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Premessa
«Ciò che può essere oppressivo in un insegnamento non è alla fin fine il sapere o la cultura che esso convoglia, ma le
forme discorsive attraverso cui vengono proposti». «E io mi persuado sempre di più, sia scrivendo, sia insegnando, che
l’operazione fondamentale di questo metodo di sminuendo è, se si scrive, la frammentazione, e, se si espone, la
digressione, ovvero, per dirla con una parola preziosamente ambigua: l’excursus» (Barthes, 1978). Come Barthes non
ho certezze da trasmettere, ma dubbi, questioni e temi da proporre.
Per quanto possibile, mi asterrò dalla tentazione di proporre dell'urbanistica e della sua storia un'immagine generale e
compatta: nell'urbanistica confluiscono diversi programmi di ricerca, differenti posizioni tra loro spesso irriducibili,
anche se, almeno provvisoriamente, ugualmente legittime. Non inizierò dalla storia per cercare di capire il futuro:
benché spesso evocata, essa rimarrà su uno sfondo che vorrei solo sollecitare a esplorare. Partirò dunque sempre dal
presente che è l’unica cosa della quale abbiamo un'esperienza, per quanto imperfetta.
Una lezione è sempre un'estesa bibliografia ragionata che non riesce mai a esaurire i temi che propone: nel migliore dei
casi, essa può solo cercare di costruire la mappa dei territori che altri hanno già attraversato. In questo senso, una
lezione è sempre un'opera collettiva. Ogni mia affermazione deve essere intesa solo come un'ipotesi destinata a
sollecitare ulteriori ricerche e riflessioni.
Anche se so che mi sposterò di frequente dall'una all'altra, immagino la lezione divisa in tre parti corrispondenti a tre
mosse principali. Dapprima cercherò di dire di cosa intendo parlare: di cosa l'urbanistica si occupi, come sia fatta e
quali ne siano le radici (1. Urbanistica; 2. Figure; 3. Urbanisti, 4. Radici). In una successiva parte cercherò di delineare i
temi e i problemi che l'urbanistica contemporanea deve studiare e affrontare (5. Città moderna e città contemporanea; 6.
Progetti; 7. Il progetto della città contemporanea). In una terza e ultima parte (8. Attraversare il tempo), correndo
qualche rischio, cercherò infine di dire quali parti del sapere e delle tecniche dell'urbanista riusciranno forse ad
attraversare il tempo e quali si dimostreranno verosimilmente più caduche.
I. Urbanistica
La maggior parte della superficie della Terra è un immenso deposito di segni consapevolmente lasciati da chi ci ha
preceduto: città, case, strade, ecc.... Nelle parole di André Corboz il territorio è un palinsesto: le diverse generazioni vi
hanno scritto, corretto, cancellato e aggiunto (1983).
I territori e le città che osserviamo sono il risultato di un lungo processo di selezione cumulati tuttora in corso. Ogni
giorno selezioniamo qualcosa, la modifichiamo e trasformiamo o la conserviamo com'era e dove era. Il più delle volte
lo facciamo per ragioni pratiche, ma di continuo diamo anche un senso e un valore (monetario o simbolico) a ciò che ci
circonda.
Ciò che ci sta davanti agli occhi, l'immenso archivio di segni materiali lasciati nel territorio da noi stessi e da chi ci ha
preceduto, è l'esito dell'accumularsi di queste decisioni.
Ci si riferisce spesso ad alcuni di questi segni come costruzioni spontanee, contrapponendole a quelle che sono palesi
realizzazioni di un'intenzione che si è rappresentata in un esplicito progetto: Pietroburgo, nelle parole di Dostoevskij la
città «più astratta e premeditata dell'intero globo».
Ciò che si vuole dire, utilizzando il termine spontaneo, è che molti dei segni materiali lasciati nel territorio sono l'esito,
non sempre voluto, delle intenzioni e delle decisioni, non sempre tra loro coordinate, di un'intera società, regole dettate
da tradizioni; altri segni sono l'esito di decisioni e intenzioni di uno solo, o di un gruppo, eventualmente di esperti che
hanno mosso immagini e argomenti che aspiravano a essere condivisi e inconfutabili; che alcuni di questi segni sono il
risultato di un progetto che ha cercato di descrivere anticipatamente un possibile stato futuro e altri sono l'esito di una
successione di mosse attraverso le quali si è cercato di dare risposta a un insieme disperso di esigenze contingenti che si
modificavano nel tempo.
Nonostante i tempi a noi più vicini siano connotati da una secolarizzazione dei valori e delle norme, è difficile ritenere
che il processo di continua trasformazione del territorio, il continuo depositarvi nuovi segni che distruggono o
modificano quelli esistenti, avvenga sempre e in ogni luogo in modo razionale e che avvenga sempre attraverso
l'interazione di una pluralità di soggetti liberi da tabù e costrizioni.
L'urbanistica si occupa di questioni non facilmente tra loro separabili. È difficile e forse anche sbagliato distinguere tra
le modalità attraverso le quali viene assunta una singola decisione di trasformazione o si svolge un'intera sequenza
decisionale e l'aspetto concreto e materiale della stessa trasformazione. Anche se ciò dilata enormemente il campo che
occorre osservare e studiare.
Per urbanistica intendo quindi le tracce di un vasto insieme di pratiche: quelle del continuo e consapevole modificare lo
stato del territorio e della città.
Necessità di considerare assieme le concrete tracce di una pratica e i discorsi che la riguardano.
Città e territorio appartengono inevitabilmente all'esperienza quotidiana di tutti. Pensare che il mondo possa essere
suddiviso in tante caselle, ciascuna di competenza di qualche studioso o esperto, non solo è ingenuo, è soprattutto
sbagliato. Non è quindi sorprendente che molti studiosi abbiano costruito mappe provvisorie. Facendo tratti di strada
assieme e poi improvvisamente separandosi, qualche volta tra loro confliggendo. Qualcosa però accomuna questi
viaggiatori-esploratori che nel tentativo di costruire un resoconto e di fornire una spiegazione di quanto osservano e nel
prefigurarne possibili modifiche fanno spesso ricorso a stili d'analisi e a strutture discorsive simili.
La gran parte delle discipline, per esempio, ha adottato, lungo il corso della modernità, due principali st li d'analisi,
dominato l'uno dalla «retorica della realtà», l'altro dalla «retorica dell'irrefutabile precisione (Kemp, 1999).
Come in un racconto, l'azione dell'urbanista è stata a lungo rappresentata come ciò che pone fine a un inesorabile
processo di peggioramento delle condizioni della città o del territorio presi in esame e come inizio di un virtuoso
processo di loro miglioramento. Processo di peggioramento e processo di miglioramento sono stati di volta in volta
differentemente declinati: come malattia, come allontanamento da condizioni originarie e felici, come perdita di un
ordine e di una misura, come impoverimento progressivo, il primo; come raggiungimento di una situa zione salubre,
confortevole, sicura, esteticamente più soddisfacente, il secondo; come individuazione degli ostacoli da eliminare, dei
mezzi e degli alleati che rendono il miglioramento possibile, il percorso tra i due. Quasi sempre la pratica urbanistica ha
acquisito senso entro un racconto (B. Secchi, 1984).
Entro una stessa struttura discorsiva, per esempio entro una struttura narrativa, possiamo però riconosce- re più figure.
Uso questo termine come nella retorica. Naturalmente non vi è nulla di strano nel fatto che i discorsi degli urbanisti, co
me quelli di altri studiosi, siano colmi di figure retori che; utilizzate con un ruolo costruttivo, di organizzazione del
nostro pensiero. Per questo uso lo stesso termine di figura per indicare anche, a un livello più astratto, forme del
pensiero o, all'estremo opposto e a un h vello apparentemente meno astratto, forme della città, di sue parti o architetture.
È proprio studiando le figure cui ciascuna disciplina ricorre, più che gli stili d'analisi o le strutture discorsive, che si
riconoscono affinità e temporanee influenze reciproche, cioè i tratti di strada che esse percorrono assieme.
II. Figure
Non è però nella città che immediatamente dobbiamo immediatamente cercare le figure dell'urbanistica. Uno dei luoghi
ove esse si rendono più manifeste è piuttosto il giardino. Il giardino, ornamento del suolo, cittadella dell'otium, città del
cielo o luogo del mito, è sempre stato metafora della città e della società, luogo deputato della prefigurazione e
ideologizzazione di una società ben ordinata (Fagiolo, 1989). Il disegno del giardino diviene, lungo la storia della città,
esercizio di controllo delle relazioni spaziali e di progettazione concettuale.
Figura progressiva nel XVI secolo, quando Cartesio vi riconosceva la rappresentazione di una nuova forma di
razionalità, la figura della continuità, che considero storia della città negli ultimi quattro secoli. Essa diviene cattura
dell'infinito nel XVII secolo, regolarità e trasparenza nel XVII, articolazione e gerarchia nel XIX, quando trova le sue
rappresentazioni più complete e coerenti nell'unificazione linguistica dello spazio urbano delle grandi capitali europee.
È allo stesso tempo figura dello spazio urbano e dello spazio sociale.
Benché tutto il pensiero moderno sia stato dominato dal pensiero visivo, la figura della continuità non pervade di sé i
soli aspetti figurativi dello spazio urbano, né deve essere intesa in modi troppo ristretti. Il più sovente, la figura della
continuità, si rappresenta come identificazione dell'idea di libertà nell'infinita possibilità di circolazione e suddivisione
del reale. Uscire dal diritto fondiario medievale, entrare nel moderno diritto borghese ha voluto dire accettare la
continua suddivisibilità dei suoli e l'infinita mobilità delle persone e delle merci nello spazio fisico, economico e
sociale. La figura della continuità accompagna per un lungo tratto l'emergere del soggetto contro l'alterità di potestà e
dominazione, la sua riduzione a individuo isolato e la rimozione del soggetto collettivo.
