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Il libro

“Parlami dei tuoi sbagli, perché è di questo


che siamo fatti: di quei piccoli errori che ci
hanno spinti a uscire di strada. Quante volte ti
sei accontentata di un mezzo sorriso? Quanti
desideri hai chiuso nel cassetto e hai scordato di
coccolare?”

Elisabetta e Alessandro sono sposati da anni,


ma il fuoco che c’era tra loro pare ormai quasi
spento. Non riescono a immaginarsi l’uno senza
l’altra, eppure a un certo punto hanno
cominciato ad allontanarsi, hanno smesso di
guardarsi negli occhi. E all’improvviso si sono
ritrovati troppo distanti per prendersi di nuovo
per mano.
Quello di Lorenzo e Beatrice è un amore
fatto di voci e di canzoni: si sono conosciuti una
sera di luglio, sulle note di una chitarra, e d’un
tratto hanno capito di non essere più soli. Sono
giovani, hanno la vita davanti e tanti sogni nel
cassetto. Ma è proprio per inseguire uno di
questi che le loro strade rischiano di dividersi.
Senza un futuro insieme, come si fa a
immaginare l’amore?
Due coppie, due storie parallele e opposte
che si sfiorano per caso in due diverse stagioni
della vita. Elisabetta, Alessandro, Beatrice e
Lorenzo hanno smesso di ascoltarsi, ma per uno
strano caso del destino cominciano a scriversi.
Grazie alle parole, i sentimenti torneranno a
galla più forti di prima e loro, finalmente,
troveranno il coraggio di seguire il cuore.
Perché innamorarsi è come sognare: non c’è un
tempo giusto per farlo, l’importante è non
smettere mai.
L’autore
Riccardo Bertoldi (Rovereto, 1990) ha vissuto
per vent’anni in un paesino di montagna, poi si
è trasferito a Trento. I suoi profili social hanno
un seguito di oltre 400mila follower. Con
Rizzoli ha già pubblicato Resti? (2018) e
Abbiamo un bacio in sospeso (io e te) (2019).
Riccardo Bertoldi

SCRIVIMI
(magari ti amo ancora)
Scrivimi
(magari ti amo ancora)
A chi ha amato almeno una
volta,
a chi si è ripromesso di non
amare più,
a chi ama lo stesso.
A chi è stato deluso,
a chi ha saputo perdonare,
a chi non perdonerà mai.
A chi non si sente capito,
a chi sa restare,
a chi si sa bastare.
A chi non ha smesso di
credere
ai treni presi al volo,
alle parole dette d’impulso,
alle promesse da
mantenere,
agli appuntamenti presi
senza pensare,
ai “chissà che succede”,
alle fermate dove capita,
agli sguardi rubati,
ai baci in sospeso,
ai giochi inventati per caso.
Ti auguro l’amore e di averlo sempre accanto, di difenderlo con il talento
dei dettagli e delle piccole attenzioni.
Ti auguro di continuare a vedere la magia di svegliarti accanto alla
persona che vuoi, di saper scovare l’amore dentro la filigrana degli anni, e
di avere sempre il coraggio di viverlo con l’irrazionalità che merita.
E ti auguro di conservarne sempre una briciola per te, e usarla per
rimetterti in piedi, se un giorno la persona che ami dovesse non amarti più.
Ti auguro di essere delusa, qualche volta, ti ricorderà di darti più valore
quando rifiorirai più bella, e che anche il dolore serve, e che però l’amore ci
salva.
Ti auguro di riuscire a non perdere mai la fiducia, di non credere mai
troppo a chi ti dice che tanto, poi, finisce sempre così.
Ti auguro di spogliare i ricordi dalla tristezza, di non chiedere scusa a chi
ti ha fatto male, di chiederlo a te per averglielo permesso, e di saper mettere
sempre da parte il rancore, e di riuscire a perdonare.
Ti auguro di essere gentile e di praticare le carezze dello sguardo, e di
riconoscere e cogliere le occasioni che non puoi perdere, e di perderne
qualcuna.
Ti auguro i brividi degli occhi che incontri una volta e mai più, e di
custodirli dentro di te come un segreto, e di avere sempre l’entusiasmo di
fantasticare su ciò che avrebbe potuto essere.
Ti auguro di imparare a stare sola ma di avere sempre amici fedeli
accanto.
Ti auguro di prenderti cura di loro e di essere capace di non dare mai per
scontata la loro presenza.
Ti auguro di ascoltare, ma soprattutto di ascoltarti e di prenderti, a volte,
il rischio di essere ciò che non sei.
Ti auguro di piangere. Poco. Ma di farlo, qualche volta, perché non
dobbiamo sempre essere felici a tutti i costi.
Ti auguro di essere gentile, sempre. Ama, ma cerca di non ferire, ascolta,
ma non giudicare, capisci, ma soprattutto comprendi.
Ti auguro di essere irripetibile. Non per tutti, ma per una persona sola.
Non abbiamo bisogno di essere amati da chiunque, ma solo da chi è capace
di farlo. Chiediti sempre: ne vale la pena? E se senti che è così, allora
lasciati andare.
Ti auguro di poter sempre amare senza freni e paure, di saper lottare per
ciò che tieni vicino al cuore, e di riuscire a dire addio quando sentirai che è
giusto farlo.Saper dare inizio a qualcosa è un miracolo, ma saper dire basta
qualche volta salva la vita.
Ti auguro di avere giornate per sentirti persa, di smarrire la strada e di
conoscere posti nuovi, ma di non scordare mai che i posti più belli non sono
luoghi.
Ti auguro di saper riconoscere i tuoi limiti, e le tue fragilità, e le
insicurezze che sai nascondere così bene, e ti auguro di farli diventare la tua
forza, e di non desiderare mai un amore perfetto, ma sempre un amore vero.
Ti auguro di essere gelosa, non troppo, solo quel che serve per sentire che
ami ancora, e ti auguro di sbagliare, non sempre, ma quando ne hai bisogno
per non dimenticarti mai della magia delle cose esatte.
E di sentirti libera, e di ribellarti a chi fa in modo che tu non lo sia.
E di prendere un treno a caso, un giorno, che a volte sono gli imprevisti
quelli che ti portano al mare.
1
Mi manca sentirmi amata di nascosto

Elisabetta

Quando comincia la fine di un amore?


Esiste un momento preciso in cui qualcosa si rompe ed è già troppo tardi?
Ricordiamo perfettamente tutte le prime volte che lo hanno costruito,
mattone dopo mattone, ma mai quelle che hanno cominciato a distruggerlo.
Siamo sempre molto concentrati a fare in modo che l’amore nasca, e poi
però spesso non ci occupiamo di fare in modo che l’amore resti.
Ce li abbiamo scolpiti nella memoria il primo sguardo, la prima volta che
ci siamo presi per mano, il primo bacio, la prima notte insieme, il primo
viaggio, il primo litigio, la prima volta che abbiamo fatto la pace, la prima
volta che abbiamo preso in considerazione l’idea di vivere insieme, il primo
trasloco, il momento in cui l’ipotesi di un figlio ci è parsa improvvisamente
più concreta, l’attimo in cui è venuto al mondo per davvero.
Tutto questo rimane incastrato dentro di noi sotto forma di piccole
nostalgie che restano immacolate negli anni, come delle polaroid da
sfogliare e a cui aggrapparsi quando quella magia è andata persa e abbiamo
bisogno di convincerci di poter tornare ancora lì, all’inizio di tutto.
Scordiamo, invece, tutte le nostre prime mancanze, quelle che si
ricoprono silenziose della polvere del tempo: il primo giorno in cui non
abbiamo portato il caffè a letto, la prima volta senza stappare il vino la sera,
la prima notte che non siamo andati a dormire assieme, ma uno dei due è
rimasto sul divano, la prima volta che, dopo un litigio, non ci siamo sforzati
di chiarire trincerandoci nel silenzio, la prima volta che ci siamo sentiti soli,
la prima volta che cenare insieme la sera, dopo una giornata di lavoro, ha
smesso di sembrarci un miracolo e ci è parsa solo routine.
Siamo abituati a dirci quando siamo felici e a nascondere quando siamo
tristi per paura di ferire l’altro, siamo abituati a vedere le crepe che
inevitabilmente si formano in una storia come un motivo per allontanarci e
non come un motivo per ricordarci che, nonostante tutto, siamo stati bravi a
essere ancora qui.
Io non lo so quando io e mio marito abbiamo smesso di riconoscerci, so
che un giorno ci siamo trovati ai lati opposti della stanza, senza riuscire a
capire dove si erano smarriti quei due ragazzi pieni di graffi che avevano
sfidato il mondo pur di stare insieme.
Io e Alessandro avevamo sempre creduto di essere invincibili, perché il
nostro è stato un amore che per tanti anni era riuscito a resistere, dandoci un
motivo per restare.
Per questo quando è successo anche a noi, di specchiarci negli occhi
dell’altro e non trovare più un appiglio al quale aggrapparci, abbiamo
distolto lo sguardo e abbiamo continuato a vivere come prima, senza il
coraggio di ammettere che forse quella non era più la vita che
desideravamo, e da quel momento abbiamo vissuto fingendo che andasse
tutto bene, anche se non andava bene per niente.
È cambiato tutto la sera in cui è rientrato a casa dal lavoro, ha lasciato
cadere la sua ventiquattrore sul divano e senza dire niente è venuto dietro di
me e ha posato delicatamente le dita sui miei fianchi, come faceva quando
aveva voglia di fare l’amore.
Io stavo preparando la cena, Virginia e Federico erano andati in vacanza
con la famiglia del piano di sopra, e Alessandro non faceva quel gesto da
oltre cinque mesi.
All’inizio ho avuto un attimo di esitazione dovuta alla sorpresa, poi però
ho chiuso gli occhi, ho stretto con forza i bordi del lavandino e mi sono
abbandonata alle sue mani.
Il suo respiro sul mio collo nascondeva i brividi di un amore sfinito e,
quando ho inarcato la schiena e ho passato un braccio dietro la sua nuca, ho
afferrato i suoi capelli come se stessi stringendo la nostra vita.
Avevo bisogno di fare l’amore con mio marito, avevo bisogno di
ricordarmi delle linee che le sue dita sapevano disegnarmi addosso, avevo
bisogno di guardare i nostri corpi coincidere perfettamente come avevano
sempre fatto e soprattutto scoprire che ne erano ancora capaci.
Avevo bisogno di vedere nei suoi occhi che poteva desiderarmi ancora
come in passato, nonostante il mio corpo fosse cambiato nel tempo e non
fosse più quello che aveva conosciuto.
Avevo bisogno di sentire nei suoi respiri una connessione con i miei, e di
sentirlo più che altro dentro la testa, e di sentire me dentro la sua, per
cercare, in qualche modo, di trasmetterci ancora una volta l’esistenza di
quelle briciole d’amore che erano riuscite a sopravvivere ai nostri silenzi.
Alessandro è stato fin da subito diverso dagli uomini che avevo
frequentato prima di incontrarlo, perché aveva il dono di dirmi “ti amo” e
farmi sentire ovunque, dentro e fuori, che era vero.
Mentre mi toglieva i vestiti ho avuto l’improvvisa sensazione che mi
stesse scivolando via di dosso anche la routine della nostra quotidianità, e la
mia stanchezza di mamma, e il timore consolidato di conoscerci da così
tanto tempo che a volte mi sembrava di non aver più niente da scoprire.
Ho spogliato mio marito come se stessi sfogliando un album di vecchie
fotografie, con quel misto di nostalgia e malinconia che provocano le cose
belle che non tornano più, ho accarezzato il suo corpo come se stessi
accarezzando ogni istante della nostra storia e mi sono sorpresa a sentire nel
petto un’emozione vera e pura a pensare che quel corpo è diventato adulto e
imperfetto di fianco al mio, e di essere l’unica donna al mondo a poter dire
di conoscerlo a memoria, e lui l’unico uomo al mondo che possa dire di
conoscere a memoria il mio.
D’un tratto mi ha voltato lentamente verso di sé e abbiamo fatto una cosa
che non facevamo davvero da troppo tempo: ci siamo guardati negli occhi.
I suoi sembravano due torce, le stesse che tanti anni fa mi avevano fatto
venire voglia di restare per sempre a guardarle.
Con quello sguardo silenzioso prima di fare l’amore io e Alessandro ci
siamo scambiati tutti i nostri magoni, i desideri di aggiustare le nostre
paure, i timori di essere arrivati troppo lontano per poter tornare quelli che
siamo stati.
Le sue braccia mi hanno sollevata come avevano fatto tante altre volte e
le mie gambe si sono attorcigliate attorno alla sua vita come se volessero
stringere più amore possibile.
Siamo scivolati in camera da letto e quando mi ha appoggiato
delicatamente sulle lenzuola, mi sono emozionata come se mi stesse
sfiorando per la prima volta, e per una frazione di secondo ci ho rivisti
giovani e spensierati a immaginare la vita che avevamo davanti, sudati e
ribelli in quella stanza illuminata appena, dove, dopo aver fatto l’amore, mi
aveva detto “è stato bello essere dentro di te per la prima volta” e io gli
avevo risposto “ci eri già”.
Ho avuto un gemito di piacere incontrollato quando ho sentito le sue
mani stringermi i fianchi con una forza che avevo quasi dimenticato.
La stessa forza che per tanto tempo avevo desiderato usasse per tirarmi
fuori quel piccolo bagliore che avevo sempre avuto negli occhi, che,
qualche volta, erano ancora capaci di brillare per lui, la stessa forza che
aveva smesso di utilizzare per salvare noi, ma mai per salvare tutto il resto.
Non sono arrabbiata con Alessandro per non essere riuscito a portarmi
dentro la vita che mi aveva promesso, sono più arrabbiata con me stessa per
non essere riuscita a condurre entrambi dentro la vita che avevamo in
mente.
Qualche volta mi domando quando abbiamo cominciato a sbagliare,
quando a perderci, e dove ci siamo persi, e dove finiscono le sue colpe e
cominciano le mie.
Qualche volta l’amore inizia a lasciarsi dietro l’entusiasmo iniziale e a
fare a spallate con la vita vera, quella fatta da giornate stancanti e spesso
tutte uguali. È allora che bisogna essere bravi a conservare la magia,
soprattutto se il mondo attorno sembra dirti che non c’è più.
Non esistono rapporti perfetti, ma solo rapporti imperfetti da tenere
insieme ricucendoli e rattoppandoli se si strappano qua e là, fino a quando
dentro di noi esiste ancora un motivo per non mollare la presa.
Il rapporto tra me e Alessandro non era più così forte come la sua stretta
che sentivo in quel momento attorno ai miei fianchi, e le sue labbra avevano
perso la curiosità di percorrere ogni angolo del mio corpo per scoprire posti
nuovi dove trasformarsi in un bacio in più.
Mi sono resa conto che stavamo facendo l’amore con tutta la testa e tutto
il cuore e ho avuto paura che potesse essere l’ultima volta.
In quel momento ho aperto gli occhi per trovare in quelli di Alessandro
una risposta che però non c’era, e così, alla fine, ho smesso di interrogarmi
e mi sono concentrata solo sulle sensazioni: sono loro che sanno far durare
gli amori.
Ho percepito che Alessandro stava per venire dentro di me dopo tanto
tempo e, non appena ho avvertito il nostro piacere diventare uno solo, gli ho
piantato le unghie nella schiena e mi sono abbandonata completamente. Io e
mio marito non avevamo un orgasmo così da secoli: forse è per questo che
non è uscito subito, ma è rimasto dentro di me per un po’, lui ancora sopra
di me, io ancora con la schiena sul materasso e le gambe attorno alla sua
vita che tremavano appena.
Mi succede sempre quando ho un orgasmo: mi tremano le gambe e mi
cominciano a formicolare leggermente le punte dei piedi.
Ad Alessandro, invece, si arrossano tantissimo le orecchie e io l’ho
sempre preso in giro e lui ha sempre preso in giro me.
Siamo rimasti così per una quantità di tempo che non saprei definire, poi
ci siamo sdraiati a pancia in su con lo sguardo perso sul soffitto, e alla fine
mi sono messa su un fianco, ho piantato un gomito nel materasso per
sorreggermi la testa, e gli ho parlato sottovoce.
«C’è una cosa di noi che non dimenticherò mai, lo sai? Non è la prima
volta che ci siamo visti, e nemmeno la prima volta che ci siamo baciati, e
neanche la prima volta che abbiamo fatto l’amore. Ricordo solo che
stavamo passeggiando e che a un certo punto ti ho guardato e ti ho visto
così diverso e bello che ho sentito uno strappo allo stomaco, come se avessi
riconosciuto qualcuno che cercavo da anni. Una parte di me rimarrà sempre
a quell’attimo lì: quando sono diventata tua, all’improvviso.»
Lui ha sorriso impercettibilmente e io sono rimasta per un attimo a
guardare il suo viso, la luce che filtrava dalla finestra e lo illuminava a
chiazze, e a ritrovarmi a pensare che nonostante tutto Alessandro è ancora
bello come una volta.
Sono rimasta a guardarlo silenziosamente per un po’: il profilo del suo
viso e del suo corpo, i capelli arruffati sul cuscino, le braccia distese lungo i
fianchi.
«Non sai da quanto aspettavo questo…» gli ho detto d’un tratto. La mia
voce era un sussurro, e mentre parlavo ho sentito un macigno salirmi in
gola e ho dovuto stringere i pugni per non scoppiare in lacrime.
È stato come se la fragile magia che ci aveva uniti pochi minuti prima
all’improvviso si fosse sgretolata.
Alessandro ha spostato gli occhi su di me e io non ho spostato gli occhi
da quelli di mio marito.
Avevo bisogno che li sentisse davvero addosso.
Fra tutte le risposte che avrebbe potuto darmi, mi ha dato l’unica che non
mi aspettavo. Una domanda.
«Che cosa ti è mancato di più, in questi anni?»
Non avevamo mai ammesso la nostra crisi a voce alta, l’avevamo sempre
taciuta per paura che potesse essere vera.
Con quella domanda, invece, diventava ufficiale.
Mio marito non mi stava chiedendo se mi fosse mancato qualcosa, lo
sapeva.
Sembravamo due lottatori sfiniti da una battaglia troppo lunga; una
battaglia senza esclusione di colpi, una battaglia in cui entrambi avevamo
silenziosamente cercato di avere ragione sull’altro.
In quel momento, invece, sembrava improvvisamente poco importante
chi aveva ragione.
Ho risposto alla sua domanda con i pugni chiusi stretti sulle lenzuola:
«Mi è mancato sentirmi amata di nascosto, ricevere un caffè a letto solo per
vedermi sorridere, ridere a crepapelle sotto le lenzuola e iniziare a farsi il
solletico e finire a fare l’amore. Mi è mancato essere guardata nella
penombra della stanza mentre mi vestivo al mattino, e sentirmi dire “Sei
bella” con la convinzione di chi ci crede davvero.»
Alessandro ha abbassato lo sguardo e per un attimo ho avuto la
sensazione che anche lui si stesse sforzando di non piangere.
«Ci sono stati giorni in cui mi sono sentita così tanto sola pur avendoti
accanto che mi dicevo che dovevo smetterla.»
Dopo alcuni istanti, è tornato a guardarmi: «Che cosa vuoi dire?».
«Voglio dire che ho sempre dato troppa importanza a te e troppo poca a
me stessa. Ho provato a raccogliere e mettere insieme i nostri sguardi anche
quando mi sembrava che tu continuassi a calpestarli. Per troppo tempo ho
avuto la sensazione di amare per tutti e due, per troppo tempo mi sono
sentita sola in un letto in cui eravamo insieme, aspettando in silenzio che ti
venisse voglia di me come io avevo voglia di noi. Ho sempre lottato per
fare in modo che tu percepissi il mio amore per te uguale identico a quello
che provavo il primo giorno. E non sai quanto sto male quando ho
l’impressione che tu non te ne accorga, anche se continuo a provare a darti
il meglio di me, perché nonostante tutto è questo che meriti, solo che forse
non ti basta più. Quando rientri stanco da lavoro e attraversi il soggiorno
con lo sguardo distratto da qualcosa che non sono io, mi sento minuscola e
vorrei restare in un angolo per paura di disturbare, abbassare le tapparelle e
addormentarmi da sola al buio perché tu sei rimasto sul divano, e svegliarmi
da sola al buio perché tu sei già andato via.»
Mi ero tenuta dentro queste parole per così tanto tempo che alla fine le
avevo srotolate tutte insieme.
«Davvero sei ancora innamorata di me come il primo giorno?» mi ha
domandato lui, dopo un silenzio che mi è sembrato lunghissimo.
Ecco, c’eravamo arrivati anche noi al trovarsi sdraiati nella stessa stanza
e sentirsi vicini e lontanissimi insieme. Adesso potevamo abbassare
finalmente le armi e le maschere.
Io e Alessandro non avevamo mai smesso di dirci “ti amo”, ma nessuno
dei due sapeva davvero quanto quelle parole fossero ancora vere come lo
erano state un tempo.
Non c’era più spazio per girarci attorno.
Non me la sono sentita di dire “no, non ti amo più”, anche perché
probabilmente non era vero.
«Non lo so. Forse ci sono troppi dolori e troppe incomprensioni fra di noi
per dirti che non ti amo più, perché se spoglio il nostro amore da tutto
quello che non va mi sembra ancora di vedere vicino a me l’uomo di cui mi
sono innamorata, ed è come se stessi tutti i giorni ad aspettarlo con il terrore
e la consapevolezza di sapere che quando aspetti qualcuno per tantissimo
tempo, magari poi arriva quando è troppo tardi.»
Alessandro è rimasto in silenzio ad ascoltarmi, poi ha annuito, e io
sapevo che aveva capito.
«E tu, mi ami ancora?» gli ho chiesto.
Avevo davvero paura della sua risposta, perché non ero pronta alla mia
vita senza di lui.
«Non lo so. È che non so più dove siamo arrivati.»
In mezzo al dolore di quel momento, mentre io e Alessandro avevamo
finalmente avuto il coraggio di ammettere che forse non eravamo più felici
insieme, ho provato un pizzico di felicità, perché non riuscivo a ricordare
l’ultima volta in cui ci eravamo parlati così: puri e sinceri come bambini.
D’un tratto, Alessandro ha preso le mie mani fra le sue e le ha sfiorate
come se stesse accarezzando qualcosa di estremamente prezioso, e io,
finalmente, ho smesso di lottare e ho lasciato scorrere una lacrima solitaria
lungo la guancia.
@leparoledimarco
Ti manca credere in qualcosa?
E credere in qualcuno?
Negli ultimi anni
hai tenuto il cuore fra le mani per difenderlo,
e hai trovato il coraggio di andare avanti.
Ti manca la tua felicità?
Continui a dare amore,
ma lo dai anche a te?
Cerchi di essere coerente,
ma lo sei anche con i tuoi desideri?
Essere amata per ciò che non sei
equivale a non essere amata affatto.
Non puoi diventare troppo piccola
per fare in modo di non disturbare.
Non importa se ami da qualche giorno,
oppure da tanti anni,
l’amore non deve fare silenzio,
deve fare rumore.
2
► [Tommaso Paradiso, Non avere paura]

Lorenzo

Ho sempre pensato che ci sono occhi che si riconoscono subito e che poi
si perdono nel tempo e nello spazio, senza però in realtà perdersi mai.
Ci sono sguardi che su di noi avranno sempre lo stesso effetto, anche
quando ci saremo disabituati ad averli addosso, anche quando sarà finito il
tempo dei baci e delle carezze.
Quel momento prima o poi arriva; quello in cui pensiamo di aver
dimenticato i suoi occhi e improvvisamente sentiamo che non conta più
quante volte abbiamo pianto di nascosto proprio a causa loro, o quanto li
abbiamo sentiti nostri, o quanto abbiamo lottato per fare in modo che non
andassero via.
E ci sembrerà impossibile avercela infine fatta, e ci sentiremo spensierati
e belli, quando per la prima volta avremo la sensazione di aver scordato
quello sguardo, ma soprattutto l’effetto che aveva sempre avuto su di noi.
Poi, però, succede di uscire di casa e di ritrovarselo davanti mentre
passeggiamo, o mentre sorseggiamo qualcosa seduti al bar, o mentre
balliamo in un locale pieno zeppo di altri occhi improvvisamente poco
importanti.
E così arriva la sensazione che, in fondo, la vita si è fermata là: al
momento in cui, tanti anni prima, li avevamo visti la prima volta e ci era
sparita la voglia di guardarne altri, e ci accorgiamo che in realtà non siamo
mai riusciti ad allontanarci da quell’istante.
Mi sono innamorato per la prima volta l’estate scorsa, a diciassette anni,
e gli occhi non c’entravano proprio niente, perché ero rimasto incastrato in
uno sguardo che non avevo mai visto e dal quale non sono riuscito ad
andare via lo stesso.
Quella sera rientrai in camera mia dopo cena. Mamma era andata a
dormire, papà era accasciato sul divano e ci sarebbe rimasto quasi tutta la
notte.
Presi la mia chitarra, andai sul balcone, mi sedetti per terra e cominciai a
suonare.
Trento è una città che va a letto presto, e io non avevo molti amici.
Così tutte le sere si ripeteva la stessa scena: finivo di cenare, tornavo
nella mia stanza, afferravo la chitarra, mi sedevo lì.
Quella notte, però, mentre suonavo Non avere paura di Tommaso
Paradiso con la brezza nei capelli e l’odore di cibo ancora nell’aria, d’un
tratto sentii una voce di ragazza provenire dal balcone del piano di sopra,
una voce che iniziò a canticchiare, insieme a me.
Prima piano, poi un pochino più forte.
Dopo aver suonato l’ultima nota lasciai cadere le braccia sulla chitarra, e
rimasi così per un po’, con le orecchie tese per capire se sul balcone di
sopra ci fosse ancora qualcuno oppure no, lo sguardo fisso oltre la
ringhiera.
Poi, d’un tratto sussurrai: «Ciao».
La voce mi rispose quasi subito: «Ciao».
Stavo per ribattere, ma mi anticipò. «Non suoni più?»
Sorrisi appena: «Magari fra un po’».
Solo silenzio.
«Chi sei?» chiesi.
«La ragazza del piano di sopra» rispose soltanto.
Sorrisi.
«Sei bravo, lo sai?»
Cercai un modo per evitare quel complimento.
«Mi ascolti spesso?» domandai allora.
«Sempre…»
«Sempre?»
«Sì, sei diventato un appuntamento fisso. C’è un qualcosa di
estremamente perfetto nel sedermi qui per terra sul balcone la sera, fumare
una sigaretta, chiudere gli occhi e sentire il ragazzo del piano di sotto
suonare la chitarra.»
«Stai fumando, ora?» le chiesi.
«Sì, e tu?»
Sfilai una sigaretta dal pacchetto che tenevo sempre appoggiato di fianco
a me quando suonavo, l’accesi e tirai una boccata di fumo.
Poi mi appoggiai con la schiena al muro di casa.
«Sì. Ho iniziato a farlo qui. Se i miei mi scoprono è la fine. Quindi mi
chiudo sempre a chiave nella mia stanza. Durante il giorno nascondo le
sigarette nell’armadio, in uno zaino sepolto sotto un mucchio di coperte che
non usa nessuno.»
La voce non commentò. «Questo è il momento della giornata che
preferisco, lo sai?» mi disse, invece.
Aveva un modo di parlare dolce ma deciso. Pronunciava le parole
velocemente, come se avesse fretta di finirle il prima possibile.
Avrei voluto dirle che ero d’accordo con lei, ma non lo feci.
«Come ti chiami?» le domandai.
«È davvero importante?»
Ci pensai un attimo: «Forse no…».
Fui certo di sentirla sorridere.
«Però, puoi dirmi quanti anni hai…» insistetti.
Ci fu un altro momento di silenzio.
Ne approfittai per fare un tiro di sigaretta.
La voce mi rispose mentre sentivo il fumo entrare nei polmoni.
«Diciassette, e tu?»
«Anche io» risposi.
«Mi stai prendendo in giro.»
«Non sei una che si fida molto delle persone…»
Ebbi l’impressione che ci stesse pensando un attimo. «No, credo di no.»
Arricciai le labbra.
«I tuoi, invece, lo sanno che fumi?» chiesi.
«In realtà non lo so. Credo che mia madre mi abbia beccato il pacchetto
nello zaino della scuola, qualche mese fa…»
«E non ti ha detto niente?» alzai un sopracciglio.
«In effetti no, ma non sono sicura. L’ho pensato perché l’ho trovato fuori
dalla tasca in cui lo metto di solito. Magari però è uscito mentre correvo per
tornare a casa.»
«Quando hai cominciato?»
«A fumare dici?»
«Sì.»
«Una sera, con la mia migliore amica. Stavamo fuori con dei ragazzi più
grandi di noi. E tu?»
«Una sera mentre suonavo, qui…»
Per qualche minuto dal balcone del piano di sopra non arrivò altro che
silenzio.
Terminai la sigaretta e la spensi per terra.
«Ehi…» sussurrò la voce, dopo un po’.
«Sì?» risposi.
«Suonare ti aiuta a cercarti?»
Non risposi subito.
«Non lo so» dissi, poi aggiunsi: «Sicuramente mi aiuta a capirmi. Tu ti
capisci?».
«No, io mi sto ancora cercando.»
Accesi un’altra sigaretta.
Quando diventavo introspettivo ne fumavo una dietro l’altra.
«Sai dove andare a guardare per trovarti?» le chiesi.
«Non ne sono sicura. Devo essere rimasta incastrata da qualche parte.»
«In un posto o in una persona?»
«Probabilmente in entrambi. E tu, sei mai rimasto incastrato da qualche
parte?»
«In così tanti posti che non so più dove.»
Altro silenzio.
«Devo andare…» disse la voce, dopo un po’.
Una parte di me avrebbe voluto chiederle di restare.
«Allora buonanotte» le risposi, invece.
«Buonanotte.»
La sentii alzarsi e chiudersi l’anta del balcone alle spalle.
Poco dopo, rientrai anche io.
Quella notte, però, faticai più del solito a prendere sonno, e il giorno
seguente mi appostai sotto casa per guardare tutte le persone che entravano
e uscivano dalla palazzina, nella speranza di incontrare gli occhi di una
ragazza che potesse avere diciassette anni.
Non funzionò.
Dopo cena, chiusi a chiave la porta della stanza, presi la chitarra, mi
sedetti sul balcone.
«Ciao. Ti aspettavo…» sussurrò subito la voce.
Sorrisi, il cuore che accelerava un po’: «Ciao».
«Hai voglia di suonare qualcosa per me?»
Non le risposi, mi appoggiai con la schiena al muro e cantai una delle
canzoni che amavo di più: Photograph di Ed Sheeran.
La voce, questa volta, rimase solo ad ascoltarmi.
«È incredibile come la musica cambia tutto» disse infine, quando avevo
già appoggiato la chitarra a terra e stavamo fumando una sigaretta insieme.
«Quella che hai cantato ieri è una delle mie canzoni preferite, sai?» aveva
aggiunto, poi.
«Non avere paura?»
«Sì, esatto.»
Avrei voluto chiederle di cosa avesse paura lei, invece mi limitai a
chiederle: «Vivi qui da molto?».
«A Trento, o in questa palazzina?»
«Tutti e due…»
«A Trento da sempre, in questa palazzina solamente da qualche
settimana. Tu invece?»
Cercai di restare vago. «Da un po’…»
«Un po’ quanto?» insistette lei. «Non hai l’accento di qui. A dire la
verità, non riesco nemmeno a capire se ne hai uno.»
Sorrisi. «Sei molto curiosa…»
«È un peccato?»
«No. Solo che non ci sono abituato…»
Ebbi la sensazione che fosse sul punto di chiedermi che cosa volessi dire,
ma non lo fece.
Nel frattempo, finii di fumare la sigaretta e ne accesi un’altra. Dallo
scatto dell’accendino capii che lei aveva fatto lo stesso.
Poi, d’un tratto, le domandai: «Perché non ci vediamo?».
«Quando?» sussurrò la voce.
Alzai le spalle. «Non lo so, un giorno di questi…»
«È una proposta interessante» disse la voce. «Posso fartene una io,
però?»
«Certo…»
«Vediamoci, ma non subito. Fra un mese…»
«Fra un mese?»
«Sì. È così bello questo. Perché rovinare tutto?»
«Questo?»
«Già. Sentire solo la tua voce e la tua musica crea un’intimità diversa fra
di noi, senza filtri. Ecco perché, anche se qualche volta mentre ti ascolto mi
viene voglia di sporgermi da qui e guardare giù per scoprire chi sei, non
l’ho mai fatto.»
Pensai che avesse proprio ragione.
«Magari capiterà di incrociarci qui sotto, però, o sulle scale…» le feci
notare.
«Sì, magari sì…» rispose. «Ma non potremo mai avere la certezza di
essere noi, perché non sappiamo come siamo fatti. Continueremo a vivere
di una fantasia. Io non avevo mai fantasticato in questo modo. E tu?»
«Nemmeno io. Come mi immagini?»
«Ti immagino come uno che ha lo sguardo sempre rivolto altrove. E tu,
invece?»
«Come una a cui piace andare al mare d’inverno.»
La sentii ridere.
«Quindi?» mi chiese dopo un po’.
«Che cosa?»
«Fra un mese a partire da adesso?»
Guardai la data sul cellulare.
Era il 4 luglio.
«Fra un mese a partire da adesso.»

Ci incontrammo su quel balcone tutte le sere per un mese, sempre alla


stessa ora.
Non saprei dire a quale grado d’intimità riuscimmo a portare il nostro
rapporto, perché a volte avevo l’impressione di conoscerla, altre di non
conoscerla affatto.
Scoprii che aveva una sorella di quattordici anni più grande di lei, che il
suo colore preferito era il lilla e che sua madre era gelosissima.
Non mi disse mai quale scuola frequentava.
Scoprii che amava i cavalli e che diceva a tutti di amare la musica hard
rock, ma in realtà nel buio della sua cameretta ascoltava Ultimo e Calcutta.
Non mi disse mai perché fosse venuta a vivere in quel palazzo, non mi
parlò mai dei suoi desideri, non le chiesi se fosse abituata a fare qualcosa
per realizzarli.
Le ultime sere fra di noi, quelle prima del nostro appuntamento, furono
piene di piccoli momenti di tensione e imbarazzo, momenti che fino ad
allora non c’erano mai stati.
Io, inconsciamente, smisi di essere davvero sempre lì con la testa, perché
ero già proiettato in avanti, a quando finalmente avrei scoperto che cosa
avremmo potuto essere.
Una sera, però, all’improvviso, sul balcone del piano di sopra calò il
silenzio.
3
Quando impari a bastarti poi è sempre più difficile far
posto a qualcuno

Elisabetta

Quando diciannove anni fa ho conosciuto Alessandro conservavo ancora


nello sguardo il dolore per un amore che non aveva mantenuto la sua
promessa e avevo dimenticato la magia di quando un uomo ti dice “puoi
fidarti di me”, e tu senti che puoi fidarti davvero.
Avevo passato così tanto tempo a lottare per difendermi dalle cose belle
che mi ero abituata a vivere senza scossoni al cuore, murato com’era dietro
la mania di avere sempre tutto sotto controllo per non sbagliare.
Ho riconosciuto in Alessandro l’uomo con cui lasciarmi andare proprio
per questo: perché ha sempre avuto il potere di rendermi irrazionale
nonostante tutto.
Perché con lui è sempre stato così: mi dicevo di non sbagliare e invece
poi sbagliavo, solo perché mi rendeva incredibilmente felice.

Alessandro entrò nella mia vita quando mancavano ventitré minuti a


mezzanotte. Avevo venticinque anni, Roma era sepolta sotto un acquazzone
che faceva tremare le finestre e io ero sdraiata nel mio letto con addosso
una maglietta tre volte più grande di me, impegnata a perdermi fra le pagine
di un libro che avevo trovato per caso in un cassetto.
Sentivo la voce della mia coinquilina, Patrizia, che attraversava il muro
tra le nostre stanze.
Vivevamo insieme da alcuni anni.
Lei e il suo ragazzo stavano ore al telefono e, qualche volta, dovevo dare
un pugno sul muro per farli smettere, perché non riuscivo a prendere sonno.
Non volevo frequentare l’università continuando a vivere con i miei, così
avevo trovato lavoro come cameriera in una pasticceria in centro, e riuscivo
a pagarmi l’affitto.
D’un tratto mi arrivò un SMS.
“Vorrei tanto che tu fossi tu.”
Il messaggio proveniva da un numero che non avevo in rubrica.
Corrugai la fronte e rimasi un attimo con le dita a mezz’aria.
Poi risposi: “So che sembra assurdo, però posso giurare che io sono io”.
Non ebbi il tempo di appoggiare il telefono sul letto che squillò di nuovo.
“Ti sei divertita alla festa?”
Alzai un sopracciglio.
Erano almeno due mesi che vivevo sepolta sotto un mucchio di libri per
preparare la sessione di esami estivi, e almeno tre che non andavo a una
festa.
Ci pensai un attimo, poi scrissi: “Forse prima ho detto una cavolata? Mi
sa che io non sono io”.
Appoggiai il cellulare sulle gambe e ripresi la lettura.
Mi stavo quasi dimenticando di quello strano messaggio quando il
cellulare squillò di nuovo.
“Quindi non sei Anna?”
Sorrisi, poi digitai velocemente sul tastierino del mio Nokia 3310: “No,
sono Elisabetta…”.
Appoggiai il cellulare, poi lo ripresi in mano, colta da un dubbio: “Scusa,
ma come hai avuto questo numero?”.
Rimasi a fissare lo schermo, curiosa.
Poco dopo un altro messaggio. “Anna, alla festa, mi ha lasciato il suo su
un bigliettino, ma mentre tornavo a casa ha iniziato a piovere a dirotto e,
anche se lo tenevo in tasca, ora non si legge quasi più niente. Ho cercato di
decifrarlo, ma mi sa che è irrecuperabile…”
“Mi dispiace…” digitai, sincera.
“Sì, anche a me. Tra l’altro mi ha detto che vive in un’altra città. Era
venuta solo a trovare delle amiche. Chi la ribecca più…”
Poco dopo un altro squillo.
“Comunque, piacere, io sono Alessandro.”
“Elisabetta. Spero che riuscirai a trovarla, Anna. Se ti ha lasciato il
numero su un bigliettino vuol dire che ci teneva. Io nel frattempo torno a
leggere, devo assolutamente scoprire come va a finire questo libro.”
Ritenni chiusa la conversazione, inserii la modalità silenziosa, misi il
cellulare in carica sul comodino, mi tuffai di nuovo nel romanzo.
Qualche pagina più tardi un colpo di scena mi fece arrabbiare, così chiusi
il libro e spensi la luce.
Proprio in quel momento il mio sguardo fu catturato dallo schermo del
cellulare, che si illuminò all’improvviso.
Era un nuovo messaggio di Alessandro.
“Tu ci credi nel destino?”
Alzai un sopracciglio e tolsi la modalità silenziosa.
Il pensiero che un ragazzo avesse chiesto un numero a una ragazza, lei lo
avesse scritto su un bigliettino, il bigliettino si fosse inzuppato d’acqua e
alla fine di tutto questo fosse arrivato un messaggio a me faceva sorridere.
“Veramente no” gli scrissi tuttavia.
Lui mi rispose: “Allora non sei una ragazza romantica”.
“Non ho mai detto di esserlo” digitai io.
La risposta a quel messaggio si fece attendere più del solito, come se
Alessandro stesse studiando le parole giuste.
Alla fine mi chiese solo: “Lo sei?”.
“No” mi limitai a rispondere.
In realtà, però, avrei voluto scrivere: “Sì, ma mi avete deluso così tante
volte che mi sono dimenticata di come si fa. Ho imparato a difendermi da
chi mi ama, visto che sono sempre stata tradita da chi mi aveva detto che
non l’avrebbe mai fatto. E adesso sono terrorizzata, perché fa paura vedere
come le cose possono finire lentamente, senza che tu te ne accorga. Uno
sguardo, un’amicizia, un amore. Pensi di essere finalmente arrivata al
sorriso che meriti e poi una mattina ti svegli e scopri che tutto quello in cui
credevi non esiste più. Il problema è che quando impari a bastarti poi è
sempre più difficile far posto a qualcuno nel piccolo mondo che ti sei
costruita. Io non voglio cene fuori, fiori o regali. Mi basterebbe un ‘ci sono’
detto al momento giusto. E che poi sia vero”.
Avrei voluto scrivergli questo, e anche molto altro, fino a consumare i
tasti del cellulare.
Invece mi limitai a un semplice “no”, solo perché non avevo voglia di
dare spiegazioni.
Alessandro a quel “no” rispose così: “Ho una proposta. Accetti?”.
Quelle sue risposte che sembravano insensate cominciavano a
incuriosirmi.
“Dipende dalla proposta” digitai.
“No, devi accettare a scatola chiusa…”
Alzai un sopracciglio: “E se poi la proposta non mi piace?”.
“Devi rischiare.”
Rimasi per un po’ con le dita a mezz’aria.
“Non mi piace rischiare” scrissi infine.
“Ah…” scrisse lui.
“…” scrissi io.
“Quindi, accetti?” scrisse di nuovo lui.
A quel punto scossi appena la testa e rimasi con lo sguardo fisso sullo
schermo.
Alessandro aveva proprio la tendenza a non considerare le mie parole.
Forse, però, in quel momento della mia vita, era l’unica cosa di cui avevo
bisogno, pur non sapendolo. Di certo non poteva saperlo lui.
“Okay. Accetto” scrissi, alla fine.
La risposta a quel messaggio non arrivò subito, così mi alzai, scivolai in
cucina, riempii un bicchiere di latte e lo bevvi mangiucchiando dei biscotti,
seduta a gambe incrociate sul divano.
Poi il cellulare squillò. “La proposta è questa. Devi pensare a qualcosa
che ti rappresenta, qualsiasi cosa: un braccialetto, un orecchino, un
souvenir, una fotografia, un angolo di casa tua, qualsiasi cosa. Lo faccio
anche io. Poi tu mi dici a cosa hai pensato e mi spieghi il perché, e io ti dico
a cosa ho pensato e ti spiego il perché.”
“Tutto qui?” gli chiesi.
“No” rispose lui. “Se trovo un motivo in quello che mi dici, e tu un
motivo in quello che ti dico, domani ci sentiamo ancora. Altrimenti questa
rimarrà solo una conversazione fra uno che ha sbagliato numero e una che
stava leggendo un libro.”
Non avevo mai fatto una cosa così, ed era troppo tempo che non facevo
qualcosa per la prima volta.
“Va bene, chi comincia?” scrissi allora.
“Comincia tu…”
Ci pensai un momento.
“Sono molto affezionata a una vecchia scatola delle scarpe che negli anni
ho trasformato in un portaoggetti. Ci tengo dentro tantissime cianfrusaglie e
ricordi che non voglio buttare via: biglietti di treni, scontrini delle vacanze,
lettere che scrivevo quando ero bambina, souvenir comprati al mare,
fotografie ingiallite. Vivo fuori per l’università, e mi sono portata via solo
lo stretto necessario o poco più, ma quella scatola non sono proprio riuscita
a lasciarla a casa. E sono felice di averla qui con me. Così quando mi capita
di avere una giornata no o comunque di essere giù di morale la apro e mi ci
perdo per un po’.”
Inviai quel messaggio con un leggero imbarazzo.
“Adesso tocca a te” gli scrissi poco dopo, senza aspettare che
rispondesse.
Ci mise qualche minuto a farlo.
“Io sono molto legato a un biglietto dell’autobus che mi ha regalato una
ragazza alcuni anni fa. Lavoravo in una delle biblioteche universitarie della
mia città quando all’improvviso mi si è avvicinata lei, mi ha lasciato quel
biglietto e un foglio strappato sul quale mi aveva scritto: ‘Ti vedo sempre
prendere l’8, io invece prendo sempre il 14. Hai voglia di prendere il mio,
un giorno di questi?’. Ecco, quell’autobus non sono mai andato a prenderlo
perché quella ragazza non mi piaceva proprio, ma l’ho trovata una
bellissima idea, e questo modo diverso di conoscere qualcuno mi
rappresenta molto. Ho custodito quel biglietto in un vecchio quaderno del
liceo.”
Non avevo ancora terminato di leggere il messaggio che il cellulare
squillò di nuovo: “Okay, allora siamo arrivati al momento dei saluti.
Scusami, ti ho tenuta sveglia fino a tardi…”.
Aveva perfettamente ragione. “Questo sarebbe già un ottimo motivo per
non sentirti più” gli scrissi.
Era tantissimo tempo che non avevo voglia di fare tardi con qualcuno.
Immaginai Alessandro sorridere appena.
Bevvi l’ultimo sorso di latte e scivolai di nuovo in camera da letto.
Mentre mi infilavo sotto le lenzuola, mi arrivò un altro messaggio.
“Allora buonanotte. Non so se dirti Ciao, oppure addio.”
Spensi la luce e risposi velocemente: “Chissà”.

Quando credi in qualcosa e a un certo punto scopri che ci credevi soltanto


tu, all’improvviso ti si rompe dentro un pezzo e pensi di non riuscire più ad
aggiustarlo.
Gli uomini raccontano un sacco di bugie solo per evitare di dire una
verità che fa male, ma non hanno capito che quando poi quella verità salta
fuori, perché salta sempre fuori, fa male il doppio.
Non avevo perso la speranza nell’amore quando ero stata lasciata, ma
quando mi avevano fatto sentire sbagliata, anche se quello sbagliato era lui.
Alla fine di una storia, la cosa più difficile non è superare la delusione
per un amore finito, ma quella per le bugie che ti sono state raccontate per
farlo sembrare speciale ai tuoi occhi.
Non mi aveva uccisa sapere che non mi voleva più. Mi aveva uccisa
sapere che anche lui era come tutti gli altri.
Per un po’, mi ero addirittura sentita in colpa per i suoi tradimenti, perché
credevo di non essere stata abbastanza per lui.
Mi ero chiesta se il mio modo di abbracciare facesse venire voglia di
scappare, avevo provato a gestire la mia gelosia anche se spesso non ce
l’avevo fatta, mi ero promessa di non fare più errori e poi invece li avevo
fatti.
A un certo punto mi ero stretta così forte che mi ero quasi fatta male, e
avevo cominciato a dubitare di tutto, perfino che esistesse l’amore vero.
Così, quando mi arrivò quel “Vorrei tanto che tu fossi tu” di Alessandro,
era da un po’ che mi facevo delle domande.
Mi domandavo se davvero ne valesse la pena di lasciare andare le funi
con cui mi tenevo legata alla riva per fare qualche bracciata in mare, o se
fosse meglio restare al sicuro. Mi domandavo se mi sarebbe più successo di
riuscire a fidarmi ancora di uno sguardo senza cercare di trovarci dentro un
motivo per lasciarlo andare, mi domandavo se alcuni dolori ti restano
dentro per sempre oppure se un giorno, all’improvviso, capita che non li
senti più.
Trascorsi il giorno seguente a quella strana conversazione tappata in
biblioteca con la testa china sul manuale di letteratura italiana
contemporanea.
Rientrai a casa la sera tardi, stanca come non mai, e mi accasciai sul
divano.
Il suono del cellulare mi fece sobbalzare.
“Hai trovato un motivo?” diceva il messaggio.
Avvertii il cuore accelerare appena e mi spaventai un po’.
“Sì, e tu?”
“Sì, anche io.”
“Quale?” gli chiesi.
“Prima il tuo.”
“No, prima il tuo” insistetti.
La risposta si fece attendere qualche minuto.
“Hai detto di non essere romantica, ma poi tieni i tuoi ricordi dentro una
scatola delle scarpe.”
Non attese la mia risposta e mi chiese subito dopo: “Il motivo che hai
trovato tu, invece, qual è?”.
Non ebbi nessun dubbio.
“L’appuntamento al quale non ti sei mai presentato nonostante ti piaccia
l’idea di conoscere le persone in modo diverso.”
Avrei tanto voluto vedere l’espressione sul suo viso.
“Come questo?” mi rispose dopo un po’.
Ripensai un attimo a quel messaggio arrivato per sbaglio, alla mia scatola
delle scarpe e al suo biglietto dell’autobus.
Alla fine digitai: “Sì, come questo”.
A quel messaggio seguì un lungo silenzio, tanto che per un secondo
pensai che Alessandro non si sarebbe più fatto vivo.
Invece, il mio cellulare squillò un’altra volta.
“In che modo ti piacerebbe conoscere qualcuno? Voglio dire, se potessi
scegliere un’occasione, quale sarebbe?”
Anche su questo non ebbi esitazioni: “Ho sempre avuto il desiderio di
conoscere qualcuno alla fermata della metro, non so perché”.
“Davvero?” mi domandò lui.
“Sì.”
“Di dove sei?”
“Di Roma.”
“Allora ci vediamo fra undici giorni a Roma, alla fermata della metro
Spagna, alle ore 16. Da adesso fino a quel momento, però, non ci sentiamo
più. Ci stai?”
Lessi quelle parole con lo stomaco chiuso e, per un momento, sentendo
quel brivido dentro che non sentivo da troppo tempo, ebbi la tentazione di
cancellare il suo numero per sempre.
Era davvero una proposta surreale, così come lo era tutta quella
situazione, ma forse era proprio questo che m’incuriosiva tanto.
Alla fine risposi la prima cosa che mi venne in mente. “Verso quale
direzione?”
Aspettai il messaggio di Alessandro, gli occhi incollati allo schermo.
“Direzione Battistini” rispose.
Mi alzai in piedi e iniziai a passeggiare nervosamente. Poi mi risedetti.
“Va bene. Fra undici giorni alla fermata Spagna, ore 16, direzione
Battistini.”
@leparoledimarco
Meriti qualcuno che apprezzi
il tuo essere un po’ scontrosa
e un po’ bambina,
a volte silenziosa,
a volte piena di parole,
a volte incoerente
a volte capricciosa.
Meriti qualcuno che finalmente
sappia guardare dietro a quello che c’è
e innamorarsi dei tuoi sbagli,
delle tue paure
degli errori che ti porti dentro.
4
► [Gazzelle, Tutta la vita]

