Per conoscere al meglio ogni cosa nel mondo occorre saper scegliere il corretto metodo da usare. Quindi il
giusto metodo conoscitivo deve essere scelto in base all’oggetto analizzato. Tale scelta è stata compiuta da
tutti noi, anche se in maniera diversa, per ordinare la nostra conoscenza, la nostra percezione del mondo.
Ed è l’ordinamento delle conoscenze acquisite che ci permette di orientarci, di assumere delle scelte ed
una condotta. Scelta sarà giusta se la nostra interpretazione corrisponde alla realtà. Questo ordinare le
esperienze per comprendere il mondo in cui viviamo fa parte del bagaglio culturale di ogni individuo. Ed è
proprio tale ordinamento dell’esperienze che ha permesso che, nell’esperienza comune, si conoscesse il
concetto generale di DIRITTO PENALE -> Concetto limitato anche se corretto, secondo la quale il diritto
penale corrisponde a tutti quei comportamenti delle autorità, istituzionali dello Stato, predisposti in
reazione a condotte qualificate come reati. Questo è limitativo perché non lascia spazio al mondo delle
norme giuridiche che regolano e promuovono l’attività istituzionale dello Stato.
Quindi in maniera superficiale -> il diritto penale possiamo definirlo come un complesso di norme
giuridiche, contenute nei codici, unite perché sono tutte predisposte verso la realizzazione di un unico
obiettivo, cioè istaurare un controllo repressivo dei tipi di comportamenti umani qualificati come reati,
attraverso l’irrogazione di pene stabilite dal codice ed altre leggi. Quindi il diritto penale non è solo i fatti
percepiti (attività istituzionale e comportamenti illeciti) ma anche le norme giuridiche, che sono la vera
identità del diritto penale.
LE NORME.
Il mondo delle norme quindi viene distinto dal mondo dei fatti. In quest’ultimo il mondo è composto da
tutto ciò che accade, che viene conosciuto tramite l’esperienza, la prassi e che viene ordinato tramite il
meccanismo logico della causa/effetto. Il mondo delle norme invece rappresenta quello che deve accadere,
i comportamenti che devono essere seguiti, la scelta operativa prestabilita dalla norma giuridica vincolante
ed obbligatoria (caratteri intrinsechi della norma giuridica). Il mondo delle norme è dunque il mondo del
dovere. E poiché il dovere viene adempiuto nel momento in cui ci si conforma alla norma giuridica, qualora
si violi il dovere, si violerà anche la norma (causalità giuridica) provocando necessariamente una sanzione
(conseguenza giuridica). Se la norma in questione è penale, allora la sanzione sarà di carattere afflittivo,
cioè una “Pena”. L’afflittività (in alcuni Stati può consistere in esecuzione capitale) della pena è la ragione
della denominazione di diritto penale, del momento della conseguenza giuridica su quello della causa.
Secondo la percezione dell’uomo di strada, si va ad ignorare il momento propositivo (critica costruttiva)
delle norme, concentrandosi solo sulla conseguenza giuridica, cioè l’attività degli apparati Statali
(persecuzione, condanna ed esecuzione). Questo focalizzarsi sull’attività conseguenza del reato è una
percezione vera anche se incompleta. La verità risiede nel fatto che i rapporti del cittadino con lo Stato sono
dettati dalla norma giuridica vincolante, dalla soggezione (derivante dal dovere) del cittadino alle leggi dello
Stato (vincolanti). Il dovere, la soggezione, il comportamento osservante del dovere è una scelta operata
proprio nel senso della norma giuridica vincolante. Così la norma vincolante per mezzo di leggi dello Stato
limita l’autodeterminazione del cittadino in situazioni sociali, con esigenze, che sono materie inderogabili
per l’apparato dello Stato. Però la conformazione del comportamento del cittadino alla norma vincolante
può essere un dovere, una necessità, ma questa può anche essere imposta. Quando l’imposizione di una
scelta conformativa non può avvenire, la violazione della norma legittima automaticamente l’uso della forza
dell’apparato dello Stato. Perché se la violazione di una norma vincolante c’è, allora vi è il dovere di imporre
una pena. L’uso legittimo della forza impositiva dello Stato è espressione di potere sovrano, ma è anche
riproposizione della forza vincolante della norma. Perché la pena è conseguenza della violazione della
norma, affliggendo la pena si impone di nuovo la sua vincolatività, la sua forza vincolante che se violata
provoca una conseguenza giuridica necessaria.
La pena viene alternata all’imposizione della scelta di un comportamento conforme alla norma vincolante,
imposizione effettuata da uno Stato di Polizia che opera secondo il principio di vigilanza preventiva. Ma tale
vigilanza per essere efficace deve essere totale. Creando però un sistema di controllo più afflittivo della
pena stessa, dovendo consistere in una trama di controlli fitti e continui, quasi persecutori. Al contrario la
pena certa data ad una violazione accertata garantisce gli altri cittadini, gli osservanti delle norme
giuridiche, da controlli ingiustificati. Gli osservanti delle norme giuridiche costituiscono la massima parte dei
cittadini, se è vero che in uno Stato di diritto le norme giuridiche proposte (a cui segue una pena se
violate) devono corrispondere ad esigenze sociali inderogabili, tali da essere percepite dalla generalità dei
cittadini.