La società moderna non riuscirà mai a costituirsi come spazio prospettico regolare e infinitamente trasparente, come
panopticon. Al suo interno, come nella città moderna, persisteranno o si formeranno di continuo aggregati che, come
frammenti di un mondo del passato o germi di un futuro, costruendo differenze tenderanno a contendere lo spazio
simbolico, fisico, sociale ed economico alla continuità (Battisti, 1989).
Progressiva mente il mondo occidentale diviene consapevole anche della distruzione delle culture locali e dei luoghi
della sociabilità operata dalla modernità, delle restrizioni alle dimensioni del collettivo implicate dalla città moderna e
oppone loro resistenza. È per questo che, entro il periodo dominato dalla figura della continuità, cioè lungo tutta la
modernità possono forse riconoscere due fasi fondamentali: nella prima, come nelle parole di Cartesio, la continuità è
liberazione e conquista; liberazione dai vincoli medievali e conquista di nuove libertà borghesi. La seconda dominata
invece dall'angoscia, dalla paura dell'infinito dell'uguaglianza e del baratro che essa apre nella società e nelle coscienze
degli individui, dal timore di una società ridotta a massa continua e omogenea. Per questo la figura della continuità
diviene, ricerca dapprima di trasparenza e regolarità, di permeabilità e infinita circolazione e successivamente di ordine
e gerarchia, di forme forti di razionalità alle quali potersi riferire; da ultimo, diviene nostalgia.
In questo passaggio la regolarità svolge un ruolo cruciale. Interpretata tra XVII e XVII secolo come principio intrinseco
e costitutivo di uno spazio urbano ordinato e trasparente, tra XVIII e XIX secolo, diviene sistematica razionale del
progetto di architettura e condizione del la costruzione dello spazio isotropo e omogeneo nel quale si dispiegherà la
quantità industriale moderna.
Ma la regolarità diviene anche misura della normalità e della devianza.
Il XIX secolo porta lo stampo della normalità e sarà ossessionato da questa parola come dal suo contrario (Hacking,
1990).
Gran parte dell'angoscia e della paura si esprime nella città e nella società moderne, attraverso la figura della
concentrazione.
Uno degli avvenimenti più importanti per l'intero sviluppo della nostra Kultur è il rapido aumento demografico di tutta
una serie di città a partire dal XVI secolo e la nascita con ciò di un nuovo tipo di città la città di molte centinaia di
migliaia di abitanti, la «Metropoli», che, verso la fine del XVII secolo si avvicina, come Londra e Parigi, alla moderna
forma della città con milioni di abitanti (Sombart, 1912).
L'esperienza della concentrazione urbana è all'origine di un'intensa riflessione nel pensiero occidentale o dei suoi
sbocchi, forse non il principale, e il sempre più chiaro emergere, durante il secolo XIX, di una specifica e autonoma
forma discorsiva che ci si è poi abituati a indicare con il nome di urbanistica. L'incubo della concentrazione e di quanto
a essa è di fatto associato, l'affollamento, la congestione, la mancanza di igiene, demoralizzazione e degenerazione della
popolazione urbana. Aspetti fisici della città e del territorio attraverso la figura della concentrazione sono così posti in
una relazione di senso con i rapporti di produzione e i rapporti sociali.
Dapprima, troviamo la polemica sulla concentrazione del lusso e riusciamo a dare un senso a questa declinazione se la
colleghiamo al dibattito sui giusti rapporti tra città e campagna e all'emergere della moderna borghesia mercantile-
industriale. Poi troviamo l'opposizione tra città e campagna, declinazione cui riusciamo a dare un senso se la
colleghiamo all'opposizione tra borghesia capitalista e aristocrazie terriere, tra profitto industriale e rendita fondiaria.
Poi la polemica igienista e il timore, ben documentato dalla nascente scienza statistica, di una degenerazione fisica della
popolazione urbana, cui riusciamo a dare un senso se lo colleghiamo alla nascita del moderno proletariato industriale e
degli eserciti moderni, alle preoccupazionı per un corretto svolgimento del processo di riproduzione del potenziale
economico e militare della nazione. Infine troviamo la polemica sulla disorganizzazione urbana collegata all'emergere
dei nuovi principi dell'organizzazione del lavoro, quali alla fine si rappresentano anche spazialmente nel taylorismo e
nel fordismo.
Inutile dire che una parte almeno dell'urbanistica moderna si costruisce come ipotesi e figura alternativa alla
concentrazione, come ricorso alla figura del decentramento.
Ma la figura della concentrazione ha organizzato con tale forza il pensiero sulla città e la società urbana da far apparire
la concentrazione come carattere proprio e univoco della città e come tendenza inesorabilmente prevedibile del futuro,
con ciò nascondendo per lungo tempo tendenze e modifiche che pur erano sotto gli occhi di tutti. Quando ce ne si è
accorti il mondo è apparso d'improvviso come un insieme caotico di frammenti.
Il XX secolo è pervaso dalla figura del frammento, una figura opposta alla continuità che come quella ha origini nel
passato.
Continuità e frammento si sono a lungo inseguiti lungo tutta la modernità lasciando nella cita propri segni.
Agli occhi contemporanei la città europea appare come un immenso deposito di materiali del passato e perciò costituita
soprattutto di frammenti. Dettagli di progetti interrotti, eventualmente ispirati alla figura della continuità, o parti di città
che si sono inizialmente costituite come frammenti, simili a 《 opere d'arte completamente separate dal mondo
circostante e perfette in sé medesime come un riccio» (Schlegel, 1798).
La figura del frammento e i fenomeni di dispersione e diffusione della città nel territorio che hanno costruito nuovi
disagi e paure tra le quali, a causa dell'eterogeneità delle situazioni che connotano un mondo frammentario. Lo sprawl
urbano, incubo degli urbanisti della fine del XIX secolo e tuttora perdurante, ne è un indizio.
La paura dell'inadeguatezza. La paura dell'appiattimento, della somiglianza, dell'omologazione. Un mondo attento alle
performances ha la fobia dell'uguale e del definitivo, di ciò che non consente di distinguersi e di emergere, con la
conseguenza della progressiva privatizzazione del proprio corpo, del proprio stile di vita, dello spazio entro il quale
questo si svolge; con il progressivo emergere di tante microrazionalità indifferenti l'una all'altra o tra loro in conflitto.
Un mondo attento alle performances giudica inadeguato e superato tutto ciò che ha già visto e sperimentato. La fiducia
nel nuovo, che pur aveva connotato la modernità, diviene ansia, paura di non tenere il passo entro un mondo privo
d'orientamenti perché privo di forme, entro un movimento sociale apparentemente privo di fini. Da queste paure nasca
la nostalgia per la città del passato, per la concentrazione e densità delle relazioni umane e culturali che essa favoriva e,
più in generale, per gli equilibri dei quali si immagina essa fosse espressione e rappresentazione.
Una delle grandi figure della modernità, dal Rinascimento in poi, è stata quella dell'equilibrio. La perfezione stata
sempre pensata come una situazione limi te di equilibrio stabile che si autoregola eliminando cau se e conseguenze di
ogni perturbazione. Oppure è stata immaginata come una situazione ove, come per gli economisti d'inizio secolo,
nessuno può migliorare il proprio benessere senza peggiorare quello di qualcun altro.
A questa concezione dell'equilibrio l'urbanistica ha sempre contrapposto l'idea di un equilibrio sostantivo, tra situazioni
e loro qualità non monetizzabili, tra popolazioni, beni e servizi dei quali potevano disporre cercando di fornire di un
equilibrio così concepito immagini e rappresentazioni concrete.
Una delle principali e più antiche strategie di rappresentazione dell'equilibrio è stata quella di far ricorso, più che alla
bilancia del mercante o a quella del tribunale, ad altre potentissime figure, pensando la città come un organismo
vivente: un alveare, una foresta, tronco di un albero, ma soprattutto un corpo umano. La città sarà allora come il corpo
umano: un tutto composto di parti distinte per loro proprietà intrinseche, ma tra loro indissolubilmente collegate lungo
gli assi della gerarchia e dell'integrazione; delle quali, senza costruire nessi deterministicamente causali, potremo
giudicare la correttezza della posizione, della dimensione della forma riferendole alla funzione e al ruolo che possono e
sono chiamate a svolgere. La perfezione dell'equilibrio umano è collegata a una perfezione che lo trascende, che nei
testi antichi ha origine divina. La figura dell'equilibrio viene così interpretata, principalmente in termini di forme e
proporzioni eventualmente riconducibili a parametri, a rapporti standard tra grandezze misurabili.
La salute del corpo, come quella della città, è assenza di conflitti interni.
Alla figura dell'equilibrio il XX secolo, più disincantato e consapevole del carattere conflittuale della società, ha
gradualmente accostato quella del processo inteso sia come sequenza di azioni eventualmente inserite entro procedure
codificate, sia come dibattimento teso alla ricerca di una verità consensuale Il processo, come l'impresa scientifica e
come il progetto dell'urbanista, parte da un sospetto, da un'ipotesi, da indizi che inducono alla ricerca di prove che la
verifichino o falsifichino. Il processo richiede la divisione del lavoro, che vi siano attori diversi che con ruoli differenti
compaiono su di un'unica scena parlando un linguaggio comune. La sentenza, come il progetto dell'urbanista e la sua
realizzazione, può però solleva- re nuovi dubbi, può essere impugnata, la procedura riaperta, il giudicato essere protratto
nel tempo e alla fine la sentenza revocata.
