Da Romolo ai Tarquini
I- LA MONARCHIA LATINO-SABINA
Una lunga fase monarchica nella storia di Roma arcaica è realmente documentata anche dalle
iscrizioni, in analogia con la storia istituzionale di molte città del Lazio e dell’Etruria: nella successiva
età repubblicana sopravviveva il ricordo di un rex attraverso il sacerdozio del rex sacrificulus che ne
ha ereditato le competenze; egli risiedeva (come più tardi il Pontifex Maximus) nel foro romano,
all’interno della Regia, presso il tempio di Vesta; infine la cerimonia religiosa del regifugium che
prevedeva riti lustrali alla vigilia dell’inizio dell’anno nuovo (I marzo) presuppone l’improvvisa fuga
del rex e poi del rex sacrificulus dal comizio. Anche in avanzata fase repubblicana il periodo che
intercorre tra la scomparsa dei consoli e la nomina dei nuovi magistrati prende il nome di interregnum,
quando l’imperium viene per così dire “congelato” e affidato settimanalmente ad un senatore che
prede il titolo di interrex.
Meno sicuri siamo sull’esistenza di soli sette re, come la tradizione canonica ci racconta, per quanto
gli scavi effettuati sul Palatino negli ultimi decenni abbiano sostanzialmente confermato la cronologia
della fondazione della città nell’età del ferro e l’esatta localizzazione della residenza dei primi re, sul
terrazzo che si affaccia sul Tevere. Romolo (affiancato dopo il ratto delle Sabine dal re sabino Tito
Tazio) e gli altri re avrebbero regnato mediamente 35 anni, dunque dal 754 al 509 a.C., un periodo di
245 anni con un’alternanza inizialmente di re latini e di re sabini, più tardi di re etruschi.
Lo storico Tito Livio (59 a. C. – 19 d. C.) nel primo libro della Storia di Roma, dalla sua fondazione,
descrive le fasi politiche, istituzionali e sociali di Roma, che per tre secoli dall’VIII al VI a. C., venne
governata in forma monarchica: un regime (analogo a quello di tante altre città dell’area), che
l’accompagnò con risultati alterni dalla fase proto urbana sino al momento in cui, nel VI secolo, Roma
si modernizzò sotto il profilo urbanistico e culturale con l’arrivo dei monarchi etruschi.
Le fonti attestano la successione di sette re, otto se si tiene conto della diarchia della prima fase
dell’esperienza monarchica, in cui i re furono il latino Romolo e il sabino Tito Tazio.
«Dove adesso si trova Roma c’era un tempo il Septimontium così chiamato per il numero di monti
che in seguito la città incluse all’interno delle sue mura» (Varrone, De Lingua Latina, V, 41)
In realtà la fondazione ex novo, tratta dal dettato delle fonti, è contraddetta da elementi, assai
importanti, messi in luce dall’archeologo Andrea Carandini che incrociando i dati storico-letterari e
quelli tratti dall’indagine archeologica, distingue per il II millennio, un insediamento pre-urbano,
consistente in villaggi sparsi, riconducibili alla diffusione dei Latini di Alba Longa, in prossimità di
un guado del Tevere, a valle dell’isola Tiberina, ai piedi dell’Aventino. Alla metà del IX secolo a. C.,
l’insediamento pre-urbano si evolvette in una realtà proto-urbana, denominata Septimontium, che
inglobava i monti e i colli. Per monti si intendevano il Palatino l’Esquilino ed alcune loro propaggini:
il Cermalo propaggine del Palatino verso il Tevere, il Fagutale, l’Oppio ed il Cispio propaggini
dell’Esquilino, la Velia, altura tra il Colle Oppio, l’Esquilino e il Palatino e la Subura, la valle situata
alle pendici dei colli Quirinale e Viminale. Per colli si intendevano il Quirinale formato dai colli
Laziare, Muciale e Salutare e il Viminale tra il Quirinale e l’Esquilino. In tutto, fra monti e colli per
una superficie stimata intorno ai 205 ettari. Septimontium divenne anche la denominazione di una
festa a carattere purificatorio che si celebrava a Roma l’undici dicembre, con una processione e
sacrifici lungo un itinerario forse circolare. Essa risulta attestata ancora in epoca imperiale.
Alcuni storici ritengono altresì che questa fase proto-urbana non sia precedente alla prima età regia.
BOX PER IL SEPTIMONTIUM CARTINA
BOX. Septimontium
Per Varrone, nella seconda metà del I secolo a. C. il toponimo Septimontium indicava i sette monti
sui quali era sorta la città: «il giorno del Septimontium fu chiamato così da questi sette monti sui quali
è posta la città» (VARR., De lingua latina V, 41).
Per il giurista Antistio Labeone, in epoca augustea, con Septimontium si indicavano le feste dedicate
ai monti stessi che in realtà erano otto nel suo elenco, e in particolare quelle maggiormente importanti
che riguardavano il Palatino e la Velia: «Al Septimontium, come afferma Antistio Labeone, è festa
per questi monti: per il Palatino, cui si compie un sacrificio che è chiamato Palatuar; per la Velia, cui
ugualmente si compie un sacrificio; per il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l’Oppio, il monte Celio, il
monte Cispio». (Festo, De verborum significatu, XVII, Septimontium).