Riassunto: il mondo delle norme è distinto dal mondo dei fatti. Essendo i due regolati da leggi diverse. Il
mondo dei fatti è regolato dalle leggi della natura che l’uomo si limita ad osservare ed imparare. Il mondo
delle norme è regolato dalle norme giuridiche che producono i fatti, rimanendo esterne ad essi. Cioè
limitandosi ad imprimere ai fatti una direzione che, senza l’intervento conformativo degli osservanti, non
prenderebbero. Quindi la norma giuridica imprime al reale una direzione diversa rispetto a quella dettata
dalle leggi della natura. La norma giuridica ha la finalità di prescrivere (imporre) un determinato
comportamento umano che influenzi i fatti fornendo loro un senso prestabilito. Quindi cambiando quel
fatto. Pertanto, possiamo dire che la norma giuridica nasce dai fatti regolati da leggi naturali, per le quali
nasce l’esigenza per il futuro di cambiarne il percorso. Seguire il comportamento, la condotta preposta dalla
norma giuridica è la scelta corretta poiché si tratta di un comportamento vincolante. Non conformare la
propria condotta a quella predisposta non è una scelta corretta, in quanto si andrà a violare direttamente la
norma giuridica, avente effetto vincolante. Quindi si sceglierà un comportamento illecito. Quindi il
comportamento contrario alla norma giuridica viene qualificato come “illecito”.
Questa qualificazione dimostra una ulteriore differenza con il mondo dei fatti. In questo, un’ipotesi viene
verificata tramite il binomio vero o falso. Cioè si verifica se quella ipotesi corrispondi o meno alla realtà dei
fatti. Nel mondo delle norme invece il binomio vero o falso viene sostituito da quello lecito ed illecito. Cioè
non si potrà basare la corretta di una scelta di condotta sulla verifica dei fatti. La si dovrà basare sulla sua
conformazione alla norma impositiva. Perché è la norma che crea una legge, che impone una soggezione,
un determinato comportamento conformativo alla norma.
La posizione della norma dipende dall’esigenza di imporre una direzione ai fatti. Quindi possiamo dire che i
fatti impongono la norma, ma la norma al tempo stesso si impone sui fatti. Essendo una norma applicativa,
quindi che deve essere applicata, dunque che dà ai fatti un senso proprio. L’insieme delle norme giuridiche
vigenti costituisce l’ordinamento giuridico e al suo interno si distinguono le norme a secondo della materia
che regolano. Quindi vedremo la distinzione tra privato e pubblico. E a sua volta all’interno del pubblico
troveremo il diritto penale distinto da quello amministrativo, da quello costituzionale ecc. Ma grazie a cosa
il diritto penale ha autonomia nel settore del diritto pubblico? È grazie alla sua specificità che risiede nel
modo in cui le norme penali impongono un senso alle scelte operative di condotta. Quindi non risiede nella
sua finalità e nel controllo che istaura, nella frammentarietà della scelta legislativa (cioè occuparsi
specificatamente di determinati comportamenti). La specificità sta nel collegamento tra l’inosservanza della
norma precettiva e la conseguenza giuridica necessaria. Pena limitativa della libertà personale dell’autore
del comportamento illecito, inflitta a seguito di un procedimento giudiziario. La specificità del diritto penale
che valore assume quando si parla di garanzia degli osservanti da controlli ingiunti? Questa garanzia verrà
rispettata limitando una penalizzazione arbitraria. Che avviene tramite la necessità che le norme
corrispondano ad esigenze sociali inderogabili, che le norme giuridiche siano vincolanti per tutti e che tutti
possano agire da osservanti. Quest’ultimo fattore è subordinato al fatto che la norma vigente deve essere
antecedente al periodo in cui si è concretizzata una condotta penalmente illecita. Pertanto, una regola di
condotta per essere valida deve proiettarsi al futuro, non deve essere retroattiva. Poiché i fatti commessi
prima dell’entrata in vigore di quella norma penale erano qualificati come leciti. Permettere la retroattività
lederebbe la certezza del diritto. Quindi la funzione di garanzia del diritto penale sta nella possibilità data a
tutti di conoscere prima quali fatti costituiscono illecito penale e quali no, e nella certezza che verrà
considerato reato sono quel fatto, quella condotta alla quale la norma penale ricollega una conseguenza
giuridica, una pena. Principi presenti effettivamente nel nostro ordinamento giuridico, sia la Costituzione
all’art 5 che il Codice Penale all’art 1. E il principio secondo la quale una norma giuridica non può essere
penalmente valida per i fatti compiuti prima della sua entrata in vigore, indica che la qualità di reato non
viene data dal fatto in sé, non la si ritrova nel fatto bensì nella norma che impone una pena per chiunque
compi quel fatto. Infatti, qualora manchi una norma che descrive il fatto e che lo collega ad una punizione,
questo non può essere qualificato come reato. Quindi la norma da un giudizio di disvalore del fatto che
descrive, qualificandolo come reato. Ed il giudizio si concretizza quando viene applicata la pena all’autore
del fatto andando contro a quello che è il comportamento corretto da seguire secondo la norma.
La norma penale è prodotta dallo Stato, in regime di monopolio, per mezzo di legge. Quindi la norma sarà
contenuta in articoli di legge. Articoli con un linguaggio mai imperativo, mai di comando eppure con forza
prescrittiva, obbligatoria, vincolante. Formalmente non sono dei comandi ma ne assumeranno comunque
l’effetto. La prescrittività delle norme, la loro funzione vincolante dimostra che la norma non può essere
considerata fatto, non può essere ricondotta al fatto. Perché il modo di essere della norma è l’essere
prescrittiva di un orientamento, di una scelta di condotta, diverso rispetto all’accadere dei fatti. Da qui si
spiega anche come mai una norma non abbia un linguaggio imperativo. Perché per orientare talune scelte
operative, per selezione i tipi di fatto considerati reati, occorre prima descrivere la realtà alla quale la
norma si impone. Così descritto il fatto esprimerà il valore della norma, se si tratta di un fatto osservante la
norma. Altrimenti il fatto inosservante esprimerà un disvalore, un valore negativo, opposto a quello fissato
dalla norma, espresso dal fatto osservante, dalla condotta lecita. Quindi si può dire che la norma penale
crei il reato. Ma non si tratta di una creazione in senso letterale del termine, bensì di una creazione in senso
metaforico. Perché crea il reato qualificando un fatto, già esistente, come reato. Un fatto che verrà
definito tale solo se è preveduto e valutato illecito dalla norma giuridica contenuta in leggi dello stato, e se
ricollega a questo una conseguenza giuridica come la pena.
