Argomento: applicazione del concetto di modo alla polifonia, in particolare alla polifonia
rinascimentale (oggetto del corso)
1.Origine dell’applicabilità del concetto di modo alla polifonia.
2.Questioni peculiari che quel concetto solleva in questo genere di musica rispetto ai
caratteri generali della monodia.
3.Elementi caratteristici che la teoria rinascimentale indica come qualificanti del sistema
modale.
Di parere esattamente opposto sul tema della modalità in polifonia è L’anonimo di Berkeley,
autore del primo dei 5 trattati.
-Resta quindi qualcosa da dire a riguardo degli altri canti, per esempio mottetti, ballate e
simili e di come giudicare dei loro modi o toni. Sia dunque questo il giudizio finale di tutti i
toni ossia modi di qualsivoglia canto, ossia dei mottetti, delle ballades, dei rondeau, dei
virelai e simili.-
Segue un elenco delle finalis sulla cui base si determina il modo (segue la regola dell’omnis
cantus).
-[...] ogni canto di tal genere che termina in re [...] è del primo o del secondo modo.
Egualmente ogni canto di tal genere che termina in mi [...] è del terzo o del quarto modo.
Egualmente Egualmente ogni canto di tal genere che termina in fa naturale [...] è del quinto
o del sesto modo. Egualmente ogni canto che termina in sol [...] è del settimo o del
dell’ottavo modo- ---> Qualunque brano musicale può e deve essere letto anche
modalmente dato che il modo dipende dalla sola finalis che si trova in tutti i brani.
(US-Bem, ms. 744, [Tractatus primus], 8, 1375)
Le due testimonianze sono esattamente opposte. Ha senso prendere una qualche posizione
a riguardo del rapporto tra modalità e musica medievale diversa dalla monodia liturgica o
dobbiamo rassegnarci a lasciare la questione aperta?
Dal punto di vista teorico le testimonianze potrebbero non essere così contraddittorie. Se
facciamo a caso al metodo con cui i due autori ritengano si debba determinare il modo
d’impianto di una composizione notiamo che Grocheo giudica necessario valutare l’intero
brano tenendo conto della sua intera condotta melodica (dunque la polifonia non è soggetta
alla modalità perchè è un concetto esistente solo nella composizione monodica liturgica).
L’anonimo di Berkeley si attiene invece alla teoria più antica (il modo è determinato dalla
sola finalis), dunque per nessun brano monodico o polifonico che sia si pongono problemi di
collocazione modale.
E’ necessario riformulare (se prendiamo come punto di vista Grocheo) i criteri con cui
giudicare inizium, medium e fine.
Questa riformulazione è quello che hanno tentato di fare gli studiosi moderni citati nella LEZ
2 che tengono a concordare più con Grocheo, serve un diverso sistema di organizzazione
dello spazio sonoro impiantato su premesse differenti da quelle dell’oktoechos.
La percezione teorica dei musicografi antichi cambia intorno gli ultimi decenni del 1400
anche in ragione dei cambiamenti che sopravvengono nella prassi compositiva del tempo.
Il primo testimone ad esporre compiutamente una teoria della modalità polifonica è
Johannes Tinctoris (teorico fiammingo attivo a Napoli dagli anni settanta del 1400 fin verso
la fine del secolo).
Nel capitolo 24 del trattato De natura et proprietate tonorum (1476) afferma che
-Occorre infine notare come la mixtio e la commixtio dei modi si diano non solo nel canto
semplice [=monodico], ma anche nel canto composito [...] a due, tre, quattro o più parti-
Da questo momento in poi la teoria non mostra più tante esitazione: anche la polifonia è
soggetta a modalità per il fatto stesso di essere musica e dunque essere regolata da un
sistema ben definito. Questo sistema non può non coincidere con l’unico sistema a riguardo
allora noto ovvero quello dell’oktoechos… Questo non significa ovviamente che la
considerazione di quel sistema resti del tutto invariata. Per quel che riguarda noi è un
processo che possiamo considerare terminato già con la pubblicazione del trattato Della
natura e cognizione di tutti li tuoni del fiorentino Pietro Aaron (1525), ma sarà rimesso in
discussione nel 1547 da Glareano con il Dodecachordon (non riguardo alla vecchia
dicotomia, ma intende pensare a una riconfigurazione complessiva di un sistema che nelle
sue coordinate fondamentali era rimasto immutato fin dai suoi esordi carolingi)
Per arrivare a un’idea condivisa del genere Tinctoris e i trattatisti successivi avevano dovuto
affrontare un problema di fondo che è poi il problema che distingue la modalità della
monodia liturgica dalla musica polifonica.
Com’è possibile nella polifonia distinguere per ciascuna coppia di modi che insiste sulla
stessa finalis la qualità autentica da quella plagale sulla base dell’ambitus?
La natura stessa della polifonia porta infatti ad avere sovrapposte voci diverse con ambiti
diversi. Se osserviamo l’estensione delle voci fondamentali ci accorgiamo che la differenza
di estensione tra due voci adiacenti è di una quarta o di una quinta, ossia precisamente la
natura che distingue nei diversi modi la qualità autentica e plagale. Se ne deduce perciò che
le voci adiacenti di un complesso polifonico si muovono costantemente in ambiti
complementari: se una voce è di ambito autentico quella al di sopra o al di sotto sarà
d’ambito plagale e viceversa; due voci corrispondenti invece condivideranno il medesimo
ambito seppure a distanza di ottava.
Riprendendo la questione citata in precedenza, ha quindi ancora senso distinguere modi
autentici e plagali riferiti alla medesima finale attribuendo a una composizione polifonica ora
all’uno ora all’altro modo?
Per la musicologia del 1800-1900 fino alla ricezione definitiva del libro di Meier la risposta è
stata o negativa o ritenuta ininfluente. Anche Dahlhaus negò che in polifonia la modalità
plagale e autentica possano e debbano distinguersi e che dunque ci si debba limitare a
ravvisare in ciascun brano un ‘modo totale’ (D=dorico, E=frigio, F=lidio, G=misolidio).
Meier ha speso gran parte della revisione del suo volume per polemizzare con Dahlhaus,
per confutare le sue critiche e per affermare la necessità di leggere e analizzare la polifonia
rinascimentale mantenendo ferma la distinzione autentico-plagale.
Oggi possiamo dare per assodato che Meier avesse ragione. Ciò che scrisse Meier ha
riscontro non solo nella teoria, ma anche nella pratica musicale del rinascimento.
Riprendiamo il frammento dal De natura et proprietate tonorum, cap. XXIV
-Occorre infine notare come la mixtio e la commixtio dei modi si diano non solo nel canto
monodico, ma anche nel canto composito, in maniera tale che, se un canto è composto a
due, tre, quattro o più parti, una voce sarà di un modo e un’altra di un altro, una del modo
autentico e l’altra del plagale, una del modo misto e l’altra del modo commisto-
Per comprendere il senso della spiegazione di Tinctoris dobbiamo capire il significato di
modo misto e modo commisto.
-se un modo autentico scende al di sotto del suo limite fino alla quarta inferiore, è detto
‘misto’ in quanto la sua normale estensione si mescola alla parte inferiore dell’ambito del suo
corrispondente plagale, ossia alla quarta caratteristica di questo […] alla stessa maniera se
un modo plagale sale al di sopra del limite superiore della sua quinta, sarà misto in quanto la
sua estensione normale
sopravanzerà il suo limite
superiore delimitato dall’autentico,
ossia l’ottava-
Un modo è quindi misto quando
la melodia si presenta come
autentica ma tocca anche gradi
propri del corrispondente plagale,
in particolare scendendo sotto la
subfinalis, o viceversa quando la
melodia si presenta come plagale
ma tocca anche gradi propri del
corrispondente autentico, in
particolare salendo oltre la quinta
sopra la finalis.
-Se invece uno dei predetti otto modi dal principio alla fine non sarà formato dalle specie di
quarta e di quinta costitutive di ciascuno così come abbiamo detto, bensì presenta una
mescolanza delle specie [proprie] di uno con [le specie proprie] di un altro o più altri, sarà
allora chiamato ‘modo commisto’.-
In questo caso
l’irregolarità riguarda la
costruzione della
melodia. Un modo
regolare dovrebbe infatti
mettere in rilievo i suoni
e gli intervalli più
significativi della specie
di quarta e di quinta che
lo costituiscono. Quando ciò non avviene e nella melodia si ritrovano specie di quarta e
quinta non appartenenti alla conformazione di un solo modo ne risulta una commistione, una
mescolanza modale.
E’ possibile che tinctoris qui stia dicendo che in polifonia ciascuna voce sia attribuibile a un
determinato modo senza il bisogno assoluto che tutte le voci debbano essere ricondotte a
un unico centro modale.
-se un canto è composto a due, tre, quattro o più parti, una voce sarà di un modo e un’altra
di un altro, una del modo autentico e l’altra del plagale, una del modo misto e l’altra del
modo commisto-
Questo avviene perchè l’individuazione del modo per Tinctoris dipende più dall’esame delle
specie di quarta e quinta utilizzate che non dalla finalis, tant’è che la discussione di questo
aspetto avviene in questo trattato già dal secondo capitolo, mentre la discussione sulle
finalis interviene solamente nel 54esimo.
Questa possibilità che il modo di una voce non debba necessariamente essere lo stesso
anche di un’altra voce avviene anche per le consuetudini della composizione polifonica in
voga nel 1300-1400 che prevedevano per lo più non una composizione simultanea delle
voci, ma a una loro composizione successiva costruita a tappe intorno a un nucleo di adico
costituito dalla voce del tenor e della voce del superius. La composizione di queste due voci
viene spesso chiamata discantus. Il processo di composizione a voci successive aveva
luogo anche quando non si ricorreva ad un cantus prius factus, in quel caso la voce di
partenza poteva anche essere una voce diversa dal tenor, ma il modo di comporre a voci
successive non cambiava.
Niccolò Burzio ci ha lasciato una chiara testimonianza delle due possibilità di composizione
con o senza una melodia preesistente, seppur in riferimento alla composizione a 3 voci.
