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Il suono

Il suono è un elemento vitale, che circonda e completa la nostra vita. La Natura ha


un suono che la caratterizza, gli ambienti naturali hanno un suono, e tale suono è quello
che gli animali e l’uomo hanno imparato, nei secoli, a riconoscere e ad ascoltare per
affrontare i pericoli e sopravvivere. Il bosco, la montagna, il vento, la giungla, la città, il
mare, il mondo d’oggi con i suoni degli strumenti tecnologici di cui l’uomo ha saputo
dotarsi, tutto intorno a noi è suono: il traffico, un treno, le voci della folla, uno stadio
esultante per un goal, viviamo immersi in una serie di sollecitazioni uditive che
comunicano in continuazione col nostro cervello, fornendoci in modo palese o subliminale
un serie costante di informazioni.

(Prendiamo atto e ringraziamo la sorte di appartenere al numero dei fortunati che


sono dotati della possibilità di parlare e cantare, e della possibilità di ascoltare gli altri e noi
stessi nei momenti in cui decidiamo di parlare, o di cantare, o di generare dei suoni con i
nostri strumenti…)
Lo strumento più semplice e immediato è la voce. La comunicazione verbale è alla
base dei rapporti umani, è il ponte che mette in relazione persone, popoli, è lo strumento
con cui si ama, si minaccia, si racconta, prevede sempre una relazione con gli altri.
Difficilmente si parla da soli… tanto che si dice che chi parla “da solo” è un po’ svitato…
ognuno di noi, magari di fronte allo specchio, può “parlare da solo” o magari può “provare”
un discorso (politico, amoroso, didattico…) ma questo “parlare da solo” è sempre previsto
come preambolo per mettersi in relazione, poi, con altri.
Il canto è, invece, una manifestazione, un utilizzo che nasce senza una precisa
finalità di relazione con gli altri. Quasi certamente qualcuno ha iniziato a cercare di
riprodurre suoni della natura (canti di uccelli, versi degli animali) e ha quindi scoperto le
possibilità della voce, e ha poi iniziato ad inseguire idee nel proprio cervello e, con la voce,
ha iniziato ad emettere semplici melodie… qualcun altro che aveva l’occasione di
ascoltare queste melodie avrà apprezzato e cercato di riprodurle a proprio uso, per il
piacere di risentire una melodia gradevole… ecco l’origine della musica… la creatività
consentita dall’utilizzo della voce, collegata direttamente al cervello e in grado di dare
forma ad ogni tipo di fraseggio o scala o progressione melodica anche senza dover
dedicare mesi e anni allo studio di tecniche per acquisire velocità, per superare difficoltà.
(chiaramente per un utilizzo spontaneo e libero da pretese di risultati professionali) ha
consentito all’uomo di sviluppare le idee musicali. Nei secoli il progresso ha aggiunto mille
altre possibilità, la mente umana ha sperimentato e concepito gli strumenti musicali, dai
più semplici e monofonici a quelli complicati, polifonici; si sono inventati e codificati
linguaggi e scritture musicali: in ogni campo dell’azione umana, i risultati e il progresso
sono sempre una conseguenza diretta della disponibilità tecnologica dell’epoca e le
“scoperte” sono la materializzazione dell’immaginazione di coloro che non si accontentano
e che, quindi, ricercano sempre un qualcosa in più, oppure, semplicemente, stimolati dalla
realtà del momento, immaginano orizzonti più ampi e cercano di raggiungerli.
La ricerca e codifica della scrittura musicale, nelle sue forme e nelle varie culture, è
nata a seguito della volontà (e necessità) di trovare una riproducibilità del messaggio, del
contenuto musicale. Noi oggi viviamo contornati da apparecchi che rendono possibile
cristallizzare qualunque momento della nostra esistenza: possiamo fotografare, filmare,
registrare spunti musicali direttamente cantandoli nel telefonino che tutti abbiamo nelle
tasche… ma questo è parte della storia recente dell’umanità. Il problema di “fissare” e
rendere riproducibile i risultati di un “talento musicale creativo” è stato insormontabile o,
comunque, di difficile gestione per secoli, fino agli inizi del 1900. Le arti figurative, ad
esempio, hanno sempre espresso il loro risultato in un’opera unica e non modificabile: un
quadro, una statua sono quello che il loro creatore immaginano (o riescono a realizzare) e
il pubblico può apprezzare o “disprezzare” ma, nel bene o nel male, rappresentano un
“monolite” non modificabile, sono la rappresentazione del pensiero dell’artista esattamente
per come l’artista intendeva porgerlo al mondo. Come tale, l’opera rimane nei secoli,
inamovibile, inalterabile (se non per i segni del tempo) e rappresenta uno spaccato del
periodo in cui è stata concepita.

