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SCRIVIMI
(magari ti amo ancora)
Scrivimi
(magari ti amo ancora)
A chi ha amato almeno una
volta,
a chi si è ripromesso di non
amare più,
a chi ama lo stesso.
A chi è stato deluso,
a chi ha saputo perdonare,
a chi non perdonerà mai.
A chi non si sente capito,
a chi sa restare,
a chi si sa bastare.
A chi non ha smesso di
credere
ai treni presi al volo,
alle parole dette d’impulso,
alle promesse da
mantenere,
agli appuntamenti presi
senza pensare,
ai “chissà che succede”,
alle fermate dove capita,
agli sguardi rubati,
ai baci in sospeso,
ai giochi inventati per caso.
Ti auguro l’amore e di averlo sempre accanto, di difenderlo con il talento
dei dettagli e delle piccole attenzioni.
Ti auguro di continuare a vedere la magia di svegliarti accanto alla
persona che vuoi, di saper scovare l’amore dentro la filigrana degli anni, e
di avere sempre il coraggio di viverlo con l’irrazionalità che merita.
E ti auguro di conservarne sempre una briciola per te, e usarla per
rimetterti in piedi, se un giorno la persona che ami dovesse non amarti più.
Ti auguro di essere delusa, qualche volta, ti ricorderà di darti più valore
quando rifiorirai più bella, e che anche il dolore serve, e che però l’amore ci
salva.
Ti auguro di riuscire a non perdere mai la fiducia, di non credere mai
troppo a chi ti dice che tanto, poi, finisce sempre così.
Ti auguro di spogliare i ricordi dalla tristezza, di non chiedere scusa a chi
ti ha fatto male, di chiederlo a te per averglielo permesso, e di saper mettere
sempre da parte il rancore, e di riuscire a perdonare.
Ti auguro di essere gentile e di praticare le carezze dello sguardo, e di
riconoscere e cogliere le occasioni che non puoi perdere, e di perderne
qualcuna.
Ti auguro i brividi degli occhi che incontri una volta e mai più, e di
custodirli dentro di te come un segreto, e di avere sempre l’entusiasmo di
fantasticare su ciò che avrebbe potuto essere.
Ti auguro di imparare a stare sola ma di avere sempre amici fedeli
accanto.
Ti auguro di prenderti cura di loro e di essere capace di non dare mai per
scontata la loro presenza.
Ti auguro di ascoltare, ma soprattutto di ascoltarti e di prenderti, a volte,
il rischio di essere ciò che non sei.
Ti auguro di piangere. Poco. Ma di farlo, qualche volta, perché non
dobbiamo sempre essere felici a tutti i costi.
Ti auguro di essere gentile, sempre. Ama, ma cerca di non ferire, ascolta,
ma non giudicare, capisci, ma soprattutto comprendi.
Ti auguro di essere irripetibile. Non per tutti, ma per una persona sola.
Non abbiamo bisogno di essere amati da chiunque, ma solo da chi è capace
di farlo. Chiediti sempre: ne vale la pena? E se senti che è così, allora
lasciati andare.
Ti auguro di poter sempre amare senza freni e paure, di saper lottare per
ciò che tieni vicino al cuore, e di riuscire a dire addio quando sentirai che è
giusto farlo.Saper dare inizio a qualcosa è un miracolo, ma saper dire basta
qualche volta salva la vita.
Ti auguro di avere giornate per sentirti persa, di smarrire la strada e di
conoscere posti nuovi, ma di non scordare mai che i posti più belli non sono
luoghi.
Ti auguro di saper riconoscere i tuoi limiti, e le tue fragilità, e le
insicurezze che sai nascondere così bene, e ti auguro di farli diventare la tua
forza, e di non desiderare mai un amore perfetto, ma sempre un amore vero.
Ti auguro di essere gelosa, non troppo, solo quel che serve per sentire che
ami ancora, e ti auguro di sbagliare, non sempre, ma quando ne hai bisogno
per non dimenticarti mai della magia delle cose esatte.
E di sentirti libera, e di ribellarti a chi fa in modo che tu non lo sia.
E di prendere un treno a caso, un giorno, che a volte sono gli imprevisti
quelli che ti portano al mare.
1
Mi manca sentirmi amata di nascosto
Elisabetta
Lorenzo
Ho sempre pensato che ci sono occhi che si riconoscono subito e che poi
si perdono nel tempo e nello spazio, senza però in realtà perdersi mai.
Ci sono sguardi che su di noi avranno sempre lo stesso effetto, anche
quando ci saremo disabituati ad averli addosso, anche quando sarà finito il
tempo dei baci e delle carezze.
Quel momento prima o poi arriva; quello in cui pensiamo di aver
dimenticato i suoi occhi e improvvisamente sentiamo che non conta più
quante volte abbiamo pianto di nascosto proprio a causa loro, o quanto li
abbiamo sentiti nostri, o quanto abbiamo lottato per fare in modo che non
andassero via.
E ci sembrerà impossibile avercela infine fatta, e ci sentiremo spensierati
e belli, quando per la prima volta avremo la sensazione di aver scordato
quello sguardo, ma soprattutto l’effetto che aveva sempre avuto su di noi.
Poi, però, succede di uscire di casa e di ritrovarselo davanti mentre
passeggiamo, o mentre sorseggiamo qualcosa seduti al bar, o mentre
balliamo in un locale pieno zeppo di altri occhi improvvisamente poco
importanti.
E così arriva la sensazione che, in fondo, la vita si è fermata là: al
momento in cui, tanti anni prima, li avevamo visti la prima volta e ci era
sparita la voglia di guardarne altri, e ci accorgiamo che in realtà non siamo
mai riusciti ad allontanarci da quell’istante.
Mi sono innamorato per la prima volta l’estate scorsa, a diciassette anni,
e gli occhi non c’entravano proprio niente, perché ero rimasto incastrato in
uno sguardo che non avevo mai visto e dal quale non sono riuscito ad
andare via lo stesso.
Quella sera rientrai in camera mia dopo cena. Mamma era andata a
dormire, papà era accasciato sul divano e ci sarebbe rimasto quasi tutta la
notte.
Presi la mia chitarra, andai sul balcone, mi sedetti per terra e cominciai a
suonare.
Trento è una città che va a letto presto, e io non avevo molti amici.
Così tutte le sere si ripeteva la stessa scena: finivo di cenare, tornavo
nella mia stanza, afferravo la chitarra, mi sedevo lì.
Quella notte, però, mentre suonavo Non avere paura di Tommaso
Paradiso con la brezza nei capelli e l’odore di cibo ancora nell’aria, d’un
tratto sentii una voce di ragazza provenire dal balcone del piano di sopra,
una voce che iniziò a canticchiare, insieme a me.
Prima piano, poi un pochino più forte.
Dopo aver suonato l’ultima nota lasciai cadere le braccia sulla chitarra, e
rimasi così per un po’, con le orecchie tese per capire se sul balcone di
sopra ci fosse ancora qualcuno oppure no, lo sguardo fisso oltre la
ringhiera.
Poi, d’un tratto sussurrai: «Ciao».
La voce mi rispose quasi subito: «Ciao».
Stavo per ribattere, ma mi anticipò. «Non suoni più?»
Sorrisi appena: «Magari fra un po’».
Solo silenzio.
«Chi sei?» chiesi.
«La ragazza del piano di sopra» rispose soltanto.
Sorrisi.
«Sei bravo, lo sai?»
Cercai un modo per evitare quel complimento.
«Mi ascolti spesso?» domandai allora.
«Sempre…»
«Sempre?»
«Sì, sei diventato un appuntamento fisso. C’è un qualcosa di
estremamente perfetto nel sedermi qui per terra sul balcone la sera, fumare
una sigaretta, chiudere gli occhi e sentire il ragazzo del piano di sotto
suonare la chitarra.»
«Stai fumando, ora?» le chiesi.
«Sì, e tu?»
Sfilai una sigaretta dal pacchetto che tenevo sempre appoggiato di fianco
a me quando suonavo, l’accesi e tirai una boccata di fumo.
Poi mi appoggiai con la schiena al muro di casa.
«Sì. Ho iniziato a farlo qui. Se i miei mi scoprono è la fine. Quindi mi
chiudo sempre a chiave nella mia stanza. Durante il giorno nascondo le
sigarette nell’armadio, in uno zaino sepolto sotto un mucchio di coperte che
non usa nessuno.»
La voce non commentò. «Questo è il momento della giornata che
preferisco, lo sai?» mi disse, invece.
Aveva un modo di parlare dolce ma deciso. Pronunciava le parole
velocemente, come se avesse fretta di finirle il prima possibile.
Avrei voluto dirle che ero d’accordo con lei, ma non lo feci.
«Come ti chiami?» le domandai.
«È davvero importante?»
Ci pensai un attimo: «Forse no…».
Fui certo di sentirla sorridere.
«Però, puoi dirmi quanti anni hai…» insistetti.
Ci fu un altro momento di silenzio.
Ne approfittai per fare un tiro di sigaretta.
La voce mi rispose mentre sentivo il fumo entrare nei polmoni.
«Diciassette, e tu?»
«Anche io» risposi.
«Mi stai prendendo in giro.»
«Non sei una che si fida molto delle persone…»
Ebbi l’impressione che ci stesse pensando un attimo. «No, credo di no.»
Arricciai le labbra.
«I tuoi, invece, lo sanno che fumi?» chiesi.
«In realtà non lo so. Credo che mia madre mi abbia beccato il pacchetto
nello zaino della scuola, qualche mese fa…»
«E non ti ha detto niente?» alzai un sopracciglio.
«In effetti no, ma non sono sicura. L’ho pensato perché l’ho trovato fuori
dalla tasca in cui lo metto di solito. Magari però è uscito mentre correvo per
tornare a casa.»
«Quando hai cominciato?»
«A fumare dici?»
«Sì.»
«Una sera, con la mia migliore amica. Stavamo fuori con dei ragazzi più
grandi di noi. E tu?»
«Una sera mentre suonavo, qui…»
Per qualche minuto dal balcone del piano di sopra non arrivò altro che
silenzio.
Terminai la sigaretta e la spensi per terra.
«Ehi…» sussurrò la voce, dopo un po’.
«Sì?» risposi.
«Suonare ti aiuta a cercarti?»
Non risposi subito.
«Non lo so» dissi, poi aggiunsi: «Sicuramente mi aiuta a capirmi. Tu ti
capisci?».
«No, io mi sto ancora cercando.»
Accesi un’altra sigaretta.
Quando diventavo introspettivo ne fumavo una dietro l’altra.
«Sai dove andare a guardare per trovarti?» le chiesi.
«Non ne sono sicura. Devo essere rimasta incastrata da qualche parte.»
«In un posto o in una persona?»
«Probabilmente in entrambi. E tu, sei mai rimasto incastrato da qualche
parte?»
«In così tanti posti che non so più dove.»
Altro silenzio.
«Devo andare…» disse la voce, dopo un po’.
Una parte di me avrebbe voluto chiederle di restare.
«Allora buonanotte» le risposi, invece.
«Buonanotte.»
La sentii alzarsi e chiudersi l’anta del balcone alle spalle.
Poco dopo, rientrai anche io.
Quella notte, però, faticai più del solito a prendere sonno, e il giorno
seguente mi appostai sotto casa per guardare tutte le persone che entravano
e uscivano dalla palazzina, nella speranza di incontrare gli occhi di una
ragazza che potesse avere diciassette anni.
Non funzionò.
Dopo cena, chiusi a chiave la porta della stanza, presi la chitarra, mi
sedetti sul balcone.
«Ciao. Ti aspettavo…» sussurrò subito la voce.
Sorrisi, il cuore che accelerava un po’: «Ciao».
«Hai voglia di suonare qualcosa per me?»
Non le risposi, mi appoggiai con la schiena al muro e cantai una delle
canzoni che amavo di più: Photograph di Ed Sheeran.
La voce, questa volta, rimase solo ad ascoltarmi.
«È incredibile come la musica cambia tutto» disse infine, quando avevo
già appoggiato la chitarra a terra e stavamo fumando una sigaretta insieme.
«Quella che hai cantato ieri è una delle mie canzoni preferite, sai?» aveva
aggiunto, poi.
«Non avere paura?»
«Sì, esatto.»
Avrei voluto chiederle di cosa avesse paura lei, invece mi limitai a
chiederle: «Vivi qui da molto?».
«A Trento, o in questa palazzina?»
«Tutti e due…»
«A Trento da sempre, in questa palazzina solamente da qualche
settimana. Tu invece?»
Cercai di restare vago. «Da un po’…»
«Un po’ quanto?» insistette lei. «Non hai l’accento di qui. A dire la
verità, non riesco nemmeno a capire se ne hai uno.»
Sorrisi. «Sei molto curiosa…»
«È un peccato?»
«No. Solo che non ci sono abituato…»
Ebbi la sensazione che fosse sul punto di chiedermi che cosa volessi dire,
ma non lo fece.
Nel frattempo, finii di fumare la sigaretta e ne accesi un’altra. Dallo
scatto dell’accendino capii che lei aveva fatto lo stesso.
Poi, d’un tratto, le domandai: «Perché non ci vediamo?».
«Quando?» sussurrò la voce.
Alzai le spalle. «Non lo so, un giorno di questi…»
«È una proposta interessante» disse la voce. «Posso fartene una io,
però?»
«Certo…»
«Vediamoci, ma non subito. Fra un mese…»
«Fra un mese?»
«Sì. È così bello questo. Perché rovinare tutto?»
«Questo?»
«Già. Sentire solo la tua voce e la tua musica crea un’intimità diversa fra
di noi, senza filtri. Ecco perché, anche se qualche volta mentre ti ascolto mi
viene voglia di sporgermi da qui e guardare giù per scoprire chi sei, non
l’ho mai fatto.»
Pensai che avesse proprio ragione.
«Magari capiterà di incrociarci qui sotto, però, o sulle scale…» le feci
notare.
«Sì, magari sì…» rispose. «Ma non potremo mai avere la certezza di
essere noi, perché non sappiamo come siamo fatti. Continueremo a vivere
di una fantasia. Io non avevo mai fantasticato in questo modo. E tu?»
«Nemmeno io. Come mi immagini?»
«Ti immagino come uno che ha lo sguardo sempre rivolto altrove. E tu,
invece?»
«Come una a cui piace andare al mare d’inverno.»
La sentii ridere.
«Quindi?» mi chiese dopo un po’.
«Che cosa?»
«Fra un mese a partire da adesso?»
Guardai la data sul cellulare.
Era il 4 luglio.
«Fra un mese a partire da adesso.»
Elisabetta
Lorenzo
Oggi è trascorso un anno dal momento in cui la voce della ragazza del
balcone di sopra non fa più parte della mia vita, e adesso come allora sono
un ragazzo fatto di tanti silenzi e poche parole, di dolori che mi porto sulla
pelle come ferite e che cerco di scrollarmi di dosso senza riuscirci, di
momenti e persone che vorrei dimenticare ma non ce la faccio, perché sono
bravo a fare tante cose, ma a dimenticare proprio no.
Sono fatto del caos che mi porto dentro, delle parole che non dico, di
sguardi che vorrei ricambiare ma che tengo per me, di abbracci che troppo
spesso ho rifiutato, delle carezze che ho trattenuto, di quelle che ho dato e
di quelle che non darò mai.
Sono fatto di voglia di prendermi le occasioni che penso di meritare, ma
troppo spesso anche del timore di non meritarle. Sono fatto del bisogno, a
volte insopportabile, di tenermi qualcuno vicino e nello stesso tempo del
talento di allontanare chi vorrei accanto.
Chi ci pensa alle persone rotte, a quelle che hanno provato così tanto
dolore che adesso fanno fatica a ricordarsi com’è vivere senza quel mucchio
di malinconie alle quali ormai si sono abituate? Chi ci pensa a quelle
persone che prima di uscire di casa si spogliano del vestito delle lacrime per
indossare quello dei sorrisi, a quelle che un cuore ce l’hanno ancora, solo
così malandato che non riescono più a usarlo nel modo giusto? E a quelle
che convivono con la paura di vivere le cose belle perché sono convinte che
tanto poi finiscono?
Chi ci pensa a chi si è disabituato ad amare il mare, a chi ogni giorno
lotta contro i suoi mostri e contro il timore di non essere abbastanza, a chi è
cresciuto restandosene in un angolo a guardare gli altri per paura di
disturbare? E a quelli che sentono di avere il cuore fuori moda e che hanno
sempre tenuto ben nascosto ciò che sono per il terrore di non essere
accettati?
Quando ho conosciuto la ragazza del balcone, mi ero trasferito a Trento
da qualche anno, insieme alla mia chitarra, alla mia voglia di essere in un
altro posto e a una famiglia distrutta, anche se all’apparenza non lo era
ancora.
Ho trascorso una vita a inscatolare vestiti e ricordi, e a ingoiare lacrime
che non sono mai riuscito a versare.
È sempre stato un viavai da una città all’altra, da una scuola a un’altra
scuola, da amici ad altri amici.
Il tempo di trovarne qualcuno, di aprirmi un po’, ed era già ora di andare
via. Il film era sempre lo stesso: abbracci che erano saluti, promesse di
rivedersi mai mantenute, un altro trasloco e un’altra vita a cui mi ero
affezionato da lasciare indietro.
Oggi, a un anno da quelle chiacchierate con la ragazza del piano di sopra,
a diciotto anni, non so nemmeno quante mani ho smesso di stringere e a
quanti amori mai nati ho rinunciato.
Sono sempre quello diverso, che parla poco e passa la ricreazione da
solo.
Che poi, la vita è un po’ così, no? È fatta di arrivi, partenze, magoni,
nostalgie, sprazzi di felicità improvvisa, cadute, botte, ferite, coraggio di
rialzarsi, sorrisi veri, sorrisi finti, va tutto bene, pugni chiusi, corse per
andare a riprenderci quello che amiamo, pianti silenziosi per non esserci
riusciti, desideri che marciscono, sogni nuovi, abbracci, carezze, amicizie
che diventano porti sicuri, occhi dove stare bene, taciti addii che dentro
fanno un rumore incredibile.
Per ogni città in cui ho vissuto mi porto dietro tutto questo, e convivo con
l’assenza di quegli amici che pensavo avrei avuto accanto per sempre e che
adesso invece non ci sono più.
Ho avuto pochi punti di riferimento, la mia famiglia, le attenzioni di mia
madre che ha sempre cercato di non farmi mancare nulla, quelle di mio
padre, che nonostante un lavoro causa di tanti dolori ha tirato su tutta la
famiglia, mio fratello Niccolò, più grande di me di cinque anni, che mi ha
sempre fatto sentire parte di qualcosa.
Ci sono persone che quando le hai accanto va tutto bene anche se non va
bene niente, e così è stato per me Niccolò: mi ha insegnato che la vita di
ognuno di noi è fatta di un paio d’attimi che cambiano tutto, e che possono
essere arrivi, oppure partenze, perché siamo fatti da chi c’è, ma soprattutto
da chi non c’è.
Il mio attimo, quello che ha spazzato via le poche cose a cui ho sempre
potuto aggrapparmi e i sorrisi che mi hanno fatto sentire al sicuro, è stato
alle 3.14 minuti di una domenica notte di quattro anni fa.