-premessa tutta l’analisi necessaria, dapprima componi come si deve il canto o soprano, poi
il tenore corretto e rifinito con ogni scrupolo. Infine [componi] il contrabbasso senza che
questo crei nessuna dissonanza con le altre [parti]. Infatti il soprano è il contrappunto
all’acuto del tenore. Il tenore invece è il contrappunto all’acuto rispetto al contrabbasso. Il
contrabbasso quindi è il contrappunto grave rispetto a tutte [le voci], perché è collocato nella
parte più bassa. […] Illustrata dunque la composizione del canto mensurato, resta da dire
quale sia l’ordine da seguire [nel comporre] sopra il canto fermo. Infatti quando qualcuno
vuole comporre un canto mensurato [= una polifonia] sopra il canto fermo, non si deve
cominciare come detto sopra. È infatti necessario che il canto piano sia composto prima; poi
il soprano sia prodotto e composto con la più grande diligenza, avendo riguardo al tenore,
che è [la parte che reca il] canto piano. Dopodiché si arriva al contrabbasso, [che deve]
essere portato a termine eliminando con la mente, gli occhi e la ragione qualsiasi cosa
ostacoli la dolcezza dell’armonia. E ciò vi basti quanto alla composizione di nuovi canti.-
(Musices opusculum, Tractatus secundis, cap. V)
Questa maniera di comporre fu però presto considerata arcaica e portatrice più di
inconvenienti che di comodità.
Pietro Aaron per esempio da a chi si accinge alla composizione polifonica queste istruzioni:
-La imaginatione di molti compositori fu che prima il canto si dovesse fabricare, da poi il
tenore, et dopo esso tenore il contrabasso. Et questo avenne perché mancorno del l’ordine
et cognitione di quello che si richiede nel far del contralto. Et però facevano assai
inconvenienti nelle loro compositioni, perché bisognava per lo incommodo che vi ponessino
unisoni, pause, salti ascendenti et discendenti difficili al cantore overo pronontiante, in modo
che detti canti restavano con poca soavità et harmonia, perché facendo prima il canto over
soprano, di poi il tenore, quando è fatto detto tenore, manca alcuna volta il luogo al
contrabasso, et fatto detto contrabasso, assai note del contralto non hanno luogo, per laqual
cosa considerando solamente parte per parte, cioè quando si fa il tenore, se tu attendi solo
ad accordare esso tenore, et così il simile del contrabasso, conviene che ciascuna parte delli
luoghi concordanti patisca. Onde li moderni in questo meglio hanno considerato, come è
manifesto per le compositioni da essi a quatro, a cinque, a sei et a più voci fatte, delle quali
ciascuna tiene luoco commodo, facile et grato, perché considerano insieme tutte le parti, et
non secondo come di sopra è detto. Et se a te piace componere prima il canto, tenore o
contrabasso, tal modo et regola a te resti arbitraria, come da alcuni al presente si osserva,
che molte fiate danno principio al contrabasso, alcuna volta al tenore et alcuna volta al
contralto. Ma perché questo a te sarebbe nel principio mal agevole et incommodo, a parte
per parte cominciarai. Nondimeno di poi che nella prattica sarai alquanto essercitato,
seguirai l’ordine et modo inanzi detto.-
(Toschanello de la musica, Lib. II, Cap. XVI “Come il compositore possi dare principio al suo
canto”, 1523)
In questo passo da un lato Aaron osserva che nella pratica del suo tempo una composizione
poteva prendere avvio da qualunque voce e dall’altro rileva una difficoltà ben nota anche a
chi inizia a studiare oggi composizione: in un brano a 4 voci è più facile scrivere una buona
linea di soprano, di tenore o di basso che di contralto; perché quest’ultima rischia più
facilmente di essere schiacciata tra le altre parti. Ragion per cui se talvolta può essere
conveniente comporre voce per voce, non appena l’occhio e l’orecchio si fanno più esperti è
bene aver presente in un solo sguardo musicale e intellettuale l’intero edificio
contrappuntistico. Tutti aspetti che evidentemente tutti i compositori dei primi decenni del
1500 avevano già presenti. Col che però torniamo alla domanda dalla quale siamo partiti.
Se in una composizione polifonica, anche nella più regolare dove ogni voce si muove
rigorosamente entro la propria estensione e due voci adiacenti si muovono una in ambito
autentico e l’altra nel plagale, si può dire che la modalità dell’intero edificio polifonico sia
autentica o plagale? E nel caso, su quale base poggia la distinzione?
Ancora una volta è Tinctoris a rispondere ad una domanda così decisiva
-quando una qualche messa o chanson o qualsivoglia altra composizione fosse costruita di
diverse parti di modi diversi, se qualcuno domandasse assolutamente di quale modo quella
tal composizione fosse, chi è interrogato deve assolutamente rispondere “secondo la qualità
del tenore”, dal momento che [esso] è la parte principale di ogni composizione e per così
dire il fondamento di tutte le relazioni- (De natura et proprietate tonorum, cap. XXIV)
Il modo del tenore deve dunque essere considerato il modo dell’intera composizione.
Questa risposta rimane decisa e valida per tutto il periodo trattato nel corso. Infatti anche
Aaron conferma in maniera perentoria.
-Essendo el tenore parte stabile et ferma, cioè che tiene et piglia tutto el concento della
harmonia, è dibisogno che el cantore non altrimenti giudichi el tuono che perla sopra detta
parte, perché si vede, quando un tenore è rimosso dal suo canto, non rende gratia ma poca
suavità a quegli che tal cosa ascoltano, et questo aviene per la distanza che è dal contro
basso al canto, della qual cosa, essendo el tenore più commodo et facile per gli processi
naturali, dico che uno introito, un Kyrie, una Gloria, un graduale, uno alleluya, un Credo, un
offertorio, un Santus, uno Agnus Dei, un post comunione, un risponsorio, un Deo gratias, un
psalmo, uno hymno, un Magnificat, un motetto, una canzona, frottole, bargerette, strambotti,
madrigali et capitoli saranno tutti giudicati per el suo tenore, perché più facilmente si
considera la sua natural forma che nella parte del soprano […]; et così tal modo et ordine da
noi è dato in tutti gli canti che di voluntà del compositore son fatti, così sopra del canto
fermo, come senza rispetto di esso canto fermo, et il simile in quegli a cinque, sei, sette et di
più voci fatti, negli quali è consueto mettere un primo et principale tenore, sopra del quale
ciascuna altra parte è governata dalla natura di esso tenore, per ilche sarà cognosciuto el
tuono, excetto se in essi non fussi el proprio canto fermo, elquale è primo et principale a tal
cognitione.-
Altra testimonianza ci arriva da un anonimo italiano del 1600 che avverte che nei rari casi
la natura del tenore lasci dubbi, può venire in soccorso la voce corrispondente ovvero al
soprano.
-Tutti tuoni hanno da formarsi nel Tenore, perché volendoli in altra parte saria falsa et
nesceria gran confusione nella formatione di essi. Però volendolo conoscere di che tuono
sia una compositione si ha da guardare nel Tenore, et non potendolo conoscere nel Tenore
si ha da ricercare al Soprano, perché ha la istessa altezza et bassezza che ha il Tenore.-
La primazia del tenore nel momento in cui in una composizione tutte le voci sono
composte simultaneamente e non è presente un cantus firmus liturgico non è un dato di
ordine strettamente musicale dal momento in cui ciascuna voce ha la stessa importanza
delle altre.
Aaron infatti avverte che nei casi fosse utilizzato un cantus prius factus e questo fosse
collocato in una voce diversa dal tenore la modalità complessiva sarà determinata da quella
voce. Per tutti gli altri casi vale il tenore.
La primazia del tenore è quindi un dato di ordine storico che rimane valido pressoché in tutta
la teorizzazione rinascimentale e che per questo deve essere preso sul serio anche dalla
musicologia contemporanea nel momento in cui si appresta a valutare l’organizzazione dello
spazio sonoro di una composizione di quell’epoca.
Che i musicisti del 1500 distinguessero anche in polifonia modi autentici e plagali è del resto
reso palese dal fatto che in numerose raccolte dell’epoca la successione dei brani segue
l’ordine dei modi e che tale ordine non solo segue la progressione della finale, ma entro
ciascuna delle classi fondamentali distingue i brani autentici dai plagali.
Nel linguaggio teorico italiano del tempo, i modi non trasposti vengono definiti nelle loro ‘corde
naturali’. I modi trasposti sono detti ‘alla quarta alta’, alla ‘quinta bassa’ oppure chiamati per
‘bemolle’. Questo tipo di
trasposizione, che è resa
evidente dal segno
♭posto dopo la chiave,
ottiene:
-finalis G, per la categoria
del protus
-finalis A, per la categoria
del deuterus
-finalis C, per la categoria
del tetrardus
-per la categoria del tritus
la cosa si fa più
complessa.
Nella pratica musicale
del XVI e XVII secolo,
l’uso del bemolle è molto
frequente, anche nel modo,nella sua corda naturale F. Per evitare il tritono F -♮o la quinta
diminuita ♮- F. La sua ricorrenza frequente ha fatto sì che divenisse abituale porre il
♭direttamente in armatura, ma non in funzione di segno di trasposizione, ma per evitare di
dover ‘bemollizzare’ singolarmente ogni ♭del brano. Nel caso del tritus la trasposizione
avviene in senso inverso per bedurum, eliminando il bemolle dall’armatura di chiave e
trasponendo alla quinta superiore o alla quarta inferiore e ottenendo così la finalis C. Quindi
se nel V e VI modo troviamo ♭in chiave e finalis F il modo NON E’ trasposto, mentre se non
troviamo alterazioni in chiave e finalis C il modo E’ trasposto.
La trasposizione della finalis implica anche lo spostamento dell’intero ambitus finale.
La trasposizione alla quarta superiore riequilibra la situazione riportando ciascuna voce in una
zona più agevole e sonora.
Si può riformulare la regola generale.
Una composizione polifonica del Rinascimento, nel sistema in uso fino a Glareano (e, dopo di
lui, presso tutti coloro che rimasero fedeli alla teoria dell’octoechos) si ascrive a un
determinato modo
– innanzitutto in ragione della sua nota conclusiva, che ne determina l’appartenenza alla
classe del protus o del deuterus o del tritus o del tetrardus; tale note conclusiva,
● nei casi in cui non compaiono alterazioni in chiave, è rispettivamente D per il protus, E per
il deuterus, C per il tritus e G per il tetrardus; protus,
● nei casi in cui alla chiave sia associato il Be-molle, è rispettivamente G per il protus, A per
il deuterus, F per il tritus e C per il tetrardus;
– in secondo luogo distinguendo, per ciascuna qualità modale, tra modo autentico e modo
plagale sulla base dell’ambito del Tenor (considerato naturalmente in rapporto alla nota
conclusiva).
La solmisazione, associata a
Guido D’arezzo, è connessa alla
maniera con la quale i cantori
leggevano la propria parte.
Il contributo iniziale viene dai
giovani monaci dell’abbazia di
Pomposa a Ferrara. Constatata
la difficoltà di memorizzare i brani
del repertorio gregoriano. Si creò
un metodo che consentiva di
memorizzare un’immagine
acustica degli intervalli musicali
per poterli riutilizzare
nell’apprendimento di un nuovo
brano.
Il metodo si basava sul testo e sulla melodia dell’inno a San Giovanni Battista. Era noto a tutti
in quanto S. Giovanni era il protettore dei pueri cantores.