Questa azione creativa entro quali limiti si muove al fine di assicurare effettivamente ordine e stabilità al
corpo sociale, sottoposto ad un controllo repressivo? Prima di tutto un corpo sociale è l’organizzazione del
primitivo semplice raggruppamento. Attraverso l’organizzazione, che vuole ordine e stabilità, si
sopperiscono le mancanze degli individui che possono trovarsi in disaccordo con l’organizzazione attuata.
L’ostacolo del disaccordo può essere superato tramite il controllo sui singoli, espressione della collettività.
Ma ciò non è sufficiente per mantenere la stabilità, che viene messa in pericolo nel momento in cui si fonda
esclusivamente, solo sul controllo. Tutto ciò è ancor più vero nello stato democratico in cui,
programmaticamente, il controllo viene posto in essere dagli stessi che vengono controllati. Inoltre,
l’organizzazione non si può esaurire nel sistema dei controlli. In questo modo si perderebbe il vantaggio che
si voleva ottenere sacrificando la possibilità di autodeterminarsi. Allora il controllo esterno avviene solo
quando gli altri mezzi siano falliti e pertanto l’organizzazione non fonderà la sua esistenza solo sul sistema
di controllo ma su esigenze storiche e sociali, che sono la specificità di quel gruppo. E allora il sistema di
norma verrà elaborato in maniera tale da rispecchiare ordine e stabilità, indirizzando i consociati verso i
comportamenti ritenuti validi e consoni alla specificità del gruppo. Fornendo in primo luogo un aiuto alla
scelta del comportamento apprezzabile e poi eliminando il ricorso al controllo repressivo, insufficiente al
bisogno. Ma la norma per provocare conformazione spontanea deve essere tale da persuadere della sua
necessità. E ciò avverrà nel momento in cui non sono giustificate in sé stesse, ma in relazione al fine che si
propongono, cioè devono corrispondere all’esigenza sociale. La finalità delle norme consiste
nell’orientamento della socialità, e questo viene condizionato dal sistema delle norme che cerca di
eliminare, nei limiti del possibile, le perplessità ed antinomie. Prima dell’organizzazione di uno Stato, le
norme nascono spontaneamente e si conformano a regola del gruppo. Nel momento in cui si trova dinanzi
uno Stato democratico, le norme interpretano la volontà del singolo, eliminando la connotazione del
singolo individuo e della collettività di individuano, promuovendola come espressione del potere dello stato
(Volontà singolo interpretata come volontà, espressione del potere dello Stato Democratico). Se vi
aggiungiamo che la norma di legge è affidata ad alcune formalità, possiamo individuare nella stessa legge,
una volta concluso il suo percorso formale di creazione, le ragioni che hanno giustificato l’emanazione di
questa. Se è vero che la finalità primaria è quella di stimolare la conformazione spontanea. (Esigenza
primaria: l’osservanza pratica della norma avverrà quando il legislatore dimostrerà di aver colto le esigenze
storiche e sociali e di aver formulato una legge in grado di far ravvisare ai consociati la sua necessità).
Conseguenza finale di tale percorso è che se l’osservanza pratica è costante, l’orientamento generale sarà
la tendenza a considerare quelle leggi corrispondenti alle aspettative, a prescindere dal controllo di
giustificazione della scelta frammentaria di queste (la scelta che penalizza un comportamento invece di
altri). Quindi la norma sarà un buon motivo per non scegliere quel comportamento descritto dalla norma e
propendere per un comportamento socialmente apprezzabile (risultato finale). Ma per assicurare tale
risultato finale, il legislatore deve comunque prospettarsi il problema di comprensione delle ragioni
giustificative della norma (anche se l’orientamento generale tenderà a porselo) e formulare delle regole
relative al controllo repressivo, in quanto affidato ad organi, apparati statali diversi dallo stesso legislatore.
Tutto questo serve a comprendere la differenza tra regole di comportamento (rivolte ai consociati) e
regole punitive (rivolte ad organi statali preposti). Regole che potrebbero essere separate in due diversi
testi linguistici, separazione mai avvenuta. L’esistenza quindi di un testo unico è dovuta ad esigenze di
sinteticità e alla preoccupazione di evitare divaricazioni tra diversi testi. Inoltre un testo unitario è utile per
comprendere le interazioni che vi sono fra i due tipi di regole. Con queste osservazioni sulla creazione delle
regole penali, è possibile comprendere il problema relativo alla creazione dei reati. Problema che può
essere risolto definendo che questa creazione non è arbitraria, fin quando i fatti minacciati di pena sono
contrastanti con i valori apprezzati dalla struttura sociale che ha espresso l’esigenza di quella norma. Il
sistema penale deve imporsi come extrema ratio, cioè deve essere l’ultima tra le alternative possibili, deve
essere una necessità. Solo così si ridurrà al minimo indispensabile il costo sociale del controllo repressivo,
ed è per questo che le regole di condotta di cui è costituito, devono necessariamente corrispondere a
comportamenti che i consociati osserverebbero anche senza le norme penali corrispondenti.
Norme penali sono obblighi di comportamento, norme di condotta, che si riferiscono ad una porzione di
vita, analizzata sotto il profilo dell’iniziativa dell’individuo. I fatti che vengono individuati dalle norme, sono
quelli antisociali, cioè che offendono valori meritevoli di protezione. La parola reato indica il legame che si
stabilisce tra la previsione legislativa e il concreto fatto sociale; relazione, legame in forza della quale si
costituisce la necessità di una inflizione penale come conseguenza giuridica a quel fatto sociale concreto.
