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1. Prime definizioni
hanno molti termini per definire la neve, gli irlandesi per il colore
verde... – il grado di sensibilità alle sfumature è spia di universi cul-
turali non sovrapponibili [Hjelmslev 1961, 56-57 trad. it.; Marradi
1984, 10]2.
Nel contesto linguistico anglofono, i due concetti che noi identifi-
chiamo con l’unico termine politica godono di una grande autonomia
non solo lessicale, ma anche sostanziale. Nella prefazione ad un’ampia
opera sulla comparazione delle politiche pubbliche, Heidenheimer,
Heclo e Adams affrontano la questione
2 Questo capitolo riprende alcuni argomenti introduttivi allo studio delle politi-
che pubbliche svolti in Regonini [1989; 1995; 1996b].
3 «Una linea di condotta è un programma progettato di valori-fini e di pratiche;
il processo della linea di condotta è la formulazione, la promulgazione e l’applicazione
di identificazioni, domande ed aspettative riguardanti le future relazioni interpersonali
dell’io» [Lasswell e Kaplan 1950, 87 trad. it.].
20 CAPITOLO 1
Benché tra queste due sfere di attività possano esistere ampi mar-
gini di sovrapposizione, specialmente in Italia, dove le leggi hanno un
ruolo fondamentale nell’indirizzare le politiche pubbliche, law making
e policy making non coincidono, né concettualmente, né praticamente.
Come afferma David Easton, «Ovviamente è possibile intendere le
politiche come “ripartizione dei diritti e dei privilegi” da parte della
legge. Ma questo è solo uno dei modi in cui le politiche si manifesta-
no: dal punto di vista della ricerca empirica, non si può ammettere
che la descrizione legale di una politica ne comprenda l’intero signifi-
cato» [1953, 131]8.
Questa differenza non è facile da cogliere nel nostro paese, dato
che spesso le leggi sembrano il solo strumento di cui le istituzioni ita-
liane possono disporre per incanalare l’impiego di risorse collettive
verso precisi obiettivi9. Persino chi lamenta gli effetti perversi generati
dall’alto numero di norme, non sa rinunciare a formulare le sue do-
mande in termini di ulteriori interventi legislativi, anche se non esisto-
no elementi per addossare ai testi in vigore la responsabilità dei falli-
menti10.
Politiche senza leggi, leggi senza politiche. Chi sostiene che abbiamo
le leggi sullo sfruttamento dei minori12 – o sulla tutela delle lavoratrici
madri, o sulla sicurezza nei luoghi di lavoro – più avanzate d’Europa,
difficilmente potrebbe confermare la stessa valutazione se, anziché le
leggi, prendesse come riferimento le politiche, dati l’estensione della
prostituzione minorile, il basso tasso di natalità, la frequenza degli in-
cidenti sul lavoro nel nostro paese.
I criteri per verificare l’esistenza di una legge sono basati sulla le-
gittimità delle procedure che hanno portato alla sua promulgazione.
Una politica pubblica misura la sua consistenza e basa la sua validità
sulla capacità di mitigare un problema percepito come rilevante da un
gruppo significativo di cittadini: e può tornare a merito dei policy
makers la capacità di ottenere risultati senza ricorrere a innovazioni
legislative, ma semplicemente attraverso un miglior coordinamento o
un uso più intelligente delle tecnologie disponibili.
Questo significa che l’estensione e la precisione delle norme non
hanno legami con l’estensione e la precisione delle politiche. Anzi,
spesso finiscono con il contrastarle. Nel 1985, sulla «Gazzetta Ufficia-
le»13 fu pubblicato il testo del decreto del presidente del Consiglio dei
ministri con le norme per l’«organizzazione e il programma di svolgi-
mento del primo corso di formazione dirigenziale» per funzionari del-
la pubblica amministrazione. Il corso era regolato fin nei minimi
particolari: orari, programmi, metodologie didattiche14. Ma il metico-
loso rispetto del dettaglio normativo non bastò certo a rendere il corso
funzionale all’obiettivo per il quale era stato progettato: la riqualifica-
zione del profilo professionale del dirigente pubblico.
