pensare poco
all’avvento di Dio.
Noi abbiamo poi uno stimolo particolare per vivere questo Avvento:
abbiamo compiuto come vescovi lombardi, l’altro ieri e ieri, gli ultimi
atti della nostra «visita ad limina», cioè la visita ai sepolcri degli
apostoli Pietro e Paolo a Roma, e l’incontro con il successore di
Pietro. Questi gesti si sono conclusi ieri pomeriggio e porto a voi per
prime la benedizione del Papa, dopo che ci ha rivolto le parole
conclusive. Sono parole per noi molto importanti, sulle quali
mediteremo nei giorni e nei mesi prossimi; parole che il Papa ci ha
voluto rivolgere soprattutto sul tema della parrocchia e sulla sua
funzione educatrice. Vi invito a pregare perché queste parole del
Papa possano scendere sulle diverse componenti della nostra
diocesi così che esse si lascino porre in stato di esodo, in uscita da
tutto ciò che nelle nostre parrocchie, in quanto realtà educative, e nei
nostri oratori, deve essere cambiato per diventare veramente un
esodo riuscito. Studieremo questo discorso del Papa e dovremo
rifletterci, pregando perché esso si realizzi a livello capillare, di base.
Tutta la nostra diocesi ha già fatto una sua preparazione, un suo
esodo a questo scopo, riunendosi nel Convegno di Assago di alcune
settimane fa e meditando lungamente sul rinnovamento della
parrocchia e di tutte le realtà di base della Chiesa per andare
incontro al Signore che viene. Chiediamo dunque in questa
Eucaristia che questi giorni siano per noi davvero un esodo da tutte
le nostre cattive abitudini, da tutte le nostre pigrizie, per andare
incontro al Signore che viene e proclamare la certezza della sua
venuta.

Nota
4 Omelia del 19 dicembre 1986. Ferie maggiori di Avvento.
V
Preparate le vie del Signore5

