9/3/2020
La microbiologia studia 1. La diversità e l'evoluzione dei microrganismi
2. Cosa fanno i microrganismi sul pianeta (organismi nell'ambiente per
esempio nelle acque e nel terreno) e che tipo di interazione i
microrganismi instaurano con questi ambienti
In microbiologia si utilizzano diversi strumenti per studiare i microrganismi, uno di questi strumenti è la
coltivazione dei microrganismi.
Per coltura microbica si intende un insieme di cellule cresciute all'interno o sulla superficie di un terreno
colturale che può essere liquido o solido.
Un terreno liquido è definito brodo culturale mentre uno solido è una piastra.
Nel terreno culturale saranno presenti fonti carbonate (per esempio zuccheri), fonti azotate (per esempio
aminoacidi), vitamine, sali minerali e acqua fondamentali per la crescita dei microrganismi
Il termine crescita microbica può essere definito come la crescita del numero di cellule come risultato della
duplicazione cellulare.
Nella figura A è rappresentata l'immagine di una piastra agar in cui grazie a una opportuna modalità di
inoculo che si chiama striscio è stato possibile isolare delle singole colonie.
Si distinguono una zona in cui si ha un'elevata concentrazione microbica una zona di minore concentrazione
ed una in cui è possibile vedere delle colonie isolate.
Colonia microbica→ una singola cellula microbica che è cresciuta sulla piastra e si è divisa in milioni di
membri tutti uguali.
La colonia è il risultato di una crescita microbica partire da una singola cellula inoculata su una piastra.
Nella figura C noi possiamo prendere la colonia osservare la morfologia cellulare al microscopio ottico
Esistono elementi strutturali comuni a tutte le cellule
Membrana Citoplasmatica che ha la funzione di barriera semipermeabile e separa l'ambiente
interno della cellula dall'ambiente esterno.
Citoplasma è una miscela acquosa di macromolecole quali proteine, lipidi, polisaccaridi e acidi
nucleici e piccole molecole organiche e ribosomi
Ribosomi ovvero strutture fondamentali per la sintesi proteica nelle cellule microbiche
Parete cellulare la parete cellulare è presente in alcuni microrganismi e mi riferisco ai batteri gram‐
positivi e lieviti.
La funzione fondamentale della parete cellulare è quella di conferire rigidità strutturale alla cellula
ed è relativamente permeabile localizzata fuori dalla membrana cellulare
DNA genomico è il complemento di tutti i geni presenti nella cellula e determina tutte le
caratteristiche e le attività biologiche della cellula
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In funzione della struttura cellulare gli organismi vengono classificati in:
Cellule Procariotiche Cellule Eucariotiche
Tutti i procarioti sono microrganismi che organismi appartenenti al dominio eukarya
appartengono ai Domini Bacteria e Archea (piante, animali e microrganismi eucarioti)
Struttura cellulare molto semplice e non Nel citoplasma sono presenti organelli
possiedono il nucleo nè gli organelli subcellulari delimitati da specifiche
subcellulari membrane qui è presente il nucleo che
contiene il DNA
Genoma Genoma
Il genoma è un DNA circolare detto Il genoma è linearie
cromosoma organizzato in aggregati che racchiuso all'interno del nucleo circondato
formano il nucleoide ed è visibile al da membrana nucleare
microscopio elettronico Largo e meno compatto
Non è racchiuso all'interno di un nucleo
Più piccolo e compatto
Molti procarioti hanno un singolo
cromosoma inoltre possiedono plasmidi
che sono elementi di DNA circolare mobili
Le proprietà essenziali che caratterizzano le cellule microbiche distinguiamo fra due tipi di proprietà:
1) proprietà condivise da tutti i microrganismi
a) Compar mentazione e Metabolismo→ La cellula è un comparto che prende i
nutrimenti dall’esterno, li trasforma e rilascia i prodotti di scarto all’esterno.
La cellula considerata come sistema aperto verso l'ambiente circostante
b) Crescita→ Durante le trasformazioni metaboliche si produce energia che viene
utilizzata per sintetizzare nuove strutture cellulari che consentono la divisione
cellulare, processo alla base della crescita microbica
c) Evoluzione→ Per evoluzione si intende il processo molto lento in cui alcune
modificazioni genetiche possono avvenire in modo da migliorare il fitness
riproduttivo (ovvero l'adattamento all'ambiente).
Gli alberi filogenetici che vedete qui riportati e mostrano le relazioni
evolutive tra i microrganismi
2) proprietà specifiche di alcuni microrganismi
a) Mo lità→ Solo alcune cellule sono in grado di muoversi. La mo lità è in
generale una proprietà che consente alla cellula due tipi di azioni:
l'allontanamento da condizioni pericolose o sfavorevoli e l'avvicinamento
verso nuove risorse ed opportunità (flagelli motilità)
b) Differenziamento→ Alcune cellule microbiche sono in grado di produrre
strutture specializzate per la crescita o la sopravvivenza in condizioni sfavorevoli
un esempio di queste strutture è la spora, una struttura specializzata a consentire
una maggiore resistenza in condizioni di stress.
c) Comunicazione→ Molte cellule sono in grado di comunicare ed interagire con le
cellule vicine mediante la recezione e la produzione di segnali.
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Alcuni concetti fondamentali relativi alla relazione tra microrganismi e ambiente:
popolazione →con popolazione si intende un gruppo di cellule microbiche che derivano da una
singola cellula parentale in seguito a successive divisioni cellulari
habitat→ è un ambiente in cui vive una determinata popolazione microbica
comunità→ la comunità è un insieme di popolazioni microbiche diverse che che venendo si a
trovare nello stesso Habitat interagiscono in maniera stretta tra di loro
ecosistema→ l’ecosistema è la sommatoria di comunità più habitat cioè è l'insieme dei
microrganismi digli e dei componenti chimici e fisici che costituiscono l'habitat che costituiscono
l'ambiente.
Un ecosistema è fortemente influenzato e controllato dalle attività microbiche.
Ecologia microbica→ L’ecologia microbica è una branca della microbiologia che studia la
composizione quindi la biodiversità dell'ecosistema microbico e le sue attività biologiche
enzimatiche
È stato stimato che la terra abbia un'età di circa 4,6 miliardi di anni.
I batteri sono i primi organismi che hanno colonizzato e vissuto sulla terra e comparvero dopo il
raffreddamento ovvero 3,8 miliardi di anni fa nelle acque dei primi oceani.
Inizialmente esistevano soltanto batteri fotoautotrofi anossigenici perché l'atmosfera primordiale era
pressoché priva di ossigeno e quindi le uniche forme di vita in grado di sussistere in quelle condizioni
igieniche erano batteri fototrofi anossici.
Circa 2,4 miliardi di anni fa apparvero i primi batteri fototrofi in grado di produrre ossigeno molto simili agli
attuali cianobatteri (capaci di fotosintesi) quindi cominciarono a comparire
organismi eucarioti grazie alla presenza di ossigeno quindi due miliardi di anni fa
incominciano a sopravvivere sulla terra I moderni eucarioti.
Rappresentarono una svolta nell’evoluzione della vita era primitiva e
consentirono alla vita di colonizzare anche le terre emerse.
1,3 miliardi di anni fa iniziò poi la comparsa delle alghe e poi successivamente
degli invertebrati delle piante e dei mammiferi fino ad arrivare alla comparsa
dell'essere umano.
La figura b rappresenta l'origine temporale dei tre Domini della vita che sono
Bacteria, Archea ed Eukarya formatisi a partire da un'unica cellula ancestrale.
L'estensione della vita microbica sulla terra è enorme cioè ci circonda.
Siamo circondati da microrganismi.
