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Quando qualcuno tocca le corde di una chitarra le fa vibrare, così come noi,
cantando, facciamo vibrare le nostre corde vocali all’interno della gola. Possiamo dire
quindi che per produrre un suono abbiamo bisogno prima di tutto di qualcosa che
possa vibrare. Immaginiamo per esempio di colpire una pentola con un cucchiaio: questo
gesto produrrà un rumore, un suono, perché sarà la pentola a vibrare; ma se tocchiamo la
pentola con le mani, smetteranno le vibrazioni e non sentiremo più alcun suono. La
stessa cosa avviene con le membrane di pelle dei tamburi per citare un altro strumento
musicale. Ogni cosa che vibra produce un suono che siamo in grado di sentire ad una
certa distanza. Questo vuol dire che possiamo sentire i suoni solo se c’è un mezzo
attraverso il quale questi possono viaggiare.
Il suono infatti è un’onda che si propaga in un mezzo (per esempio l’aria o
l’acqua o un tavolo). E da qui possiamo trarre un altro importante spunto per capire meglio
tutta la questione.
Quando l’intensità sonora aumenta di 10 dB, noi percepiamo un suono con un
volume che sembra raddoppiato. Il valore minimo della scala, cioè 0 dB, rappresenta la
soglia di udibilità, cioè l’intensità minima normalmente percepita dall’uomo.
I suoni o i rumori che superano i 100 dB possono danneggiare l’udito in modo
permanente; per un valore di 130 dB si fa corrispondere la soglia del dolore, che è quella
di massima sopportazione.
Che cos’è l’eco?
Immaginiamo di aver compiuto una scampagnata in una grande gola in mezzo alle
montagne; se cominciamo a parlare o a gridare qualcosa, può capitare di sentire la nostra
voce ripetersi come se provenisse da lontano.
Questo avviene perché il suono si comporta come se rimbalzasse contro le pareti
rocciose che fanno da ostacolo alla sua propagazione. L’eco infatti è un fenomeno
dovuto alla riflessione delle onde sonore.
Se tra la persona che emette il suono e l’ostacolo c’è una distanza d, l’onda sonora
percorre in andata e ritorno un tragitto lungo 2d, impiegando un tempo pari a:
t = 2dv
dove v è la velocità del suono.
Ora, il nostro orecchio riesce a distinguere due suoni separati da un intervallo di
tempo di almeno un decimo di secondo, quindi per udire l’eco l’ostacolo dovrà trovarsi
almeno ad una ventina di metri (sempre considerando l’aria come mezzo di propagazione
e quindi v = 343 m/s). Invece, se la distanza è minore si ha la sensazione che il suono
rimbombi.
L’eco viene utilizzato dall’uomo in diverse apparecchiature per identificare oggetti
altrimenti invisibili. Per esempio l’ecografia in medicina o anche il sonar presente sulle
imbarcazioni o sui sottomarini, che permette di determinare la distanza di oggetti presenti
sulla superficie marina, misurando l’intervallo di tempo intercorso tra andata e ritorno degli
ultrasuoni che si riflettono su quegli oggetti.
La registrazione, sin dall’inizio, era articolata e organizzata in modo da riprendere e
restituire il suono dell’esecuzione con la risposta dell’ambiente circostante. Con annessi e
connessi: le caratteristiche delle registrazioni degli inizi sono, infatti, di qualità mediocre e
con poca definizione sonora. Nella realizzazione delle sale da registrazione, fin da subito,
si è cercato di affrontare e risolvere questo problema, adottando materiali fonoassorbenti,
costruendo intenzionali asimmetrie, separando dove possibile i vari strumenti con pannelli,
delimitando la zone più sonora (come quella della batteria) con pannelli, così da ottenere
un suono più asciutto e riconoscibile.
L’avvento dei microfoni, posizionabili in maniera ravvicinata e puntiforme sui vari
strumenti, e amplificati separatamente sui mixer in regia, ha portato ad eliminare quasi del
tutto la riverberazione generale d’ambiente. Ecco perché sono nati i riverberi e gli echi.
I riverberi degli studi degli anni 60/70/80, prima che arrivasse l’emulazione digitale
degli anni 80, erano “fisici”, cioè era costituiti da grandi lastre di metallo, racchiuse in
grandi casse di legno. In funzione della dimensione della lastra e del tipo di metallo, si
ottenevano risposte di riverbero differenti… ma non c’era alcun tipo di regolazione o di
memoria: Il funzionamento era abbastanza semplice: si sospendeva con apposite molle
una lastra sottilissima di metallo all’interno di un grande box isolato e, per sollecitare la
vibrazione della lastra metallica vengono installati dei piccoli altoparlanti che la mettono in
vibrazione. Dall’altra parte della lastra c’è una capsula microfonica che riprende la
vibrazione. Di norma queste “scatolone”, di ragguardevoli dimensioni (anche lunghe 2/3
metri e alte 1,50/1,80 m., venivano collocate in un ambiente isolato, a adeguata distanza
dalla regia, per non essere disturbate da suoni esterni di qualunque tipo, collegate al mixer
in reia con cavi bilanciati di grande lunghezza. Il suono veniva inviato dal mixer tramite la
mandata effetti collegata all’input del riverbero e l’uscita audio del riverbero tornava al
mixer di regia con cavo collegato al return degli effetti del mixer. Uno studio di grande
livello disponeva di 2, 3 o 4 riverberi differenti, ognuno con una sua caratteristica: più
breve e sonoro per strumenti percussivi, più ampio e morbido per pianoforti, orchestre,
voci, etc.