Io dormivo in camera da letto, Trento era illuminata da una luna argentea
quasi piena, e ho sentito mamma urlare dalla sua stanza, il clic
dell’interruttore in corridoio, i passi pesanti e frenetici di papà, la porta
della mia camera spalancarsi, mamma che piangeva a dirotto, le parole
sussurrate fra i singhiozzi.
«Lorenzo, alzati, Niccolò ha fatto un incidente.»
Quello che è venuto dopo è ancora tutto confuso nella mia testa: la corsa
in ospedale, i medici che ci vengono incontro preoccupati, ore e ore seduti
di fronte alla porta bianca del codice rosso ad aspettare con il volto fra le
mani, il dottore dagli occhiali rotondi che ci dice, con le lacrime agli occhi,
che Niccolò non c’è più.
I suoi sogni si erano schiantati contro un camion e la colpa era solo sua.
Niccolò quella sera guidava ubriaco.
Aveva la patente da poco e aveva promesso che avrebbe fatto attenzione,
ma quella bugia gli è costata la vita e io non gliel’ho mai perdonata.
Se la colpa fosse stata dell’autista del camion, forse sarei riuscito ad
accettare tutto più facilmente. Invece sono stato costretto a convivere con
l’assenza di mio fratello e con la rabbia per quello che ha fatto.
Non avrebbe dovuto mettersi in pericolo.
Sapeva che avevamo bisogno di lui, che io avevo bisogno di lui.
Mi sono rifiutato di andare al suo funerale: non solo non avrei retto a
tanto dolore, ma c’era anche una piccolissima parte di me convinta che non
se lo meritasse.
Alle 3.14 di quella notte si è distrutta la nostra famiglia: Niccolò è
diventato l’assenza che mi porto dentro come un vuoto allo stomaco,
mamma non è mai riuscita a superarla, si è lasciata andare, ha avuto crisi di
panico tutte le notti per i mesi successivi, oggi vive di antidepressivi, papà
ha cominciato a frequentare un’altra donna di nascosto, che è anche il
motivo per cui abbiamo messo radici a Trento.
L’assenza di Niccolò si è intrufolata nella nostra famiglia come un cancro
silenzioso, e anche se ormai abbiamo quasi smesso di parlarne, le tracce di
quello che è successo sono dappertutto: nello sguardo spento di mamma,
che ormai non esce mai di casa e rimane a letto tutto il giorno, nelle bugie
di papà, in una casa che non è più curata come una volta, nella mia stanza,
che ha sempre avuto due letti e adesso invece ne ha uno solo.
In realtà non ce l’ho con nessuno, né con mamma perché le è mancato il
coraggio di andare avanti, né con papà perché a un certo punto ha smesso di
lottare per lei e ha trovato una via di fuga.
Ce l’ho più con me stesso e con la mia incapacità di scrollarmi di dosso
quello che mi succede. Ci sono persone che riescono a superare gli addii
scrollandoseli di dosso e continuando la loro vita esattamente come prima.
Io invece non sono così, resto arenato un po’ in tutto, anche se non
vorrei.
Da quando Niccolò non c’è più, l’atmosfera in casa è diventata
insopportabile. Io passo tantissimo tempo fuori, perché quello non è più il
posto in cui tornare per smettere di stare male, ma il posto da cui scappare
per stare meglio.
Non riesco proprio a sopportare lo sguardo spento di mia madre e
l’ipocrisia di mio padre, che cerca sempre di dimostrare che va tutto bene
anche quando non è così.
Ho scoperto i suoi tradimenti una notte di qualche mese fa.
Mentre dormiva mi sono intrufolato in camera dei miei e gli ho
controllato il cellulare perché sospettavo qualcosa. Ho trovato di tutto, ma
non ho detto niente e sono tornato nella mia stanza, mi sono nascosto sotto
le coperte e ho pianto ininterrottamente per ore.
Ho pianto per le vite che ho lasciato indietro e che a volte mi mancano
terribilmente, per Niccolò e perché vorrei proprio scrollarmi di dosso il
rancore e riuscire a perdonarlo, perché papà aveva deciso di andare via,
perché mamma, troppo concentrata sul suo dolore, non avrebbe mai saputo
niente del suo mondo fuori da lì.
Mi sono sentito solo, in quel momento, e ho avuto paura, perché mi
sentivo già pieno di così tante cose di cui liberarmi che qualche volta mi
sembrava di scoppiare.
È bastata la voce di una ragazza che non conosco, qualche canzone
canticchiata da un balcone all’altro, delle sigarette fumate insieme, per
ritrovare un po’ di entusiasmo.
Dal giorno in cui ho imparato a fare a meno della voce di mio fratello
fino al giorno in cui ho imparato che le parole che cerchi qualche volta
vengono da qualcuno che non conosci, avevo smesso di fidarmi della voce
altrui.
Poi, però, ho sentito la sua, e così ho trascorso l’ultimo anno della mia
vita a rincorrere la voce di una ragazza che non ho mai visto e di cui non so
nulla, solo perché è stata l’unica emozione che non ho saputo spiegarmi, e
soprattutto l’unica per cui ho davvero avuto la sensazione che ne valesse la
pena.
Sento sempre parlare degli amori vissuti, ma credo che a volte l’amore
più vero si intrufoli in quelli mai nati, che si sfiorano per un attimo e che
poi si rincorrono per anni.
Non credo negli amori immediati, credo negli amori che si aspettano, che
continuano a cercarsi senza sapere se si incontreranno mai. Credo negli
amori che avrebbero potuto essere e che magari saranno, quelli che ti
restano dentro come un formicolio al centro del petto. Un formicolio che sta
lì, tutti i giorni, a ricordare che forse l’amore che cerchi è quello che deve
ancora arrivare.
Non credo negli amori che si dicono “ti amo” subito, credo negli amori
che forse un “ti amo” non se lo diranno mai.
5
Le anime affini non si cercano, si trovano
Elisabetta
https://www.youtube.com/watch?v=Kn0LYItRoM4
@leparoledimarco
Arriverà il momento in cui queste lacrime
diventeranno sorrisi nuovi.
E tornerà tutto, allora.
Riscoprirai quella te che stai dimenticando da qualche
parte,
e non sai nemmeno più dove.
Ti sentirai di nuovo donna, un giorno.
Una donna apprezzata, coccolata, capita.
Una donna accesa.
6
► [Ultimo, Quando fuori piove]
Lorenzo
Mi piacciono le città grandi, quelle che brulicano di così tanta gente che
nessuno fa davvero attenzione a chi sei, a come ti vesti, a chi frequenti.
Amo le città che non sono prese da se stesse, ma quelle che si aprono al
mondo, quelle che vivono distratte, quelle che vivono di notte. Amo il
rumore del traffico fin dal mattino, avere sempre un posto nuovo da
conoscere, e guardarmi attorno e sentire voci, urla, risate, e così sentirmi
meno solo, e soprattutto sentirmi comunque parte di qualcosa.
A Trento ogni angolo è a misura d’uomo e tutto si raggiunge a piedi.
Questa è una città che porta spesso ad avere gli occhi delle persone
addosso, una città fatta di strade completamente deserte il sabato sera. Non
capita mai di non trovare posto al bar e per uscire fuori a cena non serve
prenotare giorni prima, anzi molto spesso non serve prenotare affatto.
A me, che sono cresciuto viaggiando in metropolitana, fra strade
imbottigliate nel traffico e vie stracolme di gente, passeggiare a Trento dà
l’impressione di muovermi in un universo fatto di silenzio e aria pulita, in
cui ci si sente protetti dalle montagne, ma che a volte fa venire voglia di
guardare oltre.
Vivere qui vuol dire sentire il profumo dell’inverno nell’aria, imparare a
scoprire meraviglie nuove, innamorarsi di una natura a volte curata e a volte
selvaggia, e a poco più di mezz’ora di auto avere paesi minuscoli immersi
nell’odore di boschi e di erba tagliata: borghi in cui il mondo sembra essere
rimasto quello di una volta.
Trento è una città che fatica a farti sentire accolto fin da subito, e in cui,
invece, è fin troppo facile sentirsi diversi.
Anche oggi, quattro anni dopo il mio arrivo, non riesco ancora a sentirmi
sulla pelle i suoi palazzi affrescati, i suoi vicoli nascosti, il modo formale
che ha di accoglierti ovunque, le sue fontane, i bar in cui mi sono seduto
tante volte, i locali che molto spesso sono diventati il mio rifugio.
Fra me e questa città non è mai scattata la scintilla, è come se fossimo
divisi da qualcosa, qualcosa che ci rende a volte anche simili, ma troppo
spesso ci fa sentire distanti.
Tuttavia, fra le sue bellezze e tutti i suoi difetti, mi sono intrufolato e ho
cucito la mia vita il più possibile su misura di ciò che desidero. E così ho
fatto spazio a Roberto, Sofia, Gaia, Celeste e Silvio, gli unici che hanno
sempre fatto in modo di esserci e che adesso se ne stanno accalcati al mio
fianco, sull’autobus numero 12, quello che tutte le mattine ci porta a scuola.
«Se oggi Big Mac fa il mio nome, sappiate che non ho studiato niente…»
dice Silvio mentre si aggiusta lo zaino sulle spalle.
Big Mac in realtà si chiama Luigi Rizzo, ed è il nostro professore di
matematica. Il suo soprannome è dovuto al mento flaccido e al fatto che è
così grasso che quando scrive alla lavagna deve sempre stare attento a non
cancellare tutto con la pancia.
«Arriverai mai preparato a un’interrogazione?» gli domando.
Ho conosciuto Silvio il primo giorno di scuola del secondo anno di liceo,
quattro anni fa, quando vivevo a Trento solo da qualche settimana e ancora
mi sentivo perso.
Aveva trascorso tutta la mattina a fissare Giorgia, una nostra compagna
desiderata da tutta la scuola, che era rientrata dalle vacanze estive
abbronzata più che mai e portava una maglietta bianca annodata sopra
l’ombelico.
Durante la ricreazione si era avvicinato e mi aveva detto: «Una così, con
me, non ci starà mai».
Io avevo sorriso senza rispondergli e lui mi aveva guardato in silenzio,
come se fosse in attesa di essere contraddetto.
Alla fine, aveva guardato con tristezza lo yogurt alla pera che stavo
mangiando e mi aveva dato metà del suo panino.
Silvio è il classico ragazzo un po’ sfigato, uno di quelli presi in giro da
tutti, perché indossa degli occhiali spessi come fondi di bottiglia, è magro
che sembra che la prima folata di vento possa portarselo via e ha il viso
ricoperto di brufoli.
«Non che tu sia il primo della classe, eh…» Celeste mi riporta al
presente, guardandomi di sbieco e sorridendo appena.
Io e Celeste, invece, siamo diventati amici quando si è offerta di aiutarmi
con il latino, che è sempre stato il mio punto debole. Non scorderò mai le
serate con lei fatte di termos di caffè e ripassi dell’ultimo minuto.
Nonostante sia una studentessa modello, ha moltissime insicurezze per il
suo aspetto fisico, insicurezze con cui lotta e convive tutti i giorni.
«Ah, lo sapete? Gaia ha organizzato una festa da lei, questa sera…» si
intromette Sofia.
«Un’altra?» Roberto la guarda accigliato.
Roberto e Sofia li ho conosciuti qualche anno fa al Buena Onda, un
locale che sembra una cartolina, adagiato sulle sponde del lago di Levico, a
mezz’ora di corriera da Trento, dove d’estate si va a fare l’aperitivo e a
ballare fino a notte fonda.
Stavano insieme allora, ma si sono lasciati qualche settimana più tardi.
Sono rimasti in buonissimi rapporti, però. Lei cerca di farlo uscire con le
sue amiche e lui, alle feste a casa di Gaia, le presenta altri ragazzi.
Non che Sofia ne abbia bisogno. Non è la solita belloccia, ma ha un
modo di fare a cui i maschi raramente riescono a resistere.
«E ti lamenti? In questa città non c’è mai nulla da fare. Le feste a casa di
Gaia sono quanto di meglio si possa trovare. E poi c’è Filippo…»
«Chi è Filippo?» chiede Celeste, distratta.
«Filippo, quello della 5C…»
«Ah be’, se c’è Filippo della 5C…» Roberto sorride ironico.
«Non fare il finto geloso, che non ti riesce. Comunque, Gaia ha detto che
dobbiamo andare da lei per…»
Le parole di Sofia vengono sepolte dal rumore delle porte dell’autobus
che si aprono e dallo sgomitare delle persone che fanno a lotta per scendere
per prime.
Noi aspettiamo che la ressa si plachi, poi le seguiamo.
«Dobbiamo essere da Gaia per?» chiedo a Sofia, allora, mentre da piazza
Fiera scendiamo lungo via Mazzini.
«Per le dieci. Se volete possiamo trovarci un quarto d’ora prima sotto
casa mia, e ci andiamo tutti insieme…»
«Va bene, facciamo così.»
D’un tratto Silvio guarda Sofia: «Viene anche Giorgia?».
Sofia alza gli occhi al cielo. «Ancora con questa Giorgia? Sei innamorato
di lei da cinque anni e non vi siete mai rivolti la parola…»
«Se glielo dici così però lo ammazzi…» Celeste cinge le spalle di Silvio
con un braccio, mentre svoltiamo a destra e, in lontananza, cominciamo a
vedere l’edificio rosso del nostro liceo.
«Comunque, ho saputo che si è fidanzata…» butto lì, con un tono fra
l’annoiato e l’indifferente.
Silvio, invece, mi guarda come se gli avessi appena comunicato una
condanna a morte.
«Si è fidanzata? Con chi?» Dalla sua faccia capisco che ci è rimasto male
per davvero.
Mi limito ad alzare le spalle. «Con Fabrizio, il rappresentante d’istituto.»
«No, dài. Con lui no! Ma perché?»
«Vediamo…» lo interrompe Celeste. «Vuoi saperlo davvero?»
«No, grazie…» Silvio si fa scappare un sorriso amaro.
Fabrizio ha sempre fatto girare la testa a tutte le ragazze della scuola:
moro, occhi azzurri, spalle larghe, un corpo perfetto.
Ci confondiamo fra tutti gli altri studenti accalcati di fronte alla scuola.
«Siamo solo a settembre ma ho già l’ansia per l’esame di maturità»
Roberto cambia discorso all’improvviso.
Sofia lo guarda storto. «Io ancora non ci penso, altrimenti impazzisco. Se
per la terza prova esce matematica mi butto sotto un treno.»
Celeste scuote appena la testa. «Matematica esce di sicuro.»
«Grazie, davvero» le risponde Sofia, abbassando lo sguardo a fissarsi la
punta delle scarpe.
«Non preoccuparti, ora abbiamo altro a cui pensare» intervengo io per
sdrammatizzare.
«Lorenzo ha ragione. L’interrogazione di Big Mac!» Silvio emerge dal
suo silenzio, facendo intendere di aver superato lo shock per la notizia del
fidanzamento di Giorgia e Fabrizio.
Lo guardo complice mentre tutti insieme varchiamo la soglia di un’altra
giornata del nostro ultimo anno di liceo. «No, amico mio. La festa di Gaia!»
Gaia ha lunghissimi capelli biondi, due occhi azzurri che sembrano due
torce e le guance sempre arrossate. Vive in un appartamento con due
universitarie più matte di lei e lo trasforma in una discoteca almeno una
volta a settimana.
È fidanzata da quattro anni con Damiano, un ragazzo di 5A, che alle sue
feste non ci viene mai perché si annoia da morire.
Ci ha sempre fatto sorridere vederli insieme, perché sembrano proprio
non c’entrarci nulla, l’uno con l’altra.
Eppure, negli anni, abbiamo dovuto ricrederci tutti quanti.
Purtroppo Gaia sta in 4B, perché l’anno scorso ha fatto così tante assenze
che nemmeno suo padre, un famoso avvocato, ha potuto evitarle la
bocciatura.
I suoi si sono trasferiti a Milano, come desideravano da tutta la vita, ma
non sono stati capaci di sradicarla da Trento, e così hanno patteggiato la
possibilità di affittarle un appartamento in cambio di un impegno maggiore
in classe.
Gaia è così, quando vuole qualcosa la ottiene.
Qualche volta la invidio, perché vorrei avere la sua determinazione, mi
aiuta a credere che tutto sia possibile.
Le sue feste sono diventate un appuntamento fisso. Casa sua è diventata
casa nostra: ci andiamo a pranzo dopo la scuola, ci areniamo lì a studiare
giorni interi, ci fermiamo a dormire sparpagliati sul divano e sul pavimento
del soggiorno.
I miei amici si sono trasformati nella famiglia che non ho più.
È lì, sul pavimento del soggiorno di Gaia, che ho la sensazione di essere
al posto giusto.
https://www.youtube.com/watch?v=R67yEZDoiiE
7
A volte l’amore finisce, ma c’è ancora il bisogno di
starsi accanto
Elisabetta
Lorenzo
https://www.youtube.com/watch?v=X1fhyntohIQ
9
Ti ricordi come sapevamo brillare, noi?
Elisabetta
Lorenzo
Trascorriamo ciò che resta della mattinata passeggiando per le vie della
città. A un certo punto imbocchiamo un sentiero di sassi che entra nel bosco
e risale la collina per sbucare in un prato di cui non si vede la fine. Una
volta seduti là, in mezzo al verde, osservo la tristezza andare via dagli occhi
di Celeste e la semplicità con cui le sue dita giocano con i fili d’erba mentre
finalmente ride di nuovo per davvero.
Torniamo indietro con le guance arrossate dal sole, e decido di
accompagnarla a prendere l’autobus che la riporterà a casa.
Abbiamo lasciato tutte le nostre cose a scuola, ma non ci importa niente.
«Ti voglio bene, Lorenzo…» mi dice lei, prima di andare via.
Io la guardo senza dire niente. Lei sa che vuol dire “anche io”.
Elisabetta
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 23 settembre, ore 00.22
Ciao Marco,
balli mai quando la musica non c’è?
Sono rimasta sveglia quasi tutta la notte, spesso con il volto fra le mani,
assieme alla bottiglia di vino ormai vuota appoggiata vicino al computer, a
rileggere e rileggere la domanda che ho inviato in un momento di fulminea
follia.
Quando ero ragazza ballavo spesso senza musica, chiusa nel buio della
mia stanza. L’ho fatto anche con Alessandro, qualche volta: la prima notte
al mare, la sera in cui ci siamo sposati, quando siamo diventati genitori. Era
diventato un modo tutto nostro per dirci quanto eravamo felici.
Da quanto tempo non ballo senza musica con Alessandro? Da quanto
tempo non ballo senza musica chiusa nel buio della mia stanza?
Marco probabilmente non leggerà mai questa domanda, e dunque non mi
risponderà mai, ma nel semplice fatto di avergliela posta ho colto un pizzico
di infedeltà verso mio marito, che mi ha reso irrequieta, perché non sono
mai stata così.
In questi mesi, quando arriva la notte e posso prendermi una pausa dal
ruolo di mamma, ho cominciato a rifugiarmi tra le parole di uno
sconosciuto che scrive su un blog scoperto per caso. Parole che parlano alle
donne, parole in cui ritrovo briciole di me sparpagliate qua e là, parole che
mi fanno sentire compresa, al sicuro.
Dopo aver inviato la mail, mi sono addormentata per svegliarmi qualche
ora più tardi con un mal di testa lancinante. L’orologio sulla parete segna le
sette meno dieci.
Mi alzo, vado in bagno e apro il rubinetto del lavandino per nascondere
ai bambini il rumore del mio pianto improvviso.