Lorenzo

Oggi è trascorso un anno dal momento in cui la voce della ragazza del
balcone di sopra non fa più parte della mia vita, e adesso come allora sono
un ragazzo fatto di tanti silenzi e poche parole, di dolori che mi porto sulla
pelle come ferite e che cerco di scrollarmi di dosso senza riuscirci, di
momenti e persone che vorrei dimenticare ma non ce la faccio, perché sono
bravo a fare tante cose, ma a dimenticare proprio no.
Sono fatto del caos che mi porto dentro, delle parole che non dico, di
sguardi che vorrei ricambiare ma che tengo per me, di abbracci che troppo
spesso ho rifiutato, delle carezze che ho trattenuto, di quelle che ho dato e
di quelle che non darò mai.
Sono fatto di voglia di prendermi le occasioni che penso di meritare, ma
troppo spesso anche del timore di non meritarle. Sono fatto del bisogno, a
volte insopportabile, di tenermi qualcuno vicino e nello stesso tempo del
talento di allontanare chi vorrei accanto.
Chi ci pensa alle persone rotte, a quelle che hanno provato così tanto
dolore che adesso fanno fatica a ricordarsi com’è vivere senza quel mucchio
di malinconie alle quali ormai si sono abituate? Chi ci pensa a quelle
persone che prima di uscire di casa si spogliano del vestito delle lacrime per
indossare quello dei sorrisi, a quelle che un cuore ce l’hanno ancora, solo
così malandato che non riescono più a usarlo nel modo giusto? E a quelle
che convivono con la paura di vivere le cose belle perché sono convinte che
tanto poi finiscono?
Chi ci pensa a chi si è disabituato ad amare il mare, a chi ogni giorno
lotta contro i suoi mostri e contro il timore di non essere abbastanza, a chi è
cresciuto restandosene in un angolo a guardare gli altri per paura di
disturbare? E a quelli che sentono di avere il cuore fuori moda e che hanno
sempre tenuto ben nascosto ciò che sono per il terrore di non essere
accettati?
Quando ho conosciuto la ragazza del balcone, mi ero trasferito a Trento
da qualche anno, insieme alla mia chitarra, alla mia voglia di essere in un
altro posto e a una famiglia distrutta, anche se all’apparenza non lo era
ancora.
Ho trascorso una vita a inscatolare vestiti e ricordi, e a ingoiare lacrime
che non sono mai riuscito a versare.
È sempre stato un viavai da una città all’altra, da una scuola a un’altra
scuola, da amici ad altri amici.
Il tempo di trovarne qualcuno, di aprirmi un po’, ed era già ora di andare
via. Il film era sempre lo stesso: abbracci che erano saluti, promesse di
rivedersi mai mantenute, un altro trasloco e un’altra vita a cui mi ero
affezionato da lasciare indietro.
Oggi, a un anno da quelle chiacchierate con la ragazza del piano di sopra,
a diciotto anni, non so nemmeno quante mani ho smesso di stringere e a
quanti amori mai nati ho rinunciato.
Sono sempre quello diverso, che parla poco e passa la ricreazione da
solo.
Che poi, la vita è un po’ così, no? È fatta di arrivi, partenze, magoni,
nostalgie, sprazzi di felicità improvvisa, cadute, botte, ferite, coraggio di
rialzarsi, sorrisi veri, sorrisi finti, va tutto bene, pugni chiusi, corse per
andare a riprenderci quello che amiamo, pianti silenziosi per non esserci
riusciti, desideri che marciscono, sogni nuovi, abbracci, carezze, amicizie
che diventano porti sicuri, occhi dove stare bene, taciti addii che dentro
fanno un rumore incredibile.
Per ogni città in cui ho vissuto mi porto dietro tutto questo, e convivo con
l’assenza di quegli amici che pensavo avrei avuto accanto per sempre e che
adesso invece non ci sono più.
Ho avuto pochi punti di riferimento, la mia famiglia, le attenzioni di mia
madre che ha sempre cercato di non farmi mancare nulla, quelle di mio
padre, che nonostante un lavoro causa di tanti dolori ha tirato su tutta la
famiglia, mio fratello Niccolò, più grande di me di cinque anni, che mi ha
sempre fatto sentire parte di qualcosa.
Ci sono persone che quando le hai accanto va tutto bene anche se non va
bene niente, e così è stato per me Niccolò: mi ha insegnato che la vita di
ognuno di noi è fatta di un paio d’attimi che cambiano tutto, e che possono
essere arrivi, oppure partenze, perché siamo fatti da chi c’è, ma soprattutto
da chi non c’è.
Il mio attimo, quello che ha spazzato via le poche cose a cui ho sempre
potuto aggrapparmi e i sorrisi che mi hanno fatto sentire al sicuro, è stato
alle 3.14 minuti di una domenica notte di quattro anni fa.
Io dormivo in camera da letto, Trento era illuminata da una luna argentea
quasi piena, e ho sentito mamma urlare dalla sua stanza, il clic
dell’interruttore in corridoio, i passi pesanti e frenetici di papà, la porta
della mia camera spalancarsi, mamma che piangeva a dirotto, le parole
sussurrate fra i singhiozzi.
«Lorenzo, alzati, Niccolò ha fatto un incidente.»
Quello che è venuto dopo è ancora tutto confuso nella mia testa: la corsa
in ospedale, i medici che ci vengono incontro preoccupati, ore e ore seduti
di fronte alla porta bianca del codice rosso ad aspettare con il volto fra le
mani, il dottore dagli occhiali rotondi che ci dice, con le lacrime agli occhi,
che Niccolò non c’è più.
I suoi sogni si erano schiantati contro un camion e la colpa era solo sua.
Niccolò quella sera guidava ubriaco.
Aveva la patente da poco e aveva promesso che avrebbe fatto attenzione,
ma quella bugia gli è costata la vita e io non gliel’ho mai perdonata.
Se la colpa fosse stata dell’autista del camion, forse sarei riuscito ad
accettare tutto più facilmente. Invece sono stato costretto a convivere con
l’assenza di mio fratello e con la rabbia per quello che ha fatto.
Non avrebbe dovuto mettersi in pericolo.
Sapeva che avevamo bisogno di lui, che io avevo bisogno di lui.
Mi sono rifiutato di andare al suo funerale: non solo non avrei retto a
tanto dolore, ma c’era anche una piccolissima parte di me convinta che non
se lo meritasse.
Alle 3.14 di quella notte si è distrutta la nostra famiglia: Niccolò è
diventato l’assenza che mi porto dentro come un vuoto allo stomaco,
mamma non è mai riuscita a superarla, si è lasciata andare, ha avuto crisi di
panico tutte le notti per i mesi successivi, oggi vive di antidepressivi, papà
ha cominciato a frequentare un’altra donna di nascosto, che è anche il
motivo per cui abbiamo messo radici a Trento.
L’assenza di Niccolò si è intrufolata nella nostra famiglia come un cancro
silenzioso, e anche se ormai abbiamo quasi smesso di parlarne, le tracce di
quello che è successo sono dappertutto: nello sguardo spento di mamma,
che ormai non esce mai di casa e rimane a letto tutto il giorno, nelle bugie
di papà, in una casa che non è più curata come una volta, nella mia stanza,
che ha sempre avuto due letti e adesso invece ne ha uno solo.
In realtà non ce l’ho con nessuno, né con mamma perché le è mancato il
coraggio di andare avanti, né con papà perché a un certo punto ha smesso di
lottare per lei e ha trovato una via di fuga.
Ce l’ho più con me stesso e con la mia incapacità di scrollarmi di dosso
quello che mi succede. Ci sono persone che riescono a superare gli addii
scrollandoseli di dosso e continuando la loro vita esattamente come prima.
Io invece non sono così, resto arenato un po’ in tutto, anche se non
vorrei.
Da quando Niccolò non c’è più, l’atmosfera in casa è diventata
insopportabile. Io passo tantissimo tempo fuori, perché quello non è più il
posto in cui tornare per smettere di stare male, ma il posto da cui scappare
per stare meglio.
Non riesco proprio a sopportare lo sguardo spento di mia madre e
l’ipocrisia di mio padre, che cerca sempre di dimostrare che va tutto bene
anche quando non è così.
Ho scoperto i suoi tradimenti una notte di qualche mese fa.
Mentre dormiva mi sono intrufolato in camera dei miei e gli ho
controllato il cellulare perché sospettavo qualcosa. Ho trovato di tutto, ma
non ho detto niente e sono tornato nella mia stanza, mi sono nascosto sotto
le coperte e ho pianto ininterrottamente per ore.
Ho pianto per le vite che ho lasciato indietro e che a volte mi mancano
terribilmente, per Niccolò e perché vorrei proprio scrollarmi di dosso il
rancore e riuscire a perdonarlo, perché papà aveva deciso di andare via,
perché mamma, troppo concentrata sul suo dolore, non avrebbe mai saputo
niente del suo mondo fuori da lì.
Mi sono sentito solo, in quel momento, e ho avuto paura, perché mi
sentivo già pieno di così tante cose di cui liberarmi che qualche volta mi
sembrava di scoppiare.
È bastata la voce di una ragazza che non conosco, qualche canzone
canticchiata da un balcone all’altro, delle sigarette fumate insieme, per
ritrovare un po’ di entusiasmo.
Dal giorno in cui ho imparato a fare a meno della voce di mio fratello
fino al giorno in cui ho imparato che le parole che cerchi qualche volta
vengono da qualcuno che non conosci, avevo smesso di fidarmi della voce
altrui.
Poi, però, ho sentito la sua, e così ho trascorso l’ultimo anno della mia
vita a rincorrere la voce di una ragazza che non ho mai visto e di cui non so
nulla, solo perché è stata l’unica emozione che non ho saputo spiegarmi, e
soprattutto l’unica per cui ho davvero avuto la sensazione che ne valesse la
pena.
Sento sempre parlare degli amori vissuti, ma credo che a volte l’amore
più vero si intrufoli in quelli mai nati, che si sfiorano per un attimo e che
poi si rincorrono per anni.
Non credo negli amori immediati, credo negli amori che si aspettano, che
continuano a cercarsi senza sapere se si incontreranno mai. Credo negli
amori che avrebbero potuto essere e che magari saranno, quelli che ti
restano dentro come un formicolio al centro del petto. Un formicolio che sta
lì, tutti i giorni, a ricordare che forse l’amore che cerchi è quello che deve
ancora arrivare.
Non credo negli amori che si dicono “ti amo” subito, credo negli amori
che forse un “ti amo” non se lo diranno mai.
5
Le anime affini non si cercano, si trovano

Elisabetta

Ci sono persone che potrebbero essere tutto per noi, se solo le


incontrassimo quando siamo pronti a donare loro il cuore.
Negli ultimi anni avevo detto così tanti “Mi dispiace, non è il momento
giusto” che avevo perso il conto delle occasioni mancate, e in quegli undici
giorni che separarono l’ultimo messaggio di Alessandro dal nostro
appuntamento fui più volte sul punto di dirlo anche a lui.
Per la prima volta, però, mi sforzai di trovare un motivo per non buttare
alle ortiche quella nuova opportunità.
E così un giorno io e Alessandro ci ritrovammo lì, uno di fronte all’altra,
con la consapevolezza che le nostre vite non avrebbero mai più potuto
soltanto sfiorarsi.
Quando incontrai gli occhi di mio marito per la prima volta, ferma su
quella banchina, dentro la mia gonna nera e la mia maglietta attillata, ebbi
una piccola vertigine.
Io stavo immobile con le braccia lungo i fianchi e battevo leggermente il
piede per terra, lui invece era un po’ più in là, nascosto da una folla di
persone che sembrava lì solo per impedire ai nostri sguardi di riconoscersi.
Fu un attimo: il rumore assordante della metropolitana, il fischio delle
porte scorrevoli che si aprivano, un mare di gente che si riversava nei
vagoni, la banchina che restava deserta, e i miei occhi dentro i suoi per la
prima volta.
Non dimenticherò mai il suo sguardo e il leggero rossore delle sue
guance poco dopo, quando salimmo su un altro vagone, mentre si teneva ai
sostegni per non cadere e mi chiedeva: «Ma tu l’avevi mai fatta, una cosa
così?».
Quell’immagine me la porto dentro ancora adesso, e mi ci sono
aggrappata tantissime volte, quando sentivo il bisogno di scavare dentro di
me alla ricerca di un motivo per continuare a sceglierlo, nonostante tutto.
Io mi limitai a fare di no con la testa, mentre lo fissavo emozionata: i suoi
capelli mossi e scuri, i suoi occhi che sapevano di buono, le sue mani
grandi.
Alla fermata successiva un gruppo di ragazzi lasciò dei posti a sedere
liberi.
Iniziai a trafficare con la cerniera della borsa.
«Ti tremano le mani…» mi disse, a un certo punto.
Cercai di nasconderle. «Sono un po’ nervosa, lo ammetto. Comunque, mi
succede spesso. Non so perché…»
«Scusami» mi rispose lui. «È solo che la prima cosa che noto nelle
persone sono sempre le mani.»
Senza farmi vedere cercai di infilarle sotto la borsetta.
«Dove scendiamo?» gli chiesi, per cambiare argomento.
«Che cosa ne dici di scendere a caso? Scommetto che non hai mai fatto
nemmeno questo.»
«No, in effetti hai ragione.»
E così, quella storia che ancora non sapevo cosa sarebbe diventata iniziò
con un viaggio senza destinazione, con una passeggiata in una zona di
Roma che non avevo mai visto prima, e l’imbarazzo si trasformò in piccole
curiosità prima, e in piccole scoperte poi.
Dentro di me abitano ancora ricordi nitidissimi di quelle prime ore con
Alessandro, fotografie che scattai con il cuore ogni volta che mi regalava un
attimo di stupore.
Come quando, separati dal tavolino di un bar, gli domandai di dove fosse
e lui mi rispose: «Di Trento». Io sbarrai gli occhi e gli chiesi: «Davvero sei
venuto a Roma solo per incontrare me?». E lui mi disse di sì, come se fosse
la cosa più normale del mondo. «Perché?» insistetti. E lui rispose solo:
«Non mi piacciono i “chissà come sarebbe andata se…”».
O come quando mi rivelò il suo cantante preferito e io non gli dissi che
era anche il mio, o quando lo vidi scompigliarsi i capelli la prima volta.
Non appena iniziai a sentirmi a mio agio e cominciai a raccontare dei miei
studi, capii dai suoi occhi che mi ascoltava davvero.
Alessandro stava ultimando chimica e tecnologie farmaceutiche a Trento,
viveva da solo anche se avrebbe potuto vivere con i suoi, era un disordinato
cronico ma non sopportava le tazzine della colazione nel lavello, e amava le
grandi città ma non sarebbe mai potuto stare troppo tempo senza il profilo
delle montagne.
Non saprei dire come riuscì a trovare la chiave per far scattare la
serratura del mio cuore. Forse fu la sua impulsività, la leggerezza con cui
aveva azzerato la distanza dei nostri luoghi.
Ero stata prigioniera così tanto della mia razionalità e della mia necessità
di avere tutto sotto controllo che forse quello di cui avevo bisogno era
proprio un gesto così, che desse il via a un modo nuovo di conoscersi, un
modo che non lasciava spazio al timore del “poi”, perché nessuno si
aspettava nulla dall’altro.
Forse fu per questo che più tardi, quando il sole sparì dietro l’orizzonte e
a Roma si diffuse il profumo della sera, non ebbi timore nel fare un passo al
di là di quella chiacchierata.
«A che ora riparti domani?» gli chiesi, prima di salutarlo.
«Poco prima di pranzo.»
«Io lavoro in una pasticceria a un quarto d’ora a piedi dal Colosseo. Ti
aspetto per colazione…»
Gli diedi l’indirizzo e ci salutammo con due baci sulla guancia.
Trascorsi la mattina seguente con gli occhi puntati fuori dalla vetrata per
vederlo arrivare, e poi con gli occhi puntati sul tavolino a cui si era seduto
per rubare qualche briciola del suo modo di fare.
Alessandro, quel giorno, andò via senza salutarmi, mentre ero occupata a
servire una famiglia seduta lì accanto.
Sul suo tavolino, però, fermato con il piattino del caffè, trovai un
tovagliolo di carta del locale fitto di parole.
“Se hai trovato un motivo per rivedermi, dimmi un’ora e una data. Mi
troverai lì.”
Rimasi un attimo ferma con quel tovagliolo in mano e colsi il mio sorriso
nel riflesso della vetrina. A vederlo così sincero mi spaventai, perché mi ero
disabituata a quei momenti di improvvisa felicità.

Diedi appuntamento ad Alessandro due settimane più tardi, sulla


banchina della fermata Ottaviano, direzione Anagnina, alle 20.
Questa volta la metropolitana era quasi deserta, e quando arrivai lo trovai
già lì ad aspettarmi, con addosso un giubbotto di pelle.
«Cosa facciamo oggi?» mi chiese ancora prima di dirmi ciao. Quello di
non salutare era un vizio che doveva proprio togliersi.
«Che ne dici di fare qualcosa che non abbiamo mai fatto?»
«Dico che è una bellissima idea. Devo pensarci un attimo, però. Così su
due piedi non è facile.»
Sorrisi. «Tranquillo. Non dev’essere nulla di straordinario. Io sono per la
normalità. Hai fame?»
Ero molto più tranquilla e spigliata della prima volta. E anche più sicura
di me. Non avevo voglia di nascondere il mio sorriso.
«Sì» rispose, sorridendo.
Forse perché tutto quell’entusiasmo lo faceva ridere.
«Io non ho mai mangiato filippino» gli dissi, allora.
«Nemmeno io.»
«Okay, andiamo» risposi, mentre giravo i tacchi per risalire le scale.
Lui alzò un sopracciglio. «Non prendiamo la metro?»
Mi voltai di nuovo verso di lui. «No, però questo mi sembrava un bel
posto per un nuovo appuntamento» gli risposi, con un sorriso vero. «Vieni,
cosa aspetti?»
Andammo a mangiare in vicolo del Farinone, in un ristorante minuscolo
che conoscevo perché mi era capitato di passarci davanti diverse volte.
Dopo cena, Alessandro mi propose di andare in un locale a bere
qualcosa, ma io avrei dovuto ordinare per lui, e lui per me.
Lo portai a Trastevere, alla birreria Trilussa, un pub vecchio stampo
dove, immersi dentro a una luce soffusa e all’odore del legno, si
sorseggiano le birre più buone del mondo.
Ad Alessandro feci portare una Green, lui invece mi ordinò una
Grapefruit, due birre artigianali che, a Roma, si possono assaggiare
solamente lì.
Ci piacquero così tanto che ne bevemmo altre due a testa. Uscimmo da lì
quasi ubriachi e decidemmo di fare una passeggiata fino al Colosseo, per
poi proseguire e salire dietro al Vittoriano.
Portai Alessandro sul retro, dove c’era un muretto su cui mi ero seduta
centinaia di volte e che era diventato uno dei miei posti preferiti.
Quella sera, però, per mantenere la promessa e fare un’altra cosa che non
avevamo mai fatto, ci sdraiammo per terra e restammo lì a parlare per
un’infinità di tempo, fino a quando, improvvisamente, cominciò a piovere a
dirotto.
Iniziammo a correre sotto la pioggia, poi lui, a un certo punto, si levò il
giubbotto e lo usò per ripararci la testa.
Lì sotto, già bagnati fradici, gli sorrisi e senza nessun imbarazzo gli
strinsi un braccio con le mani.
Quel gesto naturale fece capire a entrambi che non sarebbe stato facile
staccarle da lì.
«C’è qualcosa che ti piacerebbe fare, ma che non fai da un sacco di
tempo?» mi chiese Alessandro, mentre correvamo a ripararci sotto il
balcone di una palazzina.
Ci pensai un attimo. «Veramente sì, ma è una cosa stupida.»
«Quale?»
«Vorrei fare una casa con le lenzuola. Da bambina lo facevo spesso,
quando sentivo il bisogno di un posto mio. Ricordo che ci mettevo dentro di
tutto: caramelle, cuscini, giochi. Non lo facevi anche tu?»
Lui sorrise. «Sì, qualche volta è capitato. Non molto spesso, però.»
«A te, invece? Cosa manca?»
«A me manca disegnare. Da bambino lo facevo per ore. Poi, negli anni, è
una cosa che ho perso. Un po’ mi dispiace.»
Lo guardai senza dire nulla, ma pensai che quel ragazzo era davvero un
bel posto da scoprire.
Quella sera, alla fine, chiamammo un taxi e ci salutammo con un filo di
imbarazzo senza promettere di rivederci.
Tuttavia una mattina di qualche giorno più tardi il mio cellulare squillò.
“Ci vediamo a Trento, al binario 2, fra sette giorni, alle 18. So che ti
chiedo tanto. Ci sarai?”
Rimasi con le dita a mezz’aria qualche secondo, poi gli risposi “Ci sarò”
ancora prima di chiedere un cambio turno al lavoro.
Trascorsi i giorni seguenti con un nodo allo stomaco, prenotai un treno
che mi permettesse di arrivare un po’ in anticipo e una stanza in un
minuscolo B&B in centro.
Quando Alessandro arrivò al luogo del nostro appuntamento, lo stavo già
aspettando da un paio d’ore.
«Dove andiamo?» gli chiesi, con gli occhi che mi brillavano.
Mi guardò sorridendo: «Non te lo dico, è una sorpresa».
Lo seguii fuori dalla stazione, salimmo in auto e mi ritrovai a sbirciare il
suo profilo mentre guidava.
Ci fermammo nel parcheggio di una grande palazzina.
«Tu vivi qui?» gli chiesi.
Lui annuì. «Vieni, ho preparato una cosa…»
Lo guardai alzando un sopracciglio, curiosa, e lo seguii lungo due rampe
di scale.
«Chiudi un attimo gli occhi» mi disse una volta fermi davanti all’ingresso
del suo appartamento.
Feci come mi aveva chiesto, e rimasi in ascolto.
Sentii la chiave scattare nella serratura, la porta aprirsi, le dita delicate di
Alessandro sui miei fianchi per sospingermi dentro.
«Va bene, adesso puoi aprirli.»
Quello che vidi mi lasciò senza parole.
Alessandro aveva abbassato del tutto le serrande e costruito un’enorme
casa con le lenzuola. Alcune erano fermate alle ante degli armadi, altre
appoggiate a delle vecchie sedie. C’erano luci appese ovunque: alle pareti,
alle finestre, alle spalliere.
Per terra sopra delle coperte ammucchiate, aveva sistemato una bottiglia
di vino e due bicchieri.
Lo guardai negli occhi, mentre sulle mie labbra si disegnava una piccola
“o” per la sorpresa.
«Ti piace?» mi domandò Alessandro, sorridendo della mia incredulità.
«È bellissima…»
«Cosa aspetti, entra, forza.»
Mi tolsi le scarpe e lo seguii lì sotto.
Mi parve di entrare in un mondo solo nostro.
Lui stappò la bottiglia e mi versò un sorso di vino.
«Ho pensato a un nuovo gioco» mi disse. «Ho preparato dei bigliettini
con delle domande. Niente di preoccupante, te l’assicuro. È solo un modo
per conoscerci. Il gioco, però, è questo: ognuno risponde per l’altro.»
Lo guardai. «Non credo di aver capito…»
Alessandro afferrò un biglietto da un mucchio di foglietti bianchi che
erano sfuggiti alla mia attenzione.
«Qui, ad esempio, c’è scritto “Come dovrebbe essere, per te, una tua
giornata perfetta?”. Ecco, io risponderò cercando di indovinare come
risponderesti tu, e tu farai il contrario.»
Lo guardai divertita. «Ci sto.»
Giocammo intervallando le domande a risate e bicchieri di vino, e quella
sera risi come non ricordavo di aver mai fatto.
A un certo punto, proprio mentre ridevo, Alessandro all’improvviso mi
baciò.
Il sapore delle sue labbra si mescolò al mio e a quello del vino, e io
affondai le mani nei suoi capelli, facendomi più vicina.
Lì sotto, nascosti dalle lenzuola al resto del mondo, facemmo l’amore per
la prima volta.
Forse fu presto, forse fu il vino, forse fu la magia che si percepiva
nell’aria, o forse, in qualche modo, avevamo già la sensazione di
appartenerci.
Quello di cui sono certa, però, è che le cose più vere spesso sono quelle
che facciamo senza pensarci su troppo.
Quella notte non mi fermai a dormire da lui.
Alessandro capì e non fece domande.
Quando entrai nella stanza che avevo prenotato, mi richiusi la porta alle
spalle e rimasi un attimo così, immobile nel buio, con le braccia lungo i
fianchi.
Fu proprio in quel momento che ricominciai a credere ai treni presi al
volo, alle parole dette d’impulso, alle promesse da mantenere, agli
appuntamenti senza pensare, ai “chissà che succede”, alle fermate dove
capita, agli sguardi rubati, ai baci in sospeso, ai giochi inventati per caso.
Per un attimo mi rividi con addosso quel sorriso triste che portavo negli
ultimi anni, e finalmente lo scacciai via.
Non possiamo evitare che le cose brutte accadano, ma possiamo decidere
come reagire a quel dolore lì.
Non pensate di non poter fare la differenza, perché non è così.
Vi capiterà di soffrire, a volte. E allora fatelo.
Ma la fiducia non fatevela rubare da nessuno.
Né quella verso voi stessi, né quella verso gli altri.
Non fate pagare a chi arriva dopo le ferite che qualcuno vi ha lasciato
addosso.
Cercate sempre di dare fiducia fino a prova contraria, perché la vita non
va vissuta con il freno a mano tirato.
Non abbiate paura di cadere, perché sarete sempre abbastanza forti per
rialzarvi.
Allo stesso modo, diffidate di chi non si fida di voi a prescindere.
Non dovete convincere nessuno a credere a ciò che vi portate dentro.
Le anime affini non si cercano, si trovano.
Non cercate a tutti i costi la persona giusta, cercate quell’inspiegabile
sintonia che si forma fin da subito, senza che riusciate a spiegarvi il perché.

https://www.youtube.com/watch?v=Kn0LYItRoM4
@leparoledimarco
Arriverà il momento in cui queste lacrime
diventeranno sorrisi nuovi.
E tornerà tutto, allora.
Riscoprirai quella te che stai dimenticando da qualche
parte,
e non sai nemmeno più dove.
Ti sentirai di nuovo donna, un giorno.
Una donna apprezzata, coccolata, capita.
Una donna accesa.
6
► [Ultimo, Quando fuori piove]

Lorenzo

Mi piacciono le città grandi, quelle che brulicano di così tanta gente che
nessuno fa davvero attenzione a chi sei, a come ti vesti, a chi frequenti.
Amo le città che non sono prese da se stesse, ma quelle che si aprono al
mondo, quelle che vivono distratte, quelle che vivono di notte. Amo il
rumore del traffico fin dal mattino, avere sempre un posto nuovo da
conoscere, e guardarmi attorno e sentire voci, urla, risate, e così sentirmi
meno solo, e soprattutto sentirmi comunque parte di qualcosa.
A Trento ogni angolo è a misura d’uomo e tutto si raggiunge a piedi.
Questa è una città che porta spesso ad avere gli occhi delle persone
addosso, una città fatta di strade completamente deserte il sabato sera. Non
capita mai di non trovare posto al bar e per uscire fuori a cena non serve
prenotare giorni prima, anzi molto spesso non serve prenotare affatto.
A me, che sono cresciuto viaggiando in metropolitana, fra strade
imbottigliate nel traffico e vie stracolme di gente, passeggiare a Trento dà
l’impressione di muovermi in un universo fatto di silenzio e aria pulita, in
cui ci si sente protetti dalle montagne, ma che a volte fa venire voglia di
guardare oltre.
Vivere qui vuol dire sentire il profumo dell’inverno nell’aria, imparare a
scoprire meraviglie nuove, innamorarsi di una natura a volte curata e a volte
selvaggia, e a poco più di mezz’ora di auto avere paesi minuscoli immersi
nell’odore di boschi e di erba tagliata: borghi in cui il mondo sembra essere
rimasto quello di una volta.
Trento è una città che fatica a farti sentire accolto fin da subito, e in cui,
invece, è fin troppo facile sentirsi diversi.
Anche oggi, quattro anni dopo il mio arrivo, non riesco ancora a sentirmi
sulla pelle i suoi palazzi affrescati, i suoi vicoli nascosti, il modo formale
che ha di accoglierti ovunque, le sue fontane, i bar in cui mi sono seduto
tante volte, i locali che molto spesso sono diventati il mio rifugio.
Fra me e questa città non è mai scattata la scintilla, è come se fossimo
divisi da qualcosa, qualcosa che ci rende a volte anche simili, ma troppo
spesso ci fa sentire distanti.
Tuttavia, fra le sue bellezze e tutti i suoi difetti, mi sono intrufolato e ho
cucito la mia vita il più possibile su misura di ciò che desidero. E così ho
fatto spazio a Roberto, Sofia, Gaia, Celeste e Silvio, gli unici che hanno
sempre fatto in modo di esserci e che adesso se ne stanno accalcati al mio
fianco, sull’autobus numero 12, quello che tutte le mattine ci porta a scuola.
«Se oggi Big Mac fa il mio nome, sappiate che non ho studiato niente…»
dice Silvio mentre si aggiusta lo zaino sulle spalle.
Big Mac in realtà si chiama Luigi Rizzo, ed è il nostro professore di
matematica. Il suo soprannome è dovuto al mento flaccido e al fatto che è
così grasso che quando scrive alla lavagna deve sempre stare attento a non
cancellare tutto con la pancia.
«Arriverai mai preparato a un’interrogazione?» gli domando.
Ho conosciuto Silvio il primo giorno di scuola del secondo anno di liceo,
quattro anni fa, quando vivevo a Trento solo da qualche settimana e ancora
mi sentivo perso.
Aveva trascorso tutta la mattina a fissare Giorgia, una nostra compagna
desiderata da tutta la scuola, che era rientrata dalle vacanze estive
abbronzata più che mai e portava una maglietta bianca annodata sopra
l’ombelico.
Durante la ricreazione si era avvicinato e mi aveva detto: «Una così, con
me, non ci starà mai».
Io avevo sorriso senza rispondergli e lui mi aveva guardato in silenzio,
come se fosse in attesa di essere contraddetto.
Alla fine, aveva guardato con tristezza lo yogurt alla pera che stavo
mangiando e mi aveva dato metà del suo panino.
Silvio è il classico ragazzo un po’ sfigato, uno di quelli presi in giro da
tutti, perché indossa degli occhiali spessi come fondi di bottiglia, è magro
che sembra che la prima folata di vento possa portarselo via e ha il viso
ricoperto di brufoli.
«Non che tu sia il primo della classe, eh…» Celeste mi riporta al
presente, guardandomi di sbieco e sorridendo appena.
Io e Celeste, invece, siamo diventati amici quando si è offerta di aiutarmi
con il latino, che è sempre stato il mio punto debole. Non scorderò mai le
serate con lei fatte di termos di caffè e ripassi dell’ultimo minuto.
Nonostante sia una studentessa modello, ha moltissime insicurezze per il
suo aspetto fisico, insicurezze con cui lotta e convive tutti i giorni.
«Ah, lo sapete? Gaia ha organizzato una festa da lei, questa sera…» si
intromette Sofia.
«Un’altra?» Roberto la guarda accigliato.
Roberto e Sofia li ho conosciuti qualche anno fa al Buena Onda, un
locale che sembra una cartolina, adagiato sulle sponde del lago di Levico, a
mezz’ora di corriera da Trento, dove d’estate si va a fare l’aperitivo e a
ballare fino a notte fonda.
Stavano insieme allora, ma si sono lasciati qualche settimana più tardi.
Sono rimasti in buonissimi rapporti, però. Lei cerca di farlo uscire con le
sue amiche e lui, alle feste a casa di Gaia, le presenta altri ragazzi.
Non che Sofia ne abbia bisogno. Non è la solita belloccia, ma ha un
modo di fare a cui i maschi raramente riescono a resistere.
«E ti lamenti? In questa città non c’è mai nulla da fare. Le feste a casa di
Gaia sono quanto di meglio si possa trovare. E poi c’è Filippo…»
«Chi è Filippo?» chiede Celeste, distratta.
«Filippo, quello della 5C…»
«Ah be’, se c’è Filippo della 5C…» Roberto sorride ironico.
«Non fare il finto geloso, che non ti riesce. Comunque, Gaia ha detto che
dobbiamo andare da lei per…»
Le parole di Sofia vengono sepolte dal rumore delle porte dell’autobus
che si aprono e dallo sgomitare delle persone che fanno a lotta per scendere
per prime.
Noi aspettiamo che la ressa si plachi, poi le seguiamo.
«Dobbiamo essere da Gaia per?» chiedo a Sofia, allora, mentre da piazza
Fiera scendiamo lungo via Mazzini.
«Per le dieci. Se volete possiamo trovarci un quarto d’ora prima sotto
casa mia, e ci andiamo tutti insieme…»
«Va bene, facciamo così.»
D’un tratto Silvio guarda Sofia: «Viene anche Giorgia?».
Sofia alza gli occhi al cielo. «Ancora con questa Giorgia? Sei innamorato
di lei da cinque anni e non vi siete mai rivolti la parola…»
«Se glielo dici così però lo ammazzi…» Celeste cinge le spalle di Silvio
con un braccio, mentre svoltiamo a destra e, in lontananza, cominciamo a
vedere l’edificio rosso del nostro liceo.
«Comunque, ho saputo che si è fidanzata…» butto lì, con un tono fra
l’annoiato e l’indifferente.
Silvio, invece, mi guarda come se gli avessi appena comunicato una
condanna a morte.
«Si è fidanzata? Con chi?» Dalla sua faccia capisco che ci è rimasto male
per davvero.
Mi limito ad alzare le spalle. «Con Fabrizio, il rappresentante d’istituto.»
«No, dài. Con lui no! Ma perché?»
«Vediamo…» lo interrompe Celeste. «Vuoi saperlo davvero?»
«No, grazie…» Silvio si fa scappare un sorriso amaro.
Fabrizio ha sempre fatto girare la testa a tutte le ragazze della scuola:
moro, occhi azzurri, spalle larghe, un corpo perfetto.
Ci confondiamo fra tutti gli altri studenti accalcati di fronte alla scuola.
«Siamo solo a settembre ma ho già l’ansia per l’esame di maturità»
Roberto cambia discorso all’improvviso.
Sofia lo guarda storto. «Io ancora non ci penso, altrimenti impazzisco. Se
per la terza prova esce matematica mi butto sotto un treno.»
Celeste scuote appena la testa. «Matematica esce di sicuro.»
«Grazie, davvero» le risponde Sofia, abbassando lo sguardo a fissarsi la
punta delle scarpe.
«Non preoccuparti, ora abbiamo altro a cui pensare» intervengo io per
sdrammatizzare.
«Lorenzo ha ragione. L’interrogazione di Big Mac!» Silvio emerge dal
suo silenzio, facendo intendere di aver superato lo shock per la notizia del
fidanzamento di Giorgia e Fabrizio.
Lo guardo complice mentre tutti insieme varchiamo la soglia di un’altra
giornata del nostro ultimo anno di liceo. «No, amico mio. La festa di Gaia!»

Gaia ha lunghissimi capelli biondi, due occhi azzurri che sembrano due
torce e le guance sempre arrossate. Vive in un appartamento con due
universitarie più matte di lei e lo trasforma in una discoteca almeno una
volta a settimana.
È fidanzata da quattro anni con Damiano, un ragazzo di 5A, che alle sue
feste non ci viene mai perché si annoia da morire.
Ci ha sempre fatto sorridere vederli insieme, perché sembrano proprio
non c’entrarci nulla, l’uno con l’altra.
Eppure, negli anni, abbiamo dovuto ricrederci tutti quanti.
Purtroppo Gaia sta in 4B, perché l’anno scorso ha fatto così tante assenze
che nemmeno suo padre, un famoso avvocato, ha potuto evitarle la
bocciatura.
I suoi si sono trasferiti a Milano, come desideravano da tutta la vita, ma
non sono stati capaci di sradicarla da Trento, e così hanno patteggiato la
possibilità di affittarle un appartamento in cambio di un impegno maggiore
in classe.
Gaia è così, quando vuole qualcosa la ottiene.
Qualche volta la invidio, perché vorrei avere la sua determinazione, mi
aiuta a credere che tutto sia possibile.
Le sue feste sono diventate un appuntamento fisso. Casa sua è diventata
casa nostra: ci andiamo a pranzo dopo la scuola, ci areniamo lì a studiare
giorni interi, ci fermiamo a dormire sparpagliati sul divano e sul pavimento
del soggiorno.
I miei amici si sono trasformati nella famiglia che non ho più.
È lì, sul pavimento del soggiorno di Gaia, che ho la sensazione di essere
al posto giusto.

Stasera a casa sua c’è mezza città.


La voce delle feste di Gaia ha cominciato a serpeggiare nei corridoi del
liceo e dell’università e, senza volerlo, lei e le sue coinquiline sono riuscite
a unire due mondi vicini ma lontanissimi.
Ho trascorso tutta la serata con Silvio, Celeste e Roberto, affacciato alla
finestra della camera da letto di Gaia, che è diventata la sala fumatori,
mentre Sofia è in soggiorno, dove la musica alta ti rimbomba nel petto e si
balla stretti gli uni agli altri, insieme a Filippo della 5C e ai suoi compagni
di classe.
Alle feste in cui la gente balla mi sento sempre fuori luogo, perché mi
manca il coraggio di imitarla. Preferisco rimanere nascosto in un angolo a
parlare con le poche persone che conosco. Chissà perché, poi. Forse perché
mi sembra di non essere visto, o forse perché mi sento al sicuro, o forse
perché non riesco a essere ciò che vorrei.
Che Sofia e Filippo si piacciano è evidente a tutti, ma Sofia è quel tipo di
ragazza che non fa mai la prima mossa, mentre Filippo è così timido che di
certo non la farà lui.
Così trascorrono spesso la serata a parlare fitto fitto per ore e a
scambiarsi la vita e gli sguardi, ma un bacio mai.
A notte fonda, quando ormai l’appartamento comincia a svuotarsi piano
piano, Gaia spegne la sigaretta sul davanzale e mi guarda.
«Lorenzo, perché non ci suoni qualcosa? Stefania ha una chitarra…»
Le lancio un’occhiata che avrebbe appeso al muro chiunque. «Sai che
non mi piace stare al centro dell’attenzione. Lascia stare. E poi, chi è
Stefania?»
«La mia coinquilina, quella alta. Possibile che ancora non sai come si
chiama? Comunque, non fare così. Aspetta.»
«No, Gaia… dove vai… Ferma!»
Ma ormai è corsa fuori dalla stanza.
Qualche minuto più tardi mi trovo seduto per terra a imbracciare la
chitarra, la schiena appoggiata al muro, il pacchetto di sigarette di fianco a
me.
Chiudo gli occhi e per un attimo mi sembra di essere di nuovo sul
balcone della mia stanza da letto, come un anno fa, quando la voce di mio
fratello era ancora l’ultima che mi avesse provocato qualcosa dentro.
Accarezzo le corde della chitarra e Non avere paura di Tommaso
Paradiso inizia a risuonare piano nell’aria.
All’improvviso, mentre i miei amici di sempre, seduti lì attorno, mi
ascoltano in silenzio, sento una voce che riconoscerei fra mille altre
canticchiare appena e farsi spazio fra il tintinnio dei bicchieri e delle risate
che filtrano dal soggiorno.
Le mie dita hanno un attimo di incertezza. Alzo lo sguardo e trovo quello
scuro della ragazza castana che osservo da tutta la sera già dentro il mio.
All’improvviso un’intuizione fulminea si disegna sui nostri volti e lei si
porta le mani davanti alla bocca per lo stupore.
Restiamo a fissarci mentre, non so come, riesco a tenere a freno quella
raffica di sensazioni che mi provoca avere proprio i suoi occhi addosso per
la prima volta, dopo averli cercati così tanto da aver quasi dismesso la
speranza di incontrarli.
Non c’è bisogno di nessuna conferma, abbiamo già tutte le conferme di
cui avevamo bisogno.
Sono riuscito a terminare la canzone e a fare in modo che nessuno tranne
noi sentisse il clic dei nostri due mondi, il mio e il suo, che si toccano per la
prima volta.
Dopo l’ultima nota, appoggio la chitarra, mi alzo e scivolo fuori dalla
stanza.
Quando le passo accanto non ho il coraggio di guardarla, ma sento i suoi
occhi seguirmi e incidersi dentro di me, da qualche parte.

https://www.youtube.com/watch?v=R67yEZDoiiE
7
A volte l’amore finisce, ma c’è ancora il bisogno di
starsi accanto

Elisabetta

Come abbiamo fatto a dimenticarci dei nostri giochi? Come abbiamo


fatto a perdere la voglia e la curiosità di fare cose che non avevamo mai
fatto? Quando abbiamo smesso di divertirci insieme, di prenderci in giro, e
di scherzare, e di ubriacarci e di costruire la nostra casa di lenzuola per
ripararci dalla vita?
Forse la fine di un amore inizia quando finisce il desiderio di scoprire.
Facciamo l’errore di pensare di conoscerci a memoria anche se non è così.
All’improvviso ci guardiamo attorno e abbiamo la sensazione di aver già
fatto tutto: non c’è più l’entusiasmo al pensiero di una convivenza, non c’è
più da farsi minuscoli per stare in un appartamento troppo piccolo ma che è
sempre stato grande abbastanza, non c’è più l’entusiasmo di organizzare un
matrimonio, non c’è più un pancione da veder crescere, nessuna casa da
arredare e nemmeno un bambino che sussurri “mamma” e “papà” per la
prima volta.
Forse la fine di un amore inizia quando, senza accorgercene, ci sentiamo
al sicuro e smettiamo di pensare a cose nuove da fare insieme.
Poche cose fanno male come guardare la persona che hai amato per tanti
anni e avere il dubbio di non amarla più, provare a immaginare la vita senza
di lei e rendersi conto di non riuscire a vederne una.
A volte l’amore finisce, ma c’è ancora il bisogno di starsi accanto.
Io ho scelto di stare accanto ad Alessandro, ma ci sono stati giorni in cui
ho avuto la tentazione di mandare tutto all’aria e di ricominciare da capo,
momenti in cui mi guardavo attorno e mi sentivo un’estranea dentro casa
mia.
Alessandro fa l’informatore farmaceutico, un lavoro che ci ha permesso
di vivere una vita di benessere, ma che ci ha sempre costretti a vivere di
assenze, perché dal lunedì al venerdì è sempre fuori casa: gira, dorme fuori
città, e qualche volta, la sera, è così stanco che nemmeno riusciamo a
sentirci.
Per tantissimi anni, tuttavia, la sua routine non è stata un problema,
perché nonostante la lontananza, quando Alessandro era qui con me, c’era
davvero.
Le piccole incomprensioni sul suo lavoro, incomprensioni che mese dopo
mese sono diventate tanto grandi da ingoiarci, hanno iniziato a intrufolarsi
fra i nostri sentimenti quando nei suoi occhi il venerdì sera non leggevo più
il desiderio di vedermi, ma quello di essere altrove.
All’inizio ho provato a parlarne con lui, ma di fronte alle sue
rassicurazioni di circostanza mi sono rifugiata nel silenzio e ho cominciato
a rassicurarmi da sola.
Per farlo mi sono buttata a capofitto nel mio lavoro di insegnante, un
lavoro che amo come il primo giorno e che mi ha salvato tantissime volte,
un lavoro che, visto lo stipendio di Alessandro, avrei anche potuto lasciare,
ma senza il quale non avrei più indossato lo stesso sorriso.
Ci sono stati mesi in cui, proprio per questo, io e Alessandro abbiamo
dovuto superare litigi furibondi: lui voleva che mi licenziassi per dedicarmi
unicamente a Virginia e Federico, e io desideravo che capisse quant’è
importante per me fare qualcosa che amo.
Non so come avrei potuto resistere alle sue assenze se non ci fosse stata
la scuola, quello che so è che sono sempre riuscita a fare tutto, e che, in
fondo, mio marito non si è mai dimenticato di farsi perdonare quando
sbagliava, e io non ho mai smesso di chiedere scusa quando sbagliavo.
Per tanto tempo, comunque, siamo riusciti a guardare l’amore allo stesso
modo: un miscuglio di tanti piccoli dettagli e di qualche follia per ritrovarci,
quando avevamo la sensazione che i nostri sorrisi diventassero un po’ più
sbiaditi.
Alla fine, è tutta questione di incastri, di smussare alcuni aspetti della
nostra indole per farla combaciare con quella di chi abbiamo accanto.
Finché c’è la volontà di andare avanti insieme si può tenere duro.
E le improvvisate servono.
E anche le follie.
E le liti, soprattutto.
Il problema è che poi è successo qualcosa e invece di continuare a
camminare l’uno a fianco all’altra siamo stati risucchiati da un vortice che
si è portato via quella complicità che ci aveva sempre fatto sentire forti
insieme.
Certo, mi rendo conto che qualche volta non è facile essere me, così
piena di insicurezze e paure, con mille parole dentro e l’abitudine di restare
in silenzio.
Ed è proprio il silenzio quello che temo di più: l’assenza di dialogo fa a
pugni con la convinzione che la persona giusta è quella con cui puoi parlare
di tutto, ma soprattutto quella con cui puoi non parlare di niente.
Quando io e Alessandro ci siamo conosciuti, infatti, i silenzi non
facevano altro che aumentare l’intesa e l’intimità. Se chiudo gli occhi e
riavvolgo il rullino della nostra storia non posso fare a meno di notare che
tutti i momenti più importanti non hanno mai avuto bisogno di parole: la
prima volta che ci siamo visti, la prima volta che ci siamo toccati, la prima
volta che abbiamo fatto l’amore, quando abbiamo messo piede per la prima
volta in questa casa, l’attimo in cui ho scoperto di essere incinta, quando
sono venuti al mondo Virginia e Federico.
Negli anni, però, il silenzio invece di continuare a unirci si è trasformato
in un muro che ci fa sentire lontani anche se siamo sdraiati nello stesso
letto, perché le parole che non ci diciamo si sono spogliate della leggerezza
dell’inizio e si sono vestite di un mucchio di cose che con noi non c’entrano
niente.
Ci sono sere, quando Virginia e Federico sono a giocare in cortile con i
loro amichetti, in cui il silenzio che regna in casa mi terrorizza.
È come se le loro urla e i loro schiamazzi, finché giocano in casa,
coprissero la nostra distanza con il loro entusiasmo di bambini.
Vedendoli ridere, spesso penso che sono proprio quei sorrisi la corda che
ancora tiene allacciati me e Alessandro, come se l’amore per i nostri figli
servisse a colmare l’amore che manca fra di noi e riuscisse comunque a
tenerci vicini.
Spesso, nel loro sguardo, cerco di scovare l’amore fra me e mio marito,
come se nel loro piccolo petto custodissero il segreto che ci ha uniti per
tanti anni. Non ci riesco, ma guardandoli rincorrersi per casa e urlare come
matti, provo comunque una felicità immensa.
Io, invece, non corro da troppo tempo.
Mi limito a tirare avanti. Fra alti e bassi, giorni sì, giorni no e giorni così
così. Non è affatto semplice. Cerco di smussare gli spigoli del mio carattere
e di agire di pancia, senza ascoltare la testa, perché altrimenti mi ritrovo
punto e a capo. Non so se è giusto, ma le sto provando tutte. Sto provando a
essere una mamma migliore, un’amante migliore, una donna migliore.
La verità è che sono sempre stata una di quelle donne che vivono di
sensazioni, e spesso vorrei barattare la mia sensibilità con un po’ di
menefreghismo in più, perché ci sono momenti in cui questo mio “sentire” è
una condanna.
Sento che non c’è più l’adrenalina di quando ero giovane.
E mi manca.
Come sono arrivata a questo punto?
Ho perso la capacità di meravigliarmi oppure ho già assaporato tutte le
emozioni della vita, fino in fondo, e adesso devo farmi bastare quello che
ho?
@leparoledimarco
Sei rimasta impigliata in quegli spazi vuoti
che si chiamano mancanze.
Hai lo sguardo di chi è riuscito a rimettersi insieme
dopo tanti anni.
Ti eri scordata di cosa volesse dire
avere attorno due braccia per sentirti protetta.
Eri abituata a proteggerti da sola, ormai.
Hai saputo essere forte,
ma quanto ti mancava essere forte in due?
Però volevo dirti questo.
Tutte quelle ferite non sono
solamente la tua debolezza,
ma anche la tua forza.
8
► [Calcutta, Sorriso]

Lorenzo

Sento quegli occhi entrarmi dentro e raggiungere un punto in cui nessun


altro è mai riuscito ad arrivare. Accelero impercettibilmente il passo,
attraverso il soggiorno di Gaia e corro a sedermi in un angolo nascosto del
terrazzo, dove alcuni ragazzi che non conosco ridono e ballano senza
degnarmi di uno sguardo.
Nella pancia sento un misto di euforia e timore.
In quello sguardo che ci siamo rubati per una frazione di secondo avrei
voluto leggere la stessa emozione. Chissà se quella morsa allo stomaco
l’avevamo provata in due oppure l’avevo provata soltanto io.
«Ciao…»
D’un tratto, dal tintinnio dei bicchieri e dalla musica, sento emergere una
voce che riconoscerei fra mille.
Mi volto lentamente, perché non so se sono pronto a incontrare quella
voce che un anno fa mi ha rubato il cuore. Quando i nostri occhi si sfiorano
per la prima volta sento una piccola morsa sopra l’ombelico e la fortissima
tentazione di alzarmi e andare via, consapevole che se non lo faccio subito
una parte di me resterà seduta qui per sempre.
«Ciao» le sussurro invece, con la voce rotta.
Il suo sguardo, come il mio, è pieno di quello stupore improvviso che
rende belle le cose inaspettate.
Lei mi sorride, si avvicina e si siede di fianco a me.
Rimaniamo seduti lì in silenzio per tantissimo tempo, entrambi con gli
occhi puntati al di là della ringhiera. Lei ogni tanto mi guarda di nascosto e
accenna un sorriso.
Sembra molto più tranquilla di me, o forse è solamente molto brava a
nascondere l’emozione. Ma è anche possibile che sia stato io l’unico a
essermi portato dietro per oltre un anno tutto quello che ci siamo detti senza
guardarci.
A un certo punto apre la borsetta, tira fuori un pacchetto di sigarette, ne
sfila una e me la allunga. «Vuoi?»
In quel momento, per una frazione di secondo, vedo passare nei suoi
occhi lo stesso caos di emozioni che sento io.
Le tremano le mani, così come a me, e stanotte non fa più freddo del
solito.
Le sorrido senza dire niente.
In quel gesto c’è dentro un mondo che conosciamo soltanto noi.
Allungo una mano per prendere la sigaretta e i nostri polpastrelli si
toccano appena.
I miei occhi corrono a cercare i suoi e li trovano già lì ad aspettarmi.
Questa volta, però, lei abbassa lo sguardo, come per nascondere un
pizzico di imbarazzo.
«Però non ho da accendere…»
Io mi infilo la mano nella tasca dei jeans e tiro fuori un accendino.
Lei sorride, s’infila la sigaretta fra le labbra, si avvicina lentamente alle
mie mani e inspira forte per accendere la sigaretta.
«Sei in ritardo» le dico, mentre con gli occhi osservo il fumo uscirle dalla
bocca e arricciarsi nella notte.
Mi guarda di sottecchi. «Qualche volta il momento giusto arriva in
ritardo, sai?»
Sorrido. «Hai sempre la risposta pronta per tutto, tu…»
Sorride anche lei.
«Lo sapevi fin dall’inizio, vero?» le chiedo, mentre la osservo fare un
altro tiro. Un improvviso soffio di vento le scompiglia un po’ i capelli.
Nel frattempo, anche io mi accendo la sigaretta.
«Sapevo che cosa?»
«Quando mi hai proposto di aspettare un mese prima di incontrarci…
sapevi che non sarebbe successo, non è così?»
Non c’è rancore nelle mie parole, e nemmeno un pizzico di rimprovero.
«Sì, lo sapevo.»
Rimango in silenzio per un attimo.
«Come mai lo hai fatto?» le chiedo poi, con un pochino di timore per la
risposta.
«Perché non era il momento giusto…»
Vorrei domandarle che cosa vuol dire, ma non lo faccio. Alla fine, forse,
non è nemmeno tanto importante.
«Sei rimasta pochissimo, nel palazzo» le dico invece.
«Sì. In realtà vivevo lì solo perché nel frattempo i miei stavano ultimando
la costruzione di una casa in collina. Quando ci siamo conosciuti sapevo già
che sarei andata via…» Fa una piccola pausa. Poi, arricciando le labbra, lo
sguardo altrove, aggiunge: «Però ho continuato a cercarti».
Questo piccolo controsenso, il fatto che mi abbia dato un appuntamento
al quale sapeva già che non si sarebbe mai presentata, ma che nonostante
questo non avesse smesso di cercarmi, mi dà l’idea del caos che quella
ragazza sembra nascondere dentro di sé e, all’improvviso, me la fa apparire
ancora più bella.
«E tu, sei rimasto ad aspettarmi?» me lo chiede continuando a tenere gli
occhi fissi chissà dove, mentre io, invece, cerco di intercettarli.
«Sì. Non so per quanto tempo. Forse fino a ora…»
A quelle parole finalmente si volta verso di me, le guance un po’
arrossate per l’imbarazzo.
«Hai voglia di bere una birra?» mi domanda, forse solamente per sviare il
discorso.
«Sì, aspettami qui. Vado a prenderla io…»
«Okay.»
Mi sollevo piantando le mani per terra, rientro in casa, scivolo in cucina,
sfilo due birre dal frigorifero, le stappo con l’accendino.
Mentre esco di nuovo in terrazza e vedo la sua sagoma scura profilarsi
nella notte, lì ferma ad aspettarmi, sento la morsa sopra l’ombelico farsi un
po’ più forte.
«Dove vivi, ora?» le domando, allungandole una bottiglia e sedendomi lì
vicino a lei.
«Poco sopra Trento. Da casa si vede tutta la città. È meraviglioso. E tu?»
«Io vivo ancora lì, nello stesso palazzo.»
«La notte continui a sederti sul balcone a suonare?»
«Quando sono a casa sì, sempre…»
Lei accenna un sorriso.
«Che scuola fai?» mi domanda, e spegne il mozzicone di sigaretta a terra.
«Classico, e tu?»
«Linguistico. Veramente le lingue le odio, ma mi vengono facili. A te,
invece, piace quello che fai?»
«In realtà sì, ma sono felice di essere all’ultimo anno, comunque.»
«Hai già deciso cosa studiare l’anno prossimo?»
Mi limito ad alzare le spalle. «Ancora no. E tu?»
«Nemmeno io, ma ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto provare a
entrare a Medicina… Diciamo che mi piacciono le sfide. E a te?»
Rimango a pensarci su un momento. «Credo di sì.»
Lentamente sento diradarsi il velo d’imbarazzo che ho percepito appena
si è seduta qui, ed è come se improvvisamente fra di noi fosse tornata la
naturalezza di un anno fa.
«Conosci Gaia?» le domando, curioso.
Lei mi guarda corrugando la fronte.
«Chi è Gaia?»
«Ti sei imbucata alla festa, non è vero?» le chiedo allora, sorridendo.
«Be’, secondo me almeno la metà della gente è entrata senza invito» mi
risponde scrollando le spalle.
«In effetti credo che tu abbia ragione. Comunque Gaia è la mia migliore
amica. L’appartamento è suo. Sei qui con delle amiche?»
Si porta la birra alle labbra e fa un piccolo sorso. «Veramente sono sola.»
Alzo un sopracciglio.
Lei nota la mia perplessità.
«Non avevo previsto di andare a una festa. Sono uscita di casa e sono
venuta in centro solo perché avevo voglia di fare una passeggiata. Sono
passata qui sotto, ho sentito la musica e ho visto un gruppo di ragazzi
entrare, così mi è venuta voglia di bere qualcosa. Quando hai cominciato a
suonare è stato un colpo al cuore…»
Il suo modo di parlare timidamente ma senza maschere cattura la mia
attenzione, e mentre la osservo cerco di rubare piccoli dettagli del suo modo
di muoversi.
«Posso chiederti una cosa?» le domando, a un certo punto.
«Vai.»
«Ti sei mai pentita di quell’appuntamento mancato?»
Finalmente i suoi occhi incontrano i miei, e il suo sguardo ha un’intensità
tale che mi sembra di sentire le sue mani scavarmi dentro.
«Raccontarsi da un balcone all’altro è stata una specie di magia, e avevo
paura di rovinare tutto non appena avessimo abbattuto la distanza che c’era
fra di noi. Un po’ non era il momento giusto, un po’ non volevo sporcare il
ricordo di noi che ci siamo portati dietro. Però sì, qualche volta mi è
capitato di pensare di aver sbagliato.»
Rimango ad ascoltarla senza dire niente, convinto che la sua paura, in
fondo, è sempre stata anche la mia.
Poco dopo, d’un tratto, riprende a parlare. «Ma adesso che ci siamo
incontrati in questo modo, a una festa a cui non sarei dovuta venire, adesso
che me ne sto qui seduta su questa terrazza con te, circondati da gente
ubriaca di cui non ci importa niente, mi sembra un piccolo miracolo.»
Le rispondo senza staccarle gli occhi di dosso. «Hai un bel modo di usare
le parole. Ma questo lo sapevo già…»
«Che cosa non sapevi, invece?»
«Non sapevo che mi piace il modo che hai di muovere le mani…»
La sorprendo a osservare le mie e sorridere appena.
Per un attimo mi viene la tentazione di nasconderle, invece le lascio lì:
una poggiata alla gamba, l’altra a stringere la birra.
Parlare con lei colora l’aria di un fascino nuovo, perché un po’ mi sembra
di parlare con una sconosciuta, un po’ mi sembra di parlare con qualcuno
che conosco da anni.
Ci sono piccole confidenze regalate a notte fonda che tengono allacciate
due persone anche se poi non si vedono più, ed è come se fra di noi, in
quelle sere, fra un balcone e l’altro, si fosse formato un filo che ci ha unito,
nonostante tutto.
Sto per dirle che quando se n’è andata mi ha lasciato con tantissime
domande in sospeso, ma lei, invece, mi dice: «Purtroppo devo lasciarti…».
Si capisce che avrebbe proprio voglia di restare, però ci rimango male lo
stesso.
«Fermati un altro po’» dico d’impulso.
«Non posso, domani mattina parto. Devo ancora sistemare le ultime
cose.»
«Parti? Per dove?»
«I miei hanno organizzato un viaggio di un paio di settimane. Purtroppo
hanno un lavoro che non ci permette di andare in vacanza d’estate, così
recuperiamo sempre in questo periodo, nonostante io debba saltare la
scuola…»
«Sono sicuro che ti dispiace…» sorrido.
Ride anche lei.
Poi, si alza in piedi piano e la osservo sistemarsi la borsetta sulla spalla,
gli occhi sempre fissi su di me.
«Allora ciao…» mi dice, spostando il peso del corpo da una gamba
all’altra.
Vorrei dirle ancora tantissime cose, invece mi limito a un sospiro.
«Ciao…» le dico alla fine.
Ci guardiamo ancora un attimo, poi lei si volta regalandomi l’ultimo
lampo di un sorriso.
Rimango a guardarla allontanarsi, poi fermarsi ancora un attimo.
«Ah» mi dice, voltandosi nel buio.
«Che cosa?» domando, curioso.
«Adesso te lo posso dire. Mi chiamo Beatrice.»
Mi ero talmente perso dentro di noi che mi ero del tutto dimenticato di
non sapere ancora il suo nome.
«Lorenzo» le rispondo in un sussurro.
Lei sta per voltarsi di nuovo, questa volta però la blocco io.
«Ehi» le dico.
«Sì?»
Pronuncio con cura quelle parole, perché a spogliarle dal loro significato
superficiale vogliono dire tantissime cose.
«Ce ne hai messo di tempo…»
Lei mi sorride.
So che ha capito.
Poi si gira, per l’ultima volta. Quando la vedo entrare nell’appartamento,
lascio andare un lungo respiro che mi svuota il petto.
Torno con lo sguardo al di là della ringhiera e resto per qualche minuto
ad assaporare l’aria fra i capelli.
Poi, all’improvviso, con uno slancio che non mi appartiene, mi alzo
anche io, entro in casa in fretta e furia, mi intrufolo in camera di Gaia, cerco
il suo zaino e dentro ci trovo un pennarello azzurro.
Poi esco di corsa, attraverso il salotto e mi fiondo giù dalle scale,
saltando i gradini due alla volta.
Quando spalanco la porta del palazzo, Beatrice ha appena attraversato la
strada, è di spalle, diretta verso casa.
«Ehi, aspetta!» la chiamo, andandole incontro.
Lei si volta e mi guarda, sorpresa.
«Che ci fai qui?» mi chiede.
Io la raggiungo, sfilo una sigaretta dal pacchetto che ho in tasca e con il
pennarello dalla punta fine ci scrivo sopra, piccolo piccolo, il mio numero
di telefono.
Quando le allungo la sigaretta, Beatrice ha gli occhi che brillano e le
guance un po’ arrossate.
«Questa la fumiamo insieme la prossima volta.»
Lei mi sorride appena e non dice nulla.
In realtà, comunque, non sento il bisogno che dica proprio niente.
«Allora ciao» la saluto, emozionato.
Lei scuote la testa, un po’ impacciata.
È felice, però. Si vede subito.
«Ciao.»
La guardo voltarsi e sparire dietro l’angolo.
Rimango lì fermo per un po’, poi faccio per girarmi e tornare alla festa,
ma mi accorgo di non averne affatto voglia.
Mando un messaggio a Gaia per scusarmi di essere andato via senza
salutare, imbocco via Verdi, supero il sottopassaggio che porta a piazzale
San Severino, attraverso la strada e inizio a costeggiare il fiume.
Il mio sguardo si perde nei riflessi della luce dei lampioni che giocano
con l’acqua e, ascoltando i miei passi sull’asfalto, ho la sensazione, per la
prima volta dopo tantissimo tempo, di andare veramente verso qualcosa.
Io non lo so se mi sono mai innamorato, di sicuro, però, non posso
esserlo ora, perché innamorarsi è una cosa che richiede tempo, io e
Beatrice, invece, di tempo non ne abbiamo avuto.
La sento, però.
Esiste una grande differenza fra amarsi e sentirsi.
Ci si innamora di un ricciolo biondo, dei suoi piedi nudi che zampettano
per casa, di quel sorriso che ti rimette a posto il cuore e anche tutto il resto.
E poi ci si sente: dentro, sulla pelle, ovunque.
Credo che amarsi sia importante, ma il vero miracolo è sentirsi, perché
l’amore magari poi passa, ma quando qualcuno te lo senti dentro, non andrà
mai via per davvero.
Prima di dormire, qualche volta, invece di dire “ti amo”, dite “ti sento” e
sappiate che state dicendo per sempre.

https://www.youtube.com/watch?v=X1fhyntohIQ
9
Ti ricordi come sapevamo brillare, noi?