La musica, invece, è un’espressione artistica ben più complessa: a differenza delle


arti “statiche” in cui l’Opera dell’artista è unica e irripetibile, la musica diventa un fenomeno
riprodotto e riproducibile da tanti. Una melodia può essere eseguita da voci (varie:
maschile, femminile, puerile, cori) o da strumenti a fiato, ad arco, da un pianoforte, da
strumenti elettronici (ormai da quasi un secolo), esiste cioè la possibilità di essere eseguita
da chiunque sia in grado o abbia voglia di farlo o di provare a farlo. Una stessa melodia,
secondo il carattere, le capacità tecniche e le condizioni fisiche dell’esecutore, il momento
storico e culturale, la collocazione geografica, può assumere caratteristiche e conseguire
risultati emozionali completamente differenti.
Ecco, quindi, l’importanza della scrittura musicale come prima forma di
“riproduzione” del contenuto musicale: considerato che fino a qualche decennio fa non
esisteva nemmeno il concetto di “registrazione sonora”, l’invenzione musicale del
Compositore scompariva nell’aria al termine della sua “prima esecuzione” e si è quindi
cercato, in ogni modo, di fissare e rendere ri-eseguibile il “parto” dei Compositori. La
scrittura musicale ha permesso ai geni del passato di poter tramandare nei secoli i loro
repertori e questo ha permesso di studiarli ed eseguirli, e questa condizione è sempre
stata l’unica che permetteva di “riprodurre” la musica, fino alla fine del 19° secolo: la
condizione possibile era solo di essere sempre e comunque riprodotta “dal vivo”, con
esecutori in carne ed ossa, con tutti i pregi e i limiti di questa condizione. Se andiamo
indietro di circa 120/130 anni, per la stragrande quantità della popolazione la musica era
fruibile soltanto per esecuzione nei teatri, oppure con qualche musicista da strada, oppure
nei rari locali con pianole a rulli, o nei salotti delle case nobiliari che si prendevano il lusso
di assoldare musicisti per pomeriggi e serate musicali, con ensembles di archi, pianisti,
cantanti o piccole formazioni “da salotto”. La radio era un concetto in fase ancora di
sviluppo, “televisione” era termine senza significato, un sogno lontano di qualche
visionario, così come lontana e immaginaria era l’idea o la possibilità di ascoltare della
musica riprodotta… del resto, con che cosa si sarebbe potuto riprodurla?
La stessa comunicazione umana era soltanto diretta, in presenza, o affidata a
messaggi cartacei.

Quando qualcuno tocca le corde di una chitarra le fa vibrare, così come noi,
cantando, facciamo vibrare le nostre corde vocali all’interno della gola. Possiamo dire
quindi che per produrre un suono abbiamo bisogno prima di tutto di qualcosa che
possa vibrare. Immaginiamo per esempio di colpire una pentola con un cucchiaio: questo
gesto produrrà un rumore, un suono, perché sarà la pentola a vibrare; ma se tocchiamo la
pentola con le mani, smetteranno le vibrazioni e non sentiremo più alcun suono.  La
stessa cosa avviene con le membrane di pelle dei tamburi per citare un altro strumento
musicale. Ogni cosa che vibra produce un suono che siamo in grado di sentire ad una
certa distanza. Questo vuol dire che possiamo sentire i suoni solo se c’è un mezzo
attraverso il quale questi possono viaggiare.
Il suono infatti è un’onda che si propaga in un mezzo (per esempio l’aria o
l’acqua o un tavolo). E da qui possiamo trarre un altro importante spunto per capire meglio
tutta la questione.
 