Mi ci aggrappo con entrambe le mani per non accasciarmi e gli occhi si
posano sul mio riflesso nello specchio, il riflesso di una donna che faccio
fatica a riconoscere nei suoi lineamenti e nell’azzardo che ha fatto poche
ora fa.
Non ho inviato quella mail perché sento il bisogno di tradire mio marito,
ma perché ho bisogno di sentirmi ascoltata.
La verità è che l’ultima volta che io e Alessandro abbiamo fatto l’amore
mi sono sentita come non mi sentivo da troppo tempo, e ho sperato che tutto
ciò bastasse per lasciarci finalmente ogni cosa alle spalle e ricominciare a
essere felici anche noi, tornando al punto esatto in cui avevamo smesso di
esserlo.
Invece non è stato così: durante una crisi capitano piccoli attimi in cui ci
si sente di nuovo improvvisamente uniti, ma poi scappano via.
Io penso che la vera vittoria di un uomo sia fare in modo che la donna
che ama si veda bella proprio come la vede lui.
E io non mi sento bella da troppo tempo.
Scivolo fuori dal bagno dopo una mezz’oretta, truccata con cura per
nascondere gli occhi arrossati e stanchi, e vado a svegliare Virginia e
Federico.
Ancora oggi, dopo tanti anni, entrare nella loro camera da letto e vederli
uscire piano dal sonno mi commuove.
Preparo la colazione, battibecchiamo un po’ perché non vogliono andare
in bagno a lavarsi i denti e a pettinarsi, e saluto Federico con un bacio sulla
fronte prima che esca per andare a prendere lo scuolabus. Virginia, invece,
che è più piccola, l’accompagno ancora io a scuola.
«Mamma…» mi dice, poco dopo, in auto.
«Dimmi, amore.»
«Oggi non ho tanta voglia di andare a scuola.»
«Come mai?»
«Ieri ho litigato con Simone.»
«E chi è Simone?»
«Il mio fidanzato» mi risponde con noncuranza, come se fosse la cosa più
normale del mondo.
Io la guardo con curiosità, nascondendo un sorriso. «Amore, non mi
avevi mai detto di avere un fidanzato.»
«L’abbiamo deciso l’altro giorno, ma ieri si è arrabbiato perché gli ho
preso una macchinina con cui giocava.»
Le passo una mano fra i capelli. «Stai tranquilla, vedrai che farete pace.
Anzi, sai una cosa? Sono sicura che quando arriveremo sarà lì ad aspettarti
e non sarà più arrabbiato.»
Virginia mi guarda dubbiosa. «Mamma, sai che fra poco è Natale?»
«Be’, non proprio. Comunque, cosa vorresti ti portasse Babbo Natale?»
«Non lo so ancora. Però sai che sono ricca?»
«Sei ricca? Davvero?»
«Sì, guarda.» Si infila una mano in tasca e tira fuori venti centesimi.
«L’ho trovata ieri per terra, fuori da scuola. Questi sono tanti soldi, vero?»
«Be’, sì, per una bambina di cinque anni sono tanti soldi» rispondo, con
una risata.
«Voglio regalarteli.»
«E perché mai? Li hai trovati. Sono tuoi.»
«No, vorrei che li prendessi tu.» Mentre lo dice allunga la manina e mi
poggia la moneta sulla gamba.
«Va bene amore, ma perché?»
«È una cosa che mi hai detto una volta.»
Alzo un sopracciglio. «Cosa ti ho detto?»
Virginia mi risponde con una semplicità e con un’innocenza che mi
lasciano senza parole. «Hai detto che la felicità non è avere, ma dare agli
altri.»
La guardo e rimango in silenzio. Non so cosa rispondere. Sono
commossa.
Io mi concentro sulla guida e lei si concentra sulla strada che scorre fuori
dal finestrino.
Rimaniamo così per un po’, mentre il traffico comincia ad aumentare.
«Vedrai che tu e Simone oggi farete pace» le dico qualche minuto più
tardi, mentre entro nel parcheggio della scuola. «Fai la brava, mi
raccomando.»
«Sì, mamma, me lo dici sempre.»
«Perché voglio essere sicura che mi ascolti.»
Virginia apre lo sportello e si allunga verso di me. «Non mi dai un
bacio?»
Rido. «Certo, amore.» Le sfioro la fronte con le labbra, poi la guardo
allontanarsi verso la scuola.
Un bimbo le corre incontro. «Virginia… Virginia…Virginia!»
Si guardano un po’ impacciati, poi si prendono per mano come fanno i
bimbi, entrano insieme nell’atrio e spariscono in mezzo al mucchio di
compagni di classe.
Rientrata a casa, decido di sfruttare il mio giorno libero per fare le
faccende domestiche. Non sono una maniaca della pulizia, tutt’altro, di
solito preferisco sfruttare il tempo per altro.
Qualche volta però mi piace: tirare a lucido la casa è un po’ come tirare a
lucido me stessa.
Mentre svuoto uno scaffale ricolmo di libri e inizio a spolverare, ripenso
allo sguardo pieno d’innocente affetto con cui Simone è corso incontro a
Virginia.
A volte li prendiamo in giro, i bambini, sottovalutiamo l’intensità delle
loro prime emozioni, la paura di non riuscire a risolvere i loro piccoli litigi
che sembrano catastrofi, le ingenue incomprensioni di quell’età. A pensarci
su, però, quante volte succede, crescendo, di incastrarsi in piccole
discussioni di poco conto e finire per non parlarsi più? Quanti litigi si
possono evitare con un pizzico di voglia in più di fare un passo verso
l’altro? E quante volte l’orgoglio ha la meglio e ci si rifiuta di ammettere
uno sbaglio?
Forse è per questo che quella scena mi ha colpito così tanto: ho visto
Simone correre incontro a Virginia, così impacciato, e poi quelle manine
che si sono incastrate senza bisogno di chiedersi scusa, e ho pensato a
quanto mi piacerebbe sentire i passi di Alessandro entrare in soggiorno, e
poi lui che, senza dire niente, mi afferra la mano. Quanto vorrei che
bastasse stringersi le dita per far sparire tutto ciò che ci tiene lontani.
Mi manca fare pace come fanno i bambini.
Mi manca ricordarmi come ci si prende cura l’uno dell’altro.
Perché siamo abituati a pensare che il segreto sia innamorarsi, e poi
riuscire a innamorarsi ancora, tutti i giorni.
Ma non è così, a volte non basta.
Tutti sono capaci di innamorarsi, eppure innamorarsi non ha nulla a che
vedere con l’amore.
Amore significa prendersi cura, e prendersi cura significa esserci.
Innamorarsi è qualcosa che capita in maniera spontanea, a prendersi cura
di qualcuno invece bisogna imparare, e ci vogliono fatica e impegno,
privandoci noi stessi di certe piccole attenzioni per dedicarle a chi abbiamo
accanto.
Prendersi cura vuol dire sforzarsi di capire i silenzi dell’altro, vuol dire
vederlo rientrare stanco dal lavoro e fargli trovare la tavola apparecchiata
anche se tu avresti mangiato sul divano, portargli il caffè a letto, vuol dire
gioire dei suoi successi anche se hai paura che possano allontanarlo da te.
A volte sentiamo il cuore battere a mille, ma non siamo capaci di capire
bisogni, esigenze, debolezze, punti di forza, difese, insicurezze, fragilità,
lati nascosti dell’altro.
Non accontentatevi di chi vi dice “sono innamorato di te”, cercate la
meraviglia di chi ha voglia di dirvi “mi prendo io cura di te”.
Lorenzo
Elisabetta
Una mail brevissima che leggo nascosta come un ladro nel bagno di casa
mia, con il cuore a mille.
Rimango immobile nel buio per qualche minuto, quanto basta perché
riprenda un ritmo regolare, poi, senza rispondere, torno silenziosamente in
camera da letto, mi fermo un po’ ad ascoltare il respiro regolare di
Alessandro, poso il cellulare sul comodino, mi infilo sotto le coperte e
crollo in un sonno profondo.
Quando riapro gli occhi, molte ore più tardi, è un sabato mattina come
tanti altri, il sole filtra debole dalla finestra e attraverso la parete sento
Alessandro preparare la colazione a Virginia e Federico che giocano e
urlano già di prima mattina.
Resto qualche minuto a rigirarmi e stirarmi sotto le coperte, poi li
raggiungo in cucina.
«Ciao mamma, papà sta preparando i pancake!» Virginia è seduta per
terra e ha un sorriso enorme sulla faccia.
Federico, invece, è in piedi accanto ad Alessandro e lo osserva con
attenzione muoversi fra i fornelli.
Lo saluto spettinandogli i capelli.
Alessandro mi rivolge un sorriso veloce e affettuoso. Siamo sempre stati
molto bravi a seppellire le nostre liti davanti ai bambini.
Scivolo in soggiorno e comincio a preparare la tavola.
«Non preoccuparti, faccio io…» la voce di Alessandro mi raggiunge
dalla cucina.
«Figurati, mi fa piacere dare una mano…»
«Posso aiutarti, mamma?» Virginia mi raggiunge correndo.
«Certo, amore! Prendi i tovaglioli…»
Sembra una di quelle mattine di molto tempo fa, quando io e mio marito
non avevamo bisogno di fingere la felicità che Virginia e Federico
meritavano.
«Oggi pensavo di portare i ragazzi a fare un giro in montagna. Hai voglia
di unirti a noi?» mi chiede Alessandro una decina di minuti più tardi,
raggiungendoci in soggiorno e appoggiando sul tavolo un vassoio stracolmo
di pancake e crema al cioccolato.
Gli rivolgo un’occhiata fugace. «Mi piacerebbe, ma purtroppo ho una
pila infinita di compiti da correggere per lunedì mattina. Voi andate pure,
però. Mi sembra una bellissima idea…»
«Non puoi proprio venire, mamma?» mi domanda Federico, mentre si
mette a sedere. «È tantissimo tempo che non passiamo una giornata tutti e
quattro assieme.»
Le sue parole mi instillano un vago senso di colpa. «Lo so, hai ragione.
Ma oggi non posso per davvero. Però recuperiamo. Te lo prometto.»
«Davvero ce lo prometti, mamma?» anche Virginia sembra davvero
dispiaciuta.
«Sì, amore, te lo prometto.»
Mi accomodo anche io e inizio a mangiucchiare, lo sguardo quasi sempre
fisso sulla tazza di latte di fronte a me e l’accenno di un sorriso quando mi
accorgo che Virginia ha già tutto il musetto sporco di cioccolato.
Dopo colazione Alessandro spedisce i bambini a prepararsi, e io e lui
restiamo soli, alle due estremità del tavolo del soggiorno.
«Lo so che quella dei compiti è una scusa…» mi dice, dopo essersi
assicurato che Virginia e Federico non possano sentirci.
«Sì, so che lo sai…»
«Ai bambini avrebbe fatto piacere se fossi venuta con noi…»
«Per trascorrere veramente una giornata serena non hanno bisogno di
stare in compagnia di due persone che non stanno bene l’una in compagnia
dell’altra.»
Pronuncio queste parole lentamente, perché voglio che arrivino ad
Alessandro con la stessa forza con cui feriscono me.
Lo guardo negli occhi. Avrei tante cose da dirgli, ma resto in silenzio, poi
mi alzo e comincio a sparecchiare.
Quando, un paio d’ore più tardi, marito e figli si chiudono la porta di casa
alle spalle, faccio un lungo respiro, uno di quelli che svuota il petto, vado
nuovamente in camera da letto, mi infilo sotto le lenzuola con la schiena
appoggiata alla testiera, afferro il cellulare dal comodino e me lo rigiro
qualche minuto fra le dita.
Poi, apro nuovamente il programma di posta elettronica e rileggo la mail
che Marco mi ha inviato durante la notte.
Non sono riuscita a togliermela dalla testa per tutta la mattina, nemmeno
quando parlavo con Alessandro, soprattutto quando parlavo con i miei figli.
Una piccola parte di me non vedeva l’ora che uscissero solo per poter
rispondere con tutta calma.
Rimango per un po’ immobile, lo sguardo fisso sul telefono e l’incertezza
nelle dita, poi mi decido.
Poche parole digitate di fretta, giusto per levarmi di dosso il senso di
colpa per ciò che sto facendo.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 11.44
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 13.05
Prima che tu venga al mondo, di Massimo Gramellini.
È uno dei miei libri preferiti.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 13.08
Un bravo scrittore è sempre anche un attento lettore.
Avrei dovuto immaginarlo.
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 13.45
Mi leggi, qualche volta?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 13.47
Ti leggo sempre di notte.
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 13.48
Ti piace?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 13.50
Mi tranquillizza.
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 13.51
Chi sei tu?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 14.04
Ho una proposta da farti…
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 18.00
Quale proposta?
Rimango immobile per qualche istante, nel bel mezzo della cucina, in
preda all’incertezza di fare un passo verso un posto dal quale forse non sarò
più capace di tornare indietro.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 28 settembre, ore 18.27
Lasciamo da parte le nostre vite. Magari questo sarà solo uno scambio di
mail che durerà lo spazio di un sabato pomeriggio, o forse capiterà di
risentirci. Chissà, per commentare un libro, oppure perché troverò qualcosa
di assolutamente ridicolo in quello che scrivi e dovrò dirtelo a tutti i costi.
Potremo parlare di tutto, ma di noi no.
Ci stai?
https://www.youtube.com/watch?v=-8uxWdjzqWs
@leparoledimarco
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14
► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 1]
Lorenzo
Beatrice sembra completamente a suo agio, seduta qui a piedi scalzi nella
mia soffitta.
«In effetti» le dico, mentre mi sistemo sui cuscini accanto a lei «gli unici
momenti in cui mi sentivo a casa per davvero, nell’appartamento qui sotto,
sono stati quelli in cui stavo sul balcone insieme alla tua voce. Altrimenti,
se avevo voglia di sentirmi a casa mia, sono sempre venuto qui.»
«L’hai mai raccontato a nessuno, di noi due?»
«No, mai, e tu?»
«No, nemmeno io. Avrebbe perso tutta la sua magia. E sicuramente non
mi avrebbero capito.»
«Tanto poi, alla fine, di solito le cose più importanti basta saperle in due,
giusto?»
Beatrice fa un sorriso luminoso. «Giusto.»
Quando parlo con lei è come se ci scambiassimo molte più parole di
quelle che pronunciamo davvero, come se Beatrice e io possedessimo il
dono di interpretare i nostri silenzi. «Casa tua, invece, com’è?» le chiedo
d’un tratto, curioso.
Mi affascina il pensiero di chiudere gli occhi quando non è qui con me e
di poterla immaginare da qualche parte.
«Parli di quella vera, oppure vuoi sapere se ho un posto dove vado a
nascondermi quando ho bisogno di allontanarmi da tutto?»
Ci penso un attimo. «La casa vera…» rispondo alla fine. Poco dopo
aggiungo: «Nel tuo posto, invece, potresti portarmici la prossima volta.
Sempre che tu ne abbia un altro oltre a quella specie di grotta vicino al
fiume».
«Ci sarà una prossima volta?» si limita a chiedermi.
«Tu lo vuoi?»
«Sì. E tu?»
«Anche io.»
Abbassa leggermente lo sguardo, forse per nascondere un filo
d’imbarazzo, che però a me sembra una delle cose più belle di lei.
«Casa mia è grande, forse fin troppo. È raffinata ed elegante, con un
grande giardino verde, ed è ricolma di oggetti, ma sempre perfettamente in
ordine. Me la invidiano tutti, lo sai? E in effetti non me ne stupisco, è la
casa dei sogni.»
Sorrido, chiudendo gli occhi e cercando di immaginare la casa di
Beatrice. Tra le sue parole, però, mi sembra di cogliere una sottile infelicità,
una nota di tristezza, e non riesco a capire cos’altro.
«Perché lo dici così?» le domando allora.
«Così come?»
«Come se non fosse la casa che tu sogni…»
Si mordicchia il labbro inferiore. «È che le case sono fatte da chi ci vive
dentro…»
Vorrei dirle che non può immaginare quanto la capisco.
«Non vai d’accordo con la tua famiglia?»
«No, non è questo.»
«E che cos’è, allora?»
«Mi vergogno un po’ a dirlo…»
«Qui ci siamo solo noi. Puoi dire tutto.»
Beatrice mi guarda negli occhi, un “lo so” silenzioso, e a me viene da
pensare che è bellissimo quando fai capire a qualcuno che può fidarsi di te,
e ti rendi conto che lui si fida per davvero.
«Sono cresciuta in una famiglia benestante, anzi, potrei dire ricca. Una
famiglia che non mi ha mai fatto mancare nulla e in cui qualsiasi cosa
desiderassi avrei potuto averla. Sono stata viziata fin da piccola con
vestitini nuovi e montagne di giochi, e sono cresciuta dentro una bolla in
cui tutto è perfetto, anche i miei genitori e l’amore che li ha sempre uniti, e
mia sorella, che ora vive fuori e che qualche volta mi manca tanto. È solo
che sono sempre stata abituata a ricevere più regali che carezze, vestiti e
giochi più che piccole attenzioni. Ed è andata sempre così.» Beatrice fa una
piccola pausa, poi aggiunge, a voce bassa: «Questo, però, alla mia famiglia
non l’ho mai detto…».
I miei occhi sono rimasti tutto il tempo fissi sulle sue dita, catturati dal
modo in cui usa le mani per accompagnarmi nel suo mondo.
«Non ti senti libera di farlo?» le domando allora.
«Mamma è la classica donna perfetta, solo che è una persona molto
fredda, con cui ho sempre fatto fatica a entrare in empatia per davvero.
Quando chiacchieriamo sto sempre attenta a dire le cose nel modo giusto.
Non abbiamo mai avuto un rapporto fatto di confidenze e consigli, anche
perché non è abituata a chiedere. Così, almeno in famiglia, mi tengo sempre
tutto dentro e cerco di cavarmela da sola.»
Ascolto Beatrice con attenzione, senza interromperla, fissando il suo
profilo nella penombra.
«E tuo padre?»
Lei rimane un attimo in silenzio.
«A casa con noi vive Antonio, il suo compagno. Papà invece non c’è
più…» mi risponde.
«Io… mi dispiace, non lo sapevo…» mi affretto a scusarmi.
Lei sorride e, di sbieco, mi guarda con dolcezza. «Non preoccuparti. È
successo già da un po’ e ora siamo tornati felici. È la nostra vittoria più
grande. Anche se è stata davvero dura…»
«Hai voglia di raccontarmelo?» la mia voce è insicura, timorosa di essere
invadente.
«È iniziato molto tempo fa. Papà aveva un linfonodo ingrossato in gola, e
al mattino, quando tossiva, usciva un pizzico di sangue. Sono stati mesi di
preoccupazione e continue visite in ospedale. Poi, alla fine, qualche giorno
prima di Natale, è arrivato l’esito degli esami.» Beatrice non accenna a
interrompersi. «Papà è morto a casa, nel suo letto, fra le persone che amava.
Quando è successo ero seduta sul divano a guardare Shutter Island insieme
a Lucrezia, la mia migliore amica, che era venuta a trovarmi per non
lasciarmi sola, perché sapevamo che sarebbe successo…»
Parla senza incertezze e con una serenità che le invidio. Nei suoi gesti e
nelle espressioni del suo volto non leggo tristezza, quella ormai è andata
via. C’è nostalgia, piuttosto.