Non vi è dubbio che la figura del processo-dibattimento abbia orientato le pratiche urbanistiche negli ultimi decenni del
XX secolo in concomitanza con la sempre maggior diffusione di diverse forme di partecipazione democratica alla
costruzione del piano e del progetto urbanistico, alla verifica e valutazione dei suoi risultati.
Ho fatto questo lungo excursus nella storia di alcune figure per mostrarne il ruolo costruttivo dell'urbanistica come di
molte altre discipline.
Figure del «discorso», da un lato, come la continuità, la regolarità, la concentrazione e l'equilibrio, e fi- gure dello
«sguardo», come il frammento, la dispersione, l'eterogeneità, dall'altro. Facendo ricorso alle figure del discorso
l'urbanista, fattosi pedagogo, ha cercato i fondamenti della propria disciplina e ha costruito il proprio programma di
ricerca e il proprio getto della città cercando di dare coesione, mediante argomenti di carattere universalistico, agli
individui, alla società e all'ambiente. Facendo invece ricorso alle figure dello sguardo l'urbanista, fattosi partecipe e
filantropo, della propria disciplina ha cercato piuttosto le radici e ha costruito progetti che assumevano senso in
relazione a uno specifico contesto.
La città e il territorio per l'urbanista non sono solo un immenso archivio di documenti del passato, ma soprattutto un
inventario del possibile.
Costruzione di una società che sia al contempo realizzabile e giusta. L'esercizio di immaginazione dell'urbanista non è
libera espressione della propria fantasia, quanto valutazione, nelle condizioni e con le informazioni date, di itinerari
possi- bili, condivisi e desiderati dai più.
Ne discende che l'idea di urbanistica che propongo è quella di un sapere, più che di una scienza; un sapere relativo ai
modi di costruzione, continua modificazione e miglioramento dello spazio abitabile e della città in particolare. Situato
tra studio del passato e immagina- zione del futuro, tra verità ed etica, esso si è costruito lentamente, per accumulazioni
successive, a ridosso di pratiche artistiche, costruttive e scientifiche.
III. Urbanisti
Il progetto della città è stato rappresentato il più delle volte dagli stessi urbanisti come il prodotto di una cultura, di
intenzioni e saperi che non potevano essere immediatamente riferiti solo a uno specifico autore, bensì a soggetti
collettivi peraltro vagamente identificati (B. Secchi, 1992).
Non dobbiamo però pensare alla collezione di eventi, documenti e oggetti eterocliti cui prima ho fatto riferimento come
a una dispersione caotica e informe. L’abbiamo costruita con un sia pur debole criterio di pertinenza; riconoscendo tra i
diversi elementi che la compongono relazioni di contiguità; osservando i rinvii dal l'uno all'altro per citazione, per
implicazione o isotopia; riconoscendovi l'unità del destinatario o dell'emittente. È un archivio di elementi ripetitivi:
ognuno è diverso dall'altro pur facendo parte della stessa fa- miglia. Ogni elemento della collezione e l'intera colle-
zione acquistano per noi senso se posti reciprocamente in relazione sullo sfondo di un contesto, se traguardati lungo ciò
che potremmo indicare come gli assi dello sguardo, del desiderio e del discorso (Luhmann, 1980): quello delle
situazioni che possiamo osservare, quello del come vorremmo che esse mutassero e quello delle parole che utilizziamo
per dire la distanza che intercorre tra le une e le altre. Lentamente la collezione ci porta a riconoscere ciò che Pierre
Bourdieu chiamerebbe un «campo» dotato di una propria parziale autonomia di un ordine e di una struttura.
L'idea di urbanistica che propongo è quella di un sapere che si muove entro un campo molto aperto; non per questo si
tratta di un sapere poco strutturato, anche se mai dobbiamo dimenticare che campi e strutture non sono oggetti
indipendenti dalla nostra ricerca o che s'incontrino per la strada; sempre sono un costrutto del ricercatore, sistemi di
rapporti latenti pensati più che percepiti.
Negli ultimi decenni del secolo XX il campo delle pratiche urbanistiche si è improvvisamente dilatato e aperto.
L'urbanista, più di altri studiosi e progettisti, per dar luogo a una concreta modificazione della città del territorio, deve
ottenere soggetti individuali o collettivi situati entro spazi socia- li tra loro differenti, dotati di poteri e mossi da
interessi, aspirazioni, immaginari, stili di pensiero e di comportamento assai diversi e il più delle volte opposti, che nei
confronti della costruzione, modificazione e trasformazione della città hanno responsabilità morali, culturali e
giuridiche assai differenti.
Come però diceva Valéry, per l'urbanista un'opera non è mai compiuta, viene semplicemente abbandonata, viene
lasciata il più delle volte nelle mani di altri soggetti che, interpretandola, nel bene o nel male la modifica- no e
ricostruiscono. Il progetto dell'urbanista non passa solo attraverso alcuni vagli di conformità a norme che ne indirizzino
o limitino gli esiti possibili, quanto attraverso concrete valutazioni dell'immagine del futuro che propone e delle
strategie suggerite per realizzarlo, degli attori e delle risorse che ritiene debbano mobilitarsi, dei limiti che ritiene si
debbano porre ai comportamenti individuali e collettivi. Per poter essere convincente e condiviso, l'urbanista è così
spinto a portare in ogni istanza argomenti dotati di una sufficiente autorevolezza: a far valere l'autorità della precisione
nell'osservazione empirica e nel confronto con situazioni analoghe, quella della non contraddittorietà fattuale e logica,
del rigore di una teoria, dei vincoli posti dalla tecnica, a far valere l'autorità della legge, ma a portarvi anche quella
dell'immaginazione, della retorica e del mito.
Enfatizzare la rimozione dell'autore, o che con diverse e distinte responsabilità si succedono nella costruzione e
realizzazione del progetto della città, rischia di rimuovere e nascondere le differenze tra i loro diversi programmi, vorrei
dire, se la parola non fosse tanto poco usuale in questo campo, tra le poetiche che guidano ciascun progetto; rischia di
nascondere cioè il complesso di ragioni che spingono ogni autore a scegliere, nel fare urbanistica, alcune direzioni
piuttosto che altre. Riportare d'altra parte in luce l'autore cioè l'urbanista, non vuol necessariamente dire auspicarne
l'ipertrofia come in campi assai prossimi a quello dell'urbanistica, mettere su uno sfondo troppo lontano la società e la
cultura di un'epoca rinunciando alla consapevolezza dei meccanismi nei quali ogni autore è immerso e alla riflessività
autocritica degli ultimi decenni del XX secolo.
L'urbanista è oggi figura inevitabilmente situata tra l'etica del potere e la ricerca di una verità consensuale.
L'urbanista descrive, attraverso scritti e disegni, lo stato delle co- se, cerca di fornirne un'interpretazione, costruisce
ipotesi di loro modifica e le pone sullo sfondo di un'immagine del futuro sufficientemente delineata perché ne risulti
chiaro il senso, cerca di valutarne l'adeguatezza al- le esigenze e ai desideri della società così come gli vengono
rappresentati, studia le possibilità offerte da un corretto uso delle tecniche disponibili per realizzare quelle modifiche,
stima le risorse fisiche, monetarie e umane che per realizzarle è necessario mobilitare, valuta la probabilità che esse
possano essere rese disponibili da concreti attori e i tempi nei quali esse potrebbero dovrebbero esserlo, suggerisce le
strategie, i modi, le regole e le procedure attraverso i quali i comportamento di ognuno possano essere,
compulsivamente o meno, fatti convergere verso gli esiti indicati, suggerisce i criteri in base ai quali valutare risultati
via via raggiunti. Per fare questo l'urbanista conduce una serie piuttosto numerosa di misure rilievi sul campo.
Rappresenta il proprio progetto in parte in modi impliciti, attraverso la fissazione di indici, parametri e norme di
comportamento, in parte in modi espliciti come con- creta prefigurazione di un possibile futuro dei luoghi. Rappresenta
il proprio progetto in parte in modi impliciti, attraverso la fissazione di indici, parametri e norme di comportamento, in
parte in modi espliciti come con- creta prefigurazione di un possibile futuro dei luoghi. Qualcuno ritiene che questo
spettro sia troppo ampio, che a una pratica che si dispiega su questioni e temi tanto distanti difficilmente possa
corrispondere un sapere unitario di sufficiente profondità e rigore. La storia della progressiva e sempre più minuta
divisione del lavoro intellettuale ne è una dimostrazione.
Siamo sempre più consci delle conseguenze di lunga durata dei nostri comportamenti e delle nostre decisioni
sull'ambiente e il paesaggio e della loro rilevanza socia le; di come decisioni coerenti nell'immediato possano
dimostrarsi contraddittorie in tempi più lunghi.
Se si scava nella storia dell'insieme di pratiche e discorsi che chiamo urbanistica ci si rende conto che gli urbanisti,
come altri studiosi, hanno sempre teso a restringere l'area delle affermazioni di carattere etico, attinenti cioè i caratteri di
una società giusta e non riconducibili a mere asserzioni di fatti. Ma due asserti sino a tempi recenti si sono dimostrati
difficilmente eliminabili dai loro discorsi e dalle loro riflessioni. Il primo, eredità del giusnaturalismo, riguarda il
carattere natura- le, metastorico della natura e dei bisogni umani, la possibilità cioè di riconoscervi, al di là delle
contingenze storiche, qualcosa che sia essenzialmente necessario per 'essere vivente e che egli possa pretendere. Il
secondo, eredità come altri aspetti dell'urbanistica del programma riduzionista degli anni situati tra i due grandi conflitti
bellici del secolo XX, riguarda la possibilità di riconoscere, misurare e rigorosamente qualificare i bisogni- turali e
necessari osservandoli nelle loro espressioni mi- nime, quando cioè si manifestano come bisogni insoddisfatti dei gruppi
sociali meno privilegiati. Oggi è facile osservare criticamente queste posizioni, ma non si deve dimenticare che esse
fanno parte della progressiva secolarizzazione della società e della cultura moderna e che entrambe hanno contribuito a
costruire la figura dell'intellettuale occidentale come quella di chi svolge, attraverso il proprio lavoro analitico e
progettuale, una continua critica sociale.
