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“INFERNO”

DI DANTE

ANALISI
CANTI I-X

Analisi a cura di Alessia Ricci Bitti.


Elaborate sulla base dell' “Inferno” di U.Bosco e G. Reggio, dei materiali presenti sul sito weebly.com e di quelli forniti dai
professori F. Sberlati e A. Di Franco.
La pubblicazione, trasmissione o diffusione di questo materiale sono vietate senza previa autorizzazione.
CANTO I
Il canto primo dell' “Inferno” funge da proemio all'intero poema.
Come si addice ad un poema allegorico, è intriso di rappresentazioni allegoriche; ciononostante,
tutto il canto ha il pregio di una grande concretezza e icasticità, tanto da risultare avvincente alla
lettura anche a chi non conoscesse il significato allegorico dei singoli elementi.
I primi 30 versi trattano dello smarrimento di Dante in una “selva oscura”, avvenuto
nell'anno 13001, dunque a trentacinque anni di età.
Dante non sa dire come è finito in tale selva, poiché il suo animo era assonnato e intorpidito.
La selva significa, per Dante, un momento di traviamento spirituale, da cui lo libereranno la
considerazione delle gravi conseguenze del peccato (Inferno), l'espiazione (Purgatorio) e la
speranza dell'eterna beatitudine (Paradiso).
Smarrita la “diritta via”, ossia la via della virtù, anche denominata (al verso 12) “verace via”, egli
deve dunque compiere un cammino di redenzione.
Il cammino di salvezza che egli deve compiere in qualità di “homo viator” (uomo che segue una
via) è additato come cammino di salvezza dell'umanità tutta: egli scrive, infatti, “mi ritrovai” nel
mezzo del “cammin di nostra vita”.
Giunto al limite della selva, si ritrova ai piedi di un colle, dalla cui vetta vede spuntare i
primi raggi del sole. Questo lo conforta: “Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor 2
m'era durata la notte ch'i passai con tanta pieta”.
La rinnovata speranza lo spinge a tentare la scalata del colle, dopo essersi riposato per qualche
istante e aver ripensato al pericolo appena corso (come un naufrago che guarda le acque in
tempesta dalle quali è appena scampato).
Il colle rappresenta la via in salita della virtù.
Per accorgersi che il colle è illuminato dal sole, Dante guarda “in alto”: lo sguardo verso l'alto
indica l'anelito del poeta alle realtà eterne, in contrapposizione alle cose effimere e transeunti del
mondo. L'espressione “guardai in alto” è memore del Salmo 120: “Alzai i miei occhi verso i
monti”.
Come già accennato, il poeta decide di salire: “ripresi via per la piaggia diserta” - si legge al verso
29 - dove la “piaggia diserta” è da intendersi come il pendio che porta all'erta del monte.
Salendo, però, “'l piè fermo” è sempre “'l più basso”: il piede fermo, non in movimento, è quello
più in basso; tale immagine rimanda alla poca vigoria e sicurezza del poeta, ancora impacciato
dalle passioni terrene: i piedi sarebbero dunque da interpretare come i “piedi dell'anima” di cui parla
Sant'Agostino.
Apprestandosi a salire, vede tuttavia una lonza che gli sbarra il cammino.
Appaiono, inoltre, un leone che avanza minaccioso ed una lupa magra e affamata, che sembra
“carca ne la sua magrezza”, ossia carica di ogni cupidigia, e che ricaccia Dante, a poco a poco,
nella selva oscura.
La lonza è allegoria della lussuria, il leone della superbia (ha la “test'alta”, come chi è arrogante),
la lupa della cupidigia.
La lupa è, tra l'altro, “bestia sanza pace”: non ha mai pace perchè non soddisfa mai la sua
bramosia.
Delle tre fiere emblematiche, la lupa è la più pericolosa: la cupidigia, da intendersi come sfrenata
brama di piaceri e beni materiali, è difficile da eliminare in quanto l'attaccamento a “quanto
piace al mondo” (come direbbe Petrarca in RVF, 1) è quasi istintivo nell'uomo.

1 Anno del grande Giubileo indetto da Bonifacio VIII.


2 Il “lago del cor” è, secondo la tradizione medievale, la parte concava del cuore, il centro, dove il sangue è sempre abbondante
e dove si raccolgono gli spiriti vitali.
Mentre retrocede, Dante intravede, nella penombra, una figura umana, definita come “chi
per lungo silenzio parea fioco”.
Il verso è tormentatissimo e si presta a varie interpretazioni.
La più accreditata è riferita al significato simbolico della figura di Virgilio, cioè la ragione, che, a
lungo inascoltata dall'uomo smarritosi nel peccato, ha ormai perso il potere di farsi sentire.
Ad ogni modo, a quest'ombra Dante si rivolge chiedendo aiuto: “Miserere di me”.
L'ombra risponde di non essere più un uomo in vita, ma di avere avuto i genitori lombardi e di
essere originario di Mantova. Si presenta come Virgilio, il poeta latino vissuto al tempo di Cesare
e Augusto, “nel tempo de li dei falsi e bugiardi”, ovvero durante il paganesimo, e che ha cantato le
gesta di Enea nel poema a lui dedicato.
Esorta Dante a salire “il dilettoso monte”, vale a dire il colle illuminato dal sole, che rappresenta la
felicità terrena.
Dante lo dichiara suo maestro e modello di stile poetico (“lo bello stilo” è lo stile tragico che
Dante, sul modello dell' “Eneide”, impiega nelle canzoni morali e dottrinali) e lo prega di aiutarlo
liberandolo dal pericolo della lupa.
Virgilio riprende la parola spiegando a Dante che, se vuole salvarsi la vita, dovrà incamminarsi per
una via diversa.
Difatti, la lupa è un animale particolarmente pericoloso e malefico, che uccide chiunque incontri.

Virgilio profetizza poi la venuta di un “veltro”, un cane da caccia che ucciderà la lupa e la
ricaccerà nell’Inferno da dove è uscita.
Tale veltro non si ciberà né di “terra” né di “peltro”, ma sarà nutrito solo di sapienza.
Il veltro del verso 101 è uno dei celebri enigmi del poema.
Letteralmente, il veltro è un cane da caccia, adatto quindi a snidare la lupa.
È chiaro, tuttavia, che esso va inteso anche come simbolo.
Sicuramente, il veltro simboleggia uno sperato e provvidenziale salvatore capace di riportare sulla
Terra la giustizia e la pace.
Sulla sua identità precisa, sono state formulate ipotesi varie e discordanti.
Una delle più accreditate lo identifica con Arrigo VII, imperatore del Sacro Romano Impero dal
1302 al 1313.
Effettivamente, anche nel “Paradiso” Dante parla dell' “alto Arrigo” e nel “Purgatorio” allude ad
un uomo savio che, si augura, riporrà l'Italia sotto il controllo imperiale, ponendo così fine al potere
temporale della Chiesa.
certuni commentatori vedono in lui Cangrande della Scala, altri intendono l'espressione “tra
feltro e feltro” del verso 105 come una designazione geografica che indicherebbe la nascita del
futuro salvatore tra Feltre (in Veneto) e Montefeltro (nella zona di Urbino).

Tornando al discorso di Virgilio, egli conclude dicendo a Dante che, per salvarsi, dovrà
compiere un viaggio attraverso l'Inferno ed il Purgatorio e poi affidarsi ad una guida più degna
per accedere al regno dei beati.
L'Inferno è presentato, dal verso 114 al 117, come un “loco etterno” dove i dannati scongiurano di
avere una “seconda morte”3, ossia la morte dell'anima.
Quanto alla guida più degna per il Paradiso, l'allusione è chiaramente a Beatrice; Virgilio, nato e
vissuto pagano senza avere la possibilità di credere in Cristo, non può entrare in Paradiso.
Dante accetta la proposta e i due si incamminano: “Allor si mosse, e io li tenni dietro”.
Il motivo del cammino torna alla fine del canto, ma si tratta, ora di un viaggio che muove verso la
salvezza, non più del percorso verso la dannazione.

