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Libro “res in usu publico e beni comuni”

Introduzione -> IL NODO DELLA TUTELA  punto di partenza è la notazione storiografica “le azioni popolari
romane sono sparite persino dai manuali”. La notazione non è originale ma la diede Francesco Casavola, in
un fine lavoro su Fadda e la dottrina delle azioni popolari. Qui Casavola rivela come le azioni popolari, prima
di venire dimenticate, avessero conosciuto un periodo di fervido interesse storiografico. Che parte dalla
seconda metà dell'ottocento fino agli albori del Novecento. Periodo di interesse spiegato dallo stesso
Casavola, con ragioni appartenenti alla storia delle democrazie liberali che avevano vissuto l'esperienza dei
nuovi stati nazionali. Definendo che l’interesse del periodo è dovuto alla convinzione che la legittimazione
popolare fosse utile a destra la coscienza giuridica del cittadino, a fargli sentire una unione più intima tra la
propria persona e lo Stato. Attribuendo al successivo oblio di tali azioni, al fatto che lo Stato si evolse in una
sintesi organica di comunità, come persona giuridica astratta, separata dai cittadini. Questa notazione non
era fine a se stessa -> racchiudeva la ragione per cui, nelle ricostruzioni correnti delle res publicae, non era
stato previsto uno spazio (autonomo) per quella categoria di res, che i giuristi romani chiamano, con
precisione, res in usu publico.

La riscoperta degli interdetti popolari e la ricerca nelle fonti, adottando tale rimedio come filo conduttore,
ha invece consentito di individuare le res cui i giuristi si riferiscono con le ricordate espressioni e di far
emergere la disciplina propria di tali res. Una disciplina che risente del passaggio dal modello repubblicana
a quello imperiale. Al punto che, nelle fonti, si rilevano i segni del succedersi di due discipline: la prima che
riflette il quadro istituzionale della Roma repubblicana e che si concentra sulla tutela interdittale pretoria, a
legittimazione popolare; la seconda che corrisponde all’ordinamento imperiale è che vede la tutela affidata,
progressivamente agli stessi funzionari imperiali.

Altra riflessione sui beni destinati all’uso pubblico -> all’interno della Magistratura ordinaria. Il punto di
partenza, qui, è il blocco di sentenze depositate nel 2011, con cui le Sezioni unite civili della Cassazione
hanno chiuso la nota vicenda giudiziaria sull’appartenenza delle Valli da pesca della laguna di Venezia,
confermandone sì la natura demaniale accertata dalla Corte di appello territoriale, ma qualificandole come
“beni comuni” ed aggiungendo così alla motivazione di stampo tradizionale della Corte veneziana una
nuova ratio decidenti, incentrata appunto sulla nozione di “bene comune”.

Ma il rilievo di questa nozione di bene comune della Cassazione, fondata sulla funzione del bene, sta nel
suo essere “strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”, cioè sulla sua
destinazione all’uso pubblico, a prescindere dalla proprietà, pubblica o privata.

Andando indietro rispetto a questa sentenza del 2011, si ricostruisce il percorso storico della nozione di
bene comune. Il quale prende avvio con la decisione della Cassazione di Roma del 1887 (che crea lo ius
deambulandi”, del popolo di Roma su Villa Borghese, e che conosce un primo cinquantennio di Pronunce,
che si ricollegano a quel precedente indirettamente o direttamente, sviluppando i principi affermati.
Pronunce che sul modello della Cassazione nel 1887, creano la categoria dei diritti di uso pubblico, come
diritti che interessano popolazioni, sia pel lato igienico, artistico, scientifico, e sia, in generale, per qualsiasi
utilità che possa interessare il pubblico di una citta, borgo o regione e che come tali, non possono
classificarsi né come servitù prediali (Una servitù (prediale nel caso di terreni) indica un diritto reale minore
di godimento su cosa altrui, consistente nel peso o limitazione imposto a un fondo (servente) per l’utilità di
un altro fondo (dominante) appartenente a un’altra persona (art. 1027 del c.c.), né come servitù personali.
Mentre li si debbono considerare come diritti autonomi di natura particolare, il cui regolamento appartiene
in gran parte al diritto pubblico.

Pronunce, durante il quale si affronta e si risolve il nodo della tutela di tali diritti, nel segno della
legittimazione popolare, fino al punto di riconoscere, agli inizi degli anni 30, l’azione (anche) al titolare del
diritto di uso pubblico, non solo su beni privati, ma pure sui beni demaniali. Ma un tale riconoscimento,
punto massimo di evoluzione della giurisprudenza, è anche il suo punto debole.
Con l’entrata in vigore del c.c. diventa norma l’indirizzo che la Cassazione aveva resisto -> l’indirizzo che era
divenuto dominante nel segno del dogma della persona giuridica e della costruzione della proprietà
pubblica come proprietà individuale dello Stato.

In questo modo si apre un secondo periodo di sentenze che arriva fino ai nostri giorni  la giurisprudenza
mostra un atteggiamento doppio. Da un lato, per quanto riguarda l’uso collettivo dei beni demaniali,
abbandona l’orientamento espresso dalla Cassazione e si allinea all’indirizzo dominante e al dettato del
nuovo codice civile. Dall’altro però, per i diritti d’uso pubblico c.d. minori (che non comprendono l’uso
collettivo dei beni demaniali), disciplinati nell’art 825 con un espresso rinvio al regime del demanio
pubblico, la stessa giurisprudenza continua a ripetere i principi creati prima del c.c. del 42’. Mantenendo
vivo l’interesse verso questi principi, fra i quali spicca il principio della legittimazione popolare, secondo cui
la legittimazione ad agire spetta (anche) al titolare del diritto d’uso, senza che ricorra Litisconsorzio
necessario con l’ente rappresentativo della collettività.

Giurisprudenza che rimane lontana dai riflettori del dibattito, incentrato sul tema dei diritti esistenziali, data
l’emergenza della questione ambientale, tra gli anni settanta e ottanta. Il dibattito si concentrerà
nuovamente sulle sentenze della giurisprudenza ordinaria che riguardano i beni destinati all’uso pubblico,
sotto la formula dei beni comuni, occorre arrivare alle decisioni delle sezioni unite civili del 2011. Pronunce
che aprono una nuova fase in questa storia di sentenze. Una fase ancora da scrivere.

Pensiero di Scaloja sui beni demaniali d’uso pubblico e sulle azioni popolari -> scrive due libri. Il primo sotto
forma di Nota a sentenza, sul Foro Italiano, nel 1881. In cui risolve in senso positivo la questione se, alla
luce della legislazione allora vigente, possa ammetterai una vera e propria proprietà dello stato sui beni
demaniali d’uso pubblico. Il secondo libro è la prefazione alla traduzione dell’opera di Bruns sulle azioni
popolari romane, che si divide, sostanzialmente, in due parti. Una storica, dedicata alla ricostruzione
dell’istituto antico. Una, invece, in cui Scaloja pone la questione dell’attualità dell’azione popolare. In
questo secondo libro, la Prefazione, Scaloja offre numerosi spunti. 1) la gradazione, fra i diritti pubblici, tra
diritti spettanti a tutti i membri della comunità e da esercitarsi da ciascuno di essi, e diritti spettanti alla
comunità come ente a sé, e da esercitarsi mediante un organo speciale di essa. Ed il loro rispettivo
inquadramento in momenti diversi della storia di Roma. 2) La definizione di diritti pubblici diffusi attribuita
ai diritti del primo tipo 3) riconoscimento di vere e proprie azioni popolari romane, dato soltanto a quelle
concesse a tutela di tali diritti. Tutti punti da cui la ricerca su interdetti popolari e res in usu publico ha tratto
alimento e rispetto ai quali costituisce uno sviluppo.

Gli anni in cui Scialoja scrive a favore dell’azione popolare sono cruciali per le questioni della costruzione
dello Stato come persona giuridica e della proprietà pubblica. I beni demaniali d’uso pubblico sono un
banco di prova della disputa su tali questioni: fra Stato e collettività; fra unus e plures; proprietà individuale
e collettività; tutela affidata al solo Stato e tutela concessa al titolare dell’uso. Sono gli anni in cui si decide il
ruolo del cittadino in termini di sovranità.

In queste questioni, Scaloja si introduce convinto che l’azione popolare (questione che continua ad essere
centrale per la stessa idea di Stato, data l’intima connessione con temi chiave, come cittadinanza e
sovranità) giovi a destare la coscienza giuridica del cittadino, a fargli sentire un’unione più intime fra la
propria persona e lo Stato. Ma lui non si ferma a generiche espressioni, si sofferma anche sul concreto. Si
concentra sull’organizzazione e il funzionamento dello Stato. L’azione popolare è, per lui, uno strumento di
potere che consente al cittadino, ad ogni cittadino, di chiedere conto dell’aggressione o inapplicazione delle
disposizioni legali senza soggiace re all’inerzia o ingiustizia di un pubblico funzionario, il quale troppe volte
rappresenta non lo Stato, ma la sola maggioranza che lo governa. Nella sua visione, l’azione popolare è il
contrappeso che conferisce equilibrio alla costruzione dello Stato.
Una tale visione generale, se calata sul terreno dei beni demaniali d’uso pubblico, potrebbe realizzare una
temperato fusione fra proprietà dello Stato, su tali beni, e potere dei cittadini a difesa del loro diritto d’uso
e della stessa destinazione pubblica di detti beni.

La Visione di Scaloja non avrà successo sul piano normativo e nella scienza giuridica ma penetrerà nella
giurisprudenza ordinaria. Scienza e piano normativo, sempre più dominati dal dogma della persona
giuridica e dalla costruzione della proprietà pubblica secondo gli schemi individuale della proprietà privata,
con la conseguente connessione tra appartenenza (allo Stato) e tutela (del solo Stato).

Poco tempo dopo la Cassazione pronuncerà la sua sentenza su Villa borghese, dando avvio all’orientamento
consolidato nel segno della legittimazione popolare, fino a riconoscere come diritto munito di azione, cioè
come vero diritto, l'uso collettivo dei beni demaniali, ponendo lo sullo stesso piano dei diritti d’uso pubblico
su beni privati.

Riflessioni 

1) su pubblico e comune. Nella storia di Roma, vi è stato un tempo in cui L’idea del comune appare
connaturata alla stessa organizzazione delle istituzioni pubbliche e dei rapporti di potere: è l’età
repubblicana. Il termine Res publica non può essere tradotto nella nostra lingua, senza rischiare di
deformare l’idea alla base. Cioè quell’idea di partecipazione e integrazione collettiva nella vita della città.
Con Cicerone, questo termine ha un significato equivalente a quello di Populus romanus e indica anche un
modello costituzionale, destinato ad essere progressivamente alterato e svuotato dal nuovo ordine
imperiale. Quindi pubblico non equivale a comune, ma ha in sé L’idea di comune, utilità comune. Allora la
dicotomia pubblico-privato ha un significato diverso da quello che assumerà nella storia di Roma, in epoca
imperiale. E diverso ancora dal significato che assumerà nella riflessione occidentale, dominata dallo
schema dualistico, Proprietà pubblica-proprietà privata. Dove pubblico = Stato e quindi proprietà pubblica
equivale a proprietà individuale dello Stato. In questo periodo, repubblicano, la dicotomia comprende la
dimensione del popolare. Popularis appare la più corretta declinazione di pubblico. Cicerone infatti usa
l’espressione Civitas Popularis (potere interamente nelle mani del popolo) contrapponendola alla Civitas
optimatium e al Regnum.

2) l’idea di comune insita in età repubblicana nel concetto di pubblico, ha implicazioni rilevanti giuridiche
sulle res in usu publico. Si riflette sul piano concreto della tutela. Coerentemente con la natura pretoria del
diritto in questo periodo. La disciplina dei beni destinati all’uso pubblico si caratterizza per il regime di
tutela incentrato sulla legittimazione popolare. Il bene è giuridicamente considerato in ragione della sua
funzione, in ragione della sua destinazione all’uso pubblico. La funzione del bene determina la disciplina
della tutela, che è così affidata al civis, al titolare dell’uso.

3) nel passaggio da età repubblicana a quella imperiale, la posizione del populus è completamente
capovolta, passa da protagonista a mera comparsa, e l’asse di tutto il sistema delle imputazione di natura
pubblicistica si sposta dal populus al princeps, dai plures all’unus. Muta il significato di pubblico. Si svuota
L’idea di comune. Tramonta la vera legittimazione popolare romana, quella che, come affermava Scialoja, fa
valere i diritti pubblici diffusi, cioè quei diritti spettanti a tutti i membri della comunità e esercitati da
ciascuno. Affermandosi una diversa azione popolare, a tutela dei diritti spettanti alla comunità come ente a
sé è da esercitarsi mediante un organo speciale di essa. Un’azione che non esprime la sovranità del
populus. La tutela delle res in usu publico diventa appannaggio dell’apparato imperiale.