IV. Radici
Tra la storia della città e del territorio e quella delle pratiche che li hanno investiti c'è un evidente parallelismo, ma non
una perfetta aderenza. L'urbanistica non è la sola responsabile della costruzione e della modifica della città.
Storia della città e storia dell'urbanistica sono cose differenti, ma come la città anche il sapere dell'urbanista è l'esito di
un processo di selezione cumulativa.
Nella ricostruzione della storia dell'urbanistica, co- me di altre discipline, sono stati solitamente inseguiti due ordini
d'ipotesi. Il primo fa riferimento a tutto ciò che è esterno all'urbanistica. Questa muta ogniqualvolta diviene consapevole
della sua incapacità di dare risposta alle istanze nei confronti della città e del territo- rio espresse dalla società,
dall'economia, dalle istituzioni o da particolari gruppi sociali. Il mutamento dell'urbanistica è una rappresentazione
imperfetta e più o me no fortemente scalata nel tempo del mutamento socia- le. L'urbanistica anzi è sempre e
inesorabilmente in ritardo rispetto a questo mutamento (Benevolo, 1963). Il secondo fa invece riferimento a ciò che è
interno all'urbanistica, ai conflitti e alle contraddizioni che di volta in volta si manifestano entro il campo urbanistico o,
se si vuole, entro l'insieme di pratiche cui ci si riferisce con questo termine. Il mutamento è l'esito della ricerca di una
sempre maggiore loro coerenza o, quantomeno, di una minore autocontraddittorietà.
Per questo suo carattere che cerca di unire immaginazione collettiva e realtà, dimensione ingenua e tecnicamente
sofisticata della disciplina, carattere che non esito a indicare con il termine di utopico, l'urbanistica è vicina alle pratiche
artistiche quanto a quelle più rigorosamente scientifiche.
Preoccupata di potersi rappresentare con una certa rispettabilità e autorevolezza scientifica, l'urbanistica ha cercato di
disfarsene, di essere laica come molte altre scienze, di delimitare e definire in modo rigoroso il proprio oggetto di
studio, di ridurre e codificare il proprio linguaggio e di istituzionalizzare le pratiche che cercava di promuovere,
modificare o impedire. L’urbanistica, a cavallo tra pratiche artistiche e scientifiche, ha dovuto imporsi forme di
autocontrollo sconosciute forse ad altre aree disciplinari. Esse trovano la loro espressione più rigorosa nell'urbanistica
degli anni posti tra le due grandi guerre del XX secolo.
Nei cinquant'anni precedenti, grosso modo tra il 1870 e il 1914, tra l'esperienza parigina di Haussman quella di Berlage
ad Amsterdam, gli urbanisti avevano cercato di fissare e giustificare gli elementi di base della loro pratica in alcuni testi
rimasti fondamentali, in alcuni corsi universitari e in alcune esperienze progettuali divenute poi riferimenti d'obbligo.
Con la pubblicazione di riviste specializzate e con la fondazione di alcuni istituti avevano anche iniziato a riconoscersi e
a pretendere di essere riconosciuti come specifico corpo professionale ed élite intellettuale. Sin dall'inizio però questa
composita schiera di «pionieri», raccoglie e utilizza un gran numero di tradizioni scientifiche e culturali.
Nel periodo immediatamente successivo, tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del XX secolo, il prestigio
dell'urbanistica è forse al suo massimo. L’urbanistica è immersa in un «aura» che la legittima dandole una sempre
maggiore autorevolezza. L'urbanista, che comincia a scrivere la propria storia nutre una grande fiducia nell'efficacia
della propria pratica e del proprio sapere, in particolare nell'efficacia del piano e del progetto urbanistico e propone alla
società, con la «Carta di Atene» (1933) una sorta di nuovo patto, una carta costituzionale in grado di costruire
concretamente un migliore avvenire per le città. La società ha fiducia nell'urbanistica. Alcuni grandi piani legittimano
questa fiducia.
Inseguendo l'esempio di altre discipline, accumulando nei loro confronti debiti enormi e dilatando la propria curiosità,
alla fine di questo periodo l'urbanistica si è parzialmente e progressivamente allontanata dal cantiere della città, dai
luoghi ove la città materialmente si costruisce e modifica. Sulle ceneri dell'idea di un sapere indiviso, questa tendenza
ha investito tutte le pratiche e i saperi moderni dando luogo a suddivisioni degli uni e delle altre tra loro non totalmente
sovrapponibili. Ogni pratica rinvia oggi a più saperi e si costituisce come insieme di elementi di passaggio da un punto
teorico a un altro, non necessariamente appartenente allo stesso campo disciplinare e ogni teoria come passaggio da una
pratica a un'altra.
Spinto sempre più lontano dal cantiere della città, l'urbanista, divenuto assai più rigoroso nel suo argomentare, rischia
però di perdere il contatto con codici di pratica e radici affondate spesso nelle tradizioni; di non riuscire nemmeno più a
riconoscerli e di perdere così anche la capacità di comprendere e giudicare correttamente le principali modifiche e
trasformazioni della città e del territorio. Due esempi possono forse chiarire questo punto.
Il primo esempio riguarda la storia delle tecniche costruttive e le periodizzazioni che essa costruisce. La
città antica è stata costruita in condizioni di forte deficit: di potere per la gran parte della sua popolazione e tecnologico
per la gran parte dei suoi manufatti. I saperi e le tecniche disponibili non consentivano di fare tutto ciò che si sarebbe
desiderato e ciò ha profondamente condizionato forme architettoniche e insediative. La paura nei confronti di fenomeni
naturali non ben conosciuti, l'impossibilità di utilizzare grandi fonti di energia per il trasporto, il sollevamento e la
lavorazione dei materiali, la necessità di doversi affidare a materiali lo- cali come il legno, la pietra o il mattone,
limitavano la pratica urbanistica e costruttiva.
In queste condizioni, il sapere costruttivo si è per lungo tempo, lentamente e cumulativamente, costituito come
tradizione, come insieme di operazioni tramandate perché se ne era sperimentata l'affidabilità.
Tra XVII e inizio del XIX colo, il sapere costruttivo si trasforma in scienza delle costruzioni; delle costruzioni di strade
e di ponti, delle costruzioni idrauliche, edilizie e urbane ed è affidato a un corpo di specialisti, gli ingegneri, che si
separano dalla cultura diffusa e che, nel giro di poco più di un secolo, costruiscono condizioni di surplus tecnologico on
poste a quelle che caratterizzavano la città antica sino allora, quella moderna. Con la prima metà del XIX secolo la
tecnica offre possibilità che superano le concrete domande costruttive della città. L'enfasi sul nuovo che caratterizza la
modernità e il progresso delle tecniche costruttive delegittima allora rapidamente, spesso il lecito, tradizioni e saperi
costruttivi precedenti e ciò, nel bene e nel male, libera for- me architettoniche e insediative nello spazio culturale
eterogeneo, frammentario e instabile della città e del territorio contemporanei.
Il secondo esempio, a questo parzialmente collegato, riguarda il tipo edilizio. Molti studi storici hanno mostrato come
un insieme di limitazioni tecnico-economiche e di pratiche d'uso abbiano dato luogo nel tempo al fissarsi di alcuni tipi
fondamentali di spazi abitabili e come questi tipi di base siano evoluti nel tempo deformandosi in alcuni casi sino al
completo dissolvimento. É una storia che non riguarda solo gli edifici, ma anche gli spazi aperti, la piazza, il viale, il
parterre, la strada e i rapporti tra edificio e spazio aperto, il portico, il chiostro, il passage. E una storia che non riguarda
solo gli oggetti, ma anche le idee, i modi di concettualizzarli.
Nella prima metà del XX secolo molti urbanisti non ritengono necessario indicare i tipi edilizi o di spazio aperto con i
quali una parte di città dovrebbe essere costruita, non perché indifferenti a questi caratteri, ma perché la posizione e
destinazione della zona, la geometria dei suoi tracciati stradali fondamentali e i limiti volumetrici imposti sono ritenuti
più che sufficienti per indicare i materiali urbani che di fatto vi saranno utilizzati.
Come la musica, anche la città, tra Rinascimento e XIX secolo, cioè lungo tutta la modernità, si è costituita attraverso la
disposizione e composizione di grandi blocchi di mate- riali prefabbricati messi a punto in una lunga storia. All'inizio
del Cinquecento, i giardini del Belvedere di Bra- mante ne sono forse il primo grande esempio.
Il Belvedere, con i dislivelli, il foro, il cortile, le scalinate il giardino, le fontane, potrebbe essere un pezzo di città (e
infatti l'epigrafe sul muro esterno e una medaglia commemorativa di Giulio II lo chiamano via). Valore idealmente
urbano. Non a caso esso inaugura una serie di sistemazioni spettacolari giardini, ma anche di ambienti cittadini
cinquecenteschi e barocchi (Bruschi, 1973).
Gli elementi di questo nuovo linguaggio urbano, che cerca di contrapporsi alla frammentarietà all'accostamento
paratattico della città medievale, sono, lungo tutta la modernità, «il 'tracciato', caratterizzante vuoto prospettico e, in
posizione strategica, la disloca- zione di 'complessi edilizi emergenti' e caratterizzati».