I microrganismi costituiscono la principale distribuzione di biomassa sulla terra e
sono riserve importanti di nutrienti per la vita.
La maggior parte delle cellule microbiche non risiede sulla superficie terrestre ma in profondità quindi nei
mari e negli oceani e sotto terra, abbiamo un 66% di microrganismi a livello dei mari e degli oceani, un 26%
di microrganismi sottoterra e percentuali minori di microrganismi si trovano a livello dei terreni e in altri
Habitat (sono stati ritrovati microrganismi fino a 10 km di profondità sotto la superficie terrestre).
L’IMPATTO DEI MICRORGANISMI SULLA SOCIETA’ UMANA
I microrganismi hanno un impatto importante sulla società sulla salute e benessere dell'uomo e sulla
mente, i microrganismi patogeni sono gli agenti responsabili delle malattie infettive;
Diciamo che l'impatto dei microrganismi sulla società umana è importante dal punto di vista delle malattie
infettive e in secondo luogo è importante perché essi possono anche avere effetti positivi per la salute
dell'ospite (i microrganismi che sono presenti a livello del microbiota intestinale, per esempio, giocano un
ruolo chiave nelle nei processi digestivi in modo particolare nella digestione dei carboidrati complessi,
alcuni microrganismi del microbiota intestinale sintetizzano vitamine che sono importanti fattori di crescita
per gli organi, altri sintetizzano acidi grassi a catena corta che sono fattori trofici per i colonociti e altre
sostanze essenziali per la nutrizione umana) quindi i microrganismi non vanno concepiti solo come agenti
eziologici responsabili di patologie infettive ma possono avere anche un significato positivo per la salute
dell'uomo.
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Altri possono essere importanti nell'industria microbiologica e nelle biotecnologie perché possono essere
impiegati per produrre metaboliti di interesse industriale, alimentare e farmaceutico con riferimento
principalmente agli antibiotici, che sono metaboliti secondari prodotti da microrganismi inoltre da queste
molecole naturali sono state sintetizzate degli anche degli antibiotici di nuova generazione per
modificazione sintetica delle molecole naturali
E ancora i microrganismi sono in grado di produrre aminoacidi che vengono utilizzati nell'industria
alimentare; principalmente producono vitamine, etanolo (grazie alla fermentazione di microrganismi e che
viene utilizzato per produrre per esempio la birra per produrre e bevande alcoliche), producono enzimi,
proteine ricombinanti (quali insulina, ormone della crescita, anticorpi, interferoni) biofuel come il
biometano il bialcol (prodotto a partire da materiali di scarto).
PRINCIPI DI MICROSCOPIA
Microbiologia e microscopia sono strettamente associate: la microbiologia è assistita dalla microscopia.
Il microscopio è lo strumento di base del microbiologo e ogni laboratorio di microbiologia è dotato di un
microscopio almeno di un microscopio ottico.
Il microscopio ottico permette di visualizzare i microrganismi che, date le dimensioni dell'ordine del micron,
non si possono osservare occhio nudo. È possibile da una piastra agarizzata isolare una colonia, preparare
un vetrino ed andare a fare un’osservazione al microscopio per poter visualizzare quella che è la morfologia
cellulare.
Esistono due tipi di microscopio:
1. Il microscopio o co→ U lizzato per osservare le cellule microbiche, con il microscopio o co
riesco a visualizzare la cellula del microrganismo quindi a visualizzare la morfologia cellulare (a
vedere per esempio se si tratta di una cellula rotonda piuttosto che una cellula allungata).
I microscopi più sofisticati arrivano ad un limite di risoluzione pari a 0,2 micron quindi la massima
risoluzione possibile per la microscopia ottica è di 0,2 micron.
2. Il microscopio ele ronico→ Consente di osservare anche le stru ure cellulari.
Quindi mentre il microscopio ottico consente di vedere la cellula intera, microscopio elettronico mi
consente di focalizzare l'attenzione sulle strutture subcellulari.
I microscopi elettronici consentono risoluzioni maggiori rispetto alla risoluzione microscopio ottico
ed arrivano fino a 0,2 nanometri.
11/03/20
Ci focalizziamo sulla microscopia ottica e andiamo un po' a descrivere e le la componentistica di un
microscopio ottico.
Il microscopio ottico utilizza la luce visibile per illuminare immagine.
Il microscopio ottico è formato da (dall’alto e scendendo verso il basso):
3. Stage→ Il “palcoscenico” è la piattaforma dove viene
posizionato il vetrino con il campione.
Per creare un vetrino si prende un vetrino rettangolare detto “vetrino porta oggetto” e sopra
questo si posiziona una goccia di acqua e si stempera? una colonia al suo interno (prelevata da una
piastra agarizzata) quindi si copre con un vetrino definito “copri oggetto” e di spessore inferiore
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rispetto allo spessore del vetro del vetrino porta oggetto e si schiaccia facendo aderire i vetrini.
A questo punto il nostro campione si posizione sullo stage sul palcoscenico e in modo tale da poter
effettuare l'osservazione.
4. Condensatore→ Ha la funzione di raccogliere la luce che viene focalizzata sul vetrino
5. Manopola e per la messa a fuoco→ Per il focus, possono essere presenti due manopole: quella
esterna detta macro e quella interna che detta micro.
Solitamente si parte con la messa a fuoco avvicinando l’obiettivo al vetrino utilizzando la macro
che consente movimenti più ampi e poi si arriva alla messa a fuoco precisa con la micro.
6. Sorgente luminosa→ Che illumina il campione e grazie alle len di ingrandimento ci consente di
visualizzare immagini.
Come si calcola l’ingrandimento? L’ingrandimento totale di un microscopio ottico è il prodotto
dell’ingrandimento delle lenti oculari e dell’ingrandimento dell'obiettivo.
Abbiamo visto che sia a livello delle lenti oculari che a livello delle lenti dell' obiettivo noi abbiamo dei
fattori di gradimento il massimo ingrandimento di un microscopio ottico e pari a 2000x che è il risultato del
prodotto e del fattore di ingrandimento 100x a livello delle lenti dell' obiettivo e dell’ingrandimento di
quelle oculari che è 20x.
L'obiettivo con ingrandimento 100 x solitamente viene utilizzato in immersione.
Cosa vuol dire vuol dire? che una volta preparato il vetrino si posiziona una goccia di olio minerale e si
avvicina l’obiettivo al campione in modo tale che l'obiettivo stesso si immerga nella goccia di olio minerale
chiaramente senza toccare il vetro ma semplicemente immergendosi nell’olio minerale.
Qual è il significato e dell’utilizzo di microscopia 100x ad immersione?
Il significato è l’aumento e dell’efficienza di raccolta della luce che permette una migliore localizzazione e
visualizzazione dell'immagine.
Cos’è lo staining? è una strategia molto utilizzata in microscopia che ha lo scopo di aumentare il contrasto
fra le cellule e lo sfondo soprattutto nella microscopia ottica a fondo chiaro.
Quali sono i coloranti più usati a questo scopo?
Si tratta di molecole cariche positivamente che in virtù della carica positiva sono in grado di legare
fortemente componenti cellulari carichi negativamente per esempio acidi nucleici (carichi negativamente in
virtù dei gruppi fosfato) ed alcuni polisaccaridi. Ma va aggiunto inoltre che la superficie cellulare di
organismi è di per sé carica negativamente per cui questi coloranti vengono facilmente ad assorbiti anche a
livello superficiale; quindi il risultato è una colorazione delle cellule che ne facilita la visualizzazione.
Sono fondamentalmente due:
1. Il blu di metilene
2. Il cristalvioletto
Nella figura sono rappresentati gli step della colorazione per l'osservazione al microscopio.