La testimonianza di Antistio Labeone, secondo gli studiosi, può consentire di attribuire un’etimologia
differente a Septimontium; piuttosto che quella di Varrone, sette monti, connessa all’unità della Roma
delle origini, l’etimologia sarebbe derivata da “monti recinti”, i monti cinti da palizzate della fase
pre-urbana.
BOX 1.
Il rito inaugurale che consacra Numa Pompilio re. Tito Livio nel primo dei libri ab urbe condita
racconta le cerimonie che il re sabino Numa Pompilio celebrò in Campidoglio per la solenne
inauguratio dell'anno, alla ricerca degli auspici favorevoli per il futuro, con il desiderio di fondare
una seconda volta la città di Roma, con il diritto, con le leggi e con la moralità intesa nel senso
del disinteresse e del rigore nell'amministrare la res publica: Urbem novam (…) iure eam legibusque
ac moribus de integro condere parat.
“Quindi condotto sulla rocca da un augure, che da allora ebbe per sempre quel sacerdozio pubblico,
sedette su un masso rivolto ad oriente. L’augure, con il capo velato, prese posto alla sua sinistra,
reggendo con la mano destra un bastone ricurvo, senza nodosità, che poi chiamarono lituo. Rivolto
poi lo sguardo alla città e alla campagna, invocati gli dei, delimitò le regioni [del cielo] da oriente ad
occidente e dichiarò fauste quelle a mezzogiorno e infauste quelle a settentrione; fissò mentalmente
il punto più lontano rispetto al quale poteva portarsi lo sguardo; allora passato il lituo nella mano
sinistra e posta la destra sul capo di Numa, così pregò: «Padre Giove, se è destino che questo Numa
Pompilio di cui tocco il capo sia re di Roma, che tu possa mostrarci chiaramente segni certi entro quei
confini che ho tracciato». Allora formulò gli auspici che desiderava gli fossero inviati. Dopo che gli
vennero annunziati, Numa proclamato re, scese dal recinto augurale” (LIV. I, 18, 6-10).
BOX 2
Numa viene descritto come l’artefice del rigido rispetto di regole formali che se non applicate
potevano inficiare i riti, renderli sgraditi agli dei e rompere la pace tra dei e Romani
“Scelse poi tra i senatori il pontefice Numa Marco, figlio di Marco e gli assegnò tutti i riti sacri, con
una minuta e precisa descrizione di quali vittime e in quali giorni si dovessero celebrare i sacrifici e
da dove si dovesse trarre il denaro per quelle spese” (LIV. I, 20, 5-6).
BOX 3
Il breve cenno di Livio sull’istituzione del collegio delle Vestali da parte di Numa è compensato da
numerose altre fonti che chiariscono le caratteristiche dell’attività religiosa di queste sacerdotesse e
attribuiscono al re la costruzione del tempio a pianta circolare nel foro, in realtà originariamente una
capanna di forma rotonda, al cui interno si trovava il focolare della città.
Secondo Plutarco (Num. 10-11) le prime quattro Vestali che vennero consacrate da Numa furono
Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpea, in seguito il collegio arrivò ad un numero definitivo di sei con
Servio Tullio. Al collegio potevano accedere bambine tra i sei e i dieci anni provenienti da famiglie
aristocratiche che venivano “prese”, “catturate” secondo la terminologia tecnica, ossia scelte dal
pontefice massimo; questo sacerdozio era della durata di trent’anni e stabiliva, pena la messa a morte
della vestale colpevole, che le sacerdotesse fossero tenute a rispettare il voto di castità. La vestale che
avesse avuto rapporti con un uomo veniva rinchiusa in un ambiente scavato sottoterra, nel Campo
Scellerato, presso Porta Collina, dove le si allestiva un letto, veniva accesa una lucerna e si
disponevano viveri necessari per una sopravvivenza brevissima: poco pane, acqua, latte e olio. Allo
scadere dei trent’anni si poteva abbandonare l’ufficio religioso ma ciò accadde raramente all’interno
di questo sacerdozio, che tra quelli romani, fu quello maggiormente longevo e soppresso in virtù delle
disposizioni contenute nell’editto di Teodosio del 382. L’ultima Vestale Massima fu Coelia
Concordia nel 384, il fuoco sacro venne spento nel 391, il Palladio custodito nel penus Vestae venne
distrutto: Zosimo (V, 28) racconta il pianto disperato e le maledizioni lanciate da una delle ultime
Vestali quando Serena, moglie di Stilicone, entrata nel tempio di Cibele, tolse dal collo di Rea la
preziosissima collana che l’adornava. Il compito principale al quale le Vestali erano addette era
quello di sorvegliare a turno il giorno e la notte il fuoco sacro, nel caso si fosse spento la Vestale
veniva duramente fustigata; altro compito rituale era quello della preparazione della mola salsa,
l’impasto di farina e sale che durante i sacrifici veniva cosparso sul capo della vittima da immolare.
Il collegio fu riformato da Augusto e venne legato sempre più al culto pubblico e imperiale,
conservando però, come costitutivi, caratteristiche e compiti del periodo arcaico.
BOX 1.
Lavinio, la città religiosa dei Latini
Lavinio (presso l’attuale Pratica di mare, nelle vicinanze di Pomezia), viene considerata dalla
tradizione la città più antica del Latini, fondata da Enea presso il fiume Numico (forse il rio Torto) in
onore di Lavinia, sua sposa, figlia del re di Laurento, Latino. La città sorse tra l’VIII e il VII sec. a.