Dopo una lunga serie di sperimentazioni attraverso il mondo occidentale, dopo continue rielaborazioni, il cammino
sembra essersi concluso. Il nuovo linguaggio si è codificato e ridotto, ma contemporanea- mente ha pervaso di sé tutto
lo spazio urbano; dono Haussmann sembra averne invaso ogni minimo dettaglio sino al cordolo del marciapiede, alle
griglie che circondano la base degli alberi, alle cancellate che racchiudono i parchi, ai lampioni stradali, ai chioschi e
alle pensiline.
Gli urbanisti cominciano però a osservare con disagio proprio in quegli anni il mutare della città: lo sprawl urbano, il
disperdersi degli insediamenti nei territori circostanti, lo svanire di una relazione comprensibile tra il singolo elemento
costitutivo e la città nel suo insieme. Anche la città comincia a essere scritta «nota per nota». I materiali messi a punto
nella lunga ricerca progettuale tra Rinascimento e XIX secolo, con sempre maggior difficoltà riescono a costruire
insiemi ordinati di facile lettura e comprensione. La prima reazione sarà quella di aggregarli in mate- riali più
complessi, groups of buildings, ove si ristabiliscano nuove regole lessicali, grammaticali e sintattiche nuove e ordinate
sequenze funzionali e visive; un ritorno a Bramantee alla complessità dei giardini del Belvedere. A me sembra anzi di
poter dire che a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo questa ricerca si svolga lungo due direttrici principali dando
luogo a due differenti tradizioni della progettazione urbanistica che, come naturale, di continuo s'intrecciano e
contaminano. La prima è quella che ha le proprie radi- ci nella domesticità dell'architettura anglosassone, nel
movimento delle Arts and Craft, in Ruskin, Morris e .... In modi diversi e pur attraverso radicali innovazioni, essi la
costruisco- no come ricerca di una continuità con gli aspetti più so- stanziali del passato, come tentativo di accogliere le
nuove esigenze, per esempio la dilatazione dello spazio aperto e la conseguente autonomia dell'oggetto archi- tettonico,
senza perdere la percezione dello spazio urbano come spazio narrativo, continuo e regolare (A. Secchi, 1998). La
seconda, enfatizza la rottura, accetta la frammentarietà del reale e l'impossibilità della ricostruzione dell'unità
dell'esperienza (M. Secchi, 1998).
La scrittura della città «nota per nota», come quella della musica, pone infatti rilevanti problemi. Essi riguardano i
rapporti tra il singolo elemento e il tutto, tra l'uno e il molteplice. Sia un eccesso di attenzione per il singolo elemento
che ponga il tutto su uno sfondo troppo lontano, sia un eccesso di attenzione per la costruzione di uno sfondo unitario
nel quale la molteplicità dei singoli elementi divenga irrilevante non riconosco- no la problematicità dei rapporti tra
l'uno e l'altro li- vello della realtà e per questo rischiano di annullare l'orizzonte di senso entro il quale l'elemento riesce
a definire la propria identità, il proprio ruolo e la propria specifica funzione: qualcosa che fa parte dell'esperienza
diffusa della città contemporanea di fine secolo, ma che già è avvertita negli anni tra i due conflitti mondiali. Gli sforzi
estremi dell'immaginazione urbanistica, le tre grandi utopie del secolo XX, la Ville Radieuse di Le Corbusier, le diverse
sperimentazioni della città sovietica e Broadacre City di Wright sono un tentativo, frequentemente incompreso o
malinteso, di dare risposta a questo problema.
L’utopia ha una lunga storia nel campo dell'urbanistica. Sin dal- l'antichità greca l'utopia è una delle più specifiche
espressioni della critica e dell'immaginazione sociale nella cultura occidentale. La città diviene nei testi utopici,
figurazione concettuale di un possibile stato della società. Invertire il nesso, pensare che il pensiero utopico sia
espressione di un delirante determinismo ambientale per il quale le forme della città possano di per sé generare la
società giusta, è profonda- mente sbagliato anche sul piano dell'analisi testuale.
Ma sarebbe sbagliato ritenere per questo che le utopie siano solo rappresentazioni di un'ideologia nell'accezione volgare
del termine. Quando Le Corbusier, gli architetti della città sovietica o FL Wright costruiscono i loro progetti, lavorano a
un di- verso livello concettuale. Essi si pongono proprio, anche se in modo diverso gli uni dagli altri, i problemi che
nascono da una città scritta «nota per nota». Le Corbusier cerca di organizzare ogni gruppo fondamentale di note gli
edifici pubblici, quelli direzionali, le residenze, le piccole industrie e le grandi imprese entro chiari e specifici principi
insediativi, entro forme che utilizza per una composizione urbana in grado di risolvere i principali problemi relativi al
traffico e al comfort, al sistema di compatibilità e incompatibilità tra le diverse pratiche e attività cosi come erano
percepite in quegli anni, Gli architetti della città sovietica studiano i modi e gli spazi nei quali avrebbero potuto
svilupparsi le attività e le relazioni sociali di un «uomo nuovo» e li organizzano entro composizioni urbane nelle quali
si esprime la tensione verso una razionalità assoluta, depurata di ogni scoria della storia. Wright studia il tema della
bassa densità, dei livelli di densità e distanza reciproca che fanno ancora di un insediamento una città; un tema
emergente in un paese connotato da un forte individualismo e che si affaccia in quegli anni all'era della diffusione
automobilistica di massa. In tutte e tre queste utopie troviamo il grande tema del secolo, che è quello della ripetizione e
della differenza. La città è luogo ove si decide la differenza legittima, ma soprattutto si organizza la ripetizione,
eventualmente nelle forme della variazione su un tema e ciò può divenire un'occasione per ritrovare una relazione di
senso tra il singolo elemento e il tutto. In Wright la ripetizione diviene occasione per realizzare l'American Dream, la
privacy della casa unifamiliare con giardino; in Le Corbusier l'occasione per costruire un rapporto radicalmente diverso
dal passato tra spazio aperto e spazio edificato, tra interno ed esterno, tra progetto di suolo e progetto di architettura;
negli architetti della città socialista, in un paese di gran lunga più povero di quelli occidentali, l'occasione per
organizzare la formazione individuale e la vita collettiva attorno ad al- cune fondamentali attrezzature urbane. Ma le tre
utopie hanno anche un differente retroterra. Le Corbusier parte dalla critica radicale della città moderna nelle sue forme
ottocentesche. Gli architetti della città socialista da un programma di palingenesi della società e dell'individuo che ha
nella critica del sistema capitalista la sua radice. Wright, che aveva già cominciato e che continuerà in seguito a
costruire piccoli pezzi di Broadacre parte da concrete esperienze oltre che da una critica della grande città. Ciò
nondimeno in tutte e tre le utopie, in modi per qualche verso paradossali, lo spazio collettivo delle attrezzature della
sociabilità è luogo della differenza, mentre quello privato della residenza luogo della ripetizione.
Nel 1934-35 Maurice Braillard, allora responsabile dell'urbanistica ginevrina, predispone e in parte realizza un piano
per Ginevra. Negli anni immediatamente successivi studia un piano per un'area più vasta della città. Osservandoli si
rimane, a prima vista, imbarazzati. Una maglia ortogonale piegata dalla forma del territorio organizza, entro un
principio insediativo sostanzialmente identico per tutta la città, un unico materiale edilizio, una barra di quattro-
cinque piani orientata lungo l'asse eliotermico o ad esso ortogonale e separata dalla strada da un piccolo giardino
privato di poco sopraelevato rispetto al piano stradale e del marciapiede. Alcune «penetranti verdi» di grande
spessore, chiaramente definite nel piano d'area vasta, connettono le aree agricole esterne al lago e alla parte più
consolidata della città grandi aree verdi coincidenti con parchi e giardini preesistenti interrompono l'uniformità del
disegno. Con la sua figura astratta il piano appare come un'applicazione estrema, per non dire estremista, dei principi
e dei materiali dell'urbanistica che le avanguardie degli anni Venti avevano sperimentato nei quartieri di Francoforte,
di Berlino, di Celle o di Zurigo e che lo stesso Braillard aveva proposto per alcune parti di Ginevra. Un'applicazione
estrema che utilizza gli stessi materiali e gli rara in quegli anni. Un progetto, d'altra parte, che non si limita a
dimostrare con un esempio ciò che sarebbe possibile per il tutto, come la maggior parte delle realizza- zioni delle
avanguardie del Movimento Moderno, ma che ha l'ambizione di proporre una nuova forma della città, una città
contemporanea radicalmente differente da quella sino allora conosciuta. Da questo punto di vista il piano di Braillard
è assai più radicale del coevo piano di Amsterdam di Van Eesteren. Tutti quelli che hanno studiato questo piano hanno
peraltro potuto riconoscere come la grande astrazione della sua figura corrisponda trattamento delle differenti
situazioni generate dall'incontro tra le geometrie del piano e del territorio. La prima appare assai più articolata di
quanto si sarebbe potuto sospettare a prima vista; la seconda diviene l'occasione e il pretesto per affermare il valore
dell'esperienza sensibile, se non estetica dei luoghi. A un esame più ravvicinato ciò che diviene importante non è
l'uniformità della maglia, del principio insediativo, del tipo edilizio ma le deviazioni, le inflessioni che ciascuno subisce
incontrandosi con la pendenza del terreno, con la sua ondulazione ed esposizione, con i punti cruciali dell'inevitabile
deformazione geometrica della maglia. Questo studio rivela l'importanza nella costruzione del piano dei concetti di
ripetizione, di ritmo, di serialità e di struttura. Le differenze che il piano costruisce non so- no differenze tra livelli
qualitativi, cioè tra valori posizionali che possano tradursi in differenze sociali. La ri- petizione, il ritmo e la serialità
che segnano in modi evi- denti il piano, la maglia ortogonale che l'organizza e struttura, hanno tutt'altra origine,
tutt'altro valore e significato. Esse sono, per l'amministrato complessa immagine e utopia sociale ed è per questo che il
piano di Braillard si situa allo stesso livello teorico e qualitativo di altri progetti, di sperimentazioni e Costruzioni di
nuove parti di città o di città nuove del- lo stesso periodo: le green-belt towns (Wright e Stein), Dessau (Hilberseimer),
Sabaudia (Piccinato), alcune città nelle colonie europee, moshav e kibbutz in Palestina e naturalmente le città
socialiste. Questi progettie queste realizzazioni sono forse l'ultimo tentativo degli urbanistie architetti occidentali di
pensare alla città in modo unitario.