3 Viene in mente la “morte secunda”, la morte irrevocabile dell'anima, che, secondo quanto spiega San Francesco nel Cantico
delle Creature, non può far male a chi muore in grazia di Dio.
CANTO II
Il canto II inizia con il proemio alla prima cantica, che occupa i primi nove versi.
Nella fatica materiale e nell'affanno spirituale che il viaggio comporta (è la “guerra sì del
cammino e sì de la pietate”), Dante invoca l'assistenza delle Muse perchè lo aiutino a ricordare
ciò che vedrà.
Oltre alle muse, Dante invoca l' “alto ingegno”, ossia chiama a raccolta tutte le sue forze,
consapevole della propria eccezionale missione.

Dopo l'invocazione, la narrazione riprende.


Dante si rivolge a Virgilio e gli esprime i suoi dubbi.
Egli innanzitutto ricorda di Enea, del quale Virgilio cantò e che fu protagonista di una discesa agli
inferi quando era ancora vivo: da ciò discesero, però, profonde conseguenze (l' “alto effetto” del
verso 17: egli avrebbe contribuito alla fondazione di Roma), pertanto non c'è da stupirsi che Dio
gli abbia concesso un tale privilegio.
Si noti che Enea è presentato come “di Silvio il parente”, ossia come padre di Silvio, il figlio avuto
da Lavinia; va osservata anche la perifrasi “loco santo u' siede il successor del maggior Piero”, che
sta ad indicare Roma, città ove risiede il pontefice, successore del primo papa, il sommo Pietro
(San Pietro).

Anche San Paolo compì un viaggio nel mondo ultraterreno, un viaggio motivato
dall'esigenza di portare argomenti alla fede, principio di salvezza.
San Paolo è designato come “Vas d'elezione”, che riprende l'espressione “vas electionis” presente
negli Atti degli Apostoli.
Ma Dante non è Enea né Paolo e si chiede chi gli conceda di intraprendere un viaggio simile: “Ma
io, perchè venirvi? O chi 'l concede?”.
Egli aggiunge: “Se del venire io m'abbandono, temo che la venuta non sia folle”, che significa
“temo che il mio venire possa essere un rischioso ardimento”.
“Folle” richiama il “folle volo” di Ulisse in If, XXVI.

Virgilio risponde accusando Dante di viltà, di quella viltà che allontana l'uomo dal ben
operare: “l'anima tua è da viltade offesa”, dove il sostantivo “viltade” è volutamente opposto
all'aggettivo “magnanimo” del verso precedente.
Difatti, Dante concepisce la pusillanimità come opposta alla magnanimità, secondo quanto
spiega nel “Convivio”: “Lo magnanimo si magnifica in suo cuore, lo pusillanimo per contrario
sempre si tiene meno che non è”, quindi il magnanimo è chi si sente capace di portare avanti grandi
imprese, il pusillanime o vile è colui che non è consapevole o addirittura disprezza le proprie forze.
Questo contrasto tra magnanimità e pusillanimità è tratto, da Dante, dal commento di San
Tommaso all' “Etica nicomachea” di Aristotele.

Per convincerlo della necessità del suo viaggio, Virgilio spiega a Dante che ad averlo
inviato in suo soccorso, mentre si trovava “tra color che son sospesi”, cioè nel Limbo, è stata
Beatrice.
Beatrice è descritta come “donna beata e bella” i cui occhi “lucevan più che la stella”: ella è
collocata in quell'atmosfera stilnovistica che è una delle note caratteristiche del canto.
La donna parla soavemente e pacatamente: la dittologia “soave e piana” è da riferire anche alla
scienza divina, la teologia, di cui Beatrice è allegoria.
Ella si rivolge a Virgilio come il più grande poeta mai vissuto e gli chiede di soccorrere
Dante, alla presa con le tre fiere, aiutandosi con la sua “parola ornata”: è la parola dotata di artifici
retorici e stilistici che la rendono efficace e che è propria di Virgilio (Beatrice impiega, invece, la
parola vera).
Beatrice è mossa, nel suo parlare, dall' “amor”: “amor” è sia l'amore personale che prova per
Dante, sia la virtù di carità.

Virgilio racconta, inoltre, che aveva chiesto a Beatrice perchè lei non temesse di scendere
nell'Inferno, in mezzo alle anime dannate.
La donna aveva risposta che, essendo beata, non doveva temere la miseria dei dannati, non in
grado di nuocerle, e spiega che la Madonna (“Donna gentil nel ciel”) si era commossa all'idea
che Dante corresse pericoli nella selva, pertanto aveva incaricato Santa Lucia di intervenire in suo
favore, e Lucia si era rivolta, a sua volta, a lei.
Il fatto che si devono temere solo le cose che possono nuocere è espresso ai versi 88 e 89; si tratta di
una sentenza aristotelica, che Dante legge nel commento di San Tommaso all' “Etica
nicomachea”.

Interessante è analizzare le parole che Lucia rivolge a Beatrice: “Beatrice, loda di Dio vera,
chè non soccorri quei che t'amò tanto, ch'uscì per te de la volgare schiera”?
“Loda di Dio vera” è un'espressione che assimila Beatrice, per la sua bellezza e la sua virtù, ad una
lode di Dio.
Il verso 105 le attribuisce un grande merito su Dante: quello di averlo fatto diventare poeta della
rettitudine, permettendogli dunque di distinguersi rispetto agli altri uomini.
Questa sentenza serve anche a dare una precisa risposta al timore di Dante che la “venuta” possa
essere “folle”.
Di questa ultima parte va ugualmente notato come Maria sia presentata come donna capace di
cambiare il giudizio divino, che ha già condannato Dante per il suo peccato, come emerge
dall'espressione “duro giudicio”.
Inoltre, va sottolineata l'espressione “il tuo fedele” al v. 98: Dante si dichiara “fedele” di Santa
Lucia, martire siracusana protettrice degli occhi, probabilmente per la grazia ricevuta per farlo
guarire dalla grave malattia agli occhi di cui soffre e di cui racconta nel “Convivio”.

Tornando agli eventi del canto II, terminato il suo racconto, Virgilio sprona nuovamente
Dante a vincere i suoi dubbi, facendo leva sul fatto che tre donne benedette si curano di lui;
allora, il poeta riacquista forza e coraggio e i due riprendono il cammino.
CANTO III
Il canto III è, dal punto di vista strutturale, perfettamente tripartito: si narra, dapprima,
l'entrata nel Vestibolo o Antinferno, poi l'incontro con i pusillanimi, infine quello con Caronte e
le anime appena arrivate.

All'inizio del canto, Dante e Virgilio si trovano davanti alla porta dell' Inferno.
Dante legge, su di essa, una terribile iscrizione, che occupa i versi dall'1 al 9.
Erano comuni, nel Medioevo, delle epigrafi metriche sulle porte della città.
In questo caso, la porta parla in prima persona.
Significativa è sicuramente la martellante anafora dei primi tre versi, in cui si pone l'accento sul
dolore (“città dolente”), poi sull'eternità di esso (“etterno dolore”) ed infine sull'ineluttabile
perdizione dei dannati (“perduta gente”).
Celeberrimo è anche il verso 9, un verso lapidario divenuto proverbiale: “Lasciate ogne speranza,
voi ch'intrate”.

Virgilio prende Dante, turbato, per mano, e lo conduce nel regno dei morti.
Entratovi, Dante sente sospiri, pianti e lamenti in un tumulto confuso, così spaventoso da spingere
alle lacrime (il pianto è il più consueto atteggiamento del poeta di fronte al dolore infernale).
La prima impressione che Dante riceve dell'inferno è, dunque, di tipo uditivo; del resto, tutto è buio
e oscurità (Dante parla di un' “aere sanza stelle” e di “aura sanza tempo tinta”), quindi risulta
impossibile ottenere stimoli visivi.