4) in questa prospettiva si spiega l’emersione nella riflessione dei giuristi del III secolo d.c. delle res
communes omnium come categoria distinta dalle res publicae. La dicotomia pubblico-privato non basta più
a contenere ciò che è comune. Occorre una terza dimensione, quella appunto delle res communes
omnium.
5) il diritto romano, così ricostruito, sembra offrire un quadro di concezioni e soluzioni più ampio rispetto a
quello offerto per il dibattito sulla proprietà collettiva o in quello attuale sui beni comuni. Si tratta di una
ricostruzione che si ricollega ad un filone storiografico autorevole (Jhering e Scialoja, accompagnati da
Riccardo Orestano, con le sue ricerche intorno al problema delle persone giuridiche). Si può dire che la
ricostruzione romanistica sia passata in modo fuorviante. Basta pensare a Sabino Cassese il quale disse
“discorrere di proprietà collettiva significa anche lasciare l’ancoraggio alla tradizione romanistica, nella
convinzione che il pregiudizio romanistico ha indotto spesso la dottrina a configurare la proprietà collettiva
offerta dal diritto positivo come proprietà individuale”. Per il dibattito attuale sui beni comuni invece non vi
è nulla da ricordare, poiché da qui il diritto romano è scomparso. Con L’eccezione di Salvatore Settis, non
giurista, che ha riaperto la discussione sul tema dell’attualità dell’azione popolare. La responsabilità di ciò è
certamente anche dei romanisti. Il fatto che si possa ancora ripetere la notazione di Casavola che le azioni
popolari sono scomparse persino dai manuali, ha contribuito sicuramente al passaggio fuorviante del diritto
romano, se non addirittura a tenerlo fuori dalla discussione. Il silenzio su azioni e interdetti popolari ha
impedito l’emersione della dimensione del popolare che caratterizza l’età repubblicana. Il diritto romano è
rimasto imprigionato nello schema dualistico pubblico (Stato)/ privato (singoli individui), nel quale l’aveva
ridotto la Pandettistica e che, come ha denunciato Rodotà, ha dominato gli ultimi due secoli la riflessione
occidentale.

Il fatto che L’affermazione si Casavola sia ancora attuale, sorprende. Perché non era sorprendente che gli
studiosi di diritto romano, successivi a Scialoja, non si fossero interessati al tema delle azioni e degli
interdetti popolari. Venendo da una stagione in cui il diritto romano era studiato con la lente dei
Pandettisti. E per i pandettisti, la questione non era come il diritto romano era stato in un’epoca qualunque,
ma come lo si potesse attualmente applicare. E le azioni e gli interdetti popolari non erano ritenuti attuali e
quindi applicabili. Ma dagli anni sessanta, prende avvio una nuova stagione degli studi romanistici, che si
concentra va sul diritto romano dei romani e non più quello dei pandettisti. Perciò, il persistere del silenzio,
anche nei manuali, su un tema nodale, non può non apparire sorprendente.

6)Scialoja, uno dei massimi protagonisti della scienza giuridica italiana, grande avvocato fra Ottocento e
Novecento. È un autore caduto nel dimenticatoio anche se vi sono rare, importanti, eccezioni. Le ragioni
dell’ignoranza su di lui, sono molte ed una di queste è il giudizio dato da Grossi che lo definisce come
“campione di un positivismo giuridico sostanzialmente chiuso e del legal-statualismo. Sicuramente, questo
giudizio ha influenzato le generazioni successive a Grossi, ecco perché la probabile messa da parte di
Scialoja. Il pensiero di Scialoja -> sorretto da sensibilità storica acuta, ricco di sfumature, spunti e intuizioni
originali, ed alimentato da una forte tensione verso la ricerca di soluzioni equilibrate, da sfuggire a giudizi
netti.

Brutti ridà attenzione al suo pensiero, concentrandosi, ad esempio, sulla posizione di Scialoja in tema di
divieto di atti di emulazione. Scialoja si esprime contro l’esistenza di questi divieti. Ma la sua posizione
contraria non gli impedisce di affermare: “la proprietà affermazione suprema del diritto individuale, non
puo, come non può l’individuo, andare disgiunto dal diritto sociale, onde la sua giusta misura è da cercarsi
nella temperato fusione di questi due elementi. Aspetti diversi di una stessa cosa […] l’individuo e la società
non si possono senza errore considerare come cose distinte; si può ragionare separatamente dell’uno o
dell’altra, ma non bisogna mai dimenticare, quando si voglia venire ad una pratica conclusione, di unire i
risultati di un ragionamento con quelli dell’altro, non bisogna mai dimenticare che ciò che realmente esiste
non è l’individuo per sé stesso, né la società per sé stessa, ma bensì l’uomo. […] Trovare il punto in cui
l’unione sia perfetta, ecco il problema”. Un ulteriore esempio è in un altro breve scritto, dedicato al Divieto
di atti di emulazione in materia d’acque, in cui Scialoja dimostra di saper guardare i beni in ragione della
loro funzione ed utilità. Altro esempio è in tema di attualità dell’azione popolare.

Quindi Scialoja aveva, sicuramente, consapevolezza dei rischi che il cittadino stava correndo nella nuova
costruzione dello Stato come persona giuridica, che in quegli anni si stava definendo, sia dell’esigenza che
sia apprestata un efficace strumento di potere che consenta a ogni cittadino di far valere il proprio diritto
d’uso sui beni demaniali, di “chieder conto della trasgressione o inapplicazione delle disposizioni legali” e di
reagire “all’inerzia o all’ingiustizia di un pubblico funzionario”. In conclusione, la visione di Scialoja si
concentra in maniera equilibrata e concreta sui rapporti tra Stato e Cittadino. Rimanendo comunque ancora
attuale.

7) la tutela è il nodo della disciplina dei beni destinati all’uso pubblico o dei beni comuni. Discutere solo
dell’appartenenza, senza dotare di azione i membri della comunità, vuol dire lasciare nelle sole mani dei
c.d. pubblici poteri la protezione di detti beni e della loro stessa destinazione. L’azione popolare pone al
centro della tutela il cittadino, il membro della collettività, l’uomo.

Oggi dopo la decisione della Cassazione del 2011, è entrata nel diritto vivente, la nozione di bene comune,
tornando in primo piano il nodo della tutela di tale categoria di beni. Tutela non solo contro l’inerzia e
l’ingiustizia dei pubblici potere, ma anche contro gli abusi di singoli proprietari. Se non si affronta tale
punto, la nozione di bene comune rimane semplice una formula teorica senza applicazione pratica. Questo
bisogno di avere anche una tutela di questi beni comuni, lo sottolinea anche Salvatore Settis che definisce
che “l’ambiente, il paesaggio, il territorio sono un bene comune sul quale tutti abbiamo, individualmente e
collettivamente, non solo un passivo diritto di fruizione, ma un attivo diritto-dovere di protezione e difesa.

Unica possibilità è L’intervento della Magistratura. La speranza è che la Cassazione, partendo dalla scia delle
decisioni del 2011, recuperando il filo della giurisprudenza creativa, affronti il nodo della tutela e lo risolva.
Magari recuperando questo filone conduttore, formatosi tra la fine dell’ottocento e i primi trent’anni del
Novecento. Filone che la giurisprudenza in materia di diritti d’uso pubblico c.d. minori, dopo il c.c. del 42’,
ha impedito che si spezzasse.

INTERDETTI POPOLARI E TUTELA DELLE RES IN USU PUBLICO

“Zone d’ombra” nella storiografia romanistica. Il caso degli interdetti e delle azioni popolari

Franco Casavola notava che le azioni popolari romane sono sparite persino dai manuali. Tale autore fece
questa notazione dopo aver rilevato come le azioni popolari romane avessero conosciuto un periodo di
fervido interesse storiografico. Oggi quella notazione conserva intatta la sua attualità. Nei manuali
successivi a Casavola fino ad oggi, non trattano il tema delle azioni e degli interdetti popolari. Tematiche
pressoché assenti. Vi si trova solo un accenno alle azioni, in riferimento all’ambito della generale
classificazione delle azioni o della trattazione delle azioni penali.

Nelle due enciclopedie giuridiche, che pure contemplano per ogni tema accanto alla trattazione di diritto
vigente la corrispondente trattazione storica, mancano le voci romanistiche relative alle azioni e agli
interdetti popolari. Inoltre non vi è stata una produzione scientifica sul tema, sia a livello di opere
monografiche che di letteratura minore, tale da compensare il silenzio dei manuali ed enciclopedie. Quindi
il quadro storiografico è omogeneo. Da ciò si trae che la materia è parte delle zone d’ombra della
storiografia romana.

Azione popolare, nodo del diritto romano

Il fatto che tale tema sia parte delle zone d’ombra della storiografia romana appare sorprendente se si
considera: 1) il tema degli interdetti e delle azioni popolari è ampiamente testimoniato dalle fonti. 2) Il suo
studio non attiene ad aspetti marginali del diritto romano, ma investe questioni di fondo.

Sulla considerazione 1 non v’è molto da aggiungere. Oltre alle parti del Corpus IURIS riservate alla
trattazione delle singole actiones e dei diversi interdetti, v’è il Digesto, un titolo, il 23 del 47 libro dedicato a
tale tema “De popularis actionibus”.
Sulla considerazione 2 -> non vi è la consapevolezza che lo studio dell’azione popolare investe questioni di
fondo del diritto romano. Se al contrario vi era questa consapevolezza, non si spiegava il silenzio su tale
tema. Indicando alcune tra le connessioni tra azione popolare e diritto romano, più significative. Come il
legame tra azione popolare e ruolo del cittadino. Non vi è dubbio che lo studio dell’azione popolare possa
contribuire a ricostruire la posizione, il ruolo del civis nella società, nella vita quotidiana come nell’ambito
dell’organizzazione pubblica, dall’età della Repubblica a quella dell’impero assoluto. L’azione popolare
costituisce uno strumento, efficace, di potere nelle mani del cittadino. Il civis armato dell’azione popolare,
in questo modo ha un ruolo attivo, di partecipazione e di controllo in relazione a momenti importanti
dell’attività dell’amministrazione pubblica. Si pensi all’attività attinente alla viabilità e alla circolazione
stradale a cui inerisce l’actio de deiectis vel effusis, all’attività di cura delleres publicae, a cui si ricollegano
gli interdetti a tutela delle res in usu publico, e così via. Un altro legame è tra azione popolare e l’interdetto
popolare, ed il regime delle res publicae. La considerazione degli interdetti popolari consente di ricostruire
la disciplina delle res publicae, evidenziando, all’interno delle stesse, un regime differenziato delle res in
usu publico, caratterizzato da un ruolo di potere e di responsabilità del cittadino nella tutela di tale
categoria di res, ruolo che si atteggerà in termini diversi nell’età repubblicana e in quella imperiale. Altro
legame: Azione popolare e populus. Nella misura in cui l’azione popolare contribuisce a delineare la
posizione del cittadino nella società romana, nei suoi diversi momenti, consente altresì di definire il
rapporto tra cives e populus e la stessa concezione di populus, così intimamente connessa al problema delle
persone giuridiche.

Per la linea di pensiero secondo la quale il populus romanus viene concepito come pluralità di cittadini,
come tutti i cittadini e non una entità astratta, distinta dai cives che la compongono. L’azione popolare
risulta un argomento forte a sostegno di tale interpretazione. Per quelli che invece ritengono che il populus
romanus abbia una personalità nettamente separata da quella dei singoli cives, l’azione popolare
costituisce un problema da spiegare, un elemento che rischia di incrinare l’armonia di una simile
ricostruzione.

Del resto, l’azione popolare la troviamo anche al centro del moderno dibattito sulla categoria di stato, sul
rapporto Stato-cittadini e sulla sovranità popolare. Un dibattito che si è sviluppato nella metà del 19 secolo
e che, anche se in termini diversi, ha ripreso vigore in questi ultimi decenni. Nel dibattito del 19 secolo,
mentre le democrazie liberali vivevano l'esperienza dei nuovi stati nazionali, una parte importante di
pensiero sosteneva una larga ammissione dell’azione popolare, in quanto strumento efficace “per destra la
coscienza giuridica del cittadino, fargli sentire una unione più intima tra la propria persona e lo Stato,
[…]poiché ogni cittadino potrà chiedere conto della trasgressione o inapplicazione delle disposizioni legali,
senza soggiacere all’inerzia o all'ingiustizia di un pubblico funzionario, il quale troppe volte rappresenta non
lo Stato, ma la sola maggioranza che lo governa” (Parole di Scialoja). Nel dibattito degli ultimi anni, invece,
l’azione popolare costituisce uno dei nodi del confronto fra due opposte interpretazioni della affermazione
della sovranità popolare contenuta nell’art 1 del testo costituzionale, entrato in vigore nel 1948. Quella che
continua a considerare organi dello Stato il popolo o il corpo elettorale, e quella che fa del popolo è non
dell’organizzazione statale il punto giuridico di riferimento dei poteri sovrani. Per questo secondo indirizzo
l’azione popolare è emanazione diretta della sovranità popolare e, come tale, può rientrare nella generale
figura degli istituti di democrazia diretta, al pari del referendum e dell’iniziativa legislativa popolare,
costituendo così un elemento importante della personalità giuridica del cittadino.

Ulteriore connessione da evidenziare è tra l’azione popolare e la dicotomia pubblico-privato  lo studio


delle diverse categorie di azioni popolari consente di portare alla luce una ricca gamma di posizioni
soggettive. Scialoja, nella Prefazione alla traduzione della fondamentale opera di Bruns su Le azioni popolari
romane, rifacendosi proprio alla nota classificazione della azioni popolari operata dal Bruns e fondata sul
criterio della spettanza del provento all’attore o alla cassa pubblica, per cui si possono dire popolari solo le
azioni in cui il provento spetta all’attore, prospettava la seguente gradazione di diritti: 1) diritto spettante
alla comunità, come ente a sé, e da esercitarsi mediante un organo speciale di essa 2) diritto spettante alla
comunità come ente a sé, ma da esercitarsi perciò da qualunque suo membro 3) diritto spettante a tutti i
membri della comunità, e da esercitarsi perciò da ciascuno di essi. Scialoja a queste tre categorie di diritti
(tutti pubblici ma diversi fra lo), faceva seguire una quarta categoria, quella dei diritti privati. Ai diritti della
seconda categoria corrispondono le azioni popolari che, nella classificazione di Bruns, sono dette legali o
procuratorie. Ai diritti invece della terza categoria faceva corrispondere le azioni popolari propriamente
dette e dunque pure gli interdetti popolari a tutela delle res publicae.

