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La monarchia romana

Da Romolo ai Tarquini

I- LA MONARCHIA LATINO-SABINA
Una lunga fase monarchica nella storia di Roma arcaica è realmente documentata anche dalle
iscrizioni, in analogia con la storia istituzionale di molte città del Lazio e dell’Etruria: nella successiva
età repubblicana sopravviveva il ricordo di un rex attraverso il sacerdozio del rex sacrificulus che ne
ha ereditato le competenze; egli risiedeva (come più tardi il Pontifex Maximus) nel foro romano,
all’interno della Regia, presso il tempio di Vesta; infine la cerimonia religiosa del regifugium che
prevedeva riti lustrali alla vigilia dell’inizio dell’anno nuovo (I marzo) presuppone l’improvvisa fuga
del rex e poi del rex sacrificulus dal comizio. Anche in avanzata fase repubblicana il periodo che
intercorre tra la scomparsa dei consoli e la nomina dei nuovi magistrati prende il nome di interregnum,
quando l’imperium viene per così dire “congelato” e affidato settimanalmente ad un senatore che
prede il titolo di interrex.
Meno sicuri siamo sull’esistenza di soli sette re, come la tradizione canonica ci racconta, per quanto
gli scavi effettuati sul Palatino negli ultimi decenni abbiano sostanzialmente confermato la cronologia
della fondazione della città nell’età del ferro e l’esatta localizzazione della residenza dei primi re, sul
terrazzo che si affaccia sul Tevere. Romolo (affiancato dopo il ratto delle Sabine dal re sabino Tito
Tazio) e gli altri re avrebbero regnato mediamente 35 anni, dunque dal 754 al 509 a.C., un periodo di
245 anni con un’alternanza inizialmente di re latini e di re sabini, più tardi di re etruschi.

Lo storico Tito Livio (59 a. C. – 19 d. C.) nel primo libro della Storia di Roma, dalla sua fondazione,
descrive le fasi politiche, istituzionali e sociali di Roma, che per tre secoli dall’VIII al VI a. C., venne
governata in forma monarchica: un regime (analogo a quello di tante altre città dell’area), che
l’accompagnò con risultati alterni dalla fase proto urbana sino al momento in cui, nel VI secolo, Roma
si modernizzò sotto il profilo urbanistico e culturale con l’arrivo dei monarchi etruschi.
Le fonti attestano la successione di sette re, otto se si tiene conto della diarchia della prima fase
dell’esperienza monarchica, in cui i re furono il latino Romolo e il sabino Tito Tazio.

Romolo (metà VIII secolo)


Quella del re Romolo (per quanto sempre in bilico, nella considerazione degli storici tra realtà e
tradizione leggendaria) rappresenta una vicenda complessa e articolata nella quale entrano in gioco
elementi differenti. La tradizione riportata dalle fonti, riferisce di due gemelli partoriti da Rea Silvia,
la figlia di Numitore, originariamente re di Alba Longa, in seguito destituito dal fratello Amulio:
Plutarco, autore di una biografia su Romolo (parallela a quella greca di Teseo), sostiene che era
chiamata anche Ilia (da Ilio-Troia) o Silvia (discendente degli antichi Silvii delle foreste del Lazio).
Il padre dei gemelli sarebbe stato il dio Marte che avrebbe avuto un rapporto illecito con Rea,
all’epoca costretta da Amulio a divenire vestale e dunque a conservarsi vergine per non generare
possibili pretendenti al trono di Alba Longa. Ne consegue che il sacerdozio delle Vestali precede la
fondazione di Roma. BOX 1. Una volta partoriti i gemelli, Amulio diede ordine ad un servo di
abbandonarli entro una cesta alle acque del fiume Tevere: la cesta dopo aver galleggiato,
contrariamente alle aspettative di Amulio, giunse presso una zona abbastanza pianeggiante, il
Cermalo, dove era cresciuto un fico denominato Ruminale, con un collegamento, a detta di Plutarco,
con i ruminanti o piuttosto con la mammella e il seno materno e dunque con l’antica dea Rumina,
preposta all’allevamento dei bambini; in alternativa gli studiosi pensano alla forma del colle palatino
presso l’Isola Tiberina. In questo luogo i gemelli sopravvissero grazie ad una lupa, assai docile, che
li allattò e ad un picchio che li imboccò, fintanto che vennero accolti da un pastore, il mandriano di
Amulio Faustolo, che li allevò insieme alla moglie Acca Larenzia, facendo sì che diventassero giovani
forti, dediti alla caccia più che all’allevamento del bestiame. Avvenuto il riconoscimento dei gemelli
da parte di Numitore, dopo la cattura di Remo, i due giovani vollero reinsediare sul trono di Alba il
nonno e restituire il proprio ruolo alla madre Rea, uccidendo Amulio, ma decisero di non fermarsi
nella città che aveva dato loro i natali. Il loro progetto era quello di fondare, con il rispettivo seguito
di aspiranti cittadini di un nuovo abitato, una città nei luoghi dove erano stati esposti ed allevati da
piccoli, che superasse per dimensioni sia Alba sia Lavinio, la città sulla costa che il mito vuole fondata
da Enea. A questo punto la vicenda di Romolo e Remo si localizza sul Tevere, a Nord dei colli laziali
dove sui trovava Alba Longa, presso il Palatino e l’Aventino. Qui entrambi i gemelli cercarono di
trarre auspici favorevoli che assicurassero loro un primato per condurre il nuovo regno che andavano
a fondare, benché Remo e i suoi dall’Aventino avessero scorto per primi sei avvoltoi, traendone
dunque auspici favorevoli per il proprio progetto, Romolo e la sua schiera dichiararono di averne
veduti dodici, il doppio, ribaltando così l’auspicio precedente. Livio e Plutarco convergono su questo
punto e collegano, sia pure con alcune differenze, la morte di Remo al fatto di aver scavalcato
provocatoriamente, le nuove mura della città. BOX 2.
I dati della tradizione che si riferiscono ad un muro di epoca romulea sono stati da tempo rivalutati
dagli archeologi e ricollegati agli elementi cronologici che si desumono dalle fonti, sulla base del
ritrovamento delle mura Palatine databili intorno alla metà dell’VIII secolo a. C. (fase Laziale IIIBI).
Le vicende della saga romulea si svilupparono e consolidarono, nel loro nucleo più antico, tra la metà
dell’VIII ed il VII secolo a. C. L’idea della fondazione in un unico atto della città, confluì poi ad
opera dell’enciclopedista Varrone Reatino, in una data simbolica, quella del ventuno aprile del 753
a. C., che venne a coincidere con l’antichissima festività romana dei Palilia, celebrata in onore della
divinità Pale, per purificare le greggi e i pastori. Le mura di Romolo, secondo Plutarco, avrebbero
avuto come centro una fossa, scavata in quello che sarebbe divenuto il Comizio, nella quale su
indicazione degli auguri fatti giungere dall’Etruria,: «furono deposte le offerte iniziali di tutto ciò che
è bello secondo i costumi e di tutto ciò che è necessario secondo la natura. Poi ciascuno gettò nella
fossa una zolla della terra da cui proveniva, e in seguito le mescolarono fra loro» (PLUT. Rom.11, 2).
La fossa chiamata mondo (mundus), avrebbe avuto il valore simbolico di segnare l’inizio della città,
sarebbe stata dunque un simbolo di un solenne atto fondativo. Con l’aratro, al quale erano aggiogati
un toro e una vacca, Romolo tracciò poi un solco profondo, mentre coloro che lo seguivano avevano
il compito di spostare le zolle sollevate dal vomere e buttarle all’interno del solco che
progressivamente veniva disegnato; questa fu la linea che definì il perimetro del muro e ciò che stava
dietro il muro veniva chiamato pomerio (post murum). Un’altra tradizione si riconnette ad
un’espressione quella di “Roma quadrata”, riconducibile sia al pomerio quadrangolare della città
collocata sull’altopiano del Palatino, determinato dalla forma del colle, sia ad una piccola area su di
esso, dove Romolo prese gli auspici che a torto o a ragione lo indicarono come prescelto ad essere
fondatore della città rispetto al fratello Remo.
Romolo incarna la figura dell’eroe culturale, fondatore della città, seppur con un atto violento come
quello del fratricidio, ed allo stesso tempo rappresenta il re legislatore, convinto che la comunità non
possa trovare giustificazione e coesione se non attraverso le leggi: «[…] (Romolo) convocato in
assemblea il popolo che non poteva trovare compattezza in un organismo unitario se non con le leggi,
emanò le norme giuridiche» (LIV. I, VIII, 1). Un re dunque che disegna i contorni della regalità
romana fondandoli sulla mescolanza etnica, alle origini del popolamento della città, cercando di
assorbire gli aspetti formali e in parte sostanziali di essa, dalla simbologia etrusca come pure da quella
delle altre aristocrazie latine e sabine. I simboli del potere acquisiti da Romolo erano di derivazione
etrusca: egli indossava la toga pretesta, ossia orlata di porpora, si muoveva accompagnato da dodici
littori che portavano nella sinistra il fascio di verghe sormontato da una scure e amministrava la
giustizia seduto sulla caratteristica sella curule, un seggio collocato su un carro.
Romolo era comunque espressione del gruppo di punta dell’aristocrazia latina, nipote di re e dunque
concepiva la gestione del potere, collocata all’interno di una società guerriera fondata su distinzioni
sociali ben precise; per quanto le sue azioni fossero connotate dal decisionismo, egli governava
poggiandosi su un’assemblea selezionata, da lui fondata, il Senato, un Consiglio degli anziani (da
senex con il significato di anziano): esso era formato da cento membri patrizi, sostantivo quest’ultimo
derivante da padri (patres) che secondo Plutarco (13, 2-3) erano figli legittimi o padri di figli legittimi.
Sempre secondo Plutarco, il termine “patrizio” (alla base dello scontro tra patriziato e plebe della
prima repubblica) poteva avere un collegamento con il ruolo del patronato nell’ottica del rapporto
fra patrono e cliente: patrono era colui che per nascita, esperienza e mezzi finanziari presta aiuto,
come consulente giuridico e sostenitore, al cliente che viene dalla moltitudine del popolo ma
contraccambia il patrono, ad esempio con dazioni di danaro per pagare i debiti: un rapporto sociale
che entrò nei gangli della società romana, determinando rapporti sociali e familiari molto articolati
che soprattutto per la tarda epoca repubblicana e per quella imperiale ci sono noti nei dettagli
attraverso un patrimonio epigrafico significativo ed estesissimo.
La sua veste di re fondatore (dunque artefice delle istituzioni della città) e guerriero, è testimoniata
dai primi provvedimenti di Romolo, quelli volti a inquadrare la popolazione in circoscrizioni, dalle
tribù alle curie, che avevano alla base multipli di tre e di dieci, combinati assieme. Ne dà
testimonianza lo storico Dionigi di Alicarnasso, vissuto in epoca augustea (DION, 2, 7, 2-4). Resta
discusso il confine esatto tra i ruoli che dovevano spettare al re oppure all’assemblea del popolo nelle
decisioni riguardanti la città; del resto era comune convinzione che il governo cittadino non potesse
esaurirsi nel rapporto tra re e senato. Tale inquadramento era poi funzionale a scegliere gli uomini
per l’esercito, indispensabile per la protezione come pure per l’accrescimento dei confini della città.
La popolazione venne divisa in tre tribù gentilizie originarie, dei Ramni (Ramnes), dei Tizi (Tities) e
dei Luceri (Luceres). Occorre precisare che gli storici di età cesariana o augustea attingevano a loro
volta a fonti precedenti come quelle annalistiche conservate o a fonti ancora più antiche, delle quali
cercavano di razionalizzare alcuni elementi che sfuggivano con precisione alla loro interpretazione.
A proposito delle tribù originarie, ad esempio, colsero il collegamento con la multietnicità del primo
nucleo di abitanti della città, collegando i Ramni ai Latini di Romolo, i Tizi ai Sabini di Tito Tazio e
i Luceri ad uno sconosciuto Lucumone etrusco, accorso in aiuto di Romolo contro i Sabini. Su questa
base si disegnò l’ordinamento curiato o della suddivisione della popolazione in curie. Il sostantivo
curia sarebbe derivato da coviria, con riferimento all’assemblea del popolo: trenta curie, dieci per
ciascuna tribù originaria; 300 decurie, dieci per ciascuna delle 30 curie, 3000 cittadini, dieci a formare
ciascuna delle decurie.
L’esercito venne detto “legione”, secondo Plutarco (13, 1) perché costituito da uomini scelti (dal
verbo lego con il significato di scegliere) fra il resto della popolazione, la moltitudine, che in epoca
storica si definiva plebe. Lo schema piuttosto semplice dell’esercito di Romolo prevedeva come base
del reclutamento l’ordinamento per tribù e per curie anch’esso su base tre-dieci e loro multipli: da
ciascuna delle tre tribù venivano scelti millecento uomini, mille fanti e cento cavalieri;
complessivamente l’esercito romuleo risultava formato da 3000 fanti e 300 cavalieri, cento fanti e
dieci cavalieri per ciascuna delle 30 curie.
Come frutto della volontà di generare coesione soprattutto in vista dell’accrescimento del numero
degli abitanti della nuova città venne destinato un luogo, denominato Asilo, probabilmente un bosco,
secondo il dettato di Livio: «che ora a coloro che salgono [verso la parte alta del Campidoglio] appare
circondato da altri due boschi»: qui attraverso la porta Pandana (con il significato etimologico di
“sempre aperta”), ai piedi del Campidoglio dalla parte del Foro, potevano affluire verso la cima, sulla
destra, coloro che cercavano rifugio e protezione, servi o liberi, che avessero commesso reati nei loro
luoghi d’origine, ad esempio schiavi fuggitivi ed anche rei di delitti contro la persona che cercavano
nella nuova città un’occasione di riscatto o solo banalmente tentavano di sfuggire alla pena. Per
Plutarco il luogo, istituito in seguito ad una indicazione dell’oracolo di Delfi, prendeva nome da un
tempio dedicato al dio Asilo che offriva rifugio ai fuggitivi, si trattasse di schiavi fuggitivi, di debitori
insolventi e financo di assassini che tentavano di evitare la pena comminata loro dai magistrati delle
città vicine, tutto ciò sempre nell’ottica delle esigenze demografiche della Roma delle origini (PLUT.,
Rom., 9, 3). Tali esigenze condussero ad uno dei rapimenti, considerati nella storia di genere tra quelli
maggiormente violenti, il “ratto delle Sabine”, quando Romolo e i suoi strapparono alle loro famiglie,
ai loro padri e madri, giovani donne di origine sabina. Il re aveva chiesto invano un’apertura verso le
unioni tra Romani e donne dei popoli vicini, ma la proposta determinò al contrario un atteggiamento
di chiusura e di scherno, tanto che venne risposto che i Romani avrebbero fatto meglio ad aprire un
asilo anche alle donne, alludendo al fatto che gli abitanti di sesso maschile della nuova città
meritavano donne di infima estrazione sociale. Romolo decise allora di organizzare una vera e propria
“razzia” di donne giovani e belle, queste ultime da destinarsi alle unioni con i senatori, in occasione
dei Consualia, che Livio definisce, feste abbinate a corse di cavalli, in onore del Nettuno equestre e
che Plutarco con maggior dovizia di particolari individua come festività legate al dio Conso, il dio
che aveva dato nome al consiglio del re e ai consoli. BOX 3 L’invito a partecipare alla festa venne
notificato ai popoli vicini: Ceninesi, Crustumini, Antemnati, i cui centri di provenienza sorgevano
alla confluenza del Tevere con l’Aniene, suo affluente di sinistra, e a tutta la popolazione dei Sabini;
gli ospiti vennero accolti generosamente e poterono rendersi conto dei grandi progressi fatti dalla città
di nuova fondazione in termini di edilizia e architettura, finché durante lo svolgimento dei giochi che
calamitavano l’attenzione dei convenuti ad un segnale stabilito i giovani romani iniziarono il
rapimento delle ragazze sabine, provocando lo sdegno e la protesta dei loro genitori e delle stesse
giovani, placate queste ultime da un discorso di Romolo; egli era direttamente interessato a riportare
la pace negli animi delle donne sabine, in quanto la moglie che aveva scelto per sé, Ersilia, faceva
parte di quel gruppo.BOX4
Si formò una coalizione di popoli, decisi a vendicare l’oltraggio subito dai Romani, che si raccolse
intorno al re sabino Tito Tazio, ritenuto però troppo lento nell’agire dai Ceninesi, che intervennero
prontamente da soli e vennero sbaragliati da Romolo e dall’esercito romano che offrì le loro spoglie
a Giove Feretrio, per il quale consacrò il primo tempio inaugurato a Roma sul Campidoglio. BOX 5
Giove Feretrio. La reazione dei Sabini, guidati da Tito Tazio, non si fece attendere: per penetrare a
Roma, venne corrotta Tarpea, la figlia del comandante della rocca, con la promessa di una ricompensa
-forse i famosi bracciali d’oro e gli anelli con gemme, indossati tradizionalmente dai guerrieri sabini-
che finse di recarsi fuori dalle mura ad attingere l’acqua per i sacrifici, lasciando aperte le porte della
rocca di cui i Sabini si impadronirono; la sorte di Tarpea era ad ogni modo segnata, tanto da venire
uccisa e seppellita sotto le armi sabine come traditrice. Lo scontro violento tra Romani e Sabini ebbe
luogo nel Foro Romano, con inizio dalle pendici della rocca e nel Comizio e si configurò, secondo
gli studiosi, in una serie di avanzate e inseguimenti tra la rocca e il Palatino. La ritirata dei Romani,
scoraggiati dopo la morte di Osto Ostilio, forse il nonno del re Tullo Ostilio, indusse Romolo a
promettere di intitolare un tempio a Giove Statore, il dio che manteneva salde le schiere dei
combattenti, se avesse ricompattato l’esercito. Il tempio sicuramente di epoca posteriore, sarebbe
stato eretto immediatamente fuori della Porta Mugonia, che consentiva l’accesso al Palatino per chi
provenisse dalla Sacra via. L’intervento, durante la battaglia, delle donne sabine, accorse nel foro a
dividere le schiere dei combattenti fu decisivo: esse scongiurarono i loro padri e fratelli sabini e i loro
mariti romani e riuscirono a metter fine ai combattimenti. Si arrivò allora addirittura alla divisione
del regno tra Romolo e Tito Tazio, un’inconsueta forma di diarchia che fece sì che i Sabini si
trasferissero a Roma, e venissero chiamati Quiriti da Curi, loro città di origine.
Secondo la tradizione, Romolo scomparve in occasione di un’adunanza al Campo Marzio, presso la
Palude della Capra: si sarebbe sviluppata all’improvviso una tempesta di tuoni mentre il cielo si
rabbuiava e il re sarebbe sparito avvolto da una nuvola densa. Tutto ciò venne confermato da un
testimone Proculo Giulio che, presentatosi il giorno dopo l'evento davanti al popolo riunito, affermò
che all'alba gli era apparso il re, sceso dal cielo, ordinandogli di annunziare le sue volontà ai Romani
che dovevano coltivare la loro vocazione bellica: perfezionando l'arte militare nessuno avrebbe potuto
e saputo resistere al loro esercito e Roma sarebbe divenuta la capitale del mondo. Dopo di ciò il re
sparì nel cielo (LIV., I, 16). In realtà si pensò sin da subito ad una congiura dei senatori che avrebbero
ucciso e fatto a pezzi Romolo, nel tempio di Vulcano, portando ciascuno con sé, nascosta sotto gli
abiti, una parte del suo corpo. Del resto le ricerche del re messe in atto dal popolo a conclusione del
terribile fortunale vennero interrotte dagli aristocratici che invitarono tutti a venerare, da quel
momento, Romolo come un dio propizio, con il nome di Quirino (PLUT., Rom, 27, 6.)
Secondo Plutarco tali avvenimenti avrebbero avuto luogo il sette luglio, giorno dedicato
successivamente alla celebrazione delle None Caprotine, la festa in onore di Giunone Caprotina, dea
del capro o della capra (in connessione alla Palude della Capra) e del fico selatico: tale festa aveva
forti connotazioni sessuali ed era praticata dalle donne, matrone o serve che fossero. Sulla base degli
elementi topografici forniti dalle fonti, gli eventi legati alla morte di Romolo si sarebbero svolti presso
il luogo di culto in onore di Vulcano, il Volcanale, nell’area del Comizio, nella zona settentrionale
del Foro.