C. e già dal VI sec. a. C. il culto di Enea vi appare fortemente radicato: una tomba principesca, del
VII sec. a. C. (680 a. C.), nella necropoli a sud-est della città, venne consacrata, nel VI sec. a. C.
(intorno al 570 a. C.), come luogo di culto eroico. Essa fu poi identificata, dallo scrittore di epoca
augustea Dionigi di Alicarnasso, che si recò a visitarla, come la tomba di Enea; Dionigi, grazie
all’epigrafe dedicatoria al Padre Indigete, uno degli appellativi che gli venivano attribuiti, riconobbe
in questa tomba quella dell’eroe troiano. In prossimità della c.d. tomba di Enea, gli scavi archeologici
degli anni sessanta del secolo scorso, hanno portato alla luce un santuario, sempre del VI sec. a. C.,
denominato dei “XIII altari”, costituito da tredici are, dedicate a differenti divinità: le epigrafi
dedicatorie hanno rivelato che un altare era dedicato al culto dei Dioscuri, Castore e Polluce, figli di
Giove e un altro altare al culto di Venere, madre di Enea, a Lavinio forse venerata come protettrice
della vendemmia e del mosto (Venus Frutis). Nella città erano presenti altri importanti santuari come
quello di Minerva (frequentato dal tardo V al II sec. a. C.), destinato probabilmente ai riti di passaggio
giovanili e un santuario arcaico, la cui intitolazione ad oggi è sconosciuta; potrebbe essere identificato
come quello dei Penati. L’anima degli antichi latini appare anche incarnata da alcuni culti suburbani
come quello del Sole Indigete, attestato presso le rive della laguna dove sfociava il Numico e quello
di Fauno, divinità antichissima dei Latini a carattere oracolare, attestato nella località di Solfatara al
confine con Ardea.
BOX 2.
L’atroce fine di Mezzio Fufezio e la crudeltà della legislazione regia
«Quindi fatte avvicinare due quadrighe, fece legare su entrambi i carri Mezzio; poi i cavalli vennero
lanciati in direzione opposta, portando via il corpo spezzato in due su entrambi i carri, dove le membra
erano state fissate con lacci. Tutti distolsero lo sguardo da uno spettacolo così orribile. Quello fu il
primo ed ultimo supplizio presso i Romani a dare esempio di scarsa memoria delle leggi dell’umanità:
possiamo vantarci che in altri casi nessun popolo ordinò pene più miti» (LIV. 28, 10-11)
BOX 1. Tanaquilla
Tanaquilla, donna volitiva, riesce a convincere il marito ad emigrare a Roma.
“E giacché gli Etruschi disprezzavano Lucumone ch’era nato da un esule straniero, non poté
sopportare l’oltraggio e dimenticando l’amore innato per la patria, pur di vedere onorato il marito,
prese la decisione di emigrare da Tarquinia” (LIV. I, 34, 5).
Roma appare agli occhi di Tanaquilla una città ricca di occasioni, dove anche uno straniero può
affermarsi: <<Roma le apparve la città maggiormente adatta allo scopo: tra un nuovo popolo, lì dove
ogni nobiltà era di data recente e derivata dal merito, vi sarebbe stato posto per un uomo forte e
valoroso; vi aveva regnato Tazio di origine sabina, vi era stato chiamato al regno Numa da Curi e
Anco nato da madre sabina e nobile solo per la discendenza da Numa>> (LIV. I, 34, 6).
Tanaquilla emerge nella vicenda del re come figura autonoma, dotata di competenze religiose
specifiche del mondo etrusco, una sorta di àugure al femminile, capace, nell’episodio dell’aquila che
presso il Gianicolo si posa sul capo del marito, di leggere elementi divinatori tali da configurarla
come operatrice del magico, all’interno della disciplina religiosa etrusca: “Si dice che Tanaquilla,
donna esperta di prodigi celesti, come lo sono in genere gli Etruschi, abbia accolto felice l’augurio e
abbracciandolo abbia indotto il marito a sperare in alti onori; con ciò gli spiega che si trattava del tale
uccello, ch’era giunto da una determinata parte del cielo e che era il messaggero della tale divinità”
(LIV. I, 34, 9).
Tanaquilla tiene un discorso al popolo che rumoreggia, chiedendo notizie del re, dalle finestre della
Regia, mostrando grande controllo e sensibilità politica e istituzionale: “Tanaquilla si rivolge al
popolo dal piano superiore della casa del re che si trovava presso il tempio di Giove Statore,
affacciandosi alle finestre che davano sulla via Nuova. Lo esorta ad essere fiducioso; il re era stato
stordito dal colpo inaspettato; la lama non era entrata profondamente nel corpo ed egli si era già
riavuto; lavata dal sangue, la ferita era stata controllata; l’organismo era in condizioni di salute; era
sicura che in breve tempo avrebbero potuto vederlo; nel frattempo egli comandava al popolo che
stesse ad ascoltare gli ordini di Servio Tullio che avrebbe amministrato la giustizia, attendendo alle
altre funzioni del re (LIV, I, 41, 4-6).