Sono le lamentazioni delle anime dei pusillanimi, respinte dallo stesso Inferno per la loro
vita senza scopo e dunque collocate nel Vestibolo.
I pusillanimi sono anche detti ignavi: sono coloro che in vita non ebbero il coraggio di esercitare il
libero arbitrio, che non si schierarono – cioè - né dalla parte del bene né dalla parte del male; le
loro anime sono mescolate agli angeli che non si schierarono né con Dio né con Lucifero: “non
furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro”.
Dante definisce i pusillanimi come coloro che “visser sanza 'nfamia e sanza lodo”, ossia senza
meritare né infamia né lode.
Il Paradiso li rifiuta, perchè la loro presenza guasterebbe lo splendore del cielo; allo stesso modo,
non li riceve l'Inferno, in quanto i “rei” (i dannati) potrebbero trarre qualche vantaggio, e
precisamente vantare, nel confronto con gli ignavi, il coraggio delle loro azioni.
Essi, inoltre, “non hanno speranza di morte”, cioè non possono neanche sperare di essere annullati
per sempre, lasciando così la loro vilissima condizione, e si trovano ad essere “'nvidiosi d'ogne
altra sorte”, anche quella dei peccatori relegati al Basso Inferno.
Per di più, mentre per tutte le altre anime dannate il solo conforto è la fama terrena, i pusillanimi
saranno obliati dal mondo dei viventi: “Fama di loro il mondo esser non lassa”.

Quanto alla pena, gli ignavi sono condannati a seguire “una 'nsegna”, vale a dire uno
stendardo; è esempio tipico di contrappasso: come in vita non hanno seguito alcuna bandiera
(buona o cattiva che fosse), ora devono inseguirne una per l'eternità.
Peraltro, sono punti da vespe e mosconi, che fanno loro colare il sangue dal volto.
Anche qui, il contrappasso è evidente: i pusillanimi, che non furono mai stimolati all'azione da
alcunchè, lo sono ora, ma da fastidiosi insetti.
Dante scorge, tra le anime, l'ombra di colui che “fede per viltade il gran rifiuto”, passa e
non lo nomina neppure.
Nel dannato colpevole del “gran rifiuto” si scorge la figura di papa Celestino V, al secolo Pietro da
Morrone, che, salito al soglio pontificio nel 1294, rinuncia alla tiara nello stesso anno.
La rinuncia di Celestino V al papato impressiona la cristianità e provoca grande rammarico in
chi aveva visto in lui il possibile promotore di una riforma della Chiesa.
L'identificazione appare indubbia se si pensa che per Dante il vile è proprio chi rinuncia alle grandi
imprese per poca stima di sé.

A partire dal verso 70, la scena cambia: Dante e Virgilio arrivano alla “riva d'un gran
fiume”.
Si tratta dell'Acheronte, il fiume infernale della tradizione classica (“Eneide”), che segnava l'inizio
dell'Oltretomba e sul quale passavano le anime traghettate da Caronte.
Sulla sponda del fiume sono accalcate le anime dannate.
Dante desidera sapere chi siano quelle anime, ma il maestro risponde che avrà tutte le risposte
quando raggiungeranno l'Acheronte.

Poco dopo, Dante vede Caronte, il nocchiero che conduce la barca dei dannati: è un
vecchio “bianco per antico pelo”, ossia dalla barba bianca, che grida minaccioso alle anime di
essere venuto a prenderle per portarle all'Inferno.
Caronte è figlio della Notte e dell'Erebo: si tratta del primo personaggio mitologico che compare
nella “Commedia”.
Nella tradizione classica, è il traghettatore delle anime nell'Aldilà.
Come spesso accade nel corso dell'opera, Dante demonizza il personaggio, ovvero lo tratta come
un demonio.

Caronte invita Dante ad andarsene, e, nel farlo, accenna alla sua salvezza futura: “Per
altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare”, ovvero Dante non finirà
all'Inferno, ma arriverà in Purgatorio portato sul “vasello snelletto e leggero” dell'angelo che carica
le anime alla foce del Tevere.
Ma Virgilio lo zittisce ricordandogli che il viaggio di Dante è voluto da Dio: “Caron, non ti
crucciare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”.
Si tratta di una specie di formula rituale per vincere la resistenza dei demoni: si ripeterà identica in
If, V, rivolta a Minosse, e, con piccole variazioni, a Pluto, in If, VII.
Significativi sono ugualmente i versi dal 103 al 105: in questa terzina si intravede tutta la
disperazione delle anime, che maledicono tutto ciò che è all'origine della esistenza, vale a dire
Dio, i genitori, l'intera specie umana, il concepimento e la nascita.

A questo punto, il demone stipa le anime dentro la barca, le percuote con il remo e le
porta dall'altra parte del fiume.
Le anime, a cui Dante si riferisce con la perifrasi “il mal seme d'Adamo”, salgono “ad una ad
una” come foglie che cadono ai primi freddi dell'autunno e obbediscono ai cenni di Caronte “come
augel per suo richiamo”, ovvero come un uccello risponde al richiamo.
Virgilio spiega, poi, a Dante che finiscono sulle sponde dall'Acheronte tutti i dannati, quindi non
c'è da stupirsi se Caronte protesta per la sua presenza in quel luogo.
Appena terminato questo discorso, si vede un bagliore improvviso ed il suolo infernale è scosso da
un tremendo terremoto, pertanto il poeta cade svenuto a terra.
Il terremoto ed il fulmine sono manifestazione di qualcosa di straordinario, che si compie per
intervento divino, e che permette il passaggio del poeta all'altra riva dell'Acheronte senza salire
sulla barca di Caronte.
CANTO IV
Nel canto IV, Dante e Virgilio si trovano nel Limbo, il primo cerchio dell'Inferno.
Dante comprende di essere al di là dell'Acheronte, nel primo dei nove Cerchi in cui è divisa la
voragine infernale, allorchè un gran tuono lo risveglia dal sonno in cui è caduto: “Ruppemi l'alto
sonno ne la testa un greve tuono”.
Virgilio invita Dante a seguirlo: “Or discendiam qua giù nel cieco mondo”.
“Cieco mondo” è un'espressione che allude all'assenza di luce (fisica e morale) nell'Inferno: nel
canto precedente, Dante aveva usato l'espressione “cieca vita” per riferirsi alle anime prive della
luce divina.
Dante si allarma per il pallore sul volto del maestro.
Virgilio, però, spiega che quella che Dante ha scambiato per timore è in realtà “pietà”, cioè
compassione verso l' “angoscia de le genti che son qua giù”.

Ai versi 25-26 si legge: “Quivi (…) non avea pianto mai che di sospiri”: il primo cerchio si
profila innanzitutto come grande coro di sospiri.
La parola “sospiri” è sintomatica: tutta la potente suggestione di questo canto risiede proprio
nell'eterno sospiro che le anime rivolgono verso l'alto, manifestazione di un desiderio che non sarà
esaudito.
Nel Limbo, le anime emettono sospiri ma non subiscono alcuna pena.
Si tratta delle anime di coloro che sono morti senza battesimo o che sono vissuti prima del
cristianesimo: non avendo creduto o potuto credere nel Cristo venturo, sono escluse per sempre
dalla salvezza (“sanza speme vivemo in disio”).
Il limbo come luogo in cui sono presenti anche degli adulti è un'invenzione dantesca: nella
teologia, il limbo era destinato ai patriarchi (in seguito liberati da Cristo) e ai fanciulli innocenti
morti senza battesimo (“Limbus puerorum”).

Dante chiede a Virgilio se mai qualcuna delle anime sia uscita dal Limbo: Virgilio spiega
che, poco dopo il suo arrivo, ha visto discendere Cristo, trionfante dopo la Risurrezione, nel
Limbo, per trarre fuori i patriarchi biblici (tra cui Adamo, Abele, Noè, Mosé, David, Giacobbe,
Isacco, Rachele ecc...) e portarli in Paradiso.