BOX 1. Alba Longa


Le vicende del regno di Alba Longa appaiono strettamente collegate a quelle della fondazione di
Roma. Sulla localizzazione di Alba Longa, ad oggi non vi è certezza assoluta, per quanto vi siano
elementi che la collocherebbero nell’odierno centro di Castel Gandolfo, con l’arce (l’acropoli) che
sorgeva laddove oggi si innalza la residenza estiva dei papi. La vita di questo centro laziale, ci
riconduce ad un insediamento abitativo protostorico appartenente alla cultura Laziale, dell’età del
Ferro, sviluppatosi tra il X e il IX secolo a. C. Secondo la tradizione Alba venne fondata da Ascanio,
figlio di Enea e Lavinia, per quanto si sottolinei come si potesse anche trattare del figlio di Enea e di
Creusa, la moglie troiana (LIV., I, 3); da questo capostipite si sarebbero poi succeduti una serie di re
sino a giungere a Proca, padre di Numitore ed Amulio. Il centro rimase sempre ad uno stadio pre-
urbano e la sua decadenza avvenne in coincidenza con i fatti attribuiti dalla tradizione a Romolo e
Remo e con la fondazione di Roma. Presso Alba Longa, sull’odierno Monte Cavo, la seconda
montagna del complesso dei Colli Albani, sorgeva l’antichissimo santuario di Giove Laziale (Iupiter
Latiaris), sede di un culto federale dei popoli latini, durante il quale veniva sacrificato un toro bianco,
le cui carni si distribuivano fra i partecipanti: un culto rimasto vivo ancora in epoca imperiale e
celebrato dai Romani in occasione delle feste denominate Feriae Latinae che non si svolgevano in
una data fissa ma erano mobili e la cui cadenza veniva fissata dai consoli.

BOX 2. Il dissidio tra Romolo e Remo


Si dice che a Remo per primo apparvero come segno augurale sei avvoltoi e poiché quando ormai
l’augurio era stato annunziato, se n’erano offerti alla vista di Romolo il doppio, le rispettive schiere
li avevano acclamati re entrambi: gli uni pretendevano d’aver diritto al regno per la priorità nel tempo,
gli altri invece per il numero degli uccelli. Venuti quindi a male parole, dalla foga della discussione
furono spinti alla strage; fu allora che Remo, colpito nella mischia, cadde. È più diffusa la tradizione
che Remo, in atto di scherno verso il fratello, abbia varcato con un salto le nuove mura; che per questo
egli sia stato ucciso da Romolo infuriato, il quale, inveendo anche con le parole, avrebbe aggiunto:
«D’ora in avanti così muoia chiunque varcherà le mie mura!». Pertanto Romolo ebbe da solo il potere;
fondata la città, essa ebbe nome dal suo fondatore (LIV. 7, 1-3)
Convennero allora di rimettere il giudizio sulla contesa al volo auspicale degli uccelli. Appostandosi
separatamente, dicono che a Remo apparissero sei avvoltoi, a Romolo il doppio. Alcuni affermano
che Remo ne vedesse realmente sei, mentre Romolo avrebbe mentito, per quanto appena Remo andò
da lui, allora ne vide dodici (PLUT., 9, 4).
… Quando Remo si accorse dell’inganno, fu sopraffatto dall’ira e mentre Romolo scavava il fossato
dove doveva sorgere il muro intorno alla città, metteva in ridicolo parte dei lavori e cercava di
ostacolare l’esecuzione dell’altra parte, Alla fine alcuni dicono che lo stesso Romolo, altri Celere,
uno dei suoi compagni, lo colpì mentre scavalcava il fossato e dicono che egli cadesse morto lì
(PLUT., 10, 1-2).

BOX 3. Il dio Conso, i Consualia.


Conso era anche, in unione con la dea dell’abbondanza Opi, il protettore del frumento custodito nei
granai: l’altare sotterraneo presso il Circo Massimo era collocato in un’area collegata ai culti agrari.
I Consualia si tenevano il 21 agosto e il 15 dicembre
«Venne da lui [Romolo] diffusa in primo luogo la notizia che si era rinvenuto, celato sottoterra,
l’altare di un dio che i Romani chiamavano Conso sia perché fosse il dio dell’assemblea (ancora oggi
denominata consiglio e vengono denominati consoli i più alti magistrati, poiché consiglieri) sia perché
fosse il Nettuno ippico. Infatti il suo altare si trova nel Circo Massimo e non risulta visibile in alcun
altro periodo, eccetto quello delle gare ippiche, in cui viene scoperto» (PLUT., Rom., 14, 3).
BOX 4. L’inganno verso i Sabini: Il “ratto delle Sabine”.
«[…] Le giovani rapite non nutrivano una migliore speranza o una minore indignazione. Ma Romolo
in persona si recava da loro e le metteva al corrente che tutto ciò era accaduto per la superbia dei loro
padri che avevano interdetto l’unione matrimoniale con i vicini; che tuttavia esse sarebbero state unite
in matrimonio, rese compartecipi di tutti i beni, della cittadinanza e ciò di cui nulla è più caro al
genere umano, dei figli; dunque placassero l’ira e concedessero il cuore a quanti, la sorte, aveva dato
il loro corpo; spesso da un’offesa poi era nato un accordo; e tanto più avrebbero trovato migliori i
propri mariti quanto ciascuno si fosse sforzato, secondo le proprie possibilità, di adempiere a sua
volta ai propri doveri, in modo tale da colmare il vuoto dei genitori e della patria» (LIV., I, 9, 14-15).

Il primo tempio di Roma: il tempio di Giove Feretrio e le “spolie opime”


Secondo Livio, il primo tempio consacrato a Roma fu quello di Giove Feretrio, dove venivano offerte
al dio le “spolie opime” sottratte ai comandanti nemici, sconfitti ed uccisi
«[…]Ricondotto da lì l’esercito vittorioso, egli uomo straordinario per le imprese e non meno
nell’ostentarle, salì al Campidoglio portando le spoglie del comandante nemico ucciso appese ad un
carretto, appositamente costruito a tal fine e lì dopo averle deposte ai piedi di una quercia sacra ai
pastori, contemporaneamente tracciò i confini del tempio di Giove e aggiunse l’epiteto al dio: “Giove
Feretrio”, disse, <<io, Romolo, re vincitore, offro a te queste armi regali e ti dedico un tempio in
questa area che ho delimitato con la mente, sede delle spoglie opime che i posteri, seguendo il mio
esempio ti offriranno, dopo aver ucciso re e comandanti nemici. Questa è l’origine del tempio che per
primo fu consacrato a Roma» (LIV. I, 10, 5-7).

Le origini. Dall’insediamento pre-urbano a quello proto-urbano.

«Dove adesso si trova Roma c’era un tempo il Septimontium così chiamato per il numero di monti
che in seguito la città incluse all’interno delle sue mura» (Varrone, De Lingua Latina, V, 41)
In realtà la fondazione ex novo, tratta dal dettato delle fonti, è contraddetta da elementi, assai
importanti, messi in luce dall’archeologo Andrea Carandini che incrociando i dati storico-letterari e
quelli tratti dall’indagine archeologica, distingue per il II millennio, un insediamento pre-urbano,
consistente in villaggi sparsi, riconducibili alla diffusione dei Latini di Alba Longa, in prossimità di
un guado del Tevere, a valle dell’isola Tiberina, ai piedi dell’Aventino. Alla metà del IX secolo a. C.,
l’insediamento pre-urbano si evolvette in una realtà proto-urbana, denominata Septimontium, che
inglobava i monti e i colli. Per monti si intendevano il Palatino l’Esquilino ed alcune loro propaggini:
il Cermalo propaggine del Palatino verso il Tevere, il Fagutale, l’Oppio ed il Cispio propaggini
dell’Esquilino, la Velia, altura tra il Colle Oppio, l’Esquilino e il Palatino e la Subura, la valle situata
alle pendici dei colli Quirinale e Viminale. Per colli si intendevano il Quirinale formato dai colli
Laziare, Muciale e Salutare e il Viminale tra il Quirinale e l’Esquilino. In tutto, fra monti e colli per
una superficie stimata intorno ai 205 ettari. Septimontium divenne anche la denominazione di una
festa a carattere purificatorio che si celebrava a Roma l’undici dicembre, con una processione e
sacrifici lungo un itinerario forse circolare. Essa risulta attestata ancora in epoca imperiale.
Alcuni storici ritengono altresì che questa fase proto-urbana non sia precedente alla prima età regia.
BOX PER IL SEPTIMONTIUM CARTINA

BOX. Septimontium
Per Varrone, nella seconda metà del I secolo a. C. il toponimo Septimontium indicava i sette monti
sui quali era sorta la città: «il giorno del Septimontium fu chiamato così da questi sette monti sui quali
è posta la città» (VARR., De lingua latina V, 41).
Per il giurista Antistio Labeone, in epoca augustea, con Septimontium si indicavano le feste dedicate
ai monti stessi che in realtà erano otto nel suo elenco, e in particolare quelle maggiormente importanti
che riguardavano il Palatino e la Velia: «Al Septimontium, come afferma Antistio Labeone, è festa
per questi monti: per il Palatino, cui si compie un sacrificio che è chiamato Palatuar; per la Velia, cui
ugualmente si compie un sacrificio; per il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l’Oppio, il monte Celio, il
monte Cispio». (Festo, De verborum significatu, XVII, Septimontium).
La testimonianza di Antistio Labeone, secondo gli studiosi, può consentire di attribuire un’etimologia
differente a Septimontium; piuttosto che quella di Varrone, sette monti, connessa all’unità della Roma
delle origini, l’etimologia sarebbe derivata da “monti recinti”, i monti cinti da palizzate della fase
pre-urbana.