Negli anni ’50, con l’introduzione della chitarra elettrica e della sua amplificazione, si
inziò a dotare gli amplificatori per chitarra di un riverbero a molle, con sistema simile a
quello sopra descritto. Bisognava prestare sempre molta attenzione a non saltare troppo
su un palco poco stabile, altrimenti si generavano “frustate” sonore generate dalle molle
del riverbero che sbattevano nello chassis metallico che le alloggia.
In aggiunta al riverbero, si cercava in vari modi di ottenere un “echo” in studio, ma
l’unica maniera per ottenere una risposta uguale al segnale di ingresso, con ripetizione a
scemare, era registrare e riprodurre…. Si pensò, quindi, di creare un loop di nastro teso
tra due registratori, con un primo registratore che registrava su nastro il suono da effettare,
e il secondo registratore che lo rileggeva e lo rimandava, a volume più basso, tramite
mixer, al primo sommandolo al segnale di ingresso, così da avere una serie di risposte
che man mano andavano scemando di intensità. Il sistema era assolutamente empirico:
la distanza tra i registratori era quelle che determinava il tempo delle risposte dell’echo,
quindi si stava a calcolare il bpm del brano, e a misurare la quantità di nastro necessaria
ad ottenere la giusta risposta a tempo, etc. Faticoso, complicato, poco certo come
risultato, fragilissimo e impraticabile su palco.
Negli anni ’60 la ditta Binson di Milano brevettò il primo “echo”: l’inventore pensò ad
un disco metallico, con la circonferenza rivestita di materiale magnetico (un po’ come i
nastri…), su cui una testina di registrazione incideva il suono proveniente dall’input
(chitarra, tastiera, microfono) mentre una serie di testine poste lungo la circonferenza del
disco rotante a distanze varie leggeva il suono con il ritardo determinato dalla distanza tra
la testina di registrazione e quella di riproduzione. Appositi selettori consentivano di
regolare manualmente la velocità di rotazione e consentivano di selezionare una o più
testine di letture, per ottenere risposte con tempi di ritardo vari, e permettevano di
miscelare il suono in ingresso a quello generato dall’echo.
Fu una innovazione tale che gli studi di Abbey Road, della Emi music, ordinarono
echi a 6 testine, i più famosi artisti rock e pop mondiali fecero a gara ad acquistarlo. Nel
filmato PINK FLOYD AT POMPEI, concerto dal vivo dei Pink Floyd a Pompei, si vede
chiaramente un Echo BINSON 4 testine appoggiato sull’ampli del chitarrista.
Mel 1979/80 arrivarono Roland con il suo Se 150, poi col 201, la Korg, e di seguito
altri produttori, che ripresero il concetto dell’echo Binson ma sostituendo il disco metallico
magnetizzato con un nastro senza fine alloggiato in una apposita cartuccia, e testine di
registrazione e lettura che gestivano la scrittura e lettura del nastro. Nel giro di 2, 3 anni
Binson scomparve dal mercato.
Circa negli stessi anni, nel 1978, la Lexicon iniziò la sperimentazione su delays e
riverberi digitali, La strategia fu di partire con una macchina da studio ai massimi livelli e fu
presentato il 224: 7500 dollari la versione a 2 canali, 8000 per quella a 4 canali. Cifre che
sembrano enormi, ma che erano circa la metà di un “foglia d’oro” della EMT, riverbero
“must have” di ogni studio professionale. Da questa tecnologia avanzatissima, si
svilupparono poi i primi delays digitali: nel 1982, il PCM 41, nel 1984 il PCM 42; a seguire
il primo riverbero digitale: dotato di memoria semipresettata, il PCM 60, con una serie di
controlli per personalizzare la risposta sonora. Dopo circa un anno arrivo il PCM 70,
stereo, con una qualità sonora che dura tuttora. Nel frattempo il progetto del 224 vide la
produzione del 224L e poi XL, fino al 1988 in cui fu presentato il 480, macchina tuttora
ambitissima, al prezzo di circa 30 milioni di lire degli anni ’80. Pietre miliari, ora disponibili
in formato software a qualche centinaio di €….