La tecnica è veramente molto semplice dal punto di vista operativo:
1. Il primo step è la preparazione del vetrino: Stemperiamo la nostra colonia nella e nella goccia
d'acqua che abbiamo posizionato al centro del vetrino si aggiunge il vetrino copri oggetto e si
asciuga l'aria.
2. Nel secondo step si fissa con la fiamma la colonia e quindi si fa una colorazione con il colorante che
può essere più blu di metilene o cristalvioletto e si va a ad osservare al microscopio ottico vedete
qui è rappresentata e l'utilizzo del Microscopio Ottico ad ingrandimento 100x in cui l'obiettivo non
deve toccare il vetrino ma deve semplicemente appoggiarsi alla goccia di olio minerale.
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3. Nel passaggio successivo vediamo le colorazioni differenziali così chiamate perché marcano con
colori diversi cellule differenti (quindi nelle colorazioni differenziali utilizzano almeno due coloranti
diversi).
Una delle più importanti colorazioni differenziali microbiologia è la colorazione di gram che è
impiegata come primo step nella caratterizzazione tassonomica di isolati batterici; cosa vuol dire
questo? vuol dire che se io ho un isolato e batterico da un campione e lo voglio caratterizzare dal
punto di vista tassonomico cioè dare un nome e un cognome ovvero genere e specie di solito il
primo step che si esegue è la colorazione di gram per vedere se si tratta di un gram positivo o gram
negativo è infatti sulla base della risposta la colorazione i gram i batteri vengono classificati in
questi due grandi gruppi.
La diversa risposta alla colorazione da parte dei batteri gram positivi e di quelli gram negativi
dipende dalle diverse caratteristiche della parete cellulare in questi due gruppi di batteri .
La differenza importante dal punto di vista strutturale dei gram+ e gram‐ risiede nella parete
cellulare: i batteri gram positivi hanno una parete cellulare molto spessa costituita da più strati di
peptidoglicani (costituente fondamentale della parete cellulare batterica) mentre il gram negativi
hanno una parete cellulare molto sottile costituita da un singolo stato di peptidoglicani.
In virtù di questa differenza i batteri rispondo diversamente alla colorazione.
COLORAZIONE DI GRAM
1. Nel primo step le cellule vengono colorate con cristalvioletto.
Nell’immagine abbiamo una cultura mista costituita da Cocchi che si dispongono a
catenella e bacilli con forma più allungata.
Il risultato di questa prima colorazione è che tutte le cellule (quindi entrambe le
morfologie) si colorano di viola poiché il cristalvioletto è colorante estremamente efficace
che viene assorbito sulla superficie cellulare tutti i batteri penetrando
all'interno della cellula e interagendo con gli acidi nucleici.
Quindi e la colorazione violacea interessa tutte le cellule batteriche.
2. Nel secondo step viene aggiunta una soluzione di odio per fissare la
colorazione di conseguenza tutte le cellule rimangono colorate di viola.
3. Nello step numero tre le cellule vengono decolorate con etanolo ed a
questo punto incominciano a differenziarsi i due tipi cellulari i batteri
gram positivi rimangono colorati di viola quindi sono i Cocchi ed i
ba eri gram nega vi vengono decolora → Perché questo? Perché i
batteri gram+ avendo una parete cellulare spessa e non permeabile
all'alcol non consentono la decolorazione mente i batteri gram‐
viceversa hanno una parete cellulare sottile e permeabile all'alcol per cui in questo caso la
decolorazione avviene.
4. Nello step numero quattro interviene secondo colorante infatti in quest'ultimo step viene
effettuata una seconda colorazione con Safranina.
I batteri gram+ rimangono colorati di viola perché non erano stati decolorati mentre i
batteri gram‐ che erano stati decolorati nello step precedente acquisiscono la colorazione
rosa‐rosso; quindi alla fine di questi step avremo una popolazione mista con Cocchi
colorati di viola che corrispondono a cellule di batteri gram positivi e vedremo dei bacilli
con una morfologia cellulare più allungata e colorati di rosso che corrispondono batteri
gram negativi.
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Un ulteriore metodo di colorazione avviene mediante fluorescenza visualizzabile mediante la microscopia a
fluorescenza.
Cosa vuol dire mettere in fluorescenza? Vuol dire che strutture spcifiche assorbono luce ad una
determibata lunghezza d’onda e la riemettono ad un’altra.
Esistono due tipi di microscopia a fluorescenza:
Autofluorescenza quando le cellule contengono naturalmente sostanze fluorescenti (per esempio la
clorofilla presente nei cianobatteri).
La seconda possibilità è quella di indurre la fluorescenza cioè di effettuare una colorazione con un
colorante fluorescente e il più utilizzato in microscopia a fluorescenza è sicuramente il colorante
DAPI che è una molecola con una struttura peculiare (aromatica).
Colora tutte le cellule di blu brillante.
Il DAPI può essere utilizzato per visualizzare cellule in diversi habitat (in acqua, suolo, in campioni
alimentari e clinici).
MICROSCOPIA ELETTRONICA
La microscopia elettronica utilizza gli elettroni invece della luce visibile per visualizzare le cellule e le
strutture cellulari quindi in questo caso la sorgente che ci consente di visualizzare l'immagine è una
sorgente di elettroni esistono due tipi di microscopia elettronica la microscopia elettronica a trasmissione
TEM e la microscopia elettronica a scansione SEM.
Quali sono le principali caratteristiche di questi due tipi di microscopia elettronica?
Per quanto riguarda la TEM (microscopia elettronica a trasmissione) questa si avvale di tecniche
speciali di sezionamento per preparare il campione con tecniche particolari in modo da poter
osservare le strutture interne. abbiamo detto quando abbiamo introdotto noi tipi di microscopia
che fondamentalmente l'obiettivo della metro scompiglia elettronica è quello di andare ad
osservare le strutture subcellulari che non è possibile osservare con la microscopia ottica.
Per migliorare il contrasto i preparati vengono solitamente trattati con coloranti per esempio il
permanganato, l'uranio e citrato di piombo che essendo costituiti da metalli pesanti diffondono gli
elettroni aumentando il contrasto.
Le caratteristiche principali della microscopia elettronica a scansione SEM riguardano in primo
luogo la selezione del campione che in questo caso non avviene (questa è la principale differenza
fra la Tem e la TEM),
Il campione che non viene selezionato è però rivestito da uno strato sottile di metallo pesante per
esempio l’oro (uindi in questo caso chi gioca un ruolo chiave e il rivestimento da parte di un metallo
pesante);
Il rivestimento di metallo pesante diffonde elettroni che vengono raccolti e producono l'immagine.
Grazie alla microscopia elettronica è possibile arrivare a 100.000x mentre con la microscopia ottica il
massimo ingrandimento possibile era 2000x quindi possiamo vedere molto meglio la morfologia cellulare e
la superficie cellulare con la Sam rispetto alla microscopia ottica ma se vogliamo andare a visualizzare le
strutture subcellulari dobbiamo ricorrere alla TEM.
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LA STORIA EVOLUTIVA E LA BIODIVERSITA’ MICROBICA
EVOLUZIONE→ L’evoluzione è il processo che genera nuove varietà e specie di organismi.
La variazione quindi può essere definita come il risultato di una mutazione genetica e della successiva
selezione ed è basata sul miglioramento dell’adattamento all'ambiente.
L'obiettivo finale per un organismo è quello di ottimizzare il proprio fitness in un determinato habitat
pertanto verrà positivamente selezionata una mutazione genetica favorevole che porta ad
un’ottimizzazione ad un miglioramento della performance metabolica di un organismo in un determinato
habitat.
FILOGENESI→ La filogenesi studia le relazioni evolu ve tra i diversi organismi questa disciplina, è
attualmente basata sulla comparazione delle sequenze dei geeni 16s degli RNA ribosomiali (perfetti marker
filogenetici).