La melodia fu composta da Guido ed era funzionale al metodo. Saliva di grado ad ogni
emistichio in corrispondenza delle sillabe Ut-Re-Mi-Fa-Sol-La.
Nel repertorio gregoriano classico non esistono casi di intervalli diretti (?) di settima.
Guido, pedagogo, insegnava una teoria che serviva effettivamente per la pratica (non astratta)
Con il tempo le sillabe guidoniane chiamate ‘voces’, divengono denominazione distintiva di un
singolo suono.
La lettura di una linea melodica, compresa nell’ambito dei sei suoni da Ut a La (esacordo)
risultava come mostrato in questo esempio:
Per un cantore
dell’epoca la
trasposizione modale
era un fenomeno meno
evidente.
D≠RE
in quanto la lettera D si
riferisce a un suono
specifico, mentre la
sillaba RE indica una
specifica posizione
relativa entro una
struttura intervallare.
La pratica della
solmisazione, che si
perfezionò nel 1200 e fu associata alla modalità nel 1500, rimase molto in uso ma alla fine del
1400 si prova a superare.
Nell’Italia del 1600 il cambio di Ut a Do avviene ad opera di Giovanni Battista Doni. Dato che
Ut era poco fonica optò per il Do di Doni. Difatti il Do è circoscritta solo all’Italia.
La solmisazione è fondamentale per la trasposizione dei modi, per l’analisi degli exordia
(sezioni iniziali di un brano)
Nel medioevo e rinascimento la cadenza è una frase o movimento stereotipato che conclude
una composizione o una sua parte.
Nell’armonia tonale, individua una determinata successione di funzioni armoniche che
suggella una frase (es. successione dominante-tonica) o conferisce alla frase un senso di
sospensione (tonica-dominante).
In termini formali il termine cadenza corrisponde invece a un passaggio di bravura inizialmente
improvvisato che si colloca di norma verso la fine di un movimento di un concerto per solista e
orchestra nel periodo classico ( il solista inserisce nel mezzo della successione la dominante
in 4-6 e dominante in 3-5).
Il meccanismo tensivo cons. imperfetta - cons. perfetta può essere potenziato con l’inserzione
di una dissonanza collocata tra la consonanza imperfetta e la consonanza perfetta.
Tipicamente la dissonanza interessa la clausola cantizans e si configura come un ritardo
ornato.
Meier, riprendendo alcune regole di Zarlino,
definisce le cadenze che contengono la
dissonanza ‘Clausolae formales’ mentre
quelle senza dissonanza ‘Clausolae
simplices’.
La definizione ‘formales’ è motivata
dall’ulteriore impulso direzionato verso la
nota di mira della cadenza che la dissonanza
imprime, così da dare alla cadenza stessa
una forma definitiva e inequivocabile e ciò che appunto definisce la forma della cadenza.
La meta di una cadenza rinascimentale è sempre quella che viene prefigurata dal suo
innesco, anche nei casi in cui la sonorità complessiva della risoluzione cadenzale fosse
sonorialmente, fenomenologicamente diversa o addirittura, non esistesse affatto.
E il fatto che la meta della cadenza possa essere una nota diversa da quella attesa o,
addirittura, possa non esistere affatto, è un’eventualità tutt’altro che rara.
LEZIONE 5
Le ragioni che rendono opportuno tracciare una tipologia delle cadenze dipendono dal fatto
che la musicologia ha da tempo riconosciuto l'importanza della polifonia rinascimentale
continuando così ed espandendo quella tradizione che era iniziata con i trattati medievali di
contrappunto era proseguita con i teorici del Rinascimento come Aaron, Vicentino, Zarlino,
Vincenzo Galilei ed era culminata con gli scritti dell'inizio del XVII secolo di ed i suoi colleghi
di area germanica prima di entrare nella linea evolutiva che dà al termine stesso di cadenza
un nuovo senso nel contesto della tonalità armonica.
Nel medesimo tempo, però la musicologia non è ancora realmente giunta a una definizione
condivisa di quello che in termini rinascimentali costituisce una cadenza ne è giunta una
convergenza sulle diverse maniere in cui due o più voci stabiliscono quelle peculiari relazioni
reciproche che chiamiamo quel tipo di cadenza. Allo stesso modo a rimangono ancora nella
musicologia incertezze e difformità di comportamento tra i diversi studiosi sulla questione
fondamentale e quali connessioni tra testo e musica permettono di qualificare come cadenza
una specifica progressione melodico contrappuntistica al contrario pur in presenza di
movimenti analoghi alle tipiche clausole cadenzale lo impediscono in quanto non sono
conformi a determinate condizioni testuali ritenute indispensabili.
Nella musica vocale tutto quanto abbiamo appena ricordato si combina ad un testo dotato di
sue articolazioni proprie (ritmiche periodiche che contenutistico strutturali ecc.)
La relazione testo-musica entra così a vario livello a far parte della definizione complessiva
di cadenza e ne costituisce un elemento che può tanto confermare quanto entrare in frizione
con l'aspetto puramente musicale della cadenza stessa, confermandone così o, al contrario,
indebolendone forza, o addirittura contraddicendola, fino al punto da impedire che la
cadenza si dia nel pieno senso del termine.
Meier nel suo libro fondamentale sui ‘’modi nella polifonia vocale classica’’ afferma molto
chiaramente che le cadenze devono essere sempre collegate alle articolazioni del testo
letterario o liturgico.
«[vi è] la necessità da parte dei compositori di distribuire le cadenze rispettando il più
possibile la scansione metrico-fraseologica del testo»
Le cadenze, insomma, possono essere considerate gli equivalenti musicali delle articolazioni
sintattico-contenutistiche del testo.
Un'affermazione di questo tipo fa eco all'insegnamento dei teorici del rinascimento che più
sono entrati nella dimensione retorica oratoria della relazione musica-testo. Una dimensione
la cui comparsa segnala per certi versi una delle più significative linee di demarcazione tra le
composizioni di concezione medievale e le composizioni rinascimentali più immediatamente
e intenzionalmente espressive del testo che intonano.
Possiamo integrare nella definizione del concetto di cadenza l'idea che essa sia
sostanzialmente un'articolazione musicale inseparabile dal -o addirittura originata- dal
significato del testo.
Ovviamente le possibili articolazioni di un testo letterario non di rado possono essere più
d'una e quindi possono musicalmente dar luogo a una gamma differenziata di effettive
attività cadenzali.
La frase può essere musicata sia come un'unità, ossia con una cadenza soltanto alla fine
della frase, oppure può essere suddivisa, in due, tre o anche quattro segmenti musicali (e
quindi punti di imitazione) corrispondenti alle diverse maniere con cui la frase può essere
articolata nel rispetto del suo senso letterale.
Al contrario, nella logica zarliniana, una cadenza non può avvenire in mezzo alla parola o tra
due parole normalmente unite da ragioni grammaticali sintattiche o di contenuto.
Un aspetto problematico del discorso di Zarlino e un aspetto non senza conseguenze sul
piano dell'interpretazione musicologica del suo senso è invece il fatto che le prescrizioni
descritte nel passo sono puramente teoriche.
Sebbene nelle prescrizioni anche l'argomento delle cadenze sia illustrato con esempi
musicali specifici, nessuno di questi esempi contiene la benché minima traccia di testo posto
sotto le note. Non possiamo quindi verificare direttamente come e fino a che punto la
descrizione teorica ripercorra e corrisponda i riferimenti musicali d'autore su cui Zarlino ha
basato le sue riflessioni ( ‘musica nova’ del suo maestro Willaert).
Questa impossibilità di verificare direttamente quanto appena esposto ha avuto un
versamento, un impatto significativo sulla musicologia moderna, nella quale il peso effettivo
del testo letterario (nell'identificazione di una cadenza) varia da essenziale a nullo.
Le molte tavole di piani cadenzali di composizioni cinquecentesche che Meier introduce nel
suo libro sui modi, ad esempio, lasciano facilmente intendere che la sua nota cautelare
sull'importanza del testo nella costituzione, nella individuazione delle cadenze, non trova poi
una grande importanza nelle sue stesse analisi.
Possiamo vedere a riprova due esempi tratti da 2 mottetti di Orlando di Lasso, citati appunto
da Meier.
A b.47 Meier individua una
clausola cantizans nel cantus e
una clausola tenorizans nell’alto.
Propriamente parlando però la
conclusione della linea del
cantus non è il Re che segue il
ritardo ornato, ma il La
successivo.
L’effettiva consistenza cadenzale
dell’intero passaggio, nonostante
il movimento contrappuntistico
tipico della clausola cantizans, è
discutibile.
In questo ultimo
esempio, nelle
bb.429-430,
Fromson individua
tre cadenze (su
Fa, Re e Do) tutte
comprese entro lo
sviluppo musicale
della parola
‘mysterium’.
NESSUNA delle cadenze citate negli esempi dovrebbe essere considerata come una
cadenza vera e propria, proprio perché in ciascuno dei tre casi i movimenti melodici
interpretabili come clausole sono in conflitto con la grammatica e la semantica; in una
parola, con la logica interna del testo, e dunque non sono realmente clausole, sono solo
movimenti melodici.
La logica sottesa all'individuazione come quella che fa Fromson in altri termini è ancora
quella tardo-medievale di Tinctoris, quindi è ancora un individuazione slegata da un vero
legame col testo. Mentre l'altezza cronologica e la fattura delle composizioni prese a
esempio domandano invece di applicare molto esattamente il criterio rinascimentale
dell'assoluto rispetto della relazione testo musica così come viene espresso dalla
teorizzazione zarliniana.
Come si fa allora ad affrontare una questione di questo tipo? E’ più che desiderabile un
insieme di criteri il più possibile oggettivi.
Marco Mangani ha cercato di sviluppare un approccio del genere fino dalla sua tesi di
dottorato centrata sul repertorio delle canzonette mantovane.
Mangani e Sabaino hanno dunque elaborato una serie di criteri per definire le condizioni
d’esistenza di una cadenza in relazione a un testo (prosastico il più delle volte).
Il punto di partenza è che la determinazione di una cadenza dovrebbe considerare, e
abbracciare in un unico sguardo, tanto la competenza intuitiva degli ascoltatori riguardo alla
forma e al significato del testo, quanto la configurazione degli elementi musicali orizzontali e
verticali.
Questa doppia considerazione da luogo a un doppio livello di segmentazione che in termini
generali ed empirici possiamo descrivere come segue
Le clausole lineari tipiche di una cadenza danno effettivamente luogo a una cadenza
quando:
A) si trovano alla fine di una frase musicale;
B) appaiono combinate contrappuntisticamente almeno a due a due;
C) non contraddicono nessun livello della segmentazione testuale.