17 Evidentemente non esiste un unico arco temporale adeguato per tutti i settori
dell’intervento pubblico e per tutti i loro aspetti problematici. Le scelte che riguarda-
no le grandi infrastrutture sono di norma proiettate su lunghi periodi, mentre le po-
litiche dell’occupazione o della riconversione industriale scontano l’influenza delle
congiunture economiche.
18 Come spiega Laudan, una tradizione di ricerca è «un insieme di assunzioni
generali che riguardano le entità e i processi in un ambito di studio, nonché i metodi
appropriati per indagarne i problemi e costruire le teorie» [1977, 68].
19 «Praticamente ogni università offre un corso avanzato in analisi delle politiche
pubbliche [...]. E nell’amministrazione è raro che un’agenzia o un dipartimento non
abbiano la loro specifica unità di analisi» [deLeon 1988, 106].
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE 33
essere ignorati, ma vanno inseriti nel governo [...]. I leader politici non
sono creduti senza gli analisti di politiche, anche se con loro fanno
fatica a credere in se stessi» [Wildavsky 1992, 402].
Di per sé, l’istituzionalizzazione di un campo di ricerca è un indi-
catore molto povero di scientificità: anche l’astrologia ha riviste, con-
vegni, associazioni professionali. Il sospetto che alla crescita quantita-
tiva contribuiscano motivi meno nobili di quelli scientifici è da tempo
ben presente agli studiosi della disciplina: «senza qualche meccanismo
di selezione, la bandiera delle scienze delle politiche può essere utiliz-
zata in modo indiscriminato da persone incompetenti e persino da
ciarlatani, compromettendo così la possibilità del loro sviluppo come
impresa scientifica e professionale» [Dror 1971, 44]20.
E tuttavia, nonostante ombre e ondeggiamenti, l’affermazione dello
studio delle politiche pubbliche è parte importante della vicenda delle
scienze sociali nella seconda metà del secolo scorso. Ed è una vicenda
con due caratteristiche fondamentali: è una storia americana, ed è una
storia maturata prevalentemente all’interno della scienza politica.
ziative il primo organico tentativo attuato negli Stati Uniti per intro-
durre criteri di programmazione nell’attività del governo. Sia la Gran-
de Depressione prima, sia il New Deal e la seconda guerra mondiale
poi, hanno visto gruppi molto qualificati di ricercatori attivamente
impegnati a formulare modelli per l’analisi di problemi quali la disoc-
cupazione, l’emarginazione nei quartieri periferici urbani, la povertà
nelle aree rurali, sulla base di un approccio nettamente interdiscipli-
nare28:
Merriam fece parte del National Planning Board dal 1933 al 1943. Nel
1934 [questo organismo] prese il nome di National Resources Board e, in se-
guito alla riforma riorganizzativa del 1939, divenne parte dell’ufficio esecutivo
del presidente. A sua volta, la riforma amministrativa era basata sulle racco-
mandazioni fatte dalla Commissione presidenziale per la gestione amministra-
tiva, che era costituita da tre persone: Louis Brownlow, Luther H. Gulick e
Charles E. Merriam [Berndtson 1987, 92].
30 Il rapporto finale inizia con una frase divenuta l’emblema di ogni tentativo di
riforma amministrativa: «The President needs help».
31 Costituita nel 1949 con il compito di portare a termine la riforma dell’ammi-
nistrazione federale, la commissione presieduta da Herbert Hoover applicò alla buro-
crazia pubblica i precetti del scientific management: chiarezza di ruoli e di funzioni,
netta distinzione tra staff e line e un sistema di stretti controlli gerarchici [Light 1995].
40 CAPITOLO 1
2.3.2. Germania
2.3.3. Francia
37 1990, n. 3.