Letture: Is 45,6-8.18.21-26; Sal 84; Lc 7,19-23

In questi giorni abbiamo letto e continueremo a leggere ancora,


fino alla fine della settimana, alcuni brani riguardanti Giovanni
Battista. In particolare, nei due giorni precedenti, abbiamo letto due
brani che narrano dell’ultima settimana della vita di Gesù, in cui
Gesù viene interrogato sulla legittimità del suo ministero: «Con quale
potere fai queste cose? […] Chi ti ha dato questo potere?». Gesù
risponde riferendosi a Giovanni Battista e al giudizio che si sarebbe
formulato su di lui: «Il battesimo di Giovanni è da Dio o dagli
uomini?».
In questi brani, dunque, Gesù testimonia di se stesso facendo
capire che l’origine della sua autorità va compresa nello stesso
modo in cui si sarebbe dovuta capire la legittimità della missione di
Giovanni Battista. Nel brano di oggi la situazione è rovesciata: è
Giovanni Battista che interroga Gesù sulla natura della sua
missione: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?».
Questa domanda suscita una certa sorpresa. Giovanni Battista
aveva detto: «Ecco, sta in mezzo a voi uno che voi non conoscete,
uno che è più forte di me […] uno di cui non sono degno di sciogliere
i legacci dei sandali; egli purificherà con il fuoco il suo popolo e con il
ventilabro di ferro l’aia della sua gente». Giovanni Battista aveva
dato testimonianze chiarissime su Gesù e la sua messianicità:
«Ecco colui che toglie i peccati del mondo». Allora, come mai questa
domanda: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?».
Domanda che suppone una certezza sul Messia imminente, ma
anche un dubbio, o almeno un interrogativo sul fatto che sia davvero
Gesù, o se lui non sia, a sua volta, inviato a preparare per un altro.
Come mai nasce questo dubbio? Forse non nasce dal Battista
stesso, ma dai suoi discepoli.
Se veramente Gesù fosse stato riconosciuto come Messia, noi
pensiamo che, logicamente, avrebbe dovuto sciogliersi il gruppo dei
discepoli di Giovanni ed essi avrebbero dovuto tutti insieme aderire a
Gesù. Ma, come succede in queste filiazioni spirituali, o famiglie
spirituali, il legame con il fondatore è sempre talmente forte che si
esita a fare un qualsiasi passo. Così i discepoli di Giovanni si sono
attaccati alla dottrina di Gesù, ma anche alla persona di Giovanni e
fanno fatica a compiere il passaggio. Questa fatica durerà anche in
seguito, perché la polemica tra i discepoli di Giovanni e i discepoli di
Cristo, cioè tra i giovannisti e i cristiani, durerà ancora. È veramente
conturbante questo fatto: che i discepoli di colui che aveva tanto
operato per preparare il Messia, ad un certo punto si siano
innamorati del loro stesso essere discepoli, dimenticando che tutto il
loro discepolato, come l’azione di Giovanni, era preparatorio,
preliminare rispetto a Gesù. Questo fatto si ripete nella storia della
Chiesa e anche della spiritualità, quando ci si gloria del proprio modo
di servire Gesù più che di Gesù stesso, così che il proprio modo di
servire si chiude in se stesso, riproduce identicamente sé, senza
lasciarsi relativizzare o trasformare dal primato di Gesù. Queste
parole ci mettono in guardia contro un atteggiamento che si
ripresenta nella storia del cristianesimo: amare di più la propria
spiritualità che non Colui per il quale tutta la spiritualità ha un senso,
cioè Gesù e il suo Spirito, Gesù e lo Spirito Santo.
Persino nella Chiesa può, dunque, prevalere il giusto interesse per
sé e per il proprio gruppo – inteso come provocazione o realtà
storica, che ha quasi un valore in se stesso – a prescindere dal
riferimento a Gesù. È quello che chiamiamo «razionalismo» o
«archeologismo»… in fondo le forme eretiche, scismatiche amano
più se stesse che non il mettersi a disposizione totale di Gesù.
Dobbiamo pregare perché in ciascuno di noi, in ciascun cristiano,
in tutte le realtà cristiane di oggi, Gesù prevalga sullo spirito di
gruppo, di corpo, e lo spirito di gruppo, di corpo non sia se non in
relazione a Gesù, e la stessa Chiesa non sia altro che trasparenza di
Gesù.
Abbiamo dunque qui, nella domanda del Battista, un qualcosa che
ci deve stupire, ma fino a un certo punto, soprattutto per quel che
riguarda i discepoli e la loro incapacità di comprendere a fondo la
missione del Maestro. Alla ripetuta domanda: «Sei tu colui che viene
o dobbiamo aspettare un altro?», Gesù non dice: «Sì, sono io colui
che viene e non dovete aspettare un altro», non risponde a tono.
Questo ci stupisce, ma Gesù fa spesso così: o risponde con un’altra
domanda per far capire che il domandare non è abbastanza puro,
non è abbastanza corretto – quindi va anzitutto corretta la domanda
– oppure risponde con dei fatti, o con parabole che sono un racconto
simbolico che fa riflettere, che obbliga a pensare; nel nostro brano
indica anche dei fatti. Gesù ci educa a esprimerci; Dio educa il suo
popolo non soltanto dicendogli chiaramente ciò che deve fare,
oppure rispondendo alle sue domande esplicite, ma mettendolo in
grado di far scaturire la risposta dall’osservazione di ciò che Dio fa, o
dalla riflessione sui simboli, sulle metafore, sulle parabole.
Per questo Gesù dice spesso: abbiate occhi aperti, siate