Numa Pompilio (inizio VII secolo a. C.)


Alla morte di Romolo, i contrasti tra i Sabini che ambivano a conservare il potere paritario con i
Romani, dopo la morte del correggente Tito Tazio e i Romani che appartenevano a famiglie che
avevano dato il loro apporto alla città prima della fusione con i Sabini, portarono alla creazione
dell’istituto dell’interregno che durò per un anno. Esso consisteva in una rotazione del potere regale
tra dieci membri, ognuno scelto all’interno delle dieci decurie (formate da dieci senatori), per un
totale di cento, tanti quanti erano i membri del Senato, costituito da Romolo; dei dieci uno solo aveva
le insegne del potere e i littori, e la rotazione avveniva ogni cinque giorni. Il senato era consapevole
che la plebe odiava l’interregno, che sostituiva ad un unico re, un’ampia oligarchia costituita da cento
re: «La plebe dunque cominciò a manifestare disagio per la schiavitù che si era moltiplicata, invece
di uno si erano creati cento padroni; e non sembrava tollerare nient’altro che un re eletto dalla plebe
stessa» (LIV. I, 17, 7). Si giunse ad un accordo che consisteva da parte del senato nel concedere al
popolo la facoltà di scegliere il re, purché tale scelta fosse stata ratificata dal senato stesso, eppure
«Ciò risultò tanto gradito alla plebe che per non apparire superata in generosità, questo solo deliberò
e decretò, che il senato scegliesse chi fosse adeguato per regnare a Roma» (LIV. I, 17, 11).
Da questo momento si individuò un possibile successore di Romolo nel sabino della città di Curi,
Numa Pompilio, genero di Tito Tazio per averne sposato la figlia Tazia, definito: «uomo espertissimo,
per quanto si potesse esserlo in quell’epoca di ogni legge divina e umana» (LIV. I, 18, 1-2), che si
sarebbe formato in maniera tanto rigorosa non avendo certo a modello la filosofia greca (in particolare
Pitagora di Samo, vissuto due secoli dopo), quanto piuttosto la disciplina tradizionale del popolo
sabino, al quale apparteneva. In Livio e Plutarco si trova la ripresa della confutazione, su basi
cronologiche, di Cicerone, sulla possibilità che Numa fosse stato discepolo di Pitagora; tale notizia
nasceva in linea con uno stereotipo, presente nella Storia romana arcaica che metteva in un rapporto
di subordinazione culturale Roma rispetto alla Grecia. Del resto esso conobbe una persistenza se si
pensa che anche in epoca repubblicana, nel V sec., le fonti parlano dei decemviri inviati in Grecia per
conoscerne la produzione legislativa, al fine di elaborare le leggi delle XII Tavole romane.
Le fonti, pur con diversi accenti, sottolineano da una parte la grande religiosità e probità di Numa,
dall’altra, come nel caso di Plutarco, costruiscono un ritratto di questo personaggio che mostra una
naturale ritrosia, soprattutto alla soglia dei quarant’anni, ad acquisire il potere regale a Roma, in
quanto egli appare in antitesi con la fisionomia guerriera di Romolo. Numa viene descritto come
dedito alla meditazione e all’amore per la natura che si concretizzava in lunghe passeggiate nei
boschi; in questo senso appare come un prediletto dagli dei, nel caso specifico dalla ninfa Egeria che
lo amava ed alla quale si era unito in nozze divine e che divenne per lui maestra e consigliera in
materia di religione: un modello piuttosto diffuso, questo, riguardante le favolose unioni mistiche tra
uomini e dee. Livio sottolinea che la prima preoccupazione di Numa, una volta giunto a Roma, fu
quella di consultare gli dei, traendo gli augùri che soli avrebbero potuto mostrare la buona
disposizione degli dei verso di lui. Ciò avvenne con una cerimonia che derivava dal mondo complesso
della pratica religiosa etrusca, l’Etrusca disciplina, innestatasi forse su elementi della locale cultura
latina e sabina, percepibili nella tradizione dell’augure che officia la cerimonia con il capo velato.
BOX 1
Certamente nel profilo di questo re, secondo nel canone della tradizione, viene concentrata un’ampia
azione riformatrice che abbraccia religione, politica e istituzioni. Le opere attribuite a Numa appaiono
collegate nel nome di un piano di stabilizzazione ottenuto con la rifondazione dei costumi (mores) e
delle leggi. Esso comprendeva la fondazione di luoghi di culto e riti, l’istituzione di collegi
sacerdotali, la regolamentazione del calendario, in vista di una pianificazione del tempo tesa a
trasformare il primitivo anno agrario nello strumento per segnare anche il tempo della città e dei suoi
dei.
Venne costruito il tempio di Giano Gemino o Bifronte nella parte più bassa dell’Argileto, all’epoca
una collina ad est del Palatino e successivamente la via che collegava il quartiere della Suburra al
Foro: il tempio è localizzabile, sul terreno, nell’area ristretta tra l’angolo sud-orientale della Curia e
quello sud-occidentale della Basilica Emilia. Il Giano Gemino dell’Argileto era il dio che segnava il
confine fra la città ed il mondo esterno, quello occupato dai nemici; che le porte di questo antichissimo
sacello fossero aperte o chiuse aveva il significato di segnare il discrimine tra la pace (porte aperte) e
la guerra (porte chiuse); la prima chiusura del tempio di Giano si ebbe con Numa, la seconda il 10
marzo del 234 a. C., dopo il trionfo sui Sardi da parte di Tito Manlio Torquato, un gesto simbolico a
significare che iniziava un’era di pace dopo la vittoria romana in Sardegna, che ponevsa dsavvero
termine alla prima guerra punica. Livio fa poi riferimento all’ara eretta in onore di Giove Elicio
(Elicio con il significato di trarre fuori, interpretare?) sull’Aventino, dio al quale ci si doveva rivolgere
per comprendere la natura dei prodigi, ad esempio i fulmini, e quali di tali prodigi dovessero essere
accolti ed espiati. La Fede (Fides), un concetto fondamentale per i Romani che implicava il rispetto
della parola data e dei giuramenti, divenne la dea sotto il cui segno si svolse l’azione di Numa: alla
dea venne costruito un tempio (PLUT, Numa, 16, 1), presso il quale i flamini si dovevano recare su
una biga per celebrare un sacrificio con la mano destra fasciata per evitare contaminazioni, poiché la
Fede: «aveva la sua sede sacra nella mano destra» (LIV, I, 21, 4-5).
Secondo le fonti, l’istituzione di riti e cerimonie religiose fu realizzata da Numa nell’ottica di instillare
nella popolazione il timore degli dei, ottenendo come risultato quello di rendere i nuovi sacerdozi,
che vennero da lui creati, inscindibili rispetto all’amministrazione della vita pubblica. In pratica venne
creato da Numa un ceto sacerdotale, costituito da esponenti dell’aristocrazia, che fu in grado di
controllare la guerra, la pace, le attività pubbliche e quelle private, come la celebrazione dei riti
funebri, attraverso norme religiose che si esplicavano nell’esecuzione di rituali rigidamente strutturati
e formalmente immutabili, che segnarono per sempre la religione romana pagana tradizionale come
strumento per gestire il potere (instrumentum regni). BOX 2
Plutarco è prodigo di notizie, nella biografia dedicata a Numa -che segue per l’ambito romano quella
dedicata al riformatore greco Licurgo-, a proposito dei numerosi collegi sacerdotali da lui istituiti.
Anzitutto quello dei pontefici: in epoca monarchica sarebbe stato composto da sei membri con a capo
il pontefice massimo. Numa sarebbe stato il primo pontefice, anche se gli studiosi ritengono che il
sacerdozio abbia avuto un’origine ancora più antica, riferita alla prima fase indeuropea. Occorre
pensare che le funzioni dei pontefici, nonostante la religione romana fosse molto conservativa,
dovettero assumere contenuti diversi con la fine della monarchia; fu allora che il pontefice massimo
ebbe il compito di dirigere il focolare pubblico, controllato giorno e notte dalle Vestali, scelte dal
pontefice massimo stesso, in numero di sei, nei pressi della Regia (in età Cesariana si giunse ad un
numero di quindici pontefici, coadiuvati da tre pontefici minori) BOX 3. Egli sceglieva il flamine di
Giove, controllava il calendario, indicava i giorni fasti e nefasti ed elencava i giorni delle feste e dei
rituali, come pure svolgeva altri compiti che riguardavano il diritto e le leggi. Si è oggi in grado di
chiarire, grazie alla ricerca archeologica e ai dati della tradizione, che Numa ebbe la sua dimora
accanto al Tempio di Vesta, dopo essersi trasferito dal colle Quirinale, come afferma esplicitamente
Solino, autore del III sec. d. C.; dunque, in questo caso, la Regia (Regia), avrebbe compreso
l’abitazione privata del re e la casa pubblica del sacerdote denominato “re dei sacra” (rex sacrorum).
L’abitazione di Numa è stata datata all’ultimo quarto del VII sec a. C.., ma già nell’VIII la dimora
del re potrebbe essersi presentata in forma di capanna, vista la presenza di altre capanne, documentata
in quell’area. Altro sacerdozio di cui si occupò Numa fu quello dei Flamini: a quello di Giove,
Flamine Diale, assegnò la sella curule di pertinenza anche del re, gli affiancò poi altri due flamini,
uno per la venerazione di Marte e l’altro per quella di Quirino. Il Flamine Diale con il suo
caratteristico copricapo a punta (apex) e sua moglie la Flaminica vennero sottoposti ad una quantità
di divieti, alcuni dei quali oggi risultano difficilmente comprensibili, un retaggio di timori e
superstizioni primordiali: ad esempio il flamine non poteva vedere o nominare capre, carne cruda,
edera, fave, gli era interdetta la potatura di una vigna né poteva passare sotto i suoi tralci; veri e propri
tabù, come i piedi del letto in cui dormiva dovevano essere coperti di fango; il flamine non poteva
lasciare il letto sacro per più di tre notti consecutive. Livio attribuisce poi a Numa la creazione del
collegio sacerdotale dei Sali, dodici sacerdoti addetti al culto di Marte Gradivo, nelle sue funzioni di
dio della guerra, per quanto sia ancor oggi oscuro il significato reale di Gradivo. I Sali, in marzo e in
ottobre, in coincidenza con l’apertura e la chiusura della stagione della guerra e il ritorno alla vita
civile, erano i protagonisti di una processione che prevedeva una danza rituale guerresca con ritmo
ternario, il tripudio, durante la quale recitavano una preghiera, in forma di litania, detta carme saliare
(di cui si sono conservati solo pochi frammenti di difficile interpretazione), scuotendo scudi ovali con
una parte centrale semicircolare su entrambi i lati (bilobati) detti ancili. Secondo la tradizione il primo
di questi ancili sarebbe caduto dal cielo durante l’ottavo anno del regno di Numa, quando Roma era
sconvolta da una pestilenza e lo scoraggiamento aveva invaso l’animo dei cittadini: il re aveva
proclamato che lo scudo era il simbolo che avrebbe salvato la città e per tutelarlo da eventuali furti
aveva commissionato al fabbro Mamurio Veturio di forgiarne altri undici identici in modo che il
primo si confondesse con questi. Questa interpretazione del prodigio e il rimedio erano stati suggeriti
al re dalla ninfa Egeria e dalle Camene sue compagne, antiche divinità profetiche del Lazio, che
occorreva onorare con la consacrazione di un bosco e di una fonte: probabilmente il boschetto e la
sorgente presso porta Capena, dove le Vestali attingevano l’acqua necessaria ai loro riti.
Il calendario con i giorni Fasti legittimati a livello sacrale rappresenta una delle principali riforme
attribuite a Numa per quanto secondo gli studiosi, essa vada spostata in avanti all’epoca dei re
etruschi: per la tradizione, al re artefice di un un’era di pace (dominata dal timore degli dei) si
addiceva l’istituzione di un tempo normato secondo le regole della vita cittadina che superasse l’anno
misurato in rapporto al solo ciclo agrario. Prima di questa riforma l’anno era costituito da dieci mesi,
occupati dalle attività dell’agricoltura e della guerra che andava da marzo a dicembre; quest’ultimo
era il decimo mese, sulla base di un conteggio risalente ai primordi della città, quando Romolo aveva
definito l’arcaico anno dei Romani; i mesi dopo il decimo, gennaio e febbraio, che introdussero la
grande trasformazione del calendario voluto da Numa con dodici mesi, inizialmente rappresentavano
un periodo indifferenziato privo di relazioni con le principali attività umane, l’agricoltura e la guerra.
Nel calendario numano l’anno era solare ma il mese lunare, quindi può essere definito luni-solare;
un’ampia descrizione di esso viene presentata da Plutarco in due capitoli (18 e 19) in cui viene
dapprima criticato il calendario di Romolo, definito irrazionale e disordinato con mesi di venti giorni
e altri di trentacinque, in cui la durata dell’anno era di 360 giorni; poi si analizzano le innovazioni
introdotte da Numa.
Il primo passo fu quello di superare l’incongruenza di circa undici giorni fra l’orbita lunare di 354
giorni e quella solare di 365, stabilendo che ogni due anni dopo febbraio fosse aggiunto un mese
intercalare di ventidue giorni, detto “mercedonio” dai Romani; con l’aggiunta di due mesi, gennaio e
febbraio, cambiò ovviamente anche la successione dei mesi, per cui marzo, il mese consacrato da
Romolo a Marte, da primo mese, divenne il terzo dell’anno (anacronistrici divennero allora i nomi
dei mesi da quintilis-luglio in poi). Il computo dei giorni del mese si basava sulle fasi lunari: il primo
giorno, le calende, corrispondevano al novilunio, il cinque le none al primo quarto di luna (il sette nei
mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre); il tredici e il quindici al plenilunio, le idi. Il conteggio dei
giorni avveniva anticipando rispetto a queste date fisse, ad esempio il dieci di gennaio era il quarto
giorno prima delle idi del mese. Questo sistema venne poi modificato e reso davvero stabile da Giulio
Cesare con il calendario giuliano, tuttavia ancora nel I sec. a. C. si hanno esempi di calendari pubblici
murali dipinti che si rifanno a quelli più antichi del periodo della monarchia etrusca, come i Fasti
Anziati.

BOX 1.
Il rito inaugurale che consacra Numa Pompilio re. Tito Livio nel primo dei libri ab urbe condita
racconta le cerimonie che il re sabino Numa Pompilio celebrò in Campidoglio per la solenne
inauguratio dell'anno, alla ricerca degli auspici favorevoli per il futuro, con il desiderio di fondare
una seconda volta la città di Roma, con il diritto, con le leggi e con la moralità intesa nel senso
del disinteresse e del rigore nell'amministrare la res publica: Urbem novam (…) iure eam legibusque
ac moribus de integro condere parat.