38 Dalla rassegna dei contributi di scienza politica pubblicati in Italia dal 1945 al
1988 [Morlino 1989, 37], il settore delle politiche pubbliche risulta essere il più chiu-
so all’importazione e alla pubblicazione della letteratura internazionale.
39 Ricordiamo il Master in Analisi delle politiche pubbliche (M APP), attivato a
Torino dal Consorzio per la ricerca e l’educazione permanente, e il dottorato di ricer-
ca in Sistemi sociali e analisi delle politiche pubbliche dell’Università di Roma.
40 Citiamo tra gli altri il Centro di analisi delle politiche pubbliche dell’Università
di Bologna, il Centro di politiche pubbliche costituito dall’Università degli Studi di
Milano e dall’Università Bocconi; ancora a Milano, le ricerche promosse da Poleis
presso l’Università Bocconi.
41 Merita una speciale menzione la collana Le politiche pubbliche in Italia, curata
da Maurizio Ferrera per la casa editrice il Mulino.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE 47
45 Il sottotitolo della lezione di Lowi sulla scienza politica americana recita: Come
siamo diventati quello che studiamo.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE 49
Un’utile traccia per portare alla luce le ragioni del mancato incontro
tra il paradigma delle politiche pubbliche – almeno nella sua originale
versione statunitense – e il main stream della scienza politica italiana è
l’affermazione con cui David Easton riassume il senso della sua ricerca
in un’opera, Il sistema politico, che ha segnato la storia della disciplina:
«La mia tendenza, in questa sede, sarà di sostenere che né lo Stato né il
potere costituiscono un concetto che serva a legare insieme la ricerca
politica» [1953, 132-3 trad. it.]. Questa impostazione è in netto contra-
sto con l’orientamento di larga parte della scienza politica italiana.
Iniziamo col considerare la diversa riflessione sul potere, giusta-
mente considerata da Cotta [1989] come un punto chiave, grazie alla
straordinaria tradizione cinico-realistica italiana che annovera nomi
quali Machiavelli, Mosca, Michels, Pareto.
In effetti, una parte molto importante della scienza politica ameri-
cana ha esplicitamente negato che il potere costituisca il fulcro della
ricerca politologica:
Il punto di vista del potere non può convincerci in nessun modo di esse-
re uno strumento iniziale adeguato per individuare dei confini della ricerca
politica. La ragione è che il potere è una soltanto delle variabili rilevanti. Esso
tralascia un aspetto ugualmente vitale della vita politica, l’orientamento di
questa verso obiettivi diversi dal potere stesso. La vita politica non è fatta
solo di una lotta per il controllo; questa lotta ha le sue origini e i suoi legami
nel conflitto sulla direzione della vita sociale, negli orientamenti generali della
vita pubblica [Easton 1953, 355 trad. it.].
centro né l’essenza della politica» [1963, 132 trad. it.]; infatti «la poli-
tica è un meccanismo decisivo per produrre, conservare o mutare gli
impegni sociali».
Secondo Charles Lindblom, «Oggi il ruolo della ragione nella po-
litica (politics) è generalmente oscurato dall’attuale popolarità dell’idea
che la scienza politica sia lo studio del potere» [1965, 16]47: ma in
quanto tale costituisce una branca specialistica delle policy sciences,
che hanno un obiettivo più generale: «fornire le informazioni pertinen-
ti per l’integrazione dei valori attuati e incorporati nelle relazioni inter-
personali», valori rispetto ai quali il potere costituisce solo una sotto-
categoria.