intelligenti, siate vigilanti, cercate di scrutare la realtà; e rimprovera:
non avete occhi, non capite; vedendo non vedete, sentendo non
udite, cioè non vi sforzate di giungere a quella conoscenza che io vi
presento, ma per la quale richiedo anche la vostra collaborazione
intelligente, il vostro camminare.
Ed ecco allora che Gesù anzitutto non risponde, ma fa. «In quello
stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti
cattivi e donò la vista a molti ciechi».
Potremmo chiederci qual è la differenza tra malattia, infermità e
spiriti cattivi; c’è una gradazione probabilmente discendente: da
malattie visibili, clamorose, come una paralisi, una lebbra… a
infermità più sottili, più misteriose: quella della donna curva, quella
della donna che ha il flusso di sangue, quella dell’epilettico; cioè da
malattie in cui emerge l’elemento fisico… a quelle forme misteriose
di malattia o anche di possessioni diaboliche, cioè di malattia che
capita all’uomo in maniera così misteriosa da dovervi leggere una
conseguenza dell'azione del maligno; così come in genere ogni
malattia viene riportata al fato, dunque alla suggestione del primo
nemico dell’uomo.
Gesù cura le malattie, ma sempre con l’attenzione alla
connessione corpo-anima, corpo-anima-spirito, corpo-anima-spirito-
peccato.
«E donò la vista a molti ciechi»: questi ci vedono, è gente che
recupera la vista; diversamente da come dirà ai Giudei, dopo la
guarigione del cieco nato: «Ecco, voi credete di vedere, ma non
vedete».
«Poi diede loro questa risposta – solo dopo aver agito dà la
risposta – andate e riferite a Giovanni quello che avete visto e udito
– prima visto e poi udito –: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi
camminano, i lebbrosi vengono sanati, i morti risuscitano – il
miracolo narrato in precedenza è quello della risurrezione del figlio
della vedova di Nain –, ai poveri è annunziata la buona novella».
Notate anche qui una differenza di registri: sono citate diverse
malattie, infermità, poi la clamorosa risurrezione dai morti (prima non
era stata menzionata) e infine si annunzia la buona novella ai poveri,
che è la prima cosa che Gesù fa. Gesù invita a capire la
connessione che c’è tra carità, misericordia e Vangelo, che è il modo
di Dio di proporsi. Non solo annuncio, non solo carità orizzontale,
non solo parlare di Dio, non solo parlare all’uomo: tutte queste cose
sono un’unità che comprende il corpo, l’anima e lo spirito.
Naturalmente al di sopra di tutto è messo l’amare di Dio, poi l’amare
il prossimo come noi stessi, anzi, come Gesù ha amato.
«E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me», perché non è
facile capire chi è Gesù: o si prende una sola parte di Gesù – Gesù
è un taumaturgo, ma non è il Messia, non è l’uomo che annuncia le
cose di Dio, cioè il Figlio di Dio, il Salvatore dell’umanità – oppure
Gesù è il Messia che annuncia le cose di Dio, ma annuncia una
salvezza puramente spirituale in cui la carità, la giustizia non sono
parte integrante di questo annuncio come se l’importante sia che
l’uomo, nella sua intimità con Dio, raggiunga una unione
trasformante con Lui, ma senza rilievo per l’ordine morale, sociale,
politico.
«Beato chi non sarà scandalizzato di me», cioè chi non agirà
secondo le sue aspettative, ma prendendomi come sono, cioè con
tutta la pienezza della mia missione, accogliendo anche Lui, il Padre.
È lui che me la dà con la trasparenza e l’oscurità con cui mi
manifesto, senza fulmini, senza lampi e tuoni, senza gesti clamorosi,
ma mettendomi al livello della gente.
Ecco, abbiamo bisogno di capire tutte queste cose per prepararci
al Natale.
Io sono venuto qui, carissime sorelle, per augurarvi buona
preparazione al Natale. Secondo la parola di Gesù, la preparazione
al Natale non è semplicemente aspettare il momento bello, ma
prepararsi: «Preparate le vie del Signore». Abbiamo letto proprio in
questi giorni Giovanni Battista che gridava: «Preparate le vie del
Signore, fate diritti i suoi sentieri, appianate le valli», cioè togliete tutti
quei blocchi, quelle impurità, quelle rigidità che impediscono di
riconoscere l’umile parola di Gesù, il suo apparire nella semplicità,
nella povertà, già nell’ombra della croce, quindi anche della tristezza,
della solitudine.
Donaci, o Gesù, di capirti così come sei; di predisporre il nostro
cuore non accettando, non desiderando qualcosa che sia altro da te,
ma desiderando te, cioè spogliandoci di ogni nostra prevenzione,
pregiudizio, attesa già bloccata su alcune cose; attendendo te così
come sei, accettando di lasciarci anche da te deludere in alcune
cose, perché tu sei più grande, più profondo di attese particolari.
Facciamo questa preghiera per tutta la gente, per tutta questa città,
di cui voi siete come la sentinella che guarda nella notte l’avvenire di
questa città: il sorgere del Sole, di Cristo. Voi, con la vostra vita, con
la vostra offerta quotidiana delle prove della vita, affrettate il sorgere
del Sole su questa città. «Come le sentinelle attendono l’aurora»,
così anche voi attendete il Signore. Pregate anche per me, per tutta
la nostra Chiesa diocesana, perché tutti sappiamo attendere il
Signore così.