Temi come l'anacronismo, il non finito, l'opera aperta divengono più importanti e stimolanti.
Ma allora ci si può domandare come mai l'urbanisti- ca, a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, abbia
progressivamente perso in Europa il prestigio del quale aveva goduto negli anni precedenti e come mai sia tramontata
non solo la fiducia che la società vi aveva ri- posto, ma anche quella che vi avevano riposto gli stessi urbanisti.
Le ragioni principali, in ordine crescente di importanza, a me sembra- no essere: gli urbanisti, I'insuccesso della
ricostruzione post-bellica e soprattutto il ritardo con il quale da tutti è stato compreso il passaggio dalla città moderna a
quella contemporanea.
Sin dalla fine del XVIII secolo, in un pe- riodo dominato quindi dalle figure della continuità e regolarità, gli urbanisti
colsero quanto fosse necessario, per garantire un'efficacia a tutte le fasi del progetto della città, far sì che scrittura e
disegno, programma, capitolato, progetto, preventivo, appalto e rapporto conta- bile, fossero sistematicamente
confrontati tra loro e con i loro risultati, con i manufatti e le parti di città che tramite loro venivano prodotti. Il ruolo
iniziale delle norme urbanistiche è stato quello di portare continuamente a coerenza le regole scritte e disegnate con gli
scarti che la produzione fa concretamente registrare e viceversa, trasformando il progetto urbanistico da semplice
raffigurazione di un futuro possibile a concreto dispositivo per la gestione del cantiere della città.
Le esperienze e le riflessioni dei secoli successivi, sin oltre la metà del secolo XX, hanno inoltre messo in evidenza la
necessità, tanto più forte quanto più decentrato è il potere, di avocare allo Stato nelle sue diverse articolazioni la
costruzione delle principali infrastrutture e attrezzature e fornitura dei principali servizi, nonché di regolare i
comportamenti dei diversi attori della trasformazione della scena urbana. Le norme urbanistiche si situano allora tra due
versanti: quello tradizionale del continuo e reciproco adeguamento alle regole scritte disegnate alla concreta produzione
di insiemi di manufatti e quello della costruzione, attraverso il controllo la limitazione dei vantaggi che derivano ai
singoli d modifica e trasformazione della città, delle condizioni alla generali entro le quali questo adeguamento possa
rettamente avvenire. Unendosi ad altri insiemi d me, le norme urbanistiche vengono ovunque a formare, alla fine del
XX secolo, un corpus di verse vastissime dimensioni.
«Sotto molti aspetti - ha scritto Eric I Hobsbawm - coloro che vissero queste trasformazioni nel luogo dove esse si
verificavano, non ne colsero in pieno la misura, dal momento che ne ebbero esperienza passo dopo passo o come
mutamenti nella vita individuale i quali, benché notevoli, non sono mai concepiti come rivoluzioni permanenti». Ma è
proprio la mancata comprensione di questo passaggio tra città moderna e città contemporanea che, nel- le mie ipotesi, è
il principale responsabile delle odierne difficoltà dell'urbanistica.
VI. Progetti
Le risposte ai caratteri e ai problemi della città contemporanea sono state sinora molto variegate; tanto che di- viene
difficile, sia pur a costo di qualche semplificazione, costruirne una mappa.
Una prima posizione è quella di chi pensa alla città contemporanea e alla città industriale che l'ha immediatamente
preceduta come forme degradate della città moderna, come a una deviazione dalla linea di sviluppo e dagli equilibri
raggiunti dalla città occidentale alla fine del XVIII secolo e propone di ritornarvi: rifiuto dell'eterogeneità,
dell'accostamento paratattico, del frammento. Il frammento è considerato come l'esito di una rottura. Esso invita al
restauro, alla ricomposizione, a «cucire e legare». Una mossa pro- posta secondo molte declinazioni: a un estremo, la
posizione più rigidamente conservatrice che divide il tempo storico in due, un passato da conservare, gelosamente
difendere e imitare e lo sguardo offeso rivolto al mondo contemporaneo; all'altro, la ripresa dei principali concetti che
hanno guidato la progettazione e la costruzione della città moderna e la loro reinterpretazione entro il contesto delle
pratiche sociali contemporanee; tra i due, la ricerca di una domesticità fatta di rap- porti ravvicinati, di spazi chiusi non
solo aperti, di ombre oltre che di luci, di materiali pesanti più che leggeri, di decoro regolarità.
Riprodurre il passato vuol sempre dire confrontarsi con la molteplicità e l'anacronismo, violare deliberatamente il corso
del tempo.
Il restauro è spesso falsificazione dell'anacronismo che, con l'età, connota ogni edificio e ogni città; la conservazione
diviene spesso, come nei «puristi senesi» tra XIX e XX secolo, mera invenzione di un passato immaginato e mai
esistito, quinte di una scena urbana svuotata di contenuto, dalla quale sono stati eliminati gli odori, i rumori, i rischi
d'incendio, la prossimità e la promiscuità, lo sporco e l'oscurità della città medievale.
Diversa è la mossa che potremmo indicare con i termini di «ritorno neoclassico», mossa che delle tradizioni del passato
recupera alcuni concetti, non le forme e i linguaggi. Il libro di Stravinskij dice «La vera tradizione non è testimonianza
di un passato oramai concluso, ma forza viva che anima e informa di sé il presente». Stravinskij stesso spiega l'esigenza
di un ritorno neoclassico.
Ville Radieuse di Le Corbusier, nel progetto di Braillard per Ginevra e, seppure in minor misura, nel piano per
Amsterdam di Van Eesteren.
In modo analogo molti progetti contemporanei cercano di far recuperare alla citta un contegno senza portarla ad
assomigliare alla città del passato. Tracciati che caratterizzano il vuoto prospettico e, strategicamente disposti,
«complessi edilizi emergenti e caratterizzati> grandi isolati, costruzione sul perimetro; dilatazione simultanea delle
misure e delle scale degli spazi aperti e degli edifici; recupero di loro significative articolazioni gerarchie; accostamento
di spazi dilatati e di spazi densi, di grandi e piccole dimensioni, di luoghi pubblici e intimi; volumi e spazi di
dimensione e disposizione coerenti al ruolo e alle funzioni svolte; materiali cui vengono affidati significati coerenti alla
consistenza e al pe- so; attenzione ai modi nei quali l'edificio prende con- tatto con il suolo; linguaggi semplici e precisi,
ridotti al- l'essenziale di ciò che può essere detto. Un contegno è fatto di convenzioni e di autolimitazioni; è l'opposto di
una mossa espressionista.
Riproduzione imitativa del passato e ritorno neo- classico sono mosse declinate in molti modi. L'una ha un riferimento
importante nel collage eclettico, interpretato come rappresentazione della libertà di soggetti tra loro irriducibili e nel
bricolage come modo di valorizzazione dell'anacronismo, due aspetti che pur appartengono alla tradizione europea e
occidentale. Nelle parole di Calthorpe essa diviene il tentativo di combinare l'ideale utopico di una comunità integrata
ed eterogenea con le realtà del nostro tempo; di combinare gli imperativi della politica ambientale, della convivialità,
dell'equità, della tecnologia con l'inerzia. L’altra cerca, nelle parole di Gregotti, di fare dell'urbanistica e dell'architettura
una cosa semplice, duratura, ordinata, organica, precisa e necessaria; costruisce con la tradizione una relazione di
conoscenza più che d'obbedienza; pensa al progetto come re-invenzione del luogo. Rifiutandosi di considerare il mondo
come compiuto. Si colloca nella scia dell'instancabile ricerca, rielabora ne e miglioramento di alcuni fondamentali
materiali bani, della continua ricostituzione critica delle regole delle pratiche della costruzione e della composizione
(Gregotti, 1999). Una piccola deviazione può chiarire la portata di questa posizione, mostrando come essa faccia parte
della miglior tradizione europea e non sia vin colata a un'unica idea di architettura.
Nell'immaginario collettivo mondiale Siena è considerata la città medievale per eccellenza ed è giustamente considerata
bellissima. Il carattere medievale e la bellezza di Siena sono l'esito di regole assai più riposte e, benché semplici, non
immediatamente percepibili. La regola, per esempio, che governa scale, dimensione e ubicazione dei diversi edifici è
una di queste.