A scanso di equivoci, occorre subito precisare che queste afferma-
zioni non introducono ad alcuna visione irenistica, tecnocratica o e-
gualitaria della convivenza civile. Per Lasswell, per Easton, per Dahl,
per Lindblom, la politics interviene nei problemi e nelle tensioni di
una collettività essenzialmente fissando un ordine dal più al meno per
l’accesso ai beni, stabilendo «chi ottiene che cosa», allocando risorse
in modo discriminante. In altri termini, quella che Sartori definisce la
dimensione verticale della politica [1972] è ben presente anche nel-
l’elaborazione di questi autori. A fare la differenza sono due fattori:
l’origine di tale dimensione e le sue modalità d’intersezione con l’altra
dimensione, quella orizzontale, che pure è implicita nel termine «poli-
tica» e che, come abbiamo visto, rinvia al comune coinvolgimento nel-
la soluzione dei problemi di rilevanza collettiva48.
Per quella parte della scienza politica americana che pone le poli-
tiche pubbliche al centro della ricerca, l’aspetto analiticamente rilevan-
te non è tanto il «potere su», quanto il «potere di» [Barnes 1988, 6],
cioè la capacità di fare i conti con la dura evidenza della limitatezza
delle risorse disponibili, per indirizzarle verso alcuni dei problemi che
non possono essere risolti dalle famiglie, dalle associazioni spontanee,
dai mercati. Pertanto, in situazioni non patologiche, la dimensione ver-
ticale della politica non rimarca un valore fine a se stesso, ma coglie la
necessità di fissare delle precedenze in un mondo che non consente a
tutti di avere tutto ciò che vogliono.
Più che costituire un indice cumulativo capace di sintetizzare gli
squilibri esistenti in una società, questo concetto di potere rivela le sue
potenzialità euristiche solo quando acquista specificità, perché ancora-
to a precisi conflitti allocativi intorno a determinate categorie di risor-
144]. La traduzione italiana del 1973 è: «L’interesse della scienza politica per il potere
è soltanto il derivato dell’interesse che essa ha per il modo in cui si formulano ed ese-
guiscono le decisioni politiche» [172].
47 Lindblom include anche Bentley tra i maggiori responsabili della riduzione
della politica a un gioco di forze contrastanti.
48 Molti autori collegano queste due dimensioni alla duplice ascendenza seman-
tica rintracciabile nel termine «politica»: poleis e polemos, città e guerra.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE 51
se: «L’essenza di una politica (policy) sta nel fatto che grazie ad essa
certe cose sono negate ad alcuni e rese accessibili ad altri» [Easton
1953, 129-130]. Insomma, sono le diverse politiche pubbliche a costi-
tuire le arene entro le quali prendono forme variegate e raramente
sovrapponibili le relazioni di potere.
Quando l’attenzione si sposta sulle concrete situazioni che assegna-
no le posizioni di vantaggio nei processi decisionali che hanno per
posta la localizzazione di un nuovo aeroporto, o i termini di un con-
dono fiscale, il concetto di potere si spoglia di ogni tratto sistemico.
Herbert Kaufman [1981, 4] formula addirittura una «legge delle per-
cezioni del potere» che collega la centralità attribuita a questa catego-
ria a una sua scarsa conoscenza empirica:
Nel vedere la ricerca politica come in gran parte un mezzo per scoprire
dove risiede il potere sulla formulazione delle decisioni, esso [il realismo po-
litico d’inizio secolo] non fece altro che sostituire un interesse giuridico per la
sede della competenza nell’ambito della struttura di governo, con un interesse
per la sede del potere effettivo nell’ambito della stessa struttura [Easton 1953,
197 trad. it.].
La soluzione collettiva dei problemi tra oltre 160 Stati, con sensibilità
culturali marcatamente diverse e con memorie storiche divergenti, sembra
dipendere dall’abilità di trascendere le divisioni culturali e storiche, per pro-
muovere significati condivisi pur nella diversità delle culture e delle ideologie
[Haas 1990, 17].
Ciò che si sa del modus operandi dei comitati consultivi suggerisce l’idea
che i dibattiti si sviluppino più in funzione dei problemi di fondo che delle
linee di confine nazionali. Tra funzionari europei ed esperti nazionali si crea
3.1. L’interdisciplinarità
Prima di entrare nel merito dei vari modi attraverso cui può essere
analizzata una politica pubblica, occorre richiamare l’attenzione del
lettore su una caratteristica comune a tutte le indagini compiute in
quest’area, a prescindere dalle finalità e dalle metodologie privilegiate.