«Di che cosa si occupava tuo padre?» le chiedo dopo un po’.
«Papà era un pianista, infatti la sua mancanza ho cominciato a sentirla
quando la domenica mattina non mi svegliavo più con le sue note che
accarezzavano le mura di casa, quando la stanza in cui c’era il suo piano è
diventata la camera degli ospiti, quando tutto è diventato più silenzioso.
Forse è anche questo che inizialmente mi ha colpito di te, come se avessi
colto in te la stessa musica che si nascondeva nelle dita di papà.»
Di fronte a quest’affermazione così spudorata e innocente allo stesso
tempo, non riesco a non sorridere.
«Sai…» prosegue lei, «c’è una cosa che non ho mai raccontato a
nessuno.»
«Che cosa?»
«Qualche giorno prima di andare via, quando ormai non aveva quasi più
forze a causa della malattia, papà si è chiuso in stanza a tentare di suonare,
nonostante tutto. Mi ha chiamato e, quando l’ho raggiunto, mi ha chiesto di
chiudere la porta. Allora mi sono seduta di fianco a lui, mentre suonava e
cantava Amore bello di Claudio Baglioni, e mi sono asciugata una lacrima
senza farmi vedere. Poi, di nascosto, ho sfilato il cellulare dai jeans e l’ho
registrato, perché sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo
sentivo suonare. È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita,
sai? E una parte di me resterà per sempre seduta lì, insieme al suo profumo,
alla sua voce, e alle sue mani stanche e fragili, ma sempre capaci. Ogni
tanto, quando mi viene voglia di cedere un po’ alla nostalgia, lo riascolto,
chiudo gli occhi e per un attimo mi sembra di averlo ancora qui con me.»
«Ti manca molto?» le domando.
Beatrice alza le spalle. «Qualche volta sì, è normale. Soprattutto quando
mi succede qualcosa di bello, che avrei voglia di raccontargli, e invece non
posso farlo. Con lui ho sempre avuto un rapporto più profondo che con
mamma.»
«E con il suo nuovo compagno, invece?»
«Con lui vado d’accordo, ma finisce lì. A dire il vero non sono ancora
riuscita a inquadrarlo bene. Ma sono felice che mamma abbia trovato un
uomo che sappia renderla di nuovo felice. Non avrei mai voluto vederla
invecchiare da sola.»
Beatrice stringe leggermente gli occhi quando vuole sottolineare
un’affermazione importante.
«Mi piace il modo che hai di raccontare, lo sai?» le dico.
«A me piace il modo che hai di ascoltare, e il modo che hai di fare
domande.»
Rimango in silenzio.
«E tu, invece?» mi chiede lei.
«Io cosa?»
«Vai d’accordo con la tua famiglia?»
Non so se è per via del mio silenzio improvviso, del fatto che allontano
impercettibilmente il corpo dal suo, o della strana espressione sul viso che
non riesco a nascondere, ma nello sguardo di Beatrice appare subito un
lampo di senso di colpa e fra noi cala un breve silenzio carico d’imbarazzo.
«Ti chiedo scusa…» sussurra lei, dopo un po’. «Forse sono stata troppo
invadente.»
Scuoto leggermente il capo. «No, figurati. Non più di quanto io lo sia
stato poco fa, almeno. È solo che non sono così bravo a parlarne, a
differenza di te. La verità è che forse non l’ho mai fatto.»
Beatrice mi guarda dritto negli occhi. «Ci siamo solo noi qui. Puoi dire
quello che vuoi, prometto che non lo racconterò a nessuno.»
Beatrice sa strapparmi un sorriso anche in un momento così. E quindi
inizio a raccontarle dei tanti trasferimenti, degli addii che mi porto dentro,
di mamma, di papà e di quell’altra donna che si è messa fra di loro. Non le
racconto, però, di Niccolò. Veramente vorrei, ma non mi vengono le parole.
Ho scoperto che Beatrice è una di quelle persone che quando parli non
t’interrompono, e che non ti forzano a dire più di quello che vuoi.
Alla fine, e lo apprezzo tanto, non mi abbraccia e non mi dice nessuna
frase di circostanza. Però mi chiede: «Ti fanno paura ancora adesso tutte le
partenze che hai dovuto vivere?».
«Ci sono addii che non si possono dimenticare. Comunque, se mi guardo
indietro, voglio bene ai momenti che ho vissuto, anche a quelli che mi
hanno fatto male, perché a ben guardare mi hanno fatto diventare quello che
sono…»
«E chi sei?»
«Sono uno a cui non piace stare al centro dell’attenzione, uno che
preferisce restare in disparte. Si imparano tantissime cose tirandosi fuori
dalla scena e osservandola da un altro punto di vista, sai? Soprattutto,
quando fai un passo indietro, o un passo avanti, ti rendi conto di chi ha
voglia di venire con te, e chi invece no. Tu, invece, come sei?»
«Qualche volta vorrei saperlo anche io. Spesso non mi capisco. Ho la
tendenza ad allontanare le persone che mi fanno bene perché ho paura che
un giorno possano farmi tanto male. È successo anche con te, quando,
l’anno scorso, ti ho dato un appuntamento al quale non sono mai venuta…»
«Allora non è vero quello che mi hai detto alla festa, che non era il
momento giusto. Hai fatto un passo indietro perché hai avuto paura…»
«Sì. Ho avuto paura. Mi capita tante volte. È giusto che tu lo sappia.
Sono bravissima a scappare dalle persone a cui tengo. Poi, però, quando le
vedo allontanarsi cerco di raggiungerle.» Fa una piccola pausa. «È per
questo che stanotte sono venuta sotto casa tua. Per raggiungerti.»
Elisabetta
Lorenzo
Mentre passeggio verso casa, sotto un cielo fitto di stelle, ripenso alla
confessione di Gaia e riavvolgo il rullino della sua storia con Damiano.
Mi sa che ha ragione lei, il segreto di una storia d’amore è smetterla di
guardare fuori e imparare a guardare dentro, con occhi diversi. Che non
significa accontentarsi, ma imparare a dare il giusto valore a ciò che
abbiamo.
Sembra una banalità, ma se lo è davvero, come mai allora tantissime
volte scopriamo di amare ancora una persona quando decide di andare via?
C’è qualcosa di estremamente sbagliato in tutto questo.
Forse per andare avanti dobbiamo esercitare il talento di desiderare non
ciò che ci manca, ma ciò che possediamo già.
Quante volte cerchiamo la felicità che non proviamo più guardando
lontano, quando invece ce l’abbiamo seduta accanto?
Proprio mentre sono assorto in questi pensieri, inaspettata come sempre,
mi trovo davanti la mia, di felicità, seduta lì sotto casa, con indosso una di
quelle solite felpe a cui mi sto affezionando, su quel muretto che è diventato
il posto in cui posso andare a cercarla quando non so dov’è.
«Ciao» mi dice Beatrice, e il suo sorriso fa ridere anche me.
«Ciao, ma cosa ci fai qui?» le dico, sorpreso.
«Ti aspettavo. Ci sono giorni in cui mi chiedo cosa voglio io dalla vita,
altri in cui penso di saperlo, e altri ancora in cui penso di non saperlo più e
mi allontano da tutto e tutti. Stasera, invece, avevo solamente voglia di
essere qui.»
La guardo in silenzio, senza riuscire a smettere di sorridere e con il cuore
che mi martella nel petto.
«Sali?» le domando, emozionato.
«Speravo me lo chiedessi.»
Apro il portone di casa e corriamo di sopra nella mia soffitta impolverata,
a parlare, ridere, fumare, scherzare.
Ci conosciamo solamente da qualche settimana eppure mi sembra di
conoscerla da sempre.
Non c’è più imbarazzo fra di noi.
«Mi piace il modo che hai di guardare fuori dalla finestra» le dico, a un
certo punto, quando la scopro pensierosa e con lo sguardo altrove.
Lei mi sorride. «Tu che cosa sogni, quando guardi fuori?»
«Quello che sognano tutti.»
«La felicità?»
«No, la libertà. Ci pensi mai che la libertà è un talento?»
«Un talento?»
«Sì. Anche se è di tutti, spesso la sacrifichiamo per un amore che non
proviamo più, per amicizie che non ci meritano, solo perché gli altri ci
dicono che è giusto così, che deludere è sbagliato. Io invece credo che
deludere serva, qualche volta. Senza cattiveria e bugie, ma solo per
riguadagnare il sorriso che magari abbiamo lasciato chissà dove. Io mi
auguro di sbagliare, sai. Perché qualche volta sbagliare ci salva la vita.»
Beatrice non risponde, ma continua a guardarmi.
«Tu invece che cosa sogni?» le domando.
«Di rubare momenti.»
«Che cosa vuol dire?»
«Ho sempre desiderato rubare attimi della mia vita, non solo per
ricordarli, ma per poterli mettere da qualche parte e tirarli fuori quando ho
bisogno di viverli di nuovo. Solo che non si può.»
«Sì che si può. Esistono anche delle persone che lo fanno per lavoro.»
«Ma che dici?»
«Te lo giuro!»
«E chi sarebbero?»
«Gli scrittori.»
«Gli scrittori non rubano momenti alla loro vita.»
«Sì, invece. A volte scrivere vuol dire vivere una seconda volta. E infatti
a me piacerebbe tanto scrivere…»
Beatrice sorride. «Ecco cosa fai, quando guardi fuori. Inizi a pensare e
non ti fermi più.»
«Qualche volta sì, lo ammetto. Ma lo faccio anche altre volte, ad esempio
quando ho un po’ di tempo libero. Tu cosa fai nel tempo libero?»
«Lo hai già detto tu. Scrivo.»
17
Vietato incontrarsi
Elisabetta
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 28 settembre, ore 16.12
Sì, ci sto. Non l’ho mai fatto prima. E tu?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 5 ottobre, ore 20.45
Nemmeno io.
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 5 ottobre, ore 23.41
Dovremmo fissare delle regole, però.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 5 ottobre, ore 23.45
Delle regole? Sentiamo.
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 5 ottobre, ore 23.55
Le regole sono queste.
Ci sentiremo solamente via mail. Non ci scambieremo mai nessun altro
contatto.
Ci sentiamo solo se abbiamo voglia di sentirci, altrimenti no. Niente
forzature. È vietato non essere se stessi.
Vietato incontrarsi.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.07
Mi sembra più che giusto. Ci sto.
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 00.13
Ottimo, allora.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.17
Hai mai visto C’è posta per te?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 00.25
No. Di che cosa parla?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.30
Di noi.
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 00.32
Di noi?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.47
Sì, Joe e Kathleen vivono a New York e lavorano a pochi isolati di
distanza, frequentano le stesse strade, gli stessi locali, gli stessi negozi. E
fin qui, non è il nostro caso. Come noi, però, anche loro si conoscono su
una chat room e diventano amici.
Nella vita reale lei è una donna energica, solare e piena di passioni, e
gestisce una piccolissima libreria per bambini.
Lui, invece, è il proprietario di una delle più grandi librerie della città,
che le librerie indipendenti di Manhattan non vedono di buon occhio.
Per Joe e Kathleen, quello scambio di mail diventa un appuntamento
fisso del quale non riescono più a fare a meno, ma, proprio come noi,
decidono di non parlare della loro vita reale.
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 00.53
E come finisce il film?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 00.58
Che gusto c’è se te lo dico?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.01
Ho una proposta allora.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 01.07
Ci stiamo già facendo un sacco di proposte. Sentiamo…
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.10
Guardiamolo insieme.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 01.14
Credevo che la regola fosse “vietato incontrarsi”…
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.17
Infatti. Ma possiamo guardarlo insieme, ognuno da casa propria.
Ci diamo un appuntamento una sera, a un orario preciso, e iniziamo il
film nello stesso momento.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 01.21
Ci sto. Quando?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.32
Mercoledì sera, alle 21?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 6 ottobre, ore 01.35
A quell’ora non posso. Alle 22?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 6 ottobre, ore 01.37
Va benissimo. Allora mercoledì sera alle 22 in punto.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 9 ottobre, ore 22.00
Io sono pronta, e tu?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 9 ottobre, ore 22.01
Ti aspettavo.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 9 ottobre, ore 22.02
Allora iniziamo.
Lorenzo
Dopo aver salutato i miei amici e svoltato il primo angolo che possa
nascondermi ai loro occhi, mi fermo un attimo e rispondo a Beatrice.
“Adesso?” le scrivo, ancora incredulo.
“Sì, adesso.”
Scuoto la testa. “Mi avvertirai mai un po’ in anticipo, quando hai voglia
di vedermi, oppure sarà sempre così?”
Immagino il sorriso di Beatrice e aspetto la sua risposta, gli occhi fissi
sullo schermo.
“A me così piace. E a te?”
Ci penso su qualche minuto senza trovare le parole, poi, senza aspettare il
mio “sì, mi piace”, Beatrice mi scrive di nuovo.
“Muoviti. Sono a piazzale San Severino. Ti aspetto.”
Mentre mi incammino verso di lei, non riesco proprio a non sorridere.
La raggiungo circa dieci minuti più tardi, e la trovo accostata a bordo
strada, al volante di un’auto gialla.
«Come diavolo fai ad avere la patente?» le chiedo, sorpreso, facendo
capolino dal finestrino abbassato.
Lei mi guarda ridendo. «In realtà non ce l’ho.»
«Non ce l’hai? Sei matta?»
Beatrice alza le spalle e mi fa segno di salire con la mano.
«Ma sai guidare?» le chiedo, dubbioso.
«Sì. Mia sorella è sempre stata una grande appassionata di motori, e
prima di diventare maggiorenne prendeva già lezioni di guida da mio padre.
Poi, quando i miei non erano a casa, mi insegnava di nascosto.»
«E se ci fermano?» le domando, mentre Beatrice accende il motore e
s’immette in strada.
Lei mi guarda di sbieco. «Speriamo non succeda. Se mia madre ci scopre
è la fine.»
Scuoto la testa, mentre la brezza fresca dei primi di ottobre entra dal
finestrino e mi scompiglia i capelli.
«Ma dove andiamo?»
Beatrice sorride, ma non mi risponde.
Mi piace, questa ragazza. Mi piace perché è imprevedibile, perché mette
le parole e i silenzi nei punti giusti. Mi piace per come si muove l’aria
attorno a lei quando gesticola, mi piace per come risuona la sua risata, per il
modo che hanno i suoi capelli di spettinarsi quando corriamo verso
qualcosa, perché ha nello sguardo quel giusto mix fra spensieratezza e
malinconia, che fa proprio venire voglia di scavarle dentro il petto per
vedere cosa c’è.
Mentre la guardo, lì seduta di fianco a me, un po’ ribelle e un po’ brava
ragazza, talmente bella e magica che mi manca il fiato, ho un po’ di timore
che tutta questa felicità possa essere solo nella mia testa.
Mi è già capitato di incontrare occhi nuovi e di vederci una bellezza così
pura da convincermi di aver trovato un posto da chiamare casa, un posto in
cui tornare quando sento che la vita ha voglia di mettermi in ginocchio.
Solo che a volte gli amori più intensi diventano le delusioni più grandi.
Continuo a guardarla di nascosto, Beatrice, e alla fine sorrido senza che
lei se ne accorga, perché mi dico che qualsiasi cosa stiamo diventando, di
certo non potremo più essere due sconosciuti.
Non saprei dire quanto tempo siamo rimasti chiusi nella sua stanza, a
ripercorrere la vita che si è lasciata indietro, ma tra quelle pagine ingiallite
ho lasciato qualche briciola di cuore.
«Tu ci credi nell’amore, Lorenzo? Nell’amore vero, intendo…» mi
chiede lei, tutto a un tratto.
Poso gli occhi dentro i suoi, stupito dalla domanda. «Non lo so.»
«E perché non lo sai? Cosa ti è successo per farti smettere di crederci?»
«Forse alcune delusioni, forse la storia dei miei genitori che è andata in
frantumi, forse perché a me non è capitato…»
Beatrice mi guarda, stringendo leggermente gli occhi. «E a che cosa credi
allora?»
«Credo nelle canzoni. Tu ci credi nelle canzoni?»
«Non lo so, non ci ho mai pensato, in realtà. Però credo nelle
sensazioni.»
Lo sguardo mi cade sulle sue mani e le trova lì a tremare appena.
Beatrice se ne accorge, ma non dice niente.
«A questo ci credi?» le domando allora, d’impulso.
Lei decide di non nasconderle ai miei occhi. «Sì, a questo ci credo.»
19
Tradire con la mente o tradire con il corpo non è poi
così diverso
Elisabetta
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 07.03
Mi sono svegliato con la voglia di immaginarci.
Puoi fare una cosa per me?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 08.56
In questi giorni ci sto immaginando più di quanto tu possa pensare. Mi
sto incastrando in questo gioco che abbiamo inventato.
E vorrei scappare.
Ma restare mi piace di più.
Cosa vorresti che facessi?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 09.23
Vorrei che chiudessi gli occhi e che immaginassi il nostro primo
appuntamento. Immaginalo, anche se non ci sarà mai.
Dove siamo?
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 09.31
È sera, in una città che non è nostra ma che abbiamo raggiunto solo per
incontrarci. Ci diamo appuntamento in uno di quei vicoletti bui e un po’
nascosti, illuminato solo da un vecchio lampione all’angolo.
Io indosso un vestito di seta scuro. Tu dei pantaloni chiari e una camicia
di lino…
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 09.40
…quando i nostri sguardi si toccano per la prima volta scopro che il tuo
non è poi così timido come cerchi di farmi credere. Lo immagino stanco,
ma luminoso e intenso. Non ci diciamo niente, ci sorridiamo appena come
due persone che si sono riconosciute. E cominciamo a passeggiare…
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 09.59
…e ci ritroviamo in una piazza, deserta o stracolma di gente, non
importa. Tanto quello che ci sta attorno ha improvvisamente poca
importanza. Ci sdraiamo per terra e finalmente mi parli di te. Mi racconti un
dettaglio, qualcosa di poco conto ma che poi si rivelerà importante. E mi
domandi di me, mentre ti leggo addosso la curiosità di scoprire di più.
Finalmente posso leggerti. Leggimi anche tu. Poi portami in un piccolo
locale in cui sederci a bere del buon vino.
Bianco o rosso?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 10.05
Rosso. Come quel filo di rossetto che indossi con eleganza. Chissà se lo
hai messo per sentirti più bella ai miei occhi, oppure solo perché ti piace
esserlo e basta.
Quando usciamo dalla penombra del locale abbiamo il sapore del vino
addosso. È notte. Ma chissà che ora è.
Abbiamo prenotato due stanze separate in un hotel poco distante. Mentre
camminiamo le nostre mani si toccano.
Noi però, facciamo finta che succeda per caso…
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 10.21
Quando entriamo in hotel un filo d’imbarazzo s’intrufola nei nostri
sguardi. Soprattutto una volta nell’ascensore, quando le porte si chiudono
dietro di noi.
Lo senti questo silenzio? Li senti i nostri sorrisi che si cercano?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 10.39
Quando le porte dell’ascensore si aprono sul piano delle nostre stanze,
rimaniamo a guardarci in silenzio per un po’, con la consapevolezza che
quella è una notte diversa dal solito.
Ci salutiamo anche se, dentro di noi, vorremmo che non finisse così.