Servio dopo una guerra contro Veio ed altri popoli etruschi si accinse ad un’opera di pace ritenuta da
Livio grandiosa poiché come Numa era stato l’autore del diritto divino così Servio, istituendo il censo,
doveva acquistare fama presso i posteri per aver stabilito distinzioni che riguardavano la capacità
economica dei cittadini e il rapporto con quella che viene definita, “la gradazione delle cariche e della
ricchezza” (LIV., I, 42, 4). BOX 2. Il capitolo quarantatreesimo di Livio è occupato dalla descrizione
del nuovo ordinamento censitario che riguardava una riorganizzazione della popolazione in campo
militare che poi si estese fino a divenire un’assemblea politica entro la quale si prendevano decisioni
riguardo la vita cittadina, con un evidente squilibrio a favore dei più ricchi.
Prima classe: alla prima classe sarebbero stati iscritti i cittadini con censo di centomila assi, un dato
del tutto anacronistico per l’età della monarchia etrusca. Forse nello sviluppo successivo, il comizio
centuriato avrebbe potuto contare su ottanta centurie della classe dei più ricchi, quaranta di giovani,
fino ai quarantacinque anni, abili al combattimento attivo e quaranta di anziani, dai quarantacinque
ai sessanta anni, riserve pronte ad intervenire in caso di necessità per la difesa della città.
L’armamento dei combattenti delle ottanta centurie della prima classe era quello degli opliti, la
fanteria pesante greca, costituito da protezioni per il corpo: elmo, scudo ovale e cavo (clipeo),
schinieri per proteggere la parte dal malleolo al ginocchio e corazza, tutti in bronzo; e da armi
offensive: la lancia (asta) e la spada corta e a doppio taglio (il gladio).
Aggiunte alla prima classe vi erano poi due centurie di fabbri, soldati del genio, che prestavano
servizio senza armi ed erano incaricati di trasportare le macchine da guerra.
Aggregate erano poi diciotto centurie di cavalieri, scelti tra i cittadini maggiormente illustri (dodici
più sei): «creò parimenti altre sei centurie, rispetto alle tre istituite da Romolo, per le quali mantenne
gli stessi nomi che erano stati loro assegnati nel momento che erano state costituite e inaugurate
secondo il volere degli dei» (LIV., 43, 8-9).
Seconda classe: censo fra i settantacinquemila e centomila assi; venti centurie tra giovani e anziani.
L’armamento era quello dei corpi di fanteria leggera, era dunque assente la corazza e si utilizzava lo
scudo rettangolare curvo e lungo e non il clipeo.
Terza classe: censo minimo di cinquantamila assi; venti centurie tra giovani e anziani.
L’armamento era analogo a quello della seconda classe, tranne per il fatto che era privo di schinieri.
Quarta classe: aggiunta probabilmente più tardi, nel V o IV secolo a.C., comprendeva i cittadini con
un censo di venticinquemila assi; venti centurie dieci di giovani e dieci di anziani. L’armamento era
costituito dalle sole lancia (asta) e giavellotto con punta di metallo (veruto)
Quinta classe: l’ultima classe, comprendeva i cittadini con un censo di undicimila assi; trenta
centurie, quindici di giovani e quindici di anziani.
L’armamento era costituito da fionde e pietre, si trattava quindi di soldati detti frombolieri
Aggregate a questa quinta classe erano due centurie di suonatori di corno e di tuba (strumento simile
ad una moderna tromba).
Coloro che non erano compresi in queste cinque classi di censo costituivano il resto e la maggior
parte della popolazione ed erano denominati “proletari” (coloro che non avevano beni materiali ma
solo figli) o “censiti per capo” (ossia censiti per la loro persona), erano ricompresi in un’unica centuria
ed esenti dal servizio militare.
È evidente che potrebbe essersi verificato in questo periodo il raddoppio della legione romulea,
passata da 3000 a 6000 fanti, se è vero che le 40 centurie degli iuniores della prima classe, le dieci
centurie degli iuniores della seconda classe e le dieci della terza, consentivano di arruolare 6000
uomini. Si trattava dunque di un comizio dallo spiccato carattere censitario che si sovrapponeva
all’organizzazione militare: i più ricchi erano insieme penalizzati per dover fornire il maggior numero
di soldati, ma anche premiati sul piano politico, visto che il comizio eleggeva i magistrati curuli ed
approvava le leggi, con una maggioranza che di solito era fornata dalla prima classe e dalle 18 centurie
di cavalleria. BOX 3
All’interno della “modernizzazione” della città, che in termini di superficie si avviò a divenire, a
partire da questo momento, una delle più estese del mondo mediterraneo, va considerata la
realizzazione da parte del re dell’unità territoriale di Roma entro la cinta delle mura dette “serviane”,
con la divisione in quattro regioni, corrispondenti a quattro tribù territoriali urbane, che erano
funzionali al censimento, all’arruolamento nell’esercito e al voto : la Palatina (Palatino e sue
articolazioni Cermalo e Velia), la Collina (Viminale e Quirinale), l’Esquilina (Cispio e Oppio) e la
Suburana (Celio e i quartieri delle Carine e della Subura). In campo religioso a Servio Tullio viene
fatta risalire la costruzione del tempio di Diana sull’Aventino, a carattere federale, che coinvolse gli
altri popoli latini e quello di Fortuna, divinità dai contenuti religiosi legittimanti per il re e la
monarchia, alle pendici del Campidoglio, presso il Foro Boario e il porto sul Tevere (in prossimità
dell’attuale chiesa di Sant’Omobono).