“Quindi condotto sulla rocca da un augure, che da allora ebbe per sempre quel sacerdozio pubblico,
sedette su un masso rivolto ad oriente. L’augure, con il capo velato, prese posto alla sua sinistra,
reggendo con la mano destra un bastone ricurvo, senza nodosità, che poi chiamarono lituo. Rivolto
poi lo sguardo alla città e alla campagna, invocati gli dei, delimitò le regioni [del cielo] da oriente ad
occidente e dichiarò fauste quelle a mezzogiorno e infauste quelle a settentrione; fissò mentalmente
il punto più lontano rispetto al quale poteva portarsi lo sguardo; allora passato il lituo nella mano
sinistra e posta la destra sul capo di Numa, così pregò: «Padre Giove, se è destino che questo Numa
Pompilio di cui tocco il capo sia re di Roma, che tu possa mostrarci chiaramente segni certi entro quei
confini che ho tracciato». Allora formulò gli auspici che desiderava gli fossero inviati. Dopo che gli
vennero annunziati, Numa proclamato re, scese dal recinto augurale” (LIV. I, 18, 6-10).

BOX 2
Numa viene descritto come l’artefice del rigido rispetto di regole formali che se non applicate
potevano inficiare i riti, renderli sgraditi agli dei e rompere la pace tra dei e Romani
“Scelse poi tra i senatori il pontefice Numa Marco, figlio di Marco e gli assegnò tutti i riti sacri, con
una minuta e precisa descrizione di quali vittime e in quali giorni si dovessero celebrare i sacrifici e
da dove si dovesse trarre il denaro per quelle spese” (LIV. I, 20, 5-6).

BOX 3
Il breve cenno di Livio sull’istituzione del collegio delle Vestali da parte di Numa è compensato da
numerose altre fonti che chiariscono le caratteristiche dell’attività religiosa di queste sacerdotesse e
attribuiscono al re la costruzione del tempio a pianta circolare nel foro, in realtà originariamente una
capanna di forma rotonda, al cui interno si trovava il focolare della città.
Secondo Plutarco (Num. 10-11) le prime quattro Vestali che vennero consacrate da Numa furono
Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpea, in seguito il collegio arrivò ad un numero definitivo di sei con
Servio Tullio. Al collegio potevano accedere bambine tra i sei e i dieci anni provenienti da famiglie
aristocratiche che venivano “prese”, “catturate” secondo la terminologia tecnica, ossia scelte dal
pontefice massimo; questo sacerdozio era della durata di trent’anni e stabiliva, pena la messa a morte
della vestale colpevole, che le sacerdotesse fossero tenute a rispettare il voto di castità. La vestale che
avesse avuto rapporti con un uomo veniva rinchiusa in un ambiente scavato sottoterra, nel Campo
Scellerato, presso Porta Collina, dove le si allestiva un letto, veniva accesa una lucerna e si
disponevano viveri necessari per una sopravvivenza brevissima: poco pane, acqua, latte e olio. Allo
scadere dei trent’anni si poteva abbandonare l’ufficio religioso ma ciò accadde raramente all’interno
di questo sacerdozio, che tra quelli romani, fu quello maggiormente longevo e soppresso in virtù delle
disposizioni contenute nell’editto di Teodosio del 382. L’ultima Vestale Massima fu Coelia
Concordia nel 384, il fuoco sacro venne spento nel 391, il Palladio custodito nel penus Vestae venne
distrutto: Zosimo (V, 28) racconta il pianto disperato e le maledizioni lanciate da una delle ultime
Vestali quando Serena, moglie di Stilicone, entrata nel tempio di Cibele, tolse dal collo di Rea la
preziosissima collana che l’adornava. Il compito principale al quale le Vestali erano addette era
quello di sorvegliare a turno il giorno e la notte il fuoco sacro, nel caso si fosse spento la Vestale
veniva duramente fustigata; altro compito rituale era quello della preparazione della mola salsa,
l’impasto di farina e sale che durante i sacrifici veniva cosparso sul capo della vittima da immolare.
Il collegio fu riformato da Augusto e venne legato sempre più al culto pubblico e imperiale,
conservando però, come costitutivi, caratteristiche e compiti del periodo arcaico.

Tullo Ostilio (metà VII secolo)


Il re Tullo Ostilio, dopo un periodo di interregno, fu nominato dal popolo, su approvazione del senato,
successore di Numa; egli era nipote di Osto Ostilio morto in battaglia, combattendo coraggiosamente
contro i Sabini che avevano occupato la rocca della città di Roma, ai tempi di Romolo. In realtà,
secondo gli studiosi, quella di Osto sarebbe stata una figura creata per infondere nobiltà alla
genealogia di Tullo che sarebbe così disceso da uno dei compagni di Romolo, morto dopo essersi
scontrato con il sabino Mezzio Curzio. Del resto il nome stesso sembra ricalcato sulla parola hostis.
Il tratto principale di Tullo Ostilio, secondo il ritratto che ne fa Livio, era quello della ferocia: «Non
solo era diverso dal suo predecessore ma anche più feroce di Romolo» (LIV., I, 22, 2): ritorna dunque,
dopo la pacifica e tutto sommato lunga parentesi rappresentata da Numa Pompilio, la figura del re
guerriero che incarna le esigenze di tutela dei confini del suo popolo e allo stesso tempo la volontà di
ingrandire la città: «Pensando dunque che la popolazione sfiorisse nell’ozio, cercava dappertutto
pretesti per ingaggiare guerra» (LIV., I, 22, 2).
Un contrasto con Alba Longa sorse, al tempo del re di Alba Gaio Cluilio, per ragioni di sconfinamento
e razzia nei rispettivi territori fra Romani ed Albani. Nella narrazione di questo episodio, Livio
valorizza molte componenti che precedono e seguono lo scoppio eventuale di una guerra vera e
propria: la ricerca di un motivo determinante, da parte di Tullo, che giustifichi l’attacco verso Alba e
non lo configuri come aggressione indiscriminata; la preparazione della guerra; il confronto e la
trattativa. Vi fu dapprima un incrocio di ambasciatori, quelli di Roma ad Alba e quelli di Alba a
Roma: gli ambasciatori romani, su indicazione di Tullo accelerarono le richieste di risarcimento agli
Albani e dopo che questi rifiutarono, dichiararono, secondo lo schema della guerra giusta (bellum
iustum) che essa sarebbe scoppiata da lì a trenta giorni, mentre gli ambasciatori albani, ancora a Roma
e ignari di quanto stava avvenendo in patria, cercavano la via della pacificazione e del compromesso.
Dopo la morte di Cluilio, re di Alba, presso l’accampamento posto a cinque miglia da Roma e dopo
il tentativo di entrare nel territorio albano da parte di Tullo, il nuovo comandante degli Albani, il
dittatore Mezzio Fufezio, schierato il suo esercito di fronte a quello romano cercò ancora una volta
di arrivare ad una conciliazione con i Romani. I temi principali che vennero messi in campo dal capo
albano al fine di evitare la guerra con Roma erano principalmente due: la comune origine troiana di
Alba Longa e Roma poiché Lavinio era stata fondata da Enea e dai Troiani, il figlio di Enea, Ascanio-
Iulo, aveva a sua volta fondato Alba Longa e una stirpe di re albani, rappresentata da Romolo, aveva
infine fondato Roma BOX 1 (Lavinio). Altro motivo per evitare la guerra era la pressione su Roma
da parte degli Etruschi, potenti per terra e per mare, che necessitava di una coalizione laziale per
contrastarli, rafforzata come nel caso di Roma ed Alba da una comune origine e da una vera e propria
consanguineità. Venne trovato un espediente che evitasse lo scontro tra i due eserciti, quello del
combattimento fra campioni di entrambe le città. Esso divenne in seguito uno degli episodi più famosi
dell’epopea romana, inserito nell’ambito della storia della monarchia, sempre in bilico fra realtà e
mito. Si tratta dello scontro fra i tre gemelli Orazi, campioni di parte romana e i tre gemelli Curiazi,
campioni di parte albana. Dopo l’uccisione di due degli Orazi e il grave ferimento di tutti e tre i
Curiazi durante il combattimento -che si svolse tra le urla e lo strepito delle fazioni che incitavano
ciascuna i propri campioni-, il gemello superstite degli Orazi, adottò la strategia della fuga per farsi
inseguire dagli avversari che, distaccatisi l’uno dall’altro e privi di forze a causa delle ferite
procuratesi nella prima fase dello scontro che ne avevano minato il fisico, vennero uccisi ad uno ad
uno dal gemello romano superstite. Questi rientrò trionfalmente a Roma con le spoglie dei Curiazi,
quando davanti alla Porta Capena gli si fece incontro la sorella, fidanzata con uno dei gemelli albani,
il cui mantello, da lei stessa tessuto, riconobbe tra le spoglie, dando sfogo a tutta la sua disperazione
per la sorte del futuro sposo, ormai morto. Il fratello, indignato per quello che ritenne un tradimento
dell’amor patrio, la uccise e nonostante in quel momento venisse salutato come eroe, per la gravità
del suo gesto, interpretato come espressione di giustizia sommaria non sottoposta alle leggi della città,
venne sottoposto per volontà del re al giudizio dei duumviri. Questi ultimi per parte loro propensi a
condannarlo, vennero invocati dal padre dell’Orazio superstite che chiedeva di graziarlo perché aveva
agito solo per amor di patria, compiendo gesta gloriose; come padre poi invocava clemenza e giustizia
per quell’unico figlio rimastogli; i duumviri a seguito della presentazione di appello del giovane,
consigliato da re, lo assolsero, imponendo però al genitore di purificare il figlio dall’uccisione della
sorella con sacrifici espiatori, sovvenzionati dall’erario, che da quel momento furono di pertinenza
della gente Orazia. Essi, secondo Livio consistettero nella sistemazione: «di una trave fissata da un
capo all’altro della via» sotto la quale il vecchio «fece passare il figlio con il capo coperto come sotto
un giogo. Essa si conserva ancor oggi, sempre restaurata a spese pubbliche: la chiamano tigillum
sororium (trave sororia). La tomba dell’Orazia fu innalzata con pietre squadrate nel luogo dove era
caduta colpita» (LIV. I, 26, 13-14). Il tigillum sororium era, secondo gli archeologi, una porta della
città più antica, sostituita al momento della costruzione delle mura serviane, dalla Porta Capena di
cui parla Livio: originariamente si trattava di una semplice trave in legno, disposta in alto, in
orizzontale, con lo scopo di marcare un confine religioso, di formare un passaggio, di indicare il varco
per raggiungere una dimensione diversa, un territorio, ma anche una cultura, un ambiente sociale, un
momento della vita. Il tigillum risaliva con certezza ad epoca precedente alla metà del VI sec. a. C. e
nell’VIII sec. a. C. era collocato, secondo le ricostruzioni effettuate su dati desunti dall’indagine sul
terreno, nella zona al limite nord-orientale di Roma fra il Palatino, il quartiere delle Carinae (lungo
il pendio meridionale dell’Esquilino) e l’adiacente altura della Velia. Queste propaggini
dell’Esquilino erano connesse con il re Tullo Ostilio che dimorava proprio sulla Velia: ciò potrebbe
significare, secondo Filippo Coarelli, che l’area della Velia era stata annessa alla città palatina in un
momento successivo a quello dei primordi dell’età regia. Sui lati del tigillum si trovavano due altari
dedicati al culto di Giano Curiazio e di Giunone Sororia che potrebbero aver dato origine al racconto
leggendario degli Orazi e dei Curiazi: i due culti si configuravano come celebrazioni del passaggio
dall’adolescenza all’età adulta e, nel caso specifico del rapporto con la guerra, la trave avrebbe
purificato i soldati romani che rientravano in città dopo aver combattuto all’esterno dello spazio
civico; forse si sarebbe trattato della più antica porta trionfale. Dal racconto delle fonti si coglie che
lo spazio romano, al tempo di Tullo Ostilio era delimitato, dal punto di vista degli interessi territoriali,
in un raggio piuttosto ristretto, con direttrici che andavano ad Ostia, Lavinio, Alba Longa, Tusculo,
Preneste, Gabii (recenti le scoperte all’Osteria dell’Osa), Tivoli, Fidene (alle porte di Veio), ma
sempre sulla riva sinistra del Tevere, investendo pienamente la Sabina.
Livio descrive con dovizia di particolari la guerra contro Fidene, legata a Veio, vinta dai Romani che,
pur essendo stati traditi da Mezzio Fufezio, dittatore dei tradizionali alleati albani, poi punito in
maniera crudelissima da Tullo, s’impadronirono del territorio di Alba Longa BOX 2: la popolazione
di Alba, legata intimamente alla fondazione romulea, fu deportata a Roma, gli edifici pubblici e
privati rasi al suolo ad eccezione dei templi, secondo l’ordine dato da Tullo. Secondo Livio andrebbe
fatta risalire a Servio Tullio l’inclusione del colle Celio nel perimetro cittadino, funzionale ad un
ingrandimento del territorio per ospitare i nuovi cittadini; alcuni esponenti delle genti di antica stirpe
albana come ad esempio gli Iuli discendenti di Iulo-Ascanio vennero inclusi nel Senato, per le cui
riunioni il re fece costruire la Curia Hostilia, nella zona nord del Comizio, secondo gli archeologi
l’unico edificio coperto di età arcaica in quell’area. Temi questi che l’indagine archeologica ha spesso
confermato e in parte smentito.