Proprio il fondamento del diritto penale sulla necessità che le leggi penali siano adeguate risposte alle
esigenze della popolazione crea un ulteriore problema di autonomia del diritto penale. Perché la legge
penale non può ignorare la cultura, la spiritualità del popolo, in quanto la legge è espressione della volontà
popolare. Non potendo avvenire ciò la legge penale deve subordinarsi a regole di moralità e religione
dominante, ma non essendo queste giuridiche appunto si ripropone inevitabilmente un ulteriore problema
di autonomia. Tale apparente mancanza di autonomia che deriva dalla sudditanza ad altre regole, delle
quali il diritto penale sembra rendersi strumento crea una crisi di identità di questo. Quindi, in questa
prospettiva, il diritto penale sembrerebbe raggiungere fini di altre regole, esterne e superiori. Ma in uno
stato confessione il diritto penale non è doppione di regole morali e religiose. Ed anche si ammettesse che
la legge umana è indissolubilmente legata a quella divina, la legge penale non riprodurrà mai tutte le regole
morali e religiose. Inoltre è certo che la legge penale riduce queste in regole giuridiche, trasformandole da
assolute a regole applicabili nei limiti della validità dell’ordinamento giuridico e nei modi della disciplina
penale. In altri termini un’autonomia rimane al diritto penale, perché questo va ad occuparsi non in senso
assoluto delle regole morali e religiose piuttosto in senso storico, occupandosi dell’aspetto immanente,
relativo allo specifico ambito di rilevanza (sociale) che va a disciplinare nei modi delle sanzioni legali penali.
In questo senso l’autonomia del diritto penale non vuole eliminare la morale e la religione contenute in
esso, bensì vuol dire che nel momento in cui entra in considerazione come diritto, questo si limita alle
norme giuridiche destinare a valere agli effetti della legge. Non eliminare religione e moralità, quindi
conformarsi ad esse, non comporterà il venir meno della giuridicità delle norme (altro a favore della sua
autonomia). Poiché seguire la norma di condotta non porterà alla salvezza dell’anima, ma escluderà un
effetto immanente che è la pena afflittiva (rappresenta il dover essere e sarà cioè lo statuto costitutivo
della norma penale). Inoltre affinché un precetto produca conseguenze giuridiche (pena afflittiva), deve
essere ridotto a precetto giuridico penale la cui violazione è la causa della sanzione prevista dalla legge.
Precetto ad effetto immanente non presuppone quindi l’allontanamento dal morale del giuridico, né la sua
neutralità, ma sottolinea la necessità che il precetto morale o religioso sia ridotto nella specie giuridica
affinché produca effetti giuridici. Quindi l’ambito dei precetti, dal morale o religioso al giuridico, varierà a
seconda dell’interpretazione dell’esigenza sociale in vista del limitato, poiché immanente e non
trascendente, dell’obiettivo di conservare la pace sociale. (Tutto questo a favore del fatto che un’autonomia
vi è ma che non implica la totale separazione dall’ambito morale e religioso).
Definire il diritto penale come mancante di autonomia, ma subordinato, vuol dire riconoscergli solo una
funzione sanzionatoria. Cioè la legge penale si ridurrebbe a dare delle sanzioni relative a violazioni di
precetti esistenti prima della norma sanzionatoria. Quindi le fonti dei precetti sarebbero altre rispetto alla
norma penale, la quale diventerebbe mero strumento tecnico di controllo sociale in funzione repressiva.
Teoria da rifiutare per varie ragioni. Primo motivo è che la sanzione ha fondamento nella legalità e quindi
diviene essa stessa precetto, fonte che impone legalmente di punire. Secondo motivo è che non tutti i
precetti che hanno fonte altrove sono reiterati nel diritto penale, ma solo una parte di questi vengono
ripresi (frammentarietà) tramite una selezione operata in funzione degli obiettivi che la legge penale vuole
raggiungere (pace sociale).
Teoricamente riconoscere un’autonomia al diritto penale vorrebbe dire riconoscere l’ipotesi secondo cui il
legislatore può arbitrariamente, restringere l’area del lecito e ampliare a dismisura l’area del penalmente
illecito. Poiché creare il reato vuol dire immettere, prevedere un fatto all’interno di una norma
incriminatrice. Però ciò non avviene e quindi occorre spiegare l’autolimitazione del legislatore penale. Il
fenomeno penale si presenta nella prospettiva della extrema ratio. Questa porta al problema di nuovo
dell’autonomia rispetto ad altri settori dell’ordinamento giuridico. Se autonomia vuol dire la capacità di
essere fonte immediata e indipendente di precetti giuridici, la qualità non gli può essere negata. Inoltre tale
qualità gli appartiene anche quando tratta materie già disciplinate da altre norme. Poiché tipico sarà anche
il modo in cui la disciplina penale collega quel fatto, previsto dalla norma incriminatrice, a conseguenze
giuridiche tipiche. Ciò vuol dire che non possono essere considerate le tesi, dedotte dalla prospettiva di
extrema ratio, secondo cui il diritto penale è meramente sanzionatorio o ulteriormente sanzionatorio.
Considerazione corretta da tale ambito del fenomeno penale è che il ricorso alla normativa penale deve
essere dettato dalla necessità e che dunque devono essere tentate vie diverse da quella della privazione
della libertà.