Intendiamo parlare dell’interdisciplinarit à nelle sue diverse accezioni
[Lasswell 1951].
Innanzi tutto, a sollecitare lo scavalcamento dei confini disciplinari
è l’oggetto stesso di studio: «Concentrare l’attenzione su un solo aspetto
di un problema di policy è funzionale alla divisione del lavoro tra le di-
scipline accademiche. Ma molti problemi nel campo delle politiche
pubbliche sono indisciplinati, e coinvolgono contemporaneamente que-
stioni politiche, economiche, amministrative e sociali» [Rose 1989, 5].
Benché i diversi approcci di policy si qualifichino per i legami
più marcati con alcune materie rispetto ad altre, essi sono comunque
caratterizzati dalla necessità di utilizzare informazioni provenienti da
settori scientifici diversi, per l’esigenza di comprendere e/o di valu-
tare vincoli che sono contemporaneamente tecnici, politici, finanziari,
giuridici, culturali, organizzativi [McCall e Weber 1983, 204]. Infatti
anche gli interventi pubblici relativamente semplici, quali la costru-
zione di un acquedotto o il miglioramento dei trasporti urbani, non
cadono nel vuoto, ma in un contesto fisico, sociale e amministrativo
che richiede la considerazione di diversi apporti disciplinari. Le crisi
dovute ai picchi nell’utilizzazione di questi servizi hanno a che vede-
re con la struttura economica, con le caratteristiche geofisiche del
territorio, con l’organizzazione familiare e, in fondo, con le culture:
rinunciare alla cisterna privata o all’auto implica un atto di fiducia
nelle reti pubbliche che non dipende solo dalla concreta esperienza
dell’efficienza del servizio, ma anche dalle valenze simboliche attri-
buite alla propria autonomia o dipendenza in quel preciso settore.
Come è noto, la clemenza del clima non influenza affatto la propen-
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE 55
sione all’uso della bicicletta, più elevata nei paesi nordici rispetto a
quelli mediterranei.
Allo studioso di politiche pubbliche ovviamente non si richiede di
possedere tutte le competenze necessarie: si richiede però la capacità di
capire e di integrare gli specifici punti di vista dell’ingegnere che sostie-
ne un certo tracciato, del giurista che prevede ricorsi da parte dei cit-
tadini penalizzati, dell’economista che trova troppo costoso il progetto.
Questa strategia di ricerca espone lo scienziato politico a due peri-
coli opposti: da un lato, la conoscenza solo parziale dei vincoli e delle
risorse tecnologiche di un determinato settore (fonti energetiche, sani-
tà, trasporti...) rischia di collocarlo in una posizione di perenne subal-
ternità rispetto agli esperti in quelle materie [Grumm 1975, 458].
Dall’altro lato, l’eventuale scelta della specializzazione settoriale rischia
di sbiadire la specificità del suo contributo scientifico [Hogwood
1984]. Come scrive Lowi, «lo studio dell’impatto delle decisioni rela-
tive alle politiche del welfare e della sanità è un’area in cui lo scienzia-
to politico può facilmente diventare zimbello di veri economisti, di
veri sociologi del benessere, di veri esperti di sanità. In questi campi,
anche il migliore politologo può essere poco più di un modesto dilet-
tante» [Lowi 1975, 272-273]52.