Come si propaga il suono?


 Cerchiamo di capire meglio come avviene la propagazione del suono. 
Prendiamo in considerazione un altoparlante. Quando la sua membrana vibra verso
l’esterno genera una compressione dello strato di aria vicino ad essa. Le molecole di aria
continueranno a spostarsi lungo la stessa direzione, spingendo le altre molecole che
troveranno sul loro cammino.
Quando invece la membrana si muove verso l’interno produce una dilatazione delle
molecole di aria nello strato subito vicino ad essa. Queste molecole di aria ora saranno più
rarefatte mentre continueranno il loro cammino nella direzione presa in precedenza, la
stessa causata dalla spinta che avevano subito poco prima.
Nell’aria si produce una perturbazione simile a quella di una molla che viene spinta
e poi tirata. Alcune delle spire della molla saranno compresse, mentre altre saranno più
distanti tra loro, e il loro moto avverrà sempre lungo la stessa direzione.
Le molecole che compongono l’aria davanti all’altoparlante quindi oscillano avanti e
indietro nella stessa direzione in cui si muove il suono, propagandolo fino a noi. 
Si dice quindi che il suono è un’onda di tipo longitudinale; ha bisogno di un
mezzo nel quale propagarsi e tale mezzo può trovarsi allo stato solido (p.e. tavolo), liquido
(p.e. acqua) o gassoso (p.e. aria). È questo il motivo per cui il suono non può
propagarsi nel vuoto!

Ma a che velocità viaggia un’onda sonora? 


In realtà un’onda sonora ha diverse velocità: queste dipendono dal tipo di mezzo
materiale in cui avviene la propagazione e da altre caratteristiche come la temperatura e la
pressione.
  Per esempio alla normale pressione atmosferica di 1,0 atmosfera e alla temperatura
di 0 °C, il suono si propaga nell’aria con una velocità di 331,45 m/s, che equivale (giusto
per avere un termine di paragone con la velocità di un’automobile) a 1.193,22 Km/h;
invece ad una temperatura di 20 °C la sua velocità è 343,85 m/s, cioè 1.237,86 Km/h.
Possiamo quindi affermare che la velocità del suono v varia con la
temperatura T del mezzo in cui si propaga seguendo un andamento lineare. La velocità
del suono varia molto nelle diverse sostanze, tanto che nei liquidi e nei solidi è
decisamente maggiore rispetto ai gas. Basti guardare per esempio la velocità del suono
nell’acqua rispetto a quella nell’aria, sempre a temperatura ambiente, che risulta essere di
circa 4 volte maggiore. Invece se prendiamo in considerazione per esempio l’acciaio,
vediamo che la velocità di propagazione è circa 17 volte quella relativa all’aria, ancora a
temperatura ambiente.