BOX 1.
Lavinio, la città religiosa dei Latini
Lavinio (presso l’attuale Pratica di mare, nelle vicinanze di Pomezia), viene considerata dalla
tradizione la città più antica del Latini, fondata da Enea presso il fiume Numico (forse il rio Torto) in
onore di Lavinia, sua sposa, figlia del re di Laurento, Latino. La città sorse tra l’VIII e il VII sec. a.
C. e già dal VI sec. a. C. il culto di Enea vi appare fortemente radicato: una tomba principesca, del
VII sec. a. C. (680 a. C.), nella necropoli a sud-est della città, venne consacrata, nel VI sec. a. C.
(intorno al 570 a. C.), come luogo di culto eroico. Essa fu poi identificata, dallo scrittore di epoca
augustea Dionigi di Alicarnasso, che si recò a visitarla, come la tomba di Enea; Dionigi, grazie
all’epigrafe dedicatoria al Padre Indigete, uno degli appellativi che gli venivano attribuiti, riconobbe
in questa tomba quella dell’eroe troiano. In prossimità della c.d. tomba di Enea, gli scavi archeologici
degli anni sessanta del secolo scorso, hanno portato alla luce un santuario, sempre del VI sec. a. C.,
denominato dei “XIII altari”, costituito da tredici are, dedicate a differenti divinità: le epigrafi
dedicatorie hanno rivelato che un altare era dedicato al culto dei Dioscuri, Castore e Polluce, figli di
Giove e un altro altare al culto di Venere, madre di Enea, a Lavinio forse venerata come protettrice
della vendemmia e del mosto (Venus Frutis). Nella città erano presenti altri importanti santuari come
quello di Minerva (frequentato dal tardo V al II sec. a. C.), destinato probabilmente ai riti di passaggio
giovanili e un santuario arcaico, la cui intitolazione ad oggi è sconosciuta; potrebbe essere identificato
come quello dei Penati. L’anima degli antichi latini appare anche incarnata da alcuni culti suburbani
come quello del Sole Indigete, attestato presso le rive della laguna dove sfociava il Numico e quello
di Fauno, divinità antichissima dei Latini a carattere oracolare, attestato nella località di Solfatara al
confine con Ardea.
BOX 2.
L’atroce fine di Mezzio Fufezio e la crudeltà della legislazione regia
«Quindi fatte avvicinare due quadrighe, fece legare su entrambi i carri Mezzio; poi i cavalli vennero
lanciati in direzione opposta, portando via il corpo spezzato in due su entrambi i carri, dove le membra
erano state fissate con lacci. Tutti distolsero lo sguardo da uno spettacolo così orribile. Quello fu il
primo ed ultimo supplizio presso i Romani a dare esempio di scarsa memoria delle leggi dell’umanità:
possiamo vantarci che in altri casi nessun popolo ordinò pene più miti» (LIV. 28, 10-11)

Anco Marcio (fine VII secolo)


Il regno di Anco Marcio, secondo la tradizione, si sarebbe protratto ventitré anni dal 640 al 616 a.C.
La sua stessa onomastica rende conto di una origine mista, con il prenome Anco di origine sabina e
il gentilizio Marcio di origine latina. Secondo Livio e Plutarco (21, 5-7) egli era nipote di Numa
Pompilio, avendo Pompilia, figlia di quel re, sposato Numa Marcio, primo pontefice massimo; alla
morte del nonno, Anco Marcio non aveva ancora cinque anni. Le ascendenze familiari e le descrizioni
delle fonti lo pongono in parte in continuità con il nonno; dopo il re Tullo Ostilio, espressione della
funzione guerriera, posta sotto il controllo di Marte, l’alter ego di Anco Marcio pare piuttosto essere
il dio Quirino, protettore della fecondità, che avrebbe indirizzato il re ad agire per lo sviluppo della
vita economica della città. L’azione di Anco Marcio si orientò a proseguire l’azione religiosa di
Numa: ordinò infatti al pontefice di registrare i sacrifici pubblici, ricostruendo antichi cerimoniali dai
commentari dei re e di esporli nell’albo, poiché era convinto che i riti religiosi andassero celebrati
per mantenere la “pace con gli dei”, che sola avrebbe potuto assicurare la prosperità di Roma. In
questo senso va letta l’esigenza di Anco Marcio di aderire ad un’idea di rapporti con le altre città e
popoli del Lazio, basata sul fatto che anzitutto si dovesse ricercare una soluzione pacifica per risolvere
una controversia; in caso contrario, che la guerra dovesse essere dichiarata in conformità al rituale
religioso, che solo poteva assicurare che essa fosse giusta. Preposti a questo furono i sacerdoti Feziali,
che su impulso di Anco Marcio perfezionarono la cerimonia per chiedere riparazione alle offese
subite nei rapporti tra Roma e le altre città laziali: la sostanza era costituita dal rispetto di alcune
procedure magico-sacrali, ad esempio il messaggero romano doveva portare intorno al capo una
benda di lana, pronunciare precise parole chiamando a testimone Giove, affiancato in una seconda
fase del rituale da Giano e Quirino; nel caso che le richieste romane non fossero state soddisfatte
entro trentatrè giorni, il messaggero dopo essere tornato in città, riferiva al re e ai senatori che
decidevano eventualmente per la guerra: essa doveva essere dichiarata con un cerimoniale articolato
e ben definito. BOX
Durante il regno di Anco venne combattuta una guerra vittoriosa per Roma contro alcuni villaggi
latini, Politorio, Tellene e Medullia, variamente collocati dagli studiosi tra Boville ed Anzio e la città
latina di Ficana nei pressi del Tevere e del suo estuario, sulla via tra Roma e il mare lungo la direttrice
che collegava i centri laziali costieri di Satrico, Ardea e Lavinio all’Etruria meridionale. Di questi
centri Plinio il Vecchio, autore nel I secolo d.C. della Storia Naturale (nella quale inserì una lista delle
città “scomparse” dei Latini), non conosceva più l’esatta localizzazione. Secondo il racconto di Livio
dopo la vittoria romana su Politorio, Tellene e Ficana, gli abitanti di queste città vennero trasferiti in
massa a Roma, dove occuparono il colle Aventino. Per quanto riguarda Medullia, conquistata dal re
in una battaglia campale che aveva fruttato ai Romani un grande bottino, i suoi abitanti furono
anch’essi trasferiti a Roma e li si fece stabilire presso il tempio della dea Murcia, nella valle tra
Palatino e Aventino, occupata successivamente dal Circo Massimo. Quindi secondo le fonti Anco
Marcio fu il re dell’unione e del collegamento tra il Palatino e l’Aventino: nella direzione dell’unità
andò pure l’inclusione nella città del Gianicolo, collocato oltre il Tevere, perché non divenisse in
futuro una testa di ponte in vista di un attacco nemico. In questa fase si pone l’opera per la quale Anco
Marcio viene maggiormente ricordato: la costruzione del ponte Sublicio, il primo ponte sul Tevere
poco a valle dell’isola Tiberina, in corrispondenza dell’antico guado di epoca protostorica ai piedi
dell’Aventino. Esso venne costruito interamente in legno, senza bronzo o ferro, tanto che al posto dei
chiodi vennero utilizzati cunei lignei; il materiale e la tecnica costruttiva miravano a facilitarne le
operazioni di smontaggio, in vista di un attacco nemico. Il ponte Sublicio aveva anche una dimensione
religiosa che presuppone l’importanza del ruolo del pontefice, poiché il sostantivo “ponte” deriva
dalla denominazione della carica: il pontefice era colui che costruiva ponti e ciò ancora una volta a
testimonianza del legame inscindibile tra politica, rapporti pacifici o conflittuali tra città e religione
pubblica, dimensioni che caratterizzavano la vita di Roma in età monarchica. L’azione di Anco
Marcio venne mirata poi ad allargare i confini dell’agro romano con l’inclusione della selva Mesia,
sottratta ai Veienti, collocata probabilmente a sud dell’ultimo tratto del Tevere. Il re fu artefice,
secondo Livio, della fondazione della città di Ostia: il poleonimo derivava dal riferimento alla foce,
appunto “ostia”, nel senso di ingresso, porta, bocca del Tevere.In quest’area vennero create le saline,
tanto importanti per la vita economica dei popoli dell’Italia antica e in particolare al servizio degli
allevamenti sull’Appennino.
Anco Marcio, secondo la descrizione che ne viene offerta, si rivela dunque un re che prosegue
l’azione del nonno Numa Pompilio nella ricerca della conciliazione tra Romani e Latini, non tralascia
di difendere la città e di impegnarsi ad ingrandirla in termini di territorio e di popolazione, si rivela
da ultimo spinto da un desiderio di giustizia che lo induce a costruire il primo carcere a Roma, quello
che costituì il primo nucleo del successivo Carcere Tulliano, che si deve al re Servio Tullio. Da Livio
sappiamo che «in seguito all’enorme ingrandimento della città, poiché fra tanta moltitudine di gente,
confusi i limiti del bene e del male, si commettevano di nascosto molti delitti, fu costruito nel centro
della città, sopra il Foro, un carcere per scoraggiare la crescente audacia» (LIV., I, 33, 8).

II- LA MONARCHIA ETRUSCA


Lucio Tarquinio Prisco (inizio VI secolo)
Il nome di Tarquinio Prisco, il primo Tarquinio, per distinguerlo dall’ultimo con il quale si concluse
la fase monarchica, prima che divenisse il quinto re di Roma, era Lucumone. Questa onomastica di
chiara matrice etrusca derivava dal fatto che la città da cui proveniva, Tarquinia (l’abitato moderno
sopravvive ancor oggi con lo stesso nome e si trova in provincia di Viterbo) era una città dell’Etruria
meridionale. In realtà l’origine di Tarquinio Prisco per parte di padre sarebbe stata greca, se veramente
suo padre, il ricco Demarato, proveniva da Corinto e probabilmente apparteneva ai Bacchiadi, una
famiglia di oligarchi che a lungo resse il potere a Corinto prima di esserne scalzata dal tiranno Cipselo
nel VII sec. a.C. L’ascendenza greca per parte di padre di Tarquinio Prisco sarebbe la spia, secondo
gli studiosi, di rapporti commerciali e culturali mediterranei tra la Grecia, l’Etruria e Roma che si
protrassero fra VII e VI sec. a.C., trovando espressione nel racconto che le fonti elaborarono sulla
storia dinastica dei Tarquini.
Secondo l’albero genealogico costruito da Livio, Demarato ebbe da una donna di Tarquinia, di cui il
nome non è noto, due figli: Lucumone e Arrunte; quest’ultimo morì giovane lasciando la moglie in
attesa di un figlio. Demarato, inconsapevole di ciò, venne a mancare qualche tempo dopo Arrunte,
lasciando tutte le sue sostanze al figlio sopravvissuto, Lucumone, ed escludendo il nipote che per
questo ebbe il nome di Egerio (dal verbo latino egeo con il significato di essere bisognoso).
Lucumone, reso estremamente facoltoso dall’eredità paterna, sentiva allo stesso tempo di aver
bisogno di una consacrazione sociale e si legò in matrimonio con una donna tarquiniense, Tanaquilla,
appartenente all’aristocrazia della città, seppur la sua famiglia fosse ormai priva di grandi risorse
finanziarie. Fu Tanaquilla a spingere Lucumone a trasferirsi con lei a Roma, per rivalsa nei confronti
dei suoi concittadini di Tarquinia, che disprezzavano il marito poiché figlio di un esule straniero; agli
occhi di Tanaquilla, Roma appariva il luogo ideale in quanto una sorta di “città aperta” che offriva
possibilità di affermazione agli stranieri. La competenza di Tanaquilla nel campo degli auspici -la
pratica religiosa di origine etrusca, basata nel trarre l’eventuale consenso divino dal volo degli uccelli-
fece sì che la donna riuscisse ad interpretare un evento prodigioso, occorso al marito, mentre si
trovavano sul carro che li conduceva a Roma; giunti casualmente presso il Gianicolo, un’aquila ad
ali spiegate, planando sul capo di Lucumone, gli aveva tolto il cappello di foggia conica, detto pileo,
e dopo aver eseguito una serie di circonvoluzioni glielo aveva rimesso sul capo. In ciò la moglie, che
si intendeva di auspici, vide la prospettiva per il marito di ottenere gli onori desiderati nella nuova
città; dopo che la coppia ebbe preso alloggio, stabilendosi definitivamente a Roma, Lucumone
cambiò il suo nome in Lucio Tarquinio Prisco (BOX 1).
Il livello cronologico della tradizione pone tali avvenimenti durante il regno di Anco Marcio; infatti
la fama dell’etrusco di Tarquinia, trasferitosi a Roma in cerca di fortuna, era giunta sino alla Regia
ed Anco aveva affidato a Tarquinio addirittura la tutela dei suoi due figli. Scrive Livio che Tarquinio
era stato istruito da Anco nel diritto e nei riti romani e nella successione aveva scalzato i figli del re,
proponendosi come successore di Anco: «Si dice che sia stato il primo a darsi da fare per ottenere il
regno e a pronunciare un discorso articolato per guadagnarsi i favori della plebe» (LIV. I, 35, 2).
La vicenda mitica non nasconde la realtà di una forte presenza etrusca a Roma dagli ultimi decenni
del VII secolo, con un significativo sviluppo della urbanistica cittadina, tanto che Giorgio Pasquali
parlava della “Grande Roma di Tarquini”. Il regno di Tarquinio Prisco si caratterizzò per un
accrescimento del Senato, che si configura in età regia come un’assemblea dinamica e inclusiva; essa
raggiunse con Tarquinio il numero di 300 membri, con l’inclusione delle “genti minori” che si
aggiunsero ai “padri” dai quali era costituito il senato di Romolo (cento membri) e di Tullo Ostilio
(aggiunta di altri cento membri); per genti minori si intendevano i patrizi provenienti da genti che
erano vicine al re, adatte a sedere in un organo di natura consultiva come il Senato dell’epoca. Anche
il numero di membri dell’esercito, secondo le fonti, venne accresciuto da Tarquinio Prisco, in
occasione di una guerra contro i Sabini. I cavalieri inseriti nelle tre tribù originarie di Romolo in
numero di 300 erano stati aumentati a 600 da Tullo Ostilio; Tarquinio li portò ad un totale
complessivo di 1800, 600 cavalieri per ciascuna tribù gentilizia, chiamati “posteriori”, perché inseriti
successivamente. Va sottolineato il legame inscindibile tra inquadramento della popolazione
nell’organizzazione tribale e rapporto con l’organizzazione militare; quanto ai numeri, le fonti storico
letterarie sembrano fornirci un quadro solo apparentemente verisimile ma non del tutto
corrispondente al reale, in quanto tarde rispetto ai fatti e condizionate da una tradizione spesso viziata
da elementi la cui storicità appare improbabile. In ogni caso nonostante questi limiti, le fonti storico
letterarie, che oggi fortunatamente si raccordano ai dati archeologici ed epigrafici, vanno
massimamente rispettate e interpretate, per l’evidente stratificazione diacronica.
Il rafforzamento della cavalleria si rivelò vincente dal momento che le “ali” a cavallo, collocate sui
fianchi della legione, furono di supporto alla fanteria centrale e i Sabini di Collazia (a 15 km. ad est
di Roma) furono sbaragliati presso l’Aniene, affluente di sinistra del Tevere; a questa sconfitta
contribuì anche uno stratagemma per cui i soldati romani spinsero su zattere tronchi dati alle fiamme
che giunsero a bruciare le palafitte che reggevano il ponte sul fiume, impedendo la via di fuga ai
nemici. Collazia si arrese praticando la resa incondizionata della città, di tutto ciò che vi era al suo
interno e dei suoi abitanti; i Romani in questa circostanza inaugurarono una pratica che ricorse altre
volte nelle forme di regolamentazione dei rapporti tra Roma e i popoli vinti che venivano inglobati,
attraverso la “dedizione”, nel territorio romano (BOX 2). Le esigenze difensive della città possono
leggersi nella costruzione, avviata da Tarquinio Prisco, di una cinta muraria in pietra; interrotta dalla
guerra sabina, essa fu portata a termine dopo la guerra latina che portò alla conquista di sette città
situate alla confluenza dell’Aniene: Cornicolo (nell’agro di Tivoli), Ficulea vecchia (a nord della via
Nomentana), Cameria, Ameriola, Medullia, Nomento (presso Mentana a circa 23 km. da Roma) e
Crustumerio -uno dei centri del Lazio antico indagati archeologicamente dagli anni ottanta del
Novecento- lungo l’antica via Salaria, nella valle orientale del Tevere (15 km. a nord di Roma).
Con Tarquinio Prisco, apripista dell’importante fase etrusca della monarchia romana, si ebbero
significative trasformazioni nella topografia della città, quelle che Livio definisce “opere di pace”
(LIV., I, 38, 5): venne infatti creato lo spazio del Circo, poi denominato Massimo, tra Palatino ed
Aventino –secondo Livio con il bottino della guerra contro i Latini di Apiole- adatto a spettacoli
annuali, come le corse dei carri, che raggiunsero una maggior portata e rilevanza di quanto non fosse
avvenuto con i sovrani precedenti: tali giochi furono detti variamente “Romani” e “grandi”. Secondo
gli studiosi, si ebbe poi il crescere d’importanza della zona del Foro che divenne il cuore commerciale
della città, oltre che con il Circo (Massimo), con la concessione da parte del re di terreni fabbricabili
ai privati intorno ad esso, in cui furono costruiti portici e botteghe (LIV., I, 35, 8-9), destinati ad
attività non solo legate allo smercio alimentare, come avveniva per il Foro Boario presso il Velabro
e per il Foro Olitorio, il mercato delle erbe. L’area del Foro, paludosa, fu sottoposta a bonifica come
pure le altre valli fra i colli, oltre a quella del Circo; la valle Murcia e la Suburra, ad es., vennero
dotate di opere idrauliche. La bonifica indusse gli abitanti dei colli a scendere verso la pianura e tale
convergenza rinsaldò le comunità; il centro della città in questo scorcio del VII sec. doveva apparire
denso di abitazioni, sui colli e nelle valli: case con lo zoccolo in pietra e il tetto di tegole avevano
sostituito le capanne costruite con pali, paglia, argilla e coperte di frasche. Intorno al 625 a.C. il Foro
pavimentato divenne il centro politico e religioso della città, alle spalle del Campidoglio: Tarquinio
Prisco iniziò infatti la costruzione del grande tempio etrusco-italico di Giove Capitolino, un edificio
di culto che secondo il progetto doveva essere grandioso e volto a creare una vera sontuosa abitazione
anche per gli dei, che precedentemente venivano venerati all’aperto, in rispondenza allo schema di
una religiosità primitiva. Un altro cambiamento coinvolse la Regia, ricostruita accanto al tempio di
Vesta, e la sistemazione dell’area del Comizio nell’angolo nord orientale del Foro, sede delle
assemblee cittadine.
La conclusione del regno di Tarquinio Prisco fu traumatica: i figli di Anco Marcio, messi da parte
dallo stesso re in carica che era riuscito a superare la loro linea dinastica per prendere il potere, si
accorsero che, anche questa volta, né l’uno né l’altro sarebbero riusciti ad insediarsi sul trono;
assoldarono perciò due pastori che fingendo una disputa fra di loro nel vestibolo della Regia,
riuscirono a superare il blocco delle guardie a protezione -i littori- e giunti al cospetto del re,
interessato a dirimere la disputa, uno dei due lo colpì con una scure sulla testa, riducendolo in fin di
vita. I figli di Anco fuggirono e si rifugiarono a Suessa Pomezia, nel territorio dei Volsci, nella zona
dell’agro Pontino. In occasione della morte e degli eventi della successione emerge la figura di
Tanaquilla che resasi conto della gravità della situazione e pur avendo compreso che ormai Tarquinio
era spacciato, fece chiudere la residenza per tener calmo il popolo, alimentando la speranza che le
cure sarebbero bastate a tenere in vita il re. Si conosce con un certo grado di sicurezza il luogo dove
sorgeva l’abitazione di Tarquinio Prisco, chiaramente indicato nelle fonti, in particolare Livio e
Solino (vissuto quest’ultimo tra il III ed il IV sec. d. C.): siamo presso il tempio di Giove Statore, il
dio che “fermava” i soldati romani perché resistessero al nemico (collocato secondo Andrea
Carandini presso il Palatino e poi spostato alle pendici della Velia); le finestre si affacciavano sulla
via Nuova (LIV. I, 41, 4), nelle vicinanze della porta Mugonia (SOLIN., I, 21, 6). Da quelle finestre
Tanaquilla tenne un discorso per tranquillizzare il popolo, dicendo che Tarquinio era solo ferito e che
le cure lo avrebbero aiutato a ristabilirsi; nel frattempo raccomandò di obbedire al genero Servio
Tullio che avrebbe amministrato la giustizia e avrebbe vicariato il re, con il consenso di Tarquinio.
Tale finzione andò avanti per diversi giorni, in base all’accordo fra Tanaquilla e Servio, finché
giocoforza si dovette annunziare la morte di Tarquinio Prisco, che intento aveva rafforzato la propria
posizione.