A salvare lo studioso di politiche pubbliche da questi rischi inter-
viene un modo diverso di considerare l’interdisciplinarità, che sposta
l’accento dalla complessità dell’oggetto di studio (l’acquedotto, o i ti-
cket sanitari, o la riforma dell’esame di maturità) alla pluralità delle
prospettive da cui può essere osservato. Se i confini disciplinari cessa-
no di essere barriere, è perché le policy sciences si propongono di evi-
denziare i vantaggi che derivano dall’inquadrare un problema da di-
versi punti di vista, anche quando le ricostruzioni che ne derivano non
sono facilmente componibili [Lasswell 1971; Dror 1971; Schneider et
al. 1982]. In effetti, da tutte le iniziative intraprese per consolidare
questo campo di ricerca, emerge la precisa consapevolezza che al cen-
tro dello studio delle politiche pubbliche – comunque definito – si
pone una qualche forma di conversazione tra diversi paradigmi disci-
plinari, ciascuno legittimo e utile, pur nella sua parzialità [Nagel 1990,
425; Doron 1992]53.
52 Prosegue Lowi: «Gli scienziati politici devono essere interessati all’analisi del-
l’impatto, ma l’impatto su cui essi possono rivendicare qualche competenza è quello
all’indietro, sul sistema politico, piuttosto che in avanti, sugli elementi del processo
sociale» (la numerazione della pagina si riferisce alla ristampa del 1979).
53 Secondo alcuni autori, questo proposito sarebbe rimasto irrealizzato: «Nono-
stante la retorica della multidisciplinarità e la natura interdisciplinar e della policy
analysis, tanto l’insegnamento quanto la pratica hanno ampiamente mancato l’obietti-
vo dell’integrazione, sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti» [Hogwood 1984, 20].
56 CAPITOLO 1
delle scienze sociali ha assunto una netta posizione a favore del plura-
lismo epistemologico [1987].
Ma è soprattutto il richiamo alla matrice pragmatista a fornire ai
policy studies lo schema implicito di riferimento entro il quale colloca-
re il problema della convivenza tra più prospettive teoriche e metodo-
logiche. È comunque opportuno sottolineare fin d’ora che, nonostante
le apparenze «onnivore», l’impostazione pragmatica è molto esigente:
l’ampia disponibilità verso concetti, metodologie e tecniche, lungi dal
costituire una comoda copertura per ogni tipo di scelta, richiede al ri-
cercatore di considerare ogni volta con grande attenzione l’adeguatez-
za dell’impostazione della ricerca rispetto al problema, per riconoscere
e valutare anticipatamente le implicite affinità tra approcci e risultati.
4. Linee di ricerca
Insomma, parrebbe che una politica pubblica, più che essere adot-
tata dall’autorità, debba esserne dotata: «Una politica è chiaramente
autorevole quando prevale la sensazione che la si deve o la si dovreb-
be obbedire» [ibidem, 133].
Su questa base ha buon gioco Bachrach [1967, 102], quando affer-
ma che anche la General Motors, come il governo, alloca autoritativa-
mente i valori per la società. Nadel riprende questo argomento per
sottolineare la necessità di una prospettiva più ampia: «Le allocazioni
[di valori] esterne ai governi sono sempre più intrecciate con le attività
dei centri di governo formali [...]. La sfida allora è analizzare le politi-
che pubbliche qualunque sia la loro fonte» [Nadel 1975, 33].
Le repliche a questa impostazione tendono a rimarcare comunque
un’asimmetria nella distribuzione dell’autorità tra le istituzioni pubbli-
che e le altre organizzazioni, sia pure potenti: «Il governo degli Stati
Uniti può allocare con autorità valori rispetto alla General Motors, ma
non il contrario» [Bealey 1996, 329]. E tuttavia questa osservazione
perde fondamento se pensiamo ai costi che negli anni ’90 la Microsoft
ha potuto imporre alle amministrazioni di molti paesi, semplicemente
condannando all’obsolescenza la versione di un suo programma56.