Ogni altro movimento, sia limitato a una sola clausola sia astrattamente interpretabile come
sovrapposizione di clausole ma contraddetto o disassato sul piano della realtà combinata di
testo e musica, non costituisce cadenza in quanto insufficiente sul piano del contrappunto
e/o sul piano delle relazioni testo-musica.
Sviluppiamo ora una tipologia e una tassonomia delle diverse possibilità cadenzali e
osserviamo le relazioni che la teoria modale istituisce tra gradi cadenzali e definizione del
modo.
Dal momento che il nostro interesse non è tanto l'origine storica dei procedimenti cadenzali
quanto piuttosto la loro funzione nella polifonia classica, possiamo sentirci liberi di attingere
secondo convenienza alle diverse terminologie che si sono succedute nel tempo.
Tra queste, sempre a livello della progressione direzionata consonanza
imperfetta-consonanza perfetta, la più adeguata i nostri scopi è quella usata da Gallus
Dressler nei ‘’Praecepta musicae poetica’’ (teorico germanico 500esco).
Abbiamo quindi le CADENZE SEMI-PERFETTE (es.A e B), che nella voce più grave
presentano la clausola tenorizans o la clausola basizans (abbreviazione SC, Semiperfect
Cadence).
Chiamiamo invece CADENZE PERFETTE (es. C e D) le cadenze che presentano la
clausola basizans nella voce inferiore (abb. PC, Perfect Cadence).
I rari casi in cui il moto contrario costituisca una vera cadenza potrebbero di conseguenza
essere etichettati come cadenza semi-perfetta altizans (es. E)
Per analogia definiremo le occorrenze in cui la cadenza comprenda tutte tre le clausole
cadenza perfetta completa (es. F).
Nel comparto delle cadenze fondamentali occorre considerare anche la cadenza in Mi, per
distinguere la quale il più delle volte sarà sufficiente l’etichetta di ‘CADENZA FRIGIA’. (es A
e B)
Quando la voce più grave non termina sulla nota di mira Mi viene chiamata ‘cadenza frigia
contrappuntata’ (es. C)
A completamento della morfologia fondamentale delle cadenze, possiamo infine citare la
CADENZA PLAGALE che ha luogo quando la voce più grave sale di quinta o scende di
quarta (l’inverso della tipica clausola basizans).
Questo movimento può corrispondere:
-all’interruzione del meccanismo cadenzale sella penultima sonorità di una cadenza che si
avvia ad essere perfetta; (Lasso, es 1)
-oppure, assai più frequentemente, come movimento confirmatorio di una precedente
cadenza. (Palestrina, es 2)
Le cadenze frigie, perfette e semi perfette sono definite da Zarlino ‘CADENZE SEMPLICI’.
Le PC e SC possono essere arricchite da un ritardo che rafforza il movimento direzionato
verso la nota di mira della cadenza, queste formule vengono chiamate da Zarlino
‘CADENZE DIMINUITE’.
Nicola Vicentino (1555) ritiene addirittura che le cadenze diminuite siano le uniche che
meritino di esser chiamate cadenze.
Dal momento che le
forme con il ritardo sono
quelle onnipresenti,
quasi di norma nella
musica rinascimentale.
Per questo usiamo la
denominazione
CLAUSOLA FORMALIS, proposta da Meier, che evidenzia come la dissonanza sia ciò che
da alla cadenza la sua forma propria.
Al bisogno, le sigle precitate possono essere integrate dal prefisso ‘f’ indicante appunto la
clausola formalis.
In tutte le formulazioni cadenzali osservate ogni clausola raggiunge la sua meta. La
cadenza, nel suo insieme melodico-contrappuntistico, realizza compiutamente la sua
funzione articolatoria del suo discorso musicale. Può essere pertanto definita CADENZA
REALIZZATA, in cui tutte le voci attive in quel momento segnano il punto di articolazione o
riposo prefigurato dall’innesco della cadenza stessa. In termini di punteggiatura equivale al
punto fermo.
Le cadenze realizzate non esauriscono tutte le possibilità cadenzali a disposizione dei
compositori rinascimentali.
Zarlino raccoglie le altre possibilità sotto l’etichetta di CADENZA FUGGITA e ne parla nel
suo ‘Le Istitutioni Harmoniche’, parte III cap.53-54
(cap. 54)
’l Fuggir la cadenza [è] un certo atto, il qual fanno le parti, accennando di voler fare una
terminatione perfetta […] et si rivolgono altrove.
(cap. 53)
quando si vorrà fare alcuna distintione mezana dell’harmonia, et delle parole insieme, le
quali non habbiano finita perfettamente la loro sentenza; potremo usar quelle Cadenze, che
finiscono per Terza, per Quinta, per Sesta, o per altre simili consonanze: perche il finire a
cotesto modo, non è fine di Cadenza perfetta: ma si chiama fuggir la Cadenza; si come hora
la chiamano i Musici. Et fu buono il ritrovare, che le Cadenze finissero anco in tal maniera:
conciosia che alle volte accasca al Compositore, che venendoli alle mani un bel passaggio,
nel quale si accommodarebbe ottimamente la Cadenza, et non havendo fatto fine al Periodo
nelle parole; non essendo honesto, che habbiano a finire in essa; cerca di fuggirla.
La caratteristica prima di ogni cadenza fuggita -come sottolinea Carol Berger- è il fatto che la
terzultima e la penultima sonorità si comportano regolarmente, mentre la sonorità finale è
irregolare, diversa dalla meta attesa. Per essere efficace, infatti, una cadenza deve essere
innescata (=congegnata in maniera tale da lasciare intendere quale sarà la sonorità su cui il
processo cadenzale troverà conclusione).
Un indebolimento cadenzale più deciso si ha invece quando tutte le voci attive prendono
parte al processo cadenzale, ma almeno una di loro evita la sua conclusione tipica.
Questa è una CADENZA EVITATA.
Il fuggimento della nota di mira può essere attuato attraverso 3 procedimenti diversi:
Un caso di cadenza
deviata degna di nota si
osserva quando l’ultima
nota della clausola
tenorizans sale, anziché
scendere di tono. Questa
deviazione è la maniera
più comune per inserire
nella sonorità finale della
cadenza una consonanza
di terza.
E’ la CLAUSOLA
TENORIZANS DEVIATA.
Fino alla metà del XVI sec.
una deviazione del genere
comporta ancora un
indebolimento della clausola cadenzale.
Nell’esempio la clausola tenorizans deviata corrisponde alla prima enunciazione della prima
copia di versi del madrigale, mentre la clausola tenorizans tipica corrisponde alla seconda e
ultima enunciazione degli stessi versi.
Dalla seconda metà del secolo invece la sua ricorrenza nelle cadenze conclusive di un
brano o di sezioni importanti impedisce di considerarla una deviazione reale in quanto il suo
scopo non è di indebolire la cadenza, ma rafforzarla tramite una sonorità più piena (ormai
sono presenti anche le consonanze imperfette).
La peculiarità di questa
tenorizans può essere
evidenziata in analisi con
‘T↗’.
Le cadenze evitate non sono l’unico mezzo che il compositore rinascimentale usa per ridurre
l’impatto segmentante di una cadenza.
Un’altra possibilità molto usata prevede la costruzione di un meccanismo cadenzale che non
coinvolga tutte le voci, ma solamente alcune di loro. La debolezza della cadenza sarà quindi
direttamente proporzionale al numero di voci che non sono coinvolte nel processo. Tante più
voci non partecipano alla cadenza, tanto più la cadenza sarà indebolita.
Chiamiamo queste occasioni ‘CADENZE PARZIALI’.
Tra queste, le più semplici
(meno indebolenti) sono
quelle che soddisfano tutte
le condizioni testuali ma che
sono anche parte di un
tessuto musicale più ampio
in cui almeno una voce è
estranea alla cadenza.
La differenza tra una
cadenza parziale di questo
tipo e una cadenza
realizzata è il disassamento
del testo tra la terzultima e
l’ultima nota della cadenza.
...
RIASSUMENDO
Per poter mappare e analizzare a pieno le composizioni rinascimentali, la gerarchia delle
cadenze che la tassonomia permette di costruire deve essere misurata in base al rango
modale di ciascuna cadenza.
Il significato di questo rango deve essere giudicato in base alla scala della composizione.
Cosa significa rango modale di una cadenza?
Abbiamo notato quanto i teorici siano attenti a indicare che le cadenze musicali coincidano
con punti significativi di articolazione del testo letterario. Gli stessi teorici sono però
egualmente attenti a prescrivere che, per ciascun modo, le cadenze abbiano luogo solo sui
gradi appropriati. Quali siano appropriati o meno non è fisso. Ogni teorico offre una lista, una
propria classificazione. Una sinossi delle diverse liste mostra al lettore moderno più
divergenze che convergenze.
Tutti concordano che è conveniente cadenzare sulla finalis e sulla repercussa del modo; per
il resto, le disparità di concezione, sono rivelatrici di concezioni praticamente inconciliabili.
Una prima, e ancora generica, divergenza riguarda la scala di congruenza tra modo e gradi
cadenzali.
Per alcuni (Zarlino, Tigrini) esiste soltanto un’opposizione polare tra cadenza regolare e
cadenza irregolare.
Per altri teorici la proporzione è più sfumata. I gradi si dispongono da un massimo a un
minimo di congruità passando per una classe intermedia variamente denominata. Ponzio
per esempio parla di cadenze proprie principali, cadenze principali e terminate e cadenze
possibili esclusivamente per transito.
Dressler distingue tra clausola principale, clausola minus principale e clausola peregrina;
termini che useremo anche noi per la loro funzionalità.
Nel merito della valutazione della convenienza di un grado cadenzale rispetto al modo
d’impianto, gli autori più distanti sono Aaron e Zarlino.
Zarlino, al contrario, muove da una sistematicità teorica, per approdare a quella che
potremmo definire una vera e propria matematizzazione dello spazio sonoro.
Le Istitutioni Harmoniche azzerano la varietà fattuale delle corde cadenzali rinascimentali e
uniformano le cadenze di tutti i modi. Si considerano 12 scale, non 8.
L’armonizzazione avviene su basi matematiche, senza alcuna distinzione tra autentico e
plagale.
Ponzio e Dressler, nei decenni successivi, rimangono più aderenti ad un principio di realtà,
registrando più possibilità cadenzali.
Le divergenze teoriche si spiegano, in parte, con le diverse altezze cronologiche dei trattati e
soprattutto con i concreti repertori che stanno alla base delle osservazioni di ogni autore.
Aaron, per esempio, guarda alle ultime generazioni fiamminghe e non si spinge oltre
Josquin.
Dressler si basa sulle composizioni di Clemens non Papa e i suoi contemporanei.