BOX 1.
Un estratto dalla Tabula Claudiana, dove nel discorso si fa riferimento all’origine etrusca di Servio
Tullio
<<[…] Tra il regno di questo (di Tarquinio Prisco) e quello di suo figlio o suo nipote (Tarquinio il
Superbo), infatti in ciò gli autori discordano, s’inserì Servio Tullio, che se seguiamo i nostri (autori),
nacque dalla schiava Ocresia; se seguiamo quelli etruschi, fu un tempo l’amico più fedele di Celio
Vibenna e compagno di tutte le sue vicende, dopo essere uscito da una serie di situazioni di fortuna
con tutti i resti dell’esercito di Celio abbandonò l’Etruria e occupò il monte Celio che dal nome del
suo comandante allora si chiamò così; dopo aver cambiato il suo nome infatti in etrusco si chiamava
Mastarna che prima era così e fu chiamato come detto e ottenne il regno con enorme profitto della
città […]>>.
BOX 2.
La “riforma oplitica serviana”. L’ordinamento centuriato
<<Istituì infatti il censo, un provvedimento massimamente salutare per una città che aspirava ad una
futura grandezza, in virtù del quale i doveri della pace e della guerra, non fossero affidati, come in
passato per testa ma in base alla capacità economica; ripartì allora le classi, le centurie e l’ordinamento
complessivo secondo il censo, in modo che ciò fosse conveniente in pace e in guerra” (LIV:, I, 42,
5).
BOX 3
COMIZIO CURIATO
TRIBU’ GENTILIZIE
Ramnes 10 curie, 100 cavalieri, 1000 fanti
Tities
Luceres
30 CURIE
Maggioranza 16, legione di 3000 fanti, 300 cavalieri
COMIZIO CENTURIATO
CLASSIS IUNIORES SENIORES
I 40 40
100.000
II 10 10
75.000
III 10 10
50.000
IV 10 10
25.000
V 15 15
12.500
Altre 5
INFRA CLASSEM
CAVALIERI 3 + 3 + 12
TRIBU’ TERRITORIALI
Urbane 4 Suburana, Palatina, Esquilina, Collina
Rustiche (17) 31 alla fine della prima guerra punica
Maggioranza 18
INFRA CLASSEM
CAVALIERI 18
Totale 373 centurie, maggioranza 187 (prime tre classi)
Tarquinio il Superbo
La successione di Servio Tullio avvenne in maniera traumatica: riaffiorarono da una parte i rancori
mai sopiti di uno dei figli di Tarquinio Prisco e Tanaquilla, anch’egli di nome Tarquinio; la principale
artefice della detronizzazione e della morte del re fu però soprattutto la figlia Tullia maggiore. La
donna, sposata in seconde nozze a Tarquinio, lo incitava ad impadronirsi del regno e ad eliminare il
padre e suocero, facendo leva sull’ambizione sfrenata di Tarquinio. Nella narrazione liviana si coglie
con chiarezza l’intolleranza che si era venuta a creare, da parte dei senatori e dei cavalieri, nei
confronti della riforma centuriata, ritenuta sì improntata a principi di giustizia sociale, ma poco
equilibrata, a sfavore del patrimonio dell’antica aristocrazia. Riaffiorava poi la natura oscura delle
origini di Servio e della sua ascesa al potere favorita da Tanaquilla, nel discorso tenuto da Tarquinio
entro la Curia Hostilia, in cui fece convocare dal banditore i senatori a nome del “re Tarquinio”, un
passo decisivo verso l’usurpazione del potere. BOX 1. Dopo che Servio giunse nella Curia, Tarquinio
afferrò il re per la vita, lo trascinò fuori e lo scaraventò giù dai gradini, abbandonandolo nelle mani
dei suoi sostenitori: dietro l’aggressione si coglie sempre la presenza della figlia Tullia, rappresentata
come una brutta copia di Tanaquilla, priva della dottrina e della forte personalità della prima, ridotta
a rientrare nello stereotipo di una virago ambiziosa. Giunta nel Foro su di un cocchio, Tullia chiamò
il marito fuori dalla Curia, attribuendogli per prima il titolo di re; di ritorno all’Esquilino dove vi era
la dimora del re, suo padre, e la propria, avvisata dal cocchiere che il cadavere di Servio giaceva a
terra, diede ciononostante ordine che il cocchio passasse sopra il corpo, tanto che la via dove ciò
accadde prese da allora il nome di via Scellerata.
Molti studiosi ritengono che il clima drammatico di questa fine VI sec. a. C., descritto dalle fonti in
rapporto al regno dell’ultimo re di Roma, sia dovuto alla consapevolezza da parte di alcuni esponenti
dell’aristocrazia, favorevoli alle “aperture” innovatrici di Servio Tullio, che l’avvento di Tarquinio
finì per dimostrarsi un tragico ritorno al passato, una sorta di rivincita della monarchia tradizionale.
In effetti Tarquinio detto il Superbo, viene descritto come un tiranno con caratteristiche autocratiche.
Da allora il termine “tiranno” fu utilizzato per designare i protagonisti violenti della lotta politica: si
finisce per arrivare all’iscrizione sull’arco di Costantino, dove il senato condanna il tiranno Massenzio
e alla sua fazione.