Caratteristiche del suono 


Il suono ha 3 aspetti fondamentali:
1. L’ALTEZZA
  L’altezza è quella caratteristica che ci fa percepire un suono acuto o grave.
Dipende dalla frequenza dell’onda, cioè dal numero di oscillazioni complete dell’onda
in un secondo. Maggiore è il numero di oscillazioni nell’unità di tempo e più alto è il suono
che sentiamo; se invece la frequenza è minore, sentiamo un suono più basso, più grave.
Consideriamo una chitarra: guardandola attentamente noteremo che le corde
hanno diversi spessori. Quindi la corda più spessa e più pesante, se pizzicata, genera un
suono più grave, proprio perché vibra con una frequenza minore; al contrario la corda più
sottile e leggera oscilla con frequenza maggiore, dando origine ad un suono più acuto.
Questo significa che ogni nota musicale corrisponde ad una precisa frequenza:
per esempio il DO centrale ha una frequenza di 262 Hz, mentre il LA prodotto dal
diapason ha una frequenza di 440 Hz.
 2. IL TIMBRO
  Il timbro è quella proprietà che ci permette di distinguere diversi strumenti o diverse
voci, cioè di distinguere la sorgente del suono. Questo dipende dalla legge matematica (di
tipo sinusoidale) che regola la periodicità dell’onda sonora e dipende strettamente dal tipo
do materiale con cui è costruito il corpo vibrante, dal peso, dalle dimensioni, dalla massa,
dal tipo di sollecitazione a cui il corpo vibrante è sottoposto (percussione, immissione di
fiato, strofinamento di corde, voce maschile, voce femminile, etc.).
3. L’INTENSITÀ
  L’intensità è la caratteristica che ci permette di distinguere il volume di un suono e
dipende dall’ampiezza dell’onda. Onde sonore con ampiezza maggiore comprimono o
dilatano il mezzo in modo più netto, quindi il suono si sente meglio.
L’intensità indica in fisica quanta energia E arriva in un intervallo di tempo t di un
secondo su una superficie A di un metro quadro posta perpendicolarmente alla direzione
di propagazione dell’onda sonora:
I = EA tWm2

Il decibel (da considerare quando si mixa o si equalizza…!!)


Se alla sorgente aumenta l’intensità sonora, il nostro udito non avverte il
cambiamento in modo direttamente proporzionale: per esempio se si ha un aumento alla
sorgente di 10, 100 o 1.000 volte, in realtà noi percepiamo un suono di sole 2, 3 o 4 volte
più forte. 
Per questo motivo è stata inventata la scala dei decibel (dB), proprio per
quantificare il livello di intensità sonora percepito dal nostro udito.
 

 
Quando l’intensità sonora aumenta di 10 dB, noi percepiamo un suono con un
volume che sembra raddoppiato. Il valore minimo della scala, cioè 0 dB, rappresenta la
soglia di udibilità, cioè l’intensità minima normalmente percepita dall’uomo.
I suoni o i rumori che superano i 100 dB possono danneggiare l’udito in modo
permanente; per un valore di 130 dB si fa corrispondere la soglia del dolore, che è quella
di massima sopportazione.

Quanto è possibile sentire un suono?


  Come abbiamo visto, il nostro udito non è in grado di percepire tutte le onde sonore.
Affinché sia udibile, un’onda sonora deve avere una frequenza compresa tra 20 Hz e
10.000-20.000 Hz, in base a chi la ascolta.
Le onde sonore con frequenze più basse vengono dette infrasuoni, mentre a
frequenza maggiori di 20.000 Hz si definiscono ultrasuoni.
Molti animali sanno percepire ed emettere suoni diversamente dall’uomo. Alcuni
utilizzano gli infrasuoni, come per esempio i rinoceronti che interagiscono tramite
frequenze di circa 5 Hz, o gli elefanti che comunicano con infrasuoni a 15 Hz.  
Altri animali usano gli ultrasuoni per orientarsi o individuare possibili prede; i
pipistrelli per esempio producono ultrasuoni tra i 10.000 e i 120.000 Hz. Lo stesso
comportamento viene riscontrato nelle balene e nei delfini, per esplorare il territorio che li
circonda, sfruttando il fenomeno dell’eco.