BOX 1. Tanaquilla
Tanaquilla, donna volitiva, riesce a convincere il marito ad emigrare a Roma.
“E giacché gli Etruschi disprezzavano Lucumone ch’era nato da un esule straniero, non poté
sopportare l’oltraggio e dimenticando l’amore innato per la patria, pur di vedere onorato il marito,
prese la decisione di emigrare da Tarquinia” (LIV. I, 34, 5).
Roma appare agli occhi di Tanaquilla una città ricca di occasioni, dove anche uno straniero può
affermarsi: <<Roma le apparve la città maggiormente adatta allo scopo: tra un nuovo popolo, lì dove
ogni nobiltà era di data recente e derivata dal merito, vi sarebbe stato posto per un uomo forte e
valoroso; vi aveva regnato Tazio di origine sabina, vi era stato chiamato al regno Numa da Curi e
Anco nato da madre sabina e nobile solo per la discendenza da Numa>> (LIV. I, 34, 6).
Tanaquilla emerge nella vicenda del re come figura autonoma, dotata di competenze religiose
specifiche del mondo etrusco, una sorta di àugure al femminile, capace, nell’episodio dell’aquila che
presso il Gianicolo si posa sul capo del marito, di leggere elementi divinatori tali da configurarla
come operatrice del magico, all’interno della disciplina religiosa etrusca: “Si dice che Tanaquilla,
donna esperta di prodigi celesti, come lo sono in genere gli Etruschi, abbia accolto felice l’augurio e
abbracciandolo abbia indotto il marito a sperare in alti onori; con ciò gli spiega che si trattava del tale
uccello, ch’era giunto da una determinata parte del cielo e che era il messaggero della tale divinità”
(LIV. I, 34, 9).
Tanaquilla tiene un discorso al popolo che rumoreggia, chiedendo notizie del re, dalle finestre della
Regia, mostrando grande controllo e sensibilità politica e istituzionale: “Tanaquilla si rivolge al
popolo dal piano superiore della casa del re che si trovava presso il tempio di Giove Statore,
affacciandosi alle finestre che davano sulla via Nuova. Lo esorta ad essere fiducioso; il re era stato
stordito dal colpo inaspettato; la lama non era entrata profondamente nel corpo ed egli si era già
riavuto; lavata dal sangue, la ferita era stata controllata; l’organismo era in condizioni di salute; era
sicura che in breve tempo avrebbero potuto vederlo; nel frattempo egli comandava al popolo che
stesse ad ascoltare gli ordini di Servio Tullio che avrebbe amministrato la giustizia, attendendo alle
altre funzioni del re (LIV, I, 41, 4-6).

BOX 2. La formula dialogica della resa di Collazia


Il re chiese: «Siete voi i legati e gli oratori inviati dal popolo di Collazia per consegnare voi e il
popolo collatino?>>. <<Sì siamo noi>>; <<Il popolo di Collazia è nella piena facoltà di
decidere?>>, <<Sì lo è>>. <<Consegnate dunque voi stessi, il popolo di Collazia, la città, i campi,
l’acqua, i confini, i luoghi di culto, tutto ciò che è necessario per la vita quotidiana e tutto ciò che è
divino e umano, nel potere mio e del popolo romano?>> <<Lo consegniamo>>>, <<e io lo
accetto>> (LIV., I, 38, 2).

Servio Tullio (metà VI secolo a. C.)


Servio Tullio, appoggiato da Tanaquilla, a discapito dei figli propri e di Tarquinio -Lucio Tarquinio
e Arrunte-, in realtà era nato e cresciuto, secondo la tradizione, all’interno della casa del re. Era figlio
di una prigioniera di nobile stirpe, Ocrisia, catturata a Cornicolo, che aspettava un figlio da suo marito
Servio Tullio senior, ucciso durante la guerra. La prigioniera, condotta a Roma, divenne una delle
donne del seguito di Tanaquilla in virtù delle sue origini aristocratiche, e non una schiava, per quanto
il suo stato iniziale di prigioniera avesse ingenerato la convinzione che sia lei sia suo figlio fossero di
condizione servile. L’intuito e la perizia di Tanaquilla per la divinazione la portarono ad interpretare
un evento prodigioso che aveva riguardato Servio da bambino, come il segno, dato dagli dei, del fatto
che questi sarebbe divenuto il successore di Tarquinio. L’episodio riguarda l’infanzia di Servio, il cui
capo mentre dormiva fu circondato dalle fiamme; Tanaquilla ammonì uno dei servi che portava
dell’acqua a non intervenire per spegnerle, dicendo di lasciar riposare il bambino e che le fiamme si
sarebbero affievolite da sole, cosa che puntualmente avvenne. Ciò indusse la donna ad esortare il
marito Tarquinio Prisco perché curasse l’educazione del bambino che da quel momento venne
allevato come se si fosse trattato di un figlio e gli venne fornita una formazione di tipo regale,
istruendolo «in quelle arti attraverso le quali si stimolano gli ingegni a coltivare grandi ideali» (LIV.,
I, 39, 1-4). Del resto, secondo Tanaquilla, il prodigio del fuoco aveva mostrato che proprio quel
bambino sarebbe stato in futuro la luce ed il sostegno della Regia e dei suoi abitanti. La stima di cui
godette presso Tarquinio fece sì che questi facesse sposare Servio alla propria figlia.
Il racconto del prodigio delle fiamme intorno al capo di Servio da bambino e soprattutto
l’interpretazione datane da Tanaquilla costituiscono la razionalizzazione di un altro filone
leggendario della tradizione che troviamo ad es. nel poeta Ovidio: in questo caso il prodigio sarebbe
avvenuto al momento dell’atto sessuale con cui venne generato Servio; la madre Ocrisia, spinta dalla
stessa Tanaquilla si sarebbe congiunta con un fallo apparso presso l’altare dove ardeva il fuoco
sacrificale (un fenomeno analogo è ricordato da Plutarco nella vita di Romolo per la nascita ad Alba
dei gemelli nipoti di Tarchezio, con notevoli varianti di grandissimo interesse etnografico); il padre
di Servio sarebbe stato quindi il dio Vulcano, nella veste di dio protettore della casa e della famiglia
(Lare familiare); solo in un secondo momento avrebbe toccato il capo del figlio, generando tra i suoi
capelli, la punta di una fiamma (OVID., VI, 627-636). Secondo gli studiosi questa sorta di “miracolo”,
sarebbe collegato alla necessità di creare una fisionomia semidivina per il protagonista della
rifondazione, nel senso di modernizzazione di Roma: del resto lo stesso Romolo era stato concepito
da un dio, Marte, presentatosi a Rea Silvia, vestale di Alba Longa, come potenza fallico-ignea,
secondo uno schema adoperato più volte per gli eroi fondatori. Il parallelo Romolo-Servio trova la
sua spiegazione nel fatto che il primo fu l’artefice del primo periodo della città e dell’organizzazione
curiata della popolazione ed il secondo della nuova fase contraddistinta da quella centuriata, le cui
basi erano già state gettate da Tarquinio Prisco.
Già gli autori antichi, all’origine latina di Servio, rafforzata dalla provenienza dei genitori da
Cornicolo, contrapponevano un’origine etrusca, dalla quale derivava un racconto differente della vita,
delle gesta, dei legami parentali e di amicizia e della scalata al potere di Servio Tullio. Il fulcro di
questa seconda tradizione è rappresentato da una famosa iscrizione -la Tabula Claudiana o di Lione
(perché ritrovata in questa città)- che contiene il discorso pronunciato in Senato dall’imperatore
Claudio nel 48 d. C., per la concessione della cittadinanza romana ai rappresentanti delle aristocrazie
cittadine della Gallia comata conquistata da Cesare: alcuni passaggi di questo discorso (che ci è
conservato anche in Tacito), ripercorrono in sintesi la storia della monarchia romana configurandola
come retta non solo da re Latini come Romolo ma aperta ai Sabini, con il suo successore Numa
Pompilio e con Anco Marcio, agli Etruschi di Tarquinia con Tarquinio Prisco, doppiamente straniero
perché figlio del corizio Demarato, con Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. BOX 1.
Sull’origine etrusca di Servio Tullio, la critica storica a partire dall’Ottocento ha potuto mettere a
confronto la documentazione epigrafica (la Tavola Claudiana), la documentazione letteraria (il
discorso di Claudio ricopiato negli Annales di Tacito dagli Acta Senatus) e una straordinaria scoperta
archeologica: nel 1857, nella necropoli della città etrusca di Vulci, venne scoperta da Alessandro
François, l’ipogeo sepolcrale del IV sec. a. C. che da lui prese il nome di “Tomba Francois”, costituita
da più ambienti funerari decorati, che rimandano alla leggenda delle scorrerie etrusche nella Roma
dei Tarquini di due secoli prima. Il François indagò il vestibolo della tomba (detto anche tablino,
l’ambiente che nell’abitazione romana era posto tra l’atrio, il giardino o il peristilio), che risultava
coperto da pitture; in realtà da cicli pittorici densi di personaggi, ciascuno dei quali si poteva
identificare attraverso il nome dipinto in nero, presso ciascuna rappresentazione. Il proprietario della
tomba e committente delle pitture era Vel Saties, raffigurato sulla parete destra dell’atrio, a lato
dell’entrata della cella sepolcrale (V), con indosso la toga di colore rosso dei trionfatori, decorata con
una rappresentazione di tre guerrieri nudi che muovono passi di una danza guerresca; il capo di Vel
Saties è cinto da una corona d’alloro; ai suoi piedi, semi accovacciato un bambino, Arnza, con una
tunica orlata di porpora (la toga pretesta, indossata dai ragazzi sino ai diciassette anni), che tiene
legato con una cordicella un uccello in procinto, una volta liberato, di spiccare il volo: l’atteggiamento
e l’abbigliamento di Saties e quelli di Arnza fanno pensare ad un rito di auspicatio, intimamente
connesso all’Etrusca disciplina. Il ciclo di affreschi che maggiormente interessa la Storia di Roma in
età monarchica nella rilettura che ne ha fatto l’artista forse nell’età di Furio Camillo (inizio IV secolo),
è coerente, secondo le ricostruzioni storiografiche moderne, al racconto della Tabula claudiana e alle
fonti etrusche, citate dall’imperatore Claudio: esso si trova raffigurato su due pareti ad angolo retto
della cella funeraria (III). Sul lato lungo di sinistra viene rappresentato Mastarna-Servio Tullio e su
quello breve uno di due fratelli di Vulci, Celio Vibenna (Caile Vipinas) che insieme al fratello Aulo,
appaiono legati a Mastarna; sul lato lungo Mastarna appare inserito in un’ampia scena bellica che
oltre a comprendere la liberazione di Celio Vibenna da parte di Mastarna, comprende quella di una
strage di comandanti di città etrusche: Volsini (l’attuale Bolsena), Sovana (attuale Sorano in Toscana,
in provincia di Grosseto) e una non meglio identificata (Salpino?) da parte di Larth Ulthes e del
fratello di Aulo Vibenna, Celio. Un probabile proseguimento della scena del combattimento fra
comandanti etruschi è stata rappresentata dal pittore della “Tomba François” su una terza parete che
forma un angolo retto con la seconda: qui si vede un personaggio di nome Marce Camitlinas che
assale Gneo Tarquinio Romano (Cneve Tarchunies Rumach). La caratteristica degli affreschi era poi
quella che le scene di ambientazione etrusca di una parete come quella della uccisione dei comandanti
etruschi, erano compendiate in quella opposta, in forma simmetrica, o in forma incrociata, da scene
tratte dall’epica omerica e dalla mitologia greca, affiancate in alcune casi da qualche riferimento
etrusco. Nel caso della scena della lotta e uccisione dei comandanti etruschi, di fronte ad essa il pittore
ha rappresentato il sacrificio dei prigionieri troiani; tra i personaggi vi figuravano gli eroi greci
Agamennone, l’ombra di Patroclo, Achille, Aiace Telamonio, Aiace Oileo, le figure mitologiche di
Caronte, il demone alato etrusco Vanth, e prigionieri troiani alla mercé di Achille -che ne sgozza uno-
e dei due Aiaci. Quindi il raccordo tra il contenuto della tavola di Lione a proposito dell’origine di
Mastarna e gli affreschi della tomba François con la descrizione di una scena di combattimento per
la supremazia fra comandanti etruschi, ha assunto i caratteri di una ricostruzione attendibile rispetto
all’origine greca dei Tarquini ed etrusca di Servio Tullio, costringendoci a ridiscutere l’ipercriticismo
degli studiosi di fine Ottocento e degli inizi del Novecento. Già Claudio riteneva che Mastarna, amico
stretto di Celio Vibenna di Vulci, ma non forse vulcente egli stesso, fosse da inserire a buon diritto
fra i personaggi con un profilo storico reale, all’interno del racconto monarchia romana di ascendenza
etrusca. Mastarna (da intendere forse Magister populi, dittatore, comunque capo militare capace di
risolvere la crisi della monarchia etrusca), nell’ambito delle razzie etrusche storicamente documentate
a sud del Tevere, si sarebbe recato a Roma dove avrebbe mutato il suo nome etrusco in quello di
Servio Tullio, divenendo re della città. Il quadro, estremamente complesso, contiene notizie
contraddittorie e non sempre lineari; ma le contestazioni circa la storicità dei personaggi vennero
messe a tacere dal rinvenimento, presso il santuario di Minerva a Veio, di un piede di vaso in ceramica
etrusca nera (bucchero) della prima metà del VI sec. a. C., con il nome del personaggio etrusco che
offriva l’oggetto al santuario, Avile Vipiiennas ovvero Aulo Vibenna. Una nuova corrente
interpretativa tende a inserire nella serie dei re etruschi -un periodo di centosette anni dal 616 al 509-
dopo Tarquinio Prisco, Aulo Vibenna, definito re dalle fonti latine e sepolto in Campidoglio a cui
avrebbe dato il proprio nome: con una facile etimologia il colle più alto si chiamerebbe Campidogio
con riferimento alla vicenda del capo spiccato dal corpo di Aulo, seguito dal fratello Celio Vibenna,
in onore del quale Servio Tullio, divenuto re, avrebbe denominato il vicino colle Celio.