Ma si può parlare di autonomia penale anche in un altro significato più profondo, che deriva dalla
prospettiva del sistema penale come extrema ratio -> partendo dalla concezione di legalità di Francesco
Carrara, uno dei maestri indiscussi di scienza penale, la quale era ben lontana dall’essere la concezione di
legalità autonoma che conosciamo oggi. La sua idea si fondava sulla legittimazione che risiedeva nel
trascendente, nella legge divina che era condizione di legittimità della legge umana. Era necessario perciò
un salto per definire il valore autonomo della legalità. Salto che avvenne quando fu avviato il fenomeno
della storicizzazione del diritto. Cioè quel fenomeno che permetteva un recupero dell’autonomia del diritto,
dando il significato al diritto di legge a misura d’uomo, di legge misura dell’uguaglianza. Tale fenomeno
voleva anche dire relativizzare il diritto, quindi creare un taglio con la trascendenza e fondare il diritto solo
sulla legge. Questa perdita di legittimità trascendente era stata inveita come un diritto senza verità, che
aveva perso l’assoluto e che non poteva essere confrontata con il disegno provvidenziale. Tuttavia agli
autori delle invettive si potrebbe obiettare il fatto che loro stessi non avrebbero bisogno di invocare leggi
non scritte o immutabili perché le troverebbero nella Costituzione. Quindi il diritto ha perso il suo carattere
trascendente, di verità assoluto ma ciò non vuol che un diritto laico sia un diritto senza morale. La
storicizzazione del diritto ha portato a confrontare la vicenda umana con il criterio della legalità, cioè a
vedere la legge come necessario indirizzo della vicenda individuale umana nel sociale. Questa visione
chiude le più ampie visioni del mondo. Però se la legge è misura di uguaglianza, il diritto penale è
congeniale alla democrazia. Se questo è, la democrazia è congeniale al consenso sociale. Quindi il giurista
dovrà tenere conto anche del consenso sociale e dunque non potrà essere più solo il custode della legalità
ma si dovrà fare anche interprete del sociale. In questo mondo nasce la seconda concezione di legalità
diversa da quella che legava la legge al trascendente. In questo caso il diritto lo si legittimava legandolo
all’esserci storico, quindi al sociale. Di conseguenza il diritto penale doveva cambiare e così è avvenuto.
Oggi ha presenta caratteri diversi -> il diritto penale per poter sollecitare il consenso sociale deve puntare
anche al miglioramento sociale. È così che viene a crearsi una funzione promotrice e non soltanto
repressiva. Divenendo strumento di supporto del potere punitivo dello Stato ma anche limite a questo. In
questa prospettiva di cambiamento, la pena va a perdere di senso, significato e si viene a creare il
fenomeno della fuga dalla pena, chiamato in letteratura “pene perdute”. Una volta assegnato al diritto
penale più di una funzione, collegandolo al consenso sociale. Dovendo contemperare giustizia e
benessere nella direzione del miglioramento sociale e non più solo nella direzione della conservazione
della pace sociale, la perdita di senso delle pene era inevitabile.
Il sistema penale, così come dotato di autonomia, come sistema di extrema ratio, interviene
autonomamente qualora provvedimenti statali quali quelli di politica sociale falliscano. Allora in quel caso si
renderà necessario l’intervento della politica criminale. Qui si rileva la sussidiarietà della politica criminale
con le altre politiche, mantenendo comunque la sua autonomia. Sussidiarietà che è coerente con
l’affermazione ideologica dell’art 13 Cost, secondo la quale la libertà individuale è un diritto inviolabile, ma
anche con la considerazione utilitaristiche secondo cui l’opzione penale comporta un elevato costo
economico e sociale, perché moltiplica gli interventi dello Stato. Un’applicazione del criterio di sussidiarietà
è la depenalizzazione. Dinamica che trasforma fatti, precedentemente reati, da illeciti penali in illeciti
amministrativi. Cioè il legislatore non ritiene più inderogabile l’incriminazione di quel comportamento, che
rimane dannoso, e non più necessaria l’invettiva sociale che si congiunge all’adozione di una sanzione
penale. La depenalizzazione può derivare da esigenze diverse. Come l’esigenza di adeguare la legge penale
ordinaria alle premesse costituzionali (restringendo il suo ambito di applicazione solo ai beni giuridici
essenziali costituzionali, riducendo il suo ambito di tutela e quello di utilizzazione di leggi penali). Un’altra è
l’esigenza di amministrativizzare gli illeciti meno gravi. Cioè quei reati che possono essere contrastati più
efficacemente con sanzioni amministrative piuttosto che afflittive. Il risultato sarà ridurre l’ambito della
tutela penale. Esempi concreti di depenalizzazione: legge 689 del 1981; legge 561 del 1993 relativa alla
sicurezza e igiene del lavoro; La legge 67/2014 ha delegato il governo della depenalizzazione dei reati che
ha attuato tramite due decreti legislativi che applicato due modelli diversi. Il primo abroga i reati (falsità in
scrittura privata, ingiuria, falsità in foglio firmato in bianco, espropriazione di cose smarrite) introducendo,
al loro posto, illeciti civili puniti con sanzioni civili la cui giurisdizione è affidata al giudice civile ordinario.
illeciti civili tipicizzati, sanzionabili tramite disciplina del codice di procedura civile. Il secondo invece segue il
modello tradizionale di depenalizzazione, cioè la trasformazione in illeciti amministrativi, prevedendo una
sanzione pecuniaria amministrativa. Escludendo però da tale fenomeno taluni reati previsti dal c.p. e quei
reati puniti con la pena detentiva alternativa o congiunta a quella pecuniaria. Escludendo altresì, in ragione
della rilevanza, quei reati come quelli relativi all’ambiente, sicurezza e gli alimenti. La depenalizzazione
recente si pone come affermazione del principio di sussidiarietà, come la riforma legislativa che prevede
l’esclusione di sanzioni penali in ragione di tenuità del fatto illecito o anche quella che prevede l’estinzione
del reato tramite condotte riparatorie. Sussidiarietà affermata anche in una circolare della presidenza del
Consiglio dei ministri del 83’ che definisce i criteri orientativi per la scelta tra la sanzione penale (penale o
pecuniaria) e quella amministrativa (pecuniaria). Definendo altresì i vantaggi rispetto al passato e verso il
futuro. Delineando come la scelta tra le due sanzioni debba essere orientata dal principio di proporzione tra
offesa e reazione punitiva ed il principio di sussidiarietà. Al criterio di proporzione, basato sulla gravità del
fatto, si affianca il suo riscontro in termini di effettività ad assicurare un efficace controllo sociale. Infatti il
sistema sanzionatorio contravvenzionale deve essere escluso qualora sia insufficiente in termini effettivi.