Ponzio, vivendo decenni dopo, ha in mente soprattutto la musica di Cipriano de Rore.
Zarlino, pur citando Willaert, va considerato un caso a se stante.
Questa è una situazione a cui l’analista deve tener conto, per non incorrere in valutazioni
anacronistiche.
Per il repertorio della seconda metà del 1500 per esempio, la teoria di Ponzio (per gli autori
italiani) e la teoria di Dressler (per gli autori tedeschi) risulterà più pertinente della teoria di
Aaron; mentre il possibile influsso zarliniano andrà verificato caso per caso.
La divergenza teorica sul tema delle cadenze proprie di ogni modo rimane un punto
sensibile nella considerazione globale delle questioni modali come vedremo, nel momento in
cui terminata l’esposizione degli elementi fondamentali prenderemo in considerazione le più
importanti interpretazioni critiche avanzate dalla musicologia degli ultimi decenni sul tema
della modalità.
LEZIONE 6
Exordium è un termine retorico che, sin dall'antica oratoria latina, identifica la parte iniziale
del discorso.
Il suo compito era quello di predisporre l'uditorio all'ascolto. All’exordium seguivano la
narratio (esposizione dei fatti), l’argumentatio (la dimostrazione razionale degli argomenti a
sostegno della propria tesi a confutazione di quelle degli avversari) e, infine, la peroratio
(epilogo eso a convincere anche emotivamente gli ascoltatori della fondatezza delle
argomentazioni presentate).
L’idea della composizione musicale come discorso retorico nasce nel tardo Quattrocento
pressappoco durante la generazione di Josquin; e ancora una volta il ‘Liber De arte
contrapuncti’ di Tintoris a farsene interprete tra i primi.
Questa concezione si lega al portato umanistico che suggeriva di intonare il testo letterario
liturgico senza più la mediazione di forme fisse strutturalmente costituite come le medievali
ballata, madrigale, caccia, chanson, virelai, rondeau ecc., ma in maniera libera in modo da
esprimere il più possibile il senso del testo.
Un modello precoce che ben esprime questa tendenza può essere considerato, per
esempio, il mottetto ‘Ave Maria Virgo Serena’ di Josquin.
Dal secondo-terzo decennio del Cinquecento l'ideale oratorio diviene pervasivo e prevalente
pressoché in tutti i generi musicali. Seguirà una teorizzazione minuta soprattutto in area
germanica che svilupperà una teoria del discorso musicale, tanto in termini strutturali di
exordium, medium e finis, quanto in relazione alle figure retoriche musicali atte a esprimere
determinati affetti del testo intonato.
In particolare, Dressler distingue due tipi differenti, definiti PLENUM e NUDUM.
Leggiamo la definizione da ‘Praecepta musicae poeticae, cap. X’
[L’exordium] ‘pieno’ è quello in cui tutte le voci iniziano insieme sullo stesso tempo;
definiamo ‘esordio scoperto’ quando non tutte le voci iniziano insieme, bensì procedono in
ordine l’una dopo l’altra. Questi tipi di esordi per lo più sono costituiti da fughe [= imitazioni])
In termini moderni, il primo tipo di exordium (plenum) corrisponde a una testura
prevalentemente omoritmica, mentre il secondo (nudum) -decisamente più comune nella
composizione rinascimentale- equivale a un inizio imitativo nel quale il motivo iniziale (detto
soggetto) viene reiterato ad altezze diverse.
Il seguito di sezioni conformate in questa maniera (tecnicamente si chiamano punti di
imitazione) sono ciò che costituiscono il più frequente medium (parte centrale) di una
composizione mottettistica il cui disegno si potrebbe, pressappoco, schematizzare come
segue.
Tra gli elementi fondamentali più funzionali all’espressione del senso del testo i teorici del
rinascimento individuano quindi (già con Gaffurio nel 1496) le categorie modali, riprendendo
così l’antica categoria greca dell’ethos, e associando -come avevano già fatto nel versante
monodico i primi teorici della modalità- ciascun modo a un peculiare affetto (come la letizia, il
pianto, il furore ecc.).
Circa questa ‘natura affettiva’ di ciascun modo diamo ora uno sguardo d’insieme l’ethos dei
modi secondo alcuni teorici rinascimentali.
Si limita la selezione per coerenza con l’orizzonte modale studiato nel corso soltanto a
quegli autori che non oltrepassano la teoria tradizionale degli 8 modi.
Non si riporta di conseguenza né quel che dice Zarlino, né quel che dice Tigrini e altri teorici
del secolo successivo.
Le indicazioni e le suggestioni sono molto diverse, talvolta perfino opposte.
Si rivela una situazione quasi paradossale. Il fatto che ogni modo sia depositario di una
composizione adeguata e consapevole è una precomprensione che trova d’accordo tutti i
teorici.
Che quel preciso modo veicoli e determini quel preciso ethos è invece materia di tale
discordanza da far sorgere il dubbio che siano le convergenze a essere casuali e non le
divergenze a essere indicative.
Gli stessi teorici sono a conoscenza di questo fatto, come possiamo comprendere da Pietro
Ponzio nel ‘Dialogo … ove si tratta della teorica et prattica di musica’. Il teorico parmigiano
rileva che ogni modo ha una sua propria natura, ma ammette anche che la concreta fattura
di un brano possa poi trasformare questa natura in qualcosa di diverso.
Scrive Ponzio:
Vero è, che di ogni Tuono si può far mesto, et allegro, se il Compositor serà intelligente in
questa Prattica della musica […] i moti delle parti tardi rendono la compositione alquanto
mesta […] Quando adunque [il compositore] vorrà, che la sua cantilena sia mesta, si servirà
di tai moti tardi, et anco della Terza minore, la qual rende assai mestitia. Se poi vorrà la sua
compositione allegra, si servirà delli moti veloci […] et in luogo della Terza minore si servirà
della Decima maggiore, et di altri movimenti che fanno la Musica allegra. Si che havendo
questa intelligenza potrà ad ogni Tuono tramutar la sua natura
Una volta scelto il modo, d’altra parte, il compositore dovrà stare attento a mantenerlo per
tutto il brano tramite una scelta oculata dei gradi cadenzali. Dovrà egualmente rendere
intelligibile il modo soprattutto nella sezione iniziale, l’exordium, che è il luogo in cui la
limpidezza modale deve trasparire al massimo della sua evidenza.
Le indicazioni al riguardo nei trattati sono più spesso rintracciabili nelle sezioni sul
contrappunto che nelle trattazione sui modi la loro abbondanza e ricchezza, così come la
diversità di argomentazione addotta dai singoli autori sono quindi impossibili da passare in
rassegna in una esposizione introduttiva.
Dobbiamo allora limitarci ad alcune considerazioni generali su questo tema.
Queste indicazioni generali possono essere ordinate intorno a due assi complementari, ma
distinti, le cui potenzialità sono visibili specialmente negli esordi nudi di Dressler (esordi
imitativi).
Questi sono il profilo melodico del primo soggetto e il rapporto intervallare tra le diverse
entrate vocali del medesimo soggetto.
Possiamo prendere ad esempio quel che Ponzio scrive nella terza parte del ‘Ragionamento
di musica’ del 1588, a proposito di come sia possibile distinguere melodicamente il settimo
modo dall'ottavo.
«[allievo] Una sol cosa voglio domandarvi; come potrò distinguere il settimo Tuono
dall’ottavo; et così il primo dal secondo; quando in suo proprio luogo, essendo da una
medesima spetie formati, et servendo le medesime cadenze principali, così al settimo, come
all’ottavo; et così al primo, come al secondo; et così degl’altri tutti parlando però de Motetti,
Messe, Madrigali, et altre compositioni; eccetto, che de Salmi, quali sò che si conoscano per
la lor intonatione. [maestro] Quando al distinguere il settimo dall’ottavo, et così gli altri,
conviene haver cognitione della lor formatione, et saper parimente l’intonationi, medietà, et
fini delli Salmi; et in due modi si può conoscere l’uno dall’altro; uno per gli principii, l’altro per
le cadenze. Vi ragionerò del settimo, per il quale potrete poi degl’altri far giudicio. Il settimo
non farà giamai per principio, ut, fà, nè si poco, ut re mi fa, i quali principii sono all’ottavo più
appropriati, ma si bene ut sol, overo, ut mi sol, et anco ut mi fa sol, et sol mi fa sol, et simili
principii».
Alla domanda dell’allievo su come si possa distinguere il settimo dall’ottavo modo -dal
momento che i due condividono sia la specie di quarta, sia la specie di quinta, sia i gradi
principali cadenzali- e su come si possano distinguere i due modi nella composizione non
legata a un tono salmodico (il modo dei toni salmodici si distingue immediatamente
dall’intonazione), il maestro risponde che questo può avvenire sia per il loro differente profilo
melodico, sia per il loro piano cadenzale.
Riguardo la distinzione tramite profilo melodico, Ponzio fornisce esempi appropriati per il
settimo modo, ma non per l’ottavo e viceversa.
La questione del rapporto intervallare tra le diverse voci in imitazione è una questione
analiticamente più delicata e più sfumata.
Pietro Ponzio, nel ‘Dialogo … ove si tratta della teorica et prattica di musica’ dà un'unica
indicazione generale. Occorre che la fuga (imitazione tra le parti) si svolga secondo gli
intervalli propri del tuono, come in questo esempio
Dressler, nei Praecepta musicae poeticae, cap. XI, offre una casistica più sviluppata che
contiene anche qualche rimando musicale d’autore
(1) I fondamenti delle imitazioni si traggono dalle specie di quarta e di quinta – vedi Mane
nobiscum, Domine, Adesto dolori meo [di Clemens non papa] e Videntes stellam [di Orlando
di Lasso];
(2) I fondamenti delle imitazioni si traggono dalle repercussiones dei modi, usate tanto
scoperte [= da sole] quanto con altri intervalli interposti;
(3) Le imitazioni utilizzano le cadenze proprie dei modi musicali, in maniera tale da passare
da una cadenza all’altra, come in Domine Iesu Christe [di Clemens non papa];
(4) Le fughe miste sono impostate in parte sulle repercussae, in parte sulle specie di quarta
e di quinta, come nell’esordio del mottetto Deus virtutum di Crequillon in sesto modo, basato
in parte sulla specie di quarta Fa-Ut e in parte sulla repercussio Fa-La, oppure come in
Maria Magdalena [di Clemens non papa], nel quale vi sono imitazioni miste. Nessuna
imitazione si può trarre altrimenti che dai fondamenti appena esposti.
Con l’osservazione della rilevanza modale degli exordia abbiamo finalmente così messo in
campo tutto quel che serve per analizzare -nell’orizzonte degli otto modi- madrigali, mottetti
e altre composizioni rinascimentali.