Dopo aver ottenuto l’appoggio dei senatori per eliminare Servio Tullio, allo stesso tempo Tarquiniio
tendeva a diffidare di tutti e finì per promuovere un’epurazione del senato, seppur volta –a suo parere-
ad eliminare i sostenitori del suo predecessore, giungendo addirittura a stabilire che non si procedesse
a nuovi ingressi di senatori. Il senato venne così indebolito numericamente e il re prese decisioni
autonome senza consultarsi con i patres, si avvalse piuttosto nella gestione della cosa pubblica di
consigli di familiari. Da ciò nasce la caratterizzazione di Tarquinio che, conscio di aver ottenuto il
potere con la violenza, si circondò di guardie del corpo, temendo di incorrere nella stessa sorte del
predecessore, poiché il suo regno non affondava le radici né sul consenso popolare né nella fiducia
dei senatori suoi pari. Ciò traspare anche dal fatto che egli approfittò della legge, soprattutto in materia
di delitti capitali, per eliminare gli oppositori e gli avversari politici con l’esilio, la morte e la confisca
dei beni. BOX 2 Il regno di Tarquinio venne poi caratterizzato da una politica volta a far acquistare
a Roma una supremazia di sempre maggior portata nei confronti dei Latini. In questo senso rientra
l’eliminazione di Turno Erdonio di Aricia (attuale Ariccia nella zona dei Castelli romani), reo di aver
manifestato apertamente insofferenza nei confronti del re etrusco, di cui coglieva il tratto suprematista
nei confronti della gente latina (il “nome latino”): dopo aver organizzato una messinscena ai suoi
danni, Erdonio venne screditato davanti agli altri re latini, accusato di aspirare al predominio su di
essi e mandato a morte senza processo. A seguito di ciò, Tarquinio convinse i Latini a rinnovare
l’accordo con Roma stipulato ai tempi di Tullo Ostilio, dopo la distruzione di Alba Longa, che
ovviamente prevedeva una posizione di preminenza per Roma. A completare la sfera del controllo
sul territorio del Lazio vi fu un’intensa opera diplomatica culminata attraverso il patto stipulato con
Gabi (foedus Gabinum), l’antichissimo centro lungo la strada per Preneste (qui secondo la tradizione
i gemelli erano stati educati): il trattato, inciso sul rivestimento di cuoio di uno scudo ligneo, che
venne conservato nel tempio di Semo Sanctus (il dio Fidius), presso il colle Quirinale, era ancora
visibile ai tempi di Augusto (DION. HAL., IV, 58, 4). In realtà Livio, a proposito dei rapporti tra
Tarquinio e Gabi, scrive che ad allacciarli era stato il figlio del re, Sesto, che aveva agito con l’inganno
fingendosi un oppositore del suo stesso padre, per conquistare la fiducia della popolazione di Gabi
che si consegnò senza lottare nelle mani dei Romani. Cominciò poi durante il regno di Tarquinio la
lunga storia dei rapporti bellicosi tra Roma e le popolazioni del gruppo osco-umbro degli Equi, a
nord- est e dei Volsci a sud est di Roma, verso la costa tirrenica, proseguiti per tutto il V e conclusi
solo alla metà del IV sec. a. C.: si ha notizia della conquista di Suessa Pomezia (nell’agro pontino)
città volsca e di un patto stipulato con gli Equi.
Tarquinio fu artefice di un grande sviluppo dell’attività edilizia: gli studiosi sottolineano come
l’espressione di Livio relativa al fatto che vennero fatti confluire a Roma artisti da ogni parte
dell’Etruria riveli contenuti molto importanti. Fu un periodo in cui, a Roma e in tutta l’area
dell’Etruria laziale, ad una committenza cittadina di alto livello e capacità economica, corrispose una
manodopera altamente qualificata, con specializzazione ad esempio nella produzione delle terrecotte
architettoniche: del resto non va dimenticato che nella seconda metà del VI sec. a. C. giunsero, nei
centri etruschi di Tarquinia, Vulci e Caere, maestranze greco-orientali provenienti dalla costa
dell’Asia Minore (Ionia), emigrate a seguito dell’invasione persiana.
L’opera più importante fatta eseguire da Tarquinio fu il tempio di Giove Ottimo Massimo (Giove
Capitolino), la cui costruzione era già stata promessa dal padre Tarquinio Prisco; per i lavori venne
utilizzato il bottino ricavato dalla conquista di Suessa Pomezia e si sconsacrarono i piccoli santuari e
i tempietti che erano stati inaugurati dal re Sabino Tito Tazio al momento della guerra con Romolo,
prima della definitiva alleanza tra i due popoli. Si lasciò al suo posto solo il betilo che rappresentava
Termino, il dio dei confini: la pietra fu infatti incorporata nel tempio; ai lavori di costruzione sarebbe
poi legato il ritrovamento di un teschio umano con il volto intatto, secondo la tradizione forse quello
di Aulo Vibenna, che avrebbe simboleggiato, stando alle interpretazioni dei vati, la futura grandezza
di Roma, capitale del mondo (il rapporto tra urbs ed orbis è una delle costanti della successiva storia
romana). Nell’architettura del tempio di Giove capitolino si colgono in maniera palese gli elementi
che ne fecero, nella Roma di fine VI sec., un monumento differente e unico, grazie alla decorazione
architettonica attribuita ad artisti famosi come Vulca di Veio che realizzò le statue in terracotta -l’uso
del legno cominciava a venir meno- di Giove ed Ercole. Tutto ciò va ricondotto ad un clima artistico
che pervadeva le città etrusche del Lazio, come si rileva a Veio, soprattutto presso il santuario di
Portonaccio. Roma nel suo insieme si arricchì di un’architettura rappresentata da molteplici
convergenze artistiche come quelle esercitate dagli artigiani provenienti dai centri della Campania
ellenizzata, Cuma ad esempio: le antefisse dei tetti di alcuni edifici -ne rimangono pochi resti nei
pressi del Tevere, sul Palatino e sul Campidoglio- mostrano l’influenza della produzione proveniente
da quella regione.