Siena è disposta formano un disegno riconducibile con molte semplificazioni a quello di tre creste principali dalle quali
si dipartono alcune creste minori. Al termine di queste, in posizione sopraelevata rispetto alle val- su un insieme di
creste collinari che in forma di Y dalla quali si dipartono alcune creste minori. Al termine di queste, in posizione
sopraelevata rispetto alle valli circostanti, sono poste alcune grandi fabbriche conventuali di scala e dimensione
straordinariamente superiori a quelle di tutta l'edilizia senese. Solo a questi edifici, che formano una sorta di cinta
immaginaria che segna il limite della città e che è interna alla cerchia delle mura generalmente situata a una quota più
bassa, sono consentite quelle scale e quelle dimensioni Scale e dimensioni che possono peraltro essere colte so- lo da
chi giunga a Siena dell'esterno, perché, grazie al- l'orografia, verso la città le stesse fabbriche si presenta- no con
dimensioni e scale domestiche.
Questa coerenza tra vocabolari, grammatiche e sintassi simboliche con ruoli, funzioni e materiali, tanto spesso
trascurata dall'arroganza di molte architetture recenti, è uno dei più evidenti e sottili caratteri della tradizione urbana
europea, di continuo sottoposto a critica, ma mai dimenticato o distrutto; esso è l'esito di un insieme di regole. Esso è
precisamente ciò che ha permesso che l'orizzonte di senso di una città frammentaria come quella medievale non andasse
mai perduto.
Ma Venezia è città ove, sin dal Cinquecento, è stata sperimentata e messa a punto un'altra mossa, oggi frequentemente
rivisitata.
È la mossa di chi guarda al passato nei termini di una renovatio urbis, di una politica cioè di modifica e trasformazione
dell'orizzonte di senso, del ruolo e delle funzioni svolte da intere parti di città o da tutta la città attraverso interventi
puntuali e limitati, oggetti finiti, non necessariamente edifici, unici e non ripetibili se non nella loro logica di specifica
irripetibilità. Una politica che prende forma senza alcun piano disegnato, senza cioè una previsione complessiva
architettonicamente formulata.
La renovatio, pur avendo importanti precedenti nel passato, è mossa indipendente da un ritorno al passato e con esso
non può essere confusa. Essa assume senso attraverso la scelta di luoghi strategici, di funzioni, ruoli e architetture che
assumano il carattere di esempi che non si propongono all'imitazione, ma che pretendono di costruire nuovi sistemi di
valori, di essere significativi più che esemplari. Ciò implica una maggior attenzione al programma di ciascun intervento.
La renovatio non è fatta solo di architetture, ma anche di leggi e di regolamenti, di modifiche istituzionali e di
procedure, e per questo richiede di essere inserita in una visione strategica d'assieme.
Il piano, in altri termini, è una forma particolare e ridotta di getto, ove il termine ridotto va inteso in due sensi tra lo- ro
strettamente connessi: in quello del riduzionismo degli anni Trenta del XX secolo e nel senso del piano come
dispositivo teso a inverare solo alcune importanti parti del progetto della città. Gli ultimi decenni del secolo sono stati
ovunque percorsi da un'inconcludente polemica tra piano urbanistico e progetto di architettura.
Nel retroterra della polemica possono essere riconosciuti atteggiamenti d'incomprensione e ostilità nei confronti della
progressiva burocratizzazione delle società sviluppate e di chiusura corporativa quali nascono solitamente quando si
apre una nuova fase nella divisione del lavoro professionale ma può essere colta anche la svolta pragmatista di molti
amministratori desiderosi di accelerare, affidandosi a progetti puntuali e limitati e sbarazzandosi del piano e delle sue
regole, la soluzione dei problemi della città e la realizzazione dei loro programmi. Gli esiti sono stati deludenti. Nel
frattempo i caratteri della città contemporanea, con ovvie differenze nei diversi contesti, sono divenuti sempre più
evidenti: eterogeneità e frammentarietà, perdita di senso e cattivo funzionamento sempre più hanno richiamato
l'esigenza di strategie più generali e complessive.
Anche per il piano urbanistico e per le sue differenti forme, la storia non è lineare. Il suo campo di validità e
applicazione assomiglia a un giardino dai sentieri che si biforcano. Di continuo le sue vicende sono attraversate da
deviazioni contingenti e da varianti locali, da nuove declinazioni che possono essere messe in relazione ai differenti
ambienti nei quali si sono svolti la sua elaborazione e il suo uso concreto. In forme differenti e con diverse
denominazioni, come esito di differenti procedure, oggi lo ritroviamo però stabilmente consolidato in tutti i paesi
sviluppati. Nonostante la grande varietà di forme, in questi paesi, i piani urbanistici si assomigliano.
Il piano è un congegno di questo tipo, a metà tra l'oscurità del sistema politico e la trasparenza del congegno logico-
matematico. I suoi inputs sono rappresentati dalle domande espresse dalla società e gli outputs dalla concreta modifica
della città. Le cose però divengono complicate quando si esaminano le relazioni tra gli uni e gli altri. Per tre
fondamentali ragioni.
La prima riguarda gli inputs. Non tutte le domande espresse dalla società devono e possono trovare risposta nel piano
urbanistico, ma la decisione di cosa debba e possa trovarvi un'adeguata risposta e cosa no non è semplice. Se il piano
rifiuta di trattare domande che non trovano una risposta all'esterno, per esempio nel mercato o in altre politiche, è assai
probabile che ciò dia luogo alla mobilitazione di qualche gruppo facendo insorgere movimenti rivendicativi che alla
fine ne modifica- no il modo di funzionare (Crosta, 1984, 1990). Gran parte dell'urbanistica moderna è cresciuta
cercando di dare risposta o addirittura di anticipare movimenti rivendicativi di questo tipo: la questione delle abitazioni,
dell'igiene e della salute, delle attrezzature collettive, del traffico urbano e da ultimo la questione ambientale hanno
segnato profondamente il piano urbanistico lungo la sua storia.
Gli urbanisti, con largo anticipo rispetto ad altri studiosi, hanno fatto consapevolmente ricorso a strategie indiziarie:
negli aspetti fisici della città, nei modi d'uso dei differenti spazi e nelle loro continue modifiche e trasformazioni hanno
cercato di cogliere spie e indizi di domande di beni e servizi che, per loro natura, non si poteva ritenere che fossero
adeguatamente rappresentate e soddisfatte dal mercato.
La progressiva frammenta- zione della società contemporanea rende molto difficile questo compito. Non solo l'i- dea
stessa di domanda sociale si frantuma in una miriade di domande parziali tra loro in contraddizione, ma ciò obbliga a
scegliere e spesso la scelta non può essere giustificata se non mostrandone, almeno tentativamente, l'output, cioè le
conseguenze più generali e di più lungo periodo.
La seconda difficoltà riguarda gli outputs, la loro forma e natura. Il piano urbanistico è contemporaneamente molte
cose. È immagine del futuro della città e del territorio, anticipazione di ciò che essi potrebbero essere o si vorrebbe che
divenissero. È programma degli interventi che si ritengono necessari per realizzare quella stessa immagine e soddisfare i
desideri, le domande e i bisogni che essa cerca di interpretare. È distribuzione dei compiti tra i diversi attori della
trasformazione urbana. È insieme di regole che definiscono i rapporti tra le diverse parti della società, che indirizzano le
azioni di ciascuna. È patto tra la stessa società e la sua amministrazione, definizione dei suoi rapporti con la storia e
delle azioni protese alla sua protezione e difesa, conservazione o trasformazione.
Per far sì che queste diverse dimensioni del piano non si disperdessero in un insieme di azioni prive di unitarietà e di
efficacia, gli urbanisti hanno strategicamente articolato il loro progetto lungo due principali assi: l'uno attraversa le scale
e le dimensioni dello spazio abitabile, «dal cucchiaio alla città»; l'altro le forme del linguaggio, dall'implicito
all'esplicito. Il piano generale o relativo a un'area vasta precede concettualmente e operativamente quello relativo a
piccole porzioni di territorio o di città, concepito come piano attuativo del primo modo analogo, la formulazione di
regole astratte e generali, eventualmente espresse in forma parametrica, precede concettualmente e operativamente ed è
sovraordinata alla figurazione di un loro possibile risultato concreto. Sullo sfondo stanno, ovviamente, le radici
dell'urbanistica nella pratica del progetto d'architettura e d'ingegneria e le complesse relazioni che si stabiliscono tra
tavolo da disegno e cantiere.
In entrambi i casi però l'urbanistica, lungo la sua sto- ria, ha seguito una direzione opposta: dal singolo mate- riale
all'intera città e al suo territorio, da un linguaggio figurativamente esplicito a forme espressive che lascia- no molta
parte del progetto nell'implicito; dall'osserva zione e progettazione di luoghi specifici alla generalizzazione di criteri e
norme espressi in forma verbale o parametrica.
La principale figura che lega tra loro piani relativi a territori di differente estensione è quella del cannocchiale, di una
visione che può essere ingrandita e resa più precisa, restringendo il campo visivo, aumentando il potere di risoluzione e
guardando sempre più da vicino il territorio inizialmente preso in esame. Guardare da lontano è cogliere le tendenze
generali. Guardare da vicino è vedere di più, cogliere il dettaglio e metterlo in rilievo. Spesso il dettaglio, in
un'immagine molto ingrandita. Appare incomprensibile, quasi un indovinello privo di senso se non è collocato entro
l'immagine di uno spazio più ampio e di un tempo più lungo. Dettaglio e frammento si op- pongono, infatti, tra loro
come causa e caso, come geometria piana e geometria frattale; l'uno sollecita un atteggiamento deduttivo, l'altro spinge
verso l'abduzione e la serendipity, trasforma il ricercatore in una specie di Sherlock Holmes o di Arsenio Lupin.