Elisabetta

«E pensare che prima di venire a vivere qui, un Hugo non l’avevo


neanche mai bevuto. Da noi non esiste. Se un giorno dovessi mai tornare a
vivere a Roma dovrò importarlo…» commento, osservando il liquido
giallognolo che sto sorseggiando da una cannuccia bianca e rossa.
Marianna, la mia migliore amica, mi sorride.
Ha i capelli bruni e lisci fino alle spalle, gli occhi a mandorla, due labbra
e un corpo perfetto, che il vestito bianco e attillato e l’abbronzatura che
ancora si porta dietro dall’estate appena passata mettono in risalto.
«Ti piacerebbe?»
«Tornare a vivere a Roma, dici?»
Marianna si limita ad annuire.
Io scrollo le spalle.
«Fra dieci giorni parto, sai?» mi dice allora lei, dopo aver bevuto un
sorso di prosecco.
«Dove scappi?»
Io e Marianna ci siamo conosciute tantissimi anni fa, quando vivevo a
Trento solamente da qualche mese.
Avevo trovato lavoro come commessa in un negozio in centro, e
Marianna era la mia responsabile.
Siamo diventate inseparabili.
È stata lei il gancio al quale inizialmente mi sono aggrappata con
entrambe le mani per entrare nella mia nuova vita, fatta da una città nuova,
da persone che non conoscevo, da una quotidianità diversissima rispetto a
quella che avevo sempre avuto.
«Vado a New York per due settimane…»
«Da sola?»
«Sì, da sola. Come al solito.»
Sorrido. «Come mai, proprio New York?»
«Non ci vado da molto tempo, saranno almeno quindici anni. Ero stufa di
rimandare…»
«Sei contenta?»
«Sì, tanto.»
Io abbasso lo sguardo. Da quanto tempo non ho l’occasione di fare un
viaggio così? Quanti posti che avrei voluto vedere mi sono persa negli
anni?
Marianna e io siamo quasi coetanee, ma abbiamo fatto scelte di vita
completamente opposte.
Io mi sono fidanzata da giovane, mi sono sposata, ho comprato casa, ho
messo su famiglia.
Marianna, invece, è allergica alle relazioni. Ha sempre frequentazioni di
qualche mese, dopodiché getta la spugna. Possiede quell’indole ribelle che
non ho mai compreso fino in fondo, ma che le ho sempre invidiato un po’.
E poi è bella da togliere il fiato, anche adesso che è diventata una donna
matura: va in palestra tre volte a settimana, ha una passione smisurata per la
moda ed è sempre impeccabile.
«Credo che dovresti farlo anche tu, sai? Ne avresti bisogno,
Elisabetta…» lo dice mentre mi sfiora la mano sopra il tavolino.
Marianna sa tutto della mia crisi con Alessandro e non ha bisogno di
chiedere nulla per interpretare il brevissimo silenzio che è seguito alla
notizia della sua partenza.
«Non è facile, lo sai. I bambini…»
«Ne abbiamo parlato tante volte. Durante la settimana, mentre
Alessandro è via per lavoro, li terrei io. Non sarebbe un problema.»
«Non posso chiederti questo…»
«Non me lo stai chiedendo.»
Rimango in silenzio.
Marianna, invece, prosegue: «È come se avessi sempre avuto paura di
disturbare. Ma con me non ce n’è alcun bisogno. Qualche volta credo che
Virginia e Federico siano uno scudo che usi per difenderti dalle scelte che
non vuoi prendere. Come quella di fare un viaggio da sola. Il problema non
sono Virginia e Federico, il problema è che forse non hai il coraggio di
essere diversa da quella che sei. Oppure hai solo paura di doverlo dire ad
Alessandro…».
Per tutta risposta le stringo la mano e la guardo negli occhi. «Qualche
volta mi domando come fai a essere così con me…» le dico.
«Così come?»
«Presente, comprensiva e anche tutto il resto. Le scelte diverse che
abbiamo fatto nella vita avrebbero potuto allontanarci, e per un periodo ho
davvero avuto paura che potesse accadere. Invece, nonostante a un certo
punto io abbia smesso di uscire e mi sia chiusa in casa a fare la moglie e la
mamma, tu non sei mai andata via. In molti l’avrebbero fatto…»
Marianna sorride scuotendo il capo. «Elisabetta.»
«Sì?»
«Se ci si allontana da un’amicizia a causa di scelte diverse, significa che
quella non è amicizia, ma convenienza. Io credo che in un rapporto sia
molto più importante la complicità nel parlarsi e nello stare insieme,
piuttosto che il fatto di avere gli stessi progetti a tutti i costi. E poi, a dirla
tutta, credo che così ci si arricchisca molto di più.»
Alzo un sopracciglio. «Che cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che un’amicizia deve essere capace anche di farti guardare
le cose in un modo nuovo, e tu lo fai, perché nella vita hai fatto tutto quello
che non ho fatto io. E credo che valga anche il contrario. Non c’è una strada
giusta e una sbagliata».
«Una strada giusta e una sbagliata?»
«Sì, esatto. Sai, ad ascoltare quello che dice la gente c’è un tempo per
tutto: un tempo per stare soli, uno per fidanzarsi e uno per fare una famiglia.
E se non li rispetti, questi tempi, allora ti giudicano, come se fossi in
ritardo. Se ti guardi attorno, facciamo tutti le stesse cose: andiamo all’asilo,
poi a scuola, poi all’università, poi entriamo nel mondo del lavoro. E
quando si entra nel mondo del lavoro bisogna mettere la testa a posto,
fidanzarsi seriamente, poi sposarsi, poi comprare una casa e fare dei figli. E
se a quarant’anni non hai dei figli passi per una che nella vita ha fallito. Ma
perché? Davvero dobbiamo vivere tutti allo stesso modo oppure è tutto
nella nostra testa? Non lo so. So solo che secondo me non è così. Io credo
che non esista un tempo universalmente giusto e che ognuno abbia il suo.
Le cose esatte in fondo sono quelle che ci rendono esattamente quello che
siamo.»
Marianna mi guarda negli occhi e fa una piccola pausa.
«In fondo, è anche per questo che io e te continuiamo a piacerci così
tanto, lo sai? Nonostante tutto, credo che entrambe siamo state coraggiose,
perché non abbiamo avuto paura di vivere la vita che desideravamo.
Sembra scontato, ma non lo è. In fondo, credo che tu sia nata per fare
proprio quello che fai, e che io sia nata per fare proprio quello che faccio.»
Le sorrido in un modo tutto mio, che nasconde gratitudine e un po’ di
imbarazzo.
«Qualche volta vorrei esserne così sicura anche io…» le rispondo in un
sussurro, quasi come se non volessi pronunciare quelle parole a voce troppo
alta.
Marianna non dice nulla, ma il suo sguardo mi invita a proseguire.
«Ci sono giorni in cui mi sembra davvero di aver lottato anni per una vita
che invece non è quella che avevo immaginato…»
«Io non credo che tu debba pentirti delle scelte che hai fatto, perché se
hai preso una determinata decisione significa che eri convinta che fosse
quella giusta. Ho vissuto la tua storia con Alessandro fin dall’inizio, e ti
giuro che non ho mai visto due persone farsi così bene. Nonostante tutto, io
continuo a credere in voi…»
«Sai cosa vorrei?»
«Che cosa?»
«Vorrei poter riavvolgere la nostra storia e cancellare tutte le delusioni, le
incomprensioni, i momenti in cui ci siamo feriti e quelli in cui ci siamo
sentiti lontani. Vorrei una gomma per cancellare tutti gli sbagli che abbiamo
fatto. E poi vorrei un po’ di colla per mettere insieme tutto quello che resta.
Non sai quanto mi piacerebbe che fosse possibile incollare di nuovo le parti
più belle di noi e vederle brillare ancora. Ti ricordi come sapevamo brillare,
io e lui?»
Marianna annuisce lentamente. «Sì, me lo ricordo…»
Finisco di sorseggiare l’Hugo in silenzio.
«Hai voglia di fare una passeggiata?» le chiedo d’un tratto, qualche
minuto più tardi.
Marianna salta su, come se non vedesse l’ora.
Ci alziamo, passiamo veloci dalla cassa, lei insiste per offrirmi da bere,
poi usciamo fuori e imbocchiamo via Mazzini, che collega il Duomo con
piazza Fiera e che d’inverno si popola di bancarelle dove bere vin brûlé e
mangiare caldarroste.
«Posso farti una domanda?» le chiedo, mentre passeggiamo.
«Certo…»
«Non hai mai sentito il bisogno di avere qualcuno accanto?»
Marianna si prende qualche secondo per rispondere. «Qualche volta sì,
credo che sia normale. È solo che io non sono fatta per stare in due, e
quando succede ho la sensazione che quello non sia il mio posto. Ma questo
non significa che qualche volta non mi senta stanca di essere da sola, o che
non ci siano giorni in cui mentre rientro dal negozio non mi venga da
pensare che, in fondo, non sarebbe poi così male, avere qualcuno a casa ad
aspettarmi…»
«Qualche volta ti invidio, lo sai?» le dico allora, nascondendomi in tasca
le mani.
«Che cosa invidi, della vita che ho?»
«La leggerezza…»
«La leggerezza?»
«Sì. Qualche volta mi manca la serenità di svegliarmi al mattino e di
poter pensare prima a me, e poi agli altri. Mi manca andare da qualche parte
senza dover avvertire qualcuno, tornare a casa a notte fonda, andare a una
festa. Non me la ricordo nemmeno l’ultima volta che sono andata a una
festa, sai? Vorrei avere il tempo per andare a prendere il sole, per leggere
senza che mi si chiudano gli occhi dalla stanchezza, per andare in palestra.
Qualche volta guardo il mio corpo, e lo vedo piano piano perdere quella
giovinezza che una volta davo per scontata, e vorrei fare qualcosa per
tenermi in forma. Ma ho così tanto da fare che proprio non ce la faccio.»
Marianna mi guarda. «Ecco perché non sono mai stata capace di avere
una storia lunga. Però, a ben guardare tu hai creato qualcosa di bello, che io
probabilmente non avrò mai…»
«Ma tu non lo hai mai desiderato.»
«Sì, è vero, qualche volta però mi sento sola.»
Ho sempre visto Marianna così sicura di sé e delle sue scelte da sembrare
invincibile. Adesso, invece, probabilmente per la prima volta, ho la
sensazione di avere di fronte una donna sì forte, ma anche molto fragile.
Una donna diversa da me, eppure così uguale.
Gli occhi leggermente lucidi di Marianna mi lasciano senza parole per un
po’.
«Sai che cosa penso?» mi domanda lei, a un certo punto.
«Che cosa?»
«Penso che a ben guardare la vita sia solo un grandissimo compromesso,
in cui la coperta finisce per essere sempre un po’ troppo corta. Guardaci. In
fondo, entrambe abbiamo la vita che desideravamo da ragazze, ma questo
non ci impedisce di guardare con desiderio alle briciole del mondo
dell’altra. La verità è che non si può avere tutto. E che per una parte di noi
che si realizza ce ne sarà sempre una che dovremo chiudere in un cassetto.»
L’ascolto senza interromperla, perché non mi era mai capitato di vederla
mettersi così a nudo. Mi sembra quasi che abbia buttato giù tutti i suoi muri.
«Forse il segreto è riuscire a godere appieno di ciò che si ha, e dare
sempre più valore alla vita che abbiamo costruito rispetto a quella che
abbiamo lasciato indietro.»
Continuiamo a passeggiare e a rimanere in silenzio.
Mezz’ora più tardi, ritorniamo verso piazzale San Severino, dove
entrambe abbiamo lasciato l’auto.
Prima di salutarci ci fermiamo per un attimo e ci guardiamo negli occhi
con un’intensità diversa dal solito, come se ci stessimo accarezzando in
silenzio, poi ci abbracciamo.

Marianna ha sempre avuto il potere, con le sue parole, di rimettere


insieme i pezzi della mia vita quando la vedo sbriciolarsi fra le mie dita.
Anche se ci siamo costruite intorno dei mondi molto diversi, mi ha
sempre aiutato a non uscire di strada, e io ho fatto lo stesso con lei.
Eppure, stasera, mentre rientro a casa, mi sento più confusa che mai.
Aspetto Virginia e Federico, preparo loro la merenda, li aiuto a fare i
compiti, li riprendo quando si mettono a bisticciare, apparecchio la tavola
per cena, li faccio lavare, mi arrabbio perché Virginia la tira per le lunghe,
mi arrabbio perché Federico la imita, mangiamo insieme, poi ci sediamo
tutti sul divano a guardare la TV e Virginia si addormenta sulla mia spalla, le
manine strette intorno al mio braccio.
Con le dita le accarezzo piano i capelli biondi, senza svegliarla.
Anche Federico comincia a faticare a tenere gli occhi aperti, così li
accompagno in stanza, e do loro la buonanotte.
Una volta fuori dalla loro camera da letto, rimango qualche minuto a
sbirciare dalla porta semiaperta, poi scivolo in cucina, il volto nascosto tra
le mani.
Mi sento stanca e infelice come non mai, e ho trascorso queste ore a
prendermi cura dei miei figli lottando con la tentazione di cedere alle
lacrime, perché quando li guardo mi rendo conto di amarli così tanto da non
riuscire a far stare tutto il mio amore dentro il mio cuore stanco, e perché
vorrei riuscire a essere sempre divertente e bella come meriterebbero che
fossi.
Sfinita dalla lotta contro il caos che mi si agita dentro, mi alzo, stappo
una bottiglia di vino rosso e mi verso un bicchiere, poi due, poi tre. Alla
fine, un po’ brilla, vado a sedermi sul divano con il computer sulle gambe,
creo un nuovo indirizzo mail con un nome inventato e faccio una cosa che
non avrei dovuto fare, e che cambierà tutto per sempre.
@leparoledimarco
Ti auguro qualcuno che non ti dia mai per scontata,
ma che dopo tanti anni sappia ancora meravigliarsi del tuo
amore.
Qualcuno che abbia amato anche altre donne, prima,
perché vuol dire che poi, alla fine, ha scelto te.
E ti sceglie ancora.
Nonostante tutto.
10
► [Enrico Nigiotti, L’amore è]

Lorenzo

Sono trascorsi quindici giorni dall’attimo in cui finalmente i miei occhi e


quelli di Beatrice si sono incontrati la prima volta: cinque giorni da quella
chiacchierata seduti per terra sulla terrazza di Gaia, quindici giorni dalla
mia corsa lungo le scale per raggiungere Beatrice e darle una sigaretta con il
mio numero di telefono.
Da allora non faccio che stare con lo sguardo incollato allo schermo,
nella speranza di ricevere un suo messaggio.
Invece i giorni scorrono, e mi viene un po’ di timore che quel messaggio
non arriverà mai.
Il tempo corre via così veloce che neanche me ne accorgo, e lo riempio
con persone che hanno voglia di starmi accanto, con qualche festa a casa di
Gaia, con serate trascorse a non pensare a mamma nella stanza accanto e a
fingere di non sentire papà rientrare tardi e nascondersi sotto la doccia per
lavarsi via l’amore di un’altra donna, con notti a imbracciare la chitarra e
giornate scolastiche sempre tutte uguali.
Sono seduto con le gambe distese sotto al banco, non ho ascoltato
nemmeno una parola di quello che Elisabetta, la mia insegnante di italiano,
sta spiegando riguardo ai Malavoglia di Giovanni Verga e tengo gli occhi
fissi sul telefonino, ben nascosto nell’astuccio di fianco al mio quaderno,
quando, all’improvviso, lo schermo si accende.
Il messaggio, però, è di Celeste, e dice solo: “Vieni al quarto piano”.
Alzo un sopracciglio e digito: “Non posso… sono in classe…”.
Qualche secondo più tardi lo schermo si illumina di nuovo.
“Ti prego…”
A questo punto mi preoccupo un po’, così alzo la mano, chiedo di uscire
un attimo e corro di sopra.
Il corridoio del quarto piano è deserto.
“Sono qui, tu dove sei?”
Celeste mi risponde immediatamente.
“Nel bagno delle ragazze. Tranquillo, non c’è nessuno.”
Percorro confuso il corridoio e la raggiungo.
Ho l’impressione che non sia nemmeno qui, poi, però, sento dei leggeri
singhiozzi provenire da dietro una delle porte.
«Celeste…» sussurro, allora.
«Lorenzo, sei tu?»
«Sì, sono io. Cosa succede?»
«Vieni dentro?»
Mi avvicino e lentamente, con il palmo della mano, spingo la porta verso
l’interno.
Trovo Celeste seduta per terra con gli occhi gonfi che si abbraccia le
ginocchia.
«Mi dici che c’è che non va?»
Celeste non mi risponde e continua a singhiozzare.
Mi siedo al suo fianco e le appoggio delicatamente una mano sulla spalla.
«Si tratta di Gabriele?» le domando.
Celeste inizia a piangere più forte.
La guardo, le sposto le mani dal viso e con le dita le asciugo le lacrime.
«Ehi, calmati» le dico con dolcezza. «Hai voglia di raccontarmi cosa è
successo?»
Piano piano lei riesce a calmare i singhiozzi e a recuperare un respiro più
regolare.
D’un tratto, con gli occhi lucidi, mi dice: «Sai, Lorenzo, non è facile
essere come me…».
Rimango zitto per un momento, poi le domando: «Perché dici così?».
Celeste si asciuga gli occhi con le maniche della maglia, poi,
mordicchiandosi il labbro e con la voce ancora tremante, mi risponde:
«Perché io sono brutta».
Sento il cuore sprofondarmi nello stomaco e mi sforzo di trattenere a mia
volta le lacrime.
«Tu non sei brutta, Ce…»
«Lorenzo, ti prego. Non ho bisogno di sentirmi dire bugie» mi
interrompe bruscamente lei, stringendomi le mani e guardandomi con una
sincerità spiazzante, che non avevo colto mai nei suoi occhi.
Apro la bocca, la chiudo, la riapro.
Alla fine la richiudo.
Celeste sorride appena. Non è un sorriso ironico, ma il sorriso di chi sa
che ho capito e ne è felice.
«So che cosa vuoi dirmi…» aggiunge allora.
«Che cosa?»
«Vuoi dirmi che ho tante altre qualità: vuoi dirmi che sono spiritosa,
ironica e intelligente. Vuoi dirmi che sono anni luce avanti a quelle ragazze
meravigliose, quelle con le curve nei punti giusti, quelle con cui quando ci
parli, però, ti accorgi che non hanno poi nulla di interessante da dire. Vuoi
dirmi che invece con me si può parlare di tutto, che annoiarsi non è
possibile, che come ridi con me non ridi con nessun altro al mondo. E mi fa
piacere, lo sai? Davvero. Però sai che c’è? Che la verità è un’altra. La verità
è che a diciott’anni a nessuna ragazza interessa davvero essere intelligente,
simpatica e interessante. A diciott’anni vuoi essere bella…»
Rimango immobile a guardarla negli occhi, e all’improvviso mi sento
piccolissimo.
Vorrei dirle mille cose ma in realtà non me ne viene in mente proprio
nessuna.
«Tu, tu non sei così…» continua lei.
«Cosa vuoi dire?» le domando.
«Voglio dire che tu sei bello, Lorenzo. Sei bello. Parli pochissimo e le
ragazze ti notano lo stesso. Hai quel fascino del ragazzo misterioso che fa
andare fuori di testa. Sei fortunato. Davvero. Non sai quanto. Non potrai
mai sapere cosa significa sentirsi trasparenti, cercare di farsi belle allo
specchio eppure sentirsi sempre meno delle amiche che hai accanto, vederle
sognare e ridere e parlare delle loro storie, e cercare di sorridere sempre
anche tu, ma solo per non dare a vedere quanto male senti dentro.» Celeste
fa una piccola pausa. «A volte cerco di non pensarci, sai? Altre me ne frego.
Alcuni giorni, però, è davvero difficile. Arrivare a diciott’anni e non aver
ancora vissuto certe cose ti fa sentire sbagliata. Sai che cosa mi chiedo
spesso?»
Scuoto la testa. «No, che cosa?»
«Mi chiedo com’è quando ti piace un ragazzo e tu piaci a lui, o come ci si
sente a guardarsi allo specchio e piacersi, o passeggiare nei corridoi della
scuola e sapere di essere guardata. A volte, invece, mi domando cosa si
prova ad avere la fortuna di essere nate perfette, e sentirsi dire “Sei
bellissima” all’orecchio, o avere il telefono sempre zeppo di messaggi, e
poter baciare il ragazzo che hai desiderato tanto. Mi chiedo cosa si prova a
camminare mano nella mano, qual è l’emozione che si prova a fare l’amore.
Io non ho mai nemmeno baciato nessuno…»
Continuo a guardarla senza dire niente.
Non sono mai stato un ragazzo pieno di parole, ma nei momenti come
questo da qualche parte sono sempre riuscito a trovarle.
Adesso, invece, seduto in questo bagno, mi sembra proprio di non averne
più.
«Il problema non è che durante la ricreazione ho scoperto Gabriele a
baciare una ragazza della classe accanto. Sì, mi ha fatto male, ma non è
questo. Dico davvero. È che ho paura. Ho paura che sarà sempre così.
Quante volte mi capiterà di essere innamorata di un ragazzo e di non avere
il coraggio di dirglielo solo perché sono consapevole che non mi
guarderebbe mai? Quante volte dovrò restare seduta in un angolo a
osservare l’uomo che vorrei essere felice con un’altra donna?»
A queste parole, la voce di Celeste inizia a incrinarsi nuovamente, e la
vedo stringere le mani a pugno.
Io rimango con lo sguardo perso a fissare le sue mani.
«Io credo tante cose, ma non credo che sarà questa la tua vita…» le dico
dopo un po’.
Celeste chiude gli occhi e getta la testa all’indietro.
«E che cosa credi, quindi?» mi domanda. «Ti prego, Lorenzo, dimmelo.
Ne ho bisogno.»
«Credo che avrai le attenzioni che meriti, credo che ci saranno giorni in
cui ti riprenderai tutti i sorrisi che ti sono mancati e in cui avrai anche tu
una mano da stringere, ma soprattutto una mano che stringerà la tua. Avrai
sguardi rubati di nascosto, e un magone nello stomaco per l’emozione
quando scoprirai che anche lui ti osserva allo stesso modo, e ti sentirai bella
e speciale da non crederci, e finalmente potrai smettere di avere paura. Sai
che cosa penso? Penso che, in fondo, non è poi così importante quanto
tempo impieghiamo a trovare l’incastro su misura per noi. L’importante è
che calzi alla perfezione. Ecco, io se penso a te fra alcuni anni, ti vedo così.
E credo che se ora chiudi gli occhi, anche tu riuscirai a vedere tutto quello
che vedo io.»
Celeste stringe le palpebre delicatamente, e piano vedo spuntare un
sorriso sul suo viso.
Vedere quello sprazzo di serenità illuminarle le guance mi regala
un’emozione senza tempo.
Quando li riapre, scopro nei suoi occhi la voglia di abbracciarmi e un po’
di timore di farlo.
Lo faccio io, allora, e mentre la stringo sento i suoi muscoli sciogliersi.
Dopo un po’ ci stacchiamo l’uno dall’altra e restiamo a guardarci.
«Che ne dici di scappare?» chiedo all’improvviso.
«Scappare?»
«Sì, andiamo via. Saltiamo le ultime due ore di lezione e ci nascondiamo
in un parco a prendere il sole, ti va?»
«Ma sei matto? E se ci scoprono?»
«Certo che ci scoprono. E allora?»
«Sei completamente fuori di testa, tu…»
Alzo le spalle. «Allora, ci stai?»
«Sì, ci sto.»

Trascorriamo ciò che resta della mattinata passeggiando per le vie della
città. A un certo punto imbocchiamo un sentiero di sassi che entra nel bosco
e risale la collina per sbucare in un prato di cui non si vede la fine. Una
volta seduti là, in mezzo al verde, osservo la tristezza andare via dagli occhi
di Celeste e la semplicità con cui le sue dita giocano con i fili d’erba mentre
finalmente ride di nuovo per davvero.
Torniamo indietro con le guance arrossate dal sole, e decido di
accompagnarla a prendere l’autobus che la riporterà a casa.
Abbiamo lasciato tutte le nostre cose a scuola, ma non ci importa niente.
«Ti voglio bene, Lorenzo…» mi dice lei, prima di andare via.
Io la guardo senza dire niente. Lei sa che vuol dire “anche io”.

Trascorro il pomeriggio chiuso in camera mia, a fingere di studiare


qualcosa con i libri aperti sulla scrivania ma in realtà cercando di imparare a
suonare una nuova canzone con la chitarra. Papà è al lavoro e mamma in
camera sua.
Ogni tanto esce in soggiorno solamente per bere qualcosa, poi si richiude
in stanza assieme ai suoi mostri, esattamente come, in fondo, faccio io.
Dopo cena suono qualcosa, guardo un programma stupido alla
televisione, cerco di leggere un libro ma non ci riesco.
Verso mezzanotte, quando sto per spegnere la luce, mentre sono seduto
sul letto con le gambe sotto le lenzuola e le spalle appoggiate alla testiera
del letto, mi arriva un messaggio.
Ho un piccolo sussulto, come succede tutte le volte che vedo illuminarsi
lo schermo del cellulare, perché s’intrufola dentro di me la piccola speranza
che sia Beatrice.
Quando prendo in mano il telefonino, invece, scopro che è ancora
Celeste.
“Grazie” c’è scritto.
Sorrido impercettibilmente. “E per che cosa?”
“Perché sei stato ad ascoltarmi in silenzio. Forse cercavi le parole giuste,
ma la verità è che non ne avevo bisogno. Perché a volte non ci serve
qualcuno che ci dica ciò che vogliamo sentirci dire. A volte ci serve solo
qualcuno che se ne stia seduto ad ascoltarci. Grazie perché mi sono sentita
compresa. E dimmi se anche tu a volte non vorresti solamente questo…”
Rimango un attimo a riflettere, poi le rispondo soltanto: “Non sai quanto.
Anzi, forse sì”.
“Buonanotte, Lorenzo.”
“Buonanotte.”
Appoggio il cellulare sul comodino, spengo la luce, poi la riaccendo e
afferro di nuovo il cellulare.
“Celeste…”
Lei mi risponde poco dopo: “Sì?”.
“Innamorati di te e della tua immagine allo specchio, innamorati delle tue
curve e delle imperfezioni del tuo corpo, della cellulite, dei fianchi un po’
troppo larghi, di quelle labbra che vorresti un po’ più rosse. Innamorati dei
tuoi occhi, del profilo del tuo sorriso, della forma delle tue mani. Innamorati
delle tue paure, delle ansie, dei magoni che ti vengono all’improvviso.
Delle insicurezze, dei controsensi e dei fantasmi che ti porti dentro.
Innamorati di questo. Innamorati di te.”
Sorrido nella penombra, appoggio di nuovo il cellulare sul comodino,
spengo la luce e mi infilo sotto le lenzuola.
Sto per addormentarmi, quando il telefono s’illumina di nuovo.
Sospiro, allungo una mano.
Il messaggio, però, arriva da un numero che non conosco.
Alzo un sopracciglio, apro WhatsApp e sbircio l’immagine del profilo.
Riconoscerei quegli occhi anche fra mille.
“Scendi?”
11
Non accontentatevi di chi vi dice “sono innamorato
di te”

Elisabetta

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 23 settembre, ore 00.22
Ciao Marco,
balli mai quando la musica non c’è?

Sono rimasta sveglia quasi tutta la notte, spesso con il volto fra le mani,
assieme alla bottiglia di vino ormai vuota appoggiata vicino al computer, a
rileggere e rileggere la domanda che ho inviato in un momento di fulminea
follia.
Quando ero ragazza ballavo spesso senza musica, chiusa nel buio della
mia stanza. L’ho fatto anche con Alessandro, qualche volta: la prima notte
al mare, la sera in cui ci siamo sposati, quando siamo diventati genitori. Era
diventato un modo tutto nostro per dirci quanto eravamo felici.
Da quanto tempo non ballo senza musica con Alessandro? Da quanto
tempo non ballo senza musica chiusa nel buio della mia stanza?
Marco probabilmente non leggerà mai questa domanda, e dunque non mi
risponderà mai, ma nel semplice fatto di avergliela posta ho colto un pizzico
di infedeltà verso mio marito, che mi ha reso irrequieta, perché non sono
mai stata così.
In questi mesi, quando arriva la notte e posso prendermi una pausa dal
ruolo di mamma, ho cominciato a rifugiarmi tra le parole di uno
sconosciuto che scrive su un blog scoperto per caso. Parole che parlano alle
donne, parole in cui ritrovo briciole di me sparpagliate qua e là, parole che
mi fanno sentire compresa, al sicuro.
Dopo aver inviato la mail, mi sono addormentata per svegliarmi qualche
ora più tardi con un mal di testa lancinante. L’orologio sulla parete segna le
sette meno dieci.
Mi alzo, vado in bagno e apro il rubinetto del lavandino per nascondere
ai bambini il rumore del mio pianto improvviso.
Mi ci aggrappo con entrambe le mani per non accasciarmi e gli occhi si
posano sul mio riflesso nello specchio, il riflesso di una donna che faccio
fatica a riconoscere nei suoi lineamenti e nell’azzardo che ha fatto poche
ora fa.
Non ho inviato quella mail perché sento il bisogno di tradire mio marito,
ma perché ho bisogno di sentirmi ascoltata.
La verità è che l’ultima volta che io e Alessandro abbiamo fatto l’amore
mi sono sentita come non mi sentivo da troppo tempo, e ho sperato che tutto
ciò bastasse per lasciarci finalmente ogni cosa alle spalle e ricominciare a
essere felici anche noi, tornando al punto esatto in cui avevamo smesso di
esserlo.
Invece non è stato così: durante una crisi capitano piccoli attimi in cui ci
si sente di nuovo improvvisamente uniti, ma poi scappano via.
Io penso che la vera vittoria di un uomo sia fare in modo che la donna
che ama si veda bella proprio come la vede lui.
E io non mi sento bella da troppo tempo.
Scivolo fuori dal bagno dopo una mezz’oretta, truccata con cura per
nascondere gli occhi arrossati e stanchi, e vado a svegliare Virginia e
Federico.
Ancora oggi, dopo tanti anni, entrare nella loro camera da letto e vederli
uscire piano dal sonno mi commuove.
Preparo la colazione, battibecchiamo un po’ perché non vogliono andare
in bagno a lavarsi i denti e a pettinarsi, e saluto Federico con un bacio sulla
fronte prima che esca per andare a prendere lo scuolabus. Virginia, invece,
che è più piccola, l’accompagno ancora io a scuola.
«Mamma…» mi dice, poco dopo, in auto.
«Dimmi, amore.»
«Oggi non ho tanta voglia di andare a scuola.»
«Come mai?»
«Ieri ho litigato con Simone.»
«E chi è Simone?»
«Il mio fidanzato» mi risponde con noncuranza, come se fosse la cosa più
normale del mondo.
Io la guardo con curiosità, nascondendo un sorriso. «Amore, non mi
avevi mai detto di avere un fidanzato.»
«L’abbiamo deciso l’altro giorno, ma ieri si è arrabbiato perché gli ho
preso una macchinina con cui giocava.»
Le passo una mano fra i capelli. «Stai tranquilla, vedrai che farete pace.
Anzi, sai una cosa? Sono sicura che quando arriveremo sarà lì ad aspettarti
e non sarà più arrabbiato.»
Virginia mi guarda dubbiosa. «Mamma, sai che fra poco è Natale?»
«Be’, non proprio. Comunque, cosa vorresti ti portasse Babbo Natale?»
«Non lo so ancora. Però sai che sono ricca?»
«Sei ricca? Davvero?»
«Sì, guarda.» Si infila una mano in tasca e tira fuori venti centesimi.
«L’ho trovata ieri per terra, fuori da scuola. Questi sono tanti soldi, vero?»
«Be’, sì, per una bambina di cinque anni sono tanti soldi» rispondo, con
una risata.
«Voglio regalarteli.»
«E perché mai? Li hai trovati. Sono tuoi.»
«No, vorrei che li prendessi tu.» Mentre lo dice allunga la manina e mi
poggia la moneta sulla gamba.
«Va bene amore, ma perché?»
«È una cosa che mi hai detto una volta.»
Alzo un sopracciglio. «Cosa ti ho detto?»
Virginia mi risponde con una semplicità e con un’innocenza che mi
lasciano senza parole. «Hai detto che la felicità non è avere, ma dare agli
altri.»
La guardo e rimango in silenzio. Non so cosa rispondere. Sono
commossa.
Io mi concentro sulla guida e lei si concentra sulla strada che scorre fuori
dal finestrino.
Rimaniamo così per un po’, mentre il traffico comincia ad aumentare.
«Vedrai che tu e Simone oggi farete pace» le dico qualche minuto più
tardi, mentre entro nel parcheggio della scuola. «Fai la brava, mi
raccomando.»
«Sì, mamma, me lo dici sempre.»
«Perché voglio essere sicura che mi ascolti.»
Virginia apre lo sportello e si allunga verso di me. «Non mi dai un
bacio?»
Rido. «Certo, amore.» Le sfioro la fronte con le labbra, poi la guardo
allontanarsi verso la scuola.
Un bimbo le corre incontro. «Virginia… Virginia…Virginia!»
Si guardano un po’ impacciati, poi si prendono per mano come fanno i
bimbi, entrano insieme nell’atrio e spariscono in mezzo al mucchio di
compagni di classe.
Rientrata a casa, decido di sfruttare il mio giorno libero per fare le
faccende domestiche. Non sono una maniaca della pulizia, tutt’altro, di
solito preferisco sfruttare il tempo per altro.
Qualche volta però mi piace: tirare a lucido la casa è un po’ come tirare a
lucido me stessa.
Mentre svuoto uno scaffale ricolmo di libri e inizio a spolverare, ripenso
allo sguardo pieno d’innocente affetto con cui Simone è corso incontro a
Virginia.
A volte li prendiamo in giro, i bambini, sottovalutiamo l’intensità delle
loro prime emozioni, la paura di non riuscire a risolvere i loro piccoli litigi
che sembrano catastrofi, le ingenue incomprensioni di quell’età. A pensarci
su, però, quante volte succede, crescendo, di incastrarsi in piccole
discussioni di poco conto e finire per non parlarsi più? Quanti litigi si
possono evitare con un pizzico di voglia in più di fare un passo verso
l’altro? E quante volte l’orgoglio ha la meglio e ci si rifiuta di ammettere
uno sbaglio?
Forse è per questo che quella scena mi ha colpito così tanto: ho visto
Simone correre incontro a Virginia, così impacciato, e poi quelle manine
che si sono incastrate senza bisogno di chiedersi scusa, e ho pensato a
quanto mi piacerebbe sentire i passi di Alessandro entrare in soggiorno, e
poi lui che, senza dire niente, mi afferra la mano. Quanto vorrei che
bastasse stringersi le dita per far sparire tutto ciò che ci tiene lontani.
Mi manca fare pace come fanno i bambini.
Mi manca ricordarmi come ci si prende cura l’uno dell’altro.
Perché siamo abituati a pensare che il segreto sia innamorarsi, e poi
riuscire a innamorarsi ancora, tutti i giorni.
Ma non è così, a volte non basta.
Tutti sono capaci di innamorarsi, eppure innamorarsi non ha nulla a che
vedere con l’amore.
Amore significa prendersi cura, e prendersi cura significa esserci.
Innamorarsi è qualcosa che capita in maniera spontanea, a prendersi cura
di qualcuno invece bisogna imparare, e ci vogliono fatica e impegno,
privandoci noi stessi di certe piccole attenzioni per dedicarle a chi abbiamo
accanto.
Prendersi cura vuol dire sforzarsi di capire i silenzi dell’altro, vuol dire
vederlo rientrare stanco dal lavoro e fargli trovare la tavola apparecchiata
anche se tu avresti mangiato sul divano, portargli il caffè a letto, vuol dire
gioire dei suoi successi anche se hai paura che possano allontanarlo da te.
A volte sentiamo il cuore battere a mille, ma non siamo capaci di capire
bisogni, esigenze, debolezze, punti di forza, difese, insicurezze, fragilità,
lati nascosti dell’altro.
Non accontentatevi di chi vi dice “sono innamorato di te”, cercate la
meraviglia di chi ha voglia di dirvi “mi prendo io cura di te”.

Il giorno in cui ho fatto un passo al di fuori dei confini del mio


matrimonio e ho scritto a un altro uomo per ricevere un briciolo
dell’attenzione di cui avevo nostalgia era un martedì di una settimana come
tutte le altre, una settimana in cui Alessandro mi aveva salutata il lunedì
notte ed era partito per la solita settimana di lavoro.
Ho trascorso il tempo che mi separava dal suo ritorno a sfilare
continuamente il cellulare dalla tasca e a soffocare una fitta di delusione
ogni volta che non trovavo una risposta al mio messaggio.
Quando Alessandro è tornato e Virginia e Federico gli sono corsi
incontro, il venerdì sera successivo, per la prima volta in vita mia, assorta
com’ero nei miei pensieri, non ho sentito la voglia di alzare lo sguardo per
incontrare il suo.
L’ho fatto lo stesso, però, mi sono avvicinata e, mentre i bambini lo
stavano ancora abbracciando, l’ho fatto anche io.
A vederci lì così, tutti e quattro, apparentemente felici, ho lottato con
tutte le mie forze per ingoiare la bolla di lacrime che mi solleticava gli
occhi.

Quella sera, dopo aver messo i bambini a letto, Alessandro è scivolato


silenziosamente in bagno per farsi una doccia.
Io, invece, sono rimasta seduta sul divano con lo sguardo perso ad
ascoltare il rumore dell’acqua scrosciargli sulle spalle.
In passato spesso succedeva che in un momento così io mi spogliassi e lo
raggiungessi, sentendomi sua ancor prima di avere le sue mani addosso. Ma
ormai non capita più da tanto, troppo tempo.
Esce, va in camera a infilarsi qualcosa, e mi raggiunge in soggiorno
mentre si passa un asciugamano sui capelli.
«Com’è andata la settimana?» gli domando.
«Particolarmente faticosa. Non mi sono fermato un momento. Qui,
invece?»
Mi limito ad alzare le spalle. «Virginia si è fidanzata con Simone.»
Alessandro ride. «Chi è Simone?»
«Un suo compagno di scuola. Quando me l’ha detto sono rimasta a
fissarla sbalordita per un attimo. È incredibile come anche i bambini
provino le stesse cose che proviamo noi. Quando diventi grande te ne
dimentichi…»
Alessandro finisce di asciugarsi i capelli e si siede lì accanto a me, senza
commentare.
In questi giorni, forse anche a causa di quel messaggio scritto così
impulsivamente, si è fatto spazio in me un pensiero che non sono riuscita a
scrollarmi di dosso.
«Senti…» inizio.
«Dimmi…»
«Che cosa ne pensi di andare via qualche giorno insieme? Solamente noi
però, senza i bambini.»
Un leggero stupore si disegna sul volto di mio marito. «Via?»
«Sì, non lontano a tutti i costi. Ma via. Da quanto non lo facciamo? Sono
anni che ci vediamo solamente nel weekend, stanchi e sommersi dagli
impegni e dai lavori di casa. Forse abbiamo solo bisogno di un momento
nostro. Non lo so. Magari già il prossimo fine settimana…»
Alessandro rimane un attimo a rifletterci, immerso in un silenzio che non
riesco a decifrare.
«Il prossimo fine settimana ho promesso a Riccardo che lo avrei aiutato
con il trasloco. Sai, lui e sua moglie stanno cambiando casa e tutto il resto»
dice dopo un po’.
Riccardo è uno di quegli amici che Alessandro si porta dietro da tutta la
vita, quasi come un fratello.
«Allora la settimana dopo…»
«Sì, solo che la settimana dopo mi hanno fissato una riunione aziendale
straordinaria. Stiamo lanciando un nuovo farmaco per…»
«Va bene, non preoccuparti. Ho sbagliato a chiedertelo…» lo interrompo.
Alessandro sposta lo sguardo su di me. «Perché devi fare così adesso?
Non è che non voglio. È lavoro.»
«Sì, lo so. È sempre stato il lavoro» replico in tono gelido. Solo per fargli
male.
«Che cosa stai insinuando? Se abbiamo quello che abbiamo è grazie al
mio lavoro…»
Faccio un sorriso amaro. «Dimenticavo, il mio invece non ha mai contato
niente per te…»
«Elisabetta, non volevo…»
«Sì. Volevi. E sai che c’è? Il problema non è un fine settimana fuori. Il
problema è che forse stiamo davvero arrivando al capolinea…»
A quelle parole Alessandro ha una reazione che non mi aspettavo:
comincia a piangere come se avessi schiacciato un pulsante e d’un tratto
fosse esploso anche lui.
Piange immobile, con le braccia distese lungo i fianchi, senza singhiozzi.
Non l’ho mai visto così, sembra quasi troppo debole per lottare contro
l’infelicità che ci ha inghiottiti, e mi fa davvero uno strano effetto.
Nonostante questo, però, faccio una cosa che fino a qualche mese fa non
avrei mai avuto il cuore di fare: lo lascio lì in soggiorno da solo, assieme al
suo magone e tutto il resto, scivolo in camera da letto e mi chiudo la porta
alle spalle.
Non so per quanto tempo rimango così, immobile nel buio, rannicchiata
su un fianco ad ascoltare il pianto ovattato di mio marito.
Alessandro entra nella stanza solo molto più tardi, si infila sotto le
coperte e si fa piccolo sul lato opposto del letto.
Solamente a questo punto riesco finalmente a prendere sonno, perché,
nonostante tutto, ho sempre avuto bisogno di lui accanto per sentirmi
tranquilla.
Mi sveglio qualche ora più tardi per andare in bagno e sento il respiro
regolare di Alessandro che dorme accanto a me.
Mi allungo per sbirciare l’ora sul cellulare e, non appena si illumina lo
schermo, per un momento sento l’aria mancarmi nei polmoni.
Eccola lì, in alto a sinistra, l’icona di una mail ancora da leggere nella
posta in arrivo.
Il cuore inizia a tamburellarmi nel petto, e automaticamente mi giro verso
Alessandro per assicurarmi che dorma.
Mi alzo in silenzio, corro in bagno e, finalmente, con i battiti a mille e le
dita tremanti, trovo il coraggio di aprire il programma di posta elettronica.
@leparoledimarco
E parlami dei tuoi sbagli,
perché è di questo che sei fatta:
di quei piccoli errori che ti hanno fatta uscire di strada
perché la tua vita era diventata troppo scivolosa.
Parlami del bacio che hai dato senza amore,
e dell’addio che hai detto a chi amavi sul serio,
di quando hai tradito la fiducia di qualcuno
e di quando hai detto ti amo senza pensarlo.
E parlami dei tuoi sogni irrealizzati,
della tua vita così diversa da come la desideravi,
di quell’uomo che ti ha fatto smettere
di credere nell’amore.
Quanti desideri hai chiuso nel cassetto?
Quanti desideri hai scordato di coccolare?
Quante volte ti sei accontentata di un mezzo sorriso?
Parlami delle tue piccole infelicità,
quelle che odi così tanto eppure difendi
quasi come se gli volessi bene.
12
► [Emanuele Aloia, Il bacio di Klimt]

Lorenzo

Ci metto qualche secondo a rendermi davvero conto di che cosa stia a


significare quel messaggio e anche quando, dopo qualche attimo, sento lo
stupore sopirsi un momento, rimango inchiodato al letto per un po’, con il
cellulare in mano e una locomotiva al posto del cuore.
Sento un piccolo brivido dietro la nuca a immaginare Beatrice lì sotto,
appena fuori dalla palazzina grazie alla quale siamo arrivati l’uno nella vita
dell’altra, inaspettata come è sempre stata con me.
Resto qualche secondo a fissare il cellulare, poi scendo dal letto nella
penombra, mi infilo una maglietta al volo e finalmente ho il coraggio di
sporgermi dalla finestra per guardare in basso.
Beatrice è proprio lì, indossa una felpa bordeaux e un paio di jeans.
La finestra non impedisce ai nostri occhi di sfiorarsi e nemmeno alle
nostre labbra di sorridersi quando ci riconosciamo.
Lì, fermo davanti alla finestra, con lo sguardo esattamente dove vorrei
che fosse, ancora con il telefono in mano, le scrivo un altro messaggio.
“Sei pazza, cosa ci fai qui?”
Immediatamente, diversi piani più in basso, la vedo guardare lo schermo
del cellulare e muovere velocemente le dita per scrivere qualcosa.
Un attimo dopo, il mio vibra.
“Abbiamo una sigaretta in sospeso, o sbaglio?”
Non riesco a trattenere una risata.
“Dammi dieci minuti. Arrivo.”
“Ti aspetto.”
Continuo a guardarla mentre si sistema la felpa e si va a sedere sul
muretto, poi, senza fare rumore, frugo nell’armadio, indosso la prima cosa
che mi capita sottomano, corro in bagno e mi passo una mano fra i capelli
per sistemarli un po’.
Attraverso il soggiorno a piedi scalzi e con il passo lungo, come se stessi
camminando in un campo minato.
Se papà si sveglia e mi becca a uscire a quest’ora chi lo sente.
Raggiungo l’uscio con il cuore in gola, apro la porta, me la richiudo alle
spalle, indosso le All Star bianche di tutti i giorni e mi fiondo giù per le
scale.
Beatrice mi aspetta ancora seduta sul muretto, intenta a cercare qualcosa
nello zaino, e non si accorge di me che la raggiungo. Ha i capelli raccolti in
una coda alta che le lascia scoperto il collo, e mi sembra più bella che mai.
Quando finalmente mi fermo davanti a lei e sente i miei occhi addosso,
alza i suoi e nell’aria si forma una lieve nuvola di imbarazzo.
Ma non è quell’imbarazzo di due persone che non sanno cosa dirsi, è
quell’imbarazzo di chi ha già voglia di dirsi tutto quanto, quell’imbarazzo
fatto del piccolo nodo allo stomaco di quando arrivi in un posto dal quale
capisci subito che sarà difficile andare via.
«Ciao» mi dice lei, emozionata.
«Ciao» le rispondo, rendendomi conto all’improvviso che mi manca un
po’ il fiato.
Ci guardiamo per un momento, poi le faccio un cenno con il capo.
«Andiamo via di qua. Se i miei mi vedono succede un putiferio.»
Lei sorride e si alza.
«Vieni, ti faccio vedere una cosa» mi dice.
La seguo a passo svelto mentre attraversa di corsa il buio del parco.
«Dove andiamo?» le chiedo.
«Non è niente di speciale. È solo un posto che ho scoperto quando vivevo
qui.»
Quando usciamo dal parco, Beatrice finalmente rallenta e inizia a
costeggiare il fiume. Poco più in là s’infila in una strettissima crepa nel
muretto alto circa mezzo metro che separa il marciapiede dai pendii che
digradano verso l’acqua e comincia a scendere.
Un po’ più avanti nell’oscurità compare una piccola grotta naturale,
profonda circa un metro, formata da due grandi massi che poggiano uno
contro l’altro, e Beatrice si ferma proprio lì, si china appena e si siede in
mezzo all’erba.
«Vieni, siediti. So che non è un granché, ma c’è il rumore dell’acqua e la
luce dei lampioni che si riflette sulla superficie, e sembra che qui il mondo
non possa raggiungerci.»
«Come hai trovato questo posto?» le chiedo, mentre mi abbasso sulle
ginocchia e mi siedo lì con lei.
Beatrice scrolla distrattamente le spalle mentre s’infila la sigaretta,
proprio quella sigaretta, fra le labbra.
«Una sera come tante altre, mentre stavo cercando qualcos’altro» mi
risponde, prendendo l’accendino dalla tasca. «A te capita mai?»
«Che cosa?»
«Di cercare qualcosa e trovare qualcos’altro…»
«Qualche volta sì. E anche di non trovare niente quando cerco qualcosa.
O di trovare qualcosa quando forse non sto cercando niente.»
Termino quest’ultima frase con la tentazione di aggiungere “come te”,
ma non lo faccio.
Anche io mi accendo una sigaretta.
Beatrice sorride appena. «Tu lo sai che cosa stai cercando?»
La guardo incuriosito, e ci penso un attimo. «Forse sì, è solo che non so
se ho il coraggio di arrivare fino a lì. E tu?»
Beatrice non risponde, piuttosto mi domanda: «Tu ce l’hai un sogno,
Lorenzo?».
«Sì, ce l’ho. Però non l’ho mai detto a voce alta…»
Ho la sensazione che vorrebbe chiedermi dell’altro, ma forse si trattiene.
«Da quando sei andata via dalla palazzina, sei più tornata qui?» le chiedo
allora io, di fronte al suo silenzio.
«Proprio qui no, mai. Però qualche volta, quando di notte, prima di
tornare a casa dopo una serata con i miei amici, prendevo la macchina,
venivo sotto casa tua, spegnevo il motore e, immersa nel silenzio, cercavo
di percepire anche solo una nota che provenisse dal tuo balcone.»
Parla guardando il fiume, Beatrice.
Io invece guardo lei.
«E ci sei riuscita?»
«No, mai. Ma in realtà l’ho sempre saputo che a te piace cantare
sottovoce. Comunque, non importava che sentissi la tua voce, perché
nell’aria ti sentivo lo stesso. E allora stavo lì alcuni minuti e sapevo che tu
eri lì da qualche parte, poco lontano da me. E stavo bene. E, in fondo,
questo mi bastava…»
Vorrei chiederle se le bastava davvero, oppure se si sia mai spinta a
immaginarsi sul balcone insieme a me, anziché limitarsi a pensarci vicini
ma lontani.
Invece resto a guardarla di nascosto, mascherando la mia curiosità dietro
a un’espressione di sorpresa.
Rimaniamo qualche minuto in silenzio, quanto basta per scoprire che con
lei sto bene anche così, poi a un certo punto inizia a cadere pioggia a
secchiate, talmente tanta che il nostro piccolo riparo non è sufficiente per
evitare di bagnarci.
Senza dire niente Beatrice sfila dallo zaino una piccola coperta, mi passa
una mano dietro la spalla e copre la testa di entrambi.
«La porto quasi sempre con me…» mi spiega, non appena incrocia i miei
occhi stupiti e curiosi. «Solo che mi sa che piove troppo, ho i piedi già
zuppi…»
Non le rispondo, ma penso che in realtà è tutto misteriosamente
affascinante: scappare di casa a notte fonda, trovarla lì ad aspettarmi,
attraversare il parco, rifugiarsi in una grotta di sassi sulle sponde del fiume,
il cielo che decide di piovere, coprirsi alla meno peggio con una coperta
minuscola.
«Perché sorridi?» mi domanda lei d’un tratto.
La guardo un attimo, poi scuoto la testa. «Niente di importante…»
Beatrice mi scruta dubbiosa, ma non insiste.
«Ti piace la pioggia?» le domando allora, mentre torno con gli occhi
verso il cielo.
«Sì, ma solo prima di andare a dormire.»
«Prima di andare a dormire?»
«Esatto. La mia camera da letto è in mansarda, e quando piove e mi infilo
sotto le coperte il rumore dell’acqua sembra raccontarmi una storia.»
La guardo e sorrido.
«A te piace la pioggia?» mi chiede lei.
«Vieni con me» le dico, senza rispondere alla sua domanda.
«Dove andiamo?»
«Voglio farti vedere un posto io, ora. Hai voglia?»
Lei mi guarda con quei suoi occhi grandi. «Sì, ne ho voglia. Ma come
facciamo? Piove troppo…»
«Corriamo.»
«Stai scherzando?»
«No» e mi butto sotto l’acqua. Sento Beatrice inseguirmi. Il suo «Ehi,
aspettami!» si confonde con il rumore dei tuoni, dei nostri passi e della
pioggia che scroscia come un fiume in piena.
E con le nostre risate.
Già, con le nostre risate.
Soprattutto con quelle.
Quando imbocchiamo la stradina sterrata che attraversa il parco sotto
casa abbiamo i vestiti già zuppi e, una volta raggiunto l’uscio della
palazzina che ci ha fatti conoscere, ci fermiamo un po’ a ripararci sotto il
cornicione.
«Come diavolo ti è saltato in mente?» Beatrice finge di essere arrabbiata
ma, in realtà, sta ridendo come una matta.
Io mi limito ad alzare le spalle. La maglietta è così bagnata che mi si è
incollata al corpo.
Poi, d’un tratto, come se avesse avuto un’intuizione improvvisa, lei mi
domanda: «Casa tua? Mi hai detto che se i tuoi ti avessero visto sarebbe
stata una tragedia, e poi mi porti a casa tua?».
«Sì, vieni. Saliamo» le rispondo divertito, mentre apro il portone.
Beatrice se lo richiude alle spalle e mi segue in ascensore, visibilmente
nervosa.
«Non preoccuparti, non andiamo a casa mia…»
Lei inarca un sopracciglio. «Siamo già a casa tua.»
«Sì, in un certo senso hai ragione.»
Quando finalmente l’ascensore arriva a destinazione, ci ritroviamo in un
lungo corridoio buio.
«Ma dove siamo?» mi domanda Beatrice. «Non sono mai stata qui…»
«Questo è l’ultimo piano. Non ci viene mai nessuno. Seguimi, la luce non
funziona.»
Giungiamo davanti a una vecchia porta.
«Dove stiamo andando?»
Io non rispondo, prendo una chiave che nascondo sotto lo zerbino, la
infilo e faccio scattare la serratura.
Veniamo avvolti da un’oscurità quasi totale e rimaniamo qualche secondo
fermi ad aspettare che i nostri occhi si abituino a tutto quel buio.
Poi, piano piano, ogni cosa inizia a prendere forma.
Quando la vedo schiudere le labbra per lo stupore, sorrido; un po’ perché
mi ricorda la sua espressione la prima volta che ci siamo visti a casa di
Gaia, quando ho iniziato a suonare quella che a tutti gli effetti ormai è la
nostra canzone, un po’ perché anche io mi stupisco sempre quando entro
qui dentro.
Questa è una di quelle soffitte di una volta, sepolte nella polvere e
illuminate solo dalla fioca luce che filtra dalle piccole fessure nelle pareti.
Quando sono venuto a vivere in questa palazzina e sono salito quassù, c’era
di tutto: bauli, materassi, coperte abbandonate.
Per tantissimi mesi non ci ho mai messo piede, poi, invece, dopo la morte
di Niccolò, è diventato il posto in cui vengo a rifugiarmi quando ho bisogno
di stare solo.
Per questo, nei mesi, ci ho portato di tutto: coperte, cuscini, candele che
ho sparso qua e là, una chitarra vecchissima che non usavo più ma che ho
riscoperto fra queste mura, un piccolo armadio che ho trovato in una
discarica qualche anno fa, un mucchio di libri che ho impilato in un angolo,
qualche foglio da usare per appuntare pensieri improvvisi.
«Aspetta un secondo qui» le dico, sfilando l’accendino dalla tasca e
accendendo le candele per fare un po’ più di luce.
Poi mi avvicino all’armadio, lo apro e mi ci tuffo dentro.
Riemergo con una maglietta nera davvero enorme e la lancio a Beatrice.
«Tieni, ti starà grande, ma almeno è asciutta. Non preoccuparti, non
guardo!»
Mi squadra dubbiosa. «Non guardi?»
«Promesso.»
Le volto le spalle e mi copro gli occhi con le mani. «Dimmi tu quando
hai fatto…»
Sento i vestiti bagnati che finiscono per terra e il fruscio della maglietta
asciutta mentre la indossa.
«Pronta» mi dice.
«Ora tocca a te voltarti, però.»
Sorride nella penombra, poi si gira e si porta le mani sugli occhi. «Forza,
fai in fretta.»
Come se avessi voglia di perdere tempo. Indosso una maglietta e dei
pantaloncini corti e asciutti.
«Questo posto è meraviglioso Lorenzo, dico davvero. Ma hai fatto tutto
tu?» mi domanda Beatrice poco dopo, quando cominciamo a sentirci a
nostro agio a lume di candela.
«Sì, tutto. Ci passo parecchio tempo, qui. Nell’appartamento di sotto ci
sono anche mamma e papà, quindi praticamente è casa loro. Questa, invece,
è un po’ come se fosse casa mia.»
Lei mi guarda con l’espressione di chi capisce quello che voglio dire.
«A me piace proprio tanto casa tua…» ride, mi supera e si guarda attorno
ancora un po’.
Alla fine si lascia cadere sulle coperte e si sistema con la schiena sui
cuscini, per trovare una posizione comoda.
Accoccolata lì così, naturale e senza filtri, con una maglietta quattro volte
più grande di lei, con le gambe nude e incrociate e i piedi scalzi sembra
quasi un quadro.
«Cosa fai, non vieni?» mi domanda.
13
Mi manca sentirmi desiderata

Elisabetta

Da: Marco 230790


A: Sofia81
Data: 27 settembre, ore 14.13
Ciao Sofia, non l’ho mai fatto, sai?