Nota
5 Omelia del 16 dicembre 1987. Mercoledì della III settimana di Avvento.
VI
Venite a me6

Letture: Is 40,25-31; Sal 102; Mt 11,28-30

Possiamo ascoltare questa parola di Gesù, riportata dal Vangelo di


oggi, «Venite a me…», come una parola d’invito, un biglietto d’invito,
per partecipare al suo Natale. Una parola simile fu detta ai pastori:
«Venite, venite a vedere, andate». Anche noi riceviamo questo invito
a muoverci verso la contemplazione di Gesù nella sua nascita.
«Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi…»: questo
invito viene rivolto a tutti coloro che sentono di partecipare a questa
situazione fisica e morale. «Affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò»:
a questa situazione viene promesso un rimedio che era già
annunciato nella pagina del libro di Isaia. Giacobbe si sentiva
affaticato ed oppresso e diceva: «La mia sorte è nascosta al
Signore, il mio diritto è trascurato dal mio Dio». Ciò che l’affaticava e
l’opprimeva non era la stanchezza fisica, ma la stanchezza morale,
la frustrazione di aspettare e non vedere, aspettare e non venire. Ed
egli si lamentava: «Dunque la mia sorte non è buona, va male;
perciò è come se Dio non la conoscesse; il mio diritto è calpestato,
come se Dio lo trascurasse». Si trova dunque nella situazione di
essere affaticato e oppresso.
Con affaticato e oppresso si intende sia colui che si sente
fisicamente stanco, moralmente depresso – e sono tanti nella nostra
società – sia ogni situazione collettiva, sociale, popolare, di una
comunità, di una parrocchia, di una Chiesa, di una società, di una
nazione, che si sente impari di fronte alle sfide del presente, che si
sente incapace di affrontare le sfide economiche, sociali, morali,
politiche che le stanno davanti.
Per tutti quelli che si sentono poveri, peccatori, inadeguati, non
all’altezza, incapaci, risuona la parola di Gesù come un vangelo,
cioè come una buona notizia: «Venite a me voi tutti che siete in
qualunque modo affaticati ed oppressi ed io vi ristorerò».
A questa parola fa eco la parola di Isaia: «Dio eterno è il Signore,
creatore di tutta la terra; egli non si affatica né si stanca, la sua
intelligenza è inscrutabile, egli dà forza allo stanco e moltiplica il
vigore dello spossato». C’è in Dio e in Gesù questa potenza di ridare
forza, di moltiplicare il vigore. Anche coloro che sembravano più forti
e resistenti, come i giovani, «faticano e si stancano», anche quelli
che sembravano più capaci e all’altezza, come gli adulti,
«inciampano e cadono». Quanti, però, sperano nel Signore
«riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza
affannarsi e camminano senza stancarsi». Bisogna camminare,
correre di fronte a tante urgenze che premono; il Signore ci dice che
dovremmo correre senza affannarci e camminare senza stancarci.
Queste parole fanno parte di tutta quella serie di parole di Dio e di
Gesù, dell’Antico e del Nuovo Testamento, che sono parole di
promessa: fai questo e otterrai; vieni e vedrai; prendi il mio giogo e
troverai ristoro.
Tutta la nostra vita cristiana vive con questo ritmo della promessa
e della speranza: non vediamo sempre e subito l’esaudimento della
promessa, perciò restiamo nella tensione mediante la speranza, che
si appoggia sulla promessa infallibile di Dio che non viene mai meno.
Il tempo dell’Avvento è quello dell’interrogazione su di noi: qual è il
calore della mia speranza, cosicché io possa appoggiarmi sulle
promesse di Gesù e da esse già ricavare la forza sostanziale per
vincere la stanchezza, la noia, la ripugnanza, la mediocrità della
ripetizione degli stessi atti della vita quotidiana, attraverso la
rigenerazione che ci viene dalla promessa? Ciò avviene attraverso
quelle piccole perle, quei piccoli segni di adempimento della
promessa che Gesù ci dà, una promessa aperta all’avvenire, ma già
con alcune anticipazioni nel presente che sostengono la nostra
speranza.
Tutto questo lo sanno coloro che si sforzano di vivere la vita di
preghiera, di austerità, di sacrifici, una vita basata sulle promesse
del Regno. Tutti sanno che a queste promesse sono connesse delle
anticipazioni del loro adempimento, cioè del ristoro, del riposo, della
pace, della vivacità, dell’energia, della gioia interiore: il Natale e
l’Avvento ci ricordano tutto questo.
Preghiamo perché sia così per tutte le persone che spesso si
dichiarano stanche, stanche della monotonia del lavoro, stanche
della fedeltà coniugale che sembra pesare troppo, stanche della
fedeltà della vita religiosa che appare carica di pesi che magari non
si erano immaginati, stanche della fedeltà della vita presbiterale,
sacerdotale, che non dà le soddisfazioni che si erano attese,
stanche della fedeltà allo studio, perché dura troppo a lungo e non fa
vedere i risultati che uno si era immaginato.
Le persone che vivono questa fatica, oppressione, depressione,
stanchezza, malumore, frustrazione, sono oggetto della buona
notizia di Gesù, della speranza che illumina gli occhi, che dà vigore
alle membra e che moltiplica le forze interiori ed esteriori.
Pregate perché l’Avvento non sia semplicemente un momento di
acquisti, ma sia soprattutto e anzitutto l’acquisto di questa speranza
nuova, di questa certezza che Dio è con noi e che sostiene il nostro
cammino quotidiano.
Guardiamo al presepio, guardiamo a Maria che ci attende e
camminiamo fiduciosi malgrado tutte le fatiche, le tentazioni, le
prove, verso il momento della manifestazione di Gesù.

Nota
6 Omelia del 13 dicembre 1989. Mercoledì della II settimana di Avvento.
L'AUTORE

Carlo Maria Martini (1927-2012) è stato arcivescovo di Milano dal 1980 al


2002. La sua riflessione teologico-spirituale e la sua azione pastorale
rappresentano un punto di riferimento per credenti e non, cristiani di ogni
confessione ed ebrei. Ha pubblicato con Àncora numerosi libri, tradotti in tutto
il mondo.

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