L’utilizzo del criterio selettivo secondo la quale soltanto per un fatto la cui gravità, in termini di danno
sociale, sia rilevante si giustifica la minaccia di una sanzionale penale, mette in luce il carattere
frammentario del diritto penale. Carattere quindi collegato al criterio selettivo, che rende ristretto l’ambito
della tutela penale. Restringendolo ad una selezionata mappa di valori, in cui non tutti i fatti socialmente
dannosi sono reati e non tutti i comportamenti eticamente riprovevoli sono penalmente illeciti. Ma saranno
tali solo quelli per cui il legislatore ritiene necessaria la minaccia della sanzione penale, la quale svolge una
funzione dissuasiva in modo che la prevenzione tramite la dissuasione riduca il controllo repressivo. (La
frammentarietà in origine era definita come carenza di previsione). La frammentarietà la si rileva anche in
un altro verso, aspetto. Nel senso che non tutti i comportamenti che creano aggressione all’oggetto tutelato
sono illeciti penali, ma saranno tali solo quelli che avvengono nei modi previsti dalla norma legge penale del
fatto. Cioè sarà illecito solo il fatto conforme al tipo legale descritto nella norma incriminante e non lo sarà
invece quel fatto, anche se dannoso, non conforme al tipo legale. Per esempio: la semplice insolvenza è
illecito civile, invece l’insolvenza fraudolenta è illecito penale (641 c.p.), il danneggiamento per colpa è
illecito civile, quello doloso costituisce varie ipotesi di reato (635 c.p.). Quindi vi è un preciso collegamento
tra la frammentarietà e la sussidiarietà -> la prima è un aspetto della seconda, se la legge penale è
l’extrema ratio (sussidiaria alle altre politiche) è conseguenza normale che si preveda una pena afflittiva
soltanto per quelle pene più gravi per le quali l’interesse pubblico impone l’estremo mezzo della punizione
penale.
Il concetto di bene giuridico -> la norma penale stabilisce un tipo di comportamento che deve essere
scelto. Il comportamento conforme a quello scelto dalla norma è quello corretto. La correttezza di quella
scelta di comportamento compiuta la si verifica tramite il confronto tra il fatto umano e la norma. Quando il
comportamento non osserva la norma produce illecito, così tale fatto commetto contrario a quello
prestabilito si qualifica come reato. In questo modo si dà una spiegazione del concetto di bene giuridico, di
reato, astratto, svincolata da contenuti concreti che riguardano situazioni esistenziali, fatti della vista
esteriore individuale. Però in questo modo astratto, si comprende perché si dica un fatto illecito ma non si
spieghi cosa sia quel fatto e il danno che concretamente va a produrre. Ogni norma così ritaglia una
porzione di vita reale sulla quale opera una forza tale da orientare la scelta di comportamento degli
individui. Ma se si guarda solo all’inosservanza della norma che genera illiceità si trascura il collegamento
che vi è tra norma, esigenze sociali inderogabili e conseguenza penale che deriva dall’inosservanza di quella
norma. Enfatizzare solo il requisito dell’inosservanza a discapito di quello del danno (entrambi costitutivi
del reato) non garantisce la non arbitrarietà del legislatore. Così qualsiasi tipo di norma potrebbe essere
giustificazione sufficiente per il reato, indipendentemente da un effettivo danno. Quindi se si sottolinea solo
l’aspetto vincolante (inosservanza, illiceità) della norma si mette da parte l’oggetto della norma stessa e la
relativa tutela di valori di interesse pubblico.
La scienza penale si è impegnata a definire come la potestà punitiva debba essere usata secondo ragione e
non debba prevaricare l’individuo. Tale concezione venne affermata da Beccaria, nella sua opera Dei Delitti
e delle pene, il quale affermare che solo le leggi potevano definire le pene e non piuttosto la discrezionalità
della gente. Più specificatamente, è importante citare Carrara, il quale riconosce il reato come entità
giuridica, definendolo come qualcosa che è la legge a definire imprimendogli un carattere giuridico. Ma
riconosce anche che il reato è aggressione e violazione di beni garantiti dalla legge. Il suo pensiero trova
fonte ideologica nell’illuminismo e nel concetto della limitazione della sovranità nell’ambito del diritto. Se il
potere punitivo deve essere usato per tutelare beni reali, diritti naturale dell’uomo o ideali, diritti civili e
politici da violazioni, ciò vuol dire che il reato è creazione della legge ma a sua volta la legge è creata dalla
necessità di tutelare tali beni, onere dello Stato. Da qui, il Carrara afferma che la legge penale non deve solo
minacciare con la pena ma deve anche creare garanzia, tranquillità sociale. Quindi da Carrara nasce la
dottrina secondo cui la legittimazione del potere punitivo statale derivi dall’onere di tutelare il quadro del
diritto soggettivo (oggetto giuridico). Ma un’altra dottrina metteva in risalto come vi potesse essere un
concetto di bene giuridico che lasciava più ampi margini alla normazione penale e che prescindeva dalla
identificazione del reato nella violazione di un diritto soggettivo su un bene reale o ideale. Poiché alcuni
reati non potevano essere ricondotti allo schema giuridico della violazione di un diritto soggettivo, perché vi
sono fatti che non sono oggetto di diritti di cui l’individuo è titolare e di cui si possono ipotizzare una
violazione. Per un altro verso la concezione del reato come violazione del diritto soggettivo trovava
opposizione nel fatto che questa teoria portava alla negazione dell’autonomia del diritto penale e al suo
declassamento a diritto secondario e subordinato. Perché definire il diritto penale come diritto applicabile
solo su reati costituiti da violazione di diritti, vorrebbe dire affermare implicitamente che esso operi solo su
precetti definiti antecedentemente in altri settori. È vero che il diritto penale talvolta operi per rafforzare
precetti già posti, ma è anche vero che talune connotazioni giuridiche sono esclusive del diritto penale e
che la legge penale prescinde dalle statuizioni corrispondenti in altri settori. Il paradigma violazione del
diritto ed esclusione dell’arbitrio possibile dei legislatori risulta così inadeguato. Ed aiuta a porre
l’attenzione sull’analisi della realtà sociale nella quale devono essere trovati i beni meritevoli di tutela che
preesistono alla norma penale. La tutela dei beni nella realtà sociale è tale quando questi corrispondono
ad esigenze sociali inderogabili. E quando queste vengono violate si creerà un danno sociale che costituirà
il contenuto del reato. Quindi bene giuridico sarà quello che corrisponde ad una esigenza sociale
inderogabile. Ma tale teoria ineccepibile (obbligo di tutela dei valori socialmente apprezzabile sarà il limite
del potere punitivo dello stato arbitrario), non soddisfa le esigenze pratiche. Il legislatore avrà comunque la
possibilità arbitraria di decidere quale bene materiale possa essere considerato bene giuridico e quindi
meritevole di tutela.