Particolarmente importante è la qualifica che Scialoja fa dell’ultima categoria di diritti, cioè li definisce
“diritti pubblici diffusi’. Al riguardo le parole di Scialoja sono “questo diritto è bensì pubblico, spetta
all’individuo come membro del popolo: ma è tuttavia un diritto che spetta a lui, e non già al popolo come
un ente diverso e totalmente distinto da lui. Se mi fosse lecito parlare figuratamente direi che si tratta qui
non già di un diritto pubblico concentrato, ma di un diritto pubblico diffuso in tutti i membri della
comunità”. Dunque attraverso l’azione popolare, si scopre uno spettro di diritto, ricco di sfumature. Dal
diritto pubblico della comunità-ente, al diritto pubblico diffuso del civis, come membro della comunità, fino
al diritto del singolo, visto, come individuo-privato.

Naturalmente si può discutere di queste categorie di diritti, ma quel che conta è che emerge una realtà
complessa, molto di più rispetto alla dicotomia pubblico-privato, dove pubblico sta per dello/attinente allo
Stato, alla organizzazione statuale.

Lo studio delle azioni popolari mette a nudo l’insufficienza di una tale dicotomia per interpretare la
complessità della realtà romana. Impone una riconsiderazione del significato di pubblico e di privato, nei
diversi momenti dell’esperienza giuridica romana. Può offrire spunti di riflessione al dibattito in corso sulla
tutela dell’ambiente, e volto a dare spazio a (ritenute) nuove categorie di diritti o interessi e ad individuare
per gli stessi forme efficaci di tutela. Il tutto superando l’impostazione individualistica fondata sullo schema
Pubblico (stato)/ Privato (l’individuo).

Dunque le varie connessioni tra azione popolare e ruolo del cittadino; azione popolare e regime delle res
publicae; azione popolare, populus e problema delle persone giuridiche; azione popolare e dicotomia
pubblico-privato. Sono tutte connessioni che riguardano questioni di fondo e non aspetti marginali. E
l’azione popolare si trova al centro. Dunque l’azione popolare è un nodo del diritto romano.

Sulle ragioni del silenzio

Dunque perché è sceso il silenzio sull’azione popolare? Prima di darne qualche linea, occorre tornare sulla
vicenda storiografica di cui l’azione popolare è stata protagonista, per ripercorrere le fasi salienti.

Dal 1864 al 1903 le azioni popolari romane, che fino a quel momento erano state praticamente ignorate,
conoscono una sorta di boom storiografico. In quasi 40 anni, gli vengono dedicate 9 trattazione a carattere
monografico ed una ricca letteratura minore. Tra cui si annovera l’opera di Bruns tradotta, con la relativa
prefazione di Scialoja. Poi dal 1903 al 1954 vi fu un periodo di disinteresse. Solo nel 1955, il silenzio viene
rotto da Casavola. Da cui poi si avrà un nuovo momento di silenzio che continua a durare fino ad oggi.

Quindi le domande che si possono dedurre sono due: perché quel periodo di fervore?; perché dopo l’oblio?

Casavola, all’inizio della sua opera “Fadda e la dottrina delle azioni popolari”, offre una chiave per
comprendere il descritto fenomeno. Scrive che “Le azioni popolari romane sono una singolare
testimonianza di quanto possa influire sulla affezione del ricercatore ad un tema la vicenda politica del
tempo in cui egli, consapevole o no, va necessariamente vivendo. […] Le ragioni di quel fervido interesse e
del non meno tenace disinteresse ulteriore appartengono molto più che alla scienza alla storia delle
democrazie liberali, che vivendo nel secolo scorso l’esperienza dei nuovi Stati nazionali”.
Per rispondere alla prima domanda, allora si traccia bene la linea così dicendo : “quelle democrazie, infatti,
si trovavano in quegli anni impegnate nel compito di ricondurre alla realtà dello Stato i cittadini per troppo
tempo già tenuti lontani dalla cura dei pubblici affari e disusi dall’esercizio dei diritti di libertà. E come
l’ideologia liberale costruiva la società statuale allo stesso modo di Cicerone che forzatamente tentava di
identificare nella res pubblica la res populi, così facilmente il mito della sovranità popolare, che di quella
ideologia era la massima figurazione, fu proiettato dalla condizione di ideale vagheggiato a situazione
storicamente verificatasi nei secoli di Roma repubblicana e democratica. Alle istituzioni di questo momento
della storia romana si volse dunque l’attenzione di giuristi e politici per ritrarne suggerimenti e modelli in
qualche modo utili per le necessità del presente. Di qui la fortuna delle azioni popolari, dovuta ad una loro
pretesa attualità; ed il fine cui le ricerche sulla loro funzione e struttura tenevano era ben più che quello
scientifico di raggiungere una sempre meno infedele conoscenza: era quello politico della loro
resurrezione”. Difficilmente si può andare contro questa spiegazione, del resto, nata dalle stesse
dichiarazioni dei protagonisti di quell’appassionato dibattito.

Più complessa è la risposta alla seconda domanda. Casavola ne dà il suo punto di vista: “nei primi anni del
nostro secolo (1955) una nuova politica decideva del declinare delle azioni popolari e spegneva insieme
l’interesse scientifico che le aveva accompagnate, nato per servire i legislatori liberali”. Dunque come
l’interesse scientifico era nato in presenza di un forte interesse politico, così si sarebbe spento al suo venir
meno. Però ci si chiede: mentre un simile argomento è sufficiente per spiegare la fiammata di interesse
avuta dall’azione popolare nel periodo indicato, può esserlo anche per dar ragione di un disinteresse che,
con la sola, se pur molto autorevole, interruzione data dai due lavori di Casavola, dura ormai da 90 anni?
Certo, per un tema come questo, sensibile alle vicende della politica, il venir meno di un interesse politico
verso strumenti che danno voce alle istanze soggettive dei cittadini non può non contribuire a raffreddare
l’attenzione del mondo scientifico. Da questo punto di vista, la mancanza di una democrazia nel periodo fra
le due guerre, in Italia ed in Germania, la quale ha ridotto la sfera di applicazione dell’azione popolare e dei
con simili istituti per un’evidente ragione di incompatibilità ideologica, ha favorito il disinteresse verso
l’azione popolare.

Ma se si tiene conto che, in questi ultimi anni, si è riacceso l’interesse di una legittimazione popolare
operata verso temi, come quelli dell’ambiente, dell’informazione e delle concentrazioni di imprese sul
mercato. Se si tiene conto che la ricerca romanistica si è andata orientando verso la ricostruzione storica
del diritto romano dei romani, allora si deve concludere che le ragioni del silenzio si debbano ricercare
anche altrove.

Prima possibile ragione che spiega il silenzio verso tale tematica -> 1) nella storia delle democrazie liberali
del secolo scorso e, in particolare, nella costruzione dello Stato come persona giuridica, che in quel
contesto si va definendo e realizzando. Uno spunto felice in tal senso si rinviene in Casavola, precisamente
in una annotazione amare fatta da Lue’, della scarsa pratica applicazione dell’azione popolare, donde la
considerazione che le speranze riposte nell’istituto erano andate ben presto deluse dalla realtà. Allora
Casavola annota: “In verità, gli uomini di cultura liberale tentavano di conservare una società statuale quale
somma di individui, quando lo Stato s’andava ormai evolvendo in sintesi organica di comunità”. In quel
contesto, cioè lo Stato si stava definendo come persona giuridica, come entità astratta, separata dai
cittadini che la costituiscono.

Un autore, Rudolf von Jhering descrive questa separazione (che caratterizza la costruzione moderna e la
contrappone a quella del populus romanus) in una pagina de “Lo scopo nel diritto”. Descrizione importante
per il suo richiamo alle res publicae e per il rilievo che viene dato all’azione popolare -> “Questa era la
prospettiva in cui l’antico romano vedeva lo stato. Ciò che apparteneva allo Stato, apparteneva anche a lui.
Sono le res publicae che egli ha in comune con tutti gli altri, a differenza delle res privatae che egli ha
soltanto per sé. La solidarietà o, meglio, l’identità di interesse della comunità e dell’individuo non avrebbe
potuto essere espressa più chiaramente di quanto avvenne nel processo romano con l’actio popularis:
l’attore, difendendo l’interesse del popolo, difende anche il proprio. Se si paragona il quadro offerto
dall’antica Roma […] con la cupa concezione dello stato prodotta dall’assolutismo moderno e dallo stato di
polizia nei popoli dell’Europa moderna; se si pensa alla separazione totale, anzi alla contrapposizione, nel
rapporto fra singolo e stato, si stupisce per la quasi incredibile diversità di aspetto che ha potuto assumere
il medesimo rapporto. Dovremo ancora soffrire a lungo delle conseguenze di ciò. […] La nostra scienza
moderna, invece dei singoli membri (in funzione dei quali esiste la persona giuridica; cioè invece dei
destinatari o dei soggetti dello scopo della persona giuridica), prende in considerazione la persona giuridica,
come se questo ente soltanto pensato, che non può né godere, né sentire, avesse un’esistenza autonoma”.
Uno stato così concepito non può che monopolizzare tutto quanto venga ritenuto pubblico, facendo
perdere le speranze riposte nell’azione popolare. Anche gli stessi sostenitori dell’azione popolare erano
coscienti delle difficoltà che questa avrebbe incontrato. Scialoja stesso afferma che “lo Stato moderno, così
come si è venuto formando per la sua storica evoluzione, deve considerarsi come qualche cosa di molto
diverso dallo Stato antico. Oggi esso costituisce una persona affatto distinta da quella dei singoli individui;
laddove in antico ogni cittadino poteva dirsi parte integrante dello Stato, e a ragione questo poteva
chiamarsi anche col nome di populus, nome che oggi non gli converrebbe punto”.

Ma questo non basta a spiegare il disinteresse per il tema in questione.

Il fatto è che la romanistica prevalente del 19 e 20 secolo, sotto l’influenza dominante delle categorie
Pandettistica e mommseniane ha sorretto la seguente costruzione: utilizzando spunti delle fonti, ma
ricollegandosi ad una fase dell’esperienza giuridica romana, quella imperiale, durante la quale si può
davvero cogliere una tendenza all’astrazione, alla separazione del populus dai cives, e durante la quale
“L’idea di Stato si va sempre più distaccando da quella della collettività” e il ruolo del civis sempre più si va
ridimensionando come nella tutela delle res in usu publico. Per tale indirizzo di studi, l’azione popolare, che
è espressione dell’organizzazione pubblica dell’età repubblicana, che ha nel populus il punto di riferimento
o il centro di imputazione massimo e che è espressione altresì dell’identità di interesse della comunità e
dell’individuo, oltre che di un ruolo del civis di partecipazione e di controllo in relazione a momenti salienti
dell’amministrazione della res publica. Per questo indirizzo, l’azione popolare non poteva che rimanere
nell’ombra.

Seconda possibile ragione che spiega il silenzio al riguardo -> 2) ragione che si ricerca anche nella
pandettistica. Corrente di studiosi che ha avuto una influenza dominante sui nostri studi. Lo conferma
Orestano il quale afferma che: nonostante la Pandettistica abbia dato luogo ad una formazione dottrina ria
sui generis, la quale assunse con il tempo una propria autonoma connotazione di oggetto, di funzioni e di
sorti, tuttavia per lungo tempo è stata considerata “una delle interpretazioni più alte e genuine del diritto
romano dei Romani”. Al punto che per i non tecnici, Pandettistica e diritto romano si identificano o quasi.
Anche perché molti schemi entro cui la romanistica è stata solita ordinare i dati delle fonti romane, sono di
provenienza pandettistica.

Il problema sta nel fatto che la Pandettistica seleziona e forza le fonti romane raccolte nel Corpus IURIS per
servire le esigenze del tempo. Un autore, nelle sue pandette, ha criticato i seguaci della Scuola storica,
affermando: “ di non aver sempre distinta coscienza di ciò che per noi [cioè i pandettisti] la questione
ultima non è di come il diritto romano sia stato in un’epoca qualunque, ma come possiamo attualmente
applicarlo”. Precisando poi “… rispetto al diritto romano, come relativamente a tutta la cultura antica, la
nostra missione non è quella di rigettarlo ed esiliarlo, ma piuttosto invece quella di accoglierlo nel nostro
spirito, è con un’intima elaborazione, reiette le parti eterogenee e non assimilabili, farne di un diritto
straniero il nostro proprio”. Il punto è che le azioni e gli interdetti popolari rientrano, di certo, in queste
parti eterogenee reiette. E la Pandettistica procede al loro smantellamento.