E poi, chiusi nel buio delle nostre camere da letto, ci ritroviamo a
immaginare che quella parete che ci divide sparisca all’improvviso…
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 25 ottobre, ore 10.43
…e ci ritroviamo sulla pelle ancora i brividi di quei desideri che in
ascensore ci siamo scambiati solamente con lo sguardo.
Vorrei che fossi sfacciato.
Cosa fai?
Vieni a bussare?
Da: Marco230790
A: Sofia81
Data: 25 ottobre, ore 10.47
Sto già bussando…
Adesso tieni gli occhi chiusi e metti via il cellulare.
Immaginaci.
E così, stesa in questo letto lontano da casa, a pochi metri da dove, tanti
anni fa, ho incontrato gli occhi di mio marito la prima volta, abbandono
completamente tutti i pensieri e tutte le preoccupazioni di questi mesi.
Appoggio il cellulare sul comodino, chiudo le persiane per creare un po’
di penombra, mi sfilo i jeans e schiudo le gambe.
Poi, con le dita, inarcando la schiena e puntando i piedi nel materasso,
sollevo l’orlo della mia intimità e comincio a sfiorarmi.
Lì, in quel momento, mi dimentico una cosa importante. Tradire con la
mente o tradire con il corpo non è poi così diverso.
https://www.youtube.com/watch?v=nl3TupFpin0
https://www.youtube.com/watch?v=qUHQZHH7TTU
@leparoledimarco
Vorrei qualcuno che sapesse baciarmi
in tutti i modi in cui può essere baciata
una persona.
Sulle labbra. Sul collo.
Sotto l’orecchio. Sulle spalle.
Sulla pancia. Sulle gambe.
Sulle ginocchia.
Vorrei qualcuno che mi stupisse
con baci rubati, leggeri, intensi.
Qualcuno che soprattutto
mi baciasse sulla fronte.
Lorenzo
https://www.youtube.com/watch?v=l5vQkeEhn5U
21
Vorrei un amore che non mi dà preoccupazioni, ma
che me le toglie
Elisabetta
Il giorno dopo è già ora di tornare a casa. Prendo il treno che mi riporterà
a Trento con addosso un misto di dispiacere e di desiderio irrefrenabile di
rivedere il sorriso dei miei figli, di riabbracciarli, e perfino di bisticciare con
loro prima di andare a dormire. Mi sono mancati tantissimo e ho addosso
l’impressione di aver fatto loro un torto troppo grande.
Alessandro l’ho sentito solo di sfuggita, e poi questa mattina per
avvertirlo del mio ritorno. Lui, invece, tornerà solo fra qualche giorno.
In tutto questo, Marco si è ormai ritagliato il suo piccolo spazio nella mia
vita: uno spazio che non so definire, ma che non è più fatto solamente di
parole, ma anche di sensazioni.
Non lo sento da quell’assurda conversazione che mi ha portata a
lasciarmi andare e che, adesso, è la causa del magone e del senso di colpa di
cui non sono riuscita a liberarmi.
Nelle nostre pause, però, il silenzio che sento fa davvero rumore e la mia
testa diventa un mucchio di domande alle quali non so rispondere.
E così, mentre questo treno mi riporta a casa il cuore, faccio una cosa che
non facevo da tanto.
Rovisto nella borsa, trovo dei post-it che saranno qui da chissà quanto
tempo, e comincio a riempirli di me.
Da: Sofia81
A: Marco230790
Data: 26 ottobre, ore 8.25
Non so più rispettare le regole che ci siamo dati.
Potrei chiederti di incontrarci.
Invece ti dico di non sentirci più.
Scendo a Trento che il sole è ancora alto sopra l’orizzonte, e così, prima
di correre a prendere Virginia e Federico, decido di passare da casa, perché
ho voglia di fare una cosa che non faccio da tanto.
Subito dopo aver mandato l’ultima mail a Marco, sono rimasta seduta
con lo sguardo fuori dal finestrino a vedere il paesaggio trasformarsi e
diventare quello in cui sono diventata donna. Ho pianto in silenzio, non con
gli occhi, ma con il cuore, ho rimesso piede nella città che ormai è diventata
casa mia e mi sono sentita svuotata.
Ecco perché adesso sono qui in cantina. Da un vecchio armadio, dietro a
un mucchio enorme di coperte e maglioni, recupero la scatola delle scarpe
che ho portato con me per tutta la vita e che è stato il motivo per cui la
prima conversazione fra me e Alessandro non è rimasta solo un rapido
scambio di messaggi fra uno che aveva sbagliato numero e una che stava
leggendo un libro.
Non apro questo scrigno da così tanto tempo che nemmeno me lo
ricordo, e quando le mie dita lo accarezzano mi tornano alla mente tutta una
serie di minuscoli ricordi che mi entrano nello stomaco e mi procurano una
fitta di nostalgia.
Qui dentro c’è tutto quello in cui credeva quella giovane donna ancora
piena di sogni e speranze, una giovane donna molto diversa da quella di
oggi, una giovane donna che in alcuni momenti mi manca da morire.
Sollevo il coperchio e sorrido: è tutto ancora così alla rinfusa,
esattamente come lo ricordavo.
Sfioro i miei ricordi prima con gli occhi e poi con le dita, cauta, come se
stessi accarezzando la ragazza che ero.
Rimango così per non so quanto tempo, in piedi, i ricordi di un passato
ormai remoto stretti fra le mani, poi, in quella cantina vecchia e umida, mi
siedo per terra, appoggio la schiena alla parete, mi metto la scatola sulle
gambe e inizio a rovistare.
A un certo punto, in mezzo a questo mucchio di cianfrusaglie, biglietti
ingialliti e vecchie fotografie, il mio sguardo viene catturato da un foglio
bianco perfettamente ripiegato in quattro, una precisione che non mi è mai
appartenuta.
Alzo un sopracciglio e lo spiego, lentamente. Riconosco subito la
scrittura disordinata di Alessandro e mi porto una mano alla bocca per la
sorpresa.
Ciao amore mio,
chissà quando troverai questa lettera, anzi, chissà se la
troverai mai.
Te la lascio qui perché è da qui che tutto è iniziato.
Non avrei mai immaginato che una scatola di scarpe
avrebbe potuto portarmi a una felicità così.
Dentro di me, forse, spero che queste parole non vengano
mai lette, perché qui dentro ci sono tutti i ricordi a cui ti
aggrappi quando qualcosa non va e allora forse, se un
giorno sarai qui, sarà perché non saremo più felici come
adesso.
In questo momento sei di là, nella nostra camera da letto,
hai il volto affogato nel cuscino, le mani strette attorno alle
lenzuola sul mio lato, una serenità che mi gonfia il petto di
gioia.
Ti scrivo perché voglio conservare nel tempo l’emozione
che provo adesso, per fissare da qualche parte il ricordo dei
tuoi occhi quando, solo qualche ora fa, mi hai sorriso
piangendo e mi hai detto: “Aspettiamo un bambino”.
Abbiamo costruito una casa con l’amore dentro.
Abbiamo costruito un amore con dentro una casa.
Volevo dirti che non ci ho mai visti belli come stasera,
abbracciati stretti in questa cucina, e che non mi sono mai
sentito così completo, e soprattutto che mentre ti guardo
penso che sei l’unica donna al mondo con la quale avrei
voluto vivere tutto questo.
Io non lo so cosa capiterà, non so se saremo capaci di
renderci sempre felici come abbiamo fatto finora.
Però, a guardarci stasera, non riesco a immaginare che
questo mondo possa essere capace di allontanarci da ciò che
siamo adesso.
Non posso prometterti di amarti sempre così, perché
l’amore non si promette, si costruisce.
Ti prometto una cosa però.
Ti prometto che se dovesse arrivare il giorno in cui sarai
qui a leggere queste parole perché non ti sentirai più al posto
giusto come ti senti ora, farò del mio meglio per riportarci
qui, esattamente dove siamo in questo momento.
E ti prometto che in qualche modo sarò sempre l’uomo
che sono stasera, e so che tu, da qualche parte dentro di te,
sarai sempre la donna che sei stasera.
Ti amo,
Alessandro
@leparoledimarco
Stringila forte la donna che hai a fianco,
non dare mai per scontati i suoi occhi addosso,
perché là fuori ci sono un sacco di uomini
che non aspettano altro che un tuo piccolo errore
per portartela via.
Fai in modo che la vostra unione sia sempre
una sfida da vincere.
Stringila quando te lo chiede,
ma soprattutto quando non te lo chiede affatto.
Stringila quando si difende e quando scappa,
quando piange, quando si arrabbia, quando urla.
Stringila quando ti manda via.
Stringila e dalle sempre un motivo
perché desideri che tu lo faccia.
Stringila, perché a volte è difficile da amare,
eppure così rara, perché un sorriso come il suo
non ce l’ha nessuno.
Era già meraviglioso prima che ti conoscesse,
figurati adesso che il suo sorriso sei tu.
Conservalo.
22
► [Jovanotti, A te]
Lorenzo
Non avrei mai pensato di riuscire ad aprirmi tanto con una persona.
Il posto in cui voglio portare Beatrice si trova a pochi passi fuori dal
centro di Trento, si raggiunge percorrendo un lungo viale alberato ed è un
posto in cui è vietato andare di notte.
Scavalchiamo un muretto silenziosi e furtivi, senza essere visti da
nessuno, e poco dopo, nel buio, ci ritroviamo davanti a una lastra di marmo
bianco.
Ci sediamo lì per terra.
Lo sguardo di Beatrice è sereno e ha il potere di tranquillizzare anche me.
«Era tuo fratello?» mi domanda.
Annuisco. «Sì.»
Beatrice rimane qualche secondo in silenzio. «Come è successo?»
«Ha fatto un incidente in auto. Era ubriaco.»
Mentre pronuncio queste parole, stringo i pugni e Beatrice se ne accorge.
«Avevate un bel rapporto?»
«Era l’unica persona di cui mi fidassi davvero.»
Beatrice mi guarda un attimo, apre la bocca e poi la richiude senza dire
niente.
«Non ero mai stato qui, da quando è successo. Oggi è la prima volta.»
Sul suo viso fa capolino un pizzico di stupore che non riesce proprio a
nascondere.
«Quanto tempo fa è accaduto?» mi domanda, allora.
«Due anni. E a ripensarci adesso sembrano davvero passati alla svelta…»
Beatrice si mordicchia il labbro, come se volesse dirmi qualcosa ma
avesse il timore di essere fuori luogo.
«Non avere paura. Non avrei mai pensato di portare qui qualcuno,
nemmeno ci ero mai venuto, e invece ci ho portato te» le dico allora. «Mi
hai chiesto quale fosse il dolore più forte che ho provato in vita mia. È
questo.»
Lo sguardo di Beatrice si assottiglia un po’. «L’hai superata?» mi chiede.
«Non lo so. È che c’è qualcos’altro, oltre alla disperazione di averlo
perso.»
«Cosa?»
«È che sono arrabbiato.»
Non l’avevo mai detto a nessuno. Avevo lottato con i miei mostri
nascondendoli al mondo intero.
Beatrice, però, ha il potere di farmi aprire senza forzature.
Inarca le sopracciglia, stupita. «Arrabbiato?»
«Non sono mai riuscito a perdonarglielo, il fatto che fosse ubriaco. È
colpa sua.»
Lei rimane in silenzio per un po’. «C’è una cosa che nella vita, secondo
me, è più importante di saper amare, di saper prendersi cura, di saper
restare, una cosa più importante di tutto il resto. Sai qual è?»
«No.»
«Saper perdonare, Lorenzo. Perché per quanto possiamo avere il talento
di praticare tutto ciò che ho detto prima, siamo incredibilmente imperfetti. E
in quanto imperfetti sbagliamo in continuazione. Prima o poi finiamo
sempre per deluderci a vicenda. È per questo, per andare avanti, e
soprattutto per vivere sereni e senza rancori, che bisogna imparare a
perdonare.»
Rimango immobile con le braccia lungo i fianchi mentre le sue parole mi
entrano dentro e poi si perdono da qualche parte.
Non le rispondo, e sono sicuro che ormai mi conosce abbastanza bene per
sapere che non lo farò mai.
«Beatrice…» le dico invece.
«Sì?»
«Ti amo.»
Lei si volta verso di me e sgrana gli occhi.
Di certo non si aspettava che glielo dicessi così, davanti alla lapide di
mio fratello, mentre stiamo parlando di tutt’altro.
Solo che ho sentito il bisogno di farlo e non ho avuto voglia di resistere.
Beatrice non dice niente, si volta di nuovo a guardare la fotografia di mio
fratello e, delicatamente, mi prende la mano e incastra le sue dita alle mie.
È il suo modo di dirmi anche lei “ti amo”, con un gesto e non con le
parole.
Poi, poco più tardi, prima di salutarci sotto casa sua, me lo dice anche a
voce.
«Lorenzo…»
«Sì?»
«So che forse non c’è bisogno che te lo dica, ma ti amo anche io.»
Le sorrido appena, con le labbra ma anche con gli occhi.
«Lo sai perché ti amo?» le chiedo.
Beatrice scuote la testa.
«La verità è che non lo so nemmeno io. Ti amo, punto. Ho sempre
pensato che l’amore non ha spiegazioni, e che non si dovrebbe mai amare
per bisogno, ma solo perché si ama e basta. Io non mi sveglio tutti i giorni
con il bisogno di vederti, ma con il desiderio di vederti.»
Mi guarda in un modo tutto suo. «E sai perché ti amo anche io?» mi
domanda.
«No, perché?»
«Perché odio la pioggia, ma se ci stiamo baciando può anche diluviare,
non me ne importa niente.»
Questa è stata l’ultima volta che io e Beatrice siamo stati qualcosa.
23
A volte ci vuole il coraggio di dire basta
Elisabetta
Poco più tardi, mentre siamo sdraiati di schiena e ancora nudi, ognuno
nel suo lato del letto, serro i pugni sotto le lenzuola e mi faccio forza.
«Alessandro…» gli dico.
«Sì?»
«Devo dirti una cosa…»
«Che cosa?»
Mi sembra di non avere più nemmeno un filo d’aria nei polmoni.
«Scusami. È che non so da dove cominciare…»
Lui si muove appena sul materasso ma non dice nulla.
Ho la sensazione, però, di percepire una leggera agitazione
nell’impercettibile modificarsi del suo respiro.
Alla fine lo dico velocemente, per fare in modo che le mie parole
rimbombino per meno tempo possibile tra queste mura.
«È da un po’ di tempo che mi scrivo con un altro uomo…»
Alessandro rimane zitto per qualche secondo.
Poi mi dice solamente: «Lo so».
@leparoledimarco
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24
► [Briga, Rimani qui]
Lorenzo
A volte non serve sentirsi dire “addio” per sapere che è a quello che si è
giunti.
Gli addii più veri sono quelli senza parole, quelli sussurrati con le dita
mentre facciamo l’amore con qualcuno per l’ultima volta, quelli detti in
silenzio, con un messaggio che rimarrà per sempre senza risposta.
Fa davvero paura come le cose belle possano iniziare quando non te lo
aspetti e poi finire all’improvviso.
A guardarmi indietro, non saprei nemmeno dire quando è cominciata
davvero la storia tra me e Beatrice: se su quel balcone, l’anno scorso,
oppure nel nostro primo intrecciarsi di sguardi, nell’appartamento di Gaia, o
il giorno in cui ci siamo nascosti in soffitta e ci siamo raccontati come non
avevamo mai fatto prima.
Quello che so, però, è il momento esatto in cui ho cominciato a sentire
Beatrice lontana, così, tutto a un tratto, il giorno dopo che il suo “ti amo”
appena sussurrato mi era entrato dentro fino allo stomaco.
È successo la mattina successiva, quando mi sono svegliato con il suo
profumo ancora addosso e le ho scritto un messaggio al quale lei, però, non
ha mai risposto.
25
Sai che cosa mi manca? Sentirmi protetta
Elisabetta
Lorenzo
Elisabetta
“Sono sola perché ho capito che fa meno male così, piuttosto che avere
accanto la persona che amo e sentirmi sola lo stesso.”
È questa la frase che ho imparato a ripetermi per difendermi, dopo che il
mio matrimonio con Alessandro è definitivamente andato a rotoli, perché
ho capito che, agli occhi degli altri, se a quarantacinque anni hai fallito in
amore significa che hai fallito su tutta la linea.
Mi ero innamorata di Alessandro quando avevo cominciato a capire che
il nostro era un amore che non faceva promesse, ma le manteneva, e così mi
ero illusa che tutto ciò che avevamo costruito negli anni fosse
indistruttibile.
Adesso, invece, devo imparare ad accettare che non era così.
E ci vuole tanto coraggio.
Ci vuole coraggio a trovare da qualche parte la voglia di preparare quella
colazione che una volta preparavi per due, e che adesso invece prepari solo
per te, ci vuole coraggio a uscire di casa, al mattino, andare a scuola ed
essere sempre gentile con i miei studenti, sforzandomi di non rovesciare
addosso a loro la mia vita privata.
Ci vuole coraggio per vivere le giornate con il cuore rotto a metà, per
raccontarti che andrà tutto bene e che, alla fine, quelle che stai lasciando
andare sono due mani come tante altre, che non avevano poi niente di così
speciale.
Soprattutto, ci vuole coraggio a pensare non tanto a quello che è
successo, ma a quello che accadrà.
Perché la verità è che niente sarà mai più come prima e tutte quelle
certezze fatte di mani, sguardi e sorrisi che eri riuscito a mettere in piedi
negli anni adesso sono andate in frantumi, insieme a tutto ciò in cui hai
creduto fino a quel momento.
Nei giorni seguenti alla notte assurda in cui abbiamo deciso di dirci
addio, Alessandro è passato da casa per prendere le sue cose, mentre io non
ero in casa e i bambini erano a scuola.
Con loro abbiamo affrontato la questione separatamente, con la
delicatezza di due genitori intelligenti che però non hanno voglia di venirsi
incontro.
Virginia è scoppiata a piangere e Federico, facendomi commuovere, le ha
preso la mano e gliel’ha stretta forte.
Io ho utilizzato questi giorni per metabolizzare tutto quello che sta
succedendo e affrontare la situazione come dovrebbe fare una donna adulta.
Un giorno però, quando sono rientrata da scuola e ho trovato la casa
svuotata da qualsiasi cosa mi raccontasse di Alessandro, sono dovuta
correre da Marianna per cercare di non pensare.
Di non pensare, per esempio, all’emozione del giorno in cui Alessandro
mi ha chiesto di andare a vivere insieme.
Io avevo finito l’università da poco meno di un anno, lui aveva appena
cominciato a lavorare, ed era trascorso un anno e mezzo dal nostro primo
appuntamento sulla banchina di quella metropolitana che aveva cambiato
per sempre le nostre vite.
Era una sera di fine gennaio, fuori c’era un freddo che entrava fin dentro
le ossa, io e Alessandro eravamo seduti uno di fronte all’altra, separati dal
tavolino di un ristorante raffinato, e lui mi aveva semplicemente detto,
senza tanti preamboli: “Ti va di andare a vivere insieme?”. Io avevo
risposto sì, senza pensare che avrei dovuto lasciare Roma, il mio lavoro, i
miei amici.
Eppure, non ho mai avuto il benché minimo dubbio che quella fosse la
risposta giusta. Semplicemente perché me la sentivo dentro.