La teoria materialistica del problema del bene giuridico viene attaccato da Rocco, che ne sovverte le
posizioni. Definendo che ogni bene pregiuridico è estraneo alla scienza penale, avendo questa come
oggetto il diritto vigente. L’oggetto del bene quindi non sarà quello individuato prima di una norma di legge,
ma quello già protetto da una norma vigente. Cioè quello scopo, obiettivo che la legge si propone.
Successiva elaborazione metodologica del concetto di bene giuridico che si ricollega all’impostazione di
Rocco -> ricercare l’oggetto giuridico non è altro che ricercare la ragion d’essere della normativa penale,
della finalità individuata nella funzione che la norma è indirizzata a svolgere, dello scopo che il legislatore
voleva raggiungere nel momento dell’emanazione della norma. Tale concezione vede il bene giuridico non
come una entità reale nel presente ma piuttosto un’astrazione prevista per il futuro della norma, quale è lo
scopo delle norme. Tale concezione ha eliminato l’importanza del bene oggettivo come riscontro oggettivo
di spiegazione e di prova della necessarietà dell’opzione penale sancita da una norma incriminatrice. Il
concetto di bene giuridico ha così perso il suo ruolo cardine, venendo anche accantonato quando il
fondamento dell’illecito penale è stato definito come la violazione di un dovere, nato dal vincolo legale
del cittadino con lo Stato. Definizione data da Kiel, che esprimeva una ideologia autoritaria ispirata al
nazional-socialismo, in cui la violazione del dovere di fedeltà allo stato costituiva illecito. Accentuando l’idea
del momento soggettivo su quello oggettivo, in armonia con i principi del diritto penale della volontà,
programma del partito nazista.
Un cambiamento si ebbe, recentemente, con i movimenti di riforma del diritto penale -> si ripropone il
bene giuridico come riscontro dell’opzione penale, come corrispondenza della norma a un’oggettiva
esigenza, a un intenso bisogno sociale di tutela. Tale movimento di riforma creò maggiori spazi di libertà
all’individuo, spazi ampliati anche dalla concezione di laicità dello stato e quindi del diritto penale nei
confronti di istanza morali o confessionali. È in questo movimento di idee che si sollevano i primi dubbi sulla
fondatezza dei reati contro la moralità pubblica o il sentimento religioso. La rivalutazione del concetto
giuridico vuole dare concretezza al concetto stesso senza spostare la prospettiva che vede il bene giuridico
come limite del potere punitivo. Questa concretezza cercata individuando la rilevanza penale dell’offesa (1)
e l’effettività del vincolo di tutela nei confronti del legislatore (2). 1 direttiva: la rilevanza penale viene
ristretta al solo ambito di punibilità irrinunciabile. Ciò vuol dire che anche i reati socialmente tollerabili
costituiscono un’offesa al bene, ma l’esiguità della lesione non comporta costituzione di reato e quindi non
giustifica l’intervento punitivo. Il nostro legislatore ha preferito seguire la via della non punibilità per
particolare tenuità del fatto. 2 direttiva: il vincolo di tutela per il legislatore è stato trovato nel collegamento
con la Costituzione. Le affermazioni di inviolabilità della libertà personale e della funzione di rieducazione
del reo tendenzialmente assegnata alla pena, sono le premesse da cui si ricava che la restrizione della
libertà è concessa solo in vista di riaffermazione di valori di rilevanza costituzionale, alla cui tutela dovrebbe
essere limitata la disciplina penale. Infatti la rieducazione del reo non può che consistere nella sua
formazione culturale di valori costituzionali, nella presa di consapevolezza della responsabilità derivante dal
suo convivere nella società. Questa teoria del bene giuridico costituzionale applicata nella sua formula
rigida produrrebbe la riduzione del catalogo dei reati dati dalla legge ordinaria penale e ciò perché è
limitato il numero dei beni di esplicita rilevanza costituzionale. Riduzione non sempre auspicabile e
giustificata. Per questo la categoria del bene giuridico costituzionale è stata estesa inglobando anche beni
impliciti di rilevanza costituzionale (rilevanza indiretta data dal collegamento diretto con beni di rilevanza
esplicita). In questi casi la tutela sarebbe legittimata poiché correlata rispetto a quella prevista per i beni
giuridici di rilevanza costituzionale esplicita. Tale allargamento dei beni lascia però non determinati taluni
confini della legittimità dell’azione penale. Infatti tale rilevanza costituzionale deve esserci quando il
riferimento esplicito all’oggetto giuridico è nella costituzione formale o è sufficiente la riconoscibilità
all’interno della Costituzione materiale? Nel primo caso si restringe l’ambito di tutele nel secondo caso lo si
amplia. Ulteriore opzione ipotizzabile: estendere a tutela dei beni anche a quelli non incompatibili rispetto
alle opzioni della Costituzione, così da salvare la riserva di legge e la discrezionalità del legislatore. Questa
opzione è quella che amplia di più lo spettro della rilevanza costituzionale. Poiché le opzioni della
Costituzioni sono completamente differenziate, occorre definire al meglio cosa si intende per bene di
rilevanza costituzionale.