Vennero impiegati, per la realizzazione del tempio di Giove, cittadini che si trovarono impegnati su
più fronti, quello militare e quello costituito da questa sorta di prestazione civile: non risultò per loro
tanto gravosa, quanto quella di attendere ai lavori per la costruzione dei sedili del circo e a quelli per
la Cloaca Massima, la grande infrastruttura fognaria realizzata durante il governo di Tarquinio.
Il tempio sarebbe stato consacrato però al principio della Repubblica, dai primi consoli, Lucio Giuno
Bruto e Marco Orazio, nel 509 a. C. Lo storico greco di Megalopoli, Polibio (POL. III, 22), oltre a
fornire questa informazione dà conto anche di un importante avvenimento, la stipula del primo trattato
fra Roma e Cartagine: collocato al primo anno della Repubblica, sarebbe però frutto di un’abile lavoro
diplomatico del re etrusco. BOX 3 Il patto risulta infatti conforme alla politica di espansione verso la
costa tirrenica, attestata dall’attività di Tarquinio nei confronti dei Volsci che dalla pianura pontina
si erano spinti sino al mare, conquistando Circei e Terracina e soprattutto al contesto generale delle
relazioni delle città etrusche del Lazio con Cartagine, come si può trarre dai famosi documenti inscritti
denominati “Lamine di Pyrgi”. BOX 4
Occorre pensare per la fine della monarchia a Roma, simboleggiata dalla “cacciata” di Tarquinio il
Superbo, ad uno svolgimento meno traumatico di quello indicato dalla tradizione annalistica della
Repubblica, definito da Massimo Pallottino quasi un racconto “romanzesco”. Probabilmente vi fu un
ritorno alle tendenze politico-riformistiche che si erano già delineate con Servio Tullio e ad esso
contribuirono i protagonisti della detronizzazione e della primissima fase repubblicana, alcuni legati
peraltro da vincoli di parentela nei confronti del sovrano: Lucio Giunio Bruto, figlio di Tarquinia la
sorella del re, Tarquinio Collatino di Collazia e PublioValerio Publicola (da notare il cognome che si
ricollega a popolo). Di quest’ultimo, della sua rete di relazioni di amicizia, che contribuirono a far
terminare, con la fine di Tarquinio, la lunga fase della monarchia romana, siamo informati attraverso
un documento epigrafico contemporaneo a Publicola, proveniente dalla città di Satrico, il Lapis
satricanus (la “pietra di Satrico), che indirizza un fascio di luce sulle milizie armate che percorrevano
il Lazio tra Etruria e Campania. BOX 5 Secondo la tradizione, l’episodio scatenante la caduta di
Tarquinio il Superbo sarebbe stato provocato dal figlio Sesto Tarquinio, che avrebbe stuprato la
matrona romana Lucrezia, moglie di Tarquinio Collatino. Una scommessa circa la virtù delle mogli
dei principi, impegnati al seguito di Sesto Tarquinio nell’assedio di Ardea, che condusse ad una sorta
di giro ispettivo del gruppo dei mariti verso le proprie abitazioni, avrebbe portato alla conclusione
che Lucrezia era quella maggiormente virtuosa perché trovata intenta, nella notte, insieme alle
ancelle, a svolgere, nell’atrio dell’abitazione la tipica attività femminile di filatura della lana. Sesto,
preso dal desiderio di possedere Lucrezia, ritornò da solo a Collazia e con la forza le fece violenza,
dopo aver minacciato la donna di ucciderla e metterle affianco uno schiavo nudo, in modo da dar ad
intendere un rapporto illecito con un subalterno. La donna, estremamente pudica, sentendosi
oltraggiata oltremodo, convocò urgentemente a Collazia il padre, Spurio Lucrezio, che giunse
accompagnato da Valerio Publicola e il marito Tarquinio Collatino accompagnato da Giunio Bruto,
nipote di Tarquinio. Dopo aver raccontato agli uomini l’accaduto ed essersi proclamata innocente
nelle intenzioni e nell’animo, la donna si diede la morte, con un pugnale tratto da sotto la veste.
L’accaduto provocò anzitutto la reazione di Giunio Bruto che si mise a capo della rivolta
antimonarchica; il corpo di Lucrezia venne portato a Roma, dove il popolo rimase colpito dalla
drammaticità dell’evento e dal precipitare della situazione. Bruto si diresse ad Ardea mentre
Tarquinio tornava Roma, dove non riuscì ad entrare e fu costretto all’esilio a Caere in Etruria insieme
a due suoi figli, il figlio Sesto rifugiatosi a Gabi venne ucciso. Probabilmente non si trattò di un esilio
inattivo e gli studiosi suppongono che Tarquinio abbia continuato a tenere in qualche modo un ruolo
di potere, sostenuto dai suoi sodali, la “parte tarquiniana” (factio tarquiniana), di cui parla Livio, che
comprendeva certamente il genero Ottavio Mamilio, ditttore a Tuscolo (LIV., II, 18, 4).