Una mail brevissima che leggo nascosta come un ladro nel bagno di casa
mia, con il cuore a mille.
Rimango immobile nel buio per qualche minuto, quanto basta perché
riprenda un ritmo regolare, poi, senza rispondere, torno silenziosamente in
camera da letto, mi fermo un po’ ad ascoltare il respiro regolare di
Alessandro, poso il cellulare sul comodino, mi infilo sotto le coperte e
crollo in un sonno profondo.
Quando riapro gli occhi, molte ore più tardi, è un sabato mattina come
tanti altri, il sole filtra debole dalla finestra e attraverso la parete sento
Alessandro preparare la colazione a Virginia e Federico che giocano e
urlano già di prima mattina.
Resto qualche minuto a rigirarmi e stirarmi sotto le coperte, poi li
raggiungo in cucina.
«Ciao mamma, papà sta preparando i pancake!» Virginia è seduta per
terra e ha un sorriso enorme sulla faccia.
Federico, invece, è in piedi accanto ad Alessandro e lo osserva con
attenzione muoversi fra i fornelli.
Lo saluto spettinandogli i capelli.
Alessandro mi rivolge un sorriso veloce e affettuoso. Siamo sempre stati
molto bravi a seppellire le nostre liti davanti ai bambini.
Scivolo in soggiorno e comincio a preparare la tavola.
«Non preoccuparti, faccio io…» la voce di Alessandro mi raggiunge
dalla cucina.
«Figurati, mi fa piacere dare una mano…»
«Posso aiutarti, mamma?» Virginia mi raggiunge correndo.
«Certo, amore! Prendi i tovaglioli…»
Sembra una di quelle mattine di molto tempo fa, quando io e mio marito
non avevamo bisogno di fingere la felicità che Virginia e Federico
meritavano.
«Oggi pensavo di portare i ragazzi a fare un giro in montagna. Hai voglia
di unirti a noi?» mi chiede Alessandro una decina di minuti più tardi,
raggiungendoci in soggiorno e appoggiando sul tavolo un vassoio stracolmo
di pancake e crema al cioccolato.
Gli rivolgo un’occhiata fugace. «Mi piacerebbe, ma purtroppo ho una
pila infinita di compiti da correggere per lunedì mattina. Voi andate pure,
però. Mi sembra una bellissima idea…»
«Non puoi proprio venire, mamma?» mi domanda Federico, mentre si
mette a sedere. «È tantissimo tempo che non passiamo una giornata tutti e
quattro assieme.»
Le sue parole mi instillano un vago senso di colpa. «Lo so, hai ragione.
Ma oggi non posso per davvero. Però recuperiamo. Te lo prometto.»
«Davvero ce lo prometti, mamma?» anche Virginia sembra davvero
dispiaciuta.
«Sì, amore, te lo prometto.»
Mi accomodo anche io e inizio a mangiucchiare, lo sguardo quasi sempre
fisso sulla tazza di latte di fronte a me e l’accenno di un sorriso quando mi
accorgo che Virginia ha già tutto il musetto sporco di cioccolato.
Dopo colazione Alessandro spedisce i bambini a prepararsi, e io e lui
restiamo soli, alle due estremità del tavolo del soggiorno.
«Lo so che quella dei compiti è una scusa…» mi dice, dopo essersi
assicurato che Virginia e Federico non possano sentirci.
«Sì, so che lo sai…»
«Ai bambini avrebbe fatto piacere se fossi venuta con noi…»
«Per trascorrere veramente una giornata serena non hanno bisogno di
stare in compagnia di due persone che non stanno bene l’una in compagnia
dell’altra.»
Pronuncio queste parole lentamente, perché voglio che arrivino ad
Alessandro con la stessa forza con cui feriscono me.
Lo guardo negli occhi. Avrei tante cose da dirgli, ma resto in silenzio, poi
mi alzo e comincio a sparecchiare.
Quando, un paio d’ore più tardi, marito e figli si chiudono la porta di casa
alle spalle, faccio un lungo respiro, uno di quelli che svuota il petto, vado
nuovamente in camera da letto, mi infilo sotto le lenzuola con la schiena
appoggiata alla testiera, afferro il cellulare dal comodino e me lo rigiro
qualche minuto fra le dita.
Poi, apro nuovamente il programma di posta elettronica e rileggo la mail
che Marco mi ha inviato durante la notte.
Non sono riuscita a togliermela dalla testa per tutta la mattina, nemmeno
quando parlavo con Alessandro, soprattutto quando parlavo con i miei figli.
Una piccola parte di me non vedeva l’ora che uscissero solo per poter
rispondere con tutta calma.
Rimango per un po’ immobile, lo sguardo fisso sul telefono e l’incertezza
nelle dita, poi mi decido.
Poche parole digitate di fretta, giusto per levarmi di dosso il senso di
colpa per ciò che sto facendo.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 11.44
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta?

Appoggio il cellulare di fianco a me, prendo in mano un romanzo che ho


iniziato a leggere qualche giorno fa.
Ogni tanto, fra una riga e l’altra, faccio una piccola pausa e sbircio lo
schermo del telefono nella speranza di vederlo illuminarsi all’improvviso.
La risposta di Marco arriva verso l’ora di pranzo, quando ho appena
deciso di mettere in pausa la lettura.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 13.05
Prima che tu venga al mondo, di Massimo Gramellini.
È uno dei miei libri preferiti.

Sgrano gli occhi per la sorpresa.


“Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta?”
è una citazione tratta proprio da quel libro lì.
Che Marco l’abbia riconosciuta mi ha regalato un piccolo sussulto nel
petto.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 13.08
Un bravo scrittore è sempre anche un attento lettore.
Avrei dovuto immaginarlo.

Rimango ad aspettare per un po’ la risposta di Marco sotto le coperte. Poi


torno in soggiorno, apro il frigorifero e mi metto a tagliuzzare qualche
pomodoro.
La sua risposta mi arriva mezz’ora più tardi, mentre sono seduta sul
divano a mangiucchiare distrattamente il mio pranzo.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 13.45
Mi leggi, qualche volta?

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 13.47
Ti leggo sempre di notte.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 13.48
Ti piace?

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 13.50
Mi tranquillizza.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 13.51
Chi sei tu?

Una domanda breve ma piena di sottintesi, che interrompe all’improvviso


quel botta e risposta e mi fa tornare alla mente quando, tanti anni fa, a
ventitré minuti a mezzanotte, un messaggio molto simile a questo ha
cambiato la mia vita per sempre.
Per una frazione di secondo, il pensiero mi fa un po’ di paura.
Fortunatamente sono sempre stata brava a evitare le domande scomode.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 14.04
Ho una proposta da farti…

La risposta di Marco, questa volta, arriva a pomeriggio inoltrato, quando


comincio a pensare che, forse, si tirerà indietro.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 18.00
Quale proposta?

Rimango immobile per qualche istante, nel bel mezzo della cucina, in
preda all’incertezza di fare un passo verso un posto dal quale forse non sarò
più capace di tornare indietro.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 18.27
Lasciamo da parte le nostre vite. Magari questo sarà solo uno scambio di
mail che durerà lo spazio di un sabato pomeriggio, o forse capiterà di
risentirci. Chissà, per commentare un libro, oppure perché troverò qualcosa
di assolutamente ridicolo in quello che scrivi e dovrò dirtelo a tutti i costi.
Potremo parlare di tutto, ma di noi no.
Ci stai?

La verità è che mi manca proprio, un posto così.


Un posto che non esiste ma dentro il quale posso tirare giù le serrande
della mia vita e restare in compagnia solo dei miei pensieri.
Mi manca un posto in cui rifugiarmi e premere il tasto stop quando ho
bisogno di qualche minuto di vacanza.
Da quanto tempo non riesco a chiudere gli occhi e scordare ciò che mi sta
attorno? Da quanto tempo non ho un posto in cui essere me stessa?
Potrei chiedere a Marco di dov’è, che cosa fa nella vita e se è felice, ma
la verità è che non ho voglia di saperlo.
Non voglio conoscere, voglio solo fantasticare.
Ho voglia di leggerezza, di spensieratezza, di nascondermi senza
raccontarmi, della possibilità di fare qualsiasi domanda.
Mentre sprofondo in questi pensieri, il cellulare s’illumina e la scritta
“Alessandro ti sta chiamando” mi riporta improvvisamente alla realtà.
Rispondo con il cuore che batte all’impazzata, come se fossi stata colta in
flagrante a fare chissà che cosa.
«Ciao!»
Al telefono non c’è Alessandro, ma Virginia.
«Come stai, mamma?» in sottofondo, sento Federico scherzare felice con
mio marito.
«Bene amore, e tu?»
«Bene, qui è bellissimo! Ci stiamo divertendo un sacco. Hai corretto i
compiti?»
Dover mentire così a Virginia mi fa davvero male. «Sì, amore, ho quasi
finito. Voi, invece, dove siete stati?»
Sorrido, perché la sento chiederlo ad Alessandro sottovoce.
«A Nosellari e al lago di Lavarone. Ci sei mai venuta?»
«Papà mi ci ha portato poco dopo che ci siamo conosciuti. E poi ci siamo
tornati qualche volta. È davvero un posto magnifico.»
«Sì, davvero!»
«Comunque, mamma, papà mi ha detto di chiamarti per dirti che fra un
pochino partiamo per tornare.»
«Va bene, amore. Io vi aspetto.»
«Va bene, mamma! Ti voglio bene…»
«Anche io!»
«Ciao.»
«Ciao.»
Quando riattacco ho un nodo alla gola che non riesco a cacciare via. Poi,
improvvisamente, in preda ai sensi di colpa, metto via il cellulare senza
aprire la notifica della nuova mail di Marco, che ha appena cominciato a
lampeggiare sullo schermo.

https://www.youtube.com/watch?v=-8uxWdjzqWs
@leparoledimarco
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14
► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 1]

Lorenzo

Beatrice sembra completamente a suo agio, seduta qui a piedi scalzi nella
mia soffitta.
«In effetti» le dico, mentre mi sistemo sui cuscini accanto a lei «gli unici
momenti in cui mi sentivo a casa per davvero, nell’appartamento qui sotto,
sono stati quelli in cui stavo sul balcone insieme alla tua voce. Altrimenti,
se avevo voglia di sentirmi a casa mia, sono sempre venuto qui.»
«L’hai mai raccontato a nessuno, di noi due?»
«No, mai, e tu?»
«No, nemmeno io. Avrebbe perso tutta la sua magia. E sicuramente non
mi avrebbero capito.»
«Tanto poi, alla fine, di solito le cose più importanti basta saperle in due,
giusto?»
Beatrice fa un sorriso luminoso. «Giusto.»
Quando parlo con lei è come se ci scambiassimo molte più parole di
quelle che pronunciamo davvero, come se Beatrice e io possedessimo il
dono di interpretare i nostri silenzi. «Casa tua, invece, com’è?» le chiedo
d’un tratto, curioso.
Mi affascina il pensiero di chiudere gli occhi quando non è qui con me e
di poterla immaginare da qualche parte.
«Parli di quella vera, oppure vuoi sapere se ho un posto dove vado a
nascondermi quando ho bisogno di allontanarmi da tutto?»
Ci penso un attimo. «La casa vera…» rispondo alla fine. Poco dopo
aggiungo: «Nel tuo posto, invece, potresti portarmici la prossima volta.
Sempre che tu ne abbia un altro oltre a quella specie di grotta vicino al
fiume».
«Ci sarà una prossima volta?» si limita a chiedermi.
«Tu lo vuoi?»
«Sì. E tu?»
«Anche io.»
Abbassa leggermente lo sguardo, forse per nascondere un filo
d’imbarazzo, che però a me sembra una delle cose più belle di lei.
«Casa mia è grande, forse fin troppo. È raffinata ed elegante, con un
grande giardino verde, ed è ricolma di oggetti, ma sempre perfettamente in
ordine. Me la invidiano tutti, lo sai? E in effetti non me ne stupisco, è la
casa dei sogni.»
Sorrido, chiudendo gli occhi e cercando di immaginare la casa di
Beatrice. Tra le sue parole, però, mi sembra di cogliere una sottile infelicità,
una nota di tristezza, e non riesco a capire cos’altro.
«Perché lo dici così?» le domando allora.
«Così come?»
«Come se non fosse la casa che tu sogni…»
Si mordicchia il labbro inferiore. «È che le case sono fatte da chi ci vive
dentro…»
Vorrei dirle che non può immaginare quanto la capisco.
«Non vai d’accordo con la tua famiglia?»
«No, non è questo.»
«E che cos’è, allora?»
«Mi vergogno un po’ a dirlo…»
«Qui ci siamo solo noi. Puoi dire tutto.»
Beatrice mi guarda negli occhi, un “lo so” silenzioso, e a me viene da
pensare che è bellissimo quando fai capire a qualcuno che può fidarsi di te,
e ti rendi conto che lui si fida per davvero.
«Sono cresciuta in una famiglia benestante, anzi, potrei dire ricca. Una
famiglia che non mi ha mai fatto mancare nulla e in cui qualsiasi cosa
desiderassi avrei potuto averla. Sono stata viziata fin da piccola con
vestitini nuovi e montagne di giochi, e sono cresciuta dentro una bolla in
cui tutto è perfetto, anche i miei genitori e l’amore che li ha sempre uniti, e
mia sorella, che ora vive fuori e che qualche volta mi manca tanto. È solo
che sono sempre stata abituata a ricevere più regali che carezze, vestiti e
giochi più che piccole attenzioni. Ed è andata sempre così.» Beatrice fa una
piccola pausa, poi aggiunge, a voce bassa: «Questo, però, alla mia famiglia
non l’ho mai detto…».
I miei occhi sono rimasti tutto il tempo fissi sulle sue dita, catturati dal
modo in cui usa le mani per accompagnarmi nel suo mondo.
«Non ti senti libera di farlo?» le domando allora.
«Mamma è la classica donna perfetta, solo che è una persona molto
fredda, con cui ho sempre fatto fatica a entrare in empatia per davvero.
Quando chiacchieriamo sto sempre attenta a dire le cose nel modo giusto.
Non abbiamo mai avuto un rapporto fatto di confidenze e consigli, anche
perché non è abituata a chiedere. Così, almeno in famiglia, mi tengo sempre
tutto dentro e cerco di cavarmela da sola.»
Ascolto Beatrice con attenzione, senza interromperla, fissando il suo
profilo nella penombra.
«E tuo padre?»
Lei rimane un attimo in silenzio.
«A casa con noi vive Antonio, il suo compagno. Papà invece non c’è
più…» mi risponde.
«Io… mi dispiace, non lo sapevo…» mi affretto a scusarmi.
Lei sorride e, di sbieco, mi guarda con dolcezza. «Non preoccuparti. È
successo già da un po’ e ora siamo tornati felici. È la nostra vittoria più
grande. Anche se è stata davvero dura…»
«Hai voglia di raccontarmelo?» la mia voce è insicura, timorosa di essere
invadente.
«È iniziato molto tempo fa. Papà aveva un linfonodo ingrossato in gola, e
al mattino, quando tossiva, usciva un pizzico di sangue. Sono stati mesi di
preoccupazione e continue visite in ospedale. Poi, alla fine, qualche giorno
prima di Natale, è arrivato l’esito degli esami.» Beatrice non accenna a
interrompersi. «Papà è morto a casa, nel suo letto, fra le persone che amava.
Quando è successo ero seduta sul divano a guardare Shutter Island insieme
a Lucrezia, la mia migliore amica, che era venuta a trovarmi per non
lasciarmi sola, perché sapevamo che sarebbe successo…»
Parla senza incertezze e con una serenità che le invidio. Nei suoi gesti e
nelle espressioni del suo volto non leggo tristezza, quella ormai è andata
via. C’è nostalgia, piuttosto.
«Di che cosa si occupava tuo padre?» le chiedo dopo un po’.
«Papà era un pianista, infatti la sua mancanza ho cominciato a sentirla
quando la domenica mattina non mi svegliavo più con le sue note che
accarezzavano le mura di casa, quando la stanza in cui c’era il suo piano è
diventata la camera degli ospiti, quando tutto è diventato più silenzioso.
Forse è anche questo che inizialmente mi ha colpito di te, come se avessi
colto in te la stessa musica che si nascondeva nelle dita di papà.»
Di fronte a quest’affermazione così spudorata e innocente allo stesso
tempo, non riesco a non sorridere.
«Sai…» prosegue lei, «c’è una cosa che non ho mai raccontato a
nessuno.»
«Che cosa?»
«Qualche giorno prima di andare via, quando ormai non aveva quasi più
forze a causa della malattia, papà si è chiuso in stanza a tentare di suonare,
nonostante tutto. Mi ha chiamato e, quando l’ho raggiunto, mi ha chiesto di
chiudere la porta. Allora mi sono seduta di fianco a lui, mentre suonava e
cantava Amore bello di Claudio Baglioni, e mi sono asciugata una lacrima
senza farmi vedere. Poi, di nascosto, ho sfilato il cellulare dai jeans e l’ho
registrato, perché sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo
sentivo suonare. È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita,
sai? E una parte di me resterà per sempre seduta lì, insieme al suo profumo,
alla sua voce, e alle sue mani stanche e fragili, ma sempre capaci. Ogni
tanto, quando mi viene voglia di cedere un po’ alla nostalgia, lo riascolto,
chiudo gli occhi e per un attimo mi sembra di averlo ancora qui con me.»
«Ti manca molto?» le domando.
Beatrice alza le spalle. «Qualche volta sì, è normale. Soprattutto quando
mi succede qualcosa di bello, che avrei voglia di raccontargli, e invece non
posso farlo. Con lui ho sempre avuto un rapporto più profondo che con
mamma.»
«E con il suo nuovo compagno, invece?»
«Con lui vado d’accordo, ma finisce lì. A dire il vero non sono ancora
riuscita a inquadrarlo bene. Ma sono felice che mamma abbia trovato un
uomo che sappia renderla di nuovo felice. Non avrei mai voluto vederla
invecchiare da sola.»
Beatrice stringe leggermente gli occhi quando vuole sottolineare
un’affermazione importante.
«Mi piace il modo che hai di raccontare, lo sai?» le dico.
«A me piace il modo che hai di ascoltare, e il modo che hai di fare
domande.»
Rimango in silenzio.
«E tu, invece?» mi chiede lei.
«Io cosa?»
«Vai d’accordo con la tua famiglia?»
Non so se è per via del mio silenzio improvviso, del fatto che allontano
impercettibilmente il corpo dal suo, o della strana espressione sul viso che
non riesco a nascondere, ma nello sguardo di Beatrice appare subito un
lampo di senso di colpa e fra noi cala un breve silenzio carico d’imbarazzo.
«Ti chiedo scusa…» sussurra lei, dopo un po’. «Forse sono stata troppo
invadente.»
Scuoto leggermente il capo. «No, figurati. Non più di quanto io lo sia
stato poco fa, almeno. È solo che non sono così bravo a parlarne, a
differenza di te. La verità è che forse non l’ho mai fatto.»
Beatrice mi guarda dritto negli occhi. «Ci siamo solo noi qui. Puoi dire
quello che vuoi, prometto che non lo racconterò a nessuno.»
Beatrice sa strapparmi un sorriso anche in un momento così. E quindi
inizio a raccontarle dei tanti trasferimenti, degli addii che mi porto dentro,
di mamma, di papà e di quell’altra donna che si è messa fra di loro. Non le
racconto, però, di Niccolò. Veramente vorrei, ma non mi vengono le parole.
Ho scoperto che Beatrice è una di quelle persone che quando parli non
t’interrompono, e che non ti forzano a dire più di quello che vuoi.
Alla fine, e lo apprezzo tanto, non mi abbraccia e non mi dice nessuna
frase di circostanza. Però mi chiede: «Ti fanno paura ancora adesso tutte le
partenze che hai dovuto vivere?».
«Ci sono addii che non si possono dimenticare. Comunque, se mi guardo
indietro, voglio bene ai momenti che ho vissuto, anche a quelli che mi
hanno fatto male, perché a ben guardare mi hanno fatto diventare quello che
sono…»
«E chi sei?»
«Sono uno a cui non piace stare al centro dell’attenzione, uno che
preferisce restare in disparte. Si imparano tantissime cose tirandosi fuori
dalla scena e osservandola da un altro punto di vista, sai? Soprattutto,
quando fai un passo indietro, o un passo avanti, ti rendi conto di chi ha
voglia di venire con te, e chi invece no. Tu, invece, come sei?»
«Qualche volta vorrei saperlo anche io. Spesso non mi capisco. Ho la
tendenza ad allontanare le persone che mi fanno bene perché ho paura che
un giorno possano farmi tanto male. È successo anche con te, quando,
l’anno scorso, ti ho dato un appuntamento al quale non sono mai venuta…»
«Allora non è vero quello che mi hai detto alla festa, che non era il
momento giusto. Hai fatto un passo indietro perché hai avuto paura…»
«Sì. Ho avuto paura. Mi capita tante volte. È giusto che tu lo sappia.
Sono bravissima a scappare dalle persone a cui tengo. Poi, però, quando le
vedo allontanarsi cerco di raggiungerle.» Fa una piccola pausa. «È per
questo che stanotte sono venuta sotto casa tua. Per raggiungerti.»

Io e Beatrice rimaniamo seduti in mansarda a parlare fino all’alba, e


scopro tanti piccoli dettagli di lei apparentemente insignificanti, ma
secondo me bellissimi.
Beatrice è una ragazza normale, ed è proprio questo che la rende
straordinaria ai miei occhi. È una persona che tende a pensare poco al
futuro e molto all’adesso, che da grande s’immagina alle prese con una
famiglia numerosa e che in questi anni è stata delusa, ma che nonostante
tutto non ha smesso di credere alle cose belle.
È una ragazza tradita che però non tradirebbe mai, che non cerca un
ragazzo bello, ma uno che sia curioso, simpatico, sincero. Soprattutto
sincero. Un ragazzo che la lasci libera e un ragazzo da lasciare libero.
Le piacerebbe vivere a Bologna un giorno, perché è una città giovane e
con la mente aperta, oppure a Milano, perché dice che lì pare di essere al
centro del mondo. E poi ho scoperto che è orgogliosa, razionale e lucida, e
che ama il colore della sabbia perché sta bene su tutto, e perché dove finisce
la spiaggia comincia il mare.
Ho scoperto che è una ragazza sensibile ma tutti dicono di no, che le
piacerebbe essere impulsiva ma che in realtà proprio non le riesce e che è
felice, anche se si porta dentro un pizzico di malinconia.
E poi, ho scoperto che è proprio vero quello che le avevo detto
scherzando quel giorno, dal mio balcone.
Beatrice ama il mare d’inverno.
Quando ci salutiamo, ora che è quasi mattina, la guardo scendere le scale
in silenzio, e mi viene da pensare una cosa che non scorderò mai.
Mi viene da pensare che dovrebbe essere proprio così l’amore: dovrebbe
far venire voglia di uscire a qualsiasi orario, di saltare fuori dal letto per
attraversare di corsa il giardino, di infrangere le regole e fare notte fonda in
una soffitta impolverata, con tutto il mondo fuori da quelle quattro mura,
ma soprattutto con tutto quel mondo dentro; un mondo molto più piccolo
ma in realtà molto più grande.
Poco dopo, quando m’infilo sotto le coperte, sorrido dentro il cuscino
pensando che Beatrice, senza saperlo, ha fatto tutto ciò in cui ho sempre
creduto.
Perché l’importante non è avere accanto qualcuno quando glielo chiedi,
qualcuno che ti ascolti quando parli, qualcuno che ti risponda quando
chiami. Il segreto è avere accanto qualcuno che sia lì con te anche se non
glielo hai chiesto, qualcuno che non ascolti solo le tue parole ma soprattutto
i tuoi silenzi, qualcuno che non aspetti la tua chiamata, qualcuno disposto
ad alzare per primo il telefono.
E a ben guardare, Beatrice ha fatto esattamente questo. Il suo “Scendi?”
di qualche ora fa era un modo per dirmi sottovoce: “Lo so, non me lo hai
chiesto, ma sono qui”.
Che poi è proprio questo l’amore, esserci quando il resto del mondo
invece non c’è.
15
In amore non ci dovremmo mai trovare nella
situazione di dover essere forti da soli, ma di esserlo
sempre in due

Elisabetta

La sera, quando vedo Virginia, Federico e Alessandro rientrare a casa con


quel sorriso lì, fatico davvero per riuscire a guardarli negli occhi.
Più tardi, mentre ce ne stiamo sdraiati a letto con la luce spenta, dentro
un buio così fitto in cui non riesco nemmeno a vedere il suo profilo,
Alessandro mi fa una domanda che non mi aspettavo.
«È la prima volta che ti senti così?»
Io rimango in silenzio per qualche secondo.
«Così come?» gli chiedo, dopo un po’.
In realtà so benissimo a cosa si riferisce.
«È la prima volta che ti senti sola, anche se sei insieme a me?»
La sua voce è pura e sincera, proprio come quel giorno, dopo aver fatto
l’amore, e subito ho la sensazione che il muro fra di noi si stia sgretolando
un po’.
Alessandro ha sempre avuto modi tutti suoi per fare un passo verso di
me.
«Mi è successo i primi anni, dopo la nascita di Virginia e Federico…»
Di fronte a quest’affermazione Alessandro tace, per moltissimo tempo,
tanto che a un certo punto mi dico che forse non intende proseguire questa
penosa conversazione.
«Credevo di essere stato presente…» fa invece alla fine.
Io scelgo con cura le parole. «Emotivamente ci sei sempre stato. In quel
periodo mi sono sentita sola non perché tu mi facessi mancare qualcosa, ma
perché con il tuo lavoro c’eri e non c’eri. Non era colpa tua, e lo sapevo, ma
non è stato facile. Ci sono stati giorni in cui avevo così bisogno di averti
accanto che per non farmi vedere dai bambini mi chiudevo in bagno a
piangere. Ero stanchissima, e c’erano momenti in cui ti odiavo, perché
invidiavo la tua vita…»
Credevo che non sarei mai riuscita ad ammettere tutto questo a voce alta,
soprattutto davanti a lui.
«Invidiavi la mia vita?» mi domanda, sorpreso.
«Sì. Avrei voluto anche io un lavoro che mi portasse fuori città e che mi
facesse scappare da quelle giornate tutte uguali, un momento per ricaricare
le batterie. Lo so che non eri in giro a divertirti, ma invidiavo il fatto che
avessi la possibilità di vedere posti e di parlare con persone nuove, perché
io, invece, non potevo parlare con nessuno. Tornavo da scuola sfinita perché
la notte dormivo poco, ringraziavo la babysitter, e facevo la mamma fino a
sera. Qualche volta veniva a trovarmi Marianna e allora era anche
peggio…»
«Non ti faceva piacere averla lì?»
«Be’, veramente a volte, quando la vedevo gironzolare per casa sempre
così solare e sorridente, con il suo corpo perfetto, e mi guardavo allo
specchio, perennemente in tuta, con le occhiaie e i capelli scompigliati… mi
sono chiesta se non fosse più felice lei di me. Non è stato facile.»
Alessandro mi lancia un’occhiata di sfuggita, poi posa lo sguardo altrove,
come se improvvisamente avesse perso il coraggio di tenerlo su di me.
«Scusami…» sussurra, dopo un po’, facendomi salire un nodo alla gola.
«Non me ne ero mai reso…»
«Non ho mai pensato che fosse colpa tua. Eri distratto dal tuo lavoro, e
nonostante alcuni giorni mi pesasse, dentro di me sapevo che era giusto
così. Probabilmente la responsabilità è stata anche mia. Forse ero io a non
essere abbastanza forte.»
Alessandro si mordicchia le labbra. «In amore non ci dovremmo mai
trovare nella situazione di dover essere forti da soli, ma di esserlo sempre in
due.»
Le sue parole fanno largo a un sorriso silenzioso e vero, perché mi balena
davanti agli occhi un fotogramma dell’uomo di cui mi sono innamorata.
«Sai di cosa ho avuto paura, qualche volta?» Ormai sono un fiume in
piena. Mi sono tenuta dentro tutto per così tanto tempo che è come se fosse
saltato il tappo dei miei silenzi.
«Di che cosa?»
Stringo i pugni sotto le lenzuola e faccio un lungo sospiro. «Di non
essere una buona madre…»
Alessandro si tira su. «Non dirlo nemmeno per scherzo, sei un’ottima
madre. Virginia e Federico ti adorano. Ti sei sempre fatta in quattro. Non
l’ho mai sottovalutato questo…»
«Non volevo dire che tu non dessi importanza a ciò che facevo.»
«Lo so, Elisabetta. Lo so. Ma mi fa male sapere che hai vissuto con un
timore così. E soprattutto che tu non abbia mai avuto la voglia di dirmelo.»
«L’ho pensato solo in quel periodo. È che avevo tutto: una casa, un
marito che mi amava, due bambini meravigliosi, eppure non riuscivo a
essere felice. E allora qualche volta mi succedeva che mentre li guardavo
dormire, la sera, mi domandavo come avrei potuto rendere felici i miei figli
se nemmeno io sapevo come fare a esserlo.»
Alessandro rimane in silenzio, e anche io, e restiamo così, immobili, al
buio, per non so quanto tempo.
Poi, dopo un po’, mi dice una cosa che non mi aspettavo.
«Ho pensato a quello che mi hai detto ieri, sai?»
«A che cosa?»
«Perché non ci prendiamo qualche giorno per noi? Hai ragione tu. Non lo
facciamo da tantissimo tempo. Da quanto non siamo da soli, tu e io e
basta?»
«Dal viaggio a Praga, credo. Te lo ricordi?»
Alessandro sorride, lo capisco dal tono della sua voce, anche se è buio
pesto. «Qualche mese prima che tu rimanessi incinta di Federico, con quel
freddo che entrava fin dentro le ossa e che noi non avevamo paura di
sfidare, avvolti dentro i nostri giacconi. Ti ricordi come eravamo sorridenti
e complici? Siamo più stati così?»
Ci metto un po’ a rispondergli.
«Non lo so…» ammetto. «Forse la nostra attenzione è stata rivolta ad
altro, da lì in poi. E probabilmente è anche normale…»
«Credi ancora che sarebbe una buona idea prenderci qualche giorno per
noi?» mi chiede.
Non riesco a trattenere un sorriso. «Sì, credo di sì. Ma come facciamo?
Hai promesso a Riccardo che lo avresti aiutato. E poi hai quell’impegno
importante di lavoro…»
«Dirò a Riccardo la verità. Sono certo che capirà…»
«Sei sicuro? Possiamo anche aspettare qualche settimana…»
«No, non possiamo aspettare. Abbiamo anche aspettato troppo. Abbiamo
bisogno di passare un po’ di tempo da soli, come una volta.»
Un fremito di euforia si fa spazio dentro di me, un’euforia che quasi
pensavo non avrei mai più provato.
«Come facciamo con Virginia e Federico, però?»
«Non preoccuparti, una soluzione la troviamo. I miei genitori hanno
sempre insistito tanto per trascorrere qualche giorno con loro. Sono sicuro
che ne saranno più che felici…»
«C’è anche Marianna. Sarebbero contenti di stare qualche giorno con lei.
La adorano e si divertirebbero come matti…»
«E lei sarebbe disposta a passare un intero fine settimana con loro?»
«Scherzi? Ne sarebbe felicissima.»
«Allora facciamo così.»
Rimango di nuovo in silenzio, a giocherellare con l’orlo delle lenzuola.
«In questo momento sono felice, lo sai?» gli dico poco dopo, con la voce
quasi rotta dalla commozione. «Ti sento vicino come non capitava da
tempo. Mi sono sentita ascoltata, questa sera. E quindi mi sono sentita
importante.»
La mano grande di Alessandro mi sfiora la gamba, sotto le coperte.
«Sono felice anche io…»
Mi avvicino a lui e appoggio la testa sulla sua spalla, con gli occhi chiusi,
mentre lui inizia ad accarezzarmi i capelli.

I giorni seguenti li trascorro ad aspettare un nuovo venerdì sera, e quindi


il ritorno di Alessandro, con la stessa euforia di una volta, e continuo a
evitare di aprire la mail di Marco.
Sono curiosa, a dire il vero, per cui non smetto di leggere il suo blog
prima di dormire, ma lo faccio con meno interesse e coinvolgimento.

Io e Alessandro decidiamo di trascorrere un weekend di lusso in Alto


Adige, per coccolarci dentro un mondo fatto di prati così verdi da sembrare
dipinti e di montagne tanto alte da poterci difendere dai problemi a cui non
vogliamo pensare.
Abbiamo prenotato al Quellenhof Luxury Resort Passeier, a pochi passi
da Merano, un paradiso immerso nei boschi e nel silenzio, con un centro
benessere in cui si respira l’odore del legno e una piscina esterna con un
panorama mozzafiato.
L’atmosfera è serena fra di noi: improvvisamente mi sembra di rivederci
giovani e fidanzati, quando ogni weekend era una scusa per scappare via
dalla routine.
Trascorriamo il pomeriggio alla spa dell’hotel, fra sauna, bagno turco e
qualche tuffo in piscina.
Verso sera, invece, prima di rientrare in stanza, prenotiamo un massaggio
di coppia.
Non l’avevamo mai fatto, ma è rigenerante.
Per la cena ci vestiamo eleganti, nonostante mangiamo in hotel, solo per
volerci bene e vederci belli, cosa di cui abbiamo un gran bisogno.
«Come sei stata oggi? Sei serena?» mi chiede Alessandro, mentre mi
versa un bicchiere di vino, una volta a tavola.
Lo guardo e annuisco appena. «Tanto, mi mancava tutto questo. Ci sono
momenti in cui mi sembra che possiamo superare tutto, come adesso. E
tu?»
«Sì, anche io. Negli anni ci siamo abituati a correre per incastrare i nostri
impegni e a ritagliarci solo pochissimo tempo per noi. È strano essere qui,
senza pensieri e impegni. È bello. Mi sembra di gustarmi ogni attimo
insieme.»
Restiamo seduti a questo tavolino per ore, come due fidanzatini al primo
appuntamento, pieni di cose da dirsi.
Quando rientriamo in camera da letto siamo leggermente ubriachi, e a
vederci così ho davvero la speranza di aver ritrovato l’uomo di cui mi sono
innamorata.
A un certo punto faccio una battuta, e Alessandro si mette a ridere a
crepapelle.
La sua risata mi fa sentire nell’aria il profumo delle cose che cominciano
e così mi avvicino a lui e lo bacio, tenendo stretto il suo viso fra le mani
come qualcosa di prezioso del quale non voglio più fare a meno.
Alessandro ricambia il mio bacio con forza. Io mi alzo sulle punte dei
piedi e lui mi spinge verso il davanzale della camera da letto, tenendomi
forte per i fianchi.
Veniamo travolti da un desiderio nuovo, di quelli che non ti danno
nemmeno il tempo di toglierti i vestiti.
Alessandro si limita ad alzarmi la gonna blu e io gli slaccio i pantaloni e
glieli abbasso, mentre lui con le dita mi sposta le mutandine.
Immersi nel silenzio e in questa leggera penombra, lontani dalla nostra
casa, tutto è amplificato: il tocco delle nostre mani, gli ansimi, i respiri.
Guardo il corpo di mio marito irrigidirsi leggermente e raggiungere l’apice
del piacere.
Veniamo insieme, poi Alessandro si accascia sul davanzale e mi sorride
appena, con gli occhi lucidi: un’immagine che mi si incide dentro.
Poco più tardi, dopo esserci buttati a letto, parliamo fitto fitto fino a notte
fonda.
«Domani dove andiamo?» gli chiedo, appena prima di addormentarci.
«Andiamo dove capita.»
Nascondo la mia felicità sotto le coperte.

Il mattino seguente, mentre mi sciacquo il viso, sento il telefono di mio


marito squillare, poi i passi di Alessandro che corre a rispondere, la voce
ancora assonnata.
Dal bagno non riesco a sentire quello che dice, però mi sembra
contrariato.
Quando riattacca, esco dal bagno e lo trovo seduto sul letto con una
strana espressione sulla faccia.
«Che cosa succede?» gli domando.
«Mi hanno chiamato dal lavoro» mi risponde, senza guardarmi negli
occhi.
Io rimango ferma al centro della stanza con le braccia distese lungo i
fianchi.
«C’è un’emergenza. Hanno fissato per questa sera a Milano una cena che
non è altro che una riunione straordinaria…» continua lui.
«Di domenica sera?»
«Sì…»
Un silenzio profondo come un burrone cala all’improvviso a dividerci di
nuovo e le emozioni del giorno prima svaniscono come neve al sole.
All’improvviso siamo di nuovo quelli dell’ultimo periodo, vicini eppure
lontanissimi.
Ho la sensazione che la nostra ultima possibilità di salvarci sia appena
andata in frantumi.
«Amore, mi dispiace, davvero…»
«Sì, lo so» gli rispondo, cercando con tutte le mie forze di trattenere le
lacrime. Comincio a vestirmi. «Forza, torniamo a casa.»

Di sera, quando Alessandro è ormai arrivato a Milano e Virginia e


Federico sono sul divano a guardare la televisione, apro il programma di
posta elettronica.
Nell’ultima mail che ho inviato a Marco gli ho proposto di lasciare fuori
le nostre vite. Lui mi ha risposto, ma io per giorni ho evitato di leggere
cosa.
Adesso sento di non poter più resistere.
@leparoledimarco
Anche se è andato via non significa
che non amerai più,
solo che amerai in modo diverso.
Forse in modo più razionale,
ma non per questo in modo meno vero.
Prenditi il tempo per il dolore.
Te lo devi.
Cerca di mettere quei ricordi senza rimpianti
nel taschino del cuore dove custodisci
le cose belle e che ti faranno diventare
la persona che sarai.
Avrai ancora tante cose: nuovi sguardi,
nuovi battiti del cuore,
nuovi sorrisi.
Nuove vacanze, nuove litigate
e nuovi magoni e nuove occasioni per rinascere.
E non avere mai paura di amare
solo perché una volta ti ha fatto male.
Pensati forte.
Pensati bella e rara.
Pensa sempre di essere il meglio.
Solo così avrai l’amore migliore per te.
16
► [Achille Lauro feat. Gow Tribe, 16 marzo]

Lorenzo

«Lorenzo, io e Damiano stiamo per lasciarci.»


Gaia me lo dice così, senza un minimo di preavviso, mentre la sto
accompagnando a casa dopo una serata tranquilla con Roberto, Celeste e
Sofia, che abbiamo salutato poco fa.
Siamo rimasti ore seduti ai tavolini del Plan, un locale raffinato ma non
troppo, in cui veniamo spesso all’ora dell’aperitivo.
Ci siamo ritrovati poco prima di cena, ci siamo messi a bere, abbiamo
fatto notte.
La guardo con gli occhi sgranati e non rispondo.
Così, qualche secondo più tardi, lei prosegue: «Mi ha tradita…».
A quel punto mi blocco in mezzo alla strada: «Ma che dici, stai
scherzando?».
Gaia si ferma accanto a me, mi guarda negli occhi e, senza dire niente,
scuote il capo.
«Quanto tempo fa è successo?»
«Circa un anno…» risponde in un sussurro, quasi per non dover sentire le
sue stesse parole.
«Un anno?»
Mi sembra assurdo che abbia vissuto mesi con questo macigno sul cuore
senza dire nulla a nessuno.
«Già.»
«E perché non me l’hai mai detto?»
Gaia si limita ad alzare le spalle. «Non lo so. Sono stata sul punto di farlo
tante volte. Solo che poi mi vergognavo…»
«Ti vergognavi? Per che cosa?»
«Per non aver avuto il coraggio di lasciarlo, nonostante tutto. In realtà è
per questo che negli ultimi mesi ho organizzato così tante feste a casa. Mi
permette di non pensare…»
Ricominciamo a camminare e ci sediamo su una panchina poco più
avanti.
Lei straripa come un fiume in piena e io non posso far altro che stare in
silenzio ad ascoltarla.
«Era già qualche mese che lo sentivo freddo con me, come se si stesse
dimenticando delle piccole attenzioni che mi aveva sempre dato. All’inizio
ho cercato di non darci peso, a lungo andare però è stato impossibile. Così
ho iniziato a parlargliene spesso, ma non cambiava nulla, e io continuavo a
sentirmi trascurata. Poi, un giorno, è venuto fuori quello che aveva fatto…»
«E come?»
«Me l’ha detto lui. E da quel momento niente è stato più come prima,
perché ho cominciato a difendermi.»
Il suo tono non è triste, piuttosto deluso, impotente.
«Come hai fatto ad andare avanti?» le domando io.
Lei si volta, come se non riuscisse a sostenere il mio sguardo. «Il
problema è che io lo amo, Lorenzo. E non sai quanto, in questi mesi, ho
provato a imparare a non amarlo più. Ma non ne sono capace. Senza di lui
mi sento persa. Così ho cercato di passarci sopra e di credere alle sue
parole, con la speranza che cambiasse finalmente atteggiamento nei miei
confronti. Solo che non è successo. Avrei avuto bisogno anche solo di un
piccolo gesto da parte sua. Che ne so, prendere una tovaglia, una sera
quando non me lo aspetto, e andare in un parco e sederci e stappare insieme
una bottiglia di vino. Mi basterebbe questo, sul serio. In fondo non gli ho
mai chiesto altro che un po’ d’amore. E sai qual è il problema?»
Scuoto il capo.
«Il problema non è tanto perdonare l’errore, perché uno sbaglio può
anche starci. Il problema è dimenticarlo. Quello che mi fa più male non è
aver perso la fiducia in lui, perché sono convinta che se lui volesse trovare
il modo di farmela ritrovare ci riuscirebbe. Quello che mi fa stare male è
che ho la sensazione di non viaggiare più a fianco a lui, ma davanti. O
indietro, non lo so. Ognuno di noi ha il suo modo di dimostrare l’amore, è
sempre stato così. È che a volte mi sembra proprio che lui non lo dimostri
proprio più.»
Gaia sfila una sigaretta dalla tasca e io la imito.
«Ma è sempre stato così? Oppure lo vedi cambiato nel tempo?» le
domando.
«Diciamo che io sono sempre stata la più romantica della coppia. Però sì,
lui nel tempo è cambiato. Posso farti una domanda, Lorenzo?»
«Certo. Lo sai che puoi.»
«Tu credi nell’amore per tutta la vita?»
«Non lo so, ho fatto sempre molta fatica a immaginarmi con la stessa
donna per sempre, però voglio crederci. E tu?»
«Penso che sia possibile, ma credo dipenda molto da persona a persona.
Però sono per le esperienze…»
«Per le esperienze?»
«Sì, non tifo per il lieto fine nei primi amori. E, in fondo, Damiano è
stato tutte le mie prime volte.»
«Perché non tifi per i primi amori?»
«Perché se non visiti più posti, come fai a sapere dove vuoi fermarti?
Certo, credo nella scelta di stare insieme, e credo che in un mondo come il
nostro, in cui basta aprire un social qualsiasi per vedere corpi perfetti
ovunque, il segreto di una relazione sia imparare a non guardare mai fuori
ma sempre dentro, e capire che spesso quello che cerchiamo altrove in
realtà ce l’abbiamo già. Forse Damiano non ci è riuscito. E poi credo che
l’amore vero esista, ma è molto raro.»
Non avevo mai sentito Gaia parlare così, sono sempre stato abituato a
vederla forte e combattiva.
«Cosa pensi di fare?» le domando.
Lei mi punta i suoi occhi grandi addosso. «Non lo so.»
Rimango in silenzio per un po’. Poi a un certo punto, vado dritto al
punto. «Gaia, sei felice con lui?»
«Sono innamorata» mi risponde lei senza distogliere lo sguardo dal mio.
«Non ti ho chiesto se sei innamorata. Ti ho chiesto se sei felice.»
«E tu?» mi chiede lei, invece di rispondermi.
«Che cosa?»
«Sei felice con la ragazza che hai conosciuto da me? Tu non dici mai
niente, Lorenzo, ma io non sono mica cieca, e vi ho visto a casa mia, alla
festa, tutti presi l’uno dall’altra, come se il mondo intorno avesse smesso di
esistere.»
«Ancora non lo so, ma credo di sì.»
Gaia sorride e non chiede altro. «Sono felice anche io per te.»
L’abbraccio con gli occhi e penso che è questa l’amicizia vera: essere
felici per qualcun altro anche quando non sei felice per te stesso.

Mentre passeggio verso casa, sotto un cielo fitto di stelle, ripenso alla
confessione di Gaia e riavvolgo il rullino della sua storia con Damiano.
Mi sa che ha ragione lei, il segreto di una storia d’amore è smetterla di
guardare fuori e imparare a guardare dentro, con occhi diversi. Che non
significa accontentarsi, ma imparare a dare il giusto valore a ciò che
abbiamo.
Sembra una banalità, ma se lo è davvero, come mai allora tantissime
volte scopriamo di amare ancora una persona quando decide di andare via?
C’è qualcosa di estremamente sbagliato in tutto questo.
Forse per andare avanti dobbiamo esercitare il talento di desiderare non
ciò che ci manca, ma ciò che possediamo già.
Quante volte cerchiamo la felicità che non proviamo più guardando
lontano, quando invece ce l’abbiamo seduta accanto?
Proprio mentre sono assorto in questi pensieri, inaspettata come sempre,
mi trovo davanti la mia, di felicità, seduta lì sotto casa, con indosso una di
quelle solite felpe a cui mi sto affezionando, su quel muretto che è diventato
il posto in cui posso andare a cercarla quando non so dov’è.
«Ciao» mi dice Beatrice, e il suo sorriso fa ridere anche me.
«Ciao, ma cosa ci fai qui?» le dico, sorpreso.
«Ti aspettavo. Ci sono giorni in cui mi chiedo cosa voglio io dalla vita,
altri in cui penso di saperlo, e altri ancora in cui penso di non saperlo più e
mi allontano da tutto e tutti. Stasera, invece, avevo solamente voglia di
essere qui.»
La guardo in silenzio, senza riuscire a smettere di sorridere e con il cuore
che mi martella nel petto.
«Sali?» le domando, emozionato.
«Speravo me lo chiedessi.»
Apro il portone di casa e corriamo di sopra nella mia soffitta impolverata,
a parlare, ridere, fumare, scherzare.
Ci conosciamo solamente da qualche settimana eppure mi sembra di
conoscerla da sempre.
Non c’è più imbarazzo fra di noi.
«Mi piace il modo che hai di guardare fuori dalla finestra» le dico, a un
certo punto, quando la scopro pensierosa e con lo sguardo altrove.
Lei mi sorride. «Tu che cosa sogni, quando guardi fuori?»
«Quello che sognano tutti.»
«La felicità?»
«No, la libertà. Ci pensi mai che la libertà è un talento?»
«Un talento?»
«Sì. Anche se è di tutti, spesso la sacrifichiamo per un amore che non
proviamo più, per amicizie che non ci meritano, solo perché gli altri ci
dicono che è giusto così, che deludere è sbagliato. Io invece credo che
deludere serva, qualche volta. Senza cattiveria e bugie, ma solo per
riguadagnare il sorriso che magari abbiamo lasciato chissà dove. Io mi
auguro di sbagliare, sai. Perché qualche volta sbagliare ci salva la vita.»
Beatrice non risponde, ma continua a guardarmi.
«Tu invece che cosa sogni?» le domando.
«Di rubare momenti.»
«Che cosa vuol dire?»
«Ho sempre desiderato rubare attimi della mia vita, non solo per
ricordarli, ma per poterli mettere da qualche parte e tirarli fuori quando ho
bisogno di viverli di nuovo. Solo che non si può.»
«Sì che si può. Esistono anche delle persone che lo fanno per lavoro.»
«Ma che dici?»
«Te lo giuro!»
«E chi sarebbero?»
«Gli scrittori.»
«Gli scrittori non rubano momenti alla loro vita.»
«Sì, invece. A volte scrivere vuol dire vivere una seconda volta. E infatti
a me piacerebbe tanto scrivere…»
Beatrice sorride. «Ecco cosa fai, quando guardi fuori. Inizi a pensare e
non ti fermi più.»
«Qualche volta sì, lo ammetto. Ma lo faccio anche altre volte, ad esempio
quando ho un po’ di tempo libero. Tu cosa fai nel tempo libero?»
«Lo hai già detto tu. Scrivo.»
17
Vietato incontrarsi

Elisabetta

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 16.12
Sì, ci sto. Non l’ho mai fatto prima. E tu?

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 5 ottobre, ore 20.45
Nemmeno io.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 5 ottobre, ore 23.41
Dovremmo fissare delle regole, però.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 5 ottobre, ore 23.45
Delle regole? Sentiamo.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 5 ottobre, ore 23.55
Le regole sono queste.
Ci sentiremo solamente via mail. Non ci scambieremo mai nessun altro
contatto.
Ci sentiamo solo se abbiamo voglia di sentirci, altrimenti no. Niente
forzature. È vietato non essere se stessi.
Vietato incontrarsi.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.07
Mi sembra più che giusto. Ci sto.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 00.13
Ottimo, allora.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.17
Hai mai visto C’è posta per te?

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 00.25
No. Di che cosa parla?

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.30
Di noi.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 00.32
Di noi?

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.47
Sì, Joe e Kathleen vivono a New York e lavorano a pochi isolati di
distanza, frequentano le stesse strade, gli stessi locali, gli stessi negozi. E
fin qui, non è il nostro caso. Come noi, però, anche loro si conoscono su
una chat room e diventano amici.
Nella vita reale lei è una donna energica, solare e piena di passioni, e
gestisce una piccolissima libreria per bambini.
Lui, invece, è il proprietario di una delle più grandi librerie della città,
che le librerie indipendenti di Manhattan non vedono di buon occhio.
Per Joe e Kathleen, quello scambio di mail diventa un appuntamento
fisso del quale non riescono più a fare a meno, ma, proprio come noi,
decidono di non parlare della loro vita reale.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 00.53
E come finisce il film?

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.58
Che gusto c’è se te lo dico?

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.01
Ho una proposta allora.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 01.07
Ci stiamo già facendo un sacco di proposte. Sentiamo…

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.10
Guardiamolo insieme.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 01.14
Credevo che la regola fosse “vietato incontrarsi”…

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.17
Infatti. Ma possiamo guardarlo insieme, ognuno da casa propria.
Ci diamo un appuntamento una sera, a un orario preciso, e iniziamo il
film nello stesso momento.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 01.21
Ci sto. Quando?

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.32
Mercoledì sera, alle 21?

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 01.35
A quell’ora non posso. Alle 22?

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.37
Va benissimo. Allora mercoledì sera alle 22 in punto.