Lungo l'altro asse, quello che attraversa i linguaggi, si sono svolte vicende assai più complesse. Il piano predisposto da
Giovanni Astengo per Bergamo nel 1969 utilizza, per esempio, in modo estensivo e non solo nel- le sue
rappresentazioni grafiche, un linguaggio implicito e codificato. Ridurre il proprio linguaggio, renderlo trasmissibile e
transitivo è stato un impegno costante dell'urbanista. Più volte, nella storia dell'urbanistica del XX secolo, vengono
avanzate proposte di unificazione e codificazione del linguaggio dell'urbanistica.
Nel piano di Bergamo gli indici di edificabilità, le quantità cioè che possono essere costruite su ogni por- zione di
terreno dichiarato edificabile dal piano, sono espressi ricorrendo a due grandezze: l'altezza degli edifici e il rapporto di
copertura. La prima ha le dimensioni di una lunghezza, la seconda quella di un rapporto tra due superfici. E del tutto
evidente che moltiplicando l'una per l'altra si ottiene una nuova grandezza che ha le dimensioni di un rapporto tra un
volume e una superficie, ciò che nel linguaggio corrente dell'urbanistica è spesso chiamato indice di edificabilità. Si
ritrova la stessa mossa di Astengo in altri piani anche se la loro maggior parte, non solo in Italia, definisce l'edificabilità
in termini di metri cubi per metro quadro. Tra le due espressioni vi è una differenza fondamentale. Nel primo caso si ha
a che fare con grandezze, come l'altezza dell'edificio e la quota di terreno che dallo stesso viene lasciata libera, che
hanno, oltre a un significato economico, anche e soprattutto un significato architettonico. Nel secondo, con una
grandezza che ha un significato quasi esclusivamente economico, concorrendo in modo precipuo nel determinare i
valori di merca- to dei terreni.
L'esperienza della città contemporanea, del la dispersione, della frammentarietà e della frammistione, ha giustamente
reso inagibili le forme più ridotte e banalizzate di questo linguaggio. Ma l'urbanista non è ricorso solo a questo
linguaggio. Nei suoi disegni ha sempre inserito progetti nei quali il futuro della città potesse essere prefigurato, con ciò
contribuendo a delineare la riserva di senso che siamo abituati a indicare con i termini di estetica della città. Negli ultimi
decenni del secolo XX il ruolo di questi progetti è però cambiato. Non più solo prefigurazione, essi sono divenuti
strumento di conoscenza interattiva.
Le esperienze non sono uguali nei diversi paesi, ma quasi ovunque i piani d'area vasta- almeno sino a tempi recenti, sino
a che una maggior attenzione ai temi ambientali non ha portato ad attraversare nuovamente le scale e i linguaggi - sono
sta ti costretti ad assumere il carattere di vaghi sfondi sui quali collocare soprattutto i grandi progetti infrastrutturali. Il
linguaggio dell'urbanistica moderna era trasparenza, circolazione senza sedimento; sul finire della modernità, questa
trasparenza si è intorbidita, il linguaggio dell'urbanistica, i modi nei quali si esprimono i suoi outputs, perde la propria
innocenza, le parole hanno una seconda memoria che si prolunga nei nuovi significati, divengono minacciose e piene di
segreti (Barthes, 1972).
La terza difficoltà riguarda la macchina. Il piano non è una macchina banale. Una macchina banale funziona sempre
allo stesso modo, qualunque sia la successione e scansione temporale con la quale gli inputs vi vengono immessi: «si sa
sempre tutto ciò che farà la macchina quando le si darà un particolare input». A ogni input o insieme di inputs
corrisponderà sempre un determina- to e prevedibile output o insieme di outputs. Bisogna anche riconoscere che vi sono
stati periodi nei quali il progetto urbanisti- co ha di fatto funzionato come una macchina banale.
È evidente che ciò non deriva dalla natura o dalla qualità dei loro progetti, ma piuttosto dalla chiarezza con la quale si
presenta- vano loro le domande sociali fondamentali, le risposte che un sistema politico amministrativo poteva
concretamente dare e le conseguenze per la città di queste stesse risposte.
Nelle epoche pre-moderne, gli urbanisti scopriranno a poco a poco il carattere non banale del piano e del progetto
urbanistico.
Sulle prime la scoperta è apparsa come una sconfitta. Gli urbanisti ne hanno dato inizialmente la colpa al potere. Non
avevano sempre torto, Crebbe in questo periodo, tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. L'urbanista divenne
professionista riflessivo (Schön, 1983) e la pratica urbanistica fu intesa come apprendimento e mobilitazione sociale,
come analisi politica e riforma sociale, aprendo il campo disciplinare, diminuendone l'autonomia e dando spazio
all'invadenza, spesso irritante, del l'urbanistica ingenua. Negli anni immediatamente successivi, con una rapida
oscillazione, architetti e urbani- sti pensarono che la colpa fosse della macchina e pensarono di disfarsene, di fare a
meno del piano; pensarono che la trasformazione della città, esito dell'interazione tra più attori, potesse essere
concettualizzata in modi differenti, come gioco o, il che è molto simile, come conversazione. L'urbanistica si
trasformava in una sorta di retorica e l'urbanista in una specie di animatore sociale. In una terza fase, infine, ci si è resi
conto che il problema era più vasto e radicale; che il dispositivo messo a punto per la costruzione e trasformazione della
città moderna, non poteva essere utilizzato tale e quale entro una città profondamente differente quale quella
contemporanea. Ciò richiedeva una modifica della forma del piano; richiedeva, in particolare, un piano concepito e
funzionante come una macchina non banale.
Dall'esterno una macchina non banale assomiglia moltissimo a una macchina banale. È all'interno che essa è differente.
Quando si agisce sul- la macchina, essa può modificare il suo stato interno. Se per esempio, per due volte consecutive
diamo alla macchina lo stesso input non necessariamente la macchina si comporterà nei due casi allo stesso modo; il suo
funzionamento dipenderà dal suo stato interno e non sarà concretamente del tutto prevedibile. I suoi risultati
dipenderanno dalle di- verse dimensioni della situazione specifica nella quale si trova il territorio o la città che ne sono
investiti e dalla lo- ro storia, dalla sequenza con la quale immettiamo i di- versi inputs e con la quale chiediamo loro di
produrre determinati outputs. In ogni momento la macchina valuta un insieme di variabili, immagina una serie di
percorsi alternativi, ne sceglie uno o alcuni e corregge via via le proprie scelte secondo i risultati provvisori raggiunti.
Accanto al piano sta qualcosa di più vago e ampio che ho indicato con l'espressione «progetto della città» e sta un
insieme di politiche urbane: l'uno e le al- tre si affidano al dispositivo del piano interpretandolo, fornendone cioè
specifiche e contingenti interpretazioni che ne definiscono lo stato interno. E sbagliato pensare i tre termini come
disposti lungo una sequenza gerarchica o temporale: prima il progetto della città, poi il piano, poi le politiche che lo
realizzano, anche se molto spesso le loro relazioni sono state riduttivamente pensate in questi termini. Il progetto della
città muta, localmente e nel tempo. Altrettanto mute- voli congiunturalmente sono le politiche. Tra i tre termini si
costruiscono nel tempo momenti di grande solidarietà e momenti anche di aspra opposizione e conflitto, tanto più
probabili in una società di minoranze. Vi sono periodi nei quali i tre termini tendono a staccarsi l'uno dall'altro.
Bibliografia
Quando mi vene chiesta una bibliografia penso a mio padre sommerso dai libri che avevano invaso ogni angolo della
casa, mio padre rispondeva alle mie richieste bibliografiche accostandosi alle ante vetrate che chiudevano le librerie e
cominciando a estrarne dei libri. Prima di passarmeli li toccava, come si toccano oggetti cui si è affezionati;
commentandoli li apriva, ne ripercorreva l'indice e il testo, le eventuali illustrazioni; mi parlava dell'autore e
dell'edizione, del loro contesto temporale e locale. Ogni libro rinviava a un altro e io avevo sempre l'impressione di
dover arrestare la nostra conversazione prima che tutta la libreria fosse portata a terra o sui tavoli. Imparavo molte cose
in questo modo: se il libro era grosso o piccolo, se era o meno illustrato, se faceva parte di una collana, se era un oggetto
prezioso e insostituibile o ancora in commercio. Potevo apprezzarne, prima ancora di leggerlo, il carattere oggettuale, il
lavoro dell'editore e del tipografo.
Io non posso permettermi di ripetere con i miei studenti i riti che tanto ho amato, ma quando faccio lezione porto con
me e dispongo sulla cattedra un certo numero di libri, simulando quello del quale con mio padre ero complice. Tanto
più mi è impossibile ripetere quei gesti e quelle parole nella pagina stampata. Li ho richiamati perché vorrei costruissero
una sorta di retroterra immaginario delle indicazioni che seguono.
In questa lezione ho richiamato un insieme di libri e di loro autori. Essi possono essere immaginati come collocati in
una serie di stanze che si susseguono allontanandosi sempre più dal punto di partenza dell'urbanistica. In altre parole,
alcuni pochi testi sono strettamente interni all'urbanistica e non è forse possibile una conoscenza di quest'area
disciplinare senza averli letti (b.1). Altri, pure interni a quest'area, sono forse meno indispensabili per una conoscenza
generale dei temi e dei problemi affrontati dall'urbanistica e della sua storia, ma possono costituire dei punti di partenza
per il loro approfondimento (b.2). Altri consentono forse di ricostruire lo sfondo nel quale le principali riflessioni degli
urbanisti devono essere collocate (b.3). Gli ultimi costruiscono lo sfondo sul quale devono essere collocate le mie
riflessioni (b.4). Ho rinunciato a dare a queste sezioni della bibliografia dei titoli. Ma la mia incertezza in proposito dice
anche che ho dei dubbi circa la collocazione entro le quattro caselle di ciascun titolo.