Emblematiche le posizioni di Gluck, Dernburg e Windscheid. Il primo, a proposito della tutela dell’usus delle
res publicae, prima rileva come a Roma si sia sentito il bisogno di non lasciare alle sole autorità la tutela
dell’usus publicus, e si siano perciò creati una serie di interdetti popolari “per mezzo dei quali ogni
cittadino, anche quando non vi fosse punto interessato personalmente, poteva vietare un atto che
minacciasse di recare impedimento all'uso pubblico o far ordinare la revoca di un tale atto già avvenuto”.
Precisando che “oggidi la cura dell’uso pubblico e la sua tutela d’ufficio spetta alle autorità amministrative
dello Stato e del Comune”, grazie a norme che non sono “solo le numerose leggi generali che regolano negli
Stati moderni la viabilità e il regime delle acque pubbliche, ma anche i regolamenti di polizia locale”, e che
inoltre, “in misura assai più estesa che presso i Romani, la repressione di atti che minacciano o impediscono
l’uso pubblico” avviene “mediante il procedimento penale…” Infine, “ciò posto, si spiega come teoria e
pratica ammettano ancora l’applicazione di interdetti popolari a tutela dell’usus publicus solo fintantoche
essi tutelino l’interesse che vi ha l’attore, cioè solo in quanto non siano popolari”. Cancella pure l’operis
novi nuntiatio publici iuris tuendi gratia, ammettendo al suo punto l’operis novi nuntiatio iuris nostri
conservandi causa, in base al ragionamento secondo cui “poiché gli antichi interdetti popolari non servono
più alla tutela dell’uso pubblico come tale, ma solo alla tutela della parte di diritto che dell’uso pubblico
spetta ad un individuo. Verrebbe da affermare che è avvenuta una privatizzazione della popolarità, o una
traduzione in termini individualistici della popolarità. Come se si affermasse la negazione della popolarità
dei romani.

Dernburg, afferma “I romani conoscevano ancora delle actiones populares… ed interdicta popularia, coi
quali parimenti ogni cittadino poteva salvaguardare i pubblici interessi. Essi non sono stati recepiti. Secondo
il diritto odierno può ordinariamente agire soltanto colui che abbia un interesse proprio alla causa”.

Windscheid, a proposito della fattispecie del deiectum vel effusum, si limita a poche battute per escludere
l’uso attuale dell’azione popolare. “L’odierna applicazione di questa azione è esclusa non solamente dalla
sua natura popolare ma anche dal Codice penale germanico”.

In questo quadro non vi è spazio per l’azione popolare e nemmeno per gli interdetti popolari romani. Si
coglie nettamente l’alternativa fra tutela privata, dell’individuo, e tutela pubblica, dello Stato. Cosi la
romanistica dimentica le azioni e gli interdetti popolari.

Dalla vicenda storiografica alla ricostruzione del regime delle res in usu publico.

Esiste una connessione fra la vicenda storiografica sin qui descritta e le usuali ricostruzioni del regime delle
res publicae. Nel senso che la scarsa considerazione delle azioni e degli interdetti popolari ha di fatto
impedito di porre pienamente in luce il ruolo svolto dal cittadino nella tutela delle res in usu publico.
L’attenzione si è concentrata più sui criteri di imputazione e sui profili definitori che sul regime delle res
publicae e sulla loro tutela. In questo modo, alcune classificazioni sono risultate fondate più sui nomi che
sulla sostanza, cioè sulla differente disciplina giuridica.

Anche chi inserisce la trattazione delle res publicae in un quadro dell’organizzazione pubblica romana,
sgombro dalle categorie di persona giuridica e di Stato, è contraddistinto, in età repubblicana, dalla
presenza del Populus Romanus, inteso nella sua concretezza di comunità organizzata, come “centro di
imputazione massimo” dell’organizzazione stessa, e in età imperiale dalla sostituzione (progressiva) del
populus stesso con il princeps, inteso come persona fisica, nel tracciare poi le linee del regime delle res in
usu publico evidenzia l’esistenza, sin ab antiquo, di “apparati amministrativi con il compito di regolare l’uso
di tali cose, di curarne la conservazione e manutenzione materiale, di assicurarne la protezione giuridica
ecc.” e non fa parola del ruolo svolto dal civis nella tutela delle res in questione.

Invece è proprio il cittadino a caratterizzare, con intensità e forme differenti nelle diverse età
dell’esperienza giuridica romana, il regime delle res in usu publico. A Differenziarlo da quello delle altre res
publicae. Ma per una simile realtà è necessario riprendere in considerazione gli interdetti popolari,
strumento di tutela delle res in usu publico, attraverso il quale il civis può svolgere, con grande efficacia, il
ruolo in questione.
Interdetti popolari e categoria delle res in usu publico

A quali res publicae, gli interdetti fanno riferimento? Per rispondere basta un inventario delle res. Partendo
da una testimonianza di Ulpiano. Si Tratta di D. 43.1.1 Pr -> è il frammento i cui il giurista procede alle varie
classificazioni degli interdetti. Fra le altre, evidenzia quella degli interdicta publica: “de locis publicis, de viis
deque fluminibus publicis”. Ulpiano definisce pubblici l’interdetto a tutela dei loca publica, oltre che gli
interdetti a tutela delle vie e dei fiumi pubblici. Ora, non vi è dubbio che gli interdetti a tutela delle vie
pubbliche e dei fiumi pubblici siano popolari, è da più parti contestata la popolarità dell’interdetto de locis
publicis. Ciò in base ai “verba edicti” riportati da Ulpiano stesso: “Non costruire o immettere nulla in un
luogo pubblico, da cui a taluno derivi un qualche danno, salvo che ti sia concesso da una legge, da un
senatoconsulto, da un editto o da un decreto dei principi”. E precisamente in base all’inciso che faceva
ritenere che l’interdetto in questione “era dato quando il facere de terzo … turbava il privato in un
commodum che questi godeva sul luogo pubblico della città” e non invece a tutela dell’uso comune dei loca
publica.

In effetti, il dato testuale costituisce un elemento importante a sostegno della tesi della non popolarità. Ma
vi è una serie di argomenti che fa propendere per una diversa soluzione ->

1) in primo luogo vi è la testimonianza ulpianea da cui siamo partiti. Da questa si ricava l’esistenza di
un interdetto popolare de locis publicis. Ed il fatto che tale interdetto sia richiamato assieme a
quelli de viis e de fluminibus publicis, sicuramente popolari, non fa che rafforzare in tal senso il
valore della presente testimonianza
2) Sembra poi fare riferimento ad un interdetto popolare di vasta portata, il giurista Pomponio: “A
chiunque deve essere permesso chiedere che sia riconosciuto pubblico ciò che attiene all’uso di
tutti, come le vie pubbliche, i passaggi pubblici”. Non si può dire, poi, che il fatto che i loca publica
non siano espressamente richiamati sia motivo per escluderli dall’ambito di applicazione. Ciò sia
perché i Loca che sono destinati al pubblico uso, rientrano nella generale previsione del testo, sia
perché il richiamo a viae publicae ed itinera publica è chiaramente esemplificativo
3) Ancora, in commento all’interdetto “de locis publicis” Ulpiano afferma: “Se qualcuno abbia
edificato su un suolo pubblico senza che alcuno glielo proibisse, non deve essere costretto a
rimuoverlo, affinché la città non venga deformata dalle macerie, e poiché l’interdetto è proibitorio,
non restitutorio. Se tuttavia quell’edificio impedisca l’uso pubblico, senza dubbio colui che è
preposto alle opere pubbliche dovrà rimuoverlo, o se non lo impedisca (dovrà) imporgli un’imposta
fondiaria”. Un simile commento non può che riferirsi ad un interdetto proibitorio a tutela dell’uso
comune dei loca publica. Si discute infatti di un opera che impedisce un uso publico, non di
un’opera che impedisce un commondum di un determinato privato, che si trova in una particolare
posizione rispetto all’opera.
4) Ulpiano afferma ancora : “Questo interdetto è proibitorio e per suo mezzo si provvede tanto alle
utilità pubbliche quanto a quelle dei privati. I luoghi pubblici, infatti, servono in ogni caso agli usi dei
privati, per diritto di cittadinanza, non già come se appartenesse a ciascuno, ed abbiamo tanto
diritto ad ottenere quanto qualsiasi membro del popolo ha di proibire”. Il tenore del commento
sembra consono ad un interdetto a tutela dell’uso comune e non ad un interdetto a tutela di un
commodum. In tal senso, appare importante il fatto che si dica che i privati hanno l’uso dei loca
publica, iure civitatis, cioè in quanto cives; ed il riferimento al quilibet ex populo. Ecco, sulla base di
tali argomenti si può dare una soluzione positiva al quesito se esista un interdetto popolare de locis
publicis. Potrebbe essere l’interdetto riportato da Ulpiano o da Pomponio, ciò che è certo è che
nelle fonti sono rimasti i segni della presenza, nell’esperienza giuridica romana, di un interdetto
popolare a tutela dei loca in usu publico.
Per completare il quadro non resta che l’interdetto restitutorio a tutela delle cloache pubbliche, riportato
da Ulpiano in D. 43. 23.1.15, dal cui testo si suole trarre lo spunto per sostenere l’esistenza anche di un
corrispondente interdetto proibitorio. Dunque, ecco, le res publicae coperte dalla tutela interdittale a
legittimazione popolare:

-i loca “quale publico usui destinata sunt” che secondo la definizione di Labeone ricomprenderebbero
“area, insulas, agros, via, publica itineraque publica”.

- le viae publicae – senza distinguere tra rustica ed urbicae. Per le quali vengono introdotti due
interdetti specifici. Uno proibitorio: “Vieto di fare (o) di immettere alcunché in una via o in un passaggio
pubblico, per cui quella via o quel passaggio sia (o) diventi peggiore”. Ed uno restitutorio: “Ciò che hai
fatto (o) immesso in una via o in un passaggio pubblico, per cui quella o via o quel passaggio sia (o)
diventi peggiore riducilo in pristino”.

-flumina publica e le relative rive – per i quali sono previsti due coppie di interdetti popolari e
precisamente 1) prima coppia costituita da un interdetto proibitorio, riportato da Ulpiano in D. 43.12.1
pr. Con la formula “Non fare alcunché in un fiume pubblico o sulla riva di questo e non immettere nulla
in un fiume pubblico o sulla riva onde la sosta o il passaggio per l’imbarcazione sia (o) diventi più
difficoltoso”. E dal corrispondente interdetto restitutorio volto alla riduzione in pristino Nell’ipotesi che
il facere o l’immettere si sia tradotto, rispettivamente, in un factum o in un immissum. 2) La seconda
coppia è costituita da un interdetto proibitorio volto ad impedire comunque l’alterazione del corso
d’acqua, riportato sempre da Ulpiano in D.43.13.1 pr, e dal corrispondente restitutorio.

- le cloache pubbliche, alla cui tutela interdittale, a legittimazione popolare, si è già accennato.

Si tratta tutte di res publicae che si caratterizzano per la funzione, per il fatto di essere tutte destinate
all’uso pubblico, alla fruizione dei cives. Ciò viene affermato, esplicitamente, dalle fonti. Significative sono
due testimonianze. La prima di Pomponio, in D. 43.7.1, che sembra fare riferimento ad un vero e proprio
interdetto di vasta portata. La seconda di Ulpiano in D. 39.2.24 pr, che riguarda oltre le viae publicae, i
flumina publica ed i litora e che si rivela importante pure per il limite che segna nell’uso di tali Res:
“Comune è l'uso dei fiumi pubblici come delle vie pubbliche e dei lidi. In questi è dunque pubblicamente
lecito a chiunque edificare e demolire, purché tuttavia ciò avvenga senza svantaggio di qualcuno”.

Ora le Res publicae che presentano una simile caratteristica sono la categoria delle “Res in usu publico”.
Categoria che risulta individuata da alcune fonti note. Cosi da Celso figlio, che secondo Pomponio, al fine di
identificare i loca publica quorum commerciu non sit, distingue i loca in publico usu da quelli in pecunia
populi. Da Ulpiano, che limita l’applicazione dell’interdetto de locis ublicis ai loca quae publico usui
destinata sunt. Da papiniano che parla di res in usu publcio, in contrapposizione alle res in patrimonio fisci.

Quindi si può dire che gli interdetti popolari sono introdotti in relazione alle res publicae, che, destinate
all’uso comune (che coincide con l’uso pubblico) vengono dai giuristi classificate come res in usu publico. E
di tali Res gli interdetti popolari caratterizzano il regime, differenziando dalle altre res publicae.

Vi sono casi in cui le res sono di difficile qualificazione e delimitazione. Cioè quelle res come il mare, il lido
del mare che sono oggetto di discussione fra i giuristi romani sia per quanto attiene alla loro qualificazione
giuridica, sia per quanto riguarda le forme di tutela previste in caso di impedimento dell’uso del mare o del
lido. Ma l’esistenza di questi casi non sposta i termini del discorso. Cioè che gli interdetti popolari
caratterizzano il regime delle res in usu publico e lo differenziano da quello delle altre res publicae. Ma
affermare ciò, vuol dire anche dire che il regime delle res in usu publico si contraddistingue per il ruolo
attivo, di potere e responsabilità, svolto dal cittadino in quanto tale nella tutela delle res stesse.

Il ruolo del cittadino nella tutela delle res in usu publico. Il modello repubblicano ed il modello imperialeh
Fino adesso i diversi periodi dell’esperienza giuridica romana non sono stati distinti tra loro. Ora bisogna
chiarire se si può parlare di modello o di più modelli di tutela delle res in questione, tracciando le grandi
linee. Nelle fonti relative agli interdetti che riguardano le res in usu publico si rinvengono i segni di una
stratificazione.