Trascorro tutto il mercoledì mattina a scuola ma con la testa già alla


serata che mi aspetta, e con un piccolo fremito nello stomaco, lo stesso che
provavo da giovane, quando avevo un appuntamento con un ragazzo che mi
piaceva.
Un fremito che mi fa anche sentire in colpa, perché significa che una
parte di me comincia a desiderare qualcosa di nuovo e che il pensiero di
avere un appuntamento, seppur a distanza, con un uomo che non è mio
marito mi elettrizza.
Dalla sera in cui abbiamo deciso di vedere il film insieme, io e Marco
non ci siamo più sentiti, e ogni tanto mi è venuto da pensare che forse non
si sarebbe più fatto vivo.
In quei giorni, invece, le conversazioni con Alessandro, le poche volte in
cui riuscivo a sentirlo, erano fredde e distaccate, perché si portavano dietro
la delusione di un weekend finito troppo presto.
Mercoledì sera, dopo aver controllato che Virginia e Federico dormano
per davvero, mi siedo sul divano con addosso un vestitino di seta che uso
spesso a casa e che mi lascia le gambe nude, un elastico a raccogliermi i
capelli in una coda, e le mani che tremano appena.
Poi invio una mail a Marco.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 9 ottobre, ore 22.00
Io sono pronta, e tu?

Non appena premo “invio”, mi guardo attorno, e poi mi guardo dentro, e


per un attimo mi sento davvero stupida, lì così, ad aspettare che un uomo
che non conosco si ricordi un appuntamento con una donna che non ha mai
visto.
Invece, immediata, eccola lì, la risposta di Marco.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 9 ottobre, ore 22.01
Ti aspettavo.

Sorrido appena, emozionata e un po’ imbarazzata.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 9 ottobre, ore 22.02
Allora iniziamo.

Mentre le immagini del film scorrono sullo schermo, ne scorrono


altrettante dentro di me. Da quanto tempo non ne guardo uno con mio
marito?
@leparoledimarco
[non ci sono elementi nuovi da visualizzare]
18
► [Dandy Turner, Sei bella come Roma]

Lorenzo

“Ora tocca a me, giusto?”


È Beatrice. Sono appena uscito da scuola e sto mangiando un trancio di
pizza insieme a Gaia, Sofia, Celeste, Roberto e Silvio.
Celeste mi sembra più serena rispetto a quando ci siamo chiusi a parlare
nel bagno delle ragazze, qualche giorno fa.
Invece Gaia no, è come se la luce che le brilla dentro si fosse spenta.
Devo trovare il modo di parlarle e di convincerla a riaccendersi.
“Tocca a te?” rispondo.
«Vuoi proprio farti male, eh?» dice Roberto a Silvio, che non riesce a
staccare gli occhi di dosso a Giorgia e Fabrizio, seduti in un angolo del
locale a sbaciucchiarsi.
«Ma proprio qui dovevano stare?»
«Non ci pensare…»
Silvio prova a distrarsi. «A quando la prossima festa a casa tua, Gaia?»
«Non lo so. Veramente non sono dell’umore giusto, in questo periodo»
risponde lei, guardandomi di sbieco.
«Gaia, ti prego, se vai giù di morale anche tu qui dobbiamo iscriverci
tutti a un gruppo di sostegno per depressione e ansia.» Celeste incrocia
leggermente gli occhi mentre beve la sua Coca Cola con la cannuccia.
Nel frattempo il cellulare mi vibra nella mano. Un altro messaggio.
“Mi hai fatto vedere il tuo posto. Devo farti vedere il mio. Ti va?”
«Parlate per voi. Io tutti questi problemi non li ho…» Roberto ride e
addenta l’ultimo boccone del suo pranzo.
«Certo, lo sappiamo. Ma è perché tu non hai sentimenti…» gli risponde
Sofia.
«Sì che ce li ho.»
«No, Roberto. Non li hai» intervengo io, sorridendo appena.
Lui mi guarda storto, ma in realtà sta nascondendo un sorriso. «Dovresti
stare dalla mia parte, tu.»
Gli faccio l’occhiolino e torno a concentrarmi sul telefono.
“Mi va. Quando?”
La risposta di Beatrice è quasi immediata.
“Adesso?”
Sgrano gli occhi, Beatrice è così impulsiva che mi fa girare la testa.
«Comunque, vi va di venire a studiare da me, oggi pomeriggio?» ci
chiede Gaia, a un certo punto, cogliendomi alla sprovvista.
Silvio la guarda come se lo avesse salvato da morte certa.
«E me lo chiedi? Domani interroga in storia dell’arte. Mi chiama di
sicuro. E io non apro il libro da febbraio dell’anno scorso.»
«Vengo anche io» conferma Sofia.
Roberto annuisce. «Anche io. Celeste?»
«Sì, ci sto. E tu, Lorenzo?»
Io sono ancora con lo sguardo chino e il cellulare in mano. «Veramente
io… avrei…»
Gaia mi guarda ridendo. «Lorenzo ha conosciuto una ragazza, non ve
l’ha detto?»
Roberto e Silvio mi guardano stupiti.
«Chi?» mi domandano all’unisono.
Lancio a Gaia un’occhiata che avrebbe inchiodato al muro chiunque.
«Non c’è ancora proprio niente da raccontare. Ci siamo conosciuti
solamente qualche settimana fa.»
Veramente io e Beatrice ci siamo conosciuti un anno fa, e da allora, in
qualche modo, non ci siamo più persi. Questo, però, sarà un segreto che
resterà nostro per sempre.
«Come si chiama?» mi chiede Celeste, curiosa.
«Beatrice.»
«E come vi siete conosciuti?»
«All’ultima festa di Gaia, sul suo balcone» le rispondo, tralasciando tutto
il mucchio di parole che ci siamo detti prima, sui nostri, di balconi.

Dopo aver salutato i miei amici e svoltato il primo angolo che possa
nascondermi ai loro occhi, mi fermo un attimo e rispondo a Beatrice.
“Adesso?” le scrivo, ancora incredulo.
“Sì, adesso.”
Scuoto la testa. “Mi avvertirai mai un po’ in anticipo, quando hai voglia
di vedermi, oppure sarà sempre così?”
Immagino il sorriso di Beatrice e aspetto la sua risposta, gli occhi fissi
sullo schermo.
“A me così piace. E a te?”
Ci penso su qualche minuto senza trovare le parole, poi, senza aspettare il
mio “sì, mi piace”, Beatrice mi scrive di nuovo.
“Muoviti. Sono a piazzale San Severino. Ti aspetto.”
Mentre mi incammino verso di lei, non riesco proprio a non sorridere.
La raggiungo circa dieci minuti più tardi, e la trovo accostata a bordo
strada, al volante di un’auto gialla.
«Come diavolo fai ad avere la patente?» le chiedo, sorpreso, facendo
capolino dal finestrino abbassato.
Lei mi guarda ridendo. «In realtà non ce l’ho.»
«Non ce l’hai? Sei matta?»
Beatrice alza le spalle e mi fa segno di salire con la mano.
«Ma sai guidare?» le chiedo, dubbioso.
«Sì. Mia sorella è sempre stata una grande appassionata di motori, e
prima di diventare maggiorenne prendeva già lezioni di guida da mio padre.
Poi, quando i miei non erano a casa, mi insegnava di nascosto.»
«E se ci fermano?» le domando, mentre Beatrice accende il motore e
s’immette in strada.
Lei mi guarda di sbieco. «Speriamo non succeda. Se mia madre ci scopre
è la fine.»
Scuoto la testa, mentre la brezza fresca dei primi di ottobre entra dal
finestrino e mi scompiglia i capelli.
«Ma dove andiamo?»
Beatrice sorride, ma non mi risponde.
Mi piace, questa ragazza. Mi piace perché è imprevedibile, perché mette
le parole e i silenzi nei punti giusti. Mi piace per come si muove l’aria
attorno a lei quando gesticola, mi piace per come risuona la sua risata, per il
modo che hanno i suoi capelli di spettinarsi quando corriamo verso
qualcosa, perché ha nello sguardo quel giusto mix fra spensieratezza e
malinconia, che fa proprio venire voglia di scavarle dentro il petto per
vedere cosa c’è.
Mentre la guardo, lì seduta di fianco a me, un po’ ribelle e un po’ brava
ragazza, talmente bella e magica che mi manca il fiato, ho un po’ di timore
che tutta questa felicità possa essere solo nella mia testa.
Mi è già capitato di incontrare occhi nuovi e di vederci una bellezza così
pura da convincermi di aver trovato un posto da chiamare casa, un posto in
cui tornare quando sento che la vita ha voglia di mettermi in ginocchio.
Solo che a volte gli amori più intensi diventano le delusioni più grandi.
Continuo a guardarla di nascosto, Beatrice, e alla fine sorrido senza che
lei se ne accorga, perché mi dico che qualsiasi cosa stiamo diventando, di
certo non potremo più essere due sconosciuti.

Dopo un tempo che non saprei quantificare, ci fermiamo davanti a una


casa bianca con un grande giardino, che dà su uno degli scorci più belli del
lago di Garda.
«Di chi è questa casa?» le chiedo meravigliato, mentre scendiamo
dall’auto.
«Mia.»
«Tua?»
«Sì. Cioè, oddio. Di mia madre, naturalmente.»
«Ma è bellissima…»
«Sì, è vero. In realtà non ci veniamo da tantissimo tempo. Però mi
manca, sai? È per questo che ho deciso di portarti qui.»
«Come mai non ci venite più?»
«Da quando papà è andato via, mamma non vuole più metterci piede.
L’avevano comprata insieme e dice che dentro ci sono troppi ricordi che le
farebbero male al cuore. E così, da allora l’ho sempre vista con le persiane
chiuse.»
«Ma hai le chiavi?» le chiedo, titubante. Abbiamo già infranto la legge a
sufficienza per oggi.
«Sì. Le ho rubate a mamma. Entriamo?»
«Va bene.»
«Dài, vieni.»
Seguo Beatrice lungo il viale che mi conduce verso un nuovo pezzo della
sua vita, tutto da esplorare.
Appena metto piede nell’ingresso, non posso fare a meno di immaginare
questa stessa casa qualche anno fa, allegra e piena di vita come la famiglia
che la abitava.
Mi piace come lo sguardo di Beatrice tocca gli oggetti, e come i suoi
occhi si assottigliano un po’ quando un ricordo la sfiora.
«In questa casa, da bambina, ci ho passato le estati più belle della mia
vita. Stavamo qui tre mesi. Papà faceva avanti e indietro per il lavoro. Io,
mamma e mia sorella facevamo colazione sul terrazzo, e poi ci spostavamo
in spiaggia. E se decideva di piovere salivamo in auto e andavamo a visitare
qualche borgo qui attorno. Alcuni sono belli da togliere il fiato, così a
strapiombo nell’acqua. Non sono più stata qui da quando papà non c’è più.»
«Ti fa male?» le chiedo, mentre la osservo guardarsi attorno, come se
vedesse queste stanze anche lei per la prima volta.
Lei si volta verso di me con un sorriso vero. «No, anzi. È bello.»
Ricambio il sorriso, sollevato.
«Vieni, ti faccio vedere una cosa» mi dice dopo un po’.
Imbocca un lungo corridoio e si ferma un attimo ad aspettarmi.
Una scala a chiocciola ci porta al piano di sopra, e poi in una camera
piccola ma graziosa.
«Tu dormivi qui?»
«Sì, esatto. Qualche volta, quando ero più piccola, mia sorella
s’intrufolava nella mia stanza e dormivamo insieme tutta la notte.»
Mentre Beatrice si racconta, il mio sguardo cade su una grande libreria a
muro, stracolma di libri buttati lì alla rinfusa.
«Li hai letti tutti?» le domando, ironico.
«Solo qualcuno. In realtà sono di mia madre. Li abbiamo portati qui
perché non sapeva proprio dove metterli. Camera sua sembra già una specie
di biblioteca.»
Beatrice si siede sul letto con sulle gambe alcuni album che ha preso da
un ripiano.
La guardo incuriosito.
«Vuoi vederli?» mi domanda.
«E me lo chiedi? Cosa c’è dentro?»
«Di tutto. Fotografie di quando ero bambina, delle vacanze, del
matrimonio dei miei genitori.»
Mi siedo lì accanto a lei e Beatrice sfoglia le pagine quasi
accarezzandole. È bellissimo cogliere nelle sue dita l’amore per quei
ricordi.

Non saprei dire quanto tempo siamo rimasti chiusi nella sua stanza, a
ripercorrere la vita che si è lasciata indietro, ma tra quelle pagine ingiallite
ho lasciato qualche briciola di cuore.
«Tu ci credi nell’amore, Lorenzo? Nell’amore vero, intendo…» mi
chiede lei, tutto a un tratto.
Poso gli occhi dentro i suoi, stupito dalla domanda. «Non lo so.»
«E perché non lo sai? Cosa ti è successo per farti smettere di crederci?»
«Forse alcune delusioni, forse la storia dei miei genitori che è andata in
frantumi, forse perché a me non è capitato…»
Beatrice mi guarda, stringendo leggermente gli occhi. «E a che cosa credi
allora?»
«Credo nelle canzoni. Tu ci credi nelle canzoni?»
«Non lo so, non ci ho mai pensato, in realtà. Però credo nelle
sensazioni.»
Lo sguardo mi cade sulle sue mani e le trova lì a tremare appena.
Beatrice se ne accorge, ma non dice niente.
«A questo ci credi?» le domando allora, d’impulso.
Lei decide di non nasconderle ai miei occhi. «Sì, a questo ci credo.»
19
Tradire con la mente o tradire con il corpo non è poi
così diverso

Elisabetta

Ci sono momenti in cui bisogna imparare a fermarsi e respirare, momenti


in cui il coraggio non sta più nell’andare avanti, ma nel tornare sui propri
passi.
Qualche volta è facile smarrire la strada, perché la routine fa perdere di
vista le cose che contano davvero.
L’importante in quei casi è provare a tornare all’inizio.
Il nostro inizio, quello fra me e mio marito, è stata la fermata della
metropolitana Spagna, a Roma, e così, una mattina in cui mi sono accorta
che guardando la mia famiglia riunita attorno al tavolo del soggiorno a fare
colazione mi sentivo persa, ho deciso di andare a cercare l’amore fra me e
Alessandro proprio lì dove era cominciato.
Ho telefonato a Marianna per chiederle un altro favore, ho ingoiato i
sensi di colpa per tutte le disattenzioni che nell’ultimo periodo ho avuto
verso i miei figli, ho chiamato mio marito per dirgli che avevo bisogno di
respirare l’aria di casa e sono andata in stazione con il cuore diviso in due.
Una parte di me mi urlava di tornare indietro per provare una volta
ancora a essere la moglie e la madre che ho sempre saputo essere, e un’altra
desiderava invece che quel viaggio durasse più a lungo possibile e non
vedeva l’ora di sfilare il cellulare dalla borsa per scrivere a Marco.
Il film guardato per gioco, un mercoledì sera, si era trasformato, nei
giorni seguenti, nell’inizio di un gioco pericoloso che, senza che me ne
rendessi conto, aveva cominciato a sfuggirmi di mano: controllavo il
cellulare duecento volte al giorno, a lezione ero distratta, la sera faticavo a
addormentarmi.
Le nostre conversazioni, che sfioravano sempre le nostre vite ma che non
le toccavano mai, si erano fatte più intime, perché lì dentro, tra quelle
parole, avevamo trovato un posto in cui stare bene. Un posto dal quale, al
tramonto del sole, non veniva mai voglia di andare via.
Ho capito che sentire Marco non era più un modo innocente per ricevere
attenzioni quando ho cominciato a sentirmi di nuovo ragazzina, tutta presa a
fantasticare su di noi come fanno i miei alunni tutti i giorni, fra i banchi del
liceo.
Viaggiare in treno mi piace: mi piace perché è un incrocio di vite e
persone, perché viaggiare mi fa sentire il sangue che scorre nelle vene,
perché lì, con quei rumori di sottofondo, riesco ad ascoltarmi come in pochi
altri posti al mondo.
Il vagone in cui ho preso posto è silenzioso.
Insieme a me c’è solo un ragazzo sui trent’anni, seduto qualche fila più in
là. Chissà chi è. Chissà da dove viene. Chissà dove sta andando.
D’un tratto si alza nervoso, mi passa accanto distratto, si ferma davanti
alle porte scorrevoli del cambio vagone, poi lascia la fotografia di una
ragazza su un sedile vuoto e scappa via.
Lo seguo con lo sguardo senza capire, allungo un po’ il collo, e vedo
l’immagine di una ragazza dai capelli chiari e lisci fino alle spalle, persa
con lo sguardo a guardare fuori.
Alzo un sopracciglio incuriosita e mi sistemo per stare più comoda. Pochi
minuti dopo il treno rallenta fino a fermarsi e nel mio vagone sale una
ragazza che prende posto proprio su quel sedile lì. I suoi occhi, quando
afferra la fotografia e si riconosce, si illuminano di una luce nuova.
Alza lo sguardo, lo punta senza esitazione sul posto dove poco prima era
seduto quel ragazzo. Trovandolo vuoto ci resta un po’ male, ma il suo
sorriso emozionato mi rivela un gioco silenzioso, che mi scalda il cuore.
Nel leggero tremore delle sue mani rivedo l’emozione delle mie quando
tanti anni prima, su quella banchina, ho incontrato lo sguardo dell’uomo che
mi ha cambiato la vita.
E nel gesto di quel ragazzo che ha lasciato su un sedile vuoto una
fotografia di una ragazza che forse non conosce, ma che in qualche modo fa
già parte di lui, ho visto la stessa voglia di rischiare di Alessandro, quando
ha preso un treno solo perché voleva scoprire che effetto faceva incontrare
lo sguardo di una ragazza che non aveva mai visto. E nel modo in cui
entrambi hanno stretto in mano quella foto ho visto l’entusiasmo delle
piccole cose, quelle che io e Alessandro ormai da un po’ abbiamo smesso di
trattare con cura.
Quando, qualche ora più tardi, riemergo dalla fermata Ottaviano, una
leggera pioggerellina batte sull’asfalto e finalmente respiro l’aria della mia
città.
Roma mi manca.
Mi manca come può mancarti un amante con cui hai condiviso la vita per
anni.
Mi manca tutto: il rumore del traffico, il modo sfacciato ma accogliente
che ha sempre avuto di farmi sentire parte di qualcosa, i suoi angoli, le sue
piazze, le luci con cui di notte si mostra così maestosa ed elegante, il suo
profumo inconfondibile, che non ho mai ritrovato così intenso da
nessun’altra parte.
Alessandro, invece, di Roma non ha mai sopportato il caos, il modo un
po’ grezzo con cui ti trattano nei locali, il fatto che, come ha sempre
sottolineato e come io non ho mai capito fino in fondo, dà la sensazione di
essere una città distratta.
Ho prenotato una stanza al Little Rose Rooms, un B&B a due passi da qui.
Appena il tempo di posare il borsone e sciacquarmi il viso ed esco a fare
una passeggiata.
Ha smesso di piovere e il sole abbraccia Roma con la luce calda del tardo
pomeriggio.
Mi fermo a prendere un trancio di margherita, giusto per riuscire ad
arrivare fino a cena. La pizza non è un granché, ma il posto mi piace tanto:
ci sono dei piccoli tavoli in legno che mi ricordano la montagna e gli
sgabelli sembrano delle ceste di pane.
Quando esco m’incammino verso il Tevere, ma prima faccio una piccola
deviazione per una delle mie strade preferite, Borgo Pio, un coriandolo di
Roma che sembra uscito da una cartolina.
Mi perdo con lo sguardo fra i tavolini dei ristoranti ammassati in mezzo
alla via e al chiacchiericcio dei passanti, e lotto con un pizzico di
malinconia che mi sale negli occhi.
Una volta sul Lungotevere, dove i rami degli alberi sembrano custodire la
poesia nelle foglie, mi incammino persa nei miei pensieri fino a Ponte Sisto
e qui mi fermo ad ascoltare degli artisti di strada che suonano dei tamburi.
Rimango a guardarli per un po’, mi siedo a sorseggiare una birra sulle
gradinate di piazza Trilussa, invasa da giovani e studenti, in cerca del
proprio posto nel mondo.
Un po’ come me, in fondo.
Un ragazzo dai capelli lunghi sta suonando, inginocchiato a terra e a
piedi nudi, una batteria costruita con secchi di latta, mentre nel frattempo un
venditore ambulante prova a rifilarmi un cerchietto con delle lucine e un
gattino elettronico che miagola e muove le zampe.
Immersa di nuovo nel mondo che mi ha vista crescere, riesco finalmente
a fare un respiro lungo, uno di quelli che ti svuotano il petto.
Tutta questa gente attorno a me, le parole, la musica, le risate. Storie che
sbocciano, che finiscono, che s’intrecciano. E poi sogni, delusioni,
sconfitte, vittorie, incontri inaspettati. Quante canzoni ci sono in tutti questi
sguardi?
Quando rientro al Little Rose Rooms ho gli occhi pesanti ma il cuore un
po’ più leggero.
Così tanto che prima di addormentarmi invio un messaggio a Patrizia.
Questa città, inevitabilmente, mi fa pensare proprio a lei.
E anche ai miei genitori, veramente.
A loro però non ho voglia di dare spiegazioni.
“Ciao, sono a Roma.”
Nemmeno il tempo di posare il cellulare e mi arriva la sua risposta.
“Cosa? Stai scherzando? Domani sera cena con gli amici di una volta
allora. Ci stai?”
“E me lo chiedi?”
Il mattino dopo chiamo Marianna per salutare Virginia e Federico e
mando un messaggio ad Alessandro per sapere come procede il suo
weekend di lavoro a Milano.
Subito dopo mi accorgo di aver ricevuto una mail di Marco.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 07.03
Mi sono svegliato con la voglia di immaginarci.
Puoi fare una cosa per me?

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 08.56
In questi giorni ci sto immaginando più di quanto tu possa pensare. Mi
sto incastrando in questo gioco che abbiamo inventato.
E vorrei scappare.
Ma restare mi piace di più.
Cosa vorresti che facessi?

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 09.23
Vorrei che chiudessi gli occhi e che immaginassi il nostro primo
appuntamento. Immaginalo, anche se non ci sarà mai.
Dove siamo?

Leggo la mail di Marco seduta al tavolino di un panificio poco lontano


dal Little Rose Rooms, dove mi sono fermata a fare colazione.
Le sue parole però mi chiudono un pochino lo stomaco. Marco, anche se
non lo conosco, mi fa quest’effetto che non ricordavo più e che ho scoperto
mancarmi tantissimo.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 09.31
È sera, in una città che non è nostra ma che abbiamo raggiunto solo per
incontrarci. Ci diamo appuntamento in uno di quei vicoletti bui e un po’
nascosti, illuminato solo da un vecchio lampione all’angolo.
Io indosso un vestito di seta scuro. Tu dei pantaloni chiari e una camicia
di lino…

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 09.40
…quando i nostri sguardi si toccano per la prima volta scopro che il tuo
non è poi così timido come cerchi di farmi credere. Lo immagino stanco,
ma luminoso e intenso. Non ci diciamo niente, ci sorridiamo appena come
due persone che si sono riconosciute. E cominciamo a passeggiare…

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 09.59
…e ci ritroviamo in una piazza, deserta o stracolma di gente, non
importa. Tanto quello che ci sta attorno ha improvvisamente poca
importanza. Ci sdraiamo per terra e finalmente mi parli di te. Mi racconti un
dettaglio, qualcosa di poco conto ma che poi si rivelerà importante. E mi
domandi di me, mentre ti leggo addosso la curiosità di scoprire di più.
Finalmente posso leggerti. Leggimi anche tu. Poi portami in un piccolo
locale in cui sederci a bere del buon vino.
Bianco o rosso?

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 10.05
Rosso. Come quel filo di rossetto che indossi con eleganza. Chissà se lo
hai messo per sentirti più bella ai miei occhi, oppure solo perché ti piace
esserlo e basta.
Quando usciamo dalla penombra del locale abbiamo il sapore del vino
addosso. È notte. Ma chissà che ora è.
Abbiamo prenotato due stanze separate in un hotel poco distante. Mentre
camminiamo le nostre mani si toccano.
Noi però, facciamo finta che succeda per caso…

Non me lo aspettavo, un risveglio così.


Non immaginavo di essere capace di spingermi a tanto.
Non immaginavo che fantasticare insieme a uno sconosciuto potesse
risvegliare tutte queste sensazioni, che ormai sembravano sopite da anni.
Senza rendermene conto esco dal panificio e, invece di immergermi nella
mia città, torno al Little Rose Rooms e mi chiudo nella stanza.
Proprio quello che desidererei fare con Marco, la sera del nostro
appuntamento in una città che non è la nostra, dopo aver parlato di noi ed
esserci ubriacati di vino e parole.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 10.21
Quando entriamo in hotel un filo d’imbarazzo s’intrufola nei nostri
sguardi. Soprattutto una volta nell’ascensore, quando le porte si chiudono
dietro di noi.
Lo senti questo silenzio? Li senti i nostri sorrisi che si cercano?

All’improvviso ho un brivido lungo la schiena e mi riscopro a desiderare


non solo lo sguardo di Marco addosso, ma le sue mani che, in
quell’ascensore, mi afferrano i fianchi all’improvviso. A quel pensiero,
stringo appena le gambe sopra le lenzuola, mentre il mio corpo si accende
all’improvviso.
Invio quella mail e, per la prima volta in vita mia, mi sento pervadere dal
fuoco del tradimento.
Perché, in fondo, tradire con la mente o tradire con il corpo non è poi così
diverso.

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 10.39
Quando le porte dell’ascensore si aprono sul piano delle nostre stanze,
rimaniamo a guardarci in silenzio per un po’, con la consapevolezza che
quella è una notte diversa dal solito.
Ci salutiamo anche se, dentro di noi, vorremmo che non finisse così.
E poi, chiusi nel buio delle nostre camere da letto, ci ritroviamo a
immaginare che quella parete che ci divide sparisca all’improvviso…

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 10.43
…e ci ritroviamo sulla pelle ancora i brividi di quei desideri che in
ascensore ci siamo scambiati solamente con lo sguardo.
Vorrei che fossi sfacciato.
Cosa fai?
Vieni a bussare?

Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 10.47
Sto già bussando…
Adesso tieni gli occhi chiusi e metti via il cellulare.
Immaginaci.
E così, stesa in questo letto lontano da casa, a pochi metri da dove, tanti
anni fa, ho incontrato gli occhi di mio marito la prima volta, abbandono
completamente tutti i pensieri e tutte le preoccupazioni di questi mesi.
Appoggio il cellulare sul comodino, chiudo le persiane per creare un po’
di penombra, mi sfilo i jeans e schiudo le gambe.
Poi, con le dita, inarcando la schiena e puntando i piedi nel materasso,
sollevo l’orlo della mia intimità e comincio a sfiorarmi.
Lì, in quel momento, mi dimentico una cosa importante. Tradire con la
mente o tradire con il corpo non è poi così diverso.

https://www.youtube.com/watch?v=nl3TupFpin0
https://www.youtube.com/watch?v=qUHQZHH7TTU
@leparoledimarco
Vorrei qualcuno che sapesse baciarmi
in tutti i modi in cui può essere baciata
una persona.
Sulle labbra. Sul collo.
Sotto l’orecchio. Sulle spalle.
Sulla pancia. Sulle gambe.
Sulle ginocchia.
Vorrei qualcuno che mi stupisse
con baci rubati, leggeri, intensi.
Qualcuno che soprattutto
mi baciasse sulla fronte.

Quanto amore c’è


in un bacio così?
20
► [Salmo feat. Nstasia, Il cielo nella stanza]

Lorenzo

Esiste una parola tedesca che amo molto, Fernweh.


Fernweh è quella sensazione strana e inspiegabile che proviamo quando
sentiamo la mancanza di un posto in cui non siamo mai stati davvero.
Quando io e Beatrice risaliamo in auto e di nascosto percorro il suo
profilo illuminato dai raggi del sole mentre, dietro di lei, il mondo corre
veloce, mi viene da pensare che è esattamente questa la sensazione che ho
provato in tutti i giorni che sono trascorsi fra l’ultima volta che ho sentito la
sua voce sul balcone e il momento in cui i nostri mondi si sono finalmente
toccati alla festa di Gaia.
Beatrice è un posto di cui ho sempre avuto nostalgia.
D’un tratto, decide di accostare in una piazzola immersa nel verde.
«Cosa ci facciamo qui?» le domando, alzando un sopracciglio.
«Vieni, fidati di me.»
Beatrice scende, apre il bagagliaio, tira fuori una grande coperta e una
bottiglia di vino rosso. Poi, di corsa, attraversa la strada e imbocca un
piccolo sentiero di foglie che si intrufola nel bosco.
Io le corro dietro.
Sbuchiamo in una spiaggia di piccoli sassolini bianchi, proprio mentre gli
ultimi raggi del sole lambiscono la cima delle montagne e giocano con
l’acqua.
Beatrice si ferma davanti a un piccolo pontile di legno che entra nel lago
e che sembra messo lì apposta, perfetto proprio come l’attimo che stiamo
vivendo.
Poi, con un sorriso da bambina, si volta verso di me. «Dài, vieni, cosa
aspetti? È bellissimo qui.»
Allora la raggiungo, stendiamo la coperta, ci togliamo le scarpe e ci
sediamo lì sul molo, a guardare il nostro riflesso nell’acqua e le montagne, e
rimaniamo in silenzio a osservare l’aria della sera tingersi di seppia e
l’acqua specchiare l’arazzo di stelle che piano piano si dispiega sopra di
noi.
Rimanere lì con lei, in quest’angolino nascosto dagli occhi del mondo, è
una piccola magia.
«C’eri mai stato qui?»
«No.»
«È uno dei miei posti preferiti. Sai come si chiama?»
«Come?»
«Val di Sogno.»
«Val di Sogno? Che bello! Dài, non ci credo.»
«Dico sul serio. Guarda…» e mi indica un punto poco più in là, dove una
vecchia insegna di legno fa capolino tra la vegetazione sempreverde dei
bordi del lago.
Poi, senza dire nulla, prende un cavatappi dalla borsa, stappa la bottiglia
di vino, ne beve un sorso.
«Ne vuoi anche tu?» mi domanda.
Sorrido e bevo a mia volta.
«In realtà, ti ho mentito, sai?» mi dice d’un tratto, le labbra ancora umide
che riflettono la notte.
Sposto lo sguardo su di lei, senza capire.
«In che senso?»
«Ti ho promesso che ti avrei portato in un posto che sento mio, ma in
realtà la casa in cui ti ho portato non lo è per davvero. Sì, ci ho vissuto
tanto, lì dentro, ma non è veramente casa mia. E nemmeno questo posto,
nemmeno questo lo è. Il fatto è che, a pensarci, un posto mio non ce l’ho.»
«Come mai hai deciso di portarmi proprio qui, allora?» le chiedo.
«Perché in questi giorni ci ho immaginati.»
«Ci hai immaginati?»
«Esatto. Ho chiuso gli occhi e mi sono chiesta che cosa avrei voluto fare
con te, se avessi potuto scegliere. E ci ho visti proprio così. Su una piccola
spiaggia qualsiasi, senza scarpe, con l’aria della sera addosso, sdraiati su
una coperta a fare notte come sappiamo fare solo io e te. In un angolino
buio in cui non può vederci nessuno, a ridere e dimenticarci dell’ora e di
tutto il resto, a bere un po’ di vino, mentre il vento mi porta il tuo profumo.
E a te il mio.»
Beatrice parla a raffica, con gli occhi dentro i miei, e ho la sensazione
che, con un’intensità così, non l’abbia mai fatto.
Improvvisamente, la sento un palmo più vicina a me, e qualcosa mi si
muove nel petto.
«Che cosa ami di più delle spiagge di notte?» le chiedo in un sussurro.
«Le stelle e il rumore dell’acqua. E tu?»
«Il silenzio. La sensazione di essere in un posto solo tuo.» Poi, la guardo
per un attimo e aggiungo: «Solo nostro».
Beatrice sorride, abbassa lo sguardo e con dolcezza si infila un ciuffo di
capelli dietro l’orecchio.
I miei occhi si perdono ancora una volta fra le sue dita.
«Sai che cosa ho pensato quando ho visto le tue mani la prima volta?» le
dico allora.
«Che cosa?»
«Ho pensato che sembri una ragazza che sa cosa accarezzare, e cosa
invece no.»
Mi guarda, Beatrice, ma questa volta non dice niente.
«Cosa vorresti accarezzare?» le chiedo allora.
«Vorrei accarezzare il viso di qualcuno che mi guardi con occhi diversi
rispetto a quelli con cui mi guardano tutti.»
Vorrei proprio dirle che sono certo che mai nessuno l’ha guardata come la
guardo io, invece, come sempre, mi tengo tutto dentro e le sussurro: «Mi fa
tanto piacere, lo sai?».
«Che cosa?»
«Che tu abbia scelto me, per essere qui.»
Ho la sensazione che qualcosa tra di noi sia cambiato. E mi sembra che,
in fondo, senza dircelo, vogliamo entrambi la stessa cosa, perché ci
sentiamo uniti come succede poche altre volte al mondo e nella semplicità
di una sera così ci sappiamo mettere dentro tutto quello che serve.
«Lorenzo…»
«Sì?»
«Prima mi hai detto che tu credi nelle canzoni…»
«Sì, è vero.»
«Mi fai ascoltare la tua?»
«La mia canzone?»
«Sì, quella che ti senti sottopelle. Da quant’è che non ascoltiamo insieme
qualcosa?»
Le sorrido e sfilo dalla tasca il cellulare e le cuffiette che porto sempre
con me.
«Aspetta un momento…» sussurra lei, e si mette davanti a me,
appoggiandomi la schiena sul petto. Questo contatto, leggero e inaspettato,
fa scattare qualcosa: i nostri cuori si sono finalmente allineati.
Nascondo un sorriso nei suoi capelli e le cingo le spalle con le braccia
per la prima volta.
«Adesso puoi cominciare» mi dice.
«Chiudi gli occhi, però.»
«Fatto.»
Infilo un auricolare nel suo orecchio, l’altro nel mio, schiaccio “play”.
Beatrice, invece, posa la testa sulla mia spalla.
La canzone che ho scelto è Powder on the Words, degli A Toys
Orchestra.
Chiudo gli occhi anche io come Beatrice e, mentre sento il profumo della
sera diventare quello della notte, le mie mani incontrano le sue.
E si sfiorano.
Il mondo si ferma un attimo e il mio cuore coincide con il suo.
E battono insieme come non avevano mai fatto.
D’un tratto le dita di Beatrice si fanno più decise e si incastrano alle mie
come una cerniera.
Quando apro gli occhi trovo quelli di Beatrice su di me. Mi guarda e
senza dire niente mi lascia entrare in quel mondo caotico che le appartiene.
Siamo vicini, adesso, vicini come non siamo mai stati.
Così vicini che la sento dentro, dappertutto.
«Fin dall’inizio sei sempre stato diverso, tu…» mi dice, quasi in un
sussurro, come se mi confidasse un segreto. «Non mi sono mai sentita così
speciale come da quando ti conosco, lo sai? E in fondo, per farmi sentire
così, non hai avuto bisogno di fare niente, se non essere quello che sei.»
Per la prima volta riesco a trattenere il suo sguardo.
Per la prima volta non scappo.
«Che cosa ci trovi, in me, Lorenzo?»
Le scosto delicatamente un ciuffo di capelli dagli occhi.
«Tu sei così. A volte hai il diavolo dentro, a volte sembri così insicura e
fragile che rischi di spezzarti. Sei fatta di parole e soprattutto di silenzi che
ti fanno rumore dentro. Tu sei rumore, caos, romanticismo, urla. A volte ti
piove nel cuore, e a volte c’è il sole. E a volte non sai neanche tu che tempo
fa. E…»
E all’improvviso sento il suo respiro così vicino da poterla respirare. Le
sue labbra si socchiudono sulla mia bocca e il suo sapore di un mondo
ancora tutto da scoprire si fonde con il mio.
Beatrice profuma di buono, di notti da vivere, di vino rosso da
sorseggiare su una spiaggia deserta.
Ha deciso di baciarmi così, la prima volta, nelle pause fra una parola e
l’altra, là dove vivono tutte le cose che contano per davvero, sfacciata come
è sempre stata, nel momento in cui meno me lo aspettavo, proprio come
quando è entrata nella mia vita.
In questo bacio c’è tutto quello che siamo stati e tutto quello che
potremmo essere da adesso in poi, e tutte quelle promesse che forse
abbiamo ancora un po’ paura di farci, ma che si nascondono proprio dentro
il modo in cui le nostre labbra si assaggiano, come se volessero scambiarsi
anche i sogni che hanno trattenuto fino a oggi.
Quando ci allontaniamo, con la musica ancora nelle orecchie, mi manca
un po’ il fiato.
Quella musica che, a ben guardare, è stata l’inizio di tutto.
Quanti amori nascono da una canzone?
«Mi mancava tutto questo, lo sai?» Beatrice nasconde il suo viso nel mio
collo.
«Tutto questo?»
«Sì. Sentirmi così: coccolata e protetta.»
Sorrido e resto in silenzio, felice di poterla coccolare e proteggere.
«Sai una cosa?» mi dice lei, dopo un po’.
«Che cosa?»
«Non so come sia svegliarmi e incastrare il viso contro il tuo collo,
invece di affogarlo nel cuscino. Non so come sia avere fra le mani il cuore
di qualcuno, prendermi cura del suo sguardo e sentire addosso la
responsabilità del suo sorriso. Non so come pensare per due, passeggiare in
due, essere felici in due. So solo che quando ti guardo mi fai venire tanta
voglia di scoprirlo. E che quando sto con te mi tremano le mani. E che forse
non è paura.»
Mi scosto un attimo, con dolcezza, prendo il suo viso fra le mani e le
poggio le labbra sulla fronte.
«Avevo smesso di sorridere, sai? Tu, invece, mi hai insegnato a farlo di
nuovo. Come quando all’improvviso trovi qualcosa che cercavi da anni.
Forse, senza saperlo, io ho sempre cercato te.»

https://www.youtube.com/watch?v=l5vQkeEhn5U
21
Vorrei un amore che non mi dà preoccupazioni, ma
che me le toglie

Elisabetta

Ho sempre pensato che ci sono due tipi di persone.


Quelle che la vita la trascorrono.
E quelle che la vita la sentono.
E io, negli ultimi anni, ho passato così tanto tempo a lasciare che la vita
corresse via che mi sono dimenticata di che cosa volesse dire sentire
davvero qualcosa.
Ci sono anni che lasciano la nostra esistenza così com’è e attimi che
invece la stravolgono per sempre.
Succede quando tutto il caos che accumuliamo nel tempo inizia a
strabordare, perché ci sentiamo improvvisamente così deboli da non essere
più capaci di tenere tutto insieme.
È il punto di rottura, e arriva quando, guardandoci davvero dentro,
ammettiamo in silenzio ciò che fino a quel momento abbiamo cercato di
nascondere persino a noi stessi.
Il mio punto di rottura è stato l’istante in cui ho avuto un orgasmo
pensando a un uomo che non era mio marito.
Pochi minuti più tardi, riflessa nello specchio della stanza, mi sono detta:
«Vorrei un amore che non mi dà preoccupazioni, ma che me le toglie». È
stato lì che ho capito che avrei dovuto fare ciò che non avrei mai pensato.
Guardare negli occhi Alessandro e dirgli la verità.

Ho buttato via il mio secondo giorno a Roma chiusa in stanza a giocare


con i nodi dei miei pensieri, ma aspettando comunque con un leggero
entusiasmo la cena con Patrizia e tutto il resto della vita che mi sono
lasciata indietro.
Mi sono fatta bella come non succedeva da tantissimo tempo.
Di fronte allo specchio grande di quella camera da letto, mentre mettevo
un filo di trucco agli occhi e mi sistemavo i capelli con cura, ho osservato il
modo in cui il vestito che avevo deciso di indossare mi disegnava il corpo e
ho provato le stesse sensazioni che sentivo da ragazza prima di uscire la
sera con le amiche. È bastato regalarmi queste piccole attenzioni per
sentirmi quasi commossa.
Mi è mancato tanto questo modo di volermi bene.

Quando arrivo da Nannarella, uno dei ristoranti più famosi di Trastevere,


anche se io non lo conoscevo perché manco da troppi anni, trovo tutti gli
occhi che mi hanno vista crescere già lì ad aspettarmi. Patrizia mi viene
subito incontro.
La abbraccio forte, come si stringono le cose che si ritrovano dopo tanti
anni.
«Ma guardati!» mi dice, quasi urlando. «Da quanto non torni a Roma?
Neanche me la ricordo l’ultima volta.»
Insieme a lei ci sono Teresa, Luca, Valerio, Federica e Cristian: gli amici
con cui ho condiviso così tante cose che a un certo punto ho creduto che
avrebbero fatto parte della mia vita per sempre.

La cena corre via, veloce e leggera.


È stato strano ricordarli tutti giovani e pieni di aspettative per il futuro e
ritrovarli così: qualcuno realizzato per davvero, qualcuno ancora no,
qualcuno immaturo esattamente come un tempo.
Mi sono sentita bene, lì con loro, come se non fossi mai andata via. Non
hanno perso la loro ironia e la voglia di scherzare, nonostante tutti abbiano
delle vite più problematiche rispetto a quelle che ci siamo lasciati indietro.
Dopo cena, andiamo tutti insieme da Freni e Frizioni, a sorseggiare un
bicchiere di vino di fronte al Tevere, con le luci di Roma che ci riempiono
gli occhi.
Sul tardi, poi, io e Patrizia ci ritroviamo finalmente sole, com’era
successo tante volte quando ancora andavamo all’università.
«Ti va di fare una passeggiata? Roma mi manca così tanto…»
«Dovresti tornare» mi risponde lei, con il sorriso consapevole di chi sa,
però, che non succederà mai.
Le sorrido con affetto. «Fra te e Franco come va? Fino a qualche tempo
fa stavate ancora insieme, no? Non sai quanto vi ho odiati, in
quell’appartamento. Tutte le sere al telefono. Te lo ricordi?»
Patrizia scoppia in una rumorosa risata. «Quando l’ho conosciuto avevo
davvero perso la testa.»
«Sì, puoi dirlo forte.»
«Comunque ci siamo lasciati l’anno scorso…»
La guardo, sorpresa. «Davvero?»
«Già…»
«Non me lo aspettavo proprio.»
«Figurati, non se lo aspettava nessuno, qui.»
«E tu come stai?»
«Bene. Anche perché in effetti l’ho lasciato io.»
«Come mai?»
«Non so cosa fosse cambiato fra di noi, ma qualcosa di sicuro. Era come
se non fossimo più sulla stessa lunghezza d’onda, come se avesse portato a
termine il suo compito al mio fianco. So che è brutto da dire, non
fraintendermi, ma ho sempre avuto l’impressione che Franco fosse un po’
di passaggio. Alla fine siamo diventate due persone diverse e non siamo
stati capaci di smussare i nostri spigoli per continuare ad avere una forma
che collimasse. Hai presente quando guardi un vetro mentre fuori piove? A
volte vedi una goccia che scivola giù e poi si divide in due. Ecco, io e
Franco ormai eravamo così, si trattava solo di avere il coraggio di
ammetterlo. La parte più difficile di dire basta è proprio dire “Basta”.»
«E adesso? Che pensi di fare?»
«Be’, in tutta sincerità vorrei partire…»
Inarco un sopracciglio: «Partire?».
«Sì, Roma comincia a starmi davvero un po’ stretta.»
«Com’è strana la vita, eh? Io darei di tutto per tornarci, e tu vuoi
lasciartela alle spalle.»
Patrizia sorride. «Vuoi tornare proprio perché te la sei lasciata alle
spalle.»
Non le rispondo, ma in fondo credo che abbia ragione.
«Dove vuoi andare, comunque? Quanto starai via?»
«La risposta a entrambe le domande è “Non lo so”. Però vorrei vivere
fuori per un po’ di tempo. Chissà, forse anche anni. Quello che è successo
con Franco mi ha fatto riflettere. Lui era sempre sul divano, non si muoveva
mai. Se gli chiedevo di andare al mare un paio di giorni mi rispondeva che
non avrebbe spostato la macchina per un giro di sole quarantotto ore.
Capisci? Voglio pensare che la vita possa riservarmi più di questo.»
«Sì, posso capirlo. Ma perché non ricominciare da qui?»
«Il problema non è stare qui. Il problema è che io sono sempre stata qui.
Sono felice di aver chiuso la mia storia con Franco, dico davvero. Però ho
bisogno di ritrovarmi. Ho bisogno di convincermi di essere una donna che
mi piace di più rispetto a quella che sono stata fino a ora.»
«Un po’ spero che tu non dica sul serio. Non mi piace l’idea che te ne
vada chissà dove. So che non ha senso, perché la vita ci ha portate
inevitabilmente ad allontanarci. Ma mi ha sempre dato sicurezza l’idea di
trovarti qui.»
Patrizia si limita a sorridermi. «E tu, invece? Come mai sei tornata?»
Lascio il mio sguardo vagare nel buio, mentre le serrande di qualche
locale iniziano ad abbassarsi stanche.
Poi invento una scusa su due piedi.
Non le racconto la verità, non ho voglia di pensare ad Alessandro, e forse
non ne ho nemmeno bisogno. Ho bisogno di staccare per un attimo la spina
e sentirmi lontana da tutto quello che mi ha portato fino a qui.
Patrizia si rende conto che non le sto raccontando tutto, anche perché non
sono mai stata brava a mentire.
Non mi chiede spiegazioni, però.
Io, in segno di gratitudine, la abbraccio con gli occhi.
E lei, per farmi capire che ha capito, ricambia.

Il giorno dopo è già ora di tornare a casa. Prendo il treno che mi riporterà
a Trento con addosso un misto di dispiacere e di desiderio irrefrenabile di
rivedere il sorriso dei miei figli, di riabbracciarli, e perfino di bisticciare con
loro prima di andare a dormire. Mi sono mancati tantissimo e ho addosso
l’impressione di aver fatto loro un torto troppo grande.
Alessandro l’ho sentito solo di sfuggita, e poi questa mattina per
avvertirlo del mio ritorno. Lui, invece, tornerà solo fra qualche giorno.
In tutto questo, Marco si è ormai ritagliato il suo piccolo spazio nella mia
vita: uno spazio che non so definire, ma che non è più fatto solamente di
parole, ma anche di sensazioni.
Non lo sento da quell’assurda conversazione che mi ha portata a
lasciarmi andare e che, adesso, è la causa del magone e del senso di colpa di
cui non sono riuscita a liberarmi.
Nelle nostre pause, però, il silenzio che sento fa davvero rumore e la mia
testa diventa un mucchio di domande alle quali non so rispondere.
E così, mentre questo treno mi riporta a casa il cuore, faccio una cosa che
non facevo da tanto.
Rovisto nella borsa, trovo dei post-it che saranno qui da chissà quanto
tempo, e comincio a riempirli di me.

Chi sei tu? Tu che sei riuscito a svegliare


i miei sensi dal torpore
nel quale li avevo lasciati cadere senza più lottare.
Non ti conosco, ma abiti già i miei pensieri.
Ho voglia di scoprirti per scoprire cose nuove di me.
Incontriamoci da qualche parte. Dimmi tu dove.

Mi sembra di guardarti da lontano,


come un’amante timida e impacciata.
Mi hai squadernato il cuore,
hai stuzzicato la mia fantasia
e mi hai fatto tornare il desiderio di guardare il mare.

Il tuo pensiero trasforma in poesia


anche questo treno fiaccato dall’autunno.
Quando ti immagino e lascio da parte il resto,
riscaldi di possibilità una vita che ormai
mi sento addosso umida e vecchia.
Che bello immaginare ciò che non si conosce.

Sai, prima di sfiorare quello che sei


avevo perso la voglia di immaginare,
e non c’è cosa peggiore
di quando il dolore nasconde il desiderio
di fantasticare
su uno sguardo che forse non incontrerai mai.
Era tanto tempo che non ero curiosa di nessuno.
Chissà perché ora sono curiosa di te.
Chissà perché mi sono fermata proprio qui,
chissà perché il mio sguardo non è andato oltre alle parole,
e ha trovato in te un motivo per dire “stop”.
Siamo tutti impegnati a correre freneticamente avanti
ma se invece a volte il segreto fosse fermare
i propri passi
per non rischiare di perdere la bellezza
di quello che ci sta accanto?

Com’è sdraiarsi nei tuoi occhi?


E farsi portare a passeggio dalle tue mani?
E ubriacarsi con la tua voce?
E bere i tuoi pensieri?
E svegliarsi nelle tue labbra?
E mangiare le tue lacrime?
E giocare a nascondino con le tue parole?
E incontrarsi per caso?

Quando appoggio la penna mi sento svuotata, ma forse anche lucida


come non sono più da moltissimo tempo.
Rileggo distrattamente le mie parole, poi ripiego il foglietto e me lo infilo
in tasca, per consegnarlo al vento non appena scenderò da questo treno.
Con il cuore un po’ più leggero, decido di scrivere una mail a Marco.

Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 26 ottobre, ore 8.25
Non so più rispettare le regole che ci siamo dati.
Potrei chiederti di incontrarci.
Invece ti dico di non sentirci più.

Scendo a Trento che il sole è ancora alto sopra l’orizzonte, e così, prima
di correre a prendere Virginia e Federico, decido di passare da casa, perché
ho voglia di fare una cosa che non faccio da tanto.
Subito dopo aver mandato l’ultima mail a Marco, sono rimasta seduta
con lo sguardo fuori dal finestrino a vedere il paesaggio trasformarsi e
diventare quello in cui sono diventata donna. Ho pianto in silenzio, non con
gli occhi, ma con il cuore, ho rimesso piede nella città che ormai è diventata
casa mia e mi sono sentita svuotata.
Ecco perché adesso sono qui in cantina. Da un vecchio armadio, dietro a
un mucchio enorme di coperte e maglioni, recupero la scatola delle scarpe
che ho portato con me per tutta la vita e che è stato il motivo per cui la
prima conversazione fra me e Alessandro non è rimasta solo un rapido
scambio di messaggi fra uno che aveva sbagliato numero e una che stava
leggendo un libro.
Non apro questo scrigno da così tanto tempo che nemmeno me lo
ricordo, e quando le mie dita lo accarezzano mi tornano alla mente tutta una
serie di minuscoli ricordi che mi entrano nello stomaco e mi procurano una
fitta di nostalgia.
Qui dentro c’è tutto quello in cui credeva quella giovane donna ancora
piena di sogni e speranze, una giovane donna molto diversa da quella di
oggi, una giovane donna che in alcuni momenti mi manca da morire.
Sollevo il coperchio e sorrido: è tutto ancora così alla rinfusa,
esattamente come lo ricordavo.
Sfioro i miei ricordi prima con gli occhi e poi con le dita, cauta, come se
stessi accarezzando la ragazza che ero.
Rimango così per non so quanto tempo, in piedi, i ricordi di un passato
ormai remoto stretti fra le mani, poi, in quella cantina vecchia e umida, mi
siedo per terra, appoggio la schiena alla parete, mi metto la scatola sulle
gambe e inizio a rovistare.
A un certo punto, in mezzo a questo mucchio di cianfrusaglie, biglietti
ingialliti e vecchie fotografie, il mio sguardo viene catturato da un foglio
bianco perfettamente ripiegato in quattro, una precisione che non mi è mai
appartenuta.
Alzo un sopracciglio e lo spiego, lentamente. Riconosco subito la
scrittura disordinata di Alessandro e mi porto una mano alla bocca per la
sorpresa.
Ciao amore mio,
chissà quando troverai questa lettera, anzi, chissà se la
troverai mai.
Te la lascio qui perché è da qui che tutto è iniziato.
Non avrei mai immaginato che una scatola di scarpe
avrebbe potuto portarmi a una felicità così.
Dentro di me, forse, spero che queste parole non vengano
mai lette, perché qui dentro ci sono tutti i ricordi a cui ti
aggrappi quando qualcosa non va e allora forse, se un
giorno sarai qui, sarà perché non saremo più felici come
adesso.
In questo momento sei di là, nella nostra camera da letto,
hai il volto affogato nel cuscino, le mani strette attorno alle
lenzuola sul mio lato, una serenità che mi gonfia il petto di
gioia.
Ti scrivo perché voglio conservare nel tempo l’emozione
che provo adesso, per fissare da qualche parte il ricordo dei
tuoi occhi quando, solo qualche ora fa, mi hai sorriso
piangendo e mi hai detto: “Aspettiamo un bambino”.
Abbiamo costruito una casa con l’amore dentro.
Abbiamo costruito un amore con dentro una casa.
Volevo dirti che non ci ho mai visti belli come stasera,
abbracciati stretti in questa cucina, e che non mi sono mai
sentito così completo, e soprattutto che mentre ti guardo
penso che sei l’unica donna al mondo con la quale avrei
voluto vivere tutto questo.
Io non lo so cosa capiterà, non so se saremo capaci di
renderci sempre felici come abbiamo fatto finora.
Però, a guardarci stasera, non riesco a immaginare che
questo mondo possa essere capace di allontanarci da ciò che
siamo adesso.
Non posso prometterti di amarti sempre così, perché
l’amore non si promette, si costruisce.
Ti prometto una cosa però.
Ti prometto che se dovesse arrivare il giorno in cui sarai
qui a leggere queste parole perché non ti sentirai più al posto
giusto come ti senti ora, farò del mio meglio per riportarci
qui, esattamente dove siamo in questo momento.
E ti prometto che in qualche modo sarò sempre l’uomo
che sono stasera, e so che tu, da qualche parte dentro di te,
sarai sempre la donna che sei stasera.
Ti amo,
Alessandro
@leparoledimarco
Stringila forte la donna che hai a fianco,
non dare mai per scontati i suoi occhi addosso,
perché là fuori ci sono un sacco di uomini
che non aspettano altro che un tuo piccolo errore
per portartela via.
Fai in modo che la vostra unione sia sempre
una sfida da vincere.
Stringila quando te lo chiede,
ma soprattutto quando non te lo chiede affatto.
Stringila quando si difende e quando scappa,
quando piange, quando si arrabbia, quando urla.
Stringila quando ti manda via.
Stringila e dalle sempre un motivo
perché desideri che tu lo faccia.
Stringila, perché a volte è difficile da amare,
eppure così rara, perché un sorriso come il suo
non ce l’ha nessuno.
Era già meraviglioso prima che ti conoscesse,
figurati adesso che il suo sorriso sei tu.
Conservalo.
22
► [Jovanotti, A te]

Lorenzo

«Non sono perfetto, lo so, e so che l’amore è complicato e so che io


anche di più. So che qualche volta scappo, ma in realtà poi con il cuore
resto lì. Volevo dirti che però posso provare a regalarti sempre la versione
migliore di me: quella fatta di qualche abbraccio, di poche parole, di mani
da stringere, di silenzi, di baci, di carezze, di caffè e sguardi da
corrispondersi. In realtà sto cercando di dirti che se tu resti resto anche io.»
Quando ho avuto il coraggio di dire tutto ciò a Beatrice, chiusi dentro la
sua auto immobile sotto casa mia, la sera che ci siamo baciati la prima
volta, l’ho fatto con il respiro corto dell’emozione delle prime volte, e lei
non ha detto niente, però mi ha baciato in un modo che ha detto tutto quello
che c’era da dire.
Quella sera Beatrice non è salita in soffitta con me, e io non le ho chiesto
di farlo.
In fondo, era stata una giornata che ci sembrava proprio perfetta così, e
sdraiarmi nel mio letto con il suo profumo ancora sulle labbra è stata
un’emozione pura come nessuna nella mia vita.
Dopo quel bacio, io e Beatrice avremmo potuto scegliere di essere
qualsiasi cosa. Anche due sconosciuti. Perché lasciarsi andare la prima
volta è facile, il difficile è non scappare di fronte alla potenza di un
sentimento che è complicato gestire e che forse, anzi, non si può gestire
affatto.
Io e lei, però, abbiamo scelto di diventare un noi.
In realtà, a ben guardare, probabilmente non abbiamo scelto proprio
niente, perché siamo sempre stati due fin dall’inizio.
Fin dalle nostre notti sul balcone, e chissà, forse anche prima.
E così questa storia, iniziata a piccoli passi, ha cominciato a intrufolarsi
nelle nostre giornate e a colorarle di un profumo nuovo.
Ho presentato Beatrice ai miei amici, lei ha cominciato a unirsi ai nostri
pomeriggi di studio a casa di Gaia, e abbiamo continuato a vederci di
nascosto nella mia soffitta, fino a quando, una sera, proprio lì, abbiamo
deciso di fare l’amore la prima volta.
Veramente non l’abbiamo deciso, è successo in modo naturale, come
tutte le cose belle. E quelle giuste, soprattutto.
Non le ho chiesto se fosse la sua prima volta e lei non mi ha chiesto se
fosse la mia, perché non era importante.
I nostri movimenti erano timidi e impacciati e il rossore delle sue guance
tradiva un leggero imbarazzo.
Beatrice ha un modo dolce di fare l’amore, con il corpo ma anche con gli
occhi, tende a tenerli fissi nei miei e a socchiuderli in alcuni momenti, e a
me piace guardarli e immaginare di essere dentro di lei anche con la testa.
Quando i baci sono diventati qualcosa di più, lei mi ha detto una cosa che
non scorderò mai.
«A volte, quando ti ho di fronte, mi basta che non fai nulla. Io ti guardo,
tu respiri, e io ti sento.»
Io non ho risposto.
«Lorenzo, ma tu dove l’hai messo, il cuore?» mi ha chiesto allora lei.
«In tanti posti, ma prima d’ora mai in un’altra persona. Lo si può mettere
ovunque, ma non in chiunque.»