I poeti proseguono, in seguito, il loro cammino in mezzo alla turba delle anime, e vedono un
semicerchio luminoso: qui risiedono gli spiriti particolarmente virtuosi, che in vita hanno
ottenuto una fama onorevole e meritano allora un grado di distinzione nell'Aldilà.
Il concetto di onore, che, secondo l' “Etica” di Aristotele, è segno di magnanimità, è sottolineato
dall'impiego dei termini “orrevol”, “onranza” e “onrata”.
Il fatto che gli spiriti immersi nella luce si distinguano nel Limbo è sottolineato dai verbi “li
diparte” e “li avanza”.

Improvvisamente si fanno avanti quattro grande ombre: sono quelle di Omero, Orazio,
Ovidio e Lucano.
I sei poeti si avvicinano poi al punto luminoso, dove sorge un nobile castello, circondato da sette
mura e cinto da un fiume.
Secondo certi commentatori, il castello rappresenterebbe la sapienza, e le sette mura che lo
attorniano le sette parti della filosofia: fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica e
dialettica, oppure le sette arti liberali del Trivio e del Quadrivio.
Oggi si preferisce intendere il castello come allegoria della nobiltà umana, cui introducono
le sette virtù, quelle morali (fortezza, giustizia, prudenza e temperanza) e quelle intellettuali
(intelligenza, scienza e sapienza).
Quest'interpretazione sembra forse più plausibile, soprattutto se si tiene conto che, in un passo del
“Convivio”, Dante scrive: “è nobilitade dovunque è vertude”.

Comunque sia, Dante e Virgilio attraversano sette porte ed entrano in un verde prato: qui
risiedono gli “spiriti magni”, ossia quelle anime di personaggi virtuosi accennate sopra.
Da un punto alto in cui si mette, il gruppo riesce a scorgere tutti i presenti: gli eroi operanti per
l'Impero di Roma, tra cui Ettore, Enea, Cesare, Pentiselea, Giulia (figlia di Cesare), Marzia
(moglie di Catone); e i filosofi e gli scienziati, tra cui Aristotele, Socrate, Platone, Anassagora,
Eraclito, Empedocle, Tolomeo, Averroè, ecc...
Tutti i filosofi rendono omaggio ad Aristotele: l'onore che gli fanno ricorda quello dei poeti nei
confronti di Virgilio.
Al verso 130, si legge: “innalzai un poco più le ciglia”.
Questo verso fa comprendere come i magnanimi del pensiero siano collocati più in alto rispetto ai
magnanimi dell'azione e, di conseguenza, come, per Dante, la vita contemplativa abbia un valore
superiore alla vita attiva.

A parte, isolato, sta il re Saladino, ossia Salah-ed-Din, sultano dell'Egitto nel XII secolo.
Viene esaltato nell'Occidente cristiano per la sua liberalità e la sua cavalleria; di tale fama si
trovano echi anche nella letteratura (nel “Novellino”, nel “Decameron” e nel “Convivio” di Dante).
Saladino è “solo, in parte” sia perchè appartiene a una civiltà diversa rispetto ai personaggi
precedenti, sia perchè è esempio unico, tra gli infedeli, di grandi virtù civili.

Dante non può nominarli tutti, quindi interrompe l'elenco; lui e Virgilio si separano dagli
altri quattro poeti e scendono nel II Cerchio.
CANTO V
Il canto V si svolge nel secondo cerchio dell'Inferno, ove sono puniti i lussuriosi.
Il contrappasso è qui per analogia: come in vita si sono lasciati travolgere dalla passione, così
ora i lussuriosi sono travolti da una tempesta inarrestabile.

Sull'entrata del secondo cerchio, i poeti incontrano Minosse, il giudice infernale che ringhia
orribilmente e “manda secondo ch'avvinghia”, ossia giudica i dannati che gli si presentano
dinnanzi, attorcigliando la coda attorno al corpo tante volte quanti sono i cerchi che i dannati
dovranno scendere per giungere al luogo della loro eterna punizione.
Secondo la mitologia classica, Minosse è re di Creta, figlio di Giove e di Europa: famoso per la
sua severità e giustizia, viene assunto già da Omero come giudice delle anime nell'Ade.
Ai versi 7 e 8, Dante scrive: “l'anima mal nata tutta si confessa”: chiarisce, dunque, che, spinte dal
desiderio di affrontare subito il loro destino, le anime confessano spontaneamente i loro peccati.
Minosse si rivolge a Dante dicendo di guardarsi dal venire con tanta sicurezza; per dissuaderlo dal
proseguire, Minosse cerca di sminuire le capacità della sua guida: “guarda com'entri e di cui tu ti
fide”.
Ma Virgilio lo ammonisce a non ostacolare un viaggio voluto dal Cielo: “Non impedir lo suo
fatale andare: vuolsì così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”.
Sono le stesse parole che Virgilio rivolge a Caronte e, con poche varianti, a Pluto.

Dopo Minosse, Dante incontra i dannati: sono coloro che “la ragion sottomettono al
talento”.
Dante spiega così la lussuria, ed in generale i peccati di incontinenza: come la vittoria degli
istinti su quella che nella “Vita nova” è definita come la “costanzia de la ragione”.

Virgilio nomina alcune delle anime relegate in quel cerchio: Semiramide, regina degli
Assiri; Didone, morta suicida per amore; Cleopatra, amante prima di Cesare poi di Antonio;
Elena, a causa della quale scoppia la guerra fra Achei e Troiani; Achille, Paride, Tristano.
Particolarmente interessante è il verso 56: riferendosi a Semiramide, Dante afferma che “libito fè
licito in sua legge”, ossia rese lecito, legale (“licito”), ciò che a ciascuno piaceva (“libito”).
Da notare sono anche i versi 61 e 62, dove, nel presentare Didone, prima Dante spiega che si uccise
per amore, poi dice “ruppe fede al cener di Sicheo”, ovvero non tenne fede alle promesse fatte al
marito Sicheo, in quanto dopo la sua morte sposò Enea: emerge l'uso della figura retorica
dell'hysteron proteron, che consiste nell'enunciazione di una successione di eventi nell'ordine
cronologico inverso (in questo caso, prima la morte poi l'infedeltà).
Comunque sia, all'udire tali nomi, il poeta viene assalito da un senso di profonda pietà.

L'attenzione di Dante viene in seguito attratta da due anime, che “'nsieme vanno”, ossia
volano unite l'una all'altra e non una dietro l'altra (questo dettaglio mette in luce la forza del loro
amore): sono le ombre di Paolo Malatesta e Francesca da Polenta.
Francesca è figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna; va in sposa nel 1275 a
Gianciotto Malatesta, signore di Rimini.
Il loro è un matrimonio d'interesse, effettuato per siglare la pace tra le due famiglie da tempo
rivali. Francesca si innamora di Paolo, fratello di Gianciotto.
I due cognati, innamorati, vengono sorpresi in adulterio da Gianciotto Malatesta, rispettivamente
fratello e marito, e trucidati.
Della vicenda non rimangono tracce documentarie: le uniche fonti sono Dante e certuni
commentatori antichi.
Particolarmente intensa è la narrazione della loro storia fatta da Boccaccio nelle “Esposizioni
sopra la Commedia”.

Innanzitutto, va notato che Francesca si presenta col suo luogo di origine, esattamente come
fa Virgilio nel canto I.
Ella proviene da Ravenna, che “siede su la marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci
suoi”: nel Medioevo, Ravenna sorgeva ancora vicino al mare, alle foci del Po'.

I versi 100-107 sono famosissimi.