Iniziando dall’interdetto proibitorio de locis publicis -> Ulpiano riporta il testo dell’interdetto recante l’inciso
“qua ex re quid illi damni detur”. Inciso il quale ha indotto taluni a ritenere l’interdetto non popolare, non
potendo tutelare l’uso comune dei loca publica, ma soltanto l’uso differenziato. Ma si è rilevato come lo
stesso Ulpiano, in sede di commento all’interdetto de quo, sembri invece far riferimento ad un interdetto a
protezione dell’uso comune dei loca publica e come in altro luogo, precisamente in D. 43.1.1 pr, parli
espressamente di un interdetto popolare de locis publicis. Allo stesso modo Pomponio sembra riferirsi ad
un interdetto popolare onnicomprensivo de locis publicis. Tutti indizi concordanti a favore di uno
svolgimento a più fasi -> un interdetto popolare di vasta portata prima. Poi lo scorporo delle via publicae,
con la creazione di due interdetti specifici. Infine la delimitazione dell’interdetto proibitorio de locis publicis
agli usi differenziati; con il venir meno della popolarità. Anche in materia di flumina publica si può rilevare
qualcosa di simile. Il discorso riguarda solo l’interdetto proibitorio e quello restitutorio. Qui, nei rispettivi
testi edittali tramandati da Ulpiano, non si rinviene alcun elemento che possa porre in dubbio il fatto che i
due interdetti mirino a tutelare l’uso comune dei fiumi pubblici. Mentre, in sede di commento, lo stesso
Ulpiano, da un lato afferma che “Hoc interdictum cuivis ex populo competit” è dall’altro sottolinea che
occorre l’Incommodum accolentium per accordare gli interdetti in esame con tale ultimo richiamo,
l’oggetto della tutela interdittale all’uso differenziato.

Venendo alle cloache pubbliche -> Ulpiano, dopo aver riportato il testo dell’interdetto proibitorio e dopo
averne esplicitato la ratio, così commenta : “Questo interdetto, invece, è stato proposto riguardo alle
cloache private: le cloache pubbliche meritano infatti una cura pubblica”. A questo punto non ci si
aspetterebbe un interdetto popolare, de cloacis publicis. Ed invece, in chiusura del frammento ulpianeo,
troviamo questo: “Rimuovi ciò che hai fatto in una cloaca pubblica o in quella hai immesso in modo che
l’uso sia o divenga deteriore. Parimenti proibirò che vi venga fatto o immesso alcunché nella cloaca, onde
l’uso sia o divenga peggiore”. Il testo, quindi, parla di un interdetto restitutorio, a legittimazione popolare, a
tutela dell’usus publicus delle cloache, e un cenno all’esistenza pure del suo corrispondente proibitorio.
Anche qui vi sono i segni di una stratificazione. Prima la tutela attraverso l’interdetto popolare. Poi la cura
affidata ai magistrati.

Restano le viae publicae -> in un primo momento la loro tutela deve essere ricompresa nella previsione di
un interdetto di vasta portata de locis publicis. Ad un certo punto, si vengono a creare due interdetti
speciali. Orbene, nei relativi testi edittali, tramandati da Ulpiano si fa riferimento a viae publicae e itinera
publica. Lasciandosi intendere che la previsione interdittale non soffra di limitazione alcuna. E alla via
publica, senza nessuna ulteriore specificazione che possa comportare una restrizione, si riferisce Labeone
prospettando il caso “Si quis cloaca in viam publica immitteret exque ea re minus habilis via per cloaca fiat”.
Ma anche qui emerge con chiarezza dalle fonti il segno del mutamento, che comporta un forte
ridimensionamento della popolarità. In commento al primo dei due interdetti, quello proibitorio, Ulpiano,
dopo aver operato una classificazione delle viae, fissa così l’ambito di applicazione: “Questo interdetto
riguarda soltanto le vie rustiche, non quelle urbane: la cura di queste attiene infatti ai magistrati. Se il
passaggio di una via pubblica sia stato tolto o la via (sia stata) ristretta intervengono i magistrati”. Ulpiano,
quindi riduce la sfera di applicazione di tale interdetto, e di conseguenza di quello restitutorio, alle sole vie
extraurbane. Mentre in relazione alle vie urbane: interveniunt magistratus.

Quindi le fila del discorso sono che -> in tutti i casi esaminati sembra cogliersi una tendenza, che si può
sintetizzare in: da più legittimazione popolare a meno. Il che vuol dire riduzione del campo d’azione del
cittadino nella tutela delle res in usu publico. Una tendenza che si realizza in forme diverse.
Per i loca in usu publico, i fiumi e le rive (interdetti contro ogni alterazione del corso d’acqua) si passa da
una tutela dell’uso comune ad una tutela dell’uso differenziato, con il conseguente venir meno della
legittimazione popolare. Per le cloache pubbliche non si può dire se la tutela in via interdittale sia con
L’intervento dei magistrati preposti, venuta meno. Infine, per le viae publicae, la tutela interdittale a
legittimazione popolare vede restringersi l’ambito di applicazione.

Il cittadino continua ad esercitare il suo ruolo, attraverso i due interdetti, ma limitatamente alle vie
extraurbane. Le vie urbane vengono affidate alla cura dei magistrati.

Qui si intravedono le linee di due modelli di tutela delle res in usu publico. Il primo modello (1) si
caratterizza per la tutela interdittale, a legittimazione popolare. Il cittadino ha buona parte della
responsabilità della tutela di tale categorie di res, che realizza con lo strumento degli interdetti popolari.
Questo modello esprime l’età repubblicana. Si armonizza con l’organizzazione pubblica di questa età, che
vede il populus romanus come il centro di imputazione massimo e che “in esso si puntualizza e con esso si
identifica: un centro di imputazione nel quale avviene la unificazione di molteplici fasci di relazioni
giuridiche che da essi si dipartono e che in esso convergono”. Ed è connesso con la concezione di populus
Romanus, come pluralità di cittadini, non come una persona, un’entità astratta, distinta dai cives che la
compongono. Il fatto che il cittadino, qui, sia protagonista della tutela delle res in usu publico, non vuol dire
che sia l’unico. Il compito di provvedere a queste res è affidato anche a magistrati aventi già altri compiti di
più vasta portata. A poco a poco, alla fine degli ultimi anni della repubblica, si creano apposite magistrature
minori o si affidano specifici incarichi personali. Questo modello repubblicano presenta una sorta di
concorrenza-competizione fra il cittadino in quanto tale e i magistrati volta a volta competenti.

La situazione muta, al passaggio dalla Repubblicana all’Impero. La posizione del populus viene capovolta,
viene trasformata da protagonista a mera comparsa, così che si sposta l’asse attorno a cui ruotava tutto il
sistema repubblicano delle imputazione di natura “pubblicistica” dal populus al princeps o a particolari
figure dell’organizzazione amministrativa imperiale. Qui si moltiplica il numero dei curatores, con
competenza specifica sulle diverse res in usu publico. Si va ridimensionando l’ambito di applicazione degli
interdetti popolari, così come si evidenzia dalle testimonianze dei giuristi. Lo spazio del cittadino, in tali
tutele, si riduce. Al modello repubblicano si sostituisce un modello imperiale (2). Nell’ambito del quale
attraverso un passaggio dai plures cives (populus) all’unus (imperatore) ed un mutamento nello stesso
significato di publicus, ai magistrati e ai funzionari imperiali viene ormai riservata la cura della gran parte
delle res in usu publico, mentre al civis viene ancora mantenuto un ruolo attivo, ma limitatamente ad
alcune res in usu publico. Il cittadino conserva l’usus ma perde il potere. A questo filone si ricollegheranno
le moderne concezioni di bene pubblico, costruite secondo lo schema proprietà individuale dello Stato-
persona giuridica.

Destinazione all’uso pubblico e beni comuni nella giurisprudenza ordinaria dell’Italia Unita (da Villa
Borghese alle Valli da Pesca Veneziane)

Le sentenze delle sezioni unite civile della Cassazione del 2011 su le Valli da Pesca della laguna di Venezia
come beni comuni

Rodotà si esprime così dicendo: “ si può dire che il 2011 sia stato l’anno dei beni comuni”. Rodotà è uno dei
massimi esponenti dell’attuale dibattito sul tema. Tale frase è confermata grazie ad una serie di sentenze
delle sezioni unite civile della Cassazione, di uguale motivazione. Depositate tra il 14 e il 18 febbraio, con le
quali la Suprema Corte ha definitivamente chiuso la nota vicenda giuridica delle Valli da Pesca della laguna
di Venezia, confermandone la natura demaniale accertata dalla Corte di Appello territoriale, ma
aggiungendo alla motivazione di stampo tradizionale della Corte veneziana una nuova ratio decidendi
incentrata sulla nozione di bene comune, come bene “strumentalmente collegato alla realizzazione degli
interessi di tutti i cittadini”, a prescindere dalla proprietà pubblica o privata del bene. Una nozione che fa
leva sulla funzione che un bene deve svolgere nella società, sulla sua idoneità a realizzare gli interessi dei
cittadini, cioè sulla sua destinazione all’uso collettivo.

La Corte suprema ricava dal quadro costituzionale (art 2, 9 e 42 direttamente applicabili) “il principio della
tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell’ambito dello Stato sociale, anche
nell’ambito del paesaggio, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione
legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della proprietà dello Stato ma anche riguardi a
quei beni che, indipendentemente, da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro
intrinseca natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema
normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività”. La Corte
suprema quindi ragiona cercando una risposta alla domanda “a chi e a che servono i beni pubblici?”

La domanda nella quale Massimo Severo Giannini, compendiava il criterio per una classificazione dei beni
pubblici di natura sostanziale, e non formale come quella adottata dal codice. Il risultato è che è stata
individuata una categoria di beni comune che, indipendentemente dalla titolarità, ben potendo
appartenere tanto a soggetti pubblici quanto a soggetti privati, siano per le loro intrinseche connotazioni
(ambientali e paesaggistiche) destinati alla realizzazione degli interessi dei cittadini. È evidente il
riferimento alla nozione di beni comuni elaborata dalla Commissione Rodotà (Commissione istituita nel
2007 e conclusa nel febbraio del 2008), i cui risultati sono confluiti nella predisposizione di un Disegno di
legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblichi, che, pur senza esito
sul piano legislativo, ha (ri)dato vita ad un ricco dibattito sul tema.

Ma è pure evidente il quadro scientifico di riferimento nel quale si è mossa la Corte per il superamento
delle classificazioni codicistiche. Quel quadro a cui si è ricollegato anche la Commissione Rodotà. Si è
richiamato l’insegnamento di Massimo Severo Giannini nelle Lezioni su I beni pubblici tenute nell’anno
accademico 1962/63. Fondamentale, per la lettura dei principi costituzionali, l’opera di Sabino Cassese del
1969 su I beni pubblici. Circolazione e tutela. La raffinata ricostruzione storica di Paolo Grossi. Ed importanti
anche i contributi di Vincenzo Cerulli Irelli, a cominciare dal volume del 1983 su Proprietà pubblica e diritti
collettivi, per la costruzione dei diritti collettivi come categoria positiva.

Nell’inerzia del legislatore, sulla scia di tale pensiero, la Cassazione, dinnanzi al bivio se la giurisprudenza
possa o meno procedere, in via autonoma, ad una rilettura delle categorie esistenti, non ha esitato dunque
a scegliere la prima via. E lo ha fatto adottando una nozione di bene comune ispirata a quella elaborata
dalla Commissione Rodotà, e fondandola essenzialmente sui principi costituzionali contenuti negli art 2, 9 e
42, stante la loro diretta applicabilità.

Inoltre, non vi è dubbio che il nucleo essenziale della ratio decidendi è costituito dai ricordati principi
costituzionali. Ma la Corte fa riferimento anche ad una serie di norme di rango ordinario per evidenziare il
dato positivo della scindibilità fra proprietà pubblica del bene e destinazione dello stesso ad usi e finalità
pubbliche (della collettività). Prima fra tutte, l’art 825 c.c. Una norma che nella visione
individualstatualistico-proprietaria dei beni pubblici del codice del 42’, dispone che “sono parimenti
soggetti al regime del demanio pubblico, i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su
beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l’utilità di alcuni dei beni indicati
negli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui
servono i beni medesimi”. Ma che, grazie ad una giurisprudenza silenziosamente consolidatasi, potrebbe
offrire spunti di riflessione per un riconoscimento in via giurisprudenziale di una legittimazione popolare
nella tutela dei beni oggetto delle sentenze in esame. Questa questione della legittimazione ad agire è
ritenuta giustamente centrale nel quadro della rielaborazione della disciplina dei beni pubblici, e di natura
non solamente tecnica, giacché connessa a temi chiave per la stessa idea di Stato, quali la cittadinanza e la
sovranità. Questione che la “Commissione Rodotà” aveva risolto, riconoscendo solo la tutela inibitoria a
chiunque possa fruire delle utilità dei beni comuni in quanto titolare del corrispondente diritto soggettivo
alla loro fruizione, ma che le Sezioni Unite non potevano prendere in considerazione, essendo fuori dal
perimetro della controversia. Questione quindi che resta aperta.

I beni destinati all’uso pubblico nella storia della giurisprudenza ordinaria dell’Italia Unita

Al fondo delle motivazioni che la Corte segue per il riconoscimento normativo dei beni comuni, nelle
sentenze del 2011, sta l’indicazione della funzione e della idoneità a realizzare gli interessi della collettività
a prescindere dall’appartenenza a soggetti pubblici o privati (come criteri di individuazione di tale categoria
di beni). In queste sentenze, è la destinazione all’uso pubblico, l’elemento qualificante della nozione di
bene comune. Se è così, allora bisogna riconoscere che i beni destinati all’uso pubblico (cominciando da
quelli appartenenti a soggetti privati) sono stati al centro di una storia giurisprudenziale che attraversa
quella dell’Italia unita, risalendo al 1887, alla celebre sentenza della Cassazione di Roma sull’uso pubblico
della Villa Borghese. Una storia fatta di innumerevoli pronunce che hanno lasciato il segno di un
orientamento che, nei tratti essenziali, presenta una significativa uniformità nonostante due codici civili e
profondi mutamenti di assetto e di principi costituzionali. Una storia che parte dalla sentenza della
Cassazione romana del 1887 e che conosce, a cavallo dei secoli decimo nono e ventesimo, un primo
50ennio di sentenze che direttamente o indirettamente fanno riferimento a quel precedente. Una storia
che prosegue attraverso un secondo periodo, che va dal nuovo codice civile e arriva fino ad oggi.
Caratterizzato questo, da pronunce riguardanti i diritti demaniali su beni altrui previsti dalla seconda parte
del ricordato art 825 c.c. Il terzo momento riguarda l’attualità, alle sentenze delle sezioni unite civili da cui
siamo partiti.