Alla caduta dei Tarquini ha contribuito certamente la progressiva debolezza degli Etruschi della
Campania, sconfitti ad Aricia dal re greco Aristodemo di Cuma; insieme l’insuccesso della spedizione
di Porsenna, re di Chiusi, che aveva tentato di sostituire il predominio di Tarquinia e di Vulci sull’area
a cavallo del Tevere e sulla città di Roma. Le fonti confondono molti avvenimenti e non riescono
però a nascondere le ragioni del crollo della monarchia etrusca, che sembrano legate al vuoto di potere
(colmato dall’aristocrazia latino-sabina) determinato dalla sconfitta di Porsenna e di Tarquinio di
fronte alle potenze emergenti del Lazio e della Campania.
BOX 1
Le parole di Tarquinio il superbo contro Servio Tullio: «Uno schiavo nato da una schiava che si era
impadronito del regno, dopo la morte indegna di suo padre [di Tarquinio], grazie al regalo di una
donna [Tanaquilla], non come un tempo dopo che si era avuto l’interregno, non a seguito della
convocazione dei comizi, non per suffragio del popolo, non con il consenso dei senatori. Nato in
questo modo e nel medesimo creato re, sostenitore di gente d’infima condizione, da cui egli stesso
proveniva, per odio dell’altrui nobiltà, strappata la terra ai maggiorenti, l’aveva distribuita tra i più
vili, tutti gli oneri che un tempo erano stati in comune li aveva messi sulle spalle degli aristocratici
della città; aveva istituito il censo perché il patrimonio dei più ricchi fosse fatto oggetto d’invidia e
pronto, nel caso in cui lo volesse ad essere elargito agli indigenti» (LIV. I, 47, 10-12).
BOX 2
Le paure del tiranno: «[…] fece uccidere i più importanti senatori che credeva avessero parteggiato
per Servio, conscio poi che si potesse prendere esempio da lui e a suo danno nel raggiungere
illegalmente il potere, si circondò di uomini armati […]» (LIV., I, 49, 2)
BOX 3
Polibio ebbe modo di vedere i documenti redatti in latino arcaico, con il testo del trattato fra Roma e
Cartagine del 509 a. C.. Il testo, per la lingua utilizzata, risultava di difficile interpretazione per gli
stessi Romani del II sec. a. C. Per quanto riguarda il contenuto, si individuavano due sfere di azione
e di influenza reciproche. Roma e i suoi alleati non potevano oltrepassare il Promontorio Bello, forse
il Capo Bon in Tunisia (più difficilmente il Capo Farina, attuale Ras Sidi el Mekki) e nel caso di
tempesta o altre cause di forza maggiore era concesso loro sostare nei porti dell’Africa. il tempo
necessario per riparare le navi e per compiere sacrifici alle divinità. Chi invece giungeva per motivi
commerciali poteva concludere i propri affari solo alla presenza di un banditore o di un pubblico
ufficiale e ciò valeva sia per il nord Africa sia per la Sardegna, mentre vi era libero commercio nella
Sicilia cartaginese, la parte occidentale dell’isola. Per parte loro ai Cartaginesi era interdetto esercitare
alcun tipo di azione nel Lazio, in particolare contro le città latine della costa, alcune delle quali
venivano esplicitamente indicate: Anzio, Laurento, Circei, Terracina. (POL, III, 22-23)
BOX 4
Le “Lamine di Pyrgi”, sono tre importantissimi documenti epigrafici, incisi su laminette d’oro, che
risalgono alla fine del VI sec. a. C.. Esse furono ritrovate nel 1964, ripiegate su se stesse e con piccoli
chiodi per l’affissione, nel più antico dei santuari della cittadina etrusca, dal poleonimo greco, Pyrgi
(odierna Santa Severa) a circa 13 Km. dall’antica città etrusca di Caere (attuale Cerveteri), per la
quale Pyrgi stessa svolgeva le funzioni di porto. Due lamine sono incise in lingua etrusca e una in
fenicio. Le due lamine in etrusco contengono la dedica di un luogo sacro alla dea Ashtart (Astarte dei
Fenici), assimilata all’etrusca Uni da parte di Thefarie Velianas, che il testo fenicio indica come re
di Caere; la lamina in fenicio contiene la motivazione della dedica del luogo sacro, legata all’ascesa
al potere di Thefarie Velianas.
BOX 5
Il Lapis satricanus è un documento epigrafico inciso sulla base di un donario a Marte, ritrovato nel
1977 a Satrico (attuale Borgo le Ferriere) nel Lazio, reimpiegato nelle fondamenta di uno dei due
templi dedicati alla Mater Matuta. L’interpretazione del testo dell’iscrizione su due linee, è stata
molto dibattuta, di sicuro vi è che il personaggio citato è un Poplio Valesio, (Publio Valerio in latino
arcaico) collegato ai suoi sodali aristocratici (amici) e che insieme offrono un voto a Marte. Il
documento risale agli ultimi anni del VI sec. a. C. ed ha consentito agli studiosi di identificare in
Poplio Valesio, Publio Valerio Publicola.