Se si tiene fermo il principio dell'extrema ratio, il diritto penale viene ridotto, cioè l'intervento legislativo
avviene solo se strettamente necessario e se il bene, oggetto della tutela, è un bene di rilevanza esplicita
costituzionale. Questo ragionamento apre il problema delle lacune costituzionali. Perché all'interno della
Cost, mancano delle previsioni ad hoc per talune materie, lacune che provocherebbero un difetto di
fondamento delle leggi ordinarie su tali materie. Problema che potrebbe essere risolto almeno in linea
teorica con la revisione della Cost (art 138), opzione complessa e difficile da concretizzare. Oggi alcune leggi
ordinarie penali continuano ad essere applicate nonostante non abbiano un riscontro, più o meno preciso,
con la Cost. E poiché non è opportuno rinunciare ad una tutela solo perché non ha rilevanza costituzionale
diretta, allora sembra più valida l'opzione di ritenere che la rilevanza possa essere anche indiretta. Esempi
di materie dove la rilevanza costituzionale diretta non c'era: la tutela dell'ambiente, oggi tutelata all'art 117
della Cost, dopo la legge 3/2001, cosa diversa dalla tutela del paesaggio e della salute. Invece non è da
ritenersi opportuno considerare costituzionalmente rilevante il bene semplicemente non incompatibile con
la Cost. Tesi avvalorato dal fatto che la ratio dell'incompatibilità concernei il giudizio di illegittimità
costituzionale e non l'estensione o i limiti della norma.
Il problema del bene giuridico impostato in chiave costituzionale ha permesso di sottolineare come fosse
necessario un fondamento costituzionale per le leggi ordinarie. Ciò però non implica un necessario obbligo
di tutela del bene giuridico da parte del legislatore, il quale avrà comunque un potere discrezionale di
scegliere lo strumento penale più opportuno.
La questione della riduzione dell'ambito della tutela, in virtù dei criteri di extrema ratio (necessarietà,
rilevanza costituzionale), trova una soluzione soddisfacente. Prima però occorre indicare due argomenti
correlati. Il primo è che l’ipertrofia legislativa deve essere contenuta rendendo effettivo il vincolo della
rilevanza costituzionale e tramite il fenomeno della depenalizzazione. Il secondo è che per alcune previsioni
legislative di reati è difficile definire un bene come oggetti della tutela penale, in quanto il bene è
apparentemente protetto strumentale ad un obiettivo ulteriore, quindi sarà funzionale a questo. Inoltre è
difficilmente percepibile un bene sotto le c.d. norme di chiusura (norme penali che vanno a rafforzare la
disciplina amministrativa di un settore oppure quando la norma lascia all-autorità amministrativa La
Funzione di specificare il precetto penalmente sanzionato). Queste norme entrano in collisione con il
principio di sussidiarietà (la tutela amministrativa dovrebbe essere adeguata per sé) e con l-affermazione
dell’autonomia del diritto penale (la norma penale sarà strumento più efficace di un’azione amministrativa).
Quindi sarebbe auspicabile che il diritto Amministrativo venga concretizzato e renda efficaci i suoi ordini da
solo, obiettivi di cui si fanno carico altre materie. La necessità che le leggi ordinarie si modellino alla
gerarchia delle fonti, non deve portare in definitiva alla conclusione che le norme penali siano adibite alla
tutela di altre norme, quali quelle costituzionali. Esempio: nel catalogo dei delitti previsti dal codice è
presente la categoria dei delitti contro la personalità interna dello Stato. Se le relative norme incriminatrice
avessero la finalità di tutelare le norme costituzionali porterebbero a considerare gli illeciti in maniera
esclusivamente formale. Ma è auspicabile una concezione sostanziale del Danno prodotto dall-illecito.
Concezione che si può raggiungere rielaborando la concezione dell’oggetto della tutela giuridica,
identificandolo non nel bene astratto ma nell’esercizio sostanziale del potere legale. In questa prospettiva
le norme penale vanno a tutelare funzioni piuttosto che beni. Con questo esempio si sostanzializza il
parametro normativo, cioè la legge penale tutelerà direttamente l’esercizio del potere legale piuttosto che
la disciplina legale dell’esercizio del potere. Il passaggio dalla tutela del bene a quella della funzione obbliga
alla distinzione tra la tutela dell’istituzione e quella della persona che la incarna. La tutela dell’istituzione
riguarda solo le funzioni e non le persone preposte, però un’eccezione è possibile. Per esempio il
presidente della repubblica non è solo portatore di imperium legale ma anche di auctoritas, che danno
prestigio alla sua personalità, la quale acquista un valore simbolico meritevole di tutela. Questo è stato
possibile tramite la proiezione funzionale, la quale spiega anche perché norme di tutela per le istituzioni
prevedano illeciti a consumazione anticipata (reati come consumati anche se il tentativo non ha avuto
successo). Previsione spiegata in termini di effettività, se si agisse solo ad illecito compiuto, si avrebbe un
cambio di regime legale. Alle norme di tutela delle istituzioni si può scoprire una motivazione più profonda -
> una volta che il popolo, detentore della sovranità, ha esercitato i propri diritti politici, vuole vedere
soddisfatti i propri bisogni riconoscendosi nelle istituzioni, percependo l’esistenza di un disegno politico che
comprenda l’intera collettività. Questo è il compito delle istituzioni, che se non viene rispettato crea una
crisi di identità nazionale tale da far mancare il progetto di solidarietà sociale poiché viene a mancare la
base fondante dell’identificazione dello scopo comune. Questo è il compito delle istituzioni, atto dovuto in
risposta alla delegazione elettorale, ed è questo che viene tutelato dalle norme secondo una proiezione
funzionale. Si tutela il singolo individuo, il diritto politico di questo, che viene tutelato salvaguardando
l’esercizio delle funzioni delle istituzioni elette.