Nella loro sequenza si alternano regioni costanti e regioni variabili a livello di genere e specie.
Il DNA genomico viene isolato ed amplificato in uno specifico gene per PCR. Il gene viene sequenziato e
confrontato con le sequenze di altri organismi presenti in banca dati.
Infine vengono identificati genere e specie dell’incognito, per costruire poi un albero filogenetico che
misura le affinità e le distanze evolutive.
La figura rappresenta l'albero filogenetico universale costruito sulla base delle sequenze dei geni
ribosomiali; sono evidenziati i tre Domini della vita da Bacteria, Archea ed Eukarya e
alcuni gruppi rappresentativi per ciascun dominio.
Sia Bacteria che Archea e Eukarya si sono evoluti a partire dal LUCA l’organismo
ancestrale comune (LUCA=Last Universal Common Ancestor) i batteri sono gli
organismi più vicini a Luca poiché sono i più antichi.
La diversità tassonomica si riflette nella diversità metabolica
Il postulato della diversità metabolica afferma che tutti gli organismi necessitano di una fonte energetica e
di una strategia metabolica per conservare l’energia e per guidare i processi vitali che consumano energia.
Le fonti di energia sono fondamentalmente due: sostanze chimiche o luce.
L'Impiego di sostanze chimiche è alla base della strategia metabolica che si chiama
chemioautotrofia.
Gli organismi chemioautotrofi possono utilizzare sostanze organiche come il glucosio,
l'acetato ed altre sostanze organiche e in questo caso sono definiti
chemiorganotrofi oppure possono utilizzare sostanze inorganiche come
l'idrogeno, l'acido solfidrico, il ferro, l'ammonio ecc. e in questo caso sono
definiti chemiolitotrofi.
La Sorgente di energia luce è alla base della strategia metabolica definita
fototrofia i microrganismi che utilizzano la luce come fonte energetica sono
definiti fototrofi.
Gli organismi chemiorganotrofi, come abbiamo precedentemente illustrato, ricavano energia da composti
chimici organici e sono in grado di metabolizzare tutte le sostanze organiche naturali e molte sostanze
organiche sintetiche.
Distinguiamo tre tipi di organismi chemiorganotrofi
Aerobi→ che producono energia in presenza di ossigeno
Anaerobi→ che producono energia in assenza di ossigeno
Organismi Microaerofili→ che sono in grado di produrre energia sia in assenza che in presenza di
ossigeno
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Gli organismi chemiolitotrofi sono esclusivamente procarioti ovvero appartengono esclusivamente ai
Domini Bacteria ed Archea.
Sono in grado di ossidare diversi composti inorganici quali idrogeno, acido solfidrico e ferro che
rappresentano prodotti di scarto da parte degli organismi chemiorganotrofi.
Quindi possiamo dire che gli organismi chemiorganotrofi e chemiolitotrofi vivono in stretta associazione e
sfruttano le risorse messe a disposizione dagli altri.
Gli organismi fototrofi utilizzano come sorgente di energia la luce solare.
Si tratta di microrganismi che contengono pigmenti specializzati che permettono di convertire l'energia
luminosa in energia chimica; L'energia chimica è quasi sempre immagazzinata sotto forma di ATP.
Sono in grado di effettuare due tipi di fotosintesi:
La fotosintesi ossigenica durante la quale viene prodotto ossigeno.
Un esempio di organismi autotrofi ossigeni sono i cianobatteri e le alghe
La fotosintesi anossigenica durante la quale non viene assolutamente prodotto ossigeno.
Esempi di batteri e che effettuano la fotosintesi anossigenica sono i batteri verdi e Viola.
CLASSIFICAZIONE DEGLI ORGANISMI IN FUNZIONE DELLA FONTE CARBONATA
In base al tipo di fonte carbonata gli organismi vengono classificati in due grandi gruppi:
eterotrofi→ u lizzano come fonte carbonata il carbonio organico quindi compos chimici organici.
A questa categoria appartengono i chemiorganotrofi.
autotrofi→ la fonte di carbonio è rappresentata da CO2 quindi da un composto inorganico.
A questa categoria appartengono i chemiolitotrofi e i fototrofi
QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DEI TRE DOMINI DELLA VITA
La vita microbica generale è rappresentata in tutti i tre Domini che abbiamo detto sono Bacteria, Archea
Eukarya.
Andiamo considerare ciascun dominio singolarmente:
I batteri hanno una struttura cellulare procariotica.
Quali sono le caratteristiche della struttura cellulare procariotica?
La lunghezza di una cellula batterica è variabile fra 1 e 10 micron.
Presenza di almeno 80 fila batterici.
Più del 90% dei batteri coltivabili appartiene a 4 fila principali
che sono Actinobacteria, Firmicues, Ptobacteria e
Bacteroidetes.
In alcuni fila batterici le specie sono caratterizzate da
tratti fenotipici unici tuttavia nella maggior parte dei
casi, i fila batterici contengono un’ampia diversità di
specie con la grande diversità fisiologica. I batteri sono
gli organismi più antichi che hanno colonizzato nostro pianeta
miliardi di anni fa ed hanno permesso poi una estesa e diversificazione evolutiva.
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Gli Archea come i batteri, presentano una struttura cellulare procariotica.
La lunghezza è compresa fra 1 e 10 Micron quindi le dimensioni degli Archea sono pressoché
sovrapponibili alle dimensioni dei batteri.
Hanno una diversità morfologica minore dei batteri, sono più
semplici; Il dominio Archea consiste in 5 fila (Euryarchaeota,
Crenarcaeota, Thaumarchaeota, Nanoarchaeota e
Korarchaeota).
Gli archea sono frequenti in ambienti estremi (come i sistemi
vulcanici) ma anche nelle zone umide, nell’intestino degli
animali, nel terreno e negli oceani.
Questo dominio non contempla patogeni noti o parassiti di piante
o animali
Questo è l'albero filogenetico di alcuni archea rappresentativi ed evidenzia gli organismi
ipertermofili cioè gli organismi che si sono adattati a vivere ad elevate temperature.
Gli Eukarya presentano una struttura cellulare eucariote.
I primi eucariote erano microbi unicellulari (alghe, protozoi e funghi).
I microrganismi eucarioti variano enormemente in dimensione forma e fisiologia
possiamo avere La grandezza va da grandezze addirittura inferiori al micron per
arrivare ad alcuni organismi di dimensioni dell'ordine delle
decine di centimetri.
I microrganismi eucarioti possono essere autotrofi (per esempio le
alghe azzurre possono essere predatori di altri microrganismi) o
possono essere simbionti e parassiti.
Quindi abbiamo un'ampia varietà di metabolismo e di fisiologia nell'ambito del
dominio eukarya.
STRUTTURA E FUNZIONI DELLA CELLULA PROCARIOTICA
La struttura delle cellule dei procarioti possono variare oltre che nella forma anche nelle dimensioni in
generale.
Le dimensioni possono condizionare fortemente il metabolismo cellulare essendo e le dimensioni
strettamente correlate.
In generale possiamo affermare che la velocità metabolica di una cellula è inversamente proporzionale al
quadrato delle sue dimensioni.
In microbiologia il termine morfologia indica appunto la forma cellulare, diverse
morfologie sono note tra i procarioti, le più comuni sono: il cocco ha una forma sferica
o ovoide, il bastoncino o bacillo che ha forma cilindrica vedete ancora
possiamo avere una forma a spirillo, lo spirocheta che era forma e strettamente
arrotolata, poi abbiamo dei batteri con appendice che presentano estensioni
cellulari cioè delle protuberanze e poi abbiamo i batteri filamentosi con cellule lunghe
e sottili e generalmente organizzate in catene.