Che cos’è l’eco?
Immaginiamo di aver compiuto una scampagnata in una grande gola in mezzo alle
montagne; se cominciamo a parlare o a gridare qualcosa, può capitare di sentire la nostra
voce ripetersi come se provenisse da lontano.
Questo avviene perché il suono si comporta come se rimbalzasse contro le pareti
rocciose che fanno da ostacolo alla sua propagazione. L’eco infatti è un fenomeno
dovuto alla riflessione delle onde sonore.
Se tra la persona che emette il suono e l’ostacolo c’è una distanza d, l’onda sonora
percorre in andata e ritorno un tragitto lungo 2d, impiegando un tempo  pari a:
t = 2dv
dove v è la velocità del suono.
Ora, il nostro orecchio riesce a distinguere due suoni separati da un intervallo di
tempo di almeno un decimo di secondo, quindi per udire l’eco l’ostacolo dovrà trovarsi
almeno ad una ventina di metri (sempre considerando l’aria come mezzo di propagazione
e quindi v = 343 m/s). Invece, se la distanza è minore si ha la sensazione che il suono
rimbombi.
L’eco viene utilizzato dall’uomo in diverse apparecchiature per identificare oggetti
altrimenti invisibili. Per esempio l’ecografia in medicina o anche il sonar presente sulle
imbarcazioni o sui sottomarini, che permette di determinare la distanza di oggetti presenti
sulla superficie marina, misurando l’intervallo di tempo intercorso tra andata e ritorno degli
ultrasuoni che si riflettono su quegli oggetti.
La registrazione, sin dall’inizio, era articolata e organizzata in modo da riprendere e
restituire il suono dell’esecuzione con la risposta dell’ambiente circostante. Con annessi e
connessi: le caratteristiche delle registrazioni degli inizi sono, infatti, di qualità mediocre e
con poca definizione sonora. Nella realizzazione delle sale da registrazione, fin da subito,
si è cercato di affrontare e risolvere questo problema, adottando materiali fonoassorbenti,
costruendo intenzionali asimmetrie, separando dove possibile i vari strumenti con pannelli,
delimitando la zone più sonora (come quella della batteria) con pannelli, così da ottenere
un suono più asciutto e riconoscibile.
L’avvento dei microfoni, posizionabili in maniera ravvicinata e puntiforme sui vari
strumenti, e amplificati separatamente sui mixer in regia, ha portato ad eliminare quasi del
tutto la riverberazione generale d’ambiente. Ecco perché sono nati i riverberi e gli echi.
I riverberi degli studi degli anni 60/70/80, prima che arrivasse l’emulazione digitale
degli anni 80, erano “fisici”, cioè era costituiti da grandi lastre di metallo, racchiuse in
grandi casse di legno. In funzione della dimensione della lastra e del tipo di metallo, si
ottenevano risposte di riverbero differenti… ma non c’era alcun tipo di regolazione o di
memoria: Il funzionamento era abbastanza semplice: si sospendeva con apposite molle
una lastra sottilissima di metallo all’interno di un grande box isolato e, per sollecitare la
vibrazione della lastra metallica vengono installati dei piccoli altoparlanti che la mettono in
vibrazione. Dall’altra parte della lastra c’è una capsula microfonica che riprende la
vibrazione. Di norma queste “scatolone”, di ragguardevoli dimensioni (anche lunghe 2/3
metri e alte 1,50/1,80 m., venivano collocate in un ambiente isolato, a adeguata distanza
dalla regia, per non essere disturbate da suoni esterni di qualunque tipo, collegate al mixer
in reia con cavi bilanciati di grande lunghezza. Il suono veniva inviato dal mixer tramite la
mandata effetti collegata all’input del riverbero e l’uscita audio del riverbero tornava al
mixer di regia con cavo collegato al return degli effetti del mixer. Uno studio di grande
livello disponeva di 2, 3 o 4 riverberi differenti, ognuno con una sua caratteristica: più
breve e sonoro per strumenti percussivi, più ampio e morbido per pianoforti, orchestre,
voci, etc.
Negli anni ’50, con l’introduzione della chitarra elettrica e della sua amplificazione, si