LEZIONE 7
L’idea di Glareano è quella di sanare questa aporia riconoscendo che Ut e La sono finales a
pieno titolo.
Il retroterra concettuale sotteso a quest’idea trova origine non tanto nel desiderio di rimettere
in assi teoria e prassi quanto nella volontà di emendare una concezione teorica detenuta da
lui erronea nella sua stessa costituzione.
Per Glareano il sistema modale comprende 12 classi perché la teorizzazione modale ha
mancato di riconoscere quel che avrebbe dovuto esser compreso fino dagli inizi.
I modi infatti, secondo Glareano, sono sempre stati 12.
Mentre nei brani che terminano in sol o in la il bemolle è un vero e proprio indicatore di
trasposizione, nelle composizioni che terminano in fa la medesima segnatura è soltanto una
misura precauzionale volta a evitare i tritoni, in quei casi la finalis resta Fa.
Per Glareano tuttavia una prassi del genere è inaccettabile. Dal momento che il suono Do è
divenuto una finalis legittima scrivere un brano in fa con il sib in chiave significa notare non
un brano in V o VI modo ma un brano in XI o XII modo trasposto alla quinta inferiore.
Una volta ritrovato il modo di Do il Sib in chiave non può che equivalere ad un indicatore di
trasposizione.
Nel Dodecachordon, Lib. II, cap. V Glareano spiega il rapporto tra V e VI e XI e XII modo.
Idem dicasi del quinto modo antico, dal momento che essi abbassavano il tetracordo
diegzeumenon [trasformandolo] nel tetracordo synemmenon quando volevano addolcirne la
durezza, ottenendo così una divisione armonica che poteva essere collocata nel sistema del
sesto modo antico o modo ipolidio, laddove [quel] sesto [modo] sarebbe [in realtà] diviso
aritmeticamente […] Certamente il nostro tempo non fa uso del quinto o del senso modo
antico così di frequente quanto [adopera] gli attuali quinto e sesto nuovi, ossia l’undicesimo
e il dodicesimo o iastio e ipoiastio. […] In verità abbiamo spesso fatto esperienza di quanto
la caparbia ostinazione possa a riguardo di studiosi faciloni che millantano una grande
erudizione nelle cose della musica. Costoro sostengono che l’intero sistema non viene per
nulla alterato dall’alterazione dell’uno o dell’altro semitono; dicono infatti che quel canto è
synemmenon e per così dire avventizio e che non cambia nulla della sostanza del modo;
[sostengono] inoltre che è del tutto insensato formare o implementare un modo diverso sulla
base dell’inversione del sistema; [e sostengono, ancora] che i nostri modi undicesimo e
dodicesimo non devono essere in alcun modo separati dagli antichi modi quinto e sesto per
il fatto di alterare un singolo semitono della quinta […] [Invece], i nuovi modi quinto e sesto –
per noi, i modi undicesimo e dodicesimo – non sono per nulla identici agli antichi modi quinto
e sesto; i primi, infatti [undicesimo e dodicesimo] formano la quinta Sol-Ut dalla quinta
Fa-Fa, ossia, dalla quarta specie di quinta [che ha il semitono] in terza posizione, mentre nei
modi antichi [il semitono] era in quarta posizione.
Questa reinterpretazione delle finales Fa con il Sib in chiave porta con se l’ovvia
conseguenza per la quale il compositore che nel sistema dei 12 modi voglia notare un brano
in V o VI modo non può segnare alcun bemolle in chiave. Ciò accade nella prassi
compositiva post-glareano seppure in casi assai rari.
Orazio Vecchi scrive nel trattato Mostra delli Tuoni de la Musica
questo quinto tuono non è frequentato perché a molti par duro, ma però è atto alla modestia
e alla solevatione degl’animi noiosi come si vede nel madrigale di Luca Marenzio Venuta era
Madonna.
Altro esempio del quinto modo glareaniano è il madrigale ‘Poi che del mio dolore’ di
Monteverdi.
E’ nei modi di La, però, che il sistema dei modi mostra maggiormente i propri effetti per via
della costituzione stessa di quella scala modale che per i teorici pone diversi problemi di
distinzione, mentre ai musicisti consente alcune applicazioni assolutamente peculiari
Dedichiamo perciò il resto della lezione a esaminare le caratteristiche salienti di questi nuovi
modi. Non però direttamente tramite Glareano, ma da ‘Le Istitutioni Harmoniche’ di Zarlino;
un volume che si appropria del sistema di Glareano e lo riespone senza nominare il teorico
svizzero.
Nella quarta parte del trattato Zarlino discute dei modi in generale dapprima e poi li passa in
rassegna singolarmente, indicando per ciascuno costituzione, cadenze ed ethos così come
alcuni titoli di brani polifonici ritenuti particolarmente atti a esemplificare ciascun modo.
Quando tratta il IX modo Zarlino afferma innanzitutto che quel modo non è per nulla nuovo e
anzi, antichissimo. L’apparente novità deriva dal mero fatto che in passato è stato
classificato come irregolare. E’ quindi giunto il tempo di riassegnargli definitivamente la
denominazione e posizione che gli competono.
Per supportare il proprio discorso, Zarlino, ricorre -per la prima volta nel corso del trattato-
non solo a composizioni polifoniche ma anche a precisi brani del repertorio liturgico
monodico
Due dei brani che Zarlino cita (l’Antifona Ave Maria e l’intonazione del tono peregrino) gli
consentono di notare come nel canto piano la realtà di quei modi sia celata da una loro
trasposizione per bemolle alla quinta bassa.
Per osservare il nono modo in tutta la sua realtà anche nel canto liturgico, secondo Zarlino,
è sufficiente eliminare il bemolle e ritrasporre il brano nelle corde naturali.
La versione non trasposta, come fa notare l’autore, si potrebbe nei libri antichi, MA dopo
ricerche negli ultimi anni si può dedurre che Zarlino abbia affermato ciò solo per
pubblicizzare la sua teorizzazione.
L’argomento della trasposizione è capzioso. L’antifona Ave Maria per esempio è solidamente
dorica, ma è comunque un tentativo ingegnoso per tentare di ravvisare l’esistenza dei modi
di La nel canto piano.
Si tratta di applicare a quel repertorio le medesime consuetudini e regole che valgono per il
repertorio polifonico.
Nello stesso capitolo delle Istitutioni l’argomento della trasposizione ‘compiuta per la
ignoranza dei scrittori’ e il rimando a introvabili libri antichi viene applicato ad altri due
frammenti del repertorio liturgico: le conclusioni del Pater Noster e del Credo.
Il Credo dovrebbe essere classificato tra le composizioni frigie piuttosto che tra le doriche
che, riportate nelle loro corde naturali, consentirebbero di apprezzare la loro modalità eolia.
La sua terminazione infatti Mi, non Re, per cui la trasposizione alla quinta superiore che
Zarlino compie per giustificare il suo ragionamento risulterebbe essere Si (terminazione
impossibile anche nel sistema di Glareano perché la scala che ne risulterebbe è
impraticabile per via della sua divisione armonica. Risulterebbe una quinta diminuita+quarta
eccedente).
Zarlino di avvede di una tale difficoltà e ancora una volta propone una lettura che dichiara
appoggiata ai libri antichi ma che -ancora una volta- è semplicemente un suo personale
emendamento determinato dalla possibilità di ripristinare una coerenza tra finalis e
andamento melodico degli ultimi incisi del brano.
Notiamo infatti come la melodia di ‘Et vitam venturi saeculi. Amen.’ (Credo) enfatizzi la
specie di quinta Re-La, e come il neuma della prima sillaba di ‘saeculi’ corrisponda alla
formula di intonazione del primo modo.
Dal punto di vista di Zarlino risulta del tutto logico ritenere che una terminazione frigia del
Credo sia del contesto del tutto inappropriata e che debba essere perciò emendata secondo
una logica modale. Il risultato finale è nell’esempio che segue.
Di fronte ad argomentazioni del genere (non avendo fonti certe, ma solo suoi emendamenti
personali) sono ineludibili le domande se i modi di La siano effettivamente antichi e se questi
siano in tutto e per tutto analoghi ai modi dell’oktoechos.
Una risposta può venire dall’osservazione delle cadenze finali dei brani in La e dalla maniera
con la quale esse erano solmizate dai musicisti dell’epoca.
Per ragionare con cognizione di causa dei nuovi modi di La, è opportuno rivolgersi a
composizioni espressamente classificate dalla teoria dell’epoca come impiantate in IX o X
modo.
In questa operazione ci soccorrono le stesse Istitutioni Harmoniche che per ciascun modo
rimandano a un certo numero di composizioni polifoniche che Zarlino riteneva
paradigmatiche.
Il primo brano che Zarlino cita per illustrare il IX modo è la Missa Gaudeamus di Josquin,
basata sull’introito gregoriano omonimo.
In questo caso il ragionamento alla base dell'attribuzione al nono modo è analogo a quanto
abbiamo visto per l'antifona Ave Maria, il Padre Nostro e il Credo, ma è ulteriormente
supportato dalla maniera con cui Josquin tratta precisamente quel cantus firmus.
Questo infatti nella sua versione monodica conclude su Re e si apre con la tipica
intonazione di primo modo comprensiva di bemolle (ciò che secondo Zarlino appunto
consente in realtà di interpretarlo come un brano in modo eolio trasposto).
Questa trasposizione è ciò che Josquin adotta, eliminando il bemolle e ottenendo il modo
eolio.
Il trattamento mensurale a cui Zarlino sottopone l’inizio della monodia liturgica tuttavia
introduce nell’insieme un elemento ambiguo: la durata del passaggio semitonale Mi-Fa
colora il modo di una luce più frigia che dorica. Una luce enfatizzata sia dalla promozione del
semitono a elemento strutturale, sia dal frequente apparire di cadenze frigie.
Josquin sembra sfruttare l’ambivalenza lineare del primo inciso della melodia liturgica che
associa alla tipica specie di quinta dorica (Re-La) al semitono (La-Sib ossia Mi-Fa).
La medesima tendenza si evidenzia in modo più lampante in altri brani citati da Zarlino, tra
questi il mottetto ‘Benedicam dominum in omni tempore’ di J. Mouton.
Questo mottetto intona i versetti 2, 4 e 9 del salmo 33.
Il tessuto musicale è a 6 voci, 4 in libero contrappunto imitativo e 2 in canone rigoroso alla
seconda.
Estraiamo le parti canoniche e selezioniamo gli episodi corrispondenti ai tre versetti del
salmo. E data la distanza intervallare di seconda su cui il canone si fonda, le linee melodiche
dell’alto I e alto II assumono due cariche modali completamente differenti.
La voce inferiore suona ipodorica, quella superiore suona distintamente ipofrigia.