La prima volta che io e Beatrice facciamo l’amore è notte fonda, le


persiane della soffitta sono chiuse del tutto ed è così buio che non posso
guardarla negli occhi.
Sento i suoi capelli sparpagliati sul mio petto, però, e le sue gambe
attorcigliate attorno a me come a non farmi andare via, e il suo profumo che
mi ricorda il mare d’inverno.
Stare al buio con qualcuno aumenta incredibilmente l’intimità fra due
persone, forse perché non siamo distratti da tutto il resto e ascoltiamo
davvero.
Capita così fin da bambini: i segreti veri si confessano con la luce spenta.
«Mi piace il modo che hai di abbracciarmi mentre facciamo l’amore,
sai?» mi dice, a un certo punto, mentre il suo respiro regolare mi riscalda il
cuore.
«E in che modo ti abbraccio?» le domando io, allora.
«Dimmelo tu…»
«Ti abbraccio come si abbraccia qualcosa che non si vuole più lasciare
andare via. A me, invece, piace il modo in cui fai l’amore con me.»
«E in che modo faccio l’amore con te?»
«Dimmelo tu…»
«Lo faccio con ogni parte del tuo corpo: con le mani, gli occhi, le parole,
i silenzi, i capelli, le labbra, il cuore e la testa. Faccio l’amore con il tuo
modo di farmi sentire unica e irripetibile. Con le parole che ci siamo già
detti e con tutte quelle che ci diremo. E anche con quelle che forse non ci
diremo mai. Lo faccio per i tuoi sorrisi, che ho scoperto così simili ai miei,
e per come muovi le mani. E per come sei. Ma soprattutto per come siamo.»
Fa una breve pausa, poi, accennando un sorriso, mi domanda: «E lo sai
perché faccio l’amore così, con te?».
«No, perché?»
«Perché tu per eccitarmi non hai mai avuto bisogno di spogliarmi.»
Scuoto la testa. «Sai essere sempre imprevedibile, sempre. Romantica,
ma anche un po’ sfacciata. Tutto insieme. È bello.»
Beatrice si limita a nascondere il suo sorriso nel mio collo, senza dire
niente.
Rimaniamo un po’ di tempo in silenzio, ad ascoltare i nostri respiri e un
venticello leggero che fa vibrare le finestre.
Poi, a un certo punto, Beatrice mi fa una domanda che proprio non mi
aspettavo, soprattutto in quel momento lì.
«Qual è il dolore più forte che hai provato?»
Io resto in silenzio e continuo a giocherellare con qualche ciocca dei suoi
capelli.
«Sai che cosa mi è sempre piaciuto di te?» mi chiede allora, con
l’improvvisa consapevolezza di aver sfiorato una parte di me che non
conosceva.
«Che cosa?» sussurro.
«Il fatto che anche quando ancora non ci eravamo nemmeno mai visti era
già come se riuscissi a sentirti…»
«A sentirmi?»
«Sì. Sentirti dentro, voglio dire. Come se fra di noi ci fosse una
connessione. Capisci che cosa voglio dire?»
Sorrido nel buio. «Sì…»
«Ecco, io ti immaginavo proprio così: un po’ taciturno e un po’ no, con la
voglia di restare ma la tendenza a scivolare via, per paura di affezionarti.
Seduta là per terra, mentre ti ascoltavo suonare, era come se conoscessi già
questo ragazzo che fumava di nascosto, un ragazzo che si prendeva una
vacanza dal mondo insieme alla sua chitarra, un ragazzo solitario e in
qualche modo ribelle, senza esserlo davvero, un ragazzo che dietro quella
voce timida ma decisa nascondeva un mondo fatto di errori, delusioni,
dolori e qualche piccola felicità. Un mondo che hai sempre sepolto sotto al
tuo sorriso da bravo ragazzo e ai tuoi occhi azzurri per tenerlo al riparo da
chiunque. Solo che, ed è questo che mi ha sempre fatta sentire così vicina a
te, e così rara e speciale, è un mondo che non hai mai tenuto al riparo da
me.»
Mentre ascolto le parole di Beatrice, dette così, a voce bassa, come se mi
stesse confidando un segreto, percepisco netta la presenza di quel filo
invisibile che ci ha sempre tenuti legati anche quando ancora non lo
eravamo.
Se in mezzo a tutte le persone che hai incontrato nella vita, ne trovi una
con cui all’improvviso le parole non servono perché vi basta la magia di
uno sguardo per capirvi senza sforzo, ecco, quello lì è un piccolo miracolo.
Vi auguro di rendervene conto quando vi capiterà di avere addosso per
una frazione di secondo gli unici occhi capaci di cambiarvi la vita per
davvero. Di avere il talento di riconoscere quello sguardo e il coraggio di
fare qualsiasi cosa pur di tenervelo stretto.
Abbiate cura di continuare a conquistarlo e di trattarlo con gentilezza e di
maneggiare con cautela le piccole confidenze che decide di regalarvi.
Abbiate cura di chi si fa vedere forte solo perché ha paura di non sentirsi
all’altezza.
Le ho sempre amate, le persone imprigionate dentro il timore di non
essere abbastanza, quelle che si sentono in difetto e che vivono con la paura
di disturbare, quelle che non regalano parole a chiunque, ma che le pesano e
le trattano come pietre preziose.
Ho sempre amato le persone con la tendenza a stare in un angolo, quelle
con l’abitudine di parlare poco e osservare a lungo, quelle che entrano nella
tua vita piano piano e si fanno spazio in punta di piedi.
Abbiate cura delle persone che hanno paura di essere deluse di nuovo, ma
che decidono di lasciarsi andare proprio con voi, perché sono quelle che
sanno amare di più, ma soprattutto quelle che sanno amare davvero.
Abbiatene cura, perché sanno darvi tutto, ma se vanno via poi non
tornano più.
«Sei bello quando pensi, lo sai?» Beatrice mi strappa via da quelle
riflessioni.
«È per questo che mi piaci così tanto, lo sai?»
«Per che cosa?»
«Perché sai sempre cosa dire anche quando magari non ci sarebbe da dire
niente…»
«Non lo faccio di proposito.»
«Lo so…»
«Hai voglia di venire in un posto con me?» le chiedo d’un tratto, dopo un
po’.
«Sai benissimo che a questa domanda risponderò sempre di sì.»
L’abbraccio e poggio le labbra sulla sua fronte. «Allora andiamo.»
Beatrice si scosta appena per riuscire a guardarmi negli occhi. «Adesso?»
mi chiede, stupita.
«Sì, adesso.»
«Ma è tardissimo» mi risponde, ridendo.
«Ce ne è mai importato qualcosa, del tempo?» rido anche io.
«No, mai.»

Non avrei mai pensato di riuscire ad aprirmi tanto con una persona.
Il posto in cui voglio portare Beatrice si trova a pochi passi fuori dal
centro di Trento, si raggiunge percorrendo un lungo viale alberato ed è un
posto in cui è vietato andare di notte.
Scavalchiamo un muretto silenziosi e furtivi, senza essere visti da
nessuno, e poco dopo, nel buio, ci ritroviamo davanti a una lastra di marmo
bianco.
Ci sediamo lì per terra.
Lo sguardo di Beatrice è sereno e ha il potere di tranquillizzare anche me.
«Era tuo fratello?» mi domanda.
Annuisco. «Sì.»
Beatrice rimane qualche secondo in silenzio. «Come è successo?»
«Ha fatto un incidente in auto. Era ubriaco.»
Mentre pronuncio queste parole, stringo i pugni e Beatrice se ne accorge.
«Avevate un bel rapporto?»
«Era l’unica persona di cui mi fidassi davvero.»
Beatrice mi guarda un attimo, apre la bocca e poi la richiude senza dire
niente.
«Non ero mai stato qui, da quando è successo. Oggi è la prima volta.»
Sul suo viso fa capolino un pizzico di stupore che non riesce proprio a
nascondere.
«Quanto tempo fa è accaduto?» mi domanda, allora.
«Due anni. E a ripensarci adesso sembrano davvero passati alla svelta…»
Beatrice si mordicchia il labbro, come se volesse dirmi qualcosa ma
avesse il timore di essere fuori luogo.
«Non avere paura. Non avrei mai pensato di portare qui qualcuno,
nemmeno ci ero mai venuto, e invece ci ho portato te» le dico allora. «Mi
hai chiesto quale fosse il dolore più forte che ho provato in vita mia. È
questo.»
Lo sguardo di Beatrice si assottiglia un po’. «L’hai superata?» mi chiede.
«Non lo so. È che c’è qualcos’altro, oltre alla disperazione di averlo
perso.»
«Cosa?»
«È che sono arrabbiato.»
Non l’avevo mai detto a nessuno. Avevo lottato con i miei mostri
nascondendoli al mondo intero.
Beatrice, però, ha il potere di farmi aprire senza forzature.
Inarca le sopracciglia, stupita. «Arrabbiato?»
«Non sono mai riuscito a perdonarglielo, il fatto che fosse ubriaco. È
colpa sua.»
Lei rimane in silenzio per un po’. «C’è una cosa che nella vita, secondo
me, è più importante di saper amare, di saper prendersi cura, di saper
restare, una cosa più importante di tutto il resto. Sai qual è?»
«No.»
«Saper perdonare, Lorenzo. Perché per quanto possiamo avere il talento
di praticare tutto ciò che ho detto prima, siamo incredibilmente imperfetti. E
in quanto imperfetti sbagliamo in continuazione. Prima o poi finiamo
sempre per deluderci a vicenda. È per questo, per andare avanti, e
soprattutto per vivere sereni e senza rancori, che bisogna imparare a
perdonare.»
Rimango immobile con le braccia lungo i fianchi mentre le sue parole mi
entrano dentro e poi si perdono da qualche parte.
Non le rispondo, e sono sicuro che ormai mi conosce abbastanza bene per
sapere che non lo farò mai.
«Beatrice…» le dico invece.
«Sì?»
«Ti amo.»
Lei si volta verso di me e sgrana gli occhi.
Di certo non si aspettava che glielo dicessi così, davanti alla lapide di
mio fratello, mentre stiamo parlando di tutt’altro.
Solo che ho sentito il bisogno di farlo e non ho avuto voglia di resistere.
Beatrice non dice niente, si volta di nuovo a guardare la fotografia di mio
fratello e, delicatamente, mi prende la mano e incastra le sue dita alle mie.
È il suo modo di dirmi anche lei “ti amo”, con un gesto e non con le
parole.
Poi, poco più tardi, prima di salutarci sotto casa sua, me lo dice anche a
voce.
«Lorenzo…»
«Sì?»
«So che forse non c’è bisogno che te lo dica, ma ti amo anche io.»
Le sorrido appena, con le labbra ma anche con gli occhi.
«Lo sai perché ti amo?» le chiedo.
Beatrice scuote la testa.
«La verità è che non lo so nemmeno io. Ti amo, punto. Ho sempre
pensato che l’amore non ha spiegazioni, e che non si dovrebbe mai amare
per bisogno, ma solo perché si ama e basta. Io non mi sveglio tutti i giorni
con il bisogno di vederti, ma con il desiderio di vederti.»
Mi guarda in un modo tutto suo. «E sai perché ti amo anche io?» mi
domanda.
«No, perché?»
«Perché odio la pioggia, ma se ci stiamo baciando può anche diluviare,
non me ne importa niente.»
Questa è stata l’ultima volta che io e Beatrice siamo stati qualcosa.
23
A volte ci vuole il coraggio di dire basta

Elisabetta

C’è una cosa che mi ha sempre tenuta legata ad Alessandro, ed è la


consapevolezza che abitava in me ogni volta che provavo a immaginarmi
senza di lui. La consapevolezza di non saper ignorare il suo sorriso,
nonostante tutto. E allora fra un “lo so che dovrei lasciar perdere” e un “lo
so che continuo a farmi del male e che è sbagliato”, ci ho sempre fatto stare
un “vorrei imparare come si fa a non averti più, ma proprio non ci riesco”.
Una mattina, invece, all’improvviso, mi sono svegliata e mi sono detta
che non avrei più potuto continuare ad andare avanti così.
A volte ci vuole il coraggio di dire basta: quando viviamo un amore che
si è scordato del sorriso, bisogna accettare che una storia non deve andare
avanti per forza a tutti i costi.
Gli scricchiolii fra me e Alessandro sono ormai diventate crepe profonde,
io sono stanca di chiedere continuamente scusa per la donna che sono e lui
è sicuramente stanco di chiedere scusa per l’uomo che è.
Ci sono tanti motivi per i quali ci si può sentire sbagliati dentro una
storia, e io, in fondo, non credo che Alessandro sia sbagliato, né che lui
pensi che lo sia io, semplicemente non siamo più giusti insieme, perché
dev’esserci qualcosa di estremamente scorretto quando l’amore inizia a fare
male e smette di rendere felici.
Avete mai visto due innamorati con lo sguardo triste?
E allora, qualche volta ci vuole il coraggio di andare via, il coraggio di
pensare che una fine non è mai solo una fine, ma anche l’inizio di qualcosa
di nuovo.
Così, il sabato successivo al mio ritorno da Roma, quando io e
Alessandro ci siamo infilati sotto le coperte, mentre i bambini dormivano
serenamente nella stanza accanto, ho cominciato a baciarlo teneramente,
come non facevo da tantissimo tempo, e abbiamo fatto l’amore immersi in
un silenzio quasi irreale, per il timore di svegliare Virginia e Federico.
Ho dovuto lottare per non piangere al momento dell’orgasmo, perché
dentro di me abitava la consapevolezza che, probabilmente, quella sarebbe
stata l’ultima volta che avrei sentito mio marito così.

Poco più tardi, mentre siamo sdraiati di schiena e ancora nudi, ognuno
nel suo lato del letto, serro i pugni sotto le lenzuola e mi faccio forza.
«Alessandro…» gli dico.
«Sì?»
«Devo dirti una cosa…»
«Che cosa?»
Mi sembra di non avere più nemmeno un filo d’aria nei polmoni.
«Scusami. È che non so da dove cominciare…»
Lui si muove appena sul materasso ma non dice nulla.
Ho la sensazione, però, di percepire una leggera agitazione
nell’impercettibile modificarsi del suo respiro.
Alla fine lo dico velocemente, per fare in modo che le mie parole
rimbombino per meno tempo possibile tra queste mura.
«È da un po’ di tempo che mi scrivo con un altro uomo…»
Alessandro rimane zitto per qualche secondo.
Poi mi dice solamente: «Lo so».
@leparoledimarco
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24
► [Briga, Rimani qui]

Lorenzo

A volte non serve sentirsi dire “addio” per sapere che è a quello che si è
giunti.
Gli addii più veri sono quelli senza parole, quelli sussurrati con le dita
mentre facciamo l’amore con qualcuno per l’ultima volta, quelli detti in
silenzio, con un messaggio che rimarrà per sempre senza risposta.
Fa davvero paura come le cose belle possano iniziare quando non te lo
aspetti e poi finire all’improvviso.
A guardarmi indietro, non saprei nemmeno dire quando è cominciata
davvero la storia tra me e Beatrice: se su quel balcone, l’anno scorso,
oppure nel nostro primo intrecciarsi di sguardi, nell’appartamento di Gaia, o
il giorno in cui ci siamo nascosti in soffitta e ci siamo raccontati come non
avevamo mai fatto prima.
Quello che so, però, è il momento esatto in cui ho cominciato a sentire
Beatrice lontana, così, tutto a un tratto, il giorno dopo che il suo “ti amo”
appena sussurrato mi era entrato dentro fino allo stomaco.
È successo la mattina successiva, quando mi sono svegliato con il suo
profumo ancora addosso e le ho scritto un messaggio al quale lei, però, non
ha mai risposto.
25
Sai che cosa mi manca? Sentirmi protetta

Elisabetta

Rimango a fissare Alessandro mentre quel “lo so” quasi bisbigliato mi


rimbomba nella testa.
Era tantissimo tempo che le parole di mio marito non mi facevano così
tanto rumore dentro, e sento un nodo salirmi in gola insieme a tutto il mio
senso di colpa.
Improvvisamente, quella piccola magia che si era ricreata poco fa,
mentre facevamo l’amore, è svanita. Anche se nel modo in cui l’abbiamo
fatto si percepiva che c’era un pizzico di coraggio nuovo, quello di dirci che
forse questo non era più l’amore per il quale avevamo voglia di lottare.
Apro gli occhi e, con un coraggio che non so da dove ho recuperato, mi
volto verso mio marito, trovando il suo sguardo già lì ad aspettarmi. Uno
sguardo che mi fa vedere gli ultimi mesi della nostra relazione da una
prospettiva completamente diversa.
Improvvisamente io sono diventata la carnefice e Alessandro l’uomo
innamorato che è rimasto in silenzio davanti al tradimento di sua moglie,
solo perché non voleva mollare la presa ma cercare di riconquistarla.
Ho rivisto i suoi silenzi, il suo essere schivo e poco presente, le liti che
scoppiavano per nulla e, per una frazione di secondo, mi è sembrato di
riconoscere l’uomo di cui mi sono innamorata.
Mi porto le mani sul volto.
Non saprei dire per quanto tempo rimaniamo così, improvvisamente
divisi non solo dalle nostre incomprensioni ma da qualcosa di molto più
grave, qualcosa che, forse, ha ridotto la nostra storia in frantumi.
«Scusami…» riesco a dire, alla fine, con la voce rotta dai sensi di colpa e
dalle mie paure.
«Non chiedermi scusa, Elisabetta…» La voce di Alessandro invece è
ferma, e la serenità che ho la sensazione di percepire nelle sue parole mi fa
ancora più male, perché mi spinge a credere che forse in questi mesi l’ho
deluso così tanto da indurlo a metabolizzare il dolore. Il suo tono, così saldo
e tranquillo, mi sembra già un addio.
«Quando l’hai scoperto?» gli domando a un certo punto.
Alessandro fa un sospiro che non riesco a interpretare. «Veramente l’ho
sempre saputo…»
La sua affermazione mi fa montare dentro una rabbia improvvisa, e gli
rispondo quasi urlando, per difendermi.
«E perché sei sempre rimasto in silenzio? Perché non mi hai fermata?»
Mio marito rimane zitto a guardarmi.
«Io non volevo farlo davvero» proseguo. «Avrei avuto solamente bisogno
che tu mi venissi a prendere e mi riportassi a casa fra le tue braccia. Avrei
avuto bisogno di sentire sulla pelle che mi volevi ancora. E invece hai
scelto il silenzio, perché? Perché hai deciso di lasciarmi andare e non hai
mosso un dito per impedirlo? Non stai lottando per la nostra storia neanche
ora. Sei rimasto zitto a guardarmi andare via.»
Per la prima volta dall’inizio di questa conversazione mi sembra di
cogliere un barlume di incertezza sul volto di Alessandro, un’incertezza
che, in qualche modo, mi fa recuperare una briciola di coraggio.
E così, siccome lui continua a tacere, urlo. Forte, senza controllo.
«Dimmelo! Perché lo hai fatto, perché?»
Dopodiché mi si spezza la voce e scoppio a piangere. Un pianto nervoso,
di quelli che escono fuori quando hai resistito troppo per trattenerti.
Alessandro apre la bocca, poi la richiude, infine dice quattro parole che
spazzano via tutte le mie certezze.
«Perché Marco sono io.»
Il cuore comincia a martellarmi nel petto e nella testa, e mi porto le mani
alla bocca, un po’ per lo stupore, un po’ per la vergogna, senza più la forza
e il coraggio di dire niente.
Il silenzio che segue le parole di Alessandro è il più assordante di tutta la
mia vita, e dura così tanto tempo che non saprei proprio quantificarlo.
Alla fine, non so nemmeno come, riesco a domandargli: «Come hai fatto
a scoprirlo? Insomma, che Sofia ero io, intendo…».
«L’ho sospettato fin da subito, perché quando mi è arrivata la tua prima
mail, così breve e concisa, con quella domanda che voleva dire tutto e
niente, mi sei subito venuta in mente tu. Ho pensato che nessun’altra donna
al mondo avrebbe potuto scrivere un messaggio così…»
Io, allora, quasi fra me e me, sussurro: «“Balli mai quando la musica non
c’è?”».
Alessandro accenna un sorriso. «Sì, esatto. Naturalmente, avrebbe potuto
essere chiunque, ma i mesi precedenti avevo trovato qualche tuo commento
sul mio blog. La prima volta sono rimasto davvero stupito, ma mi piaceva
che tu mi leggessi senza sapere che ero io. Poi una notte, mentre dormivi,
ho sentito il bisogno di verificare il mio sospetto, ho guardato il tuo
cellulare di nascosto e ho trovato lì una mia mail ancora da leggere…»
Scuoto la testa nel buio. Non mi sono mai vergognata tanto in vita mia.
Al pensiero di quando ero a Roma, a scrivere quelle cose a un uomo che
invece era mio marito, mi si contorce lo stomaco.
«Scrivevi quelle cose dedicate alle donne, perché? Perché, invece di
scriverle lì, non le mettevi in pratica qui, a casa nostra?»
Ero un fiume in piena di vergogna, delusione, rabbia.
«Scrivevo di tutto ciò che non ero più capace di darti. Tra le mie parole,
nascosta fra una riga e l’altra, ci sei sempre stata tu.» Alessandro fa una
piccola pausa, poi prosegue. «Devo dirti una cosa importante, però…»
«Che cosa?»
«Anche se all’inizio non ero certo che dall’altra parte dello schermo ci
fossi davvero tu, ho risposto comunque. E sono stato al gioco, e ne sono
rimasto coinvolto come te. E…» Si ferma un momento, come se avesse
improvvisamente paura di ciò che sta per dire.
«E…?»
«E… quello che era cominciato come un gioco ha smesso di esserlo
molto presto. Ed è stato davvero brutto quando, dopo tutti questi anni
insieme, mi sono riscoperto capace di provare qualcosa di forte per una
donna che potevi non essere tu. E soprattutto di essermi scoperto capace di
tradirti, in qualche modo. Perché, in fondo, poco importa chi ci fosse
dall’altra parte. La verità è questa. Ci siamo traditi di nascosto e ci siamo
mentiti a vicenda.»
Non riesco proprio a smettere di piangere, così chiudo gli occhi e cerco
di tranquillizzarmi un po’, nonostante sia davvero difficile.
«Ci siamo traditi…» ripeto poi, piano, confermando le sue parole.
Dirlo così, a voce alta, fa più male che mai.
Alessandro, accanto a me, rimane immobile e in silenzio.
Un silenzio che mi scava un burrone dentro, freddo.
«Come siamo arrivati a questo punto?» gli chiedo.
Ci siamo posti questa domanda tantissime volte, ultimamente. E abbiamo
provato a darci sempre risposte diverse, senza che nessuna fosse mai quella
giusta.
«La verità è che non lo so…» mi risponde lui. Poi, dopo una breve pausa,
lo chiede a me. «Secondo te?»
«Non lo so nemmeno io.»
Rimaniamo in silenzio per un po’.
«Che cosa facciamo adesso?» gli domando alla fine, nascondendo di
nuovo il viso fra le mani.
Alessandro si muove appena sul materasso e fa un respiro più lungo degli
altri.
«Ci siamo perdonati tantissime cose, nel corso della nostra storia. Cose
piccole e cose più grandi. Questa, però, credo che non possiamo
perdonarcela. Non possiamo far finta di non aver superato un confine che
non andava superato. E non possiamo vivere fingendo che possa essere
stato normale, dopo tanto tempo, sentire il desiderio di una via di fuga.
Perché non lo è. La verità è un’altra, Elisabetta…»
Chiudo gli occhi, sconfitta. «E quale, Alessandro?»
Dentro di me, però, conosco già la sua risposta. Ho solo bisogno di
sentirmela dire in faccia.
«La verità è che insieme non siamo più felici.»
Rimango zitta, mentre un’ultima lacrima mi riga la guancia e mi bagna le
labbra. Poi sospiro appena, come si fa quando finalmente prendiamo atto di
qualcosa di irreversibile.
In questo momento, in qualche modo, sto accettando di essere arrivata al
capolinea del mio matrimonio.
«E Virginia e Federico?» chiedo ad Alessandro.
«L’hai detto tu, giusto qualche settimana fa. E avevi ragione. Ci ho
pensato molto, in questi giorni. Per essere felici non hanno bisogno di due
persone che non sono capaci di essere felici nemmeno fra di loro.»
Annuisco nel buio. «E così eccoci qui. Alla fine non ce l’abbiamo fatta
nemmeno noi…»
Sono quasi sicura che anche Alessandro stia piangendo di nascosto,
dall’altra parte del letto.
Mi sento svuotata e, quando Alessandro si alza, accende la luce fioca
dell’abat-jour, butta qualche vestito alla rinfusa in una borsa e mi dice
«Vado a dormire da Riccardo», non trovo la forza di muovere nemmeno un
muscolo.
E così rimango lì a fissare il profilo della sua schiena nella penombra e a
pensare che quella non può essere davvero l’ultima volta che guardo mio
marito lasciarsi indietro il letto che abbiamo sognato di condividere per
sempre quando abbiamo deciso di sposarci.
«Ciao» mi dice a bassa voce, senza nemmeno voltarsi indietro, poi si
richiude la porta alle spalle, e si lascia dietro tutta la nostra storia, e si lascia
dietro me.
@leparoledimarco
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26
► [Ligabue, Ho messo via]

Lorenzo

Quando qualcosa non va vado al mare.


La prima volta avevo dodici anni, avevo appena scoperto che la mia
fidanzatina di allora mi aveva tradito con il mio compagno di banco e avevo
perso la voglia di tutto.
Ci ho messo tanto tempo a superarla, perché quando fai i primi passi
dentro l’amore e scopri quanto può fare male rimani sempre smarrito per un
po’.
Ricordo che per un anno non sono più riuscito a guardare una bambina
negli occhi, non riuscivo a immaginarmi mano nella mano con nessuno, mi
chiedevo se quel dolore che sentivo sarebbe mai svanito.
Poi una mattina, insieme a mamma e papà, e anche a Niccolò,
naturalmente, abbiamo deciso di fare una gita fuori porta. Papà ha guidato
per ore, fino al mare.
Ricordo la luce del sole riverberarsi sulle onde, la spiaggia affollata, la
sabbia sgranarsi fra i miei piedi nudi.
Quel giorno, senza dire niente, mi sono seduto di fronte al mare, ho
lasciato che il mio sguardo si perdesse nell’orizzonte e ho sentito i raggi del
sole riscaldarmi il petto. Per una frazione di secondo, dopo un’infinità di
tempo, mi sono sentito inaspettatamente felice.
Ho guardato il cielo, ho bisbigliato un bel “vaffanculo”, ché le parolacce
da bambini hanno tutto un altro sapore, e ho finalmente messo un punto al
dolore. Quel mare lì era riuscito a farmi finalmente scattare il cuore in
avanti e ho ricominciato a sorridere.
Quando pensate che non ci sia via d’uscita alle lacrime, allora andate al
mare.

Al messaggio che ho inviato a Beatrice e a cui lei non ha risposto ne sono


seguiti mille altri, e mille chiamate, e mille suoi silenzi.
Silenzi che, inizialmente, ho provato a riempire di giustificazioni ma che,
poi, non sono più riuscito a scusare.
Un giorno sono andato fuori dalla sua scuola per intercettarla, ma ho
scoperto che Beatrice a scuola, in quei giorni, non ci stava proprio andando.
In tutto questo, veloci come non pensavo potesse accadere, le settimane
sono corse via, tra mattinate sui banchi fatte di ore in cui non riuscivo a
concentrarmi su niente, giornate intere trascorse con gli amici per cercare di
non pensare e un autunno che si stava trasformando in inverno e lasciava
cadere fiumi di foglie per le vie della città.
Non me lo ero immaginato, di dover trascorrere il primo freddo senza il
respiro di Beatrice a riscaldarmi, e nemmeno di non riuscire più a salire in
soffitta, perché quelle mura ormai erano impregnate del ricordo di lei.
Sono state settimane surreali: il suo “ti amo” mi era sembrato l’inizio di
ogni cosa e invece si era rivelato la fine di tutto ciò in cui credevo.
Avevo l’impressione che Beatrice mi avesse lasciato con il fiato sospeso,
nel bel mezzo di una storia che forse doveva ancora cominciare.
Mi aveva lasciato con l’unica domanda che un amore finito non dovrebbe
mai lasciarci fra le dita.
Perché?

Una mattina, mentre stavo andando a scuola anche se mi sentivo


scoppiare, ho cambiato strada all’improvviso, sono corso in stazione e ho
preso il primo treno.
Qualche ora più tardi ero seduto in faccia al mare, e nelle onde che si
infrangevano sulla riva mi pareva di veder fluire i miei pensieri.
Cos’è che ti ha fatta scappare?
Come fa un “ti amo” a trasformarsi improvvisamente in un addio?
Perché, alla fine, mi hai deluso anche tu?
Ecco, soprattutto questo. Perché mi hai deluso anche tu?
Di fronte a tutta quella grandezza, sulla spiaggia deserta di un ottobre
ormai inoltrato, ho scritto una lettera.
Una lettera a Beatrice.
Una lettera che però Beatrice non leggerà mai.
Ciao Beatrice,
dove sei ora?
Anzi, dove siamo ora?
“Si dà sempre troppa importanza a chi se ne va, e troppa
poca importanza a chi resta.”
Me l’ha detto Celeste qualche giorno fa.
L’ha detto solo per anestetizzare il dolore della tua
perdita, però credo abbia ragione.
La verità è che sono così arrabbiato che vorrei davvero
smettere di amarti.
Solo, non ho ancora capito come si fa.
Mi hai allontanato e hai deciso che non avrei più avuto
tue notizie, e ti ho ascoltato.
Mi sono nascosto in un angolo insieme ai miei perché.
Arriverà il giorno in cui ci incontreremo, ne sono sicuro.
E non so cosa sentirò dentro, e cosa sentirai tu, e come ci
guarderemo. Ma so che appena sfiorerai i miei occhi ti verrà
in mente il modo unico che avevo di amarti.
Perché di una cosa sono certo.
Nessuno ti guarderà mai come ti guardavo io.
È che sei bella, tu.
Bella da correre da te quando vuoi scappare, bella da
cercarti quando ti perdi, bella da portarti al mare.
E poi eravamo belli insieme, di quella bellezza che
sfrigola nell’aria e che ti fa brillare la luce negli occhi.
Non so perché è finita, ma so che non tornerai.
Lo sento.
Sai, nonostante tutto, fra qualche mese prenderò la
maturità, e per la prima volta in vita mia sono fiero di me
stesso, perché so che questo traguardo lo devo solo a me.
Ho imparato a convivere con le mancanze, con gli
attacchi di panico che ho avuto in passato e con i mostri che
mi porto dietro.
Mi dispiace guardarmi attorno e vedere così poco.
Poco di tutto.
Persone che vanno sempre di corsa come automi, con lo
sguardo spento.
Persone che non sanno cosa significa combattere.
Appena le cose diventano difficili, loro mollano.
Mollano sempre.
Mi dispiace perché, invece, pensavo che tu fossi di più.
Di più di tutto.
Ne ho avute di delusioni, ma non avevo smesso di
aspettare qualcuno che vedesse il mondo come lo vedo io.
Sono stanco dei “Non sei tu, sono io che non sono pronta
per una relazione”. Anche se sono detti in silenzio, come hai
fatto tu.
Sono abbastanza sveglio da sapere che chi ti vuole, ti
vuole e basta, il resto sono solo scuse.
E io voglio un amore così, un amore che resti, che
combatta con me, spalla a spalla.
Merito la tranquillità di un tramonto al mare, baci che
leniscano ogni ferita e abbracci che scaldino il cuore.
Merito di non sentirmi sbagliato, perché mi ci sono
sentito per troppo tempo.
Ci ho messo un po’ per imparare a capirmi, e ancora ne
devo fare di strada.
Ho sempre cercato risposte.
Perché papà tratta male mamma?
Perché torna a casa con l’odore di un’altra donna
addosso?
Perché è come se per lui fossi solo un fantasma?
Perché Niccolò non è stato più attento?
Sono cresciuto pensando di non meritare amore, convinto
che se avessi fatto entrare qualcuno nella mia vita sarei
rimasto ferito.
Nonostante questo mi sono buttato con te, perché ho
voluto smettere per un po’ di sprecare la vita.
Se solo sapessi quante volte in questi giorni mi sale negli
occhi il rimpianto di ciò che avremmo potuto avere. Se solo
sapessi come ho provato a trovarti in altri occhi, sbirciandoli
appena, per poi scoprire che era solo un altro modo di
perderti.
Perché sei andata via?
Come hai potuto dimenticare che fortuna è stata trovarci?
Ti è mancato il coraggio, oppure no?
In questo dolore mi faccio tutte queste domande.
Quante lacrime dobbiamo versare, prima di farle
diventare di nuovo sorrisi?
Lorenzo

In queste settimane senza Beatrice mi sono riempito di cose da fare per


provare a smettere di pensare a lei e di pensare a me.
Eppure sapevo che non me lo meritavo, che per quanto odiassi Beatrice
non potevo proprio fare a meno di amarla, che da quando aveva deciso di
andarsene, la vita aveva improvvisamente perso di nuovo quell’aura di
bellezza che aveva indossato da quando lei vi era entrata in punta di piedi.
Sapevo che, per quanto continuassi a ripetermi che se fosse tornata io non
sarei comunque mai tornato sui miei passi, se invece lo avesse fatto davvero
non sarei mai riuscito a non correrle incontro. E soprattutto sapevo che non
trovavo davvero una spiegazione, perché, nonostante tutto, e di questo ne
sono certo, gli occhi di Beatrice non sono mai stati capaci di mentire.
Sapevo come mi guardava, come mi toccava, come eravamo capaci di
completarci a vicenda.
Quello che non sapevo, però, era che Beatrice, in qualche modo, non era
andata veramente via.
27
Ci sono vuoti che pesano di più quando si tenta di
colmarli con chiunque

Elisabetta

“Sono sola perché ho capito che fa meno male così, piuttosto che avere
accanto la persona che amo e sentirmi sola lo stesso.”
È questa la frase che ho imparato a ripetermi per difendermi, dopo che il
mio matrimonio con Alessandro è definitivamente andato a rotoli, perché
ho capito che, agli occhi degli altri, se a quarantacinque anni hai fallito in
amore significa che hai fallito su tutta la linea.
Mi ero innamorata di Alessandro quando avevo cominciato a capire che
il nostro era un amore che non faceva promesse, ma le manteneva, e così mi
ero illusa che tutto ciò che avevamo costruito negli anni fosse
indistruttibile.
Adesso, invece, devo imparare ad accettare che non era così.
E ci vuole tanto coraggio.
Ci vuole coraggio a trovare da qualche parte la voglia di preparare quella
colazione che una volta preparavi per due, e che adesso invece prepari solo
per te, ci vuole coraggio a uscire di casa, al mattino, andare a scuola ed
essere sempre gentile con i miei studenti, sforzandomi di non rovesciare
addosso a loro la mia vita privata.
Ci vuole coraggio per vivere le giornate con il cuore rotto a metà, per
raccontarti che andrà tutto bene e che, alla fine, quelle che stai lasciando
andare sono due mani come tante altre, che non avevano poi niente di così
speciale.
Soprattutto, ci vuole coraggio a pensare non tanto a quello che è
successo, ma a quello che accadrà.
Perché la verità è che niente sarà mai più come prima e tutte quelle
certezze fatte di mani, sguardi e sorrisi che eri riuscito a mettere in piedi
negli anni adesso sono andate in frantumi, insieme a tutto ciò in cui hai
creduto fino a quel momento.
Nei giorni seguenti alla notte assurda in cui abbiamo deciso di dirci
addio, Alessandro è passato da casa per prendere le sue cose, mentre io non
ero in casa e i bambini erano a scuola.
Con loro abbiamo affrontato la questione separatamente, con la
delicatezza di due genitori intelligenti che però non hanno voglia di venirsi
incontro.
Virginia è scoppiata a piangere e Federico, facendomi commuovere, le ha
preso la mano e gliel’ha stretta forte.
Io ho utilizzato questi giorni per metabolizzare tutto quello che sta
succedendo e affrontare la situazione come dovrebbe fare una donna adulta.
Un giorno però, quando sono rientrata da scuola e ho trovato la casa
svuotata da qualsiasi cosa mi raccontasse di Alessandro, sono dovuta
correre da Marianna per cercare di non pensare.
Di non pensare, per esempio, all’emozione del giorno in cui Alessandro
mi ha chiesto di andare a vivere insieme.
Io avevo finito l’università da poco meno di un anno, lui aveva appena
cominciato a lavorare, ed era trascorso un anno e mezzo dal nostro primo
appuntamento sulla banchina di quella metropolitana che aveva cambiato
per sempre le nostre vite.
Era una sera di fine gennaio, fuori c’era un freddo che entrava fin dentro
le ossa, io e Alessandro eravamo seduti uno di fronte all’altra, separati dal
tavolino di un ristorante raffinato, e lui mi aveva semplicemente detto,
senza tanti preamboli: “Ti va di andare a vivere insieme?”. Io avevo
risposto sì, senza pensare che avrei dovuto lasciare Roma, il mio lavoro, i
miei amici.
Eppure, non ho mai avuto il benché minimo dubbio che quella fosse la
risposta giusta. Semplicemente perché me la sentivo dentro.
I mesi successivi furono fra i più belli della nostra storia: il mio petto era
gonfio di gioia, Alessandro custodiva negli occhi una luce che gli avrei
visto addosso poche altre volte, insieme ci sentivamo due pezzi di un puzzle
che si incastravano alla perfezione.
Mi trasferii a Trento alcuni mesi più tardi, insieme al primo sole di
primavera: il tempo di organizzare tutto al meglio, di salutare le persone che
amavo, di trovare lavoro come barista in centro. Un lavoro che non era
certo il mio sogno, ma che per il momento mi dava la possibilità di costruire
quello con Alessandro.
Avevamo affittato un vecchio bilocale fuori città, così malconcio che
avevamo passato le prime settimane a pulirne ogni angolo, ad aggiustare
ante e cassetti, a svuotare le vite che avevamo inscatolato e a giocare a
infilarle negli armadi per farci stare tutto.
Con il passare delle settimane, quel gioco di incastri l’avevamo messo in
atto nelle nostre vite, per smussare i piccoli difetti che ci rendevano diversi,
per capire i silenzi ed esserci lo stesso, per smorzare sul nascere minuscole
discussioni che avrebbero potuto allontanarci.
Avevamo appreso l’arte del modellarci, del comprendere, del farsi un
attimo da parte, delle carezze al momento giusto. Tutte piccole meraviglie
con le quali avevamo decorato la nostra casa trasformandola, nonostante
tutto, in un posto accogliente in cui tornare a fine giornata, e soprattutto in
un posto nostro.
A ripensarci così adesso, mentre sono seduta comoda sul divano bianco
della nostra attuale casa, in un soggiorno grande da solo come tutto
l’appartamento di allora, sento nella gola una piccola malinconia che nasce
dalla consapevolezza che allora avevamo poco, ma in realtà avevamo tutto,
mentre ora abbiamo tutto e non siamo più capaci di essere felici.
Vivevamo in una casa imperfetta, ma non dimenticherò mai la sensazione
di pura felicità che provavo nell’accendere una candela durante la cena o
l’emozione di uscire solo per comprare le tazzine della colazione come
piacevano a noi.
Rendere unico il posto in cui ci ritrovavamo ogni giorno era un modo
come un altro per prenderci cura del nostro amore. Un’arte del coccolarsi
che abbiamo perso nel tempo, quando siamo cresciuti, quando non siamo
più stati bravi a trasformare i litigi in un sorriso e abbiamo iniziato a farli
diventare discussioni, quando abbiamo potuto permetterci una casa grande
con un giardino, che però forse non calzava più a pennello con i nostri
sentimenti.
Leggerezza.
È questa la parola che custodisce il segreto di ciò che eravamo, e il
segreto di ciò che ogni coppia dovrebbe essere.
Perché fino a quando abbiamo saputo conservare quella leggerezza io e
Alessandro ci siamo sempre sentiti nel posto giusto.
Le storie più serie sono quelle che non si prendono sul serio, quelle che
non si dimenticano di ridere e di lasciarsi liberi. Sono quelle che sanno
stupirsi ancora dopo tanti anni, quelle in cui ci si minaccia di andare via ma
poi la sera ci si ritrova sempre nello stesso letto con le mani intrecciate
sopra le coperte.
Quando finisce la leggerezza, invece, cominciano i vuoti. E dove ci sono
i vuoti, piove dentro.
E quando piove dentro piano piano tutto si allaga, e ci si dimentica di
come si fa a essere felici.
Io però spero tanto che, nonostante tutto, Alessandro possa ricordarsi di
me. Se potessi scegliere come, vorrei che mi pensasse sempre come la
donna con cui si è sentito più bello.
Sono sicura che, in fondo, comunque sarà così.
Chissà cosa succederà, adesso.
Chissà se arriverà il giorno in cui proveremo a sostituirci con qualcun
altro.
Chissà se ci renderemo conto che ci sono vuoti che pesano di più, quando
si tenta di colmarli con chiunque.

È stato in quei giorni fatti di dubbi che ho deciso di assegnare ai miei


studenti di quinta liceo un tema che in quel momento avrei tanto avuto
bisogno di scrivere io.
Ho chiesto loro di immaginarsi fra qualche anno, lontani dalle mura di
questa scuola in cui sono entrati bambini e dalla quale usciranno adulti.
Ho chiesto loro di parlarmi dell’unica cosa della vita di cui non
dobbiamo scordarci mai: i sogni.
Perché, alla fine, forse ho perso tutto. Ma la voglia di sognare, quella
ancora no.
28
► [Franco126 feat. Tommaso Paradiso, Stanza
singola]

Lorenzo

Non sono mai stato bravo a scrivere, però mi è sempre piaciuto tanto, e al
liceo, in questi anni, ho avuto una professoressa d’italiano che ho amato fin
dal primo giorno.
Non è perfetta, però è comprensiva, non spiega in modo impeccabile, ma
dalla sua voce trapela una passione che è riuscita a trasferire a molti di noi.
E poi mi piace perché ha sempre preferito un approccio meno formale di
altri insegnanti. Ricordo che il primo giorno, quando è entrata in classe, ci
ha detto che avrebbe preferito essere chiamata per nome, ma che questo non
significava che dovessimo avere meno rispetto per il suo ruolo.
E devo dire che la sua strategia ha funzionato: le diamo del tu e nessuno
di noi si è mai fatto beccare impreparato nella sua materia.
Sono sempre andato a scuola un pochino più volentieri, quando sapevo
che quel giorno avrei avuto lei.
Oggi, però, Elisabetta è entrata in classe e ci ha chiesto di fare un tema
sui sogni: un argomento di cui in un altro momento sarei stato felice di
scrivere ma che invece adesso fa a pugni con la mia vita.
Perché fino a qualche giorno fa, a pensarmi nel futuro, ci vedevo dentro
Beatrice, e avevo la sensazione che mi si sarebbero aperte una miriade di
altre possibilità.
Adesso che Beatrice non c’è più, invece, nel mio futuro mi sembra di non
vederci proprio niente.

E così mi ritrovo di fronte a un foglio bianco da riempire con parole e


immagini che non mi appartengono più.
I miei compagni di classe se ne stanno tutti curvi con le penne in mano, e
mi sembra di vederli, fra qualche anno, felici di aver realizzato proprio il
sogno che stanno mettendo nero su bianco in questo momento.
Io, invece, proprio non ci riesco.
Non mi sono mai vergognato tanto come quando ho sentito la campanella
suonare, mi sono alzato insieme a tutti gli altri, e ho appoggiato il tema
sulla cattedra.

«Ho sempre avuto l’abitudine di andare alle giostre. Lo faccio anche


adesso, sai? Tutti gli anni. Quando mi fermo a prendere lo zucchero filato
spesso guardo i bambini che giocano con mamma e papà. E sento come una
specie di malinconia per qualcosa che non ho mai avuto e che mi è sempre
mancata. Prima non facevo altro che chiedermi “Perché loro sì, e io no?”,
adesso, invece, mi fanno solo sorridere.»
Siamo usciti da scuola da un paio d’ore, e mentre Celeste, Sofia e Silvio
sono tornati a casa a studiare, io e Roberto abbiamo deciso di prenderci un
pomeriggio libero e di passarlo seduti su una panchina a guardare piazzale
San Severino ricolmo di giostre.
Roberto ha avuto una storia familiare molto particolare, i suoi non li ha
mai conosciuti.
Non ne parla quasi mai, però qualche volta butta lì frasi come questa, e
mi spiazza un po’.
Io mi limito a sorridergli e resto in silenzio.
Mi sorride anche lui, perché sa che non sono molto bravo in queste cose.
Poi mi dà una pacca sulla spalla. «Com’è andato il tema di oggi? Mi è
sembrato di vederti un po’ in difficoltà.»
Gli rispondo con una bugia perché non ho voglia di affrontare
l’argomento e cerco di far parlare lui. «No, ero solo un po’ indeciso su cosa
scrivere… Tu, piuttosto, come ti vedi fra qualche anno?»
«Ma che ne so. Non ho idea neanche di quello che mangerò a cena
stasera. Ho scritto un sacco di cose senza senso, che mi sono venute in
mente in quel momento.»
«Qualche volta vorrei essere come te, giuro…» gli dico sorridendo.
«Perché?»
«Vivi sempre tutto con una leggerezza che invidio. Ma come fai?»
Roberto alza le spalle. «Sono fatto così.» Poi dopo un po’ mi fa la
domanda che più temo. «E Beatrice? Si è più fatta sentire?»
Lo guardo negli occhi, arriccio appena le labbra e scuoto il capo. «No.
Chissà cosa è successo…»
«Non me lo spiego nemmeno io. Sembravate così affiatati…»
Abbasso lo sguardo a terra. «Già.»
Roberto sospira. «L’ho vista, lo sai?» mi dice d’un tratto.
Io sgrano gli occhi e glieli punto addosso, il cuore che mi bombarda il
petto. «Davvero? Dove?»
Stringo i pugni di nascosto, perché mi è venuto il timore improvviso che
Roberto mi stia per dire che Beatrice era in compagnia di qualcun altro.
«In città, una sera. Era seduta al tavolino di un bar con delle sue amiche.
Non sembrava contenta, in realtà. Non vorrei le fosse successo qualcosa.»
«Non lo so. Me ne avrebbe parlato. Perché sparire?»
Roberto allarga leggermente le braccia, in segno di resa.
«Posso chiederti una cosa?» gli domando dopo un po’.
«Lo sai che puoi.»
«Ma tu come la vedi? Non Beatrice, eh. Questa situazione.»
Roberto mi guarda in un modo che non riesco a decifrare. Come se non
sapesse davvero cosa rispondermi.
«Vuoi saperlo davvero, Lorenzo?»
Io alzo un sopracciglio. «Sì.»
«Io non la conosco bene, Beatrice. E non so che cosa possa esserci dietro
il suo comportamento. Magari, alla fine, avrà la scusa migliore del mondo.
Non puoi saperlo. Però penso che tu non hai bisogno di qualcuno che se ne
va. Tu hai bisogno di qualcuno che resta. Perché in fondo la persona giusta
non è quella che non può ferirti, ma quella che ne avrebbe il potere e decide
di non farlo mai.»
Mi lascio andare indietro con la schiena e sfilo una sigaretta dalla tasca.
«Ne vuoi una anche tu?»
«No, grazie. Dici sempre che fumo troppo.»
Sorrido. «È vero che fumi troppo.»
Sorride anche lui. «Sì, lo so.»
Accendo e faccio un tiro, poi lascio andare un sospiro. «Che cosa devo
fare, secondo te?»
«Con Beatrice, dici?»
«Sì…»
«Secondo me, hai due possibilità.»
«Addirittura. E quali sarebbero?»
«Allora, la prima è sicuramente dimenticarla.»
Riesco addirittura a ridere. «C’è un problema, però.»
«Quale?»
«Non sono mai stato bravo a cancellare le persone.»
Roberto accenna un sorriso. Sa benissimo che la verità è che a me di
dimenticare Beatrice non va proprio.
«Be’, hai sempre la seconda possibilità. Ti manca?»
«Così tanto che non so spiegarlo…»
«Allora diglielo. Non restare con il dubbio del “chissà come sarebbe
andata se”. Diglielo come vuoi tu. Aspettala fuori da scuola tutti i giorni.
Dovrà pur tornarci, prima o poi. Fallo con rabbia se serve, o piangendo, o
come ti viene.»
Guardo Roberto mentre faccio un altro tiro di sigaretta.
«È andata via lei! Le ho scritto duecento messaggi all’inizio. Poi mi sono
detto di smetterla. Perché mai dovrei fare un altro passo avanti?»
«Perché a volte essere orgogliosi non serve proprio a niente. E poi, anche
perché in amore non conta quante volte qualcuno ti sbatte la porta in
faccia…»
«Ah, no?»
«No. Conta quante volte torna a riaprirla.»
Rimango per un attimo a pensarci su, poi lo squillo del mio cellulare
interrompe la nostra conversazione.
Lo sfilo dalla tasca.
«È Gaia» dico ad alta voce prima di rispondere. «Ehi, ciao!»
Capisco subito che è un po’ scossa. «Ciao Lorenzo. Sei con Roberto?»
Alzo un sopracciglio. «Sì, perché?»
«Potete passare da me, per favore?» Sta per scoppiare in lacrime.
«Ma… è successo qualcosa?»
Gaia fa un respiro profondo. «Damiano mi ha lasciata.»

Rimaniamo a casa di Gaia tutto il pomeriggio, lì riuniti in quel soggiorno


che è diventato un po’ la casa di tutti, insieme a Celeste, Silvio e Sofia, che
fortunatamente erano già in compagnia di Gaia quando le è arrivato il
messaggio di addio da parte di Damiano.
Un messaggio.
È così che Damiano ha deciso di salutare Gaia dopo tanto tempo: forse
perché non sarebbe riuscito a farlo guardandola negli occhi, forse perché
era la via più facile, o forse semplicemente perché è un vigliacco.
Fa male vedere Gaia sconvolta in questo modo, anche se sono sicuro che
saprà rialzarsi. Gaia è di gran lunga la donna più forte che io abbia mai
conosciuto, ha solamente bisogno di scrollarsi di dosso un po’ di polvere e
ricominciare a camminare sulle proprie gambe.

Mentre passeggio verso casa, dopo ore di chiacchiere, confessioni, pianti


e anche risate, le mando un messaggio fatto di parole che avrei voluto dirle
guardandola negli occhi, ma che durante il pomeriggio ho deciso di tenere
per me, perché volevo restassero un nostro piccolo segreto.
“Sai che cosa mi sembra di vedere, quando ti guardo? Gli occhi gonfi di
chi piange di nascosto, le mani tremanti di chi non si ricorda che cosa
voglia dire emozionarsi davvero, il sorriso stanco di chi ride per finta
perché ormai si è abituato così. Da quanto tempo non ti prendi cura di te?
Da quanto tempo continui ad annullarti per un amore che forse non lo
merita? Da quanto tempo ti sei dimenticata com’è essere felice? Te lo
ricordi il rumore di un cuore che batte sapendo di essere protetto?”
Quando arrivo a casa, trovo papà sul divano mezzo addormentato,
mamma invece, come sempre, è in camera da letto.
Faccio capolino dalla porta per darle la buonanotte, lei mi sorride appena.
Nel frattempo mi arriva un messaggio di Gaia. “Grazie.”
“Per che cosa?”
“Perché stai cercando di darmi un abbraccio quando ne avresti bisogno
anche tu.”