Nonostante la morfologia cellulare sia facilmente riconoscibile utilizzando la microscopia in generale non
rappresenta un parametro di predizione di altre proprietà della cellula quali la fisiologia, metabolismo e
filogenesi.
S’ipotizza che per stabilire la morfologia delle cellule di una particolare specie entrino in gioco alcune forze
selettive che hanno diverse funzioni: l’ottimizzazione dell’assorbimento delle sostanze nutritive (es. cellule
piccole con un alto rapporto superficie volume sono sicuramente facilitate);
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La motilità è di tipo natante in ambienti viscosi e vicino alla superfice;
Un altro tipo di motilità è quella strisciante (in modo particolare per i batteri filamentosi che sono i batteri
che utilizzano questo tipo di strategia per muoversi).
La morfologia cellulare è geneticamente determinata ed evolve per migliorare e per ottimizzare quello che
è l'adattamento alla specie in particolare all’habitat.
Si può affermare come abbiamo visto prima che la velocità metabolica di una cellula è inversamente
proporzionale al quadrato delle sue dimensioni (cellule di piccole dimensioni sono certamente più
competitive dal punto di vista metabolico di cellule di grandi dimensioni perché sono in grado di captare più
facilmente substrati nutritivi dall'ambiente).
Cellule piccole hanno un alto rapporto superficie volume il quale condiziona diversi aspetti della biologia
cellulare.
Quali sono questi aspetti importanti della biologia cellulare fortemente condizionati dal rapporto superficie
volume?
Il primo aspetto importante della biologia cellulare condizionato dal rapporto superficie volume della
cellula è lo scambio con l'ambiente esterno e l’apporto di sostanze nutritive è estremamente facilitato
quando vi è un elevato rapporto superficie volume.
Il secondo aspetto il secondo aspetto è la velocità di crescita cellulare è strettamente dipendente
dall'apporto di nutrienti quindi migliore è l'efficienza di captazione dei nutrienti e maggiore sarà la velocità
di crescita cellulare.
la frequenza di mutazioni genetiche è correlata alla velocità di replicazione del DNA che a sua volta
dipende dalla velocità di crescita cellulare quindi si può notare una cascata di dipendenza di questi fattori.
All'aumentare della velocità di crescita cellulare aumenta velocità di duplicazione del DNA e
conseguentemente vi è una maggiore probabilità che si verifichino degli errori nella processo di
duplicazione e quindi compaiono delle mutazioni genetiche.
L'aspetto evolutivo è correlato alla comparsa di mutazioni favorevoli che quindi vengono selezionate in
modo tale da migliorare il fitness riproduttivo
Possiamo quindi affermare, in conclusione, che grazie alle loro piccole dimensioni i procarioti e le cellule
procariotiche possono adattarsi abbastanza rapidamente a cambiamenti ambientali e si possono adattare a
nuovi habitat più facilmente degli eucarioti.
Andiamo a descrivere le strutture e le funzioni della cellula procariotica partendo dalla membrana
citoplasmatica batterica.
Il costituente fondamentale delle membrane citoplasmatica è il fosfolipide.
Qual è la struttura del fosfolipide? Il fosfolipide presenta due componenti una
idrofobica rappresentata da acidi grassi e una componente idrofilica
rappresentata dal glicerolo fosfato che è a sua volta legato ad altri gruppi
funzionali e (quali zuccheri, etanolammina, colina…) .
Quindi possiamo affermare che il fosfolipide è una struttura anfipatica cioè
costituita da una componente idrofobica (rappresentata dalle due catene di
acidi grassi) ed una componente idrofilica (costituita dal glicerolo a sua volta
legato ad un gruppo funzionale in questo caso etanolammina).
Cosa succede in ambiente acquoso?
In ambiente acquoso i fosfolipidi si aggregano spontaneamente a formare una
struttura caratteristica detta bilayer fosfolipidico ovvero una struttura a doppio strato in cui le catene di
acidi grassi guardano all’interno le une verso le altre costituendo la regione idrofobica, mentre le porzioni
idrofiliche rimangono esposte all’ambiente esterno da un lato e al citoplasma dall'altro.
La membrana citoplasmatica è un entità fluida e con una consistenza simile a quella di un olio a bassa
viscosità.
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Un’unità di membrana consiste nel doppio strato fosfolipidico più le numerose proteine inserite al suo
interno. Le proteine possono essere:
Proteine integrali fermamente inserite nel doppio strato.
Proteine che hanno una porzione ancorata nelle regioni di membrana
ed extra membrana e che possono essere esposte verso l'esterno o
verso l'interno della cellula.
proteine periferiche che non sono inserite nel doppio strato ma sono
associate alla superficie di membrana (es. le lipoproteine che contengono una coda lipidica che
consente l'ancoraggio alla membrana).
Le proteine di membrana sono associate in cluster che è una strategia che permette
a queste proteine di interagire fra di loro.
Queste proteine svolgono delle funzioni fondamentali per la crescita e il
metabolismo della cellula procariotica e per poter svolgere nella maniera più
efficace e le loro funzioni queste si organizzano in cluster.
La membrana citoplasmatica dei e batteria ha una struttura assolutamente analoga a quella delle cellule
eucariotiche.
Le strutture fondamentali del fosfolipide di membrana dei batteri e delle cellule eucariotiche sono
caratterizzata dalla presenza di una glicerolo fosfato legato ad acidi grassi mediante legame estereo.
La situazione è diversa invece per le cellule degli Archea in cui si possono notare delle differenze
fondamentali una differenza è che le membrane degli Eukarya sono emerse rispetto alle membrane dei
batteria e delle cellule eucariotiche.
Un’altra differenza riguarda I lipidi di membrana che, negli Archea, a differenza di quelle dei Batteria in cui
sono legati ad esteri, hanno legami con l’etere tra il glicerolo e le catene idrofobiche laterali.
Un’altra particolarità dei fosfolipidi di membrana degli Archea è che le loro catene laterali non sono acidi
grassi come nei fosfolipidi dei batteri e degli eucarioti ma sono unità ripetute di isoprene.
L’isoprene è un idrocarburo a 5 atomi di carbonio.
In funzione del numero di unità di fosfolipidi si possono formare dei bilayer, monolayer lipidici o la
combinazione di entrambi.
Quindi noi qui possiamo avere delle catene laterali di lipidi (che vengono indicate con la lettera R) degli che
possono contenere una o più unità di isoprene e a seconda del numero di unità di Isoprene di cui sono
formate queste catene laterali possiamo avere dei bilayer o monolayer o una combinazione di entrambi.
In generale possiamo dire che le membrane organizzate sotto forma di monolayer sono più resistenti allo
stress ambientali in particolare e alle alte temperature e sono quindi ampiamente distribuite tra gli
organismi capaci di sopravvivere al di sopra degli 80 gradi
LE FUNZIONI DI QUESTA E MEMBRANA CITOPLASMATICA
La membrana citoplasmatica gioca tre ruoli fondamentali nella cellula:
1. Funzione di barriera semipermeabile in quanto previene la diffusione di gran
parte delle sostanze specialmente molecole polari cariche (persino ioni di
piccole dimensioni come H+)
E d'altra parte permette la diffusione di piccole molecole idrofiliche e di acqua.
Le molecole per la quale è permeabile di solito passano attraverso diffusione
passiva secondo gradiente di concentrazione.
2. Funzione di ancoraggio di proteine quindi funzione di trasporto
Le proteine di trasporto sono ancorate alla membrana citoplasmatica e consentono di accumulare
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soluti all’interno della cellula contro gradiente di concentrazione cioè è
permettono il cosiddetto trasporto attivo.