Benché questa contrapposizione continui a riproporsi, i suoi ter-
mini tendono a essere ridefiniti. A fare problema oggi, oltre al ruolo
delle grandi corporations, è l’esistenza di una molteplicità di iniziative
e di sedi che di fatto ridimensionano la rilevanza dei processi interni
alle istituzioni politiche tradizionali. Le organizzazioni del volontariato
spesso arrivano prima e meglio dei funzionari pubblici nelle situazioni
di disagio sociale. Nel timore che i loro prodotti siano sorpassati dagli
eventi, le case editrici scolastiche anticipano e rendono effettivi i con-
tenuti di riforme didattiche mai approvate dal parlamento.
Spesso le soluzioni ai problemi si solidificano in strutture pubbliche:
ma questa condizione non è né necessaria né sufficiente perché si possa
parlare di politiche pubbliche. Se l’oggetto di studio non è un settore
dell’intervento statale, ma la linea d’attacco di uno specifico problema di
pubblico interesse, occorre ammettere che politiche pubbliche e inter-
venti istituzionali siano due concetti non completamente sovrapponibili.
Esistono istituzioni che ormai sono esse stesse un problema pubblico
(ad esempio, il TAR del Lazio). Ed esistono soluzioni che non passano
per l’amministrazione pubblica: il controllo più efficace della pornogra-
fia su Internet è messo a disposizione delle famiglie dalle software hou-
ses, non dai governi. Rispetto a questi processi, il ruolo ufficiale delle
istituzioni politiche nella soluzione di problemi di rilevanza generale non
è più un fondamentale prerequisito. Piuttosto, diviene una variabile il
56 Altri casi sono rappresentati dalle decisioni delle grandi aziende di spostare le
loro attività da una zona all’altra, lasciando alcuni enti locali alle prese con i costi della
disoccupazione e assegnando benefici ad altri.
60 CAPITOLO 1
cui contorno assume forme irrituali e il cui peso può essere definito solo
con la ricerca empirica, perché la stessa natura giuridica pubblica o pri-
vata degli attori in gioco si rivela un indicatore molto povero della loro
effettiva influenza: «Il fatto che le gerarchie politiche formali siano rile-
vanti rispetto al problema studiato non può essere dato per scontato. La
loro funzione come rilevanti unità di analisi deve essere dimostrata, non
assunta a priori» [Carlsson 1996, 542].
57 Caro Ronchi, ecco perché non siamo «boiardi», di Chicco Testa, presidente
ENEL, su «Corriere della Sera», 24 dicembre 1996.
58 Heclo e Wildavsky utilizzano volutamente un’espressione ambigua per marca-
re l’impossibilità di una netta separazione tra le due funzioni.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE 61
59 Si veda anche Heclo [1972; rist. 1979, 85]: «Il termine policy deve poter com-
prendere sia ciò che è intenzionale, sia ciò che accade per sua conseguenza».
62 CAPITOLO 1
Innanzi tutto, uno stesso problema può assumere una valenza più
o meno pubblica a seconda del contesto in cui cade. Un caso di epa-
tite è una questione privata: cento concentrati in una città, non più.
Ma anche un caso può tracimare dal privato al pubblico se risulta ori-
ginato da una mensa scolastica o da una trasfusione infetta; e questo
stesso caso può tornare a rifluire nel privato se nelle stesse ore scoppia
un’epidemia di meningite.
I problemi che hanno ormai acquisito un posto nell’agenda delle
istituzioni pubbliche difficilmente marciano isolati, ma presentano in-
vece numerosi agganci e sovrapposizioni. Si pensi ad esempio alla dif-
ficoltà di fissare dove comincia e dove finisce la politica sanitaria: ne
fanno parte o no questioni quali la programmazione degli accessi alla
facoltà di medicina o la regolazione degli esperimenti incentrati sulla
clonazione? Come delimitare convenzionalmente l’oggetto d’indagine
è pertanto un passaggio fondamentale della ricerca, della cui impor-
tanza il ricercatore deve essere pienamente consapevole. Infatti con-
venzionale non significa arbitrario, ma basato su criteri che devono
essere chiaramente specificati e motivati.
5. Questioni aperte