Primo periodo: punto di partenza è il riconoscimento dello ius deambulandi su la Villa dei Principi Borghese
(9 marzo 1887)

Sentenza di Cassazione che segna l’inizio di questa storia. Sono anni di vivo dibattito sul tema dei beni
pubblici e sulle questioni, intimamente connesse, della costruzione dello Stato e della legittimazione
popolare.

Nel 1879, esce l’opera di Meucci, “Istituzioni di diritto amministrativo”. Un’opera fortunata in cui l’autore
pone, come questione dominante della materia dei beni pubblici, la domanda (oggi tornata al centro del
dibattito) “chi è il vero soggetto della proprietà pubblica? È lo stato gerarchico? È il popolo o la collettività?
Sono i singoli?”. Giungendo alla conclusione che il proprietario è lo Stato, in senso plurale, come popolo
organizzato, e che i cittadini, ciascuno, sono titolari del diritto di uso dei beni stessi.

Nel 1881, Scialoja, già importante attore della scienza giuridica italiana, pubblica sul Foro italiano un saggio
nel quale non manca di fare una notazione critica in ordine al concetto di Stato che si andava definendo
(affrontando la questione se si possa parlare di proprietà dello Stato sulle cose facenti parte del pubblico
demanio e giungendo alla conclusione positiva): “Lo stato moderno è un ente oggi molto più distinto dai
suoi componenti, che non fosse lo Stato antico: anzi troppo distinto a parer mio”. Un anno dopo, lo stesso,
si occupa delle Azioni popolare di Bruns, ritenendo la legittimazione popolare utile “a destar la coscienza
giuridica del cittadino, a fargli sentire una unione più intima tra la propria persona e lo Stato”. Scialoja,
sempre nelle traduzioni dell’opera di Bruns, con riferimento alle res publicae, ricostruisce le relazioni fra
cittadini e beni destinati all’uso pubblico in termini di diritti pubblici diffusi in tutti i membri della comunità,
evidenziando così la pienezza della posizione giuridica del cittadino rispetto a tali beni pubblici.

Nel 1884, Jhering sferra un duro attacco contro “la cupa concezione dello Stato prodotta dall’assolutismo
moderno e dallo Stato di polizia nei popoli dell’Europa moderna”, caratterizzata dalla “separazione totale”,
anzi dalla “contrapposizione, nel rapporto fra singolo e Stato”. E per sottolineare la profonda diversità fra
tale concezione e il quadro offerto dall’antica Roma, dove invece: “il romano sapeva che, come lo Stato non
è altro che i suoi cittadini, anche la gens, il municipium e la colonia non erano altro che i gentiles, i
munipices ed i coloni”, adduce come esempio importante proprio le res publicae, che il cittadino “ha in
comune con tutti gli altri, a differenza delle res privatae, che egli ha soltanto per se”, e la collegata actio
popularis, con la quale “l’attore difendendo l’interesse del popolo, difende anche il proprio”.

In questo contesto si inserisce la sentenza della Cassazione romana. Si tratta di un caso celebre per vari
motivi -> i contendenti: la famiglia dei principi Borghese, da una parte, il Comune di Roma, in
rappresentanza degli interessi di tutta la popolazione, dall’altra. La res oggetto del contendere è la Villa, con
i suoi giardini, laghi e fontane ameni e salubri, i suoi monumenti, opere architettoniche, luoghi di culto e
museo ricco di importanti opere d’arte. I collegi difensivi: avvocato Adriano Mari, avvocato dei Borghese. A
difesa del Comune di Roma, Lorenzo Meucci accompagnato da Mancini, uomo di stato oltre che giurista, cui
si deve una mirabile arringa, dinanzi al tribunale prima della discussione in Cassazione. Il collegio
giudicante: presieduto dal primo presidente, Giuseppe Miraglia, che assume la guida della Corte fino al
1891.

Fatto -> Il giudizio nasce dalla deliberazione del principe Borghese di chiudere i cancelli, dopo che per
espressa volontà del fondatore, il cardinale Scipione Borghese, la Villa era stata tenuta aperta in modo che
“potesse usufruirne il popolo di Roma”. Il comune di Roma esperisce l’azione di reintegrazione e, in via
subordinata, quella di manutenzione. Il pretore all’udienza del 1885, accoglie l’azione subordinata. Il
Tribunale civile di Roma, lo stesso anno, in riforma della sentenza di primo grado, accoglie l’azione
principale riproposta con appello incidentale dal Comune. La Cassazione di Roma chiude la controversia,
confermando la sentenza del tribunale.

Dinanzi alla Cassazione le questioni dal merito giungono distillate, quindi per comprendere il contenuto e la
natura del diritto controverso, occorre richiamare un passaggio della tesi difensiva di Meucci e Mancini,
pienamente vittoriosa in appello. Mancini, dinanzi al tribunale, per spiegare il contenuto (complesso) del
diritto del popolo di Roma afferma: “(questo diritto) non si limita al solo passaggio, ma comprende altresì il
libero godimento, qualunque libero e prolungato trattenimento e riposo nella Villa, la visita di qualunque
parte del vasto luogo di delizia, godimento salutare ed igienico, specialmente in certe stagioni dell’anno in
cui il clima di Roma suole divenire alla sanita infesto; comprende il diritto di cogliere fiori ed erbe, quelle
che almeno sono presso i viali, quello di udire la Messa in una cappella destinata al pubblico; il diritto
essenziali simo di accedere in determinati giorni nel Palazzo a visitare il Museo ricco d’insigni oggetti d’arte
e di antichità, aperto al pubblico nella medesima Villa”. Concludendo sulla natura di un simile diritto: “Ben
dissi dunque che siamo in presenza di un diritto ‘sui generis’ di uso pubblico sopra un altrui immobile, vasto
e magnifico, appartenente al dominio di un privato […] con destinazione e scopo perciò non semplicemente
‘delectationis causa’, il che pure basterebbe, ma per apportare un doppio benefizio: alla salute degli
abitanti, alla loro istruzione”.

È questo il diritto di uso pubblico che entra nel processo e di cui il Comune di Roma chiede ed ottiene il
riconoscimento. La Corte sintetizza tale diritto nella formula di ius deambulandi. Affermando poi “qui non è
quistione di trovare un nome o il tipo già prestabilito di un diritto, ma di trovare un principio, un sistema di
legislazione che l’implichi, e che per ciò stesso l’ammetta”.

Tracciata la motivazione, la Corte passa alla ricerca del principio -> definendo che il principio che definisce
la lite nel diritto romano non c’è, “ vi è solo il germe […] l’uso pubblico vi si svolse, ma in una delle sue
forme, quale della conversione della privata in pubblica proprietà con uso dei cittadini; il diritto moderno e
mosso da questa tradizione classica per giungere all’altra forma evolutiva della proprietà privata sottoposta
ad un uso pubblico, cioè alla coesistenza dei due diritti, per la quale è divenuta possibile su quella privata la
esistenza dell’uso pubblico stesso”. La Corte continua poi, affermando che però nel sistema legislativo
vigente, il principio c’è. È riconosciuto nel codice in vari articoli (553 – servitù privata e di pubblica utilità e
554 – diritto di uso pubblico o servitù pubblica su fondo privato), ed ancora più largamente nella
legislazione speciale. Il principale riferimento, è alla legge 28 giugno 1871, con cui, estendendosi alla
provincia romana la legge transitoria sull’abolizione dei fedecommessi, si stabiliva che “i diritti che per
fondazione e per qualsivoglia altro diritto possano appartenere al pubblico, saranno mantenuti”. Diritti,
appartenenti al pubblico, che la Cassazione romana interpreta come “quelli di uso, acquisiti dai cittadini,
rispetto all’accesso nelle ville, nelle biblioteche, nelle gallerie, nei musei”. Cosi concludendo: “e nella Villa
Borghese è appunto anche un d’arte antica e moderna. Si direbbe che, per questa Italia, abbia dovuto
riconoscersi un uso pubblico speciale all’essere rimasta la terra sede dell’arte. Ed è appunto questa la
mente dell’art 3 della legge 1871 speciale”. Cosi trovato il principio che giustifica lo ius deambulandi, la
Corte può concludere confermando la sentenza del tribunale che aveva riconosciuto al popolo di Roma il
diritto di uso sulla Villa borghese.

La sentenza Mortara-d’Amelio delle sezioni unite della Cassazione romana del 14 aprile 1917 sulla disciplina
dei diritti di uso pubblico

Tale sentenza è degna di menzione, a 30 esatti dalla sentenza su Villa borghese. La controversia verte su
una presa d’acqua, che la popolazione del comune di Sennori, in Sardegna, vanta su un fondo privato, di
Antonio Veccia. Questa sentenza ha un significato giurisprudenziale importante di passaggio perché giunge
alle sezioni unite dopo che era già stata decisa una prima volta dalla Cassazione, perché il collegio
giudicante è, anche qui, autorevole, e per la soluzione data alla questione di diritto sottomessa.

Qui la categoria di diritti di uso pubblico non è messa in discussione. Anzi, si ribadisce come ius receptum,
che questi interessano intere popolazioni, sia per lato igienico, artistico, scientifico e sia, in generale, per
qualsiasi utilità che possa interessare il pubblico di una città, borgo o regione. E non è nemmeno in
discussione la classificazione di tali diritti, essendo considerati come diritti autonomi di natura particolare, il
cui regolamento appartiene in gran parte al diritto pubblico.

La questione di diritto riguarda un punto solo rilevante: se ai diritti di uso pubblico, si applichi in via
analogica, la disciplina delle servitù prediale prevista dal codice civile, l’art 630, relativo all’acquisto delle
servitù continue non apparenti e di quelle discontinue.

Le sezioni unite, ribaltando la prima decisione, rispondono negativamente al quesito, dicendo che le servitù
prediale dell’art 630 c.c. “nulla hanno di comune coi diritti d’uso pubblico”. In questo modo sottraggono i
diritti di uso pubblico all’applicazione analogica delle norme dettate dal codice civile per le servitù prediali.
E li collocano fuori della disciplina di tale codice, sul terreno degli usi osservati come diritto pubblico, cui fa
rinvio l’art 2 dello stesso.

Il riconoscimento dell’uso collettivo su i beni demaniali come “diritto assistito da azione” (Cass, sez II Cv, 4
luglio 1934, n 2722)

La giurisprudenza dopo la Sentenza Mortara-d’Amelio prosegue il suo indirizzo, precisando la disciplina dei
diritti di uso pubblico. In questo contesto, vengono segnalate una serie di decisioni della Sezione II civile
della Corte, oramai divenuta Corte di Cassazione del regno, pronunciate a cavallo tra la fine degli anni 20 e
gli inizi degli anni 30. Sono precisamente 7 le sentenze che affrontano il tema centrale e sensibile della
legittimazione ad agire. Decisioni in cui vi si afferma la legittimazione del singolo, titolare del diritto
soggettivo di uso pubblico. Dunque, la vera e propria legittimazione popolare che si ricollega all’azione
popolare del diritto romano all’età repubblicana; non a quella disciplinata dall’allora vigente legge
comunale e provinciale, che ne condiziona va l’esercizio all’apposita autorizzazione della Giunta Provinciale
Amministrativa.

Importante tra queste è la decisione della Corte del 4 luglio del 1934, che porta a compimento il percorso
avviato dalla Cassazione romana nel 1887. Importante perché non riguarda solo l’uso pubblico sui beni
privati, ma abbraccia anche l’uso collettivo sui beni demaniali.

Il quesito della controversia in grado d’appello era: “se proposta da un privato azione contro il Comune per
rivendicare la proprietà di un terreno che il Comune sostiene di uso pubblico, ed intervenuto nel giudizio un
cittadino dello stesso Comune, per sostenere in concorso con questo la destinazione ad uso pubblico di
detto terreno, possa poi il medesimo appellare avverso la sentenza che abbia all’uopo ammesso delle
prove, nonostante che il Comune vi abbia invece prestato acquiescenza”. Il giudice di Secondo grado aveva
risposto negativamente, con una motivazione il cui nucleo essenziale può essere racchiuso nel seguente
concetto: “un diritto dei singoli sulle cose demaniali e sui beni dei privati, soggetti ad uso pubblico, vi è; ma
è un diritto destituito d’azione, essendone demandata la tutela alla sola Pubblica Amministrazione”. Un
concetto che riposa sulla teoria, secondo la quale: “è escluso nei singoli un qualsiasi diritto subiettivo all’uso
comune sui beni demaniali, perché il diritto è del tutto, cioè dell’ente che deve tutelarlo contro ogni
usurpazione e perturbamento”. Ecco il problema: “perché il diritto è del tutto, cioè dell’ente che deve
tutelarlo contro ogni usurpazione e perturbamento”.

Qui si scorgono i riflessi di una disputa scientifica le cui posizioni si possono schematizzare e riassumere nei
seguenti termini: Stato-persona giuridica (unus) Vs Stato-Popolo (plures cives). Qui riecheggiano le
domande poste da Meucci anni prima, “Chi è il verro soggetto della proprietà pubblica? È lo stato gerarchi?
È il popolo o la collettività ? sono i singoli?” La cassazione opera una scelta, secondo l’interpretazione che
ha dato dell’art 2 del codice, dove afferma doversi rinvenire la disciplina della “materia dei diritti collettivi,
di varia natura”, comprendente nell’impostazione della Corte non solo l’uso pubblico sui beni privati, ma
anche l’uso collettivo sui beni demaniali.