inziò a dotare gli amplificatori per chitarra di un riverbero a molle, con sistema simile a
quello sopra descritto. Bisognava prestare sempre molta attenzione a non saltare troppo
su un palco poco stabile, altrimenti si generavano “frustate” sonore generate dalle molle
del riverbero che sbattevano nello chassis metallico che le alloggia.
In aggiunta al riverbero, si cercava in vari modi di ottenere un “echo” in studio, ma
l’unica maniera per ottenere una risposta uguale al segnale di ingresso, con ripetizione a
scemare, era registrare e riprodurre…. Si pensò, quindi, di creare un loop di nastro teso
tra due registratori, con un primo registratore che registrava su nastro il suono da effettare,
e il secondo registratore che lo rileggeva e lo rimandava, a volume più basso, tramite
mixer, al primo sommandolo al segnale di ingresso, così da avere una serie di risposte
che man mano andavano scemando di intensità. Il sistema era assolutamente empirico:
la distanza tra i registratori era quelle che determinava il tempo delle risposte dell’echo,
quindi si stava a calcolare il bpm del brano, e a misurare la quantità di nastro necessaria
ad ottenere la giusta risposta a tempo, etc. Faticoso, complicato, poco certo come
risultato, fragilissimo e impraticabile su palco.
Negli anni ’60 la ditta Binson di Milano brevettò il primo “echo”: l’inventore pensò ad
un disco metallico, con la circonferenza rivestita di materiale magnetico (un po’ come i
nastri…), su cui una testina di registrazione incideva il suono proveniente dall’input
(chitarra, tastiera, microfono) mentre una serie di testine poste lungo la circonferenza del
disco rotante a distanze varie leggeva il suono con il ritardo determinato dalla distanza tra
la testina di registrazione e quella di riproduzione. Appositi selettori consentivano di
regolare manualmente la velocità di rotazione e consentivano di selezionare una o più
testine di letture, per ottenere risposte con tempi di ritardo vari, e permettevano di
miscelare il suono in ingresso a quello generato dall’echo.
Fu una innovazione tale che gli studi di Abbey Road, della Emi music, ordinarono
echi a 6 testine, i più famosi artisti rock e pop mondiali fecero a gara ad acquistarlo. Nel
filmato PINK FLOYD AT POMPEI, concerto dal vivo dei Pink Floyd a Pompei, si vede
chiaramente un Echo BINSON 4 testine appoggiato sull’ampli del chitarrista.
Mel 1979/80 arrivarono Roland con il suo Se 150, poi col 201, la Korg, e di seguito
altri produttori, che ripresero il concetto dell’echo Binson ma sostituendo il disco metallico
magnetizzato con un nastro senza fine alloggiato in una apposita cartuccia, e testine di
registrazione e lettura che gestivano la scrittura e lettura del nastro. Nel giro di 2, 3 anni
Binson scomparve dal mercato.
Circa negli stessi anni, nel 1978, la Lexicon iniziò la sperimentazione su delays e
riverberi digitali, La strategia fu di partire con una macchina da studio ai massimi livelli e fu
presentato il 224: 7500 dollari la versione a 2 canali, 8000 per quella a 4 canali. Cifre che
sembrano enormi, ma che erano circa la metà di un “foglia d’oro” della EMT, riverbero
“must have” di ogni studio professionale. Da questa tecnologia avanzatissima, si
svilupparono poi i primi delays digitali: nel 1982, il PCM 41, nel 1984 il PCM 42; a seguire
il primo riverbero digitale: dotato di memoria semipresettata, il PCM 60, con una serie di
controlli per personalizzare la risposta sonora. Dopo circa un anno arrivo il PCM 70,
stereo, con una qualità sonora che dura tuttora. Nel frattempo il progetto del 224 vide la
produzione del 224L e poi XL, fino al 1988 in cui fu presentato il 480, macchina tuttora
ambitissima, al prezzo di circa 30 milioni di lire degli anni ’80. Pietre miliari, ora disponibili
in formato software a qualche centinaio di €….

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