Mi addormento con così tanti pensieri che mi fa male la testa. Nonostante


tutto quello che è successo nel frattempo, le parole di Roberto continuano a
rimbombarmi dentro.
Così, l’indomani mattina, quando mi sveglio, faccio colazione, esco di
casa e poi, una volta sull’autobus per andare a scuola, mando un messaggio
a Beatrice.
“Questa sera alle 22 sarò al nostro posto lungo il fiume, dove siamo
andati quando poi ha cominciato a piovere a dirotto. Sarò lì ad aspettarti, se
avrai voglia di raggiungermi. Se non ci sarai, invece, sparirò per sempre.
Promesso.”

https://www.youtube.com/watch?v=SWWeRZGaIDU
29
Alla fine di una storia i difetti diventano mancanze

Elisabetta

Qualche volta, le sere in cui Alessandro era via per lavoro, mettevo a
letto Virginia e Federico e mi sembrava di ritrovarmi in una casa stanca
come la nostra voglia di lottare per non perderci.
All’inizio mi sono sentita sola, nonostante alle assenze di mio marito
fossi abituata. Quella che avevo addosso era una sensazione diversa, perché
non avevo più nessun ritorno da aspettare.
Ci siamo accordati che Virginia e Federico avrebbero trascorso una
settimana con me e una settimana con lui, e quando continuo ad avere la
possibilità di vederli giocare in soggiorno riesco a trovare da qualche parte
un appiglio, un senso a tutto ciò che ci sta accadendo.
Se invece sono a casa da sola, mi lascio andare.
Dopo così tanti anni, aggirarmi improvvisamente per la casa vuota e
silenziosa è davvero surreale.
Alessandro è riuscito ad affittare, in fretta e furia, un bilocale piccolo ma
accogliente appena fuori città, e un po’ lo invidio, perché ogni centimetro
delle mura in cui vivo io trasuda della nostra storia, e certe volte fa tutto
così male che mi sembra di scoppiare.
Marianna mi sta più vicina che mai, e non so davvero come farei se non
avessi la fortuna di avere un’amica come lei.
Le prime settimane, quando Virginia e Federico erano da Alessandro,
Marianna non mi lasciava quasi il tempo di respirare, e le prime notti si è
offerta di dormire qui con me. L’ho apprezzato tanto, perché mi ha aiutato a
non sentirmi completamente sola.
Poi, piano piano, senza rendermene conto, mentre fuori dalla finestra il
mondo cominciava a vestirsi di sciarpe e giacconi, ho sentito i passi timidi
con cui ho iniziato a passeggiare nella mia nuova vita farsi sempre più
sicuri. Tutto a un tratto, in un momento che non dimenticherò mai, mentre
ero seduta da sola al bar a fare colazione, mi sono guardata attorno e mi è
sembrato di vedere tanta bellezza, una bellezza che prima non riuscivo più a
cogliere, e mi sono commossa, provando una sensazione di attaccamento
alla vita che avevo sperimentato poche altre volte.
È stato proprio da quel momento lì, quando ormai cominciavo a credere
che non fosse più possibile, che ho ricominciato finalmente ad ascoltarmi
dopo un’infinità di tempo, riscoprendomi in tante piccole sfaccettature che
chissà dove avevo nascosto.
Tramonto dopo tramonto, ho ripreso ad apprezzare l’aria, le nuvole, i fili
d’erba calpestati dal vento, e a guardare la vita da una prospettiva nuova.
Molto spesso, in effetti, è tutta questione di prospettiva.
Ho imparato di nuovo a meravigliarmi di fronte a piccoli dettagli che da
bambina mi lasciavano a bocca aperta e che crescendo, proprio come è
successo con Alessandro, avevo cominciato a vivere come banali
quotidianità: il sole che mi sfiora la pelle, la pioggia che mi inzuppa i
vestiti, la voce dei miei figli, i sorrisi di Marianna, i contorni dell’orizzonte,
il cibo sulla tavola, l’acqua che prende forma nel suo contenitore.
Tutto ha cominciato ad avere un nuovo significato per me: ci sono giorni
in cui mi sembra di essere appena nata, una bambina che ha bisogno di
guardare, toccare, annusare ogni cosa.
Odoro i fogli bianchi, i colori con cui Virginia si pittura la faccia, i vestiti
di Federico, i fiori, le tazzine di caffè, il pane appena sfornato, le persone.
Ho scoperto che Marianna profuma di rose. Virginia e Federico invece mi
ricordano l’odore del latte, perché fanno venire voglia di alzarsi e fare
colazione.
E ho riscoperto anche il piacere di vivere in questa città, perché Trento,
così piccola e a misura d’uomo, con la sua quiete e le vie che ormai
conosco a memoria, mi ha offerto una nuova bilancia per pesare i dettagli
della vita. E mi ha fatto crescere. E ha fatto crescere dentro di me una donna
diversa: una donna capace di volersi bene, di sentirsi importante senza sensi
di colpa, di credere in se stessa.
Ho ritrovato la magia di stare a casa con il televisore spento, di un bagno
caldo, di cucinare una torta. Ho riscoperto la bellezza del rapporto con gli
altri: tenere lo sguardo fisso su di loro, viverli, condividere un momento con
le persone che ami, leggere un libro, scrivere una lettera, sedermi in
giardino ad ascoltare il silenzio.
Solo alcune settimane fa, mi sembrava tutto un mucchio di attimi e
dettagli senza valore. Adesso, invece, davanti a me si schiude la potenza
della vita e delle sue forme. Tutto mi colpisce e diventa parte di me.
Eppure, è sempre stato tutto qui.
Forse ero solo io a non esserci più.
Non sono mai stata troppo ordinata: ho sempre avuto il vizio di lasciare
le scarpe dove capita, e i piatti da lavare fino a sera, i vestiti accumulati
sulla sedia.
Ultimamente invece ho riscoperto l’importanza di dare il giusto valore
agli oggetti e mi sono presa cura della mia casa come se la trovassi di nuovo
rara e preziosa.
Mi sono accorta che ho trascorso anni a fare tantissime cose
contemporaneamente, perché avevo così poco tempo che ho cercato di farci
stare dentro tutto.
Ora, però, che sto riscoprendo la bellezza del vivere senza fretta, mi sono
accorta che prima facevo tanto ma non vivevo nulla per davvero.
E così, alla luce di tutte queste scoperte, mi sono ripromessa che,
comunque andranno le cose con Alessandro, non dimenticherò ciò che ho
imparato in questo periodo, e lo porterò con me nella vita che mi aspetta.
Nonostante tutto, comunque, devo ammettere che ci sono giorni in cui
non mi manca Alessandro, mi mancano i suoi dettagli e i suoi difetti: come
quando mi svegliava solleticandomi con i capelli e io mettevo il broncio,
come il suo vizio di baciarmi la fronte quando io avrei voluto un bacio sulle
labbra, come quando era geloso di me e io mi arrabbiavo.
È strano pensare a come cerchiamo i pregi ma poi ci innamoriamo dei
difetti, a come odiamo alcuni dettagli e poi, quando l’amore finisce, ci
accorgiamo di quanto ci piacevano, di come l’amore più forte è spesso
quello che se ne è andato.
Ci sono cose che prima non mancano mai, e che poi mancano sempre.
La verità è che spesso si torna indietro quando ormai è troppo tardi, ci si
cerca quando il segreto sarebbe stato non perdersi.
Mi manca ciò che eravamo, mi manca fare l’amore con Alessandro e mi
manca quella sensazione di essere desiderata come succedeva all’inizio,
quando qualsiasi posto andava bene per spogliarci; quando eravamo così
felici, spensierati e ribelli che non potevamo resistere al desiderio e
diventavo sua sul sedile posteriore della macchina, in spiaggia, al bagno
dell’università, su una panchina di un parco nel quale eravamo entrati di
nascosto di notte, solo perché avevamo voglia di fare l’amore e non
potevamo aspettare.
Tutto questo, negli anni, si è perso, e fare l’amore è diventato un
appuntamento del sabato mattina, mentre Virginia e Federico erano a
scuola.
A volte avevo la sensazione che lo facessimo solo perché andava fatto,
perché non volevamo aggiungere un altro problema a tutti quelli che
avevamo già.
Quante volte avrei voluto guardare Alessandro negli occhi per fargli
capire che avevo bisogno di una scossa, quante volte, la sera, quando
uscivamo a cena e passavamo davanti a quel parco, avrei voluto che mi
prendesse la mano e senza dire niente mi portasse su quella panchina, solo
perché all’improvviso mi aveva vista di nuovo bella da non poter aspettare.
Dentro di me lo so che è giusto così e che Alessandro ha avuto il
coraggio di non rimandare una decisione che io, forse, non sarei mai
riuscita a prendere.
Eppure, qualche volta mi sento sbagliata lo stesso.
Mi sento sbagliata quando piango per lui di nascosto, quando cerco
ovunque briciole di lui, quando guardo fuori dalla finestra e una piccola
parte di me desidera vederlo tornare e dirmi: “Scendi amore, sono qui”.
Mi sento sbagliata quando stringo i pugni e spero con tutta me stessa che
lui possa sentire la mia mancanza come io sento la sua.
Mi sento sbagliata perché lui è riuscito ad allontanarmi e perché io
gliel’ho permesso, e soprattutto perché, negli ultimi mesi, forse l’ho
allontanato più di quanto volessi far credere a lui, anche se non sono mai
riuscita a smettere di amarlo.
Il problema però è che, in fondo, ancora adesso, per me felicità significa
fare colazione con lui, Virginia e Federico, tutti insieme, la domenica
mattina.

È stato proprio in quel periodo, mentre combattevo con i ricordi del


passato e insieme mi sentivo proiettata verso ciò che sarei stata da quel
momento in poi, che un pomeriggio, china sulla scrivania a correggere i
temi che avevo assegnato ai miei alunni, la mia attenzione è stata catturata
da un compito diverso da tutti gli altri. Il compito di Lorenzo.

Sono rimasta a fissare quel foglio per diversi minuti, immobile, con la
penna a mezz’aria, stupita.
Un po’ perché proprio non me lo aspettavo.
Un po’ perché in quel foglio mi pareva proprio di vederci me.
30
► [Coez, La musica non c’è]

Lorenzo

Ho deciso di fermarmi al fianco di Beatrice quando ho capito che l’amore


è una cosa complessa, ma che lei custodiva il segreto di trasformarlo in
qualcosa di molto più semplice: una passeggiata, un messaggio inaspettato,
una coperta davanti al lago, una bottiglia di vino solo nostra.
Avevo capito subito che Beatrice era la persona giusta perché mi ero reso
conto che mi faceva venire voglia di stare a casa sotto le coperte. Proprio io
che ho sempre avuto bisogno di uscire per stare in mezzo alla gente.
Eppure lei se n’è andata. Le ho pensate tutte, in questo periodo, per darmi
una spiegazione.
Sono anche arrivato a credere che forse è stata tutta colpa mia e dei miei
silenzi.
So di non avere un carattere facile. E so anche quanto sia difficile starmi
accanto. E so che forse è stato a causa dei miei spigoli che ho perso lei, ma
anche un po’ me stesso.
La verità però è che anche se ho solo diciott’anni ho imparato che
l’amore le promesse non le fa, ma le mantiene, che le persone che contano
non dicono di amarti, dimostrano di amarti, che i brividi si abbandonano ma
non si perdono.
Ho imparato a crederci anche quando non ci credo più, che le parole
scappano mentre i gesti rimangono, che l’amore non nasce quando ci si
parla, ma quando ci si guarda. Ho imparato che le cose giuste non hanno
bisogno di essere aggiustate, che i brividi più belli sono quelli che non ti
spieghi, e che a volte ho perso, ma non mi sono mai perso.
Ecco, questa consapevolezza mi ha dato la forza di rimettermi in piedi
quando la vita mi ha buttato a terra. E so che posso farlo ancora.
Perché se una persona va via, il fatto è che vuole farlo, solo che fino a
quando non ce l’hai davanti agli occhi a dirtelo in faccia, siamo tutti
bravissimi a raccontarci che forse non è così.
Arrivo al luogo dell’appuntamento con Beatrice con mezz’ora di
anticipo, perché sono così nervoso che fermo lì a casa non riuscivo più ad
aspettare.
Mi siedo per terra e tiro un lungo sospiro: l’acqua non ha nulla di diverso
rispetto al giorno in cui lei era qui seduta vicino a me, eppure mi pare abbia
perso tutta la magia che ci avevo visto allora, così come le luci dei lampioni
lungo il fiume, e il vociare lontano dei passanti, e il cielo sopra di me, che
quella notte mi sembrava perfetto anche con la pioggia.
Adesso, invece, stellato come non mai, mi sembra che non abbia
nemmeno un pizzico di quell’incanto.
A dirla tutta, mi sento anche ridicolo, qui così, ad aspettare che una
ragazza decida del mio sorriso.
In fondo, lo so che Beatrice non verrà a questo appuntamento.
Proprio mentre mi chiedo che diavolo ci faccio qui, però, un fruscio alla
mia destra mi fa trasalire. Mi giro all’improvviso e la trovo lì, Beatrice, con
addosso la stessa felpa della notte in cui mi ha portato in questo posto.
Averla finalmente di nuovo davanti agli occhi, dove speravo diventasse
un’abitudine poterla trovare, mi provoca una piccola vertigine, anche se non
riesco a decifrare la sua espressione.
«Ciao» mi dice, in un modo che non riconosco.
«Ciao» le rispondo con la voce rotta.
Restiamo in silenzio per un attimo, io con un burrone al posto del cuore,
lei invece chissà.
«Sei in anticipo…» le dico allora.
Veramente non lo so se è vero, ma mi sembra di essermi appena seduto
qui.
«Sì, lo so» mi risponde Beatrice, mentre intreccia nervosamente le dita.
Tiene lo sguardo rivolto verso il basso, e forse va anche bene così, perché
non so se sarei pronto a guardarla negli occhi. «Veramente sono qui da un
po’ anche io. Ti ho visto arrivare dalla strada. Solo che ero troppo nervosa e
non avevo il coraggio di scendere.»
Rimango un attimo a guardare il suo profilo, poi sposto lo sguardo
davanti a me, dove le luci dei lampioni giocano con l’acqua che scorre.
Beatrice resta per un po’ in piedi, ferma e silenziosa, infine si decide a
sedersi a fianco a me.
Quando la sento così vicina, nonostante tutto, mi torna la stessa voglia di
tenerla lì per sempre, quella che di fronte a lei non sono mai riuscito a
vincere, nemmeno quando eravamo solo voci e tutto questo doveva ancora
iniziare a esistere.
Anche il suo sguardo, adesso, si perde sulla superficie dell’acqua.
«Non ti meriti tutto questo.» Le sue parole sono un sussurro, come se le
stesse dicendo a se stessa, sottovoce.
«No, hai ragione, non me lo merito.»
«Lorenzo…» la voce di Beatrice è rotta, e non riesco proprio a capire il
perché.
È lei che ha interrotto tutto all’improvviso, è lei che ha deciso di farlo
senza spiegazioni. La sua incoerenza mi fa stringere i pugni per la delusione
e la rabbia.
«Sì?» mi limito a risponderle.
«Scusami, è che… non è colpa tua.»
Sorrido amaramente. «No, ti prego, Beatrice. Non cominciare anche tu
così. Tu sei diversa. Tu non sei una che dice “Non sei tu, è colpa mia”.
Quello lo dicono già tutti gli altri. Quelli che pensano di sapere che cosa
voglia dire avere qualcuno accanto, ma che in realtà non sanno proprio
niente.»
Beatrice, questa volta, trova il coraggio di guardarmi negli occhi.
«Hai ragione» mi dice, dopo un po’. «Io non voglio essere così. Cerco
con tutte le mie forze di aggrapparmi alle mie idee, di non vacillare, di non
diventare come loro. Non voglio illudere qualcuno con promesse d’amore
che non posso mantenere…»
«Eppure l’hai fatto…» le rispondo con un pizzico di rabbia e ironia nella
voce. Lei tace, quindi continuo. «È andata come al solito, anche stavolta.
Sono abituato a non fidarmi, lo sai, ma in te, in noi, ci credevo davvero. Mi
ero detto che stavamo andando bene. Ero addirittura riuscito a sciogliermi
un po’.»
Beatrice si porta le mani al volto. «Credimi, non sai quanto vorrei che
fosse tutto diverso…»
«Ma di che stai parlando? Tutto diverso? Beatrice, siamo qui. Io e te.
Come giorni fa…» Nella mia voce si insinua un pizzico di insicurezza.
«Parli come se ci fosse qualcosa che ci impedisce di andare avanti, ma non
è così. Non funziona così…»
«Tu non capisci, è complicato…»
«No, non è complicato. È fin troppo semplice. La verità è che quando si
vuole davvero qualcosa allora all’improvviso diventa possibile. La
questione non è se è complicato oppure no. La questione è quello che vuoi.
Anzi, quello che vogliamo.»
Beatrice mi ascolta in silenzio, senza guardarmi negli occhi. «A volte non
è così. La verità è che non possiamo decidere sempre tutto. Ci sono cose
che non dipendono da noi.»
«Forse hai ragione tu. Ma per l’amore non vale. L’amore dipende sempre
da noi. Chi ama, resta. Chi non ama, se ne va. Tutto il resto è solo una
scusa.»
«Non questa volta, però. Questa volta non è così, Lorenzo.»
«Com’è, allora? Mi spieghi a cosa ti riferisci? Che cos’è cambiato? Ci
siamo salutati dicendoci “Ti amo”. E l’amore non dura un giorno solo,
Bea.»
«No, infatti…» Beatrice sorride appena e abbassa gli occhi sulla punta
delle sue scarpe.
Ho l’impressione che stia lottando con se stessa per non scoppiare in
lacrime.
Per un momento, a quel “No, infatti” mi è sembrato che mi si fosse
fermato il cuore, perché lasciava intendere un “Ti amo ancora” di cui però
non ho avuto il coraggio di chiedere conferma.
Questo, però, invece di tranquillizzarmi, mi fa montare dentro una rabbia
che non riesco più a soffocare.
«Sai cosa? Ti ho dato fiducia senza accorgermi che non la meritavi. Ma il
fatto non è questo. Nessuno deve restare in un posto in cui non vuole. Però
non saresti dovuta andare via così, perché potevi portarti via tutto, ma il mio
coraggio di amare no. Quello dovevi lasciarmelo. Quello meritavo di
tenerlo con me.»
A Beatrice, adesso, tremano le mani, sta lottando con tutta se stessa per
non scoppiare in lacrime. «È che…» inizia a dire a un certo punto.
Poi si blocca.
Poi ricomincia.
«È che l’altro giorno mia madre ti ha visto, quando mi hai
riaccompagnata a casa…»
Alzo un sopracciglio. Non capisco che cosa c’entra con tutto quello che
c’era fra di noi. Beatrice non ha mai fatto in modo di tenermi nascosto.
«Che cosa vuol dire?»
Lei fa un sospiro e guarda per un attimo altrove, forse solo per trovare le
parole, forse solo per prendere un po’ di tempo in più.
«Quando abitavo sopra di te, io non sapevo chi viveva nell’appartamento
del piano di sotto, perché il nostro gioco mi piaceva e ho fatto di tutto per
non scoprirlo. Mamma, invece, è sempre stata una curiosa. E, io non ne
sapevo niente, ma in quel palazzo la vostra famiglia era la più chiacchierata
di tutte…»
Mi sale un nodo in gola, perché forse sto cominciando a capire dove
Beatrice vuole andare a parare.
Lei torna a posare gli occhi nei miei, quasi timidamente, però.
«Mamma, quando mi hai riaccompagnata a casa, ti ha riconosciuto. Ha
riconosciuto il ragazzo che abitava sotto di noi, il figlio di due persone che
hanno finito per distruggersi dopo quello che è successo a tuo fratello.
Girano delle voci bruttissime sul vostro conto, in quel palazzo… E io lo so
che sono tutte menzogne, so che non è vero niente, ma mia madre…»
Beatrice, tutto a un tratto, si nasconde nuovamente il viso fra le mani e
inizia a piangere a dirotto.
Io resto immobile a guardarla e penso che questa è davvero l’ultima volta
che posso guardarla così da vicino.
Qualche minuto più tardi, riempito solo dal silenzio e dai suoi singhiozzi,
quando finalmente sembra essersi calmata un po’, ho bisogno di chiederle
conferma di quello che in realtà ho già capito.
«Ma tua madre…?» le domando, allora, riprendendo da dove si è
interrotta.
Beatrice mi risponde fissando un punto lontano.
Un punto già troppo distante da me.
«Mia madre è andata su tutte le furie quando ci ha visti insieme.
Abbiamo litigato tutta la notte. Non vuole che ti frequenti, me lo ha
proibito. È molto rigida e non riesce a concepirmi accanto a qualcuno che
non fa parte del nostro ambiente. Ha continuato a ripetermi che vuole di più
per me. Anzi, che pretende di più per me.»
Ascolto Beatrice con gli occhi fissi nel fiume e un macigno al posto del
cuore.
Alla fine, piano, quasi sottovoce, lei dice anche un’altra cosa. «Quello
che non capisce però è che, invece, qui c’è già tutto ciò che voglio.»
Stringo forte i pugni, mentre una lacrima di rabbia e delusione mi riga la
guancia.
E così, è questo. Non è che manca l’amore. È che devo pagare sulla mia
pelle la mancanza di amore di chi mi ha cresciuto.
«È così ingiusto…» Lo dico con la voce rotta e le nocche bianche.
Beatrice, adesso, non riesce più a guardarmi. «So che cosa pensi…» mi
risponde però.
«No, non lo sai…»
«Sì, pensi che non dovrei dare ascolto a tutte queste menzogne, e che
dovrei lottare, se i miei sentimenti sono così veri come dico. Ma ho
diciott’anni, Lorenzo, non posso farci niente. Non me la sento…»
Mi limito ad annuire in silenzio. La verità è che vorrei dire mille cose,
ma sono tutte così confuse nella mia testa che alla fine non saprei da dove
cominciare.
«Vorrei che tu sapessi una cosa, però…» continua Beatrice.
«Che cosa?»
«Vorrei che sapessi che in questo periodo, in cui mi hai odiato e hai
pensato che fossi andata via, in realtà non l’ho mai fatto. Sono sempre stata
qui. Anche se tu non lo sapevi. Soprattutto quando tu non lo sapevi.»
Rimango a fissare Beatrice mentre si alza con gli occhi inzuppati di
lacrime. Si volta appena, pronta ad andare via per sempre, e finalmente li
posa dentro ai miei con la stessa potenza della prima volta, quella forza che
solo lei ha sempre saputo farmi sentire addosso.
Io non rispondo e lei non dice nient’altro.
Restiamo fermi così per qualche minuto, a fissarci in mezzo a tutto il
dolore che si prova quando finisce qualcosa.
Mentre la accarezzo con lo sguardo non riesco proprio a immaginarmela
una vita senza di lei.
È tutto così terribilmente ingiusto.
Vorrei rovesciare il mondo, pur di riaverla ancora accanto a me come
qualche settimana fa: serena e senza dubbi.
«Ciao…» mi dice, alla fine, battendo leggermente un piede nelle foglie.
«Ciao…» riesco a dirle io.
Beatrice mi guarda ancora per un attimo, poi si volta per scomparire nel
buio.
All’improvviso, però, decido di fermarla. «Bea…»
Lei si gira di nuovo verso di me, con gli occhi ancora più arrossati
rispetto a un attimo fa.
«Sì?»
«Se adesso mi volti le spalle, ti chiedo solo una cosa: non tornare mai
indietro. Io prometto di non rincorrerti. Starò qui, seduto in un angolo, alla
distanza che mi dirai tu, a guardarti tornare felice senza di me. Sarò
invisibile, vedrai. Solo non chiedermi di non amarti più.»
Potrebbe rispondere a queste parole in tantissimi modi.
Quello che sceglie, però, è il più doloroso.
Stringe i pugni e mi sorride per l’ultima volta.
Poi si volta.
E corre via per sempre.
31
Vorrei un uomo capace di corteggiarmi anche dopo
avermi già conquistata

Elisabetta

La nostra vita è fatta di attimi di straordinaria quotidianità, che corrono


via apparentemente senza importanza e che poi, invece, a distanza di tanti
anni, a riguardarci indietro, improvvisamente sembra vestano una puntualità
che scambiamo per destino. E così ci rendiamo conto che in realtà quel
momento lì ha cambiato la nostra vita per sempre.
Il giorno in cui mi è capitato tra le mani il tema sui sogni di Lorenzo non
potevo sapere che era l’inizio di una piccola complicità silenziosa che mi
avrebbe portata in un posto in cui non avrei mai pensato di arrivare.
Ho osservato quel ragazzo, nei giorni seguenti, per cercare di capire il
perché di quel compito così inaspettato, per capire se fosse felice oppure no,
per capire che cosa nascondesse.
Noi insegnanti cerchiamo sempre di studiarli un po’, i nostri alunni, e
dopo qualche anno pensiamo addirittura di conoscerli. Solo che non è
assolutamente così, perché molto spesso la vita tra le mura della scuola è
incredibilmente diversa dalla vita fuori da lì.
Lorenzo è sempre stato un tipo un po’ silenzioso, con pochi amici fedeli,
introverso ma educato e rispettoso.
Non il primo della classe, e neanche l’ultimo.
È un ragazzo per cui ho sempre nutrito un certo affetto e uno di quegli
studenti ai quali, nel tempo, mi sono affezionata.
E così, dopo averlo scrutato attentamente per giorni e aver provato a
decifrare i suoi occhi senza riuscirci, una mattina, al suono della
campanella, lo aspetto nel corridoio fuori dall’aula.
«Lorenzo, posso parlarti un minuto?» gli chiedo, quando finalmente esce
assieme a Sofia, Roberto e Silvio.
«Sì, certo…»
Lorenzo mi risponde con un misto di curiosità, stupore e un pizzico di
paura.
Gli sorrido. «Non preoccuparti, nulla di grave.»
Mi sorride anche lui, già visibilmente più sereno.
Dopo che ha salutato i suoi amici, gli faccio strada verso un’aula vuota,
prendo due sedie e ci accomodiamo uno di fronte all’altra.
Per una volta niente banchi fra di noi.
Desidero parlare con lui non come insegnante, ma come amica.
Gli faccio subito la domanda più importante di tutte.
«Come stai, Lorenzo?»
Lui mi guarda con un’espressione che non sono in grado di decifrare.
«Bene» mi risponde, mentre nel suo sguardo mi sembra di cogliere un
“Perché me lo chiede?” che però trattiene fra le labbra.
Io mi limito a continuare a fissarlo.
Di fronte al mio silenzio, allora, Lorenzo prosegue. «Come mai hai
chiesto di vedermi?»
Per tutta risposta sfilo dalla borsa il suo tema e glielo consegno.
Lorenzo non lo guarda nemmeno, abbassa solo lo sguardo.
«Chiedo scusa…» riesce a dire, dopo un po’.
Io scuoto la testa. «No, non ti devi scusare. Volevo solo sapere perché hai
consegnato il foglio in bianco.»
Lorenzo torna a guardarmi negli occhi. Solo per un attimo, però.
Poi, alza le spalle con quello che mi sembra un pizzico di malinconia.
«Non lo so.»
Inarco un sopracciglio. «Sì, che lo sai.»
Lui rimane zitto.
«Qual è il tuo sogno?» gli chiedo allora, curiosa.

Lorenzo

Di fronte a questa domanda, buttata lì così, a bruciapelo, rimango per un


attimo in silenzio, continuando a tenere gli occhi bassi, a fissare chissà cosa.
Sono sempre stato uno di quelli con i sogni incastrati in gola, uno di
quelli che non ha mai avuto il coraggio di parlarne ad alta voce per il timore
di renderli reali, uno di quelli che ha sempre evitato di condividerli con
qualcun altro. Forse perché me ne vergognavo un po’, forse perché nessuno
si era mai davvero fermato per chiedermelo, come se fosse veramente
importante, forse perché ho sempre vissuto con la sensazione che nessuno
mi avrebbe capito.
Succede, no?
Quante parole tratteniamo dentro di noi per paura che non vengano
ascoltate con la stessa importanza che noi diamo loro?
Nonostante continui a fissare qualsiasi cosa tranne i suoi occhi, sento
addosso lo sguardo della professoressa.
Elisabetta è sempre stata fra le mie preferite, perché ha un modo di fare
quasi materno che fa sentire a casa anche a scuola.
In questi anni, però, non mi era mai successo di parlare con lei di
qualcosa che non avesse a che fare con lo studio, e trovarmela qui davanti,
adesso, a chiedermi dei miei sogni, mi mette un po’ in imbarazzo.
Nella sua voce, però, e soprattutto nel modo in cui la usa per parlarmi, mi
sembra di vederci un atteggiamento nuovo, che mi fa sentire al sicuro.
«Io…» inizio, timido e titubante.
«Sì?» cerca di incoraggiarmi lei.
«Il mio è un sogno stupido, di poco conto.»
Segue un brevissimo attimo di silenzio.
«Lorenzo…» sento la sua mano che si poggia delicata sulla mia spalla.
Io alzo impercettibilmente lo sguardo, e incontro il suo.
«Sì?» le domando.
«Perché pensi che il tuo sogno sia poco importante?»
Apro la bocca, poi la richiudo, poi la riapro. «Io…non lo so. Sono un po’
confuso, in realtà. È un momento difficile, a dirla tutta, e in queste ultime
settimane avevo anche smesso di pensarci. Comunque, immagino che gli do
poco valore perché lo trovo troppo difficile da realizzare.»
Elisabetta mi guarda alzando un sopracciglio. «E che sogno sarebbe, se
non fosse così?» Io non dico niente e lei prosegue. «Hai voglia di
raccontarmi che cosa è successo? Come mai è un momento difficile?»
Il pizzico d’imbarazzo si trasforma in una montagna di disagio. «Sono
uno che fa fatica a parlare di sé.»
Lei mi sorride. «Sì, lo so. Sono la tua insegnante da diversi anni, ormai. E
anche se non posso dire di conoscere davvero i miei studenti, almeno un po’
forse riesco a capirli.» Accenno un sorriso, che la spinge a insistere. «Forza,
provaci. Che cosa c’è che non va?»
Questa volta la guardo negli occhi, poi faccio un sospiro e cerco di
raccogliere un po’ di coraggio.
«È che… uscivo con una ragazza. So che può sembrare una cosa di poco
conto…»
«Una cosa di poco conto? L’amore, per quanto a volte facciamo di tutto
per fare in modo che non sia così, sarà sempre la parte più importante e
fondamentale della nostra vita. Non può mai essere di poco conto.»
Resto zitto.
«Non è andata bene?» mi chiede lei allora.
«Già. È solo che non me lo aspettavo» le rispondo a mezza voce.
La prof mi scruta per un momento. «Hai voglia di raccontarmi com’è
andata?»

Elisabetta

Non è stato facile toccare le corde giuste del cuore di Lorenzo per
convincerlo che poteva fidarsi di me, anche perché non è abituato a fidarsi
di qualcuno, gliel’ho letto sul viso.
A dire il vero, non si è lasciato andare del tutto, ma ha scelto con cura le
parole e mi ha raccontato solamente qualche frammento di tutta la storia.
Mi ha detto di Beatrice, di come si sono innamorati, del giorno in cui lei è
scomparsa. Niente di più. «Ecco, forse, è per questo che ho lasciato il tema
in bianco» conclude alla fine.
«Perché Beatrice è andata via?»
«No, perché è difficile avere dei sogni quando senti troppo dolore
dentro.»
Penso per un attimo al dolore che sento dentro anche io, tutti i giorni, e
dico che ha ragione.
Poi, però, penso anche a qualcos’altro, forse molto più importante.
«I sogni, però, ci salvano. Non ci hai mai pensato? Di cosa è fatta la
nostra vita se non di amore e sogni? Quando qualcosa non va, quello che
dobbiamo fare è proprio aggrapparci con entrambe le mani a una di queste
due cose, per tirarci su dal burrone in cui siamo caduti.»
Lorenzo adesso mi guarda.
Allora glielo chiedo di nuovo.
«Qual è il tuo sogno?»
«Suonare. Amo suonare. Non lo so se sono bravo per davvero, ma so che
farlo mi rende felice. E che se penso a qualcosa di mio, penso sempre a
questo.»
«Che cosa suoni?»
«La chitarra…»
«Vorresti suonare, quindi. Ti piacerebbe vivere di questo, un giorno?»
Annuisce, quasi con vergogna.
«Posso chiederti un’altra cosa, Lorenzo?»
«Certo…»
«Perché ne parli in questo modo? Quasi con timore e imbarazzo. Devi
difendere con orgoglio le tue passioni. Devi farlo sempre.»
«Sì, è solo che…»
S’interrompe.
«È solo che?» lo incoraggio io.
«È solo che non l’ho mai detto a nessuno. Forse non l’ho mai detto
nemmeno a me stesso.»
«Come mai?»
«Perché è un sogno che viene bistrattato. Come qualsiasi altro, quando si
parla di arte: dipingere un quadro, fare l’attore, scrivere un libro. Oggi,
quando qualcuno ti dice che nella vita vuole suonare, viene guardato come
uno che nella vita non vuole fare niente.»
Gli poggio di nuovo una mano sulla spalla. «Secondo me, nella vita
bisogna imparare che quello che pensano gli altri, alla fine, conta sempre
poco. Anzi, molto spesso non deve contare proprio niente. L’importante è
sempre quello che pensi tu. Perché nessuno può dirci che cosa vale per noi e
che cosa no, soprattutto quando si parla di sogni. E poco importa se il
nostro sogno può sembrare complicato da raggiungere. Se è difficile, vuol
dire che non è impossibile. Sai cosa penso? Penso che ognuno di noi dovrà
lasciare alcuni dei suoi sogni a marcire nel cassetto, un giorno. È
inevitabile. Ma provare a realizzarli non costa niente. Quello che invece può
costare caro, è vivere con il rimpianto del “forse ce l’avrei fatta se…”. Io ti
auguro questo. Ti auguro di non dire mai: “Forse ce l’avrei fatta se…”»

Lorenzo

Le parole della prof mi scavano dentro.


Alla fine, dopo qualche momento di silenzio in cui lei aspetta che ciò che
mi ha appena detto faccia breccia dentro di me, riesco a rispondere.
«Posso farti una domanda, Elisabetta?»
Lei sorride.
«Sì, puoi…»
«Perché stai facendo questo per me?»
Questa volta, la vedo alzare un sopracciglio.
«Questo?»
«Sì. Ti sei presa la briga di fermarti a scuola solo per parlare con me.
Non era dovuto. Perché?»
«Perché quando avevo la tua età avrei avuto bisogno io di qualcuno che
desse valore al mio sogno.»
Annuisco in silenzio. «Se posso, qual era il tuo sogno?»
«Proprio questo. Insegnare. Solo che oggi, quando dici a qualcuno che il
tuo sogno è insegnare, ti guardano come se nella vita non volessi fare
niente.» Dopo un attimo di silenzio, mi congeda. «Puoi andare, Lorenzo,
però vorrei ti ricordassi che sei un ragazzo che vale tanto. Dico davvero.
Datti valore. Non sentirti sempre in difetto. Credo che tu non lo sia. Ma
devi crederci anche tu.»
Annuisco e le sorrido.
Poi, in silenzio, quel silenzio che ha sempre costellato la mia vita e che
tante volte ho cercato di vincere, mi alzo, le faccio un cenno del capo e
scivolo fuori dall’aula.
Prima di richiudermi la porta alle spalle, però, mi fermo un attimo e mi
volto di nuovo.
«Grazie» le dico soltanto.
Lei mi sorride, ma è un sorriso che dice tutto. «Sai, Lorenzo, ci sono
momenti in cui sarai preso dallo sconforto, in cui crederai di non essere
stato abbastanza, in cui guarderai le tue lacrime allo specchio e ti dirai “non
lo meritavo”. E ci sarà sempre qualcuno pronto a dirti dove hai sbagliato,
come hai sbagliato, perché hai sbagliato. Tu ascolta, ma non credere. Non
rinnegare quei due occhi che ti hanno fatto vibrare il cuore solo perché
adesso te l’hanno rotto, non svilire una storia finita male ma che ti ha fatto
bene, non sprecare amore per chi non lo merita più. Tutto il dolore che
provi adesso acquisterà senso quando sfiorerai la pelle di quella persona che
ti dirà: “Fermati, sei arrivato”.»
Mentre lei pronuncia queste parole, ho la sensazione di leggere nei suoi
occhi un dolore nascosto, e nel suo modo di darmi quel consiglio,
l’impressione che lo stia dando anche a se stessa.
Vorrei risponderle che il problema è quando quel “fermati, sei arrivato” te
lo sei già sentito dentro la pancia, e se lo è sentito anche lei.
E che, forse, non c’è amore più doloroso di quello che vorrebbe viversi
ma invece non può farlo.

https://www.youtube.com/watch?v=At_9zjkGP8Y
32
► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 2]

Lorenzo

C’è stato un momento, dopo tutte le emozioni che ho sentito addosso


negli ultimi giorni, dopo essermi innamorato di Beatrice e averla vista
andare via, aver sperato che tornasse, ed essere stato costretto a dirle addio,
dopo aver parlato con la prof dei miei sogni e, forse, in un certo senso anche
dei suoi, in cui ho sentito il bisogno di fare qualcosa che non avevo mai
fatto.
Così, una domenica mattina, mi sono chiuso nella penombra della mia
stanza e, invece di suonare, ho scritto una lettera.
Una lettera per Beatrice, ma forse una lettera anche per me. Una lettera
che io avrei riletto mille volte e lei, invece, mai.
Dopo averlo fatto, mi sono sentito stanco e svuotato, ma anche con un
peso in meno a spingermi in basso il cuore.
Sono rimasto qualche secondo con gli occhi fissi nel vuoto, poi ho
infilato la lettera nello zaino, in mezzo a un quaderno a caso, perché non
volevo che mamma o papà la trovassero.
Quel pomeriggio sono stato a casa di Gaia che, dopo la rottura con
Damiano, senza rendersene conto, ha ritrovato il sorriso luminoso di chi
finalmente ha riacquistato la serenità che aveva perso da tempo.
È difficile lasciare andare qualcuno a cui ci si è aggrappati per anni, poi
però qualche volta ci si rende conto di essere anche più felici a reggersi da
soli.
Succede quando l’amore che viviamo si dimentica delle cose belle.
D’un tratto, mentre siamo immersi nel silenzio, ognuno piegato sul
proprio libro, Celeste chiude il suo di scatto e ci dice una cosa che ci lascia
a bocca aperta.
«Ieri io e Gabriele ci siamo baciati.»
Alzo all’improvviso gli occhi e li poso su di lei, che mi sorride appena,
quasi di nascosto.
«Davvero?» le domando, incredulo e felice.
Per un attimo mi sembra di vederla di nuovo chiusa nel bagno della
scuola a piangere e a stringersi nelle ginocchia, convinta che la sua rivincita
non sarebbe mai arrivata.
E invece, eccola qui.
«Be’, anche io devo dirvi una cosa…» Sofia approfitta del momento di
confidenze, accennando un sorriso.
Gaia la guarda come fa chi ha già capito tutto. «Filippo!»
«Già. Alla fine ho deciso di farmi avanti io. Mi ero davvero rotta di
questa situazione. E quindi qualche giorno fa l’ho incrociato nel corridoio
della scuola, l’ho spinto al muro e l’ho baciato. Così. Davanti a tutti i suoi
amici.»
«Scherzi? Con me non hai mai fatto una cosa simile…» commenta
Roberto, con il sorriso sulle labbra.
«No, perché lo facevi già tu…»
Ci mettiamo a ridere e in mezzo a tutti quei sorrisi, per un attimo mi
dimentico di avere il cuore in frantumi. Guardare i miei amici che vanno a
prendersi la felicità che meritano rende felice anche me.
Si dice che gli amici sono la famiglia che ci scegliamo.
Ecco, io ne sono convinto.

A rendermi un po’ più facile digerire il dolore di aver detto a Beatrice


addio per sempre, con quella lettera che non leggerà mai, è stata la prof di
italiano. È come se, dopo la nostra chiacchierata, fra noi fosse nata una
specie di complicità, e quando sono seduto in classe ho sempre
l’impressione che mi abbracci con lo sguardo.
Non avrei mai pensato che una mia insegnante potesse farmi sentire
meglio a scuola di quanto potessi sentirmi a casa mia.
Una mattina, al suono della campanella, ci ha chiesto di consegnarle i
quaderni, voleva portarseli a casa per controllare che fossimo tutti in pari
con il programma, visto che la prima metà dell’anno scolastico è quasi già
finita e gli esami di maturità si avvicinano.
Poco dopo, però, mentre sono seduto al bar Pasi con i miei amici,
all’improvviso, ho una folgorazione.
Dentro il quaderno che ho consegnato alla prof c’è la lettera che ho
scritto a Beatrice.
Vengo colto da un imbarazzo che non avevo mai provato: vorrei con tutto
me stesso tornare indietro, trovare la prof e strapparle il quaderno di mano,
per metterlo di nuovo al sicuro nel mio zaino. Poi però mi dico che invece
devo smetterla di vergognarmi dei miei sentimenti, e soprattutto del mio
modo di manifestarli.
Quando rientro a casa, decido finalmente di provarci, di salire di nuovo
nella mia soffitta per sentirmi un po’ più a casa.
Una volta in cima alle scale, però, scopro che l’uscio è già semiaperto e
la luce accesa. Apro la porta un po’ impaurito e mi ritrovo davanti Beatrice,
seduta sulle stesse coperte su cui tante volte siamo stati insieme.
Appena i nostri sguardi si sfiorano di nuovo, Beatrice fa un piccolo
sobbalzo, come il mio cuore.
«Ciao» mi dice poi.
33
Tieni vicino chi dimostra di volerci essere e lascia
andare chi non ti merita

Elisabetta
Ciao Bea,
mi manchi, sai?
E ora che siamo lontani mi sono accorto che mi manca la
quotidianità. Sì, proprio quella che di solito invece fa tanta
paura.
Mi sembra che ci siano tante piccole cose di cui non
posso più fare a meno: ricevere un tuo messaggio quando
non me lo aspetto, sorridere dei tuoi capelli arruffati, vederti
arrivare sotto casa, passeggiare con la voglia di stare mano
nella mano, bere un bicchiere di vino insieme e sentire le tue
labbra che pronunciano il mio nome. E abbracciarti da
dietro e sentirti rabbrividire per il mio respiro sul tuo collo.
E farmi abbracciare da te.
Sono bravo nell’arte di schivarli, gli abbracci.
Tu però sei l’unica persona al mondo che non avrei mai
mandato via, perché quando vorrei urlare, piangere,
scappare, mi basterebbe un tuo abbraccio.
Volevo dirti che non sono arrabbiato con te, e neanche
deluso, o rancoroso. Sono arrabbiato con la vita. Con quella
vita che a volte mi sembra troppo ingiusta per poterla
perdonare.
E ho paura. Paura di dover ricominciare, e di non essere
capace di farlo, e di arrivare a un punto in cui farò pagare
agli altri il dolore che mi hai procurato tu.
Non avresti dovuto farlo.
Dentro al petto sento battere un cuore fragile che ha
sempre cercato di essere abbastanza forte, ma che non lo è
per davvero.
Non so come sei riuscita a farmi tuo così in fretta.
Forse doveva semplicemente andare così, forse perché tu
sei come nessun’altra.
Sei i tuoi silenzi, sei come cammini, come guardi, come ti
arrabbi, come accarezzi, come scappi, come torni, come
scappi ancora.
Sei le parole che nascondi, la timidezza delle mani, i baci
che mi hai rubato.
Sei come sorridi, come piangi, come balli.
Tu sei unica, e invece continui a desiderarti diversa.
Anche se non ci rivedremo più e dovrò abituarmi alla tua
assenza, ti sto scrivendo questa lettera proprio per questo,
perché vorrei augurarti una cosa.
Vorrei augurarti il talento di guardarti allo specchio e
scovare le tue meraviglie, e quello di parlare sempre delle
cose di te che ami: che sai essere debole ma sempre
abbastanza forte, che hai lasciato indietro qualche bacio in
sospeso ma hai avuto il coraggio di prenderti le uniche
labbra che contavano davvero, che spesso hai perso ma che
qualche volta hai anche vinto. Vorrei parlassi sempre di
quello che ti rende felice: di quando ti arricci i capelli, o ti
metti una gonna a fiori, o cammini a piedi nudi sulla sabbia.
Ti auguro una vita così: una vita a piedi nudi sulla
sabbia.
Soprattutto, vorrei la smettessi di volerti diversa, ché sai
far innamorare anche così.
E poi vorrei augurare una cosa pure a me.
Vorrei augurarmi di non aver bisogno di tutto ciò che ho
scritto fino adesso, perché arriverà il momento in cui ci sarò
di nuovo io al tuo fianco e potrò parlarti sottovoce e guidare
i tuoi passi, così come tu guiderai i miei.
Ci ho provato, sai? Ci ho provato davvero a dimenticarti,
ma più cerco di allontanarti e più mi allontano da me stesso.
Avrei dovuto immaginarlo che non ci si libera facilmente
da ciò che si ama, e io ti ho amata in tutti i modi, perché è
così che si fa quando tieni davvero a qualcuno.
A volte, quando ho voglia di farmi male mi leggo i tuoi
messaggi e improvvisamente sembri ancora più lontana.
Quando capita, mi rendo conto che non è questo il mio posto,
e che quello non è il tuo.
E allora non ascolterò chi mi dice che no, non dovrei
venire a cercarti, ma farò il contrario.
In questi giorni ho pensato ai sogni, e ho capito che sono
importanti, ma ho capito anche che si sogna meglio in due.
Perché ci voglio credere, lo sai?
Voglio credere che questa non sia la fine, che l’amore
possa bastare sempre, al di là di qualsiasi etichetta, della
nostra famiglia, di ogni pregiudizio.
Voglio credere che fra tutti gli occhi che incontrerò gli
unici che guarderò saranno sempre i tuoi.
Voglio credere ancora nelle nostre canzoni.
E tu?
Ti amo,
Lorenzo

Quando ho aperto il quaderno di Lorenzo, ci ho trovato dentro un foglio


piegato in quattro che sembrava fosse stato infilato lì quasi di fretta.
Nonostante il sottile senso di colpa dato dalla consapevolezza di violare
pensieri, emozioni e sentimenti che Lorenzo probabilmente aveva deciso di
tenere per sé, non ce l’ho fatta a non leggere quello che ha scritto.
E così adesso mi ritrovo con le mani tremanti, gli occhi rossi e le guance
rigate di lacrime.
Le sue parole mi hanno commossa, ma soprattutto mi hanno offerto lo
specchio che mi serviva per riflettere me stessa. Mi hanno dato una chiave
di lettura della mia vita, la password per cercare di riordinare il caos che ho
accumulato nel cuore.
Quanto la vita degli altri influenza la nostra?
Può un amore giovane come questo infilarsi fra le pieghe dei miei
sentimenti e insinuarvi il dubbio di non aver fatto abbastanza per salvare il
mio matrimonio?
Questo ragazzo di appena diciotto anni è riuscito a descrivere, in tutta la
sua ingenuità e con una semplicità che mi ha disarmata, il segreto di ogni
amore che prova a superare gli anni: la quotidianità.
E se fosse questo l’unico vero errore che abbiamo commesso io e
Alessandro? E se più di tutto il resto, più delle bugie, delle incomprensioni,
dei litigi, dei magoni, dei punti di vista diversi, della stanchezza, il nostro
sbaglio fosse stato unicamente quello di dimenticarci del miracolo della
quotidianità?
Ché alla fine si riduce tutto a questo.
L’amore non ha nulla a che fare con il fiato rotto la prima volta che lo
vedi, con i brividi della prima volta in cui ti sfiora, con i piccoli sobbalzi del
cuore a ogni suo messaggio e con quel piccolo nodo alla base del cuore
tutte le volte che te lo trovi davanti e hai voglia di baciarlo.
Amare è vedersi stanchi, ritrovarsi la sera in pigiama sul divano,
trascorrere tantissime sere tutte uguali, pulire la casa, prepararsi la cena,
correre dietro ai bambini, urlarsi ma tenersi vicini, continuare a desiderarsi
nonostante i difetti.
Amare non è quella serata fatta di amore e vino, le vacanze con il sole
addosso, le cene fuori, le canzoni sotto le coperte, i risvegli con il caffè a
letto.
Amare è quando tutto questo, a un certo punto, sembra lontano, eppure la
vita insieme continua a sembrarci un miracolo.
Forse sta proprio qui la chiave per riuscire a trovare sempre un motivo
per amarsi. Perché, un motivo ci vuole sempre.
Dopo essermi consumata in lacrime, corro da Marianna, in cerca di un
bicchiere di vino e del conforto che solo lei sa darmi. Federico e Virginia
sono con Alessandro e Trento è sepolta sotto una pioggia fittissima, ma in
questo cielo scuro continuo a cercare nuovi motivi per essere felice.
«C’è una cosa che mi ha colpito tanto, della lettera di Lorenzo. Lo sai?»
le dico, dopo aver parlato come un fiume in piena per un sacco di tempo.
«Quale?»
«La sua tenacia.»
«Che cosa intendi dire?»
«La voglia di non arrendersi. La sua insistenza nel voler vedere le cose
che funzionano e non concentrarsi su quelle che invece non vanno. Forse è
stato in questo che ho sbagliato io. Ho cominciato a dare più importanza ai
motivi per lasciarci andare invece che ai motivi per restare insieme.»
«Sai una cosa?» mi risponde Marianna.
«Che cosa?»
«Ho anche sentito dire spesso che l’importante in amore è guardare
insieme nella stessa direzione. Secondo me, invece, è molto più importante
come si guarda.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che per trovare la bellezza da qualche parte, a volte basta
cambiare punto di vista. Ho pensato molto a una cosa che mi hai detto
qualche tempo fa. Mi hai detto che invidi la mia vita e la mia leggerezza. E
magari hai ragione tu, sai? Magari il mio è il modo giusto per stare al
mondo, se ne esiste uno. Però, adesso vorrei che facessi una cosa per me.
Hai voglia?»
Inarco un sopracciglio. «Sì, certo» le rispondo un po’ perplessa.
«Chiudi gli occhi, allora. Ecco, brava. Ora immagina di sentirti
completamente libera, di non avere due figli e un marito con cui litigare.
Immaginati con me in uno dei miei viaggi, immaginati ridere spensierata e
senza preoccupazioni, mentre sorseggiamo un cocktail al tavolino di un bar.
Poi, osserva la tua vita, invece. Entraci dentro. Immagina i sorrisi dei tuoi
bambini, i biberon quando erano piccoli, le notti in bianco, le volte in cui
piangevano così tanto che ti sembrava di impazzire, e le giornate intere a
casa ad aspettare che Alessandro tornasse, i momenti in cui siete stati sul
momento di mollare tutto e invece non l’avete fatto, i viaggi tutti e quattro
insieme, Federico e Virginia che ti chiedono di andare con loro a fare il
bagno al mare, la casa sempre sottosopra, i mucchi di vestiti da stirare, le
calamite sul frigorifero e tutte quelle volte che ti sei chiusa in bagno di
nascosto, solo per riposarti un po’. Ecco. Immagina tutto questo. E poi
immaginati fra tanti anni, vecchia e stanca sdraiata in un letto a riavvolgere
il rullino della tua vita. Quale delle due vorresti aver vissuto?»
Rimango in silenzio, chiusa dentro un silenzio assordante che mi
rimbomba nel petto.
Marianna continua. «Non serve che tu mi risponda a voce alta. Conosco
già la tua scelta. E la conosci anche tu, perché sono convinta che, in fondo,
tu e Alessandro non avete smesso di amarvi, ma avete solo smarrito la
strada per un po’. Chissà, magari questo momento da sola ti serviva proprio
per capire tante cose. Hai ricominciato a prenderti cura di te, no? Da quanto
non lo facevi? Io non sono la persona adatta per dire come si fa ad amare
qualcuno. Però so per certo che per farlo è necessario prima di tutto amare
se stessi.»