I mesi successivi furono fra i più belli della nostra storia: il mio petto era
gonfio di gioia, Alessandro custodiva negli occhi una luce che gli avrei
visto addosso poche altre volte, insieme ci sentivamo due pezzi di un puzzle
che si incastravano alla perfezione.
Mi trasferii a Trento alcuni mesi più tardi, insieme al primo sole di
primavera: il tempo di organizzare tutto al meglio, di salutare le persone che
amavo, di trovare lavoro come barista in centro. Un lavoro che non era
certo il mio sogno, ma che per il momento mi dava la possibilità di costruire
quello con Alessandro.
Avevamo affittato un vecchio bilocale fuori città, così malconcio che
avevamo passato le prime settimane a pulirne ogni angolo, ad aggiustare
ante e cassetti, a svuotare le vite che avevamo inscatolato e a giocare a
infilarle negli armadi per farci stare tutto.
Con il passare delle settimane, quel gioco di incastri l’avevamo messo in
atto nelle nostre vite, per smussare i piccoli difetti che ci rendevano diversi,
per capire i silenzi ed esserci lo stesso, per smorzare sul nascere minuscole
discussioni che avrebbero potuto allontanarci.
Avevamo appreso l’arte del modellarci, del comprendere, del farsi un
attimo da parte, delle carezze al momento giusto. Tutte piccole meraviglie
con le quali avevamo decorato la nostra casa trasformandola, nonostante
tutto, in un posto accogliente in cui tornare a fine giornata, e soprattutto in
un posto nostro.
A ripensarci così adesso, mentre sono seduta comoda sul divano bianco
della nostra attuale casa, in un soggiorno grande da solo come tutto
l’appartamento di allora, sento nella gola una piccola malinconia che nasce
dalla consapevolezza che allora avevamo poco, ma in realtà avevamo tutto,
mentre ora abbiamo tutto e non siamo più capaci di essere felici.
Vivevamo in una casa imperfetta, ma non dimenticherò mai la sensazione
di pura felicità che provavo nell’accendere una candela durante la cena o
l’emozione di uscire solo per comprare le tazzine della colazione come
piacevano a noi.
Rendere unico il posto in cui ci ritrovavamo ogni giorno era un modo
come un altro per prenderci cura del nostro amore. Un’arte del coccolarsi
che abbiamo perso nel tempo, quando siamo cresciuti, quando non siamo
più stati bravi a trasformare i litigi in un sorriso e abbiamo iniziato a farli
diventare discussioni, quando abbiamo potuto permetterci una casa grande
con un giardino, che però forse non calzava più a pennello con i nostri
sentimenti.
Leggerezza.
È questa la parola che custodisce il segreto di ciò che eravamo, e il
segreto di ciò che ogni coppia dovrebbe essere.
Perché fino a quando abbiamo saputo conservare quella leggerezza io e
Alessandro ci siamo sempre sentiti nel posto giusto.
Le storie più serie sono quelle che non si prendono sul serio, quelle che
non si dimenticano di ridere e di lasciarsi liberi. Sono quelle che sanno
stupirsi ancora dopo tanti anni, quelle in cui ci si minaccia di andare via ma
poi la sera ci si ritrova sempre nello stesso letto con le mani intrecciate
sopra le coperte.
Quando finisce la leggerezza, invece, cominciano i vuoti. E dove ci sono
i vuoti, piove dentro.
E quando piove dentro piano piano tutto si allaga, e ci si dimentica di
come si fa a essere felici.
Io però spero tanto che, nonostante tutto, Alessandro possa ricordarsi di
me. Se potessi scegliere come, vorrei che mi pensasse sempre come la
donna con cui si è sentito più bello.
Sono sicura che, in fondo, comunque sarà così.
Chissà cosa succederà, adesso.
Chissà se arriverà il giorno in cui proveremo a sostituirci con qualcun
altro.
Chissà se ci renderemo conto che ci sono vuoti che pesano di più, quando
si tenta di colmarli con chiunque.
Lorenzo
Non sono mai stato bravo a scrivere, però mi è sempre piaciuto tanto, e al
liceo, in questi anni, ho avuto una professoressa d’italiano che ho amato fin
dal primo giorno.
Non è perfetta, però è comprensiva, non spiega in modo impeccabile, ma
dalla sua voce trapela una passione che è riuscita a trasferire a molti di noi.
E poi mi piace perché ha sempre preferito un approccio meno formale di
altri insegnanti. Ricordo che il primo giorno, quando è entrata in classe, ci
ha detto che avrebbe preferito essere chiamata per nome, ma che questo non
significava che dovessimo avere meno rispetto per il suo ruolo.
E devo dire che la sua strategia ha funzionato: le diamo del tu e nessuno
di noi si è mai fatto beccare impreparato nella sua materia.
Sono sempre andato a scuola un pochino più volentieri, quando sapevo
che quel giorno avrei avuto lei.
Oggi, però, Elisabetta è entrata in classe e ci ha chiesto di fare un tema
sui sogni: un argomento di cui in un altro momento sarei stato felice di
scrivere ma che invece adesso fa a pugni con la mia vita.
Perché fino a qualche giorno fa, a pensarmi nel futuro, ci vedevo dentro
Beatrice, e avevo la sensazione che mi si sarebbero aperte una miriade di
altre possibilità.
Adesso che Beatrice non c’è più, invece, nel mio futuro mi sembra di non
vederci proprio niente.
https://www.youtube.com/watch?v=SWWeRZGaIDU
29
Alla fine di una storia i difetti diventano mancanze
Elisabetta
Qualche volta, le sere in cui Alessandro era via per lavoro, mettevo a
letto Virginia e Federico e mi sembrava di ritrovarmi in una casa stanca
come la nostra voglia di lottare per non perderci.
All’inizio mi sono sentita sola, nonostante alle assenze di mio marito
fossi abituata. Quella che avevo addosso era una sensazione diversa, perché
non avevo più nessun ritorno da aspettare.
Ci siamo accordati che Virginia e Federico avrebbero trascorso una
settimana con me e una settimana con lui, e quando continuo ad avere la
possibilità di vederli giocare in soggiorno riesco a trovare da qualche parte
un appiglio, un senso a tutto ciò che ci sta accadendo.
Se invece sono a casa da sola, mi lascio andare.
Dopo così tanti anni, aggirarmi improvvisamente per la casa vuota e
silenziosa è davvero surreale.
Alessandro è riuscito ad affittare, in fretta e furia, un bilocale piccolo ma
accogliente appena fuori città, e un po’ lo invidio, perché ogni centimetro
delle mura in cui vivo io trasuda della nostra storia, e certe volte fa tutto
così male che mi sembra di scoppiare.
Marianna mi sta più vicina che mai, e non so davvero come farei se non
avessi la fortuna di avere un’amica come lei.
Le prime settimane, quando Virginia e Federico erano da Alessandro,
Marianna non mi lasciava quasi il tempo di respirare, e le prime notti si è
offerta di dormire qui con me. L’ho apprezzato tanto, perché mi ha aiutato a
non sentirmi completamente sola.
Poi, piano piano, senza rendermene conto, mentre fuori dalla finestra il
mondo cominciava a vestirsi di sciarpe e giacconi, ho sentito i passi timidi
con cui ho iniziato a passeggiare nella mia nuova vita farsi sempre più
sicuri. Tutto a un tratto, in un momento che non dimenticherò mai, mentre
ero seduta da sola al bar a fare colazione, mi sono guardata attorno e mi è
sembrato di vedere tanta bellezza, una bellezza che prima non riuscivo più a
cogliere, e mi sono commossa, provando una sensazione di attaccamento
alla vita che avevo sperimentato poche altre volte.
È stato proprio da quel momento lì, quando ormai cominciavo a credere
che non fosse più possibile, che ho ricominciato finalmente ad ascoltarmi
dopo un’infinità di tempo, riscoprendomi in tante piccole sfaccettature che
chissà dove avevo nascosto.
Tramonto dopo tramonto, ho ripreso ad apprezzare l’aria, le nuvole, i fili
d’erba calpestati dal vento, e a guardare la vita da una prospettiva nuova.
Molto spesso, in effetti, è tutta questione di prospettiva.
Ho imparato di nuovo a meravigliarmi di fronte a piccoli dettagli che da
bambina mi lasciavano a bocca aperta e che crescendo, proprio come è
successo con Alessandro, avevo cominciato a vivere come banali
quotidianità: il sole che mi sfiora la pelle, la pioggia che mi inzuppa i
vestiti, la voce dei miei figli, i sorrisi di Marianna, i contorni dell’orizzonte,
il cibo sulla tavola, l’acqua che prende forma nel suo contenitore.
Tutto ha cominciato ad avere un nuovo significato per me: ci sono giorni
in cui mi sembra di essere appena nata, una bambina che ha bisogno di
guardare, toccare, annusare ogni cosa.
Odoro i fogli bianchi, i colori con cui Virginia si pittura la faccia, i vestiti
di Federico, i fiori, le tazzine di caffè, il pane appena sfornato, le persone.
Ho scoperto che Marianna profuma di rose. Virginia e Federico invece mi
ricordano l’odore del latte, perché fanno venire voglia di alzarsi e fare
colazione.
E ho riscoperto anche il piacere di vivere in questa città, perché Trento,
così piccola e a misura d’uomo, con la sua quiete e le vie che ormai
conosco a memoria, mi ha offerto una nuova bilancia per pesare i dettagli
della vita. E mi ha fatto crescere. E ha fatto crescere dentro di me una donna
diversa: una donna capace di volersi bene, di sentirsi importante senza sensi
di colpa, di credere in se stessa.
Ho ritrovato la magia di stare a casa con il televisore spento, di un bagno
caldo, di cucinare una torta. Ho riscoperto la bellezza del rapporto con gli
altri: tenere lo sguardo fisso su di loro, viverli, condividere un momento con
le persone che ami, leggere un libro, scrivere una lettera, sedermi in
giardino ad ascoltare il silenzio.
Solo alcune settimane fa, mi sembrava tutto un mucchio di attimi e
dettagli senza valore. Adesso, invece, davanti a me si schiude la potenza
della vita e delle sue forme. Tutto mi colpisce e diventa parte di me.
Eppure, è sempre stato tutto qui.
Forse ero solo io a non esserci più.
Non sono mai stata troppo ordinata: ho sempre avuto il vizio di lasciare
le scarpe dove capita, e i piatti da lavare fino a sera, i vestiti accumulati
sulla sedia.
Ultimamente invece ho riscoperto l’importanza di dare il giusto valore
agli oggetti e mi sono presa cura della mia casa come se la trovassi di nuovo
rara e preziosa.
Mi sono accorta che ho trascorso anni a fare tantissime cose
contemporaneamente, perché avevo così poco tempo che ho cercato di farci
stare dentro tutto.
Ora, però, che sto riscoprendo la bellezza del vivere senza fretta, mi sono
accorta che prima facevo tanto ma non vivevo nulla per davvero.
E così, alla luce di tutte queste scoperte, mi sono ripromessa che,
comunque andranno le cose con Alessandro, non dimenticherò ciò che ho
imparato in questo periodo, e lo porterò con me nella vita che mi aspetta.
Nonostante tutto, comunque, devo ammettere che ci sono giorni in cui
non mi manca Alessandro, mi mancano i suoi dettagli e i suoi difetti: come
quando mi svegliava solleticandomi con i capelli e io mettevo il broncio,
come il suo vizio di baciarmi la fronte quando io avrei voluto un bacio sulle
labbra, come quando era geloso di me e io mi arrabbiavo.
È strano pensare a come cerchiamo i pregi ma poi ci innamoriamo dei
difetti, a come odiamo alcuni dettagli e poi, quando l’amore finisce, ci
accorgiamo di quanto ci piacevano, di come l’amore più forte è spesso
quello che se ne è andato.
Ci sono cose che prima non mancano mai, e che poi mancano sempre.
La verità è che spesso si torna indietro quando ormai è troppo tardi, ci si
cerca quando il segreto sarebbe stato non perdersi.
Mi manca ciò che eravamo, mi manca fare l’amore con Alessandro e mi
manca quella sensazione di essere desiderata come succedeva all’inizio,
quando qualsiasi posto andava bene per spogliarci; quando eravamo così
felici, spensierati e ribelli che non potevamo resistere al desiderio e
diventavo sua sul sedile posteriore della macchina, in spiaggia, al bagno
dell’università, su una panchina di un parco nel quale eravamo entrati di
nascosto di notte, solo perché avevamo voglia di fare l’amore e non
potevamo aspettare.
Tutto questo, negli anni, si è perso, e fare l’amore è diventato un
appuntamento del sabato mattina, mentre Virginia e Federico erano a
scuola.
A volte avevo la sensazione che lo facessimo solo perché andava fatto,
perché non volevamo aggiungere un altro problema a tutti quelli che
avevamo già.
Quante volte avrei voluto guardare Alessandro negli occhi per fargli
capire che avevo bisogno di una scossa, quante volte, la sera, quando
uscivamo a cena e passavamo davanti a quel parco, avrei voluto che mi
prendesse la mano e senza dire niente mi portasse su quella panchina, solo
perché all’improvviso mi aveva vista di nuovo bella da non poter aspettare.
Dentro di me lo so che è giusto così e che Alessandro ha avuto il
coraggio di non rimandare una decisione che io, forse, non sarei mai
riuscita a prendere.
Eppure, qualche volta mi sento sbagliata lo stesso.
Mi sento sbagliata quando piango per lui di nascosto, quando cerco
ovunque briciole di lui, quando guardo fuori dalla finestra e una piccola
parte di me desidera vederlo tornare e dirmi: “Scendi amore, sono qui”.
Mi sento sbagliata quando stringo i pugni e spero con tutta me stessa che
lui possa sentire la mia mancanza come io sento la sua.
Mi sento sbagliata perché lui è riuscito ad allontanarmi e perché io
gliel’ho permesso, e soprattutto perché, negli ultimi mesi, forse l’ho
allontanato più di quanto volessi far credere a lui, anche se non sono mai
riuscita a smettere di amarlo.
Il problema però è che, in fondo, ancora adesso, per me felicità significa
fare colazione con lui, Virginia e Federico, tutti insieme, la domenica
mattina.
Sono rimasta a fissare quel foglio per diversi minuti, immobile, con la
penna a mezz’aria, stupita.
Un po’ perché proprio non me lo aspettavo.
Un po’ perché in quel foglio mi pareva proprio di vederci me.
30
► [Coez, La musica non c’è]
Lorenzo
Elisabetta
Lorenzo
Elisabetta
Non è stato facile toccare le corde giuste del cuore di Lorenzo per
convincerlo che poteva fidarsi di me, anche perché non è abituato a fidarsi
di qualcuno, gliel’ho letto sul viso.
A dire il vero, non si è lasciato andare del tutto, ma ha scelto con cura le
parole e mi ha raccontato solamente qualche frammento di tutta la storia.
Mi ha detto di Beatrice, di come si sono innamorati, del giorno in cui lei è
scomparsa. Niente di più. «Ecco, forse, è per questo che ho lasciato il tema
in bianco» conclude alla fine.
«Perché Beatrice è andata via?»
«No, perché è difficile avere dei sogni quando senti troppo dolore
dentro.»
Penso per un attimo al dolore che sento dentro anche io, tutti i giorni, e
dico che ha ragione.
Poi, però, penso anche a qualcos’altro, forse molto più importante.
«I sogni, però, ci salvano. Non ci hai mai pensato? Di cosa è fatta la
nostra vita se non di amore e sogni? Quando qualcosa non va, quello che
dobbiamo fare è proprio aggrapparci con entrambe le mani a una di queste
due cose, per tirarci su dal burrone in cui siamo caduti.»
Lorenzo adesso mi guarda.
Allora glielo chiedo di nuovo.
«Qual è il tuo sogno?»
«Suonare. Amo suonare. Non lo so se sono bravo per davvero, ma so che
farlo mi rende felice. E che se penso a qualcosa di mio, penso sempre a
questo.»
«Che cosa suoni?»
«La chitarra…»
«Vorresti suonare, quindi. Ti piacerebbe vivere di questo, un giorno?»
Annuisce, quasi con vergogna.
«Posso chiederti un’altra cosa, Lorenzo?»
«Certo…»
«Perché ne parli in questo modo? Quasi con timore e imbarazzo. Devi
difendere con orgoglio le tue passioni. Devi farlo sempre.»
«Sì, è solo che…»
S’interrompe.
«È solo che?» lo incoraggio io.
«È solo che non l’ho mai detto a nessuno. Forse non l’ho mai detto
nemmeno a me stesso.»
«Come mai?»
«Perché è un sogno che viene bistrattato. Come qualsiasi altro, quando si
parla di arte: dipingere un quadro, fare l’attore, scrivere un libro. Oggi,
quando qualcuno ti dice che nella vita vuole suonare, viene guardato come
uno che nella vita non vuole fare niente.»
Gli poggio di nuovo una mano sulla spalla. «Secondo me, nella vita
bisogna imparare che quello che pensano gli altri, alla fine, conta sempre
poco. Anzi, molto spesso non deve contare proprio niente. L’importante è
sempre quello che pensi tu. Perché nessuno può dirci che cosa vale per noi e
che cosa no, soprattutto quando si parla di sogni. E poco importa se il
nostro sogno può sembrare complicato da raggiungere. Se è difficile, vuol
dire che non è impossibile. Sai cosa penso? Penso che ognuno di noi dovrà
lasciare alcuni dei suoi sogni a marcire nel cassetto, un giorno. È
inevitabile. Ma provare a realizzarli non costa niente. Quello che invece può
costare caro, è vivere con il rimpianto del “forse ce l’avrei fatta se…”. Io ti
auguro questo. Ti auguro di non dire mai: “Forse ce l’avrei fatta se…”»
Lorenzo
https://www.youtube.com/watch?v=At_9zjkGP8Y
32
► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 2]
Lorenzo
Elisabetta
Ciao Bea,
mi manchi, sai?
E ora che siamo lontani mi sono accorto che mi manca la
quotidianità. Sì, proprio quella che di solito invece fa tanta
paura.
Mi sembra che ci siano tante piccole cose di cui non
posso più fare a meno: ricevere un tuo messaggio quando
non me lo aspetto, sorridere dei tuoi capelli arruffati, vederti
arrivare sotto casa, passeggiare con la voglia di stare mano
nella mano, bere un bicchiere di vino insieme e sentire le tue
labbra che pronunciano il mio nome. E abbracciarti da
dietro e sentirti rabbrividire per il mio respiro sul tuo collo.
E farmi abbracciare da te.
Sono bravo nell’arte di schivarli, gli abbracci.
Tu però sei l’unica persona al mondo che non avrei mai
mandato via, perché quando vorrei urlare, piangere,
scappare, mi basterebbe un tuo abbraccio.
Volevo dirti che non sono arrabbiato con te, e neanche
deluso, o rancoroso. Sono arrabbiato con la vita. Con quella
vita che a volte mi sembra troppo ingiusta per poterla
perdonare.
E ho paura. Paura di dover ricominciare, e di non essere
capace di farlo, e di arrivare a un punto in cui farò pagare
agli altri il dolore che mi hai procurato tu.
Non avresti dovuto farlo.
Dentro al petto sento battere un cuore fragile che ha
sempre cercato di essere abbastanza forte, ma che non lo è
per davvero.
Non so come sei riuscita a farmi tuo così in fretta.
Forse doveva semplicemente andare così, forse perché tu
sei come nessun’altra.