Nei primi due incisi la conclusione canonica rimane disassata, disassamento che viene
risolto nel terzo episodio in cui la conclusione coincide con la conclusione generale del
mottetto. Mouton inserisce in coda al dux una breve ripetizione delle ultime parole che
portano a terminare il canone e il mottetto sulla sonorità di La.
Ancora una volta la terminazione ‘La’ funge da termine medio e da centro di equilibrio tra
elementi e tendenze doriche e elementi e tendenze frigie.
In Mouton l’equilibrio si spinge fino a consentire di pareggiare e risolvere in unità
un’ambivalenza strutturale di Re e di Mi.
La medesima ambiguità funzionale tra frigio e dorico sembra interessare molto di meno
quella che in teoria si presenta come la mera trasposizione per bemolle dei modi di La, ossia
la terminazione D con bemolle in chiave.
Per provare ciò, è sufficiente mettere a confronto l'incipit di due madrigali di Marc’antonio
Ingegneri che si susseguono immediatamente nel suo ‘terzo libro de madrigali a cinque voci’
del 1580.
Entrambi i madrigali non hanno accidenti in chiave e si concludono sulla sonorità di La.
E’ evidentissimo tuttavia che i due madrigali organizzano lo spazio sonoro in una maniera
molto differente l'uno dall'altro e hanno ben poco in comune.
Infatti l’exordium di ‘bench’io sia certa, ingrato’ mette in evidenza prima la quinta dorica (D-A
nell’alto e A-E nel cantus) e poi la cadenza a La. Mentre ‘hor ch’amor m’ha slegata’ mostra
un soggetto caratterizzato da un lungo insistere sul semitono nel canto (E-F) e un altro nel
tenore e che a partire dalla sesta misura mette in risalto l’ottava La-La’ (divisa su E e
conclusa egualmente dal semitono bemolle-la).
Il fatto che una composizione terminante su La si comporti in maniera così differente dagli
altri modi dice che la categoria di modi di La è una categoria che gli stessi musicisti trattano
in una maniera peculiare.
(1) la situazione teorica e la valenza pratica dei ‘nuovi’ modi eolio e ipoeolio si presenta
sensibilmente diversa da quella degli altrettanto ‘nuovi’ modi ionico e ipoionico;
(2) prima della teorizzazione glareanian-zarliniana, la scelta della terminazione A, nel
repertorio polifonico, appare non di rado connessa a materiali musicali intrinsecamente
ambivalenti;
(3) la forma trasposta e non trasposta dei modi di La sono trattate dai compositori più come
categorie modali indipendenti che come semplici dislocazioni di un’unica classe;
(4) alla forma non trasposta afferiscono in ogni caso composizioni che organizzano lo spazio
sonoro in maniere decisamente eterogenee;
(5) dopo la teorizzazione di Glareano e Zarlino, i musicisti cominciano a sfruttare lo spazio
sonoro di La anche in accordo alle descrizione teoriche, e dunque a creare composizioni
effettivamente e pienamente ‘eolie’.
LEZIONE 8
Molte delle critiche sono connesse alle aporie che attraversano il sistema stesso. Anche la
lettura trasversale e corsiva della teoria cinquecentesca in argomento ha lasciato trasparire
quali e quante siano le idiosincrasie dei diversi musicografi a riguardo di elementi
fondamentali per determinare un modo (ethos, i gradi cadenzali tipici di ogni categoria, la
distribuzione delle cadenze in classi di maggiore o minore congruità, il numero totale dei
modi stessi).
La somma di tali e tante divergenze dice così immediatamente quanto l’organizzazione
sonoriale della musica rinascimentale sia distante e diverso da quello della musica tonale.
La musicologia si è interrogata quindi non solo sulla relazione tra i due sistemi ma anche
sulla realtà stessa del sistema e sulla corrispondenza tra prescrizioni dei teorici e
consuetudini, usi e pratiche dei musicisti.
La più importante, acuta critica all’intero impianto del sistema modale è stata avanzata da
Harold Powers, un musicologo statunitense di formazione etnomusicologica le cui pagine
hanno avuto un enorme influsso sulla considerazione della questione della modalità nel suo
complesso, e il cui pensiero è doveroso conoscere.
Le riflessioni di Powers sono maturate in seguito alla stesura della voce «Modes» nel New
Groves, 1980. Una sintesi ancora insuperata riguardo l’evoluzione storica del concetto di
modo e dei problemi relativi. Queste riflessioni furono espresse nel saggio ‘’Tonal Types and
Modal Categories in Renaissance Polyphony’’, il primo di una serie di interventi che hanno
influenzato per lungo tempo tutto il campo di studi sull’organizzazione dello spazio sonoro
della polifonia rinascimentale. In quel saggio Powers, pur riconoscendo l’importanza e la
correttezza delle prese di posizione di Meier per quel che riguarda il versante teorica della
modalità, inizia a porre le fondamenta di un dubbio metodico circa la consistenza e la
rilevanza effettiva delle descrizioni e prescrizioni dei teorici rinascimentali sul processo
compositivo dei musicisti dell’epoca e -di conseguenza- sulla pertinenza di tutto il quadro
delineato da Meier per la coscienza e la pratica analitica dei musicologi del nostro tempo.
Questo dubbio diverrà sempre più radicale negli scritti di Powers fino a giungere alla
completa negazione della realtà dei modi come fattore pre-compositivo nella musica del
1400-1500.
Per distinguere la visione culturale della modalità cinquecentesca dalla propria prospettiva di
osservazione, Powers ricorre a una distinzione che l’antropologia culturale ha derivato dalla
linguistica: la distinzione tra approccio ‘etic’ e approccio ‘emic’.
In linguistica designano:
etic ← ‘phonetic’ (fonetica): lo studio delle caratteristiche fisico-articolatorie dei suoni
linguistici, indipendentemente dalla funzione che ciascuno di essi può assumere in un
determinato sistema.
emic ← ‘phonemic’ (fonologia o fonematica): lo studio delle funzioni di un fonema ai fini della
determinazione del significato entro un sistema linguistico dato.
In antropologia designano:
emic: l’ottica interna del nativo di una cultura
etic: l’ottica dell’osservatore esterno a una cultura
Questo lascia intravedere l’esito finale della riflessione di Powers in materia modale, ovvero:
un modo non è mai una realtà musicale preesistente alla composizione, ma sempre e solo
un costrutto culturale ex post
Questa convinzione emerge già in un saggio del 1992 in cui l'interrogativa che campeggia
nel titolo ‘Is Mode Real?’ è una domanda retorica con una risposta negativa.
Lo stesso concetto è ribadito in maniera inequivocabile nel saggio ‘Anomalous Modalities’
del 1996.
sebbene un brano polifonico potesse essere composto per significare un modo del sistema
teorico, se un compositore così decideva, la maggior parte dei brani non necessariamente
significava un modo, anche se un modo avrebbe potuto essere facilmente attribuito a molti
di essi ex post da un editore del sedicesimo secolo (o uno studioso del ventesimo)
Powers compie qui un completo rovesciamento di prospettiva rispetto ai ragionamenti che
abbiamo sempre Impostato finora. Non è più la singola composizione a dover o a poter
essere ascritta a un modo come concretizzazione di una categoria modale preesistente,
bensì è il modo ad essere eventualmente attribuito alla composizione con un atto di volontà
compositiva o classificatoria o analitica.
Le posizioni di Powers hanno avuto un impatto enorme sulla musicologia degli ultimi decenni
del 1900, tanto da ‘fermare’ per qualche decennio gli studi riguardanti la modalità.
Più di recente l’immagine sui modi ha ripreso vigore. Spesso in una prospettiva che riprende
le convinzioni di Meier in maniera acritica e talvolta ingenua e che finisce per dismettere con
fin troppa disinvoltura le obiezioni di Powers. Powers infatti se da un lato è giunto ad
accantonare un elemento (il modo) dall’altro lato ha posto delle questioni serissime quanto di
metodo che di merito.
La concezione esterna sarebbe stata appannaggio dei musicisti pratici e l’interna tipica dei
teorici e dei filosofi.
L’esterna direbbe che il modo di una composizione si determina in base della finalis
coniugata con una certa considerazione dell’exordium. Così aveva lucidamente argomentato
il cinquecentesco difensore di Monteverdi noto come ‘Ottuso Accademico’ nella polemica
con Artusi.
Alla dubitatione poi del madrigale Crud’Amarilli, io non sò come possa cadere nell’animo a
V.S. che sia d’altro tuono, che del settimo, essendo ad ogn’uno notissimo, che dalle prime,
et poscia dalle finali corde si deve dare giudicio del tuono, et non dalle medie cadenze.
La concezione interna, al contrario, valuta una composizione come l’esito di uno sviluppo
musicale dettato dal modo, intendendo quest’ultimo come una struttura scalare ordinata e
gerarchizzata, così come rimarcava Artusi.
Quando s’ha da fare il giudicio di qualche cantilena, bisogna vedere se il principio si
confronta col mezo e poscia col fine, che cosi vuol dire la Regola da nostri passati lasciata,
quando hanno detto, che dalla prima, et ultima corda della cantilena, si debba fare il giudicio
sotto qual forma ella è composta, cioè incominciando dal principio ad essaminarla,
seguitando nel mezo sino al fine; et non lasciare le cadenze medie et aver considerazione
solamente del fine, et del principio. Cosi facendo si scorge qual proportione habbi il capo, col
corpo, et poscia con le membra estreme, che sono i piedi, non essendo ragionevole, che
queste parti siano l’una dall’altra deformi.
L’idea di Artusi è un’idea non dissimile da quanto secoli prima Iohannes de Grocheo aveva
espresso scrivendo che il canto va analizzato tenendo conto della fattura complessiva del
brano (all’inizio, nel mezzo e alla fine).
A Mangani e Sabaino è sempre parso difficile credere che i compositori nel momento in cui
si apprestavano a comporre non avessero in mente nessun criterio di organizzazione dello
spazio sonoro e che ciò nonostante giungessero a risultati che sono il più delle volte
comunque compatibili alle categorie modali che vede la traduzione teorica. Gli stessi
compositori, non di rado, sembrano utilizzare precisamente quelle categorie (o infrangere
quest’ultime) per veicolare precise interpretazioni testuali e sottili messaggi la cui
espressività artistica ha senso se si presume che esista la visione interna degli autori e la
condivisione di quella visione tra autori e ascoltatori.
Sulla base di questa precomprensione si riesamina in una diversa maniera le relazioni tra la
concretezza musicale e le categorie modali.
Per un esame simile, il principio del tipo tonale rimane un aiuto preziosissimo perché
consente di evitare qualunque commistione tra una considerazione attenta della musica
stessa e le categorie modali delle tradizioni.
Il punto di parte dell’indagine è stata una ricognizione delle maniere con le quali i tipi tonali
rappresentano i diversi modi.