Servio dopo una guerra contro Veio ed altri popoli etruschi si accinse ad un’opera di pace ritenuta da
Livio grandiosa poiché come Numa era stato l’autore del diritto divino così Servio, istituendo il censo,
doveva acquistare fama presso i posteri per aver stabilito distinzioni che riguardavano la capacità
economica dei cittadini e il rapporto con quella che viene definita, “la gradazione delle cariche e della
ricchezza” (LIV., I, 42, 4). BOX 2. Il capitolo quarantatreesimo di Livio è occupato dalla descrizione
del nuovo ordinamento censitario che riguardava una riorganizzazione della popolazione in campo
militare che poi si estese fino a divenire un’assemblea politica entro la quale si prendevano decisioni
riguardo la vita cittadina, con un evidente squilibrio a favore dei più ricchi.

Prima classe: alla prima classe sarebbero stati iscritti i cittadini con censo di centomila assi, un dato
del tutto anacronistico per l’età della monarchia etrusca. Forse nello sviluppo successivo, il comizio
centuriato avrebbe potuto contare su ottanta centurie della classe dei più ricchi, quaranta di giovani,
fino ai quarantacinque anni, abili al combattimento attivo e quaranta di anziani, dai quarantacinque
ai sessanta anni, riserve pronte ad intervenire in caso di necessità per la difesa della città.

L’armamento dei combattenti delle ottanta centurie della prima classe era quello degli opliti, la
fanteria pesante greca, costituito da protezioni per il corpo: elmo, scudo ovale e cavo (clipeo),
schinieri per proteggere la parte dal malleolo al ginocchio e corazza, tutti in bronzo; e da armi
offensive: la lancia (asta) e la spada corta e a doppio taglio (il gladio).
Aggiunte alla prima classe vi erano poi due centurie di fabbri, soldati del genio, che prestavano
servizio senza armi ed erano incaricati di trasportare le macchine da guerra.
Aggregate erano poi diciotto centurie di cavalieri, scelti tra i cittadini maggiormente illustri (dodici
più sei): «creò parimenti altre sei centurie, rispetto alle tre istituite da Romolo, per le quali mantenne
gli stessi nomi che erano stati loro assegnati nel momento che erano state costituite e inaugurate
secondo il volere degli dei» (LIV., 43, 8-9).
Seconda classe: censo fra i settantacinquemila e centomila assi; venti centurie tra giovani e anziani.
L’armamento era quello dei corpi di fanteria leggera, era dunque assente la corazza e si utilizzava lo
scudo rettangolare curvo e lungo e non il clipeo.
Terza classe: censo minimo di cinquantamila assi; venti centurie tra giovani e anziani.
L’armamento era analogo a quello della seconda classe, tranne per il fatto che era privo di schinieri.
Quarta classe: aggiunta probabilmente più tardi, nel V o IV secolo a.C., comprendeva i cittadini con
un censo di venticinquemila assi; venti centurie dieci di giovani e dieci di anziani. L’armamento era
costituito dalle sole lancia (asta) e giavellotto con punta di metallo (veruto)
Quinta classe: l’ultima classe, comprendeva i cittadini con un censo di undicimila assi; trenta
centurie, quindici di giovani e quindici di anziani.
L’armamento era costituito da fionde e pietre, si trattava quindi di soldati detti frombolieri
Aggregate a questa quinta classe erano due centurie di suonatori di corno e di tuba (strumento simile
ad una moderna tromba).
Coloro che non erano compresi in queste cinque classi di censo costituivano il resto e la maggior
parte della popolazione ed erano denominati “proletari” (coloro che non avevano beni materiali ma
solo figli) o “censiti per capo” (ossia censiti per la loro persona), erano ricompresi in un’unica centuria
ed esenti dal servizio militare.
È evidente che potrebbe essersi verificato in questo periodo il raddoppio della legione romulea,
passata da 3000 a 6000 fanti, se è vero che le 40 centurie degli iuniores della prima classe, le dieci
centurie degli iuniores della seconda classe e le dieci della terza, consentivano di arruolare 6000
uomini. Si trattava dunque di un comizio dallo spiccato carattere censitario che si sovrapponeva
all’organizzazione militare: i più ricchi erano insieme penalizzati per dover fornire il maggior numero
di soldati, ma anche premiati sul piano politico, visto che il comizio eleggeva i magistrati curuli ed
approvava le leggi, con una maggioranza che di solito era fornata dalla prima classe e dalle 18 centurie
di cavalleria. BOX 3

All’interno della “modernizzazione” della città, che in termini di superficie si avviò a divenire, a
partire da questo momento, una delle più estese del mondo mediterraneo, va considerata la
realizzazione da parte del re dell’unità territoriale di Roma entro la cinta delle mura dette “serviane”,
con la divisione in quattro regioni, corrispondenti a quattro tribù territoriali urbane, che erano
funzionali al censimento, all’arruolamento nell’esercito e al voto : la Palatina (Palatino e sue
articolazioni Cermalo e Velia), la Collina (Viminale e Quirinale), l’Esquilina (Cispio e Oppio) e la
Suburana (Celio e i quartieri delle Carine e della Subura). In campo religioso a Servio Tullio viene
fatta risalire la costruzione del tempio di Diana sull’Aventino, a carattere federale, che coinvolse gli
altri popoli latini e quello di Fortuna, divinità dai contenuti religiosi legittimanti per il re e la
monarchia, alle pendici del Campidoglio, presso il Foro Boario e il porto sul Tevere (in prossimità
dell’attuale chiesa di Sant’Omobono).

BOX 1.

Corpus Inscriptionum Latinarum, XIII, 1668 = Inscriptiones Latinae Selectae, 212

Un estratto dalla Tabula Claudiana, dove nel discorso si fa riferimento all’origine etrusca di Servio
Tullio
<<[…] Tra il regno di questo (di Tarquinio Prisco) e quello di suo figlio o suo nipote (Tarquinio il
Superbo), infatti in ciò gli autori discordano, s’inserì Servio Tullio, che se seguiamo i nostri (autori),
nacque dalla schiava Ocresia; se seguiamo quelli etruschi, fu un tempo l’amico più fedele di Celio
Vibenna e compagno di tutte le sue vicende, dopo essere uscito da una serie di situazioni di fortuna
con tutti i resti dell’esercito di Celio abbandonò l’Etruria e occupò il monte Celio che dal nome del
suo comandante allora si chiamò così; dopo aver cambiato il suo nome infatti in etrusco si chiamava
Mastarna che prima era così e fu chiamato come detto e ottenne il regno con enorme profitto della
città […]>>.

BOX 2.
La “riforma oplitica serviana”. L’ordinamento centuriato
<<Istituì infatti il censo, un provvedimento massimamente salutare per una città che aspirava ad una
futura grandezza, in virtù del quale i doveri della pace e della guerra, non fossero affidati, come in
passato per testa ma in base alla capacità economica; ripartì allora le classi, le centurie e l’ordinamento
complessivo secondo il censo, in modo che ciò fosse conveniente in pace e in guerra” (LIV:, I, 42,
5).

BOX 3
COMIZIO CURIATO
TRIBU’ GENTILIZIE
Ramnes 10 curie, 100 cavalieri, 1000 fanti
Tities
Luceres
30 CURIE
Maggioranza 16, legione di 3000 fanti, 300 cavalieri

COMIZIO CENTURIATO
CLASSIS IUNIORES SENIORES
I 40 40
100.000
II 10 10
75.000
III 10 10
50.000
IV 10 10
25.000
V 15 15
12.500
Altre 5

INFRA CLASSEM

CAVALIERI 3 + 3 + 12

Totale 175 + 18 = 193, Maggioranza 97 (cavalieri e prima classe)


Legione serviana di 6000 fanti e 1800 cavalieri (prime tre classi)

CONCILIUM PLEBIS TRIBUTUM, poi COMITIUM TRIBUTUM

TRIBU’ TERRITORIALI
Urbane 4 Suburana, Palatina, Esquilina, Collina
Rustiche (17) 31 alla fine della prima guerra punica
Maggioranza 18

COMIZIO CENTURIATO DOPO LA I GUERRA PUNICA (IPOTESI)

CLASSIS IUNIORES SENIORES


I 35 35
100.000
II 35 35
75.000
III 35 35
50.000
IV 35 35
25.000
V 35 35
12.500
Altre 5

INFRA CLASSEM

CAVALIERI 18
Totale 373 centurie, maggioranza 187 (prime tre classi)