Dapprima, Francesca espone la teoria cortese della corrispondenza tra amore e nobiltà di cuore,
ampiamente formulata dallo Stilnovo: “Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende”.
Deriva dal “De amore” di Andrea Cappellano anche il concetto espresso con il celebre verso
“Amor, ch'a nullo amato amar perdona”: esso significa che l'amore non tollera (“perdona”) che
chi è amato non riami, non ricambi l'amore donatogli.
Ancora, appartiene ai canoni dell'amor cortese il concetto che la bellezza sia generatrice di amore,
espresso al verso 104: “mi prese del costui piacer (ossia della bellezza di costui) sì forte”.
… “che, come vedi, ancor non m'abbandona”: la forza di questo amore è tale da superare la
barriera della morte e continuare nell'Aldilà con lo stesso ardore.
L'amore ha condotto Francesca e Paolo “ad una morte”, ossia a una stessa morte.
Sono stati infatti entrambi assassinati e la Caina, la zona del IX Cerchio dove sono puniti i
traditori dei parenti, attende il loro uccisore: “Caina attende chi a vita ci spense”.
Udito tutto ciò, Dante resta turbato e per alcuni momenti rimane in silenzio, gli occhi bassi.

In seguito chiede a Francesca in quali circostanze sia iniziata la sua relazione adulterina
con Paolo.
Francesca inizia il suo discorso con una citazione del “De consolatione philosophie” di Boezio
(verso 121), ma questa sua difesa letteraria lascia ben presto spazio alla confessione della sua
personale storia e sofferenza.
Ella narra che un giorno lei e Paolo stavano leggendo per divertimento un libro circa Lancillotto e
la regina Ginevra.
I due sono “soli e sanza alcun sospetto”: non senza sospetto di essere sorpresi, ma senza dubitare
che il loro amore possa trasformarsi in peccato.
Al momento della lettura della descrizione del bacio tra i due amanti, l'istinto li ha portati a
baciarsi.
Il libro ha funto da mezzano della loro relazione amorosa: “Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse”.
Galehaut è il siniscalco della regina, che nel romanzo la spinge a baciare il cavaliere che le sta
innanzi pallido ed esitante; per Paolo e Francesca, la stessa funzione è esercitata dal romanzo.

Mentre Francesca narra la sua vicenda, Paolo singhiozza.


Il fatto che Paolo, pur non prendendo parola, pianga, mette il luce la consapevolezza della propria
responsabilità e la partecipazione al dolore dell'amata.
Vinto dall'emozione e dalla pietà, Dante perde i sensi e cade a terra: “e caddi come corpo morto
cade”.
Si nota come, pur condannando dal punto di vista morale e religioso il peccato della lussuria,
Dante si mostra comprensivo verso i peccatori, visti nella loro umanità di individui soggiogati alla
forza delle passioni terrene.
Va detto, infine, che, mentre il canto IV prende a modello l' “Eneide” virgiliana, qui il modello
letterario di Dante è cortese.
CANTO VI
Il canto VI si svolge nel terzo cerchio, ove sono puniti i golosi.
Il poeta riprende i sensi e si trova in mezzo ad una pioggia continua, formata da acqua sudicia,
neve e grandine, una pioggia che flagella in eterno i peccatori e forma una puzzolente fanghiglia
in cui essi sono sdraiati: è quanto spiegato dal verso 7 al 12.
Il contrappasso potrebbe essere tra l'animalità di un peccato in cui prevale il senso dell'ingordigia
e l'aspetto animalesco dei dannati, in cui non brilla alcuna luce di umanità (essi, infatti, come
immondi animali si rivoltano nel fango puzzolente).

Essi sono graffiati e fatti a brandelli da Cerbero, orribile mostro con tre teste, le mani
d'uomo e il corpo d'animale posto a custodia del cerchio dei golosi.
Si tratta di un personaggio della mitologia classica descritto nell' “Eneide”.
Quando Cerbero vede i due poeti, gli si avventa contro, ma Virgilio raccoglie una manciata di
fango e glielo getta nelle tre gole, così egli, al pari di un cane affamato a cui si getta un boccone, si
placa.
Dante e Virgilio proseguono, passando sopra le anime, che essendo immateriali non oppongono
resistenza.

Tutte giacciono per terra, tranne una che, al passare di Dante, si leva a sedere e apostrofa il
poeta, invitandolo a riconoscerlo: “riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto”.
Dante risponde che il suo aspetto è talmente stravolto da renderlo irriconoscibile; a questo punto,
l'anima si rivela per quella del fiorentino Ciacco: “Voi cittadini mi chiamaste Ciacco”.
Ciacco è un fiorentino non identificato.
Non si sa neppure se l'appellativo sia un nome di persona oppure un soprannome (che
significherebbe “porco”); dal verso 42 si sa che Dante nasce prima che egli muoia.
Forse, potrebbe trattarsi di un giullare nato nella Firenze del tempo, un giullare al quale lo stesso
Boccaccio dedica una novella.
È significativo, comunque, come Dante elevi un modesto cittadino, non noto ed escluso dalle
logiche del potere, a giudice di grandi e potenti.

Il poeta pone a Ciacco tre domande: quale sarà il destino di Firenze, città divisa in fazioni,
se ancora ci siano cittadini non colpevoli e il motivo delle lotte civili che squassano la città.
Ciacco risponde alla prima domanda con un'oscura profezia: dice che, dopo una lunga contesa, i
guelfi bianchi (“la parte selvaggia”) e neri verranno allo scontro fisico (la cosiddetta “zuffa di
Calendimaggio” del 1300) e i bianchi cacceranno i neri; tuttavia, nell'arco di tre anni, avverrà
che i bianchi perderanno il potere ed i neri avranno la meglio grazie all'aiuto di Papa Bonifacio
VIII.
L'arco temporale dei tre anni è indicato con l'espressione “infra tre soli”.
Non si dimentichi che l'azione del poema si svolge nella primavera del 1300, dunque i tre anni
sono quelli intercorrenti tra la zuffa di Calendimaggio del 1300 e la cacciata dei bianchi nel 1302.
Si sa che Dante si schiera dalla parte dei guelfi bianchi, che fanno capo alla famiglia dei Cerchi,
esponenti della nuova classe mercantile e acerrimi nemici dei Donati, nobili decaduti e boriosi,
indifferenti al giudizio popolare e fautori di un guelfismo intransigente.
I Bianchi vengono definiti, in questo canto, come la “parte selvaggia”: l'aggettivo “selvaggia” vale
“rustica, forese” (infatti i Cerchi vengono dal contado).
Quanto alla seconda domanda, Ciacco spiega che sono rimasti solo pochissimi uomini
giusti, e nessuno presta loro ascolto.
Alla terza domanda, risponde invece che superbia, invidia e avarizia sono le tre “faville”, cioè le
tre scintille, “c' hanno i cuori accesi”, ossia che hanno dato vita alle lotte politiche.
Firenze è quasi trattata come emblema della rovina politica del mondo; l'attribuzione della rovina
di Firenze a questi tre peccati capitali ritornerà più avanti (If, XV) per bocca di Brunetto Latini.

Dopo che Ciacco ha cessato di parlare, Dante gli domanda se sa quale sia il destino
ultraterreno di alcuni celebri fiorentini: Farinata degli Uberti4, Tegghiaio Aldobrandi5, Iacopo
Rusticucci6, Arrigo7 e Mosca dei Lamberti8.
Il ricordo dei personaggi della passata generazione è una sorta di rifugio dal severo e negativo
giudizio che è stato pronunciato su Firenze.
Ad ogni modo, Ciacco prontamente risponde che essi si trovano tutti nel profondo dell'Inferno.