Sei i tuoi silenzi, sei come cammini, come guardi, come ti
arrabbi, come accarezzi, come scappi, come torni, come
scappi ancora.
Sei le parole che nascondi, la timidezza delle mani, i baci
che mi hai rubato.
Sei come sorridi, come piangi, come balli.
Tu sei unica, e invece continui a desiderarti diversa.
Anche se non ci rivedremo più e dovrò abituarmi alla tua
assenza, ti sto scrivendo questa lettera proprio per questo,
perché vorrei augurarti una cosa.
Vorrei augurarti il talento di guardarti allo specchio e
scovare le tue meraviglie, e quello di parlare sempre delle
cose di te che ami: che sai essere debole ma sempre
abbastanza forte, che hai lasciato indietro qualche bacio in
sospeso ma hai avuto il coraggio di prenderti le uniche
labbra che contavano davvero, che spesso hai perso ma che
qualche volta hai anche vinto. Vorrei parlassi sempre di
quello che ti rende felice: di quando ti arricci i capelli, o ti
metti una gonna a fiori, o cammini a piedi nudi sulla sabbia.
Ti auguro una vita così: una vita a piedi nudi sulla
sabbia.
Soprattutto, vorrei la smettessi di volerti diversa, ché sai
far innamorare anche così.
E poi vorrei augurare una cosa pure a me.
Vorrei augurarmi di non aver bisogno di tutto ciò che ho
scritto fino adesso, perché arriverà il momento in cui ci sarò
di nuovo io al tuo fianco e potrò parlarti sottovoce e guidare
i tuoi passi, così come tu guiderai i miei.
Ci ho provato, sai? Ci ho provato davvero a dimenticarti,
ma più cerco di allontanarti e più mi allontano da me stesso.
Avrei dovuto immaginarlo che non ci si libera facilmente
da ciò che si ama, e io ti ho amata in tutti i modi, perché è
così che si fa quando tieni davvero a qualcuno.
A volte, quando ho voglia di farmi male mi leggo i tuoi
messaggi e improvvisamente sembri ancora più lontana.
Quando capita, mi rendo conto che non è questo il mio posto,
e che quello non è il tuo.
E allora non ascolterò chi mi dice che no, non dovrei
venire a cercarti, ma farò il contrario.
In questi giorni ho pensato ai sogni, e ho capito che sono
importanti, ma ho capito anche che si sogna meglio in due.
Perché ci voglio credere, lo sai?
Voglio credere che questa non sia la fine, che l’amore
possa bastare sempre, al di là di qualsiasi etichetta, della
nostra famiglia, di ogni pregiudizio.
Voglio credere che fra tutti gli occhi che incontrerò gli
unici che guarderò saranno sempre i tuoi.
Voglio credere ancora nelle nostre canzoni.
E tu?
Ti amo,
Lorenzo
Lorenzo
«Ciao.»
Beatrice pronuncia quelle quattro lettere con un pizzico della dolcezza
che la sua voce indossava una volta e mi si capovolge il cuore.
«Ciao» le rispondo, con le braccia lungo i fianchi, ancora immobile
davanti alla porta. «Come sei entrata?»
Beatrice alza le spalle. «Non è un segreto per me, questo posto. Mi avevi
mostrato dove tieni le chiavi, no? Per entrare nel palazzo è bastato suonare
un campanello a caso e fingere di essermi chiusa fuori.»
Le sue labbra si arricciano divertite, e non posso farci niente, lo fanno
anche le mie.
«Scusami…» mi dice poi, corrugando la fronte.
La guardo alzando appena un sopracciglio. «Per che cosa?»
«Per essere venuta qui di nascosto, come una ladra.»
Nonostante tutto, decido di risponderle proprio come vorrei.
«Non hai mai avuto bisogno di un invito, per venire qui.»
Beatrice sorride in un sospiro. «Avevo voglia di tornare in questo posto.
E poi, lo ammetto, ho proprio sperato che salissi qui anche tu. Spero di non
disturbarti…»
Finalmente, dopo essermi richiuso la porta alle spalle, faccio qualche
passo dentro la soffitta.
Quanto mi era mancato il profilo di Beatrice in questa penombra.
«Non disturbi…»
«È che volevo dirti una cosa…»
Mi siedo lì di fronte a lei, come la nostra prima volta fra quelle mura,
ormai un bel po’ di tempo fa.
«Cosa?»
«Volevo dirti che non ci riesco.»
La guardo sorpreso, senza capire. «Non riesci a fare che cosa?»
«A stare senza di noi.» Il mio cuore perde un battito. Lei continua: «C’è
stato un attimo, quando sono stata costretta a fare a meno di noi, in cui
qualcosa dentro di me si è rotto. Ed è come se fossi rientrata nella mia pelle.
Il mondo mi è apparso diverso, senza di te. Più rude. Più difficile. Ho avuto
bisogno di tantissima forza in queste settimane, sai? E di coraggio. Persino
una cena con gli amici, un film la sera, un cappuccino, una domenica da
sola. Tutto mi è sembrato nuovo, senza di noi. Ma un nuovo che sapeva così
tanto di vecchio da sentirmi persa».
«Non dire così…» È come se non avessi più aria nei polmoni.
«Ho persino tentato di guardarmi attorno. Mi ero già scordata di quanti
sconosciuti ci fossero al mondo e di quanto fosse difficile sentirsi
vulnerabili e fuori luogo, senza uno sguardo a cui aggrapparsi.»
Rimango zitto, perché immaginare gli occhi di Beatrice cercarne degli
altri mi spezza il cuore.
«Poi, però, una sera mi sono seduta in terrazza a fumare una sigaretta e
ho pensato a te, e le mie mani hanno cominciato a tremare come facevano
una volta. E ho capito che a loro non avrei potuto insegnare a ritirarsi, a
dosare la delicatezza, a stabilire le distanze. Le mani non le convinci mai a
smettere di cercare. E la verità, Lorenzo, è che le mie non hanno mai
smesso di cercare te.»
Beatrice fa una piccola pausa. È davvero un fiume in piena, e io non ho il
coraggio di fermarla. «C’è una cosa che hai fatto e che mi ha colpito
tantissimo» aggiunge infine.
«Quale?»
«Scrivermi quel messaggio, dopo che sono sparita, per darmi
appuntamento di notte, lungo il fiume. Era quello che avevo sempre
desiderato: un ragazzo che quando siamo sul punto di non vederci più
sappia mettere via l’orgoglio e trovare la voglia di venire da me. Anche se
ho torto, magari. Ho sempre voluto accanto qualcuno che considerasse più
importante andare avanti che avere ragione. E tu l’hai fatto. Tu l’hai sempre
fatto…»
Apro la bocca per rispondere. Poi la richiudo, e infine la riapro di nuovo.
«È così che si fa, quando si ama» dico in un sussurro.
Beatrice sorride appena, poi si volta a guardare fuori e io scorgo una
lacrima, solo una, che le riga la guancia.
«Come mai sei qui?» le domando allora.
Rivederla è stata una piccola vertigine, è vero, e il cuore che mi martella
nel petto sembra volermi dire una volta in più che è proprio lei la ragazza
che voglio accanto, ma dentro sento anche un po’ di rabbia.
Beatrice non mi risponde, continua a guardare altrove.
«Ci ho fatto stare di tutto, in queste settimane, lo sai?» continuo, di fronte
al suo silenzio. «Ho pianto, ho cercato di andare avanti, di sorridere lo
stesso. Ho trascorso notti intere a immaginare di vederti tornare, perché
nonostante tutto è sempre questo che ho voluto. Ho bisogno di saperlo.
Perché sei qui? Per dirmi che ti manco e poi andare via di nuovo? Volevi
vedere a che punto stavi fra le cose che non riesco a dimenticare?
Oppure…» Faccio una piccola pausa, poi termino la frase. «Oppure sei
tornata per restare?»
Beatrice, allora, fa un sorriso e tira su con il naso.
«Io non ci so stare senza di te, Lorenzo.»
A quelle parole stringo forte i pugni. «Vorrei con tutto me stesso poter
tornare indietro. Vorrei cancellare questa parentesi ed essere quello che
eravamo…» Faccio una pausa, densa di significato. «Ma è davvero
possibile?» le domando alla fine.
Una parte di me non desidera altro, l’altra ha così paura che vorrebbe
scappare via.
Per la prima volta leggo negli occhi di Beatrice la paura di perdermi. Una
paura vera, sincera. Una paura che mi dimostra che non mi sono inventato
niente.
«Lorenzo, non può finire così. Ti prego…» Il suo sguardo si annebbia di
lacrime e si abbassa appena per nascondersi, un gesto che le ho visto fare
tante volte e ha sempre avuto il potere di scuotermi dentro.
«Perché dovrei tornare indietro, Beatrice? Perché?»
«Perché ci amiamo, Lorenzo…» mi risponde fra i singhiozzi,
nascondendosi il viso fra le mani.
Io continuo a fissarla con i pugni serrati.
Vorrei scoppiare in lacrime.
Lei mi guarda con quei suoi occhi immensi. «Non mi ami più?» mi
domanda con la voce che trema.
«Sì, ti amo. È che ho paura. Ho bisogno di sapere che questo nuovo
inizio non avrà una fine. Ho bisogno di un motivo, Bea…»
«Siamo noi, il motivo.»
«E se poi ti scoprissero? E se facessero in modo di allontanarci di nuovo?
Avrai il coraggio di scegliere sempre noi?»
«Sai che ho capito in questo periodo? Che, in fondo, l’età conta poco. Il
mio amore non vale meno solo perché ho diciotto anni. Vale tanto. Anzi,
forse vale anche di più. E allora nessuno può dirmi come fare ad amare, e
soprattutto nessuno può scegliere per me chi devo amare. Anche perché non
lo possiamo comandare, il cuore. È lui che comanda noi…» Beatrice fa una
piccola pausa, giusto il tempo di prendere respiro. Poi prosegue, e lo fa con
il tono di chi sta per pronunciare una promessa importante. «Io non lo so
come andrà, Lorenzo. Non so se questi occhi innamorati rimarranno così
per sempre, se potrò stringerti al cuore come faccio ora e se tu avrai sempre
la voglia di sopportare tutti i miei controsensi. Però voglio dirti che non
sono tornata per andare via. Non questa volta. Ci sono e ci sarò. Ci sarò
anche se ora mi dirai di andarmene. Ti lascerò briciole di me ovunque: nelle
strade che percorrerai, nei piccoli gesti che ho dedicato solo a te, nelle
canzoni che ascolterai, nel…»
«Bea…» la interrompo.
«Sì?»
«Cos’è che ti ha fatto cambiare idea?»
«Il tuo modo di prendermi le mani, il fatto che cerco il tuo sguardo fra la
gente. La tua voce e i tuoi silenzi, che mi fanno casino dentro. E il tuo modo
di rendermi felice sempre.»
Ho deciso di fidarmi.
Avrei potuto scegliere di far vincere il mio orgoglio e di allontanare
Beatrice da quella soffitta per sempre.
Invece ho voluto seguire il cuore, proprio come ha fatto lei.
Le magie più grandi le viviamo a occhi chiusi. Il primo bacio, la prima
volta che facciamo l’amore, quando a letto ci abbracciamo da dietro,
quando prendiamo il sole l’uno accanto all’altro, quando ci sfioriamo una
mano.
A volte, chiudere è bello. Chiudere gli occhi per vedere meglio, chiudere
i pugni per farsi forza, chiudersi in casa con lei.
Così, quando Beatrice si è avvicinata a me, mi ha baciato e mi ha detto
“Ti amo” io le ho risposto: “Ti amo anche io”.
È ricominciato tutto da dove lo avevamo lasciato, perché è così che
succede a chi si ama davvero, e la nostra storia si è intrufolata nelle nostre
giornate, regalandoci attimi di pura felicità che probabilmente non mi
ricapiteranno mai più.
Non abbiamo mai smesso di darci appuntamento in soffitta.
Spesso, a mezzanotte, Beatrice si faceva trovare sotto casa, andavo a
prenderla e salivamo fino all’ultimo piano a sederci in quello che ormai non
era più il mio posto, ma il nostro.
«Come mai hai scelto me?» mi ha chiesto lei una sera.
L’ho guardata un po’ sorpreso. «Che cosa vuoi dire?»
«Perché quando sono tornata hai deciso di non mandarmi via?»
«Perché non sono tornato io, ma sei tornata tu.»
Lei ha alzato un sopracciglio. «Non capisco…»
«Perché sei stata capace di tornare sui tuoi passi. E perché ho deciso che
nella mia vita si merita spazio non chi dice di tenermi con sé, ma chi lo fa
sul serio. E tu l’hai fatto.»
Beatrice mi ha sorriso.
Non ha mai smesso di farlo da quando è di nuovo qui.
«E tu, invece?» le ho chiesto.
«Che cosa?»
«Perché hai deciso di essere ancora qui?»
«Perché quando mi immagino fra qualche anno, desidero avere accanto
un ragazzo come te. Un ragazzo con cui essere me stessa, che sia ironico e
rispettoso, un ragazzo con cui sdrammatizzare i difetti e giocare come
bambini. Un ragazzo fedele, con cui non avere paranoie, geloso ma non
possessivo, intelligente e curioso, un ragazzo con cui cantare in macchina
anche se sono stonata. Vorrei un ragazzo romantico ma non sotto le coperte,
testardo e orgoglioso, ma capace di essere dolce quando ne ho bisogno.
Vorrei un ragazzo che tenga qualcosa per me, solo per me, che sappia
toccarmi nei punti giusti, e che però non pensi solo a quello, ma anche a
tutto il resto. E tu, anche se non te ne accorgi, sei così. Esattamente così.»
Non credo di aver mai sentito il cuore così gonfio di gioia.
35
Una donna lo sente quando negli occhi del suo uomo
l’amore non esiste più
Elisabetta
Lorenzo
Siamo arrivati all’ultimo giorno di liceo così, ognuno con la sua storia,
storie che però in fondo diventano una sola: la nostra.
Una storia che ho tatuata sul cuore.
È stato strano sentire la campanella dell’ultima ora dell’ultimo giorno di
liceo, l’ho aspettata con impazienza, ma quando è arrivato il momento,
avrei voluto posticiparlo un po’, perché d’un tratto mi sono reso conto di
quanta vita c’è stata in questi cinque anni.
Una sera siamo usciti insieme, Beatrice, io e tutti i miei amici, e ci siamo
seduti in piazza a fumare e a bere qualche birra, con un po’ di musica. È
stato bello, ma all’improvviso mi sono sentito triste come non succedeva da
un po’, perché ho cominciato ad avvertire un sentore di malinconia nelle
nostre risate, come se ognuno di noi avesse iniziato a pensare al proprio
futuro. Un futuro in cui forse non saremo più tutti insieme.
Quelle che precedono la maturità sono giornate con il cuore spezzato in
due: da una parte la voglia di vivere qualcosa di nuovo, dall’altra il
desiderio di fermare il tempo e di restare per sempre così.
Non me lo scorderò mai, il mio ultimo giorno di scuola: il modo in cui io
e i miei amici ci siamo guardati prima di entrare, quel silenzio quasi
surreale che si è insinuato in classe, la nitida sensazione che quella giornata
sarebbe stata in un certo senso la fine del mondo, il nostro almeno, la
nostalgia.
Mi sono guardato attorno per fissare più dettagli possibili da portarmi via
da lì: i banchi bianchi, i sorrisi dei miei compagni, il rumore delle loro
risate, il chiacchiericcio che proveniva dal corridoio, le finestre piene di
spifferi che ci hanno fatto gelare in inverno, il vecchissimo planisfero
appeso dietro la cattedra. E ho pensato che tra queste quattro mura c’è stato
un amore grande così.
Vivere il liceo, in fondo, vuol dire questo: incidere “Ti amo” sul banco,
innamorarsi della ragazza della classe accanto, cuori infranti che pensi non
si aggiusteranno più, “per sempre” che non lo sono affatto, ma che non per
questo sono meno veri, i primi baci, il primo sesso, serate intere passate a
ubriacarsi con le persone a cui vuoi più bene al mondo, corse per non
arrivare in ritardo alla prima ora, saltare scuola e andare a prendere il sole,
storie che nascono, che finiscono, che ricominciano, che si perdonano, che
non si perdoneranno mai, tradimenti, delusioni, l’ansia per le interrogazioni,
i bigliettini nascosti nell’astuccio, le note sul registro, i pomeriggi passati a
studiare insieme ma in realtà a raccontarsi tutta la vita, le feste
improvvisate, che poi sono sempre le più belle.
E gli amici. Gli amici sempre e ovunque.
Qualche volta mi chiedo che cosa ne sarà di noi.
Chissà come saranno le nostre vite dopo l’orale di maturità, chissà dove
ci porteranno le scelte di ognuno, se qualcuno cambierà città per cercare il
proprio posto nel mondo, e quale sarà questa città, e se continueremo a
essere vicini come adesso oppure non ci vedremo più.
Le amicizie del liceo sono quelle che si ricordano per tutta la vita, anche
se magari molte finiscono nell’attimo stesso in cui si varca il portone della
scuola per l’ultima volta.
Che ne sarà di me, Roberto, Silvio, Gaia, Celeste e Sofia? E di tutti gli
altri miei compagni di classe?
Non ho idea di come andrà, so solo che non riesco proprio a scrollarmi di
dosso tutta la vita che ho vissuto fino a qui, né questa nostalgia tremenda
per qualcosa che magari non ci sarà più. E Beatrice, poi. Nell’attimo stesso
in cui abbiamo deciso di tornare insieme è cominciato a crescermi qualcosa
dentro: un pensiero. Un pensiero inizialmente minuscolo come un puntino
nel cuore e nella testa, un pensiero che però durante l’inverno, e soprattutto
con l’arrivo della primavera e l’avvicinarsi della maturità, è diventato
sempre più grande, così tanto che alla fine non ho più potuto ignorarlo. Era
giunto il momento di fare i conti con il nostro futuro.
La mia notte prima degli esami è stata la più bella, anche se l’ho trascorsa
nell’unico posto in cui non avrei mai pensato di viverla: seduto per terra di
fronte alla fotografia di mio fratello, nel cimitero dove è sepolto insieme ai
suoi sogni.
Beatrice ha sempre avuto ragione: per vivere sereni e senza rancori,
bisogna imparare a perdonare.
https://www.youtube.com/watch?v=JOjgmmCdl50
37
Vorrei tanto che tu fossi tu
Elisabetta
Quel giorno, in quella casa, sotto quelle lenzuola, mi sono sentita per la
prima volta dopo un’infinità di tempo davvero vicina ad Alessandro, come
se il ritmo del nostro cuore avesse cominciato a coincidere di nuovo.
Poi, però, sono andata via.
Non dovevo farlo veramente, ma sono riuscita comunque a trovare una
scusa credibile e sono corsa a casa a chiudermi in bagno a piangere, perché
tutte quelle sensazioni e quei ricordi erano stati troppo.
In quel momento, ho pensato anche di non volerlo vedere mai più,
Alessandro.
Poi, invece, proprio come mi aveva detto Marianna, e come aveva
cercato di farmi capire lui, ho cominciato a guardare tutto da un’altra
prospettiva.
Una sera l’ho chiamato e gli ho chiesto di venire a cena a casa.
Federico e Virginia sono stati contentissimi di vederci lì tutti quanti
insieme, però non ci hanno fatto domande, e dopo cena se ne sono andati
spontaneamente a giocare in soggiorno.