Tarquinio il Superbo
La successione di Servio Tullio avvenne in maniera traumatica: riaffiorarono da una parte i rancori
mai sopiti di uno dei figli di Tarquinio Prisco e Tanaquilla, anch’egli di nome Tarquinio; la principale
artefice della detronizzazione e della morte del re fu però soprattutto la figlia Tullia maggiore. La
donna, sposata in seconde nozze a Tarquinio, lo incitava ad impadronirsi del regno e ad eliminare il
padre e suocero, facendo leva sull’ambizione sfrenata di Tarquinio. Nella narrazione liviana si coglie
con chiarezza l’intolleranza che si era venuta a creare, da parte dei senatori e dei cavalieri, nei
confronti della riforma centuriata, ritenuta sì improntata a principi di giustizia sociale, ma poco
equilibrata, a sfavore del patrimonio dell’antica aristocrazia. Riaffiorava poi la natura oscura delle
origini di Servio e della sua ascesa al potere favorita da Tanaquilla, nel discorso tenuto da Tarquinio
entro la Curia Hostilia, in cui fece convocare dal banditore i senatori a nome del “re Tarquinio”, un
passo decisivo verso l’usurpazione del potere. BOX 1. Dopo che Servio giunse nella Curia, Tarquinio
afferrò il re per la vita, lo trascinò fuori e lo scaraventò giù dai gradini, abbandonandolo nelle mani
dei suoi sostenitori: dietro l’aggressione si coglie sempre la presenza della figlia Tullia, rappresentata
come una brutta copia di Tanaquilla, priva della dottrina e della forte personalità della prima, ridotta
a rientrare nello stereotipo di una virago ambiziosa. Giunta nel Foro su di un cocchio, Tullia chiamò
il marito fuori dalla Curia, attribuendogli per prima il titolo di re; di ritorno all’Esquilino dove vi era
la dimora del re, suo padre, e la propria, avvisata dal cocchiere che il cadavere di Servio giaceva a
terra, diede ciononostante ordine che il cocchio passasse sopra il corpo, tanto che la via dove ciò
accadde prese da allora il nome di via Scellerata.
Molti studiosi ritengono che il clima drammatico di questa fine VI sec. a. C., descritto dalle fonti in
rapporto al regno dell’ultimo re di Roma, sia dovuto alla consapevolezza da parte di alcuni esponenti
dell’aristocrazia, favorevoli alle “aperture” innovatrici di Servio Tullio, che l’avvento di Tarquinio
finì per dimostrarsi un tragico ritorno al passato, una sorta di rivincita della monarchia tradizionale.
In effetti Tarquinio detto il Superbo, viene descritto come un tiranno con caratteristiche autocratiche.
Da allora il termine “tiranno” fu utilizzato per designare i protagonisti violenti della lotta politica: si
finisce per arrivare all’iscrizione sull’arco di Costantino, dove il senato condanna il tiranno Massenzio
e alla sua fazione.
Dopo aver ottenuto l’appoggio dei senatori per eliminare Servio Tullio, allo stesso tempo Tarquiniio
tendeva a diffidare di tutti e finì per promuovere un’epurazione del senato, seppur volta –a suo parere-
ad eliminare i sostenitori del suo predecessore, giungendo addirittura a stabilire che non si procedesse
a nuovi ingressi di senatori. Il senato venne così indebolito numericamente e il re prese decisioni
autonome senza consultarsi con i patres, si avvalse piuttosto nella gestione della cosa pubblica di
consigli di familiari. Da ciò nasce la caratterizzazione di Tarquinio che, conscio di aver ottenuto il
potere con la violenza, si circondò di guardie del corpo, temendo di incorrere nella stessa sorte del
predecessore, poiché il suo regno non affondava le radici né sul consenso popolare né nella fiducia
dei senatori suoi pari. Ciò traspare anche dal fatto che egli approfittò della legge, soprattutto in materia
di delitti capitali, per eliminare gli oppositori e gli avversari politici con l’esilio, la morte e la confisca
dei beni. BOX 2 Il regno di Tarquinio venne poi caratterizzato da una politica volta a far acquistare
a Roma una supremazia di sempre maggior portata nei confronti dei Latini. In questo senso rientra
l’eliminazione di Turno Erdonio di Aricia (attuale Ariccia nella zona dei Castelli romani), reo di aver
manifestato apertamente insofferenza nei confronti del re etrusco, di cui coglieva il tratto suprematista
nei confronti della gente latina (il “nome latino”): dopo aver organizzato una messinscena ai suoi
danni, Erdonio venne screditato davanti agli altri re latini, accusato di aspirare al predominio su di
essi e mandato a morte senza processo. A seguito di ciò, Tarquinio convinse i Latini a rinnovare
l’accordo con Roma stipulato ai tempi di Tullo Ostilio, dopo la distruzione di Alba Longa, che
ovviamente prevedeva una posizione di preminenza per Roma. A completare la sfera del controllo
sul territorio del Lazio vi fu un’intensa opera diplomatica culminata attraverso il patto stipulato con
Gabi (foedus Gabinum), l’antichissimo centro lungo la strada per Preneste (qui secondo la tradizione
i gemelli erano stati educati): il trattato, inciso sul rivestimento di cuoio di uno scudo ligneo, che
venne conservato nel tempio di Semo Sanctus (il dio Fidius), presso il colle Quirinale, era ancora
visibile ai tempi di Augusto (DION. HAL., IV, 58, 4). In realtà Livio, a proposito dei rapporti tra
Tarquinio e Gabi, scrive che ad allacciarli era stato il figlio del re, Sesto, che aveva agito con l’inganno
fingendosi un oppositore del suo stesso padre, per conquistare la fiducia della popolazione di Gabi
che si consegnò senza lottare nelle mani dei Romani. Cominciò poi durante il regno di Tarquinio la
lunga storia dei rapporti bellicosi tra Roma e le popolazioni del gruppo osco-umbro degli Equi, a
nord- est e dei Volsci a sud est di Roma, verso la costa tirrenica, proseguiti per tutto il V e conclusi
solo alla metà del IV sec. a. C.: si ha notizia della conquista di Suessa Pomezia (nell’agro pontino)
città volsca e di un patto stipulato con gli Equi.
Tarquinio fu artefice di un grande sviluppo dell’attività edilizia: gli studiosi sottolineano come
l’espressione di Livio relativa al fatto che vennero fatti confluire a Roma artisti da ogni parte
dell’Etruria riveli contenuti molto importanti. Fu un periodo in cui, a Roma e in tutta l’area
dell’Etruria laziale, ad una committenza cittadina di alto livello e capacità economica, corrispose una
manodopera altamente qualificata, con specializzazione ad esempio nella produzione delle terrecotte
architettoniche: del resto non va dimenticato che nella seconda metà del VI sec. a. C. giunsero, nei
centri etruschi di Tarquinia, Vulci e Caere, maestranze greco-orientali provenienti dalla costa
dell’Asia Minore (Ionia), emigrate a seguito dell’invasione persiana.
L’opera più importante fatta eseguire da Tarquinio fu il tempio di Giove Ottimo Massimo (Giove
Capitolino), la cui costruzione era già stata promessa dal padre Tarquinio Prisco; per i lavori venne
utilizzato il bottino ricavato dalla conquista di Suessa Pomezia e si sconsacrarono i piccoli santuari e
i tempietti che erano stati inaugurati dal re Sabino Tito Tazio al momento della guerra con Romolo,
prima della definitiva alleanza tra i due popoli. Si lasciò al suo posto solo il betilo che rappresentava
Termino, il dio dei confini: la pietra fu infatti incorporata nel tempio; ai lavori di costruzione sarebbe
poi legato il ritrovamento di un teschio umano con il volto intatto, secondo la tradizione forse quello
di Aulo Vibenna, che avrebbe simboleggiato, stando alle interpretazioni dei vati, la futura grandezza
di Roma, capitale del mondo (il rapporto tra urbs ed orbis è una delle costanti della successiva storia
romana). Nell’architettura del tempio di Giove capitolino si colgono in maniera palese gli elementi
che ne fecero, nella Roma di fine VI sec., un monumento differente e unico, grazie alla decorazione
architettonica attribuita ad artisti famosi come Vulca di Veio che realizzò le statue in terracotta -l’uso
del legno cominciava a venir meno- di Giove ed Ercole. Tutto ciò va ricondotto ad un clima artistico
che pervadeva le città etrusche del Lazio, come si rileva a Veio, soprattutto presso il santuario di
Portonaccio. Roma nel suo insieme si arricchì di un’architettura rappresentata da molteplici
convergenze artistiche come quelle esercitate dagli artigiani provenienti dai centri della Campania
ellenizzata, Cuma ad esempio: le antefisse dei tetti di alcuni edifici -ne rimangono pochi resti nei
pressi del Tevere, sul Palatino e sul Campidoglio- mostrano l’influenza della produzione proveniente
da quella regione.
Vennero impiegati, per la realizzazione del tempio di Giove, cittadini che si trovarono impegnati su
più fronti, quello militare e quello costituito da questa sorta di prestazione civile: non risultò per loro
tanto gravosa, quanto quella di attendere ai lavori per la costruzione dei sedili del circo e a quelli per
la Cloaca Massima, la grande infrastruttura fognaria realizzata durante il governo di Tarquinio.
Il tempio sarebbe stato consacrato però al principio della Repubblica, dai primi consoli, Lucio Giuno
Bruto e Marco Orazio, nel 509 a. C. Lo storico greco di Megalopoli, Polibio (POL. III, 22), oltre a
fornire questa informazione dà conto anche di un importante avvenimento, la stipula del primo trattato
fra Roma e Cartagine: collocato al primo anno della Repubblica, sarebbe però frutto di un’abile lavoro
diplomatico del re etrusco. BOX 3 Il patto risulta infatti conforme alla politica di espansione verso la
costa tirrenica, attestata dall’attività di Tarquinio nei confronti dei Volsci che dalla pianura pontina
si erano spinti sino al mare, conquistando Circei e Terracina e soprattutto al contesto generale delle
relazioni delle città etrusche del Lazio con Cartagine, come si può trarre dai famosi documenti inscritti
denominati “Lamine di Pyrgi”. BOX 4
Occorre pensare per la fine della monarchia a Roma, simboleggiata dalla “cacciata” di Tarquinio il
Superbo, ad uno svolgimento meno traumatico di quello indicato dalla tradizione annalistica della
Repubblica, definito da Massimo Pallottino quasi un racconto “romanzesco”. Probabilmente vi fu un
ritorno alle tendenze politico-riformistiche che si erano già delineate con Servio Tullio e ad esso
contribuirono i protagonisti della detronizzazione e della primissima fase repubblicana, alcuni legati
peraltro da vincoli di parentela nei confronti del sovrano: Lucio Giunio Bruto, figlio di Tarquinia la
sorella del re, Tarquinio Collatino di Collazia e PublioValerio Publicola (da notare il cognome che si
ricollega a popolo). Di quest’ultimo, della sua rete di relazioni di amicizia, che contribuirono a far
terminare, con la fine di Tarquinio, la lunga fase della monarchia romana, siamo informati attraverso
un documento epigrafico contemporaneo a Publicola, proveniente dalla città di Satrico, il Lapis
satricanus (la “pietra di Satrico), che indirizza un fascio di luce sulle milizie armate che percorrevano
il Lazio tra Etruria e Campania. BOX 5 Secondo la tradizione, l’episodio scatenante la caduta di
Tarquinio il Superbo sarebbe stato provocato dal figlio Sesto Tarquinio, che avrebbe stuprato la
matrona romana Lucrezia, moglie di Tarquinio Collatino. Una scommessa circa la virtù delle mogli
dei principi, impegnati al seguito di Sesto Tarquinio nell’assedio di Ardea, che condusse ad una sorta
di giro ispettivo del gruppo dei mariti verso le proprie abitazioni, avrebbe portato alla conclusione
che Lucrezia era quella maggiormente virtuosa perché trovata intenta, nella notte, insieme alle
ancelle, a svolgere, nell’atrio dell’abitazione la tipica attività femminile di filatura della lana. Sesto,
preso dal desiderio di possedere Lucrezia, ritornò da solo a Collazia e con la forza le fece violenza,
dopo aver minacciato la donna di ucciderla e metterle affianco uno schiavo nudo, in modo da dar ad
intendere un rapporto illecito con un subalterno. La donna, estremamente pudica, sentendosi
oltraggiata oltremodo, convocò urgentemente a Collazia il padre, Spurio Lucrezio, che giunse
accompagnato da Valerio Publicola e il marito Tarquinio Collatino accompagnato da Giunio Bruto,
nipote di Tarquinio. Dopo aver raccontato agli uomini l’accaduto ed essersi proclamata innocente
nelle intenzioni e nell’animo, la donna si diede la morte, con un pugnale tratto da sotto la veste.
L’accaduto provocò anzitutto la reazione di Giunio Bruto che si mise a capo della rivolta
antimonarchica; il corpo di Lucrezia venne portato a Roma, dove il popolo rimase colpito dalla
drammaticità dell’evento e dal precipitare della situazione. Bruto si diresse ad Ardea mentre
Tarquinio tornava Roma, dove non riuscì ad entrare e fu costretto all’esilio a Caere in Etruria insieme
a due suoi figli, il figlio Sesto rifugiatosi a Gabi venne ucciso. Probabilmente non si trattò di un esilio
inattivo e gli studiosi suppongono che Tarquinio abbia continuato a tenere in qualche modo un ruolo
di potere, sostenuto dai suoi sodali, la “parte tarquiniana” (factio tarquiniana), di cui parla Livio, che
comprendeva certamente il genero Ottavio Mamilio, ditttore a Tuscolo (LIV., II, 18, 4).
Alla caduta dei Tarquini ha contribuito certamente la progressiva debolezza degli Etruschi della
Campania, sconfitti ad Aricia dal re greco Aristodemo di Cuma; insieme l’insuccesso della spedizione
di Porsenna, re di Chiusi, che aveva tentato di sostituire il predominio di Tarquinia e di Vulci sull’area
a cavallo del Tevere e sulla città di Roma. Le fonti confondono molti avvenimenti e non riescono
però a nascondere le ragioni del crollo della monarchia etrusca, che sembrano legate al vuoto di potere
(colmato dall’aristocrazia latino-sabina) determinato dalla sconfitta di Porsenna e di Tarquinio di
fronte alle potenze emergenti del Lazio e della Campania.

BOX 1
Le parole di Tarquinio il superbo contro Servio Tullio: «Uno schiavo nato da una schiava che si era
impadronito del regno, dopo la morte indegna di suo padre [di Tarquinio], grazie al regalo di una
donna [Tanaquilla], non come un tempo dopo che si era avuto l’interregno, non a seguito della
convocazione dei comizi, non per suffragio del popolo, non con il consenso dei senatori. Nato in
questo modo e nel medesimo creato re, sostenitore di gente d’infima condizione, da cui egli stesso
proveniva, per odio dell’altrui nobiltà, strappata la terra ai maggiorenti, l’aveva distribuita tra i più
vili, tutti gli oneri che un tempo erano stati in comune li aveva messi sulle spalle degli aristocratici
della città; aveva istituito il censo perché il patrimonio dei più ricchi fosse fatto oggetto d’invidia e
pronto, nel caso in cui lo volesse ad essere elargito agli indigenti» (LIV. I, 47, 10-12).

BOX 2
Le paure del tiranno: «[…] fece uccidere i più importanti senatori che credeva avessero parteggiato
per Servio, conscio poi che si potesse prendere esempio da lui e a suo danno nel raggiungere
illegalmente il potere, si circondò di uomini armati […]» (LIV., I, 49, 2)

BOX 3
Polibio ebbe modo di vedere i documenti redatti in latino arcaico, con il testo del trattato fra Roma e
Cartagine del 509 a. C.. Il testo, per la lingua utilizzata, risultava di difficile interpretazione per gli
stessi Romani del II sec. a. C. Per quanto riguarda il contenuto, si individuavano due sfere di azione
e di influenza reciproche. Roma e i suoi alleati non potevano oltrepassare il Promontorio Bello, forse
il Capo Bon in Tunisia (più difficilmente il Capo Farina, attuale Ras Sidi el Mekki) e nel caso di
tempesta o altre cause di forza maggiore era concesso loro sostare nei porti dell’Africa. il tempo
necessario per riparare le navi e per compiere sacrifici alle divinità. Chi invece giungeva per motivi
commerciali poteva concludere i propri affari solo alla presenza di un banditore o di un pubblico
ufficiale e ciò valeva sia per il nord Africa sia per la Sardegna, mentre vi era libero commercio nella
Sicilia cartaginese, la parte occidentale dell’isola. Per parte loro ai Cartaginesi era interdetto esercitare
alcun tipo di azione nel Lazio, in particolare contro le città latine della costa, alcune delle quali
venivano esplicitamente indicate: Anzio, Laurento, Circei, Terracina. (POL, III, 22-23)

BOX 4

Le “Lamine di Pyrgi”, sono tre importantissimi documenti epigrafici, incisi su laminette d’oro, che
risalgono alla fine del VI sec. a. C.. Esse furono ritrovate nel 1964, ripiegate su se stesse e con piccoli
chiodi per l’affissione, nel più antico dei santuari della cittadina etrusca, dal poleonimo greco, Pyrgi
(odierna Santa Severa) a circa 13 Km. dall’antica città etrusca di Caere (attuale Cerveteri), per la
quale Pyrgi stessa svolgeva le funzioni di porto. Due lamine sono incise in lingua etrusca e una in
fenicio. Le due lamine in etrusco contengono la dedica di un luogo sacro alla dea Ashtart (Astarte dei
Fenici), assimilata all’etrusca Uni da parte di Thefarie Velianas, che il testo fenicio indica come re
di Caere; la lamina in fenicio contiene la motivazione della dedica del luogo sacro, legata all’ascesa
al potere di Thefarie Velianas.

BOX 5

Il Lapis satricanus è un documento epigrafico inciso sulla base di un donario a Marte, ritrovato nel
1977 a Satrico (attuale Borgo le Ferriere) nel Lazio, reimpiegato nelle fondamenta di uno dei due
templi dedicati alla Mater Matuta. L’interpretazione del testo dell’iscrizione su due linee, è stata
molto dibattuta, di sicuro vi è che il personaggio citato è un Poplio Valesio, (Publio Valerio in latino
arcaico) collegato ai suoi sodali aristocratici (amici) e che insieme offrono un voto a Marte. Il
documento risale agli ultimi anni del VI sec. a. C. ed ha consentito agli studiosi di identificare in
Poplio Valesio, Publio Valerio Publicola.

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