Dopo aver pregato il poeta di ricordarlo ai vivi una volta tornato sulla Terra, egli pone fine
al suo parlare, poi china la testa e ricade nel fango insieme agli altri golosi.
Virgilio spiega che non si solleverà più fino al giorno del Giudizio Universale, quando tutti i
dannati riprenderanno possesso del loro corpo e ascolteranno la sentenza finale che fisserà il loro
destino.
Il Giudizio Universale è indicato da Dante come momento in cui “verrà la nimica podesta”, dove
per “nimica podesta” si deve intendere Cristo giudicante, nemico dei dannati.
Mentre i due poeti riprendono il cammino, Dante chiede a Virgilio se i tormenti dei dannati
aumenteranno dopo il Giudizio, oppure diminuiranno o resteranno uguali.
Quella che verte sulla condizione della pena dopo la “gran sentenza” è la prima “quaestio”, cioè la
prima questione dottrinale, del poema.
Virgilio lo rimanda alla scienza aristotelica (all' “Etica nicomachea” di Aristotele), in base alla
quale quanto più qualcosa è perfetto, tanto più è in grado di percepire il dolore e il piacere:
“quanto la cosa è più perfetta, più senta il bene, e così la doglienza”.
I dannati non saranno mai perfetti, tuttavia, riappropriandosi del loro corpo, dopo la sentenza finale
raggiungeranno la pienezza del loro essere, quindi è logico supporre che le loro pene
aumenteranno.
A questo punto, i poeti aggirano a tondo il cerchio e giungono là dove si scende al girone
successivo e si trova il demonio Pluto.
Su questo canto va fatto un appunto importante: è il VI della cantica dell'Inferno, quindi è per
forza di argomento politico.
I canti VI delle tre cantiche sono tutti canti politici: il VI del Purgatorio è un lungo compianto,
pronunciato dal trovatore mantovano Sordello, sulla condizione dell'Italia, trascurata
dall'imperatore germanico e da Dio; il VI del Paradiso è interamente occupato dalle parole
dell'imperatore bizantino Giustiniano, che traccia una storia dell'Impero.

A livello stilistico, va notato che il linguaggio è realistico ed il tono medio; invece, nel
canto V il tono è tragico, e nel IV solenne e mesto, con precisi richiami al mondo classico.
Lo stile è sempre conforme all'argomento trattato (secondo il criterio della convenienza).

4 Famoso capo ghibellino, che compare ampiamente in If, X.


5 Podestà di San Gimignano e Arezzo, guelfo che si adopera per la pace.
6 Mediatore, con Tegghiaio Aldobrandi, della pace tra Volterra e San Gimignano.
7 Un Arrigo non identificato.
8 Podestà di Reggio, è considerato l'involontaria causa dell'inizio della lotta tra fazioni.
CANTO VII
Il canto VII si svolge nel quarto e nel quinto cerchio dell'Inferno, ove sono puniti gli avari
e i prodighi e gli iracondi e accidiosi.

All'ingresso del IV cerchio, i due poeti incontrano Pluto, custode di quella zona infernale.
Plutone è il dio della ricchezza nel mondo classico ed è pertanto custode del luogo dove sono
puniti coloro che “con misura nullo spendio ferci”, ossia che male impiegarono le ricchezze in
vita.
Il mostro, che ha sembianze di lupo, inveisce contro di loro pronunciando parole incomprensibili,
ma Virgilio rassicura Dante nel fatto che non potrà impedire il loro cammino, poi rimprovera il
demone e lo zittisce ricordandogli la sconfitta subita da Lucifero ad opera dell'arcangelo Michele.
Pluto, a questo punto, cade a terra prostrato: “cade a terra la fiera crudele”.
Va prestata particolare attenzione al verso 1: “Pape Satan, pape Satan aleppe”.
Di questo oscuro verso, si comprende giusto il termine “Satan”, che fa capire come Pluto stia
invocando il demonio; nel complesso, le sue parole sono incomprensibili.
Il fatto che egli non sia in grado di emettere suoni comprensibili rinvia alla disumanizzazione degli
avari e dei prodighi, i dannati puniti in questo cerchio, che sono irriconoscibili, come Dante precisa
più avanti, ai versi 53-54: “la sconoscente vita che i fè sozzi, ad ogni conoscenza or li fa bruni”.
L'irriconoscibilità fa parte del contrappasso: è il prezzo da pagare per aver dedicato tutta la vita al
denaro.

Proseguendo, i due poeti vedono le anime degli avari e prodighi, che, divisi in due schiere
che procedono in verso opposto, spingono faticosamente enormi macigni.
Nell'attribuire loro questa pena, Dante si rifa al mito di Sisifo, che, colpevole di numerosi misfatti
ma soprattutto di aver ingannato ripetutamente Zeus, viene condannato a un’eterna fatica:
trasportare sopra una montagna un masso che inesorabilmente ricade giù appena toccata la cima.

Dante chiede chi siano quei dannati e Virgilio spiega che tutti loro in vita non spesero
correttamente il denaro, peccando gli uni di avarizia, gli altri di prodigalità.
Il sommo poeta chiede, inoltre, se il folto gruppo di “chercuti” che egli vede alla sua sinistra sia
composto tutto da ecclesiastici.
La presenza di papi e cardinali nel IV cerchio assume i tratti dello scandalo: gli uomini che per
primi dovrebbero predicare la povertà come virtù e veicolare il senso della misura e dell'equilibrio,
sono, invece, peccatori irredimibili, talmente abbruttiti dal peccato da essere irriconoscibili.
Virgilio chiarisce, in seguito, che nel giorno del Giudizio gli avari risorgeranno col pugno chiuso
e i prodighi coi capelli tagliati e conclude dicendo che i beni terreni sono effimeri, transeunti.

Dante chiede a Virgilio cosa sia questa Fortuna così vituperata dagli uomini e che sembra
avere i beni materiali tra i suoi artigli.
Il maestro spiega che la Fortuna stabilisce quando le ricchezze debbano cambiare di mano e
quali genti debbano prosperare e cadere, secondo l'imperscrutabile giudizio divino; “con l'altre
prime creature lieta volve sua spera e beata si gode”, quindi essa non si cura delle ingiuste proteste
degli uomini, sì ciechi e sconoscenti, e continua, felice, ad assolvere il compito affidatole.
Qui, si nota una certa distanza tra il pensiero di Dante e quello di Machiavelli: per Dante, i
mutamenti della fortuna avvengono “oltre la difension d'i senni umani”, cioè senza che il senno
degli uomini possa impedirli; Machiavelli chiamerà “virtù” questo senno e insegnerà che la forza
della Fortuna può essere in molti casi domata dalla virtù, e che è dovere dell'uomo combatterla,
prevenendo i suoi colpi ma anche affrontandoli con decisione.
La novità nella trattazione dantesca del tema della Fortuna risiede nel fatto che essa
è considerata come “general ministra e duce” disposta da “colui che lo saver tutto trascende”,
ovvero come un'angelica ministra di Dio, un'intelligenza che Dio predispone per amministrare i
beni terreni.
Viene dunque abbandonata l'immagine classica della Fortuna come forza cieca e crudele e la
tematica viene rielaborata in senso cristiano.

In seguito, i due poeti attraversano il Cerchio fino all'estremità opposta, dove una vena
d'acqua sgorga dalla roccia e si immette in un fossato.
L'acqua è di colore scuro e i due poeti ne seguono il corso: il ruscello si impaluda nello Stige.
Nella palude Stigia, Dante scorge dei peccatori che, immersi nel fango, si percuotono e si
mordono l'un altro: sono gli iracondi.
Ci sono anche gli iracondi “tristi”, che in vita covarono l'ira dentro di loro e che ora, confitti nel
limo, con i loro sospiri e le loro parole fanno gorgogliare l'acqua alla superficie.

CANTO VIII
Il canto VIII si svolge nel quinto cerchio, ove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi.
L'arrivo dei due viatores alle rive del fiume infernale Stige è descritto alla fine del canto VII; il
suo attraversamento è l'argomento generale del canto VIII, un canto in continuo movimento, che
non si focalizza su alcuna scena fissa.

A Dante appare una barca guidata da un solo nocchiero, che avanza gridando parole
minacciose.
È il nocchiero Flegias, un demone che apostrofa Dante scambiandolo per un dannato (“Or se'
giunta, anima fella!”) ma poi imbarca i due poeti, i quali così percorrono la palude.
Flegias è un personaggio mitologico, figlio di Marte e Crise, che incendia il tempio di Apollo a
Delfi, irato contro il dio che ha sedotto sua figlia.
Assurge a simbolo dell'ira violenta e si presta, dunque, ad essere assunto come guardiano del
cerchio ove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi.