Il campione significativo sono stati i 40 mottetti che Giovanni Pierluigi da Palestrina ha
pubblicato nel 1593 sotto il titolo di ‘Offertoria totius anni’. Scelto innanzitutto per il numero di
mottetti che è sufficiente ampio da fornire un riferimento statistico significativo.
In secondo luogo la raccolta è tra quelle che anche Powers riconosce ordinate modalmente,
per cui la correlazione tra tonal type e modo non risulta da una inferenza analitica, ma si
basa su un dato fornito, seppure implicitamente, dal compositore stesso tramite
l'ordinamento modale. In terzo luogo la fama di compositore ortodosso per eccellenza
sembrava offrire una certa sicurezza che per ciascun tonal type la rappresentazione del
modo corrispondente fosse tendenzialmente sempre in linea con la descrizione che fornisce
la teoria coeva.
La mappatura dei rapporti tra tipi tonali e modi rappresentati ha iniziato a lasciare intendere
in maniera inaspettata che ogni tipo tonale avesse una proprio e diverso livello di
problematicità rispetto al sistema dei modi. I diversi tipi tonali parevano resistere
all’attribuzione modale in maniera differente e peculiare
La tabella del primo gruppo indica nelle ultime due colonne le discrepanze che si riscontrano
tra la realtà musicale di un mottetto e le caratteristiche descritte dei teorici come costitutive
di un modo (ambito del tenore e piano cadenzale).
L’osservazione complessiva della tavola permette di cogliere le frizioni modali di un
determinato brano con la categoria teorica di riferimento, e anche -e soprattutto- la
disomogeneità di queste frizioni (più frequenti, meno o assenti).
Le discrasie tra i tonal types e le rappresentazioni modali che questi dovrebbero esprimere
possono essere sintetizzate come segue
(quarto modo ‘più frequente che a La’ non Do...errore nella slide)
Verrebbe da assecondare lo scetticismo di Powers, tuttavia i tipi tonali che si sono rilevati
problematici sono una minoranza sia rispetto alla somma dei tipi tonali possibili sia rispetto
ai modi teorici rappresentati.
Una interpretazione modale dei tipi rimanenti (secondo, quinto, sesto e ottavo) è immediata
e priva di problemi.
La prima verifica riguarda il comportamento dei tipi tonali nelle raccolte non ordinate
modalmente. (sempre di Palestrina)
Quali sono le relazioni che nelle raccolte non ordinate modalmente si instaurano tra i
medesimi tipi tonali e altri assenti negli offertoria e le diverse rappresentazioni modali?
Si esaminano i ‘motecta festorum totius anni’. La raccolta è ordinata per occasione liturgica,
dunque l’esame è proceduto dai tipi tonali verso i modi e non il contrario.
Il punto centrale dell’analisi dei Motecta è consistito nella determinazione delle possibili
relazioni rappresentative che esistono tra i tipi e la rappresentazione modale.
Questa determinazione ha portato Mangani e Sabaino all’individuazione delle cosiddette ‘Tre
classi di problematicità’.
Oltre ai dettagli di problematicità delle singole composizioni l’analisi sembra innanzitutto
rivelare che l’atteggiamento compositivo palestriniano nel confronto dei modi è omogeneo
senza differenze statistiche di rilievo tra raccolte ordinate modalmente e raccolte non
ordinate modalmente (di fronte a una certa sostanza sonora Palestrina si comporta sempre
nella medesima maniera).
L’analisi mette quindi in luce che i tipi tonali si rapportano diversamente alla
rappresentazione modale. Ciò significa che lo scetticismo di Powers circa la realtà
precompositiva delle categorie modali, pur essendo analiticamente stimolante, non può più
ritenersi del tutto giustificato.
Diventa più produttivo non domandarsi ‘il modo è reale?’ ma piuttosto ‘in che modo e in che
misura il modo è precompompositivamente reale?’ ossia: quali sono le effettive relazioni tra
alcune caratteristiche musicali ricorrenti compendiate nei tipi tonali e le categorie modali
della tradizione teorica?
Per procedere in una direzione del genere bisogna allargare i campioni da analizzare.
Sabaino e Mangani analizzano quindi alcune raccolte mottettistiche di Orlando di Lasso e
Tomàs Luis de Victoria.
Nel caso di Lasso l’analisi ha seguito un percorso analogo a quello descritto (mappatura
delle relazioni tra tipi tonali e modi rappresentati in raccolte ordinate modalmente poi
riscontro di quelle maniere di rappresentazione in raccolte non ordinate modalmente).
Nelle raccolte ordinate modalmente la conformazione musicale della maggior parte dei tipi
tonali ha rilevato scarse discrepanze rispetto alla descrizione teorica media degli stessi
modi.
La considerazione delle raccolte non ordinate modalmente ha restituito un quadro
compatibile seppure con qualche maggior sfumature di irregolarità.
La comparazione tra i risultati delle due analisi permette quindi di registrare come il tasso di
problematicità dei diversi tipi tonali sia pressappoco il medesimo tanto in Palestrina quanto
in Lasso.
Particolarmente rivelatore da questo punto di vista è il tipo tonale ♮-g₂-G, la cui problematicità
prima dell’analisi era del tutto imprevedibile, ma che una volta rivelatasi ci permette di
spiegare fenomeni posteriori (per esempio la discrepanza che si osserva bei corali bachiani
tra le composizioni in Fa dove la tonicizzazione della sottodominante è rarissima e le
composizioni in Sol dove invece la tonicizzazione della sottodominante è frequente quanto
quella della dominante. In Sol Bach tonicizza la sottodominante Do, lo stesso che compare
come grado cadenzale molto di frequente nel settimo modo di Lasso e Palestrina).
Tra Palestrina e Lasso ovviamente si osservano anche differenze. Per esempio la diversa
collocazione del tipo tonale ♮-g₂-C. Queste differenziazioni dipendono però in parte dalla
diversa consistenza numerica e distributiva del campione, e in parte dalla diversa sensibilità
compositiva dei due autori.
Si delinea uno scenario nel quale la posizione di un particolare tipo tonale lungo la scala di
problematicità di rappresentazione dei modi non dipende dalle scelte personali o dalle
idiosincrasie di un compositore, ma sembra essere piuttosto intrinseco al tipo tonale stesso.
I compositori sembrano comportarsi in maniera diseguale a seconda dei sistemi sonoriali
che si trovano di volta in volta a maneggiare. Questa diversità però non è né imprevedibile
né casuale. Al contrario, obbedisce a logiche ricorrenti e tracciabili quasi che alcuni insiemi
sonori provocassero come per un riflesso introiettato risposte compositive più ristrette e
aderenti alle descrizioni teoriche di un determinato modo, mentre altri insiemi lasciassero
risposte compositive più ampie, meno facilmente inquadrabili nelle categorie modali.
Rispetto a tali comportamenti standardizzati esistono ovviamente delle eccezioni, eccezioni
spesso più apparenti che reali specialmente quando riguardano i piani cadenzali. In questi
casi le ragioni della problematicità dipendono il più delle volte da un uso raffinatissimo di
quelle stesse categorie modali proprio in funzione esegetica ed ermeneutica dei testi
intonati.
Il fatto che compositori utilizzino con così tanta costanza e maestria anche le categorie
modali pare vada in direzione opposta alle idee di Powers.
Se i compositori fanno così tanto strategicamente ricorso proprio ai modi per dare corpo
all’assunto fondamentale della composizione vocale di quel secolo (che aveva come scopo
di far emergere musicalmente il senso dei testi letterari profondi) si può pensare che non
solo i musicisti avevano una chiara idea precompositiva, ma anche che quella stessa
competenza modale fosse condivisa con i committenti e gli ascoltatori.
Una qualunque infrazione al quadro modale in funzione esegetica ha difatti senso solamente
ammettendo in primis che le categorie modali esistono non solo nella logica dei teorici ma
anche nel giudizio dei musicisti e nella percezione degli ascoltatori; in secundis, di norma, le
regole sono operative e osservate.
Dal punto di vista musicologico e analitico, liquidare le categorie modali a ‘un costrutto
culturale estraneo alla musica di quel tempo’ accontentandosi di una considerazione ‘etic’ di
quest’ultima non è la migliore maniera per espandere o agevolare la comprensione di quella
musica. (il che non significa non tenere nel giusto conto le cautele di Powers o non avvalersi
dei suoi tonal types’).
Ciò che noi siamo abituati a pensare come un'unità (IL sistema modale) è in realtà la somma
di categorie organizzative dello spazio sonoro che non sono perfettamente identiche e
sovrapponibili.
La MODALITÀ potrebbe essere forse meglio descritta come SISTEMA DI SISTEMI piuttosto
che come sistema in cui tutto si tiene (prospettiva di Meier).
Una tale ricomprensione del quadro d’insieme spiegherebbe non solo perché i tonal types si
rivelano meno omogenei rispetto alla sostanza musicale dei brani che intendono
categorizzare di quanto la loro presunta oggettività lasci intendere.
Ciò spiega anche perché il passaggio dalla molteplicità delle categorie modali alla unicità
bimodale caratteristica della tonalità armonica è stato un processo assai più complesso e
non lineare, durante il quale -come hanno dimostrato gli studi di Powers, Barnett e Dodds-
categorie modali diverse hanno generato tonalità diverse attraverso processi evolutivi
diversi.
Sotto certi aspetti si potrebbe perfino dire che, in termini rinascimentali, nella dualità
sistemica, che persiste dal 1547 in poi, l’area più innovativa sia stata quella degli 8 modi e
non quella dei 12.
Le categorie degli 8 modi tendono infatti il sistema dall’interno allargando lo spettro delle
possibilità insite in ogni categoria modale per esprimere sostanze musicali che non sono
quelle immediatamente corrispondenti alla finalis del modo. La categoria dei 12 modi invece
attribuiscono eguali diritti a tutte le possibili finalis e così facendo estendono semplicemente
l’idea che ogni modo ha caratteristiche tipiche ben definite e immodificabili.
CONCLUDENDO
Se dunque è perfettamente ammissibile e verosimile che nel rinascimento sia coesistita una
pluralità di comprensioni e di competenze modale -di cui le visioni interna ed esterna di
Wiering non sono che la sintesi polarizzata, relativa- non esiste affatto una fallacia
insanabile del sistema.
Significa, al contrario, che la modalità, nel rinascimento, era un concetto dinamico che
poteva essere compreso, interiorizzato e riespresso a diversi livelli di consapevolezza.
Dal punto di vista musicologico odierno la diffrazione degli elementi costitutivi va considerata
non un accidente da contenere, ma piuttosto una sostanza da far lievitare, per una sempre
maggior comprensione del sistema che regge l’organizzazione dello spazio sonoro della
polifonia di quel tempo.