L’art 2 del codice civile, inserito dal legislatore del 1865 nel Titolo primo, Della cittadinanza e del godimento
dei diritti civili, del Libro Delle persone del codice: “I comuni, le provincie, gli istituti pubblici civili od
ecclesiastici, ed in generale tutti i corpi morali legalmente riconosciuti, sono considerati come persone, e
godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”. L’incisiva notazione della
Corte afferma: “Di questi usi osservati come diritto pubblico in tale disposizione si parla precisamente in
rapporto al godimento (di cui è perfino incapace l’universalita, astrazione o ente) dei diritti civili assicurato
ai comuni, provincie e ai pubblici istituti in generale secondo le leggi e i detti usi”. Sono parole che non
lasciano adito a dubbi: l’universalita, astrazione, o ente è perfino incapace del godimento (dei diritti civili)”.
Fanno venire in mente quelle scagliate, nel 1884, da Jhering, uno dei più autorevoli sostenitori della linea di
pensiero accolta dalla Corte: “La nostra scienza moderna, invece dei singoli membri (in funzione dei quali
esiste la persona giuridica; cioè invece dei destinatari o dei soggetti dello scopo della persona giuridica,
come li chiamo io), prende in considerazione la persona giuridica, come se questo ente soltanto pensato,
che non può né godere, né sentire, avesse un’esistenza autonoma.

La corte, quindi, opera una chiara scelta di campo a favore di una configurazione concreta e plurale delle
persone contemplate nell’art 2 del codice. Coerentemente con il percorso giurisprudenziale avviato dalla
Cassazione romana nel 1887. E anche nel rispetto del legislatore del 1865, che usando l’espressione “I
comuni, le provincie [etc] sono considerati come persone”, non identifica ma assimila detti enti alle
persone, sottolineandone la natura ficta.

Così la Corte può affermare: “la natura giuridica dell’uso collettivo sui beni demaniali od anche dei privati,
ove siano soggetti ad uso pubblico, è quello di un diritto veramente tale, ma sui generis, differente cioè dal
dominio o dalla servitù, sia personale (stante il perpetuarsi della collettività che ne gode) sia reale ( a causa
della mancanza di un fondo dominante), anzi differente da ogni ragione di diritto privato e che ai cittadini
compete, in quanto tali, ma ‘jure publico civitatis’”. E sulla base dell’interpretazione dell’art 2 del codice,
può respingere L’affermazione, formulata dal giudice di secondo grado, considerandola inesatta, “che
riguardo agli usi di natura collettiva manchi la norma che tuteli l’interesse particolare si dà farlo assurgere a
diritto assistito da azione”, ribadendo che questi diritti trovano la disciplina “oltre che nell’antica tradizione,
negli usi osservati come diritto pubblico dei quale è cenno nell’art 2 dello stesso codice”. La Corte ora
sviluppa tali principi -> qualifica come diritto, munito di azione, l’uso collettivo (o comune) sui beni
demaniali, ponendo lo sullo stesso piano dei diritto di uso pubblico sui beni privati.
La chiusura degli anni quaranta-cinquanta: il nuovo codice civile e il culto del dogma della persona giuridica

L’entrata in vigore del nuovo codice civile e l’indirizzo dominante assunto dalla giuspubblicistica in relazione
ai temi della configurazione della persona giuridica e della proprietà pubblica spezzano questo percorso.
Temi che sono veri e propri nodi della scienza giuridica pubblicistica e privatistica.

Il nuovo codice adotta una classificazione dei beni pubblici meramente formale basata sull’elemento
soggettivo dell’appartenenza. Non viene dato nessun rilievo alla funzione del bene, alla sua destinazione
all’uso pubblico. Sul piano della tutela la chiusura è netta, salvo l’art 1145 c.c. (possesso di cose fuori
commercio). L’art 823, 2 comma, per i beni che fanno parte del demanio pubblico, dispone che la tutela
spetta all’autorità amministrativa. E l’art 824 estende lo stesso regime anche ai beni delle province e dei
comuni. Lo stesso art 825, riportato a proposito delle sentenze del 2011, mentre recepisce, nella sua
seconda parte, i diritti di uso pubblico su beni privati, creati dalla giurisprudenza, li qualifica però,
coerentemente con il nuovo codice, come “diritti demaniali su beni altrui”, sottoponendo al regime del
demanio pubblico, affidandone la tutela all’autorità amministrativa. Il dogma della persona giuridica, che in
tale periodo raggiunge il suo acme, soffocando le espressioni della sovranità e la costruzione della proprietà
privata e della proprietà pubblica secondo rigidi schemi individualistici fanno il resto. Nonostante la Carta
Costituzionale e l’uscita di opere scientifiche fondamentali, eretiche in quel periodo, ma che affermeranno
la loro forza soltanto dopo, costituendo poi la base del pensiero delle sentenze delle sezioni unite sui beni
comuni.

Esempio di questo passaggio è la sentenza della seconda sezione civile della Cassazione n 33 del 15 gennaio
1949, riguardante l’uso pubblico su di un’altra villa importante, Villa Lante in località Bagnaia, presso
Viterbo, e il pensiero del romanista-civilisti Pugliese, espresso in una densa Nota a tale sentenza. La
controversia riguarda i due codici.

La sentenza 1 grado è pronunciata dal Tribunale di Viterbo del 1937. Ma non tocca il tema della
legittimazione ad agire. Bensì avrà ad oggetto la nozione di pubblica utilità e le questioni dell’acquisto per
usucapione e dell’estinzione per non uso dei diritti di uso pubblico.

La Corte decide nel solco della tradizione giurisprudenziale in relazione ai temi dell’acquisto ed anche della
publica utilitas. Salvo qualificare, sulla scorta del nuovo art 825, tali diritti come demaniali, e per questo
negare l’estinzione per non uso e far dipendere la cessazione della demanialità da atti concludente
compiuti dall’ente pubblico attraverso i suoi organi.

Pugliese parte dalla contraddizione insita nella decisione commentata per sostenere la necessità di
affermare una costruzione giuridica coerente se appartengono cioè alla persona giuridica pubblica o alla
collettività non personificata. E interpreta l’oscillazione del momento, espressa nella sentenza, come il
segno di “una stratificazione storica, che risulta dal sovrapporsi della concezione più recente della persona
giuridica all’originaria considerazione della comunità come insieme di individui, in cui fossero da
riconoscere i veri titolari dei diritti attinenti alla comunità stessa”. Concludendo che è ammissibile solo la
soluzione della personificazione della collettività, e da questa discendono importanti corollari: “anzitutto le
servitù di uso pubblico vengono ad apparire diritti demaniali con le conseguenze inerenti; in secondo luogo
la legittimazione agli atti che importino acquisto, modificazione o estinzione di quelle servitù risulta limitata
all’ente e per esso ai suoi organi e deve essere negata pertanto alla collettività non personificata e agli
individui che la compongono. […] la volontà di costoro non può essere rilevante se non in sede di
formazione degli organi deliberativo ed esecutivi della persona giuridica, ammesso che questa abbia
struttura democratica. Una più ampia rilevanza di tale volontà sarebbe in contrasto con le esigenze a cui
vuol provvedere la personificazione”. Commento che ben riflette il culto della persona giuridica.

Da questo momento si apre un periodo, lungo e che arriva fino ai nostri giorni, durante il quale la
giurisprudenza ordinaria, per quel che riguarda l’uso collettivo o comune dei beni demaniali, abbandona
l’orientamento espresso dalla Cassazione nel ’34, in forza del quale l’uso collettivo sui beni demaniali
assurge a diritto assistito da azione, per allinearsi agli indirizzi dominanti, secondo cui la tutela spetta solo
all’autorità amministrativa, come detto dall’art 823, 2 comma, riducendo lo spazio ammesso dall’art 1145.

L’interesse della giurisprudenza ordinaria sui diritti di uso pubblico contemplati dall’art 825 c.c.

Ma la stessa giurisprudenza ordinaria, nonostante tutto, interpreta la norma art 825 c.c., in particolare la
seconda parte, continuando a ripetere i principi affermati anteriormente al codice civile del 1942,
mantenendo così accesa l’interesse su tali principi.

In tal modo, attraverso tutta la seconda metà del secolo scorso, e fino ad una decisione del 2011, si trova
ribadito che dal lato attivo dei diritti di uso pubblico (comunemente ed impropriamente chiamati servitù
pubbliche) vi è la pluralità dei cittadini, istituzionalmente organizzata; o addirittura una comunità di
persone, anche se non organizzata in ente pubblico territoriale, purché sia una collettività indeterminata di
individui, considerati non uti singuli ma uti cives, cioè titolari di interessi a carattere generale.

Viene ribadito che Il concetto di pubblica utilitas non corrisponde a quello di necessità, ma comprende ogni
vantaggio che la collettività possa ritrarre, anche di natura estetica, spirituale, salubrità e mero diletto.
Viene ribadito che è ammessa la costituzione del diritto per usucapione anche in difetto di qualsiasi
provvedimento dell’autorità amministrativa. Affermando anche che finalmente la legittimazione ad agire
spetta al titolare del diritto senza che ricorra Litisconsorzio necessario con il Comune o altro ente
rappresentativo della collettività -> questo è un principio che assume un particolare valore.

Questa è una giurisprudenza che, a differenza di quella a cavallo dei secoli 19 e 20, rimane nell’ombra. Non
vi sono casi celebri. Le controversie si concentrano su anonime vie vicinali. Ma anche le sentenze della
giurisprudenza precedente riguardavano res di poco valore e sconosciute. Infatti sentenza su Villa Borghese
ce n’è stata una. La differenza sta nel fatto che le sentenze dell’epoca prima erano segnalate per creatività.
Queste sentenze invece sono ripetitive di principi già creati. Inoltre le sentenze del periodo antecedente
ricevevano all’interno di un dibattito ancora aperto. Dibattito in cui la giurisprudenza assumerà una linea di
pensiero non a favore di quella dominante. Invece queste sentenze vengono pronunciate quando il
dibattito sulle grandi questioni si era spento, nel segno dominante del dogma della persona giuridica e della
costruzione della proprietà pubblica come proprietà individuale. E le attenzioni si spostano sulla questione
ambientale, sui diritti esistenziali.

La conseguenza è che le sentenze di questo periodo, che mantengono vivo l’interesse verso quei principi
già creati, passano quasi del tutto inosservate.

Ritorno ai beni comuni. Il nodo della tutela

Soltanto nei primi anni di questo secolo, si è visto tornare alla ribalta il tema della destinazione dei beni
all’uso pubblico o collettivo a prescindere dalla titolarità, con la formula dei beni comuni. Questo grazie
anche all’attenzione verso la persona.

Il passaggio ulteriore sarebbe affrontare la questione della legittimazione ad agire. Così da poter restituire
al cittadino-titolare dell’uso dei beni destinati all’uso collettivo, di tutti, anche dei beni pubblici, il potere di
azione a tutela degli stessi. Del resto, il tema della legittimazione ad agire appartiene alla nostra genuina
tradizione.

“Cuore di questa legittimazione deve essere la convinzione moralmente e giuridicamente fondata, che
l’ambiente, il paesaggio, il territorio (comunque definiti) sono n bene comune sul quale tutti abbiamo,
individualmente e collettivamente, non solo un passivo diritto di fruizione, ma un attivo diritto-dovere di
protezione e difesa” -> parole di Settis.
In attesa del legislatore, la via potrebbe essere quella segnata dalla giurisprudenza del 19 e 20 secolo, la
quale ha ancora ribadito “la servitù di uso pubblico è caratterizzata dall’utilizzazione, da parte di una
collettività indeterminata di persone, di un bene il quale sia idoneo al soddisfacimento di un interesse
collettivo; la legittimazione ad agire o a resistere in giudizio a tutela di tale diritto spetta non soltanto
all’ente territoriale che rappresenta la collettività ma anche a ciascun cittadino appartenente alla collettività
uti singulus’”. Tanto più ora che una legislazione molto criticata ha trasformato importanti beni pubblici
destinati all’uso pubblico in beni privati destinati all’uso pubblico.

Il pensiero di Scialoja sui beni demaniali di uso pubblico: fra proprietà dello Stato e Azione popolare (alla
ricerca di un difficile equilibrio)

Il 1881, anno chiave per Scialoja

È l’anno in cui ottiene la cattedra di diritto romano a Siena. L’anno della contestazione organizzata dagli
studenti senesi contro i suoi metodi d’insegnamento. Dopo la sospensione del suo corso, rientra grazie
all’intervento di Baccelli, ministro della pubblica istruzione. Dando l’occasione a Scialoja di mettere per
iscritto le sue idee sul metodo d’insegnamento del diritto romano, nella forma di una lettera aperta a
Filippo Serafini. Lettera che va oltre le questioni didattiche diventando un vero e proprio documento
programmatico della nuova scienza. Anno in cui si chiude il primo ciclo accademico di Scialoja.

Due scritti poco noti: sui beni demaniali d’uso pubblico e sull’azione popolare. Lettura combinata

Sono due scritti che appartengono a questo suo primo ciclo. Che se letti uno dopo l’altro, dimostrano la
forte tensione che alimentata il pensiero di Scialoja, alla ricerca di un difficile equilibrio fra la costruzione
dello Stato come persona giuridica (allora si stava compiendo, con relativa imputazione della proprietà dei
beni demaniali d’uso pubblico) e la partecipazione attiva responsabile, dei cittadini alla vita dello Stato
medesimo.