Gli iracondi sono condannati a infliggere dolore a se stessi e alle altre anime, mordendosi
e percuotendosi ferocemente, immersi nelle acque melmose della palude; gli accidiosi, invece,
che sono quelle anime che in vita trattennero l’ira interiormente, covando continuo rancore, si
trovano totalmente sommersi dalle acque paludose del fiume, dove ed emettono continui sospiri.

Proseguendo con gli eventi del canto, va notato che si fa innanzi un peccatore lordo di
fango, che chiede a Dante chi egli sia: “dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: “Chi se tu che
vien anzi ora?”.
Dante lo riconosce come il fiorentino Filippo Argenti.
Filippo Argenti è un cavaliere fiorentino che gli antichi ricordano come prepotente e superbo.
Lo stesso nome “Argenti” deriverebbe, secondo Boccaccio, dal suo tentativo vanaglorioso di
ferrare d'argento un suo cavallo.
I commentatori antichi riferiscono, tra l'altro, che l'Argenti si mostra avverso agli Alighieri e che
un suo fratello gode della confisca dei beni cui Dante viene sottoposto dopo la sua condanna.
Il dannato si protende verso la barca tentanto di afferrare Dante, ma Virgilio lo spinge via, poi
rivolge un'ammonizione a tutti gli uomini orgogliosi come l'Argenti, che in vita si credono grandi
re (“gran regi”) e finiscono all'Inferno come porci nel fango (“porci in brago”).
In seguito, tutte le anime si scagliano contro di lui, che sfoga la sua ira mordendo se stesso: “in sé
medesmo si volvea co' denti”.
Si tratta di uno spettacolo di cui Dante gode pienamente.
Dante e Virgilio si mostrano davvero sprezzanti: il loro atteggiamento, così diverso da quello che
mostrano nel resto del viaggio, potrebbe essere segno della volontà dell'autore di sottolineare la
distinzione, di derivazione aristotelica, tra l'ira quale peccato di incontinenza, e il santo sdegno,
ossia il forte disprezzo che si prova di fronte alle ingiustizie subite dai propri simili.

In seguito, Dante e Virgilio si avvicinano alla città infernale di Dite9.


Sulla porta della città di Dite, un “grande stuolo”, ossia una moltitudine di diavoli tenta di
impedire l'ingresso dei due poeti.
Virgilio fa cenno di voler parlare con loro in disparte e i diavoli acconsentono, invitando Dante a
tornare indietro trovando da solo la strada.
Dante è, allora, colto da grande paura, ma Virgilio lo rassicura, come spesso suole fare,
ricordando che il suo viaggio è voluto da Dio: “Non temer; ché 'l nostro passo non ci può tòrre
alcun: da tal (=Dio) n'è dato”.
Virgilio, però, torna poco dopo sconsolato da Dante, con “li occhi a la terra”, ovvero gli occhi
bassi: non è riuscito a convincere i diavoli.
Si tratta del primo scacco da lui subito nel corso della sua missione.
Comunque, non si perde d'animo, ed esorta Dante a fare lo stesso, dichiarando che un
messo celeste sta già percorrendo la discesa infernale e grazie al suo intervento il viaggio potrà
proseguire.
Il canto si chiude, dunque, in un'atmosfera di attesa, con il preannuncio di un essere che porterà
salvezza e aiuto.

CANTO IX
Il canto IX si svolge nel sesto cerchio, nella città di Dite, ove sono puniti gli eretici.
All'inizio, ci si trova di fronte al pallore di Dante, la cui paura induce Virgilio a nascondere la sua
preoccupazione, mentre tende l'orecchio in attesa dell'arrivo del messo celeste.
Dante chiede al maestro se per caso un'anima del Limbo sia mai discesa fino al basso
Inferno e Virgilio risponde che, benchè ciò accada raramente, a lui è capitato, quando la maga
Eritone lo aveva evocato per trarre fuori dalla Giudecca l'anima di un traditore.
Si noti che le anime del Limbo sono indicate come “alcun del primo grado che sol per pena ha la
speranza cionca”: sono – cioè - coloro che come pena hanno solo la speranza troncata, ossia
l'eterno, inappagato desiderio della visione di Dio.
Quanto alla discesa di Virgilio nel “cerchio di Giuda” per volere della maga Eritone, questa è
un'invenzione dantesca, con la quale il poeta giustifica la conoscenza che la sua guida ha
dell'Inferno.
Sulla cima delle mura della città di Dite appaiono, in seguito, le tre Furie infernali, sporche
di sangue e coi capelli serpentini.
Virgilio le riconosce: sono Megera, Aletto e Tesifone.
Le Furie (Erinni secondo il nome greco) rappresentano i rimorsi che fanno precipitare l'uomo che
ha commesso il male nell'abisso della disperazione: sono, infatti, le tormentatrici di coloro che
hanno commesso delitti di sangue.
Esse invocano l'arrivo di Medusa affinchè ella pietrifichi l'ardito visitatore vivo: “Vegna Medusa:
sì 'l farem di smalto”, dove “smalto” sta genericamente per “pietra”.

9 Città immaginaria, circondata dalla palude stigia, dove è situato il VI cerchio.


Nella mitologia greca, Medusa è la terza delle tre Gorgoni, figlie di Forco, dio marino.
Il suo sguardo rende di pietra chiunque lo incroci; benchè venga uccisa da Perseo (aiutato da
Minerva), la sua testa conserva tutto il suo potere.
Allora Virgilio ordina a Dante di chiudere gli occhi e di voltarsi, avvertendolo che, se mai
guardasse, sarebbe vano sperare in un ritorno sulla Terra.

A questo punto, Dante si rivolge al lettore avvertendolo di aguzzare l'ingegno per cogliere il
significato profondo del suo racconto: “sotto 'l velame10 de li versi strani” si cela una “dottrina”,
ovvero un insegnamento morale, dunque il lettore deve considerare il piano allegorico e non solo
quello letterale del racconto.

Dopo tale allocuzione, Dante procede nella narrazione.


Racconta di come, in seguito ad un improvviso fracasso, giunga un messo celeste che passa lo
Stige a piedi asciutti, e di fronte al quale fuggono i dannati e i demoni.
Con una verga, spalanca la porta e, senza dire parole ai due poeti, torna indietro.
Il messo celeste non vola, quindi risulta difficile associarlo ad un angelo; si sa che cammina sulle
acque dello Stige “con le piante asciutte” e che muove l' “aere grasso” con la mano: altri elementi
non sono dati, dunque non è possibile identificarlo con nessuna figura in particolare.
Ai versi 82 e 84 si legge: “Dal volto rimovea quell'aere grasso e sol di quell'angoscia parea
lasso”.
Il Messo non è, quindi, affaticato se non dal fastidio dell'aria densa e caligionosa: questa “angoscia”
pare a contrasto con la sua condizione beata di creatura angelica; in realtà, nella “Commedia” i
beati non sono esenti da emozioni ed affanni: basti pensare al pianto di Beatrice di Inf, II.
Sia il messo sia Beatrice sono, comunque, due manifestazioni della grazia divina, che rimuove
dal cammino ogni difficoltà.
L'insufficienza delle forze dell'uomo per affrontare il viaggio verso la salvezza ed il conseguente,
necessario ricorso alla grazia divina è il significato complessivo del passo, è quella “dottrina” che
“s'asconde sotto 'l velame de li versi strani”.
Come già accennato, il messo spalanca la porta della città e lo fa “con una verghetta”: la verga è
simbolo di potere, ma qui Dante si serve del diminutivo “verghetta” e indica, con ciò, come a Dio
basti pochissimo per sconfiggere il male.

Il Messo allontanatosi, Dante e Virgilio entrano nella città di Dite.