Quindi nel primo caso quando abbiamo considerato la caratteristica della
permeabilità abbiamo visto passaggio di acqua e di piccole molecole idrofiliche
secondo gradiente di concentrazione mentre in questo caso abbiamo parlato di
diffusione passiva.
Le proteine di trasporto presenterò tre caratteristiche fondamentali:
1. L'effetto di saturazione ovvero se la concentrazione del substrato del soluto supera un
certo valore che definiamo critico il trasportatore si satura e in seguito alla saturazione la
velocità di up take si massimizzerà.
Quindi l'effetto è dovuto al fatto che la concentrazione di substrato supera un valore
critico ed il trasportatore una volta saturato non è più in grado di legare altre molecole.
2. L’elevata specificità nel senso che queste proteine di trasporto possono interagire con una
singola molecola o una classe di molecole strettamente correlate (per esempio proteine di
trasporto deputate all’up take di aminoacidi che possono essere in grado di captare e
interagire con diversi aminoacidi ma sempre nell'ambito della classe aminoacidi)
3. Ampia regolazione cioè la loro biosintesi è finemente regolata dalla disponibilità della
risorsa e dalla sua concentrazione
La regolazione di queste proteine è anche suscettibile alla concentrazione ovvero più alta è
la concentrazione nella sostanza nutritiva e maggiore è la velocità di biosintesi di queste
proteine di trasporto.
3. Funzione di conservazione di energia, infatti in prossimità della membrana si
realizza una separazione di cariche che consiste nella separazione di cariche
positive (i protoni H+) che si concentrano all'esterno della cellula e ioni
idrossili (OH‐) carichi negativamente all’interno.
Questa separazione crea una forza protonmotrice che guida diverse funzioni
cellulari che richiedono energia tipo il trasporto, la motilità e la biosintesi di ATP.
Il grafico si riferisce alla seconda funzione, quella e dell’ancoraggio delle proteine di trasporto e descrive
graficamente la capacità delle proteine di andare a saturazione.
La diffusione semplice è rappresentata dalla linea rossa e il trasporto è rappresentato dalla linea verde.
In ordinata è riportata il tasso di soluto in entrata e in ascissa la concentrazione esterna
del soluto.
Nella diffusione passiva che è rappresentata dalla linea rossa la velocità di entrata del
soluto è direttamente proporzionale alla concentrazione esterna di soluto, nel trasporto
attivo invece che è rappresentato dalla linea verde vedete che la e velocità di entrata del soluto
aumenta e contemporaneamente aumenta la concentrazione del soluto fino ad un
valore critico (dove indica la freccia) che è il valore al quale il trasportatore viene
saturato ed è la velocità massima che si raggiunge di up take del soluto.
Quando viene raggiunto il valore critico se noi continuiamo ad aumentare la concentrazione del soluto la
velocità di entrata del soluto rimane costante .
Dal grafico di può notare che l'efficacia con la quale l’up take del soluto avviene è molto maggiore nel
trasporto attivo perché si raggiungono delle velocità di entrata del soluto molto maggiori.
SISTEMI DI TRASPORTO
Il trasporto dei nutrienti è un processo vitale per la cellula utile ad alimentare il metabolismo e supportare
la crescita cellulare le cellule necessitano di importare nutrienti dall'ambiente esterno per sfornare prodotti
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di rifiuto.
Abbiamo definito la cellula come un sistema aperto in continuo scambio con l'ambiente esterno infatti le
cellule in continuo necessitano di importare nutrienti e in continuo devono buttare fuori i prodotti di
rifiuto.
Per soddisfare queste esigenze, i nutrienti utilizzano tre diversi sistemi di trasporto:
1. Il trasporto semplice è guidato dall’energia prodotta dalla forza protonmotrice.
2. La traslocazione di gruppo avviene mediante modificazione chimica della
sostanza trasportata (viene fosforilata) guidata dal fosfoenolpiruvato.
3. Il trasportatore ABC coinvolge proteine di legame periplasmatiche e l'energia
viene dall’ATP.
Analizziamo ciascuno di questi meccanismi:
Il trasporto semplice è mediato da una proteina di trasporto che va verso la membrana e per
attraversarla intervenire una proteina costituita da 12 α‐eliche che si aggregano a formare un
canale lungo la membrana.
Il trasporto semplice può essere di tre tipi: uniporto in cui le molecole
sono trasportate unidirezionalmente attraverso la membrana, simporto
in cui vengono trasportate una molecola insieme ad un’altra sostanza
nello stesso verso (tipicamente H+) e antiporto in cui una molecola viene
trasportata in un verso mentre un’altra molecola viene trasportata nel
verso opposto attraverso la membrana.
Un esempio di trasporto semplice che avviene nelle cellule batteriche è quello portato avanti
dall’enzima Lac permeasi di E. Coli, in grado di metabolizzare il disaccaride lattosio.
Il primo step per l’utilizzo del lattosio è il suo assorbimento all’interno della cellula, nel
metabolismo del lattosio è fondamentale l’azione dell’enzima lac permeasi che permette al lattosio
di entrare.
La lac permeasi è un trasportatore semplice che funziona con meccanismo di simporto,
contemporaneamente al passaggio di lattosio, vi è il passaggio di un protone. L’attività della lac
permeasi utilizza energia che deriva dalla forza motrice protonica, per ogni molecola di lattosio che
entra di nella cellula vie è il cotrasporto di un protone che determina la riduzione del gradiente
protonico che si realizza a cavallo della membrana.
Ma possono esserci altri esempi di trasportatori semplici che sono riportati in figura per esempio il
simporter del solfato, per portare dentro una molecola di solfato in questo caso come per quello
che abbiamo visto prima ed il cotrasporto simultaneo di ioni H+ e anioni fosfato.
Per quanto riguarda invece la pompa sodio‐H+ il
meccanismo utilizzato è un antiporto quindi
questo caso parliamo di uno ione (Na+) che viene
trasportato fuori mentre l’antiporter permette ad
un protone (H+) di entrare all’interno.
La traslocazione di gruppo è una forma di trasporto in cui
la sostanza trasportata è chimicamente modificata durante il suo passaggio attraverso la
membrana.
Uno dei sistemi di traslocazione più studiati è il sistema di trasporto degli zuccheri semplici come
glucosio mannosio e fruttosio sempre in E. Coli (che è un organismo microrganismo modello
estremamente studiato e utile per poter comprendere moltissimi meccanismi).
Questi zuccheri vengono modificati per fosforilazione durante il loro trasporto da un sistema di
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fosfotransferasi (un sistema che consiste in una famiglia di proteine che lavorano in gruppo)
Il meccanismo del sistema di fosfotransferasi rappresentato nella figura consiste quindi di 5
proteine.
La prima proteina definita enzima uno (Enz I), la seconda è una HPr, la terza enzima due a (Enz IIa)
poi enzima due b (Enz IIb) ed enzima due c (Enz IIc).
Cosa si verifica in questo sistema di fosfotransferasi?
Si verifica una cascata a partire dal
fosfoenolpiruvato (PE‐P) e termina con l’enzima due c
(Enz IIc) che trasporta e fosforila lo zucchero.
Questa cascata di fosforilazione parte dal primo enzima fino ad
arrivare alle all'ultimo della catena e porta lo zucchero all'interno della cellula.
L’enzima uno e HPR non sono componenti specifiche per il trasporti un determinato mentre gli
ultimi due sono la componente specifica della catena.
Un altro aspetto importante è la localizzazione cellulare di quesiti diversi enzimi ovvero l’enzima 1,
l’HPr, l’enzima due a e il b sono citoplasmatici mentre l’enzima 2 c è una proteina integrale di
membrana.