Io e Alessandro, invece, siamo rimasti in cucina.
Ho fatto il caffè e, mentre lui lo sorseggiava, gli ho detto una cosa che mi
stava a cuore.
«Sai, a casa tua, qualche giorno fa, quando ti ho detto che dovevo andare
via… be’, non era vero. Era una scusa…»
Alessandro ha sorriso. «Sì, lo so.»
«Dimenticavo, sai sempre tutto tu.» Ho sorriso. «È che ho avuto
paura…»
Alessandro si è alzato dalla sedia, ha fatto qualche passo verso di me e io,
all’improvviso, ho sentito il cuore cominciare a martellarmi nel petto.
«Ti ricordi quella volta, a ventitré minuti a mezzanotte, quando ti ho
scritto “Vorrei tanto che tu fossi tu”?»
Ho guardato mio marito con il fiato sospeso. «Il tuo primo messaggio.
Come potrei dimenticarlo?»
«Ecco. Allora pensavo di aver sbagliato numero. Invece no. Tu eri tu.»
È stato allora che ho finalmente guardato la nostra casa sotto una luce
diversa. Mi sono soffermata sui quadri e sulle nostre fotografie attaccate
alle pareti, sullo scaffale bianco ingombro di piccoli oggetti che abbiamo
raccolto durante i viaggi insieme, sulle tazzine della credenza che abbiamo
scelto insieme e che sono rimaste le stesse per tutti questi anni. Attraverso
la fessura della porta ho scorto Virginia e Federico, e mi sono detta che in
fondo questo è il mondo che ho sempre amato, e che, anche quando avevo
voglia di andare via, ho sempre avuto un posto da chiamare casa. Un posto
che non è mai stato quattro mura, ma sempre due braccia. E soprattutto,
sempre le stesse.
Alla fine, dopo qualche minuto di silenzio, sono tornata a guardare mio
marito negli occhi e ci ho ritrovato dentro quella luce che ricordavo bene e
che negli ultimi anni, invece, mi era mancata tanto. Ho guardato le sue
spalle, da cui tante volte mi sono sentita protetta, e le sue mani, le stesse che
avevo osservato quel giorno così lontano, mentre ce ne stavamo seduti in
metropolitana, con il sorriso imbarazzato del primo incontro. Le stesse che,
nonostante tutto, in questo momento stringono le mie come qualcosa di
prezioso.
Alessandro ha proprio ragione.
Io sono sempre stata io.
38
► [Pinguini Tattici Nucleari, Ridere]
Lorenzo
Cara Bea,
mancano poche ore a quello che sarà il nostro ultimo
giorno di liceo.
A partire da domani sentiremo il bisogno di vestirci da
adulti e di intraprendere strade nuove per incamminarci
verso il futuro che desideriamo.
Fino a qualche mese fa temevo di trascorrere questo
ultimo giorno senza intrecciare le tue mani, senza trovare
rifugio nei tuoi occhi.
Ma invece sei qui.
E forse non sei nemmeno mai andata via.
La verità, Bea, è che quei giorni senza di te sono stati
difficili.
Difficili tanto quanto accettare l’idea di non essere alla
tua altezza.
Un po’ l’ho sempre saputo in realtà. Fin dall’inizio.
Ma non l’ho mai voluto ammettere a voce alta.
Quando tua madre l’ha fatto mi sono sentito smascherato,
è stato come se avesse acceso un riflettore su un problema di
cui avevo cercato di tenerti all’oscuro.
Inizialmente ha prevalso la rabbia, non verso di te, né
verso di lei. Ma verso di me.
Verso la mia vita. La mia famiglia.
Ho pensato fosse l’ennesima volta che dovevo fare i conti
con una perdita.
Perché farmi incontrare i tuoi occhi se non li meritavo fin
dal principio?
Avevi portato il sole nella mia vita.
Avevo ritrovato la voglia di pensare al domani.
E quando sei andata via, hai portato tutto con te.
In quei giorni grigi, però, a un certo punto qualcosa è
cambiato.
Qualcuno mi ha chiesto di parlare dei miei sogni.
E io inizialmente ho creduto di non avere nulla da dire.
Come potevo parlare ancora di sogni quando l’unico che
avevo vissuto era appena finito?
Quando la vita mi aveva messo nuovamente faccia a
faccia con la mia inadeguatezza?
Il tuo addio aveva posato l’ennesimo mattoncino sul muro
delle mie insicurezze.
In realtà Bea, non ho mai creduto di avere il diritto di
sognare, è un lusso che non mi sono mai permesso.
Forse mi ero illuso per un po’ di poterlo fare in quelle
notti in cui i tuoi baci mi tenevano compagnia e le tue mani
mi facevano sentire in pace con il mondo.
Ma poi quando mi hai lasciato mi sono svegliato e sono
tornato alla realtà.
Una realtà in cui non credevo di poter chiedere di più, in
cui a nessuno importava di sentirmi suonare la chitarra e
nessuno cantava con me su quelle note.
Mi sentivo stupido.
Fino a quando quelle parole, arrivate in modo
inaspettato, hanno aperto un piccolo varco. E ho visto
entrare un po’ di luce. Ho visto qualcuno, che non eri tu,
interessarsi al mio sogno e parlarne come se fosse qualcosa
di vero, di bello.
Ma forse la cosa più importante è stata che ho finalmente
ammesso a qualcuno che un sogno c’è, è solamente nascosto
sotto macerie di delusioni e insicurezze.
Stare con te, Bea, mi ha spinto a pretendere da me stesso
di essere la migliore versione di me.
Ma non stare con te mi ha fatto capire che non posso
esserlo se non credo nei miei sogni. Se non provo ad
avverarli.
Stiamo vivendo un amore che non credevo nemmeno
esistesse.
Mi hai insegnato a piangere dalle risate, a baciare con gli
occhi, a credere nella possibilità di essere felici.
Mi fai credere in un sacco di cose di cui ho dubitato per
tutta la vita.
Tipo nell’amore. In me stesso.
Hai sempre reso possibile l’impossibile. Un po’ come noi
due.
Che siamo sempre stati sbagliati ma giusti.
Ed è proprio per tutto ciò che ho imparato in questo anno
con te, e senza di te, che ho deciso di darmi una possibilità.
Non so dove ci porterà la vita, Bea. Però so che vorrei
che tu avessi sempre accanto un uomo capace di sorridere e
amare la vita, come fai tu.
E vorrei tanto essere sempre io.
Per farlo, devo trovare la mia strada. Così come devi
farlo tu.
Ho immaginato spesso queste ultime ore di liceo.
Ho immaginato di vederti partire con la tua valigia di
desideri.
Ho immaginato di essere quello che resta, quello che
aspetta.
E invece adesso sono io che sto preparando la mia valigia
di desideri.
E sono pronto per partire, Bea.
Ed è un po’ anche merito tuo.
Questo non è un addio, e non è un modo per lasciarti, è
un modo per renderti orgogliosa di me.
Vorrei continuassimo a stare insieme.
Non sarà facile, la distanza sarà tanta, ma sono sicuro
che ci amiamo abbastanza da provarci.
Magari ci riusciremo. Magari saremo bravi a non
perderci nonostante saremo entrambi indaffarati a costruire
le vite che desideriamo.
Se invece la vita ci porterà da qualche altra parte, magari
chissà. Sarà solo un modo per darci appuntamento a tempi
migliori, a una versione migliore di noi.
Perché, Bea, io ti aspetterò sempre, a ogni incrocio di
vita.
Ti amo,
Lorenzo
Epilogo
Elisabetta
7 anni dopo
Lorenzo
Muovo i primi passi sul palco, davanti a tutte queste persone che
aspettano solo di sentirmi suonare, mentre nella mia testa scorrono migliaia
di frammenti della mia vita.
È l’ultima tappa del mio tour e sono finalmente a Trento, a casa mia. Qui,
davanti a tutto ciò che ho sempre amato, a fare quello che ho sempre
sognato: suonare.
Il pubblico urla e io sorrido alzando un braccio, lasciando vagare lo
sguardo, che improvvisamente viene catturato da una famigliola in fondo
alla sala, che stona un po’ con tutti i ragazzi accalcati davanti al palco. Una
signora sui cinquanta, insieme a quello che sarà suo marito e a due
adolescenti, che immagino siano i loro figli.
Lei ride un po’ sorpresa di essere lì, i ragazzi urlano insieme a tutti gli
altri, lui passa una mano dietro la schiena di sua moglie e la bacia sulla
fronte.
Non riesco a non emozionarmi per lo stupore, di fronte a un’immagine
come questa, di fronte a un amore che riesce a sprizzare felicità dopo tanti
anni.
Poi, all’improvviso, lei alza gli occhi verso il palco e, inaspettatamente, si
incastrano con i miei, come due calamite.
La riconosco, lei riconosce me e accenna un sorriso.
Per un attimo mi rivedo dentro l’aula del mio liceo, mentre quella stessa
donna, solo un po’ più giovane, mi chiede quale sia il mio sogno e mi
incoraggia a non lasciarlo andare così.
Senza le sue parole, forse, adesso non sarei qui, ma soprattutto non sarei
l’uomo che sono.
La guardo intensamente, con tutta la forza di cui sono capace, e ricambio
il suo sorriso.
Quando il suo diventa ancora più luminoso, mi viene da pensare che non
c’è niente di più bello di questo, a volte: dirsi grazie solo con uno sguardo.
Grazie alla mia professoressa di italiano, qualche anno fa, ho scelto di
non imboccare la strada più facile, che magari mi avrebbe portato in un bel
posto, ma sicuramente non in quello giusto.
Ho imparato l’importanza di saper rischiare.
Vi auguro di saperlo fare quand’è il momento.
Vi auguro la spensieratezza e il coraggio di essere chi siete, perché non
c’è miracolo più grande.
Vi auguro di essere inaspettati per gli altri, ma anche per voi stessi,
perché non siamo nati per stare al riparo, siamo nati per ballare sotto la
pioggia.
Io l’ho fatto, e sono stato fortunato, perché sono riuscito ad agguantare il
sogno che inseguivo.
Credo che, a modo loro, ce l’abbiano fatta anche i miei amici. Siamo
cresciuti e ognuno si è creato uno spicchio della propria vita in cui sentirsi
al sicuro. Qualcuno di loro si è trasferito all’estero, qualcuno in un’altra
città, qualcuno è rimasto qui ma, in mezzo a tutti gli impegni della vita,
rivedersi è sempre molto difficile.
Silvio e Celeste, comunque, sono riusciti a esserci. Sono qui, in prima
fila, e quando li vedo sento il cuore esplodermi di gioia. Li abbraccio con lo
sguardo e vedo nei loro occhi tutto l’incoraggiamento di cui ho bisogno.
E poi…
Poi, in mezzo a tanti altri volti sconosciuti, mentre percorro la sala con lo
sguardo, incontro proprio quello sguardo lì: il suo. Puntuale come è sempre
stato.
Beatrice è seminascosta dal mucchio di gente che la circonda e che però
scompare all’improvviso, non appena i miei occhi si posano sui suoi,
trovandoli già lì fissi su di me, pronti ad aspettarmi.
Ci guardiamo per un attimo che sembra infinito, un attimo in cui rivedo
tutto: le notti sul balcone, la sera sul terrazzo di Gaia, il temporale che ci ha
colti alla sprovvista lungo il fiume, i segreti della mia soffitta, i segreti della
sua casa sul lago, i suoi piedi nudi nella sabbia, le nostre labbra che si
sfiorano per la prima volta, la mia canzone nelle sue orecchie, il modo in
cui ci siamo spogliati e amati senza dircelo, il momento in cui invece ce lo
siamo detti davvero, con tutta la pancia e tutto il cuore, il giorno in cui è
scomparsa, la notte in cui è tornata solo per poi andarsene di nuovo, il
giorno in cui l’ho trovata nella mia soffitta, il modo che avevamo di amarci
e di lottare contro tutto pur di stare insieme, la lettera che le ho scritto per
dirle che dovevo andare a prendermi il mio sogno.
C’è una parola portoghese che mi piace tanto, saudade.
C’è stato un attimo, dopo che fra noi è finita, dopo tutti i pianti che hanno
prosciugato la mia voglia di amare ancora, in cui all’improvviso sono
riuscito ad andare a capo.
Quel giorno ho imparato che per andare avanti non bisogna a tutti i costi
dimenticare, ma semplicemente smetterla di guardare indietro per guardare
finalmente un po’ avanti.
Saudade vuol dire questo.
È quella nostalgia felice che ti prende quando finalmente allontani dei
ricordi che ti hanno fatto male, ma lo fai senza rancore, e capisci che le cose
belle finiscono, ma che forse, a ben pensarci, non finiscono mai di iniziare.
https://www.youtube.com/watch?v=A0Jnhu_3F5w
Post scriptum
Il concerto è finito e sono tornato nella mia stanza, quella in cui ormai non
vivo più da anni. È strano rinfilarsi sotto queste coperte, sembra quasi che il
tempo non sia mai passato e io sia rimasto quel ragazzo di diciott’anni che
non pensava di avere un sogno da realizzare.
Quel ragazzo che ha sempre tentato di non attirare l’attenzione e che
adesso, invece, non ha più paura di avere tanti occhi addosso.
Quel ragazzo che oggi si piace un po’.
Afferro il cellulare al buio e apro la schermata della mia conversazione
con Beatrice.
Ci siamo sentiti l’ultima volta cinque anni fa.
Digito solamente cinque parole.
“Scrivimi (magari ti amo ancora).”
Poi, rimango per un attimo con le dita a mezz’aria, indeciso.
Alla fine salvo il messaggio in bozze.
Lì dove tengo le parole che non avrò mai il coraggio di dire.
Ringraziamenti
https://www.youtube.com/watch?v=It7HPrbNpZU
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COPERTINA || @ ISTOCK E
@SHUTTERSTOCK | ART
DIRECTOR: FRANCESCA
LEONESCHI | GRAPHIC
DESIGNER: LUIGI ALTOMARE /
THEWORLDOFDOT
Indice
1.
Copertina
1.
L’immagine
2.
Il libro
3.
L’autore
2.
Frontespizio
3.
Scrivimi. (magari ti amo ancora)
4.
1. Mi manca sentirmi amata di nascosto
5.
2. ► [Tommaso Paradiso, Non avere paura]
6.
3. Quando impari a bastarti poi è sempre più difficile far posto a qualcuno
7.
4. ► [Gazzelle, Tutta la vita]
8.
5. Le anime affini non si cercano, si trovano
9.
6. ► [Ultimo, Quando fuori piove]
10.
7. A volte l’amore finisce, ma c’è ancora il bisogno di starsi accanto
11.
8. ► [Calcutta, Sorriso]
12.
9. Ti ricordi come sapevamo brillare, noi?
13.
10. ► [Enrico Nigiotti, L’amore è]
14.
11. Non accontentatevi di chi vi dice “sono innamorato di te”
15.
12. ► [Emanuele Aloia, Il bacio di Klimt]
16.
13. Mi manca sentirmi desiderata
17.
14. ► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 1]
18.
15. In amore non ci dovremmo mai trovare nella situazione di dover essere forti da soli, ma di
esserlo sempre in due
19.
16. ► [Achille Lauro feat. Gow Tribe, 16 marzo]
20.
17. Vietato incontrarsi
21.
18. ► [Dandy Turner, Sei bella come Roma]
22.
19. Tradire con la mente o tradire con il corpo non è poi così diverso
23.
20. ► [Salmo feat. Nstasia, Il cielo nella stanza]
24.
21. Vorrei un amore che non mi dà preoccupazioni, ma che me le toglie
25.
22. ► [Jovanotti, A te]
26.
23. A volte ci vuole il coraggio di dire basta
27.
24. ► [Briga, Rimani qui]
28.
25. Sai che cosa mi manca? Sentirmi protetta
29.
26. ► [Ligabue, Ho messo via]
30.
27. Ci sono vuoti che pesano di più quando si tenta di colmarli con chiunque
31.
28. ► [Franco126 feat. Tommaso Paradiso, Stanza singola]
32.
29. Alla fine di una storia i difetti diventano mancanze
33.
30. ► [Coez, La musica non c’è]
34.
31. Vorrei un uomo capace di corteggiarmi anche dopo avermi già conquistata
35.
32. ► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 2]
36.
33. Tieni vicino chi dimostra di volerci essere e lascia andare chi non ti merita
37.
34. ► [Francesca Michielin, Distratto]
38.
35. Una donna lo sente quando negli occhi del suo uomo l’amore non esiste più
39.
36. ► [Thegiornalisti, Questa nostra stupida canzone d’amore]
40.
37. Vorrei tanto che tu fossi tu
41.
38. ► [Pinguini Tattici Nucleari, Ridere]
42.
Epilogo
43.
Post scriptum
44.
Ringraziamenti
45.
Copyright
1.
Copertina
2.
Frontespizio
3.
Scrivimi. (magari ti amo ancora)
4.
Inizio del libro
5.
Copyright
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Scrivimi. (magari ti amo ancora)
1. Mi manca sentirmi amata di nascosto
2. ► [Tommaso Paradiso, Non avere paura]
3. Quando impari a bastarti poi è sempre più difficile far posto a qualcuno
4. ► [Gazzelle, Tutta la vita]
5. Le anime affini non si cercano, si trovano
6. ► [Ultimo, Quando fuori piove]
7. A volte l’amore finisce, ma c’è ancora il bisogno di starsi accanto
8. ► [Calcutta, Sorriso]
9. Ti ricordi come sapevamo brillare, noi?
10. ► [Enrico Nigiotti, L’amore è]
11. Non accontentatevi di chi vi dice “sono innamorato di te”
12. ► [Emanuele Aloia, Il bacio di Klimt]
13. Mi manca sentirmi desiderata
14. ► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 1]
15. In amore non ci dovremmo mai trovare nella situazione di dover essere
forti da soli, ma di esserlo sempre in due
16. ► [Achille Lauro feat. Gow Tribe, 16 marzo]
17. Vietato incontrarsi
18. ► [Dandy Turner, Sei bella come Roma]
19. Tradire con la mente o tradire con il corpo non è poi così diverso
20. ► [Salmo feat. Nstasia, Il cielo nella stanza]
21. Vorrei un amore che non mi dà preoccupazioni, ma che me le toglie
22. ► [Jovanotti, A te]
23. A volte ci vuole il coraggio di dire basta
24. ► [Briga, Rimani qui]
25. Sai che cosa mi manca? Sentirmi protetta
26. ► [Ligabue, Ho messo via]
27. Ci sono vuoti che pesano di più quando si tenta di colmarli con
chiunque
28. ► [Franco126 feat. Tommaso Paradiso, Stanza singola]
29. Alla fine di una storia i difetti diventano mancanze
30. ► [Coez, La musica non c’è]
31. Vorrei un uomo capace di corteggiarmi anche dopo avermi già
conquistata
32. ► [Alfa, Testa fra le nuvole - parte 2]
33. Tieni vicino chi dimostra di volerci essere e lascia andare chi non ti
merita
34. ► [Francesca Michielin, Distratto]
35. Una donna lo sente quando negli occhi del suo uomo l’amore non esiste
più
36. ► [Thegiornalisti, Questa nostra stupida canzone d’amore]
37. Vorrei tanto che tu fossi tu
38. ► [Pinguini Tattici Nucleari, Ridere]
Epilogo
Post scriptum
Ringraziamenti
Copyright