Qui, vedono delle tombe simili a quelle dei cimiteri di Arles e di Pola.
Tuttavia, questi sono sepolcri arroventati, i coperchi sono alzati e si sentono uscire dalle tombe i
gemiti e i pianti dei dannati.
Chiestane spiegazione a Virgilio, Dante viene a sapere che qui stanno gli eretici; prosegue quindi il
cammino tra le mura e i sepolcri infuocati.
Quanto alla denominazione degli eretici, Dante parla di “eresiarche con lor seguaci”.
“Eresiarche” è il plurale antico in -e di nomi maschili con singolare in -a.
L'eresiarca è il fondatore di sette contrarie all'ortodossia, ma Dante aggiunge “con lor seguaci”: i
puniti del cerchio non sono solo gli eresiarchi, ma appunto tutti gli eretici.

10 In RVF, 11, Petrarca crea il mito del velo, che, oltre al significato letterale di velo con cui Laura copre il suo viso, ha il senso
di “velamen allegorico della poesia”, che svela il suo significato soltando a chi sa interpretarla correttamente. Anche qui,
Dante tratta del senso profondo della sua opera.
CANTO X
Il canto X si svolge nel sesto cerchio, entro le mura della città di Dite, dove sono puniti gli
eretici.
Sono qui relegati gli eretici di ogni eresia, ma Dante è interessato soprattutto ai dannati da lui
denominati “seguaci” di Epicuro.
Il termine va inteso in senso allargato: gli epicurei non sono, qui, gli antichi seguaci della filosofia
di Epicuro, ma coloro che “l'anima col corpo morta fanno”, cioè i negatori dell'immortalità
dell'anima, coloro che fondano la loro visione della vita su una visione unicamente terrena.

Virgilio guida Dante fra le tombe della città di Dite; incuriosito, il poeta chiede se sia
possibile vedere le anime che giacciono nei sepolcri, dal momento che i coperchi sono sollevati e
nessuno fa la guardia: “La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder?”.
La domanda di Dante è generica, ma egli pensa, probabilmente, ad una sola persona: quella che
aveva aperto, nella sua domanda a Ciacco, l'elenco dei cittadini che a “ben far puoser li 'ngegni”,
ovvero Farinata degli Uberti.
Dopo aver spiegato che le tombe saranno chiuse in eterno il giorno del Giudizio Universale,
quando le anime risorte si saranno riappropriate del corpo nella valle di Iosafat11, Virgilio dice che
Dante sarà presto soddisfatto.
Il motivo del Giudizio universale si ritrova ugualmente in If, VI, ove Virgilio spiega a Dante che
Ciacco non si risolleverà più fino al giorno della “gran sentenza”.

Ad un certo punto, una voce esce da una delle tombe e invita Dante a fermarsi, avendolo
riconosciuto dalla “loquela”, ovvero dall'accento, come fiorentino.
La voce esordisce con queste parole: “O Tosco che vai per la città del foco”.
In “tosco”, che sta per toscano, c'è in nuce tutto l'amore profondo che la voce, che è quella di
Farinata degli Uberti, nutre per Firenze, ed il rammarico di aver dovuto ricorrere alla forza delle
armi contro di lei.

Dalla tomba, Farinata degli Uberti si erge maestoso.


Scrive Dante: “el s'ergea col petto e con la fronte”.
Il petto e la fronte sono le parti del corpo che, secondo la scienza del tempo, erano sede del
sentimento e del pensiero: l'espressione contribuisce a dare alla figura un carattere di
eccezionalità.
La grandezza di Farinata sarà esaltata ulteriormente, qualche verso più avanti, dal contrasto con
Cavalcante, che è solo “ombra” che si inginocchia “fino al mento”.

Farinata è il nome con cui è conosciuto Manente di Iacopo degli Uberti, capo ghibellino
che passa alla storia come uno dei principali artefici della vittoria di Montaperti del 1260, con la
quale i ghibellini senesi sbaragliano i guelfi fiorentini.
Non riconoscendo il pellegrino (Farinata non conosce Dante, che nasce un anno dopo la sua
morte), gli chiede chi siano i suoi antenati.
Saputolo, dichiara che essi furono suoi avversari e che egli due volte li scacciò da Firenze.
Le due vittorie ghibelline che portano all'espulsione dei guelfi da Firenze avvengono nel 1248 e
nel 1260; Farinata ne è il principale artefice, il che giustifica il verbo alla prima persona
(“dispersi”).
Punto nell'onore famigliare, Dante dichiara che, come due volte furono cacciati, così due volte
seppero tornare12, cosa di cui gli Uberti non furono capaci.
11 Valle in cui, secondo la Bibbia, Dio giudicherà, alla fine dei tempi, tutte le genti.
12 I guelfi esiliati rientrano in città la prima volta dopo la morte di Federico II, la seconda dopo la sconfitta e morte di Manfredi
nella battaglia di Benevento del 1266.
A fianco di Farinata sorge, in seguito, un'ombra, che gli chiede come mai, essendo egli qui
per “altezza d'ingegno”, non sia insieme a suo figlio: le due domande “mio figlio ov'è? E perchè
non è teco?” mettono in luce l'orgoglio del padre per il proprio figlio.
Dante riconosce in quell'anima il padre dell'amico Guido Cavalcanti e risponde che suo figlio ebbe
a disdegno le verità religiose, quindi non è in grado di affrontare un viaggio soprannaturale.
Il verbo al passato impiegato da Dante (“ebbe”) fa credere a Cavalcanti che suo figlio sia morto.
Egli, “di subito drizzato”, grida: “Come? dicesti 'elli ebbe'? non viv'elli ancora?”: le tre domande
indicano l'affanno incalzante di Cavalcante.
A questo punto, Dante esita, Cavalcante interpreta ciò come una conferma del suo timore, perciò
ritorna nel suo sepolcro.

Per quanto riguarda il personaggio di Cavalcante, va detto che egli è un fiorentino di parte
guelfa, avversario di Farinata.
Gli antichi commentatori lo descrivono come seguace delle opinioni di Epicuro, quindi sostenitore
della mortalità dell'anima.

Dopo la parentesi di Cavalcante, riprende il colloquio tra Dante e Farinata.


Farinata gli profetizza l'esilio, poi chiede come mai i fiorentini si accaniscano contro la sua
famiglia.
L'accorata domanda “perchè quel popolo è sì empio incontr'a' miei in ciascuna sua legge?” vede
la scomparsa di ogni traccia di superbia e la comparsa di un velo di malinconia.
Dante risponde che ciò avviene a causa della battaglia di Montaperti, Farinata ribatte dicendo che,
pur essendone stato responsabile, non è stato l'unico.
Puntualizza, inoltre, che ha difeso “a viso aperto” la sua città quando i capi ghibellini, riunitisi a
Empoli, volevano decretarne la distruzione.

Dante, che nel canto VI ha tratto da Ciacco la convinzione che i dannati possano vedere il
futuro, chiede a Farinata perchè essi, pur conoscendo il futuro, non hanno notizie del presente.
Farinata spiega, allora, che, al pari dei presbiti, i dannati vedono le cose lontane, ma non quelle
vicine.
Dante lo prega, perciò, di riferire a Cavalcante che suo figlio è ancora vivo, e che la sua
esitazione è stata determinata dal dubbio ora risolto.

Chiede, poi, chi siano gli altri dannati: Farinata riporta i nomi di Federico II (imperatore e
re di Sicilia morto nel 1250) ed il cardinale Ottaviano degli Ubaldini (un cardinale di illustre
famiglia ghibellina morto nel 1273), e scompare nel sepolcro.

A questo punto, Dante riprende il cammino, piuttosto pensieroso; Virgilio lo conforta


dicendo di tenere a mente ciò che ha udito e di attendere il momento in cui Beatrice gli svelerà il
suo futuro: “da lei saprai di tua vita il viaggio”.
In realtà, il “viaggio” della sua vita gli verrà narrato da Cacciaguida nel Paradiso, non da
Beatrice.
Si può allora pensare che, nel momento in cui scrive questo canto, Dante abbia in mente di farsi
predire l'esilio e le altre vicende future della sua vita da Beatrice: la “Commedia”, si ricordi, è
un'opera che si evolve e si arricchisce via via nel corso della sua stesura.

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