Le due opere sono: un saggio sotto forma di Nota ad una sentenza della Corte di appello di Catania,
sull’appartenenza allo stato dei ruderi del teatro greco della città etnea; un saggio sotto forma di prefazione
alla traduzione dell’opera di Bruns su Le azioni popolari romane.

Il terreno su cui opera è quello dei beni demaniali di uso pubblico. Terreno su cui verte una disputa
scientifica intorno alla questione “Chi è il vero soggetto della proprietà pubblica? è lo stato gerarchico? È il
popolo o la collettività ? sono i singoli?”, questione oggi tornata al centro del dibattito. Una disputa i cui
esiti peseranno fino ai nostri giorni.

Per la proprietà dello Stato sui beni demaniali d’uso pubblico

Nel primo lavoro, Scialoja pone la questione se, alla luce della legislazione vigente, possa ammetterai una
vera e propria proprietà dello Stato sui beni del pubblico demanio. Oppure se “con tali beni, lo Stato non
possa avere altro rapporto che quello derivante dalla sovranità e dalla custodia amministrativa”. Questione
posta con riferimento ai beni demaniali destinati all’uso pubblico. Rispetto a tale categoria dei beni, la
problematica dell’appartenenza risulta più acuta. Data la natura assorbente del diritto di uso dei cittadini su
tali beni. E maggiormente stride la negazione dell’appartenenza a coloro che ne hanno l’uso.

Scialoja, dopo aver esposto le diverse posizioni sulla questione, risalendo sin ai glossatori, si mostra
convinto assertore della tesi della proprietà. Vede gli ostacoli normativi al riconoscimento di tale tesi.
Specie nella formulazione dell’art 429 c.c., quando dispone che, in caso di cessazione della destinazione
all’uso, dispone che tutti i beni “che cessino di essere destinati all’uso pubblico ed alla difesa nazionale,
passano dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato”. Espressione in cui il termine “passano”, se
interpretato strettamente, potrebbe far credere ch, prima della cessione dell’uso pubblico, lo Stato non
avesse alcun rapporto patrimoniale con le cose demaniali. Ma Scialoja ritiene prevalenti gli argomenti a
favore della tesi della proprietà dello Stato, i quali si possono ricavare dalla legislazione speciale (sulle opere
pubbliche del 1865, in cui l’art 22 allegato F dispone: il suolo delle strade nazionali è proprietà dello Stato,
quello delle strade provinciali appartiene alle province, ed è proprietà dei comuni il suolo delle strade
comunali). Una volta scelti gli argomenti normativi, Scialoja analizza le problematiche  1) connessione fra
la tesi della proprietà e l’evoluzione dello Stato che si andava compiendo. “È forse contrario alla nostra
opinione il concetto moderno dello Stato?”. La risposta data a questa questione da Scialoja coglie il nesso
fra la configurazione dello Stato come persona giuridica e la virata della proprietà pubblica verso gli schemi
individuali della proprietà privata: “Non credo. Lo stato moderno è un ente oggi molto più distinto dai suoi
componenti che non fosse lo Stato antico: anzi troppo distinto a parer mio. Lo stato è passato attraverso la
personalità del principe e si è fortificato. La reazione moderna contro quella personalità non ha distrutto il
concetto stesso della personalità, ma ne ha distrutto solo l’individuazione nel principe. Infatti, più validi di
ogni ragionamento astratto, provano che la tendenza attuale è favorevole all’ammissione della proprietà
sulle cose pubbliche”. 2 )Scialoja però sottolinea che la natura assorbente dell’uso pubblico nella proprietà
dei beni a tale uso destinati, faccia apparire astratta la disputa sulla spettanza della proprietà stessa in capo
allo Stato, “qual è L’importanza pratica dell’ammissione della proprietà sulle cose pubbliche? Tutta l’utilità
di queste cose non è forse assorbita dalla servitù pubblica?” La risposta sottolinea la dimensione formale
della tesi proprietaria: “Sarebbe erroneo dalla poca utilità della proprietà infierire la mancanza di essa. La
qualità, che ha la proprietà, di essere un diritto eminentemente elastico e indefinito, di poter crescere e
diminuire sino ai massimi e minimi termini, fa sì che non si possa in diritto giudicare della sua esistenza
dall’utilità ch’essa porta”.

Concludendo così questa sua prima opera -> “ho sempre parlato sin qui di proprietà privata dello Stato e
degli altri enti pubblici. È utile notare peraltro che la speciale natura di questi enti fa sì che la loro proprietà,
per quanto possa dirsi privata, non si può mai equiparare del tuto a quella delle persone fisiche. Ciò vale
tanto per la proprietà dei beni del demanio privato, quanto per quella del demanio pubblico. Ma come
questa necessaria differenza non vale a distruggere il concetto di proprietà pel demanio privato, così non
vale, neppure unità al diritto pubblico nascente dalla pubblica destinazione, a distruggerlo pel demanio
pubblico”. -> un’osservazione che lascia intendere una consapevolezza della specificità e problematicità
della situazione giuridica in cui si trovano i beni destinati all’uso pubblico. E che lascia intendere l’esigenza
di un equilibrio tra proprietà in capo allo stato e l’attribuzione di un ruolo ai protagonisti della destinazione
all’uso pubblico dei beni in discussione.

Per l’azione popolare a tutela dei diritti pubblici diffusi

Le sue intuizioni trovano sviluppo nel suo secondo lavoro. Un opera che valorizza l’opera di Bruns,
precisandola e correggendola, grazie alle opere scoperte dopo Bruns. Tale opera è importante anche per la
corretta ricostruzione delle azioni e degli interdetti popolari al tempo di Roma. Cui Scialoja da un contributo
rilevante.

Gli passaggi davvero rilevanti però sono due: 1) “Già da qualche anno a me pareva che fra le più utili
innovazioni, che si potessero e dovessero introdurre nella nostra legislazione, fosse questa, di ammettere
largamente le azioni popolari, rimodernando tale sapiente istituto del nostro antico diritto latino. Le azioni
popolari, io pensava, gioveranno a destar la coscienza giuridica del cittadino, a fargli sentire una unione più
intima tra la propria persona e lo Stato, a rendere più strettamente giuridiche le nostre leggi, perché sarà
necessario nettamente definire i limiti dell’azione anche dei funzionari pubblici. Esse saranno uno dei mezzi
più efficaci per ottenere che la legge acquisti il suo vero valore, superiore a qualunque altra volontà, che
non sia ancora trasformata in legge, poiché ogni cittadino potrà chieder conto della trasgressione o
inapplicazione delle disposizioni legali, senza soggiacere all’inerzia o ingiustizia di un pubblico funzionario, il
quale troppe volte rappresenta non lo Stato, ma la sola maggioranza che lo governa”. Parole in cui definisce
le azioni popolari come strumento efficace per una partecipazione, attiva, forte e responsabile, del cittadino
alla vita dello Stato. Ma anche strumento di controllo del potere della pubblica amministrazione, che nella
realtà non rappresenta gli interessi di tutta la collettività, ma esprime la volontà della maggioranza di
governo del momento. Ed è pure rimedio per chiedere conto della trasgressione o inapplicazione delle
disposizioni legali” e per reagire, sempre rivolgendosi direttamente al giudice, “all’inerzia o alla ingiustizia di
un pubblico funzionario”. Scialoja qui, percepisce, esigenze di controllo e di rimedio, alla fine
dell’Ottocento. Quando ancora non vi erano le questioni legate alle devastazioni dell’ambiente e del
paesaggio, che verranno affrontate nella seconda metà del Novecento. Ma Scialoja vede con lucidità gli
ostacoli alla introduzione di una legittimazione popolare. E allora si rivolge alla configurazione dello Stato
come persona giuridica astratta. Continua dicendo “Certo difficoltà non lievi si possono elevare contro
siffatta innovazione. Questa, per esempio, che lo Stato moderno, coi come si è venuto formando per la sua
storica evoluzione deve considerarsi come qualche cosa di molto diverso dallo Stato antico. Oggi esso
costituisce una persona affatto distinta da quella dei singoli individui; laddove in antico ogni cittadino
poteva dirsi parte integrante dello Stato, e a ragione questo poteva chiamarsi anche col norme di populus,
nome che oggi non gli si converrebbe punto. È vero; ma noi dobbiamo domandarci se sia utile che la
legislazione, anziché cercare di estendere la coscienza di una più intima unione fra lo Stato e il cittadino,
aiuti sempre più la separazione. Non è facile rispondere a tale domanda; e soprattutto non è facile
rispondervi prescindendo dai preconcetti filosofici, che possono indurre ciascuno a risolvere a priori il
problema in un senso o nell’altro”. E chiude richiamando una visione liberale: “ le idee liberali […] includano
necessariamente il concetto di quella più stretta connessione. Il popolo tende a identificarsi di nuovo con lo
Stato; e questa tendenza deve essere favorita dal legislatore”.

2) qui Scialoja entra più nel dettaglio della tecnica giuridica delle azioni e degli interdetti popolari. Si rifà alla
classificazione delle azioni popolari operata da Bruns, fondata sul criterio della spettanza del provento
all’attore o alla cassa pubblica, per cui sono propriamente popolari solo le azioni nelle quali il provento
spetta all’attore, prospetta la seguente gradazione di diritti: - diritto spettante alla comunità come ente a sé,
da esercitarsi mediante un organo speciale di essa – diritto spettante alla comunità come ente a sé ma da
esercitarsi da qualunque suo membro – diritto spettante a tutti i membri della comunità e da esercitarsi da
ciascuno di essi. Precisando che sono 3 categorie di diritti tutti pubblici ma diverse tra loro. Inoltre,
cronologicamente, L’ultimo può considerarsi come il primo e il primo può considerarsi come l’ultimo. Poi,
Scialoja puntualizza che ai diritti della terza categoria sarebbero riferibili le azioni popolari propriamente
dette e dunque pure gli interdetti popolari a tutela delle res publicae.

Riferendosi alla terza categoria Scialoja la qualifica: “questo diritto è bensì pubblico, spetta all’individuo
come membro del popolo: ma è tuttavia un diritto che spetta a lui, non già al popolo come un ente diverso
e totalmente distinto da lui. Se mi fosse lecito parlare figuratamente direi che si tratta qui non già di un
diritto pubblico concentrato, ma di un diritto pubblico diffuso in tutti i membri della comunità”.
Espressione, questa del diritto pubblico diffuso, che ha un’ampia portata. Per la pienezza della tutela che
implica; per il fatto di essere riferibile ai beni destinati all’uso pubblico, demaniali e non.

Alla ricerca di un difficile equilibrio

Quindi L’idea complessiva di Scialoja e lo sforzo di ricercare un punto di equilibrio fra Stato e cittadino-> Da
un lato, l’imputazione di tali beni allo stato secondo gli schemi della proprietà privata. In coerenza con la
configurazione che lo Stato andava sempre più assumendo come persona giuridica, quindi come ente
distinto dai suoi componenti. Con la piena consapevolezza che la proprietà dello Stato non la si può
equiparare alla proprietà delle persone fisiche; e della specificità e problematicità della situazione giuridica
della proprietà di beni demaniali quali quelli destinati all’uso pubblico.

Dall'altro, l’auspicio che il legislatore, nonostante la configurazione che lo Stato stava assumendo, o forse
proprio in considerazione di quella configurazione, provveda a introdurre largamente nell’ordinamento le
azione popolari, come generale ed efficace rimedio per chieder conto della trasgressione delle disposizioni
legali e per reagire all’inerzia o ingiustizia di un pubblico funzionario. Ma di quali azioni, precisamente?
Quelle che, secondo il modello romano, Scialoja reputa si possano considerare le sole e vere azioni
popolari. “[…] terza categoria, che è quella nella quale la popolarità dell’azione si presenta come più
naturale e più affine all’azione fondata sul privato interesse”. Quelle azioni che corrispondono ai diritti
spettanti a tutti i membri della comunità, e da esercitarsi perciò da ciascuno di essi, cioè quei diritti
qualificati come diritti pubblici diffusi e fra le quali rientrano le azioni popolari a tutela dei beni demaniali di
uso pubblico, che nel modello romano corrispondono agli interdetti popolari a tutela delle res in usu
publico. Questo è il punto di equilibrio che Scialoja auspica.

I beni demaniali di uso pubblico devono essere di proprietà dello Stato. Su di essi lo Stato deve esercitare
tutte le prerogative del pubblico potere, anche a garanzia della destinazione all’uso pubblico. Ma, accanto,
sta il diritto di uso dei singoli cittadini, da intendersi come diritto pubblico diffuso: un diritto pieno, tutelato
da azione, da azione popolare. Azione che il cittadino può esperire a tutela del proprio diritto di uso.

Queste speranze nella realtà andarono disattese. Casavola noterà “In verità, gli uomini di cultura liberale
tentavano di conservare una società statuale quale somma di individui, quando lo Stato s’andava ormai
evolvendo in sintesi organica di comunità”. Sul finire del 19 secolo ed l'inizio del 20 secolo, si realizza la
costruzione dello Stato come persona giuridica, entità astratta, separata dai cittadini che la compongono. Il
culto della persona giuridica soffoca le espressioni della sovranità popolare. In questo contesto non vi è
spazio per l'azione popolare. Dopo 30 anni il nodo della tutela dei beni destinati all’uso pubblico, a cui
Scialoja tenta di dare soluzione, resta irrisolto. Il cittadino continua ad avere l’uso di tali beni, senza un
potere, non potendo chiedere conto di trasgressioni o inapplicazione delle disposizioni legalo, o reagire
all’inerzia o all’ingiustizia di un pubblico funzionario, poste in essere in relazione a detti beni.

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