Sistema di trasporto ABC (ATP binding cassette) è un sistema in cui sono coinvolte delle proteine di
legame che di plasmatico e l'energia verità dall' idrolisi è costituito da 3 componenti: una proteina
di membrana periplasmatica che si trova nel periplasma (che è una
struttura peculiare dei batteri gram‐, è lo spazio compreso fra la
membrana cellulare e la membrana esterna) ed ha alta affinità per il
substrato, una proteina che attraversa la membrana che funge da canale (un
poro per cui il substrato captato viene veicolato verso l’interno della
cellula) e la proteina che idrolizza l’ATP (una proteina citoplasmatica che fa
si che due molecole di ATP vengano scisse liberando energia che permette
di far passare dei componenti dall’esterno all’interno della cellula).
D’altra parte sono stati identificati dei sistemi di trasporto anche nei batteri gram+ ed in questi la
proteina di membrana a contatto col substrato al posto di trovarsi nel periplasma si trova ancorata
alla superficie esterna citoplasmatica.
In aggiunta ai tre sistemi di trasporto descritti nella membrana della cellula procariotica è presente un altro
sistema di trasporto che permette l’export di proteine.
Molte proteine sintetizzate dalla cellula devono essere infatti trasportante fuori dalla membrana
citoplasmatica e inserite in modo adeguato nelle bilayer lipidico della membrana in modo da azionare
correttamente i procarioti che possiedono un sistema di secrezione deputato proprio alla secrezione di
proteine e all'inserimento di proteine integrali di membrana nel bilayer fosfolipidico della membrana stessa
Quali sono le proteine che vengono esportate da questo sistema secretorio?
Sono fondamentalmente dei due tipi Esoenzimi ed Enzimi periplasmatici (amilasi, cellulasi, proteasi)
Gli esoenzimi sono solitamente proteine che vengono secrete dalla membrana da parte di batteri gram
positivi mentre gli enzimi periplasmatici sono gli enzimi che vengono sintetizzati a livello del citoplasma e
vengono poi spinti fuori dalla membrana plasmatica in modo tale che possano e localizzarsi a livello dello
spazio periplasmatico dei batteri gram negativi ( che è quello spazio compreso tra la membrana
citoplasmatica e la membrana esterna).
Altre proteine che vengono esportate da sistema secretorio sono le Tossine: proteine che espletano
l’attività tossica.
Continuiamo la descrizione delle componenti cellulari batteriche parlando della Parete cellulare:
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Le funzioni della parete cellulare dei batteri sono principalmente due:
1. Protegge la cellula contro la lisi osmotica mi impedisce di osmotica
2. Conferire forma e rigidità alla cellula
I batteri abbiamo vengono classificati in due grandi gruppi proprio in funzione di quella che è la struttura
della parete cellulare batterica.
E questi in funzione alle diverse caratteristiche della parete rispondono diversamente ad una specifica
colorazione.
I due gruppi sono:
1. ba eri gram posi vi→ Hanno una spessa parete cellulare che si colora di viola
questa figura rappresenta la diversità delle strutture superficiali dei batteri gram+ e gram‐.
Nella figura A abbiamo un diagramma schematico della parete dei batteri gram positivi mentre nella figura
B di quelli gram negativi con un particolare focus sulla parete cellulare.
Mentre nelle immagini C e D abbiamo delle micrografie ottenute con microscopio elettronico a
trasmissione (STE) sempre della parete cellulare dei batteri gram positivi e le batterie e gram negativi.
‐Andiamo a evidenziare le differenze tra i batteri due batteri, consideriamo per primi i batteri gram+, nei
quali, esternamente alla membrana citoplasmatica c’è una parente cellulare molto spesso costituita da più
strati di peptidoglicani che sono il costituente fondamentale della parete
‐La struttura di superficie dei batteri gram‐ si trova sempre esternamente alla
membrana.
E’ una parete cellulare molto sottile di cui un esempio classico esempio è E.
coli, costituita da una catena di peptidoglicano (simile ai gram+) che è
sempre costituente fondamentale della parete cellulare.
esternamente alla parete cellulare esclusivamente nei batteri gram negativi
vi è un'ulteriore struttura che è definita membrana esterna.
Lo spazio e lo spazio periplasmatico o periplasma è lo spazio compreso fra le
2 membrane (citoplasmatica e membrana esterna)
Andiamo a considerare nel dettaglio la struttura del peptidoglicano che abbiamo detto
essere il costituente fondamentale della parete cellulare.
Chimicamente il peptidoglicano è un polisaccaride costituito da due zuccheri derivati (N‐
acetilglucosammina e acido N‐acetilmuramico) e qualche amminoacido (L‐alanina, D‐
alanina, acido D‐glutammico, lisina, acido diaminopimelico (DAP).
Questi costituenti sono legati per formare una struttura che si ripete nel filamento di
peptidoglicani.
Questa struttura che si ripete è definita Tetrapeptideglicano
Più di dettaglio in un Tetrapeptideglicano possiamo osservare una molecola di N‐acetilglucosammina che è
legata a una molecola di acido N‐acetilmuramico mediante un legame β (1,4) classico.
Esaminando più dettagliatamente i vari legami tra i diversi costituenti delle glicoproteine L’acido N‐
Acetilmuramico è a sua volta legato agli amminoacidi che in escherichia coli per esempio sono l’Alanina,
acido D‐Glutammico, l’acido Diaminopimelico e la D‐Alanina (struttura caratteristica tipica del
Tetrapeptideglicano di escherichia coli)
Le lunghe catene di peptidoglicani sono connesse le une alle altre per formare una struttura compatta che
avvolge la cellula.
Ciascun singolo filamento di peptidoglicano è costituito da unità ripetute della nostra e del nostro
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tetrapeptideglicano.
Le catene adiacenti sono connesse tra loro tramite legami crociati tra amminoacidi che possono essere di
diverso tipo in base alla specie batterica:
o Nei gram negativi avviene tra il gruppo NH2‐ del DAP di una catena di
glicani al gruppo COOH‐ della D‐Alanina terminale nella catena
adiacente.
Il legame crociato in questo caso è mediato da un ponte fisico che
connette gli amminoacidi delle catene di peptidoglicani adiacenti
o Nei gram positivi, il collegamento crociato avviene attraverso un breve
inter‐ponte costituito da un numero variabile di aminoacidi che connette
pratica i due filamenti (il genere e il numero di amminoacidi varia in funzione la specie batteriche)
G, N‐acetilglucosammina; M, acido N‐acetilmuramico; I legami glicosidici conferiscono rigidità alla struttura
nella direzione X, mentre i legami peptidici conferiscono rigidità nella direzione Y della parete.
I Peptidoglicani possono essere distrutti da diversi agenti tra cui:
Il lisozima, enzima che spezza il legame β‐1,4‐glicosidico tra N‐acetilglucosammina e acido N‐
acetilmuramico, e permette all'acqua di entrare nella cellula causando una lisi. Il Lisozima si trova in molte
secrezioni animali per esempio nella saliva, nelle lacrime ed in altri fluidi corporei e rappresenta quindi la
prima linea di difesa contro le infezioni batteriche proprio perché ha un'azione specifica nei confronti e dei
legami.
La Penicillina, antibiotico che va ad interferire con la biosintesi dei peptidoglicani e va ad interagire con il
peptidoglicano già formato.
I Peptidoglicani sono presenti solo in specie del dominio batteria
In essi è inusuale la presenza degli zuccheri N‐Acetilmuramico, la D‐Alanina e l’acido D‐Glucamico (non solo
stati infatti ritrovati nelle pareti cellulari di Archea e Bacteria.
Esiste una grande varietà di peptidoglicani (sono conosciuti più di 100 differenti peptidoglicani).
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Vediamo di descrivere un po' più dettagliatamente la parete cellulare dei batteri gram positivi.