Il giovedì mattina successivo mi sono svegliata e ho trovato un


messaggio di Alessandro.
“Hai voglia di venire a pranzo da me?”
Virginia e Federico stavano ancora dormendo e io stavo facendo
colazione in soggiorno, con il televisore acceso giusto per compagnia,
prima di svegliarli per farli andare a scuola.
Io, invece, il sabato, come Alessandro sa benissimo, a scuola non ci devo
andare.
Il cuore ha cominciato a battermi un po’ più forte nel petto, perché ho
interpretato quelle sue parole come un passo verso di me.
Anzi, verso di noi.
Dopo tutti i pensieri degli ultimi giorni, e le sensazioni e i dubbi che le
parole di Lorenzo e Marianna hanno avuto il potere di suscitarmi sottopelle,
un tentativo di riavvicinamento da parte sua era proprio ciò di cui avevo
bisogno.
Certo, per quanto Alessandro mi mancasse ogni giorno di più, non avevo
dimenticato i motivi del nostro addio, e soprattutto non avevo dimenticato
che quando la fiducia viene meno tutto è perduto.
Perché, qualche volta, l’amore non basta.
Come avrei potuto fidarmi ancora una volta di lui? E lui come avrebbe
potuto di nuovo fidarsi di me?
Credo di averci messo tantissimo a rispondere, e alla fine ho optato per
un “Forse non è il caso”, buttato lì solo perché non sapevo proprio che cosa
fare.
Certi addii sono difficilissimi da dire, e mantenerli è ancora più
complicato.
“Non vuoi che cucini io, ammettilo. Non ti sei mai fidata di me quando
mi metto ai fornelli. Non preoccuparti, però. Possiamo prendere anche due
pizze se ti fa stare più tranquilla.”
Non sono riuscita a fare a meno di ridere.
“Stupido.”
Ho immaginato Alessandro ridere insieme a me, in quella sua nuova casa
che ho visto solo dalla soglia della porta.
“Quindi? Vieni?” mi ha domandato di nuovo.
34
► [Francesca Michielin, Distratto]

Lorenzo

«Ciao.»
Beatrice pronuncia quelle quattro lettere con un pizzico della dolcezza
che la sua voce indossava una volta e mi si capovolge il cuore.
«Ciao» le rispondo, con le braccia lungo i fianchi, ancora immobile
davanti alla porta. «Come sei entrata?»
Beatrice alza le spalle. «Non è un segreto per me, questo posto. Mi avevi
mostrato dove tieni le chiavi, no? Per entrare nel palazzo è bastato suonare
un campanello a caso e fingere di essermi chiusa fuori.»
Le sue labbra si arricciano divertite, e non posso farci niente, lo fanno
anche le mie.
«Scusami…» mi dice poi, corrugando la fronte.
La guardo alzando appena un sopracciglio. «Per che cosa?»
«Per essere venuta qui di nascosto, come una ladra.»
Nonostante tutto, decido di risponderle proprio come vorrei.
«Non hai mai avuto bisogno di un invito, per venire qui.»
Beatrice sorride in un sospiro. «Avevo voglia di tornare in questo posto.
E poi, lo ammetto, ho proprio sperato che salissi qui anche tu. Spero di non
disturbarti…»
Finalmente, dopo essermi richiuso la porta alle spalle, faccio qualche
passo dentro la soffitta.
Quanto mi era mancato il profilo di Beatrice in questa penombra.
«Non disturbi…»
«È che volevo dirti una cosa…»
Mi siedo lì di fronte a lei, come la nostra prima volta fra quelle mura,
ormai un bel po’ di tempo fa.
«Cosa?»
«Volevo dirti che non ci riesco.»
La guardo sorpreso, senza capire. «Non riesci a fare che cosa?»
«A stare senza di noi.» Il mio cuore perde un battito. Lei continua: «C’è
stato un attimo, quando sono stata costretta a fare a meno di noi, in cui
qualcosa dentro di me si è rotto. Ed è come se fossi rientrata nella mia pelle.
Il mondo mi è apparso diverso, senza di te. Più rude. Più difficile. Ho avuto
bisogno di tantissima forza in queste settimane, sai? E di coraggio. Persino
una cena con gli amici, un film la sera, un cappuccino, una domenica da
sola. Tutto mi è sembrato nuovo, senza di noi. Ma un nuovo che sapeva così
tanto di vecchio da sentirmi persa».
«Non dire così…» È come se non avessi più aria nei polmoni.
«Ho persino tentato di guardarmi attorno. Mi ero già scordata di quanti
sconosciuti ci fossero al mondo e di quanto fosse difficile sentirsi
vulnerabili e fuori luogo, senza uno sguardo a cui aggrapparsi.»
Rimango zitto, perché immaginare gli occhi di Beatrice cercarne degli
altri mi spezza il cuore.
«Poi, però, una sera mi sono seduta in terrazza a fumare una sigaretta e
ho pensato a te, e le mie mani hanno cominciato a tremare come facevano
una volta. E ho capito che a loro non avrei potuto insegnare a ritirarsi, a
dosare la delicatezza, a stabilire le distanze. Le mani non le convinci mai a
smettere di cercare. E la verità, Lorenzo, è che le mie non hanno mai
smesso di cercare te.»
Beatrice fa una piccola pausa. È davvero un fiume in piena, e io non ho il
coraggio di fermarla. «C’è una cosa che hai fatto e che mi ha colpito
tantissimo» aggiunge infine.
«Quale?»
«Scrivermi quel messaggio, dopo che sono sparita, per darmi
appuntamento di notte, lungo il fiume. Era quello che avevo sempre
desiderato: un ragazzo che quando siamo sul punto di non vederci più
sappia mettere via l’orgoglio e trovare la voglia di venire da me. Anche se
ho torto, magari. Ho sempre voluto accanto qualcuno che considerasse più
importante andare avanti che avere ragione. E tu l’hai fatto. Tu l’hai sempre
fatto…»
Apro la bocca per rispondere. Poi la richiudo, e infine la riapro di nuovo.
«È così che si fa, quando si ama» dico in un sussurro.
Beatrice sorride appena, poi si volta a guardare fuori e io scorgo una
lacrima, solo una, che le riga la guancia.
«Come mai sei qui?» le domando allora.
Rivederla è stata una piccola vertigine, è vero, e il cuore che mi martella
nel petto sembra volermi dire una volta in più che è proprio lei la ragazza
che voglio accanto, ma dentro sento anche un po’ di rabbia.
Beatrice non mi risponde, continua a guardare altrove.
«Ci ho fatto stare di tutto, in queste settimane, lo sai?» continuo, di fronte
al suo silenzio. «Ho pianto, ho cercato di andare avanti, di sorridere lo
stesso. Ho trascorso notti intere a immaginare di vederti tornare, perché
nonostante tutto è sempre questo che ho voluto. Ho bisogno di saperlo.
Perché sei qui? Per dirmi che ti manco e poi andare via di nuovo? Volevi
vedere a che punto stavi fra le cose che non riesco a dimenticare?
Oppure…» Faccio una piccola pausa, poi termino la frase. «Oppure sei
tornata per restare?»
Beatrice, allora, fa un sorriso e tira su con il naso.
«Io non ci so stare senza di te, Lorenzo.»
A quelle parole stringo forte i pugni. «Vorrei con tutto me stesso poter
tornare indietro. Vorrei cancellare questa parentesi ed essere quello che
eravamo…» Faccio una pausa, densa di significato. «Ma è davvero
possibile?» le domando alla fine.
Una parte di me non desidera altro, l’altra ha così paura che vorrebbe
scappare via.
Per la prima volta leggo negli occhi di Beatrice la paura di perdermi. Una
paura vera, sincera. Una paura che mi dimostra che non mi sono inventato
niente.
«Lorenzo, non può finire così. Ti prego…» Il suo sguardo si annebbia di
lacrime e si abbassa appena per nascondersi, un gesto che le ho visto fare
tante volte e ha sempre avuto il potere di scuotermi dentro.
«Perché dovrei tornare indietro, Beatrice? Perché?»
«Perché ci amiamo, Lorenzo…» mi risponde fra i singhiozzi,
nascondendosi il viso fra le mani.
Io continuo a fissarla con i pugni serrati.
Vorrei scoppiare in lacrime.
Lei mi guarda con quei suoi occhi immensi. «Non mi ami più?» mi
domanda con la voce che trema.
«Sì, ti amo. È che ho paura. Ho bisogno di sapere che questo nuovo
inizio non avrà una fine. Ho bisogno di un motivo, Bea…»
«Siamo noi, il motivo.»
«E se poi ti scoprissero? E se facessero in modo di allontanarci di nuovo?
Avrai il coraggio di scegliere sempre noi?»
«Sai che ho capito in questo periodo? Che, in fondo, l’età conta poco. Il
mio amore non vale meno solo perché ho diciotto anni. Vale tanto. Anzi,
forse vale anche di più. E allora nessuno può dirmi come fare ad amare, e
soprattutto nessuno può scegliere per me chi devo amare. Anche perché non
lo possiamo comandare, il cuore. È lui che comanda noi…» Beatrice fa una
piccola pausa, giusto il tempo di prendere respiro. Poi prosegue, e lo fa con
il tono di chi sta per pronunciare una promessa importante. «Io non lo so
come andrà, Lorenzo. Non so se questi occhi innamorati rimarranno così
per sempre, se potrò stringerti al cuore come faccio ora e se tu avrai sempre
la voglia di sopportare tutti i miei controsensi. Però voglio dirti che non
sono tornata per andare via. Non questa volta. Ci sono e ci sarò. Ci sarò
anche se ora mi dirai di andarmene. Ti lascerò briciole di me ovunque: nelle
strade che percorrerai, nei piccoli gesti che ho dedicato solo a te, nelle
canzoni che ascolterai, nel…»
«Bea…» la interrompo.
«Sì?»
«Cos’è che ti ha fatto cambiare idea?»
«Il tuo modo di prendermi le mani, il fatto che cerco il tuo sguardo fra la
gente. La tua voce e i tuoi silenzi, che mi fanno casino dentro. E il tuo modo
di rendermi felice sempre.»

Ho deciso di fidarmi.
Avrei potuto scegliere di far vincere il mio orgoglio e di allontanare
Beatrice da quella soffitta per sempre.
Invece ho voluto seguire il cuore, proprio come ha fatto lei.
Le magie più grandi le viviamo a occhi chiusi. Il primo bacio, la prima
volta che facciamo l’amore, quando a letto ci abbracciamo da dietro,
quando prendiamo il sole l’uno accanto all’altro, quando ci sfioriamo una
mano.
A volte, chiudere è bello. Chiudere gli occhi per vedere meglio, chiudere
i pugni per farsi forza, chiudersi in casa con lei.
Così, quando Beatrice si è avvicinata a me, mi ha baciato e mi ha detto
“Ti amo” io le ho risposto: “Ti amo anche io”.
È ricominciato tutto da dove lo avevamo lasciato, perché è così che
succede a chi si ama davvero, e la nostra storia si è intrufolata nelle nostre
giornate, regalandoci attimi di pura felicità che probabilmente non mi
ricapiteranno mai più.
Non abbiamo mai smesso di darci appuntamento in soffitta.
Spesso, a mezzanotte, Beatrice si faceva trovare sotto casa, andavo a
prenderla e salivamo fino all’ultimo piano a sederci in quello che ormai non
era più il mio posto, ma il nostro.
«Come mai hai scelto me?» mi ha chiesto lei una sera.
L’ho guardata un po’ sorpreso. «Che cosa vuoi dire?»
«Perché quando sono tornata hai deciso di non mandarmi via?»
«Perché non sono tornato io, ma sei tornata tu.»
Lei ha alzato un sopracciglio. «Non capisco…»
«Perché sei stata capace di tornare sui tuoi passi. E perché ho deciso che
nella mia vita si merita spazio non chi dice di tenermi con sé, ma chi lo fa
sul serio. E tu l’hai fatto.»
Beatrice mi ha sorriso.
Non ha mai smesso di farlo da quando è di nuovo qui.
«E tu, invece?» le ho chiesto.
«Che cosa?»
«Perché hai deciso di essere ancora qui?»
«Perché quando mi immagino fra qualche anno, desidero avere accanto
un ragazzo come te. Un ragazzo con cui essere me stessa, che sia ironico e
rispettoso, un ragazzo con cui sdrammatizzare i difetti e giocare come
bambini. Un ragazzo fedele, con cui non avere paranoie, geloso ma non
possessivo, intelligente e curioso, un ragazzo con cui cantare in macchina
anche se sono stonata. Vorrei un ragazzo romantico ma non sotto le coperte,
testardo e orgoglioso, ma capace di essere dolce quando ne ho bisogno.
Vorrei un ragazzo che tenga qualcosa per me, solo per me, che sappia
toccarmi nei punti giusti, e che però non pensi solo a quello, ma anche a
tutto il resto. E tu, anche se non te ne accorgi, sei così. Esattamente così.»
Non credo di aver mai sentito il cuore così gonfio di gioia.
35
Una donna lo sente quando negli occhi del suo uomo
l’amore non esiste più

Elisabetta

Quel giovedì ho raggiunto l’appartamento di Alessandro con il cuore in


gola e un pizzico di agitazione nello stomaco, come succedeva ai nostri
primi appuntamenti.
Suono il campanello di casa sua con un piccolo nodo in gola e non
appena sento il clock della porta ho un sobbalzo al cuore, ma è quando lo
trovo sulla soglia ad aspettarmi che rimango senza fiato per davvero.
Alessandro ha abbassato del tutto le serrande e ha costruito un’enorme
casa con le lenzuola.
Alcune sono fermate alle ante della cucina, altre appoggiate a delle
vecchie sedie, altre sorrette dalle finestre. E poi ci sono luci appese
ovunque. Per terra, sopra delle coperte ammucchiate, ha preparato una
bottiglia di vino, dei bicchieri, accanto a due cartoni di pizza d’asporto.
È tutto esattamente come diciannove anni fa.
Rimango ferma a fissare quella casa fatta di lenzuola e sento un magone
che non riesco a controllare salirmi nella pancia e nella gola: i miei pensieri
vengono risucchiati in un imbuto e vengo catapultata al periodo in cui io e
Alessandro eravamo felici senza sforzo.
Quelle lenzuola sono sempre state il simbolo della nostra storia,
nascondono un mondo che conosciamo solo io e lui.
Mi porto le mani davanti alla bocca per lo stupore.
Non riesco proprio a dire niente.
«Stamattina mi sono svegliato presto…» mi dice lui.
Dal suo tono mi accorgo che è un po’ nervoso.
«E se non avessi accettato di venire?» riesco a dire finalmente.
«Avrei disfatto tutto e non ti avrei mai detto niente. Comunque, speravo
tanto che non rifiutassi…»
«In realtà ci ho pensato» gli rispondo, sincera.
«Sì, lo so.»
Rimango in silenzio a guardarlo, mordicchiandomi nervosamente il
labbro inferiore e sforzandomi di non scoppiare in lacrime.
L’improvvisa consapevolezza che Alessandro riesce a capirmi come una
volta, e che io riesco a capirlo come una volta, mi fa sorridere e
commuovere nello stesso tempo.
A vedermi lottare con le lacrime lui vorrebbe prendermi la mano, ma si
trattiene: forse perché non sarebbe giusto, forse perché sa che basterebbe
pochissimo a farmi crollare e non vuole.
«Hai voglia di sederti?» mi domanda piuttosto.
Annuisco senza dire niente, mi tolgo le scarpe e mi chino per entrare
sotto la casa di lenzuola. Quando mi siedo a gambe incrociate e vedo
Alessandro sistemarsi lì di fronte a me sento un brivido alla base del cuore.
Guardo le sue mani aprire la bottiglia di vino e riempire due bicchieri e
ho la sensazione che, in qualche modo, non hanno mai smesso di essere le
mani che cerco.
«Ti ho ordinato un calzone senza ricotta. Come piace a te. Spero di non
aver sbagliato.»
Sorrido. «Grazie. Tu invece hai preso una prosciutto e funghi con
aggiunta di salamino, ci scommetto.»
Mi sorride anche lui. «Come siamo noiosi.»
Dopo aver sorseggiato il vino si fa coraggio e mi domanda: «Come
stai?».
«Non lo so» rispondo, sincera. «E tu?»
Lui si limita ad alzare le spalle. «Va abbastanza bene…»
Restiamo in silenzio per un po’, poi, alla fine, mi decido ad affrontare
l’argomento. «Non è facile abituarmi alla vita senza di te. Ci sono giorni in
cui è più difficile e giorni in cui riesco a tenere la testa occupata.»
«Sì, ti capisco…» mi risponde. Poi, con il sopracciglio, indica il libro
dalla copertina rossa e azzurra che sbuca distratto dalla mia borsa. «Hai
ricominciato a leggere per davvero?»
Sorrido. «Un pochino sì. Mi mancava, lo sai.»
«Sì, lo so. Che libro stai leggendo?»
Lo sfilo dalla borsa e glielo mostro: «L’ho trovato in libreria, stava lì,
appoggiato alla rinfusa in mezzo a tante altre storie.»
Alessandro beve un sorso di vino e addenta il primo boccone della sua
pizza: «Strana la copertina… Quel bicchiere di caffè con la scritta: “Sei
l’attimo che mi cambia la vita”. Non riesco a capire la connessione fra il
caffè e quella frase lì…».
«Ci ho pensato su anche io, sai?»
«Davvero? E cosa ti sei risposta?»
«Ho immaginato due persone rubarsi qualche sguardo e un ragazzo che,
leggermente imbarazzato, chiede a una ragazza se ha voglia di uscire con
lui. E poi li ho immaginati al primo appuntamento, separati solo dal
tavolino di un bar e dall’odore del caffè che sale dalle tazzine. Quante volte
il caffè viene usato come scusa? E quante è invece l’inizio di una storia?
Ecco. Il caffè, in fondo, è un attimo, no? E allora secondo me questa
copertina vuol dire questo. Vuole dire: “Sei il caffè che mi ha cambiato la
vita”.»
Il sorriso di Alessandro si allarga ancora di più. «Chissà se hai ragione.
Però la tua spiegazione mi piace» mi risponde.
Ci guardiamo e fra noi s’insinua un pizzico di malinconia, o forse un
leggero imbarazzo.
È davvero strano trovarsi in difficoltà a parlare con una persona con cui
abbiamo condiviso così tanta vita.
«Allora, come sta andando questo periodo?» gli chiedo, per rompere il
ghiaccio. «Davvero, però» aggiungo.
«Intenso. E il tuo invece?»
«Veramente non lo so. Surreale, forse…»
Stiamo continuando a ripeterci le stesse cose di un attimo fa, così decido
di farmi coraggio, non so nemmeno come.
«Sai una cosa?» gli dico tutto a un tratto.
«Che cosa?»
Faccio un sospiro e chiudo gli occhi per trovare le parole giuste. «Per
tantissimi anni non abbiamo mai avuto bisogno di cercare qualcosa fuori,
perché quando ci guardavamo negli occhi sentivamo di avere già tutto
quello che potevamo desiderare…» comincio. Nei suoi occhi in questo
momento mi sembra di scorgere le mie stesse inquietudini. «Quello che mi
fa male» proseguo, «non è tanto il fatto che tu abbia potuto pensare di
trovare qualcosa di bello in un’altra donna e che io abbia potuto pensare di
trovare qualcosa di bello in un altro uomo, ma…»
Alessandro m’interrompe e completa la frase al posto mio. «…ma che se
è successo significa che insieme ci siamo sentiti soli per troppo tempo.»
Ci guardiamo negli occhi. Improvvisamente è come se ci fossimo
dimenticati della pizza, del vino, di doverci mostrare felici a tutti i costi.
«Sai, invece, che cosa fa male a me?» mi domanda Alessandro, dopo
qualche secondo.
Faccio di no con la testa.
«Siamo sempre stati un posto, noi: un posto in cui tornare per stare bene
e sentirci al sicuro, nonostante tutto. E mi ha ucciso scoprire che, alla fine,
invece, siamo diventati un posto dal quale scappare…»
Parlare così con lui, finalmente in modo nuovo, senza urla o voglia di
rinfacciarci le mancanze, mi fa venire le lacrime agli occhi.
«C’è una cosa che proprio non riesco a perdonarci» gli dico, ricacciando
indietro quel magone.
«Che cosa?»
«Il silenzio. La bugia taciuta. Avrei anche potuto sopportare tutto il resto.
Ma è l’esserci mentiti che mi devasta.»
Alessandro rimane zitto per qualche secondo.
«In realtà ti ho chiesto di venire qui perché in questi giorni non ho potuto
fare a meno di pensare a una cosa. E se quello che è successo, invece, fosse
un’opportunità?»
«Un’opportunità?»
Alessandro annuisce. «Tutto quello che dici è vero, anche a me fa male
ripensare a come eravamo quando ci siamo conosciuti, e guardare il
mucchio di problemi e incomprensioni che siamo diventati oggi, e sapere
che hai cercato di colmare le mie mancanze con qualcun altro mi toglie
l’aria dai polmoni. È solo che in realtà è successa anche un’altra cosa. È
successo che ci siamo scritti per mesi senza maschere e senza filtri.
Convinti di avere davanti degli sconosciuti, siamo riusciti ad abbassare
quelle difese che ci siamo costruiti e che negli anni sono diventate un
ostacolo, una barriera tra di noi. Da quanto non succedeva?»
Alzo lo sguardo e mi accorgo che anche lui ha gli occhi un po’ arrossati,
e lo sento all’improvviso più vicino.
«Da così tanto che non saprei dire…» gli rispondo a voce bassa.
«Quello che voglio dire…» prosegue Alessandro, «è che sì, ci siamo
traditi, in un certo senso; però la verità è che c’eri tu, e c’ero io, e
c’eravamo noi, ancora una volta. E abbiamo avuto paura di poterci
innamorare di qualcun altro, ma in realtà ci saremmo innamorati l’uno
dell’altra per la seconda volta. Non hai mai provato il desiderio di avere
questa opportunità, negli ultimi anni?»
«Quella di poterti incontrare una seconda volta per la prima volta?»
«Sì…»
«Spesso.»
Alessandro mi guarda in silenzio per un po’. «Sai di cosa ho avuto paura,
ultimamente?»
«Di che cosa?»
«Ho avuto paura di essere diventati due persone troppo diverse per
riuscire ancora a riconoscerci l’uno nell’altra…»
Di fronte a quelle parole mi faccio piccola piccola, stringendomi le
ginocchia al petto.
«Però…» aggiunge lui. «Forse non è così…»
«E com’è, allora?»
«Il fatto è che nel tempo abbiamo ammucchiato così tanta sporcizia nel
nostro amore che lo abbiamo sepolto sotto strati di incomprensioni, errori,
insicurezze, gelosie, fragilità. E questo, a un certo punto, non ci ha più
permesso di essere genuini. Io penso che le persone di cui ci siamo
disinnamorati negli anni non eravamo noi per davvero, perché noi non
siamo quelli lì, Elisabetta.»
«E che cosa siamo, secondo te?»
Alessandro mi guarda come non mi guardava da chissà quanto.
«Siamo questi qui.»
Mi lascio sfuggire una lacrima, non riesco proprio a evitarlo.
«Negli ultimi mesi…» prosegue lui, «qualche volta, la sera, quando ti
raggiungevo a letto e tu dormivi già, lasciavo la porta della camera da letto
socchiusa per far filtrare un po’ di luce e mi sedevo lì accanto a te. Ti
guardavo nella penombra e mi chiedevo cosa sarebbe successo se quel
giorno di tanti anni fa io non avessi sbagliato a inviare quel messaggio. Mi
sono chiesto, anche, cosa accadrebbe se ci conoscessimo ora, se tutto
andrebbe allo stesso modo o se ci passeremmo accanto senza far caso l’uno
all’altra. Mi sentivo triste e impotente, fermo lì a fissare mia moglie e a
chiedermi se mi innamorerei ancora di lei se la conoscessi oggi, senza
riuscire a darmi una risposta.»
«Perché mi dici questo, perché lo fai?» gli domando tra le lacrime che
adesso scendono inarrestabili e copiose, quasi con rabbia.
«Davvero non lo hai capito?» mi domanda lui.
Io mi limito a scuotere la testa.
«Perché tutto quello che è successo, alla fine, mi ha dato la risposta che
cercavo. Per mesi ho sentito un’altra donna, e mi sono confidato, mi sono
lasciato andare, e dopo tantissimo tempo sono riuscito a spogliarmi di tutto
e a tornare me stesso. Ho riscoperto la capacità di provare quelle emozioni
forti che a volte mi chiedevo se avrei mai più sentito. Mi stavo
innamorando in silenzio di quella donna che, come me, è stata di nuovo
autentica dopo chissà quanto. Poi però ho scoperto che quelle sensazioni
che pensavo tu non fossi più capace di darmi, in realtà me le stavi dando
ancora. E che quindi, la risposta a quella domanda che mi facevo nel buio
della nostra camera da letto è sì. Ed è sempre stata sì.»
«Se tutto quello che dici è vero, allora perché non siamo stati capaci di
restare? Guardaci. Sono venuta a casa tua, per vederti, perché una casa
nostra non c’è più.»
Alessandro mi mette un dito sotto il mento e mi spinge delicatamente il
viso verso l’alto. Quando finalmente ci guardiamo mi dice una cosa che non
scorderò mai.
«Il segreto di una storia d’amore non è restare a tutti i costi. Qualche
volta può capitare di andare via per un po’, l’importante è trovare il modo di
tornare. In queste settimane ho capito che se siamo stati insieme tanti anni è
soprattutto merito tuo. Perché sei tu che hai sempre stretto i pugni. Non hai
mai avuto un cedimento e hai fatto da collante quando il laccio che ci
teneva legati rischiava di allentarsi. Abbiamo passato anni difficili. Non
parlo solo di questi ultimi, ma anche di quando Federico e Virginia erano
più piccoli e piangevano tutte le notti, quando avevamo la casa
perennemente sottosopra perché era gonfia di bambini e giocattoli. Tu,
però, non hai mai mollato. E io l’ho sempre saputo. Tu c’eri. Ci sei sempre
stata. Ecco, adesso invece tocca a me…»
«Che vuoi dire?»
«Che forse siamo rimasti troppo legati al ricordo di quello che eravamo e
quando abbiamo visto la nostra storia cambiare direzione è come se
all’improvviso avessimo cominciato a difenderci.» Fa un profondo respiro,
poi continua: «Forse abbiamo sbagliato a credere che l’amore rimane
sempre uguale negli anni. Perché in realtà non esiste un incastro perfetto. E
allora forse il segreto è imparare che l’amore, quello più vero e autentico,
non è quello dei primi tempi, bello ed entusiasta, ma quello che arriva dopo,
colmo di imperfezioni. Forse dovremmo smetterla di volerci senza problemi
a tutti i costi e iniziare a scoprire la bellezza delle cose imperfette».
«E come si fa?» gli chiedo quasi in un sussurro.
«Secondo me è un po’ come quando nasce un figlio…»
«Come quando nasce un figlio?»
«Sì. I primi mesi sono fatti di notti in bianco, urla e pianti tutto il giorno,
momenti in cui ti siedi sul divano, ti guardi attorno e ti viene solo da
piangere. Ma poi ti rendi conto che dentro a tutto questo c’è una bellezza
che non hai mai visto prima.»
Sorrido appena. «Hai sempre saputo come fare a lasciarmi senza parole.»
Sorride anche lui.
«Posso farti una domanda?» gli chiedo.
«Certo…»
«Immagina di riprovarci. Immagina di tornare a casa e di ricominciare la
vita che con tanta fatica ci siamo lasciati indietro. Hai paura, se pensi a
quello che saremo d’ora in poi?»
«No. Mi sembra tanto un nuovo inizio…» Alessandro mi guarda. «E tu,
invece, hai paura?»
36
► [Thegiornalisti, Questa nostra stupida canzone
d’amore]

Lorenzo

La storia fra me e Beatrice è ricominciata da dove si era interrotta.


Abbiamo trascorso fianco a fianco l’inverno, coperti da berretti e giacconi,
e poi abbiamo visto sbocciare insieme la primavera.
Sono molto fortunato, perché oltre alla ragazza che finalmente mi fa
sentire il cuore al posto giusto, ho avuto accanto anche i miei amici.
Gaia, qualche mese dopo la rottura con Damiano, ha conosciuto Luigi ed
è stato amore a prima vista. Roberto è rimasto sempre quello che dell’amore
se ne frega un po’, che se arriva va bene, altrimenti è uguale. Silvio invece
non ha mai smesso di amare in silenzio Giorgia. Quando ha scoperto che lei
e Fabrizio si sono lasciati è corso a casa mia a raccontarmelo che tremava
come una foglia, eppure non è mai riuscito a trovare il coraggio per
dichiararsi, e così, qualche mese più tardi, Giorgia si è fidanzata con
Adriano. Celeste, dal canto suo, è felice come non lo è mai stata. Lei e
Gabriele sembrano una di quelle coppie nate da un incastro fortunato, e lui
le dà tutte le attenzioni e le sicurezze di cui ha bisogno. Una sera mi ha
raccontato che Gabriele le ha detto: “Sei bellissima”. Sono riuscito a
nasconderlo molto bene, ma mi sono commosso assieme a lei.

Siamo arrivati all’ultimo giorno di liceo così, ognuno con la sua storia,
storie che però in fondo diventano una sola: la nostra.
Una storia che ho tatuata sul cuore.
È stato strano sentire la campanella dell’ultima ora dell’ultimo giorno di
liceo, l’ho aspettata con impazienza, ma quando è arrivato il momento,
avrei voluto posticiparlo un po’, perché d’un tratto mi sono reso conto di
quanta vita c’è stata in questi cinque anni.
Una sera siamo usciti insieme, Beatrice, io e tutti i miei amici, e ci siamo
seduti in piazza a fumare e a bere qualche birra, con un po’ di musica. È
stato bello, ma all’improvviso mi sono sentito triste come non succedeva da
un po’, perché ho cominciato ad avvertire un sentore di malinconia nelle
nostre risate, come se ognuno di noi avesse iniziato a pensare al proprio
futuro. Un futuro in cui forse non saremo più tutti insieme.
Quelle che precedono la maturità sono giornate con il cuore spezzato in
due: da una parte la voglia di vivere qualcosa di nuovo, dall’altra il
desiderio di fermare il tempo e di restare per sempre così.
Non me lo scorderò mai, il mio ultimo giorno di scuola: il modo in cui io
e i miei amici ci siamo guardati prima di entrare, quel silenzio quasi
surreale che si è insinuato in classe, la nitida sensazione che quella giornata
sarebbe stata in un certo senso la fine del mondo, il nostro almeno, la
nostalgia.
Mi sono guardato attorno per fissare più dettagli possibili da portarmi via
da lì: i banchi bianchi, i sorrisi dei miei compagni, il rumore delle loro
risate, il chiacchiericcio che proveniva dal corridoio, le finestre piene di
spifferi che ci hanno fatto gelare in inverno, il vecchissimo planisfero
appeso dietro la cattedra. E ho pensato che tra queste quattro mura c’è stato
un amore grande così.
Vivere il liceo, in fondo, vuol dire questo: incidere “Ti amo” sul banco,
innamorarsi della ragazza della classe accanto, cuori infranti che pensi non
si aggiusteranno più, “per sempre” che non lo sono affatto, ma che non per
questo sono meno veri, i primi baci, il primo sesso, serate intere passate a
ubriacarsi con le persone a cui vuoi più bene al mondo, corse per non
arrivare in ritardo alla prima ora, saltare scuola e andare a prendere il sole,
storie che nascono, che finiscono, che ricominciano, che si perdonano, che
non si perdoneranno mai, tradimenti, delusioni, l’ansia per le interrogazioni,
i bigliettini nascosti nell’astuccio, le note sul registro, i pomeriggi passati a
studiare insieme ma in realtà a raccontarsi tutta la vita, le feste
improvvisate, che poi sono sempre le più belle.
E gli amici. Gli amici sempre e ovunque.
Qualche volta mi chiedo che cosa ne sarà di noi.
Chissà come saranno le nostre vite dopo l’orale di maturità, chissà dove
ci porteranno le scelte di ognuno, se qualcuno cambierà città per cercare il
proprio posto nel mondo, e quale sarà questa città, e se continueremo a
essere vicini come adesso oppure non ci vedremo più.
Le amicizie del liceo sono quelle che si ricordano per tutta la vita, anche
se magari molte finiscono nell’attimo stesso in cui si varca il portone della
scuola per l’ultima volta.
Che ne sarà di me, Roberto, Silvio, Gaia, Celeste e Sofia? E di tutti gli
altri miei compagni di classe?
Non ho idea di come andrà, so solo che non riesco proprio a scrollarmi di
dosso tutta la vita che ho vissuto fino a qui, né questa nostalgia tremenda
per qualcosa che magari non ci sarà più. E Beatrice, poi. Nell’attimo stesso
in cui abbiamo deciso di tornare insieme è cominciato a crescermi qualcosa
dentro: un pensiero. Un pensiero inizialmente minuscolo come un puntino
nel cuore e nella testa, un pensiero che però durante l’inverno, e soprattutto
con l’arrivo della primavera e l’avvicinarsi della maturità, è diventato
sempre più grande, così tanto che alla fine non ho più potuto ignorarlo. Era
giunto il momento di fare i conti con il nostro futuro.

La mia notte prima degli esami è stata la più bella, anche se l’ho trascorsa
nell’unico posto in cui non avrei mai pensato di viverla: seduto per terra di
fronte alla fotografia di mio fratello, nel cimitero dove è sepolto insieme ai
suoi sogni.
Beatrice ha sempre avuto ragione: per vivere sereni e senza rancori,
bisogna imparare a perdonare.

https://www.youtube.com/watch?v=JOjgmmCdl50
37
Vorrei tanto che tu fossi tu

Elisabetta

Quel giorno, in quella casa, sotto quelle lenzuola, mi sono sentita per la
prima volta dopo un’infinità di tempo davvero vicina ad Alessandro, come
se il ritmo del nostro cuore avesse cominciato a coincidere di nuovo.
Poi, però, sono andata via.
Non dovevo farlo veramente, ma sono riuscita comunque a trovare una
scusa credibile e sono corsa a casa a chiudermi in bagno a piangere, perché
tutte quelle sensazioni e quei ricordi erano stati troppo.
In quel momento, ho pensato anche di non volerlo vedere mai più,
Alessandro.
Poi, invece, proprio come mi aveva detto Marianna, e come aveva
cercato di farmi capire lui, ho cominciato a guardare tutto da un’altra
prospettiva.
Una sera l’ho chiamato e gli ho chiesto di venire a cena a casa.
Federico e Virginia sono stati contentissimi di vederci lì tutti quanti
insieme, però non ci hanno fatto domande, e dopo cena se ne sono andati
spontaneamente a giocare in soggiorno.
Io e Alessandro, invece, siamo rimasti in cucina.
Ho fatto il caffè e, mentre lui lo sorseggiava, gli ho detto una cosa che mi
stava a cuore.
«Sai, a casa tua, qualche giorno fa, quando ti ho detto che dovevo andare
via… be’, non era vero. Era una scusa…»
Alessandro ha sorriso. «Sì, lo so.»
«Dimenticavo, sai sempre tutto tu.» Ho sorriso. «È che ho avuto
paura…»
Alessandro si è alzato dalla sedia, ha fatto qualche passo verso di me e io,
all’improvviso, ho sentito il cuore cominciare a martellarmi nel petto.
«Ti ricordi quella volta, a ventitré minuti a mezzanotte, quando ti ho
scritto “Vorrei tanto che tu fossi tu”?»
Ho guardato mio marito con il fiato sospeso. «Il tuo primo messaggio.
Come potrei dimenticarlo?»
«Ecco. Allora pensavo di aver sbagliato numero. Invece no. Tu eri tu.»
È stato allora che ho finalmente guardato la nostra casa sotto una luce
diversa. Mi sono soffermata sui quadri e sulle nostre fotografie attaccate
alle pareti, sullo scaffale bianco ingombro di piccoli oggetti che abbiamo
raccolto durante i viaggi insieme, sulle tazzine della credenza che abbiamo
scelto insieme e che sono rimaste le stesse per tutti questi anni. Attraverso
la fessura della porta ho scorto Virginia e Federico, e mi sono detta che in
fondo questo è il mondo che ho sempre amato, e che, anche quando avevo
voglia di andare via, ho sempre avuto un posto da chiamare casa. Un posto
che non è mai stato quattro mura, ma sempre due braccia. E soprattutto,
sempre le stesse.
Alla fine, dopo qualche minuto di silenzio, sono tornata a guardare mio
marito negli occhi e ci ho ritrovato dentro quella luce che ricordavo bene e
che negli ultimi anni, invece, mi era mancata tanto. Ho guardato le sue
spalle, da cui tante volte mi sono sentita protetta, e le sue mani, le stesse che
avevo osservato quel giorno così lontano, mentre ce ne stavamo seduti in
metropolitana, con il sorriso imbarazzato del primo incontro. Le stesse che,
nonostante tutto, in questo momento stringono le mie come qualcosa di
prezioso.
Alessandro ha proprio ragione.
Io sono sempre stata io.
38
► [Pinguini Tattici Nucleari, Ridere]

Lorenzo
Cara Bea,
mancano poche ore a quello che sarà il nostro ultimo
giorno di liceo.
A partire da domani sentiremo il bisogno di vestirci da
adulti e di intraprendere strade nuove per incamminarci
verso il futuro che desideriamo.
Fino a qualche mese fa temevo di trascorrere questo
ultimo giorno senza intrecciare le tue mani, senza trovare
rifugio nei tuoi occhi.
Ma invece sei qui.
E forse non sei nemmeno mai andata via.
La verità, Bea, è che quei giorni senza di te sono stati
difficili.
Difficili tanto quanto accettare l’idea di non essere alla
tua altezza.
Un po’ l’ho sempre saputo in realtà. Fin dall’inizio.
Ma non l’ho mai voluto ammettere a voce alta.
Quando tua madre l’ha fatto mi sono sentito smascherato,
è stato come se avesse acceso un riflettore su un problema di
cui avevo cercato di tenerti all’oscuro.
Inizialmente ha prevalso la rabbia, non verso di te, né
verso di lei. Ma verso di me.
Verso la mia vita. La mia famiglia.
Ho pensato fosse l’ennesima volta che dovevo fare i conti
con una perdita.
Perché farmi incontrare i tuoi occhi se non li meritavo fin
dal principio?
Avevi portato il sole nella mia vita.
Avevo ritrovato la voglia di pensare al domani.
E quando sei andata via, hai portato tutto con te.
In quei giorni grigi, però, a un certo punto qualcosa è
cambiato.
Qualcuno mi ha chiesto di parlare dei miei sogni.
E io inizialmente ho creduto di non avere nulla da dire.
Come potevo parlare ancora di sogni quando l’unico che
avevo vissuto era appena finito?
Quando la vita mi aveva messo nuovamente faccia a
faccia con la mia inadeguatezza?
Il tuo addio aveva posato l’ennesimo mattoncino sul muro
delle mie insicurezze.
In realtà Bea, non ho mai creduto di avere il diritto di
sognare, è un lusso che non mi sono mai permesso.
Forse mi ero illuso per un po’ di poterlo fare in quelle
notti in cui i tuoi baci mi tenevano compagnia e le tue mani
mi facevano sentire in pace con il mondo.
Ma poi quando mi hai lasciato mi sono svegliato e sono
tornato alla realtà.
Una realtà in cui non credevo di poter chiedere di più, in
cui a nessuno importava di sentirmi suonare la chitarra e
nessuno cantava con me su quelle note.
Mi sentivo stupido.
Fino a quando quelle parole, arrivate in modo
inaspettato, hanno aperto un piccolo varco. E ho visto
entrare un po’ di luce. Ho visto qualcuno, che non eri tu,
interessarsi al mio sogno e parlarne come se fosse qualcosa
di vero, di bello.
Ma forse la cosa più importante è stata che ho finalmente
ammesso a qualcuno che un sogno c’è, è solamente nascosto
sotto macerie di delusioni e insicurezze.
Stare con te, Bea, mi ha spinto a pretendere da me stesso
di essere la migliore versione di me.
Ma non stare con te mi ha fatto capire che non posso
esserlo se non credo nei miei sogni. Se non provo ad
avverarli.
Stiamo vivendo un amore che non credevo nemmeno
esistesse.
Mi hai insegnato a piangere dalle risate, a baciare con gli
occhi, a credere nella possibilità di essere felici.
Mi fai credere in un sacco di cose di cui ho dubitato per
tutta la vita.
Tipo nell’amore. In me stesso.
Hai sempre reso possibile l’impossibile. Un po’ come noi
due.
Che siamo sempre stati sbagliati ma giusti.
Ed è proprio per tutto ciò che ho imparato in questo anno
con te, e senza di te, che ho deciso di darmi una possibilità.
Non so dove ci porterà la vita, Bea. Però so che vorrei
che tu avessi sempre accanto un uomo capace di sorridere e
amare la vita, come fai tu.
E vorrei tanto essere sempre io.
Per farlo, devo trovare la mia strada. Così come devi
farlo tu.
Ho immaginato spesso queste ultime ore di liceo.
Ho immaginato di vederti partire con la tua valigia di
desideri.
Ho immaginato di essere quello che resta, quello che
aspetta.
E invece adesso sono io che sto preparando la mia valigia
di desideri.
E sono pronto per partire, Bea.
Ed è un po’ anche merito tuo.
Questo non è un addio, e non è un modo per lasciarti, è
un modo per renderti orgogliosa di me.
Vorrei continuassimo a stare insieme.
Non sarà facile, la distanza sarà tanta, ma sono sicuro
che ci amiamo abbastanza da provarci.
Magari ci riusciremo. Magari saremo bravi a non
perderci nonostante saremo entrambi indaffarati a costruire
le vite che desideriamo.
Se invece la vita ci porterà da qualche altra parte, magari
chissà. Sarà solo un modo per darci appuntamento a tempi
migliori, a una versione migliore di noi.
Perché, Bea, io ti aspetterò sempre, a ogni incrocio di
vita.
Ti amo,
Lorenzo
Epilogo

Elisabetta

7 anni dopo

Le donne fanno spesso l’errore di perdersi.


Si perdono in amori sbagliati, in storie che le logorano, in amicizie
deludenti, in giornate tristi.
A volte, le donne si consumano. E un poco alla volta smettono di
sorridere, di ballare, di meravigliarsi.
E poi fanno l’errore più grande: si dimenticano chi sono e come lo sono
diventate.
Dimenticano di essere speciali. E rare.
Però, ed è questa la loro bellezza, arriva un giorno in cui se ne rendono
conto e dicono “no, così non va”.
E riaprono gli occhi.
E in quel momento, guardandosi allo specchio, si ritrovano in uno
sguardo nuovo, in una pettinatura insolita, in una sfrontatezza improvvisa.
Si riscoprono uguali, ma diverse.
Più forti. Più vive.
Ed è bellissimo quando una donna si innamora di se stessa.
Io l’ho imparato sulla mia pelle. Ho imparato a volermi bene e a credermi
migliore di ciò che ho sempre pensato.
La mia vita è cambiata tre volte: il giorno in cui, a ventitré minuti a
mezzanotte, l’uomo che non avrei mai smesso di amare mi ha scritto per la
prima volta, l’attimo in cui mi sono trasformata dall’essere donna all’essere
mamma, e la sera in cui Alessandro, nel momento più difficile del nostro
rapporto, è riuscito a farmi tornare a essere la ragazza che aveva voglia di
nascondersi sotto una casa fatta di lenzuola.
Non è stato un percorso facile quello che ci ha portati ad ammettere i
nostri errori e le mancanze silenziose che ci avevano ferito. Soprattutto, non
è stato facile superare tutto questo, e rattoppare la nostra storia senza
rancori.
Ce l’abbiamo fatta, però, e questa, a ben guardare, è l’unica cosa che
conta per davvero.
Siamo abituati a pensare che quando ci ritroviamo improvvisamente
lontani dalla persona che abbiamo amato tanto tempo sia ormai troppo tardi
per rimettere tutto al posto giusto.
Ma non è così.
Amarsi vuol dire anche sbagliare, cercare di rimediare e poi sbagliare di
nuovo. Allontanarsi, ma esserci nonostante tutto.
Amarsi vuol dire trovare nelle difficoltà la forza per restare, e
trasformarle in motivi per lottare invece che in motivi per andare via.
È questa consapevolezza che ci ha portati a recuperare tutto quello che
avevamo perso: i nostri giochi, la voglia e la curiosità di fare cose nuove, le
risate, le serate passate a scherzare, ubriacarci e costruire una casa di
lenzuola sotto cui ripararci dalla vita ogni volta che qualcosa sembrava
cercare di allontanarci di nuovo.
Va custodito l’amore, tutti i giorni.
Ho sempre pensato che esiste un momento, uno solo, uguale per tutti, in
cui la vita di ognuno di noi cambia per sempre ed è l’attimo esatto in cui
diciamo “ti amo” per davvero.
Io e Alessandro, in questi mesi, abbiamo deciso di dirci tutto. Tutto,
tranne quelle due parole.
Una sera, però, lui è rientrato dal lavoro e mi ha dimostrato che esiste una
frase ancora più importante. Mi ha guardato con un sorriso stanco e mi ha
detto: «Amore, sono a casa».
Tutte le difficoltà della vita annullate da quattro parole: “Amore, sono a
casa”.
Come quando sei tu a tornare a casa, stanca, e lo trovi a preparare la
cena, magari in pigiama.
E ti viene incontro con le mani ancora bagnate, con i piedi nudi e un
sorriso che dice: “Ti aspettavo”.
E con un bacio ti sfiora le labbra, ma in realtà anche il cuore. «Com’è
andata oggi?» ti chiede.
E tu appoggi la borsa per terra e ti perdi in quell’abbraccio che ti ha
sempre fatta sentire al sicuro.

Lorenzo
Muovo i primi passi sul palco, davanti a tutte queste persone che
aspettano solo di sentirmi suonare, mentre nella mia testa scorrono migliaia
di frammenti della mia vita.
È l’ultima tappa del mio tour e sono finalmente a Trento, a casa mia. Qui,
davanti a tutto ciò che ho sempre amato, a fare quello che ho sempre
sognato: suonare.
Il pubblico urla e io sorrido alzando un braccio, lasciando vagare lo
sguardo, che improvvisamente viene catturato da una famigliola in fondo
alla sala, che stona un po’ con tutti i ragazzi accalcati davanti al palco. Una
signora sui cinquanta, insieme a quello che sarà suo marito e a due
adolescenti, che immagino siano i loro figli.
Lei ride un po’ sorpresa di essere lì, i ragazzi urlano insieme a tutti gli
altri, lui passa una mano dietro la schiena di sua moglie e la bacia sulla
fronte.
Non riesco a non emozionarmi per lo stupore, di fronte a un’immagine
come questa, di fronte a un amore che riesce a sprizzare felicità dopo tanti
anni.
Poi, all’improvviso, lei alza gli occhi verso il palco e, inaspettatamente, si
incastrano con i miei, come due calamite.
La riconosco, lei riconosce me e accenna un sorriso.
Per un attimo mi rivedo dentro l’aula del mio liceo, mentre quella stessa
donna, solo un po’ più giovane, mi chiede quale sia il mio sogno e mi
incoraggia a non lasciarlo andare così.
Senza le sue parole, forse, adesso non sarei qui, ma soprattutto non sarei
l’uomo che sono.
La guardo intensamente, con tutta la forza di cui sono capace, e ricambio
il suo sorriso.
Quando il suo diventa ancora più luminoso, mi viene da pensare che non
c’è niente di più bello di questo, a volte: dirsi grazie solo con uno sguardo.
Grazie alla mia professoressa di italiano, qualche anno fa, ho scelto di
non imboccare la strada più facile, che magari mi avrebbe portato in un bel
posto, ma sicuramente non in quello giusto.
Ho imparato l’importanza di saper rischiare.
Vi auguro di saperlo fare quand’è il momento.
Vi auguro la spensieratezza e il coraggio di essere chi siete, perché non
c’è miracolo più grande.
Vi auguro di essere inaspettati per gli altri, ma anche per voi stessi,
perché non siamo nati per stare al riparo, siamo nati per ballare sotto la
pioggia.
Io l’ho fatto, e sono stato fortunato, perché sono riuscito ad agguantare il
sogno che inseguivo.
Credo che, a modo loro, ce l’abbiano fatta anche i miei amici. Siamo
cresciuti e ognuno si è creato uno spicchio della propria vita in cui sentirsi
al sicuro. Qualcuno di loro si è trasferito all’estero, qualcuno in un’altra
città, qualcuno è rimasto qui ma, in mezzo a tutti gli impegni della vita,
rivedersi è sempre molto difficile.
Silvio e Celeste, comunque, sono riusciti a esserci. Sono qui, in prima
fila, e quando li vedo sento il cuore esplodermi di gioia. Li abbraccio con lo
sguardo e vedo nei loro occhi tutto l’incoraggiamento di cui ho bisogno.
E poi…
Poi, in mezzo a tanti altri volti sconosciuti, mentre percorro la sala con lo
sguardo, incontro proprio quello sguardo lì: il suo. Puntuale come è sempre
stato.
Beatrice è seminascosta dal mucchio di gente che la circonda e che però
scompare all’improvviso, non appena i miei occhi si posano sui suoi,
trovandoli già lì fissi su di me, pronti ad aspettarmi.
Ci guardiamo per un attimo che sembra infinito, un attimo in cui rivedo
tutto: le notti sul balcone, la sera sul terrazzo di Gaia, il temporale che ci ha
colti alla sprovvista lungo il fiume, i segreti della mia soffitta, i segreti della
sua casa sul lago, i suoi piedi nudi nella sabbia, le nostre labbra che si
sfiorano per la prima volta, la mia canzone nelle sue orecchie, il modo in
cui ci siamo spogliati e amati senza dircelo, il momento in cui invece ce lo
siamo detti davvero, con tutta la pancia e tutto il cuore, il giorno in cui è
scomparsa, la notte in cui è tornata solo per poi andarsene di nuovo, il
giorno in cui l’ho trovata nella mia soffitta, il modo che avevamo di amarci
e di lottare contro tutto pur di stare insieme, la lettera che le ho scritto per
dirle che dovevo andare a prendermi il mio sogno.
C’è una parola portoghese che mi piace tanto, saudade.
C’è stato un attimo, dopo che fra noi è finita, dopo tutti i pianti che hanno
prosciugato la mia voglia di amare ancora, in cui all’improvviso sono
riuscito ad andare a capo.
Quel giorno ho imparato che per andare avanti non bisogna a tutti i costi
dimenticare, ma semplicemente smetterla di guardare indietro per guardare
finalmente un po’ avanti.
Saudade vuol dire questo.
È quella nostalgia felice che ti prende quando finalmente allontani dei
ricordi che ti hanno fatto male, ma lo fai senza rancore, e capisci che le cose
belle finiscono, ma che forse, a ben pensarci, non finiscono mai di iniziare.

https://www.youtube.com/watch?v=A0Jnhu_3F5w
Post scriptum

Il concerto è finito e sono tornato nella mia stanza, quella in cui ormai non
vivo più da anni. È strano rinfilarsi sotto queste coperte, sembra quasi che il
tempo non sia mai passato e io sia rimasto quel ragazzo di diciott’anni che
non pensava di avere un sogno da realizzare.
Quel ragazzo che ha sempre tentato di non attirare l’attenzione e che
adesso, invece, non ha più paura di avere tanti occhi addosso.
Quel ragazzo che oggi si piace un po’.
Afferro il cellulare al buio e apro la schermata della mia conversazione
con Beatrice.
Ci siamo sentiti l’ultima volta cinque anni fa.
Digito solamente cinque parole.
“Scrivimi (magari ti amo ancora).”
Poi, rimango per un attimo con le dita a mezz’aria, indeciso.
Alla fine salvo il messaggio in bozze.
Lì dove tengo le parole che non avrò mai il coraggio di dire.
Ringraziamenti

Come sempre ringrazio la mia famiglia: mamma, papà, le mie nonne,


Antonio; tutti i miei amici, in particolare Lorenzo, Massimiliano, Leonardo,
Francesca, Eleonora, Edoardo, Laura e Damiano, ma anche Donata, Paolo e
Betta; il mio punto fermo in Rizzoli, Arianna Curci, la mia redattrice Clara
Serretta; le amministratrici, su Facebook, del mio gruppo chiuso Non
dimenticatevi dei sogni, e della fanpage Riccardo Bertoldi Scrittore, Mary,
Priyanka e Antonella; i miei lettori, quelli che mi stanno accanto sin dal
primo giorno e quelli che sono appena arrivati.
Un ringraziamento speciale alla creatività del gruppo People like us,
soprattutto a Silvio Defant per la regia, che ha reso possibile la
realizzazione dei video per i QRcode e che mi ha aiutato a inserire nel
romanzo questa emozione nuova.
Grazie anche a Non avere paura di Tommaso Paradiso, Photograph di Ed
Sheeran e 16 marzo di Achille Lauro feat. Gow Tribe, perché durante la
scrittura di questo libro le ho ascoltate a ripetizione per migliaia di volte.
Infine, grazie alla mia canzone più bella: Ftima.
Io so perché.
Lei sa perché.

Quest’anno, però, sento di dover dire grazie soprattutto all’uomo che mi


ha voluto in Rizzoli, Michele Rossi. Quando ho appreso della sua decisione
di lasciare dopo diciotto anni il suo ruolo, mi sono venuti gli occhi lucidi.
Non voglio raccontare la storia di come è nato tutto.
Io e lui sappiamo.
E a volte le cose importanti basta saperle in due.
Sappiate, però, che senza di lui niente sarebbe mai esistito: non sarei qui
con voi, non ci sarebbero stati i miei romanzi, non avrei mai cominciato a
scrivere per davvero.
E allora… Michele, io non posso che augurarti di avere tutta la
soddisfazione che meriti. Spero che tu custodisca sempre la capacità di farti
volere bene, come hai fatto con me.
Al di là del tuo ruolo.
Ti devo tutto, e non scorderò mai la fiducia che mi hai dato, le parole
d’incoraggiamento al momento giusto, l’attimo in cui mi hai detto: «Ti
pubblichiamo».
Grazie.

https://www.youtube.com/watch?v=It7HPrbNpZU
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Scrivimi (magari ti amo ancora)


di Riccardo Bertoldi
Proprietà letteraria riservata
© 2021 Mondadori Libri S.p.A.,
Milano
Pubblicato per Rizzoli da
Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788831803144

COPERTINA || @ ISTOCK E
@SHUTTERSTOCK | ART
DIRECTOR: FRANCESCA
LEONESCHI | GRAPHIC
DESIGNER: LUIGI ALTOMARE /
THEWORLDOFDOT
Indice

1.
Copertina
1.
L’immagine
2.
Il libro
3.
L’autore
2.
Frontespizio
3.
Scrivimi. (magari ti amo ancora)
4.
1. Mi manca sentirmi amata di nascosto
5.
2. ► [Tommaso Paradiso, Non avere paura]
6.
3. Quando impari a bastarti poi è sempre più difficile far posto a qualcuno
7.
4. ► [Gazzelle, Tutta la vita]
8.
5. Le anime affini non si cercano, si trovano
9.
6. ► [Ultimo, Quando fuori piove]
10.
7. A volte l’amore finisce, ma c’è ancora il bisogno di starsi accanto
11.
8. ► [Calcutta, Sorriso]
12.
9. Ti ricordi come sapevamo brillare, noi?
13.
10. ► [Enrico Nigiotti, L’amore è]
14.
11. Non accontentatevi di chi vi dice “sono innamorato di te”
15.
12. ► [Emanuele Aloia, Il bacio di Klimt]
16.
13. Mi manca sentirmi desiderata
17.
14. ► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 1]
18.
15. In amore non ci dovremmo mai trovare nella situazione di dover essere forti da soli, ma di
esserlo sempre in due
19.
16. ► [Achille Lauro feat. Gow Tribe, 16 marzo]
20.
17. Vietato incontrarsi
21.
18. ► [Dandy Turner, Sei bella come Roma]
22.
19. Tradire con la mente o tradire con il corpo non è poi così diverso
23.
20. ► [Salmo feat. Nstasia, Il cielo nella stanza]
24.
21. Vorrei un amore che non mi dà preoccupazioni, ma che me le toglie
25.
22. ► [Jovanotti, A te]
26.
23. A volte ci vuole il coraggio di dire basta
27.
24. ► [Briga, Rimani qui]
28.
25. Sai che cosa mi manca? Sentirmi protetta
29.
26. ► [Ligabue, Ho messo via]
30.
27. Ci sono vuoti che pesano di più quando si tenta di colmarli con chiunque
31.
28. ► [Franco126 feat. Tommaso Paradiso, Stanza singola]
32.
29. Alla fine di una storia i difetti diventano mancanze
33.
30. ► [Coez, La musica non c’è]
34.
31. Vorrei un uomo capace di corteggiarmi anche dopo avermi già conquistata
35.
32. ► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 2]
36.
33. Tieni vicino chi dimostra di volerci essere e lascia andare chi non ti merita
37.
34. ► [Francesca Michielin, Distratto]
38.
35. Una donna lo sente quando negli occhi del suo uomo l’amore non esiste più
39.
36. ► [Thegiornalisti, Questa nostra stupida canzone d’amore]
40.
37. Vorrei tanto che tu fossi tu
41.
38. ► [Pinguini Tattici Nucleari, Ridere]
42.
Epilogo
43.
Post scriptum
44.
Ringraziamenti
45.
Copyright

1.
Copertina
2.
Frontespizio
3.
Scrivimi. (magari ti amo ancora)
4.
Inizio del libro
5.
Copyright
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Scrivimi. (magari ti amo ancora)
1. Mi manca sentirmi amata di nascosto
2. ► [Tommaso Paradiso, Non avere paura]
3. Quando impari a bastarti poi è sempre più difficile far posto a qualcuno
4. ► [Gazzelle, Tutta la vita]
5. Le anime affini non si cercano, si trovano
6. ► [Ultimo, Quando fuori piove]
7. A volte l’amore finisce, ma c’è ancora il bisogno di starsi accanto
8. ► [Calcutta, Sorriso]
9. Ti ricordi come sapevamo brillare, noi?
10. ► [Enrico Nigiotti, L’amore è]
11. Non accontentatevi di chi vi dice “sono innamorato di te”
12. ► [Emanuele Aloia, Il bacio di Klimt]
13. Mi manca sentirmi desiderata
14. ► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 1]
15. In amore non ci dovremmo mai trovare nella situazione di dover essere
forti da soli, ma di esserlo sempre in due
16. ► [Achille Lauro feat. Gow Tribe, 16 marzo]
17. Vietato incontrarsi
18. ► [Dandy Turner, Sei bella come Roma]
19. Tradire con la mente o tradire con il corpo non è poi così diverso
20. ► [Salmo feat. Nstasia, Il cielo nella stanza]
21. Vorrei un amore che non mi dà preoccupazioni, ma che me le toglie
22. ► [Jovanotti, A te]
23. A volte ci vuole il coraggio di dire basta
24. ► [Briga, Rimani qui]
25. Sai che cosa mi manca? Sentirmi protetta
26. ► [Ligabue, Ho messo via]
27. Ci sono vuoti che pesano di più quando si tenta di colmarli con
chiunque
28. ► [Franco126 feat. Tommaso Paradiso, Stanza singola]
29. Alla fine di una storia i difetti diventano mancanze
30. ► [Coez, La musica non c’è]
31. Vorrei un uomo capace di corteggiarmi anche dopo avermi già
conquistata
32. ► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 2]
33. Tieni vicino chi dimostra di volerci essere e lascia andare chi non ti
merita
34. ► [Francesca Michielin, Distratto]
35. Una donna lo sente quando negli occhi del suo uomo l’amore non esiste
più
36. ► [Thegiornalisti, Questa nostra stupida canzone d’amore]
37. Vorrei tanto che tu fossi tu
38. ► [Pinguini Tattici Nucleari, Ridere]
Epilogo
Post scriptum
Ringraziamenti
Copyright

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