Per il momento ci siamo soffermati sulla descrizione dettagliata della struttura del peptidoglicano che è
costituente fondamentale della parete cellulare i batteri gram positivi e negativi e abbiamo visto come la
struttura si differenza nei batteri gram positivi batteri gram negativi e soprattutto per quanto riguarda il
legame di trasformazione che è legame cross‐link fra i diversi filamenti adiacenti.
La parete cellulare dei batteri gram positivi e costituita da diversi strati di peptidoglicano presente per più
del 90% nella parete cellulare dei batteri gram positivi, quindi ha uno spessore e
significativamente maggiore rispetto allo spessore della parete cellulare dei batteri gram
negatici.
Però oltre ai peptidoglicani sono presenti altri costituenti: acidi teoici (componente acida
incorporata nella parete cellulare) ovvero proteine di parete e acide.
Andiamo a descrivere un più nel dettaglio la struttura degli acidi teoici: essi sono i
polialcoli composti da glicerolo fosfato o ribitolo fosfato (nel caso dell'esempio riportato
nell’immagine il polialcol è un ribitolo fosfato); in virtù della presenza dei due gruppi
fosfato (nel caso specifico di questo esempio abbiamo il ribitolo legato a due gruppi
fosfato) sono carichi negativamente e quindi sono in parte responsabili della carica
negativa della superficie cellulare.
Gli acidi teoici contengono zuccheri o D‐alanine e sono covalentemente legati all’acido
muramico nella parete di peptidoglicani (sono quindi saldamente ancorati alla parete da un forte legame).
Gli acidi teoici sono caricati negativamente e legano Ca2+ e Mg2+ per trasportarli all’interno della cellula.
Degli acidi teoici fanno parte gli acidi Lipoteoci che sono quelli covalentemente legati alle membrane
lipidiche.
Quali sono gli organismi che non possiedono la parete cellulare?
Questi organismi sono due: Microplasmi e Termoplasmi.
I Microplasmi sono un gruppo di batteri patogeni responsabili di diverse patologie infettive nell'uomo e in
altri animali (Es. mycoplasma genitalium responsabile di infezioni genitali a trasmissione sessuale)
I Termoplasmi sono appartenenti al gruppo degli Archea.
Questi organismi riescono a sopravvivere in assenza di parente per due motivi: (1) un motivo è che
contengono una membrana citoplasmatica molto robusta e spesso costituita Steroli che e conferiscono
rigidità e resistenza e l'altro motivo (2) per cui è possibile che questi microrganismi vivano senza parete
cellulare è che solitamente essi vivono in habitat osmoticamente protetti (Es. il corpo umano).
Andiamo ora a studiare la membrana esterna, abbiamo detto che nei
batteri gram negativi la parete cellulare è molto sottile
che può essere costituita da un singolo strato
inferiore o pochi strati di peptidoglicani e che le
componenti della parete di gram+ e gram‐ sono
le stesse.
Esternamente alla parete cellulare (verso
l’interno della cellula) è presente una struttura
peculiare dei batteri gram‐ che è la membrana
esterna.
I componenti della membrana esterna sono:
le porine→ formate da tre pori che perme ono appunto il passaggio di materiale e quindi hanno
funzione di canale.
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Delle proteine con funzione di trasporto
Le lipoproteine→ con funzione di ancoraggio dei lipopolisaccaridi al pep doglicano.
Lo spazio periplasmatico o periplasma è lo spazio è compreso fra le 2 membrane (membrana esterna e
membrana citoplasmatica) e contiene diverse proteine presenti a livello dello spazio esterno.
Lo spazio periplasmatico è spesso circa 15 nm ed è un gel che contiene enzimi idrolitici (come l’amilasi o la
cellulasi) che iniziano la degradazione di molecole nutritive captate dalla all’esterno dalla membrana
esterna.
Sempre a livello dello spazio periplasmatico sono presenti proteine di legame (es. proteina periplasmatica)
coinvolte nel processo di trasporto dei substrati e più nello specifico coinvolte nel tipo di trasporto “abc”.
Nel periplasma sono anche presenti chemiorecettori.
Lo spazio periplasmatico ha un’importanza fondamentale per la fisiologia e per le attività metaboliche delle
cellule batteriche gram‐.
Alcune classi di proteine che svolgono delle importanti funzioni nel periplasma (gli enzimi idrolitici, le
proteine di legame) raggiungono la regione del periplasma dopo essere state sintetizzate a livello del
citoplasma grazie al sistema secretorio.
Facciamo un focus sulla chimica e l'attività del costituente fondamentale della membrana ovvero il
lipopolisaccaride.
La struttura del lipopolisaccaride LPS della membrana esterna
dei batterie
Il lipopolisaccaride è costituito da: (1) una porzione polisaccaridica O‐
specifica (così chiamato perché varia enormemente fra le diverse specie batteriche) formata da zuccheri
(quali Glucosio, Galattosio, Ramnosio e Mannosio, connessi in sequenze ripetute di 4 o 5 unità spesso
ramificate) e (2) dal core polisaccaridico, definito core perché è conservato fra le diverse specie batteriche
(costituito da KDO, Hep, Glu, Gal, Glu‐Nac) infine (3) un’opzione lipidica anche definita lipide A ovvero un
disaccaride formato da due unità di glucosammina‐fosfato legate ognuna a due molecole di acidi grassi (tra
cui i più rappresentati sono l'acido caproico, l'acido laurico, l'acido miristico, l'acido palmitico e l’acido
stearico).
Il lipide A è anche detto endotossina ovvero una molecola tossica tipica dei batteri gram‐ che viene
rilasciata in seguito alla lisi della cellula e costituisce una barriera che limita l'azione degli antibiotici.
Dopo questa spiegazione risulta più chiaro il motivo per cui risposta alla colorazione di gram è diversa tra
batteri gram+ e batteri gram‐ ovvero è una diretta conseguenza della diversa struttura della parete
cellulare.
Nella colorazione di gram, infatti, si forma all’interno della cellula batterica un complesso fra il colorante
cristalvioletto e lo iodio; nei batteri gram negativi questo complesso viene estratto con alcool che è in grado
di penetrare rapidamente attraverso i lipopolisaccaridi della membrana esterna e di attraversare il sottile
strato di peptidoglicano della parete.
In seguito all’estrazione con alcool i batteri gram negativi diventano invisibili e vengono poi colorati con un
secondo colorate rosa.
Nei batteri gram positivi la spessa parete di peptidoglicano impedisce all'alcol di entrare e
conseguentemente il complesso di cristalvioletto non viene estratto e la colorazione delle cellule rimane
viola.
La parete cellulare negli archea
Gli archea sono contraddistinti da alcune peculiarità:
Il peptidoglicano, un biomarker chiave dei Batteri, è assente nella parete cellulare degli archea.
La membrana esterna è tipicamente assente negli archea.
Una varietà di composti chimici invece si possono trovare nella parete degli archea inclusi polisaccaridi,
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proteine e glicoproteine.
Allora la parete cellulare di un certo numero di archea e per esempio le specie di methanobacterium
contengono pseudomureina; un polimero strutturalmente molto simile al peptidoglicano.
Vediamo quali sono le caratteristiche della pseudomureina:
Lo scheletro è costituito dall’alternata ripetizione della N‐acetilglucosammina presente
(presente anche nel peptidoglicano) e dell'acido N‐acetiltalosaminuronico e qui la
differenza non è l'acido c'è chi chirale che è anche indicato negli schemi e con la lettera
T.
Avevamo detto che è l'acido N‐acetilmuramico è una molecola caratteristica e peculiare del
peptidoglicano dei batteri infatti nella pseudomureina degli archea abbiamo una
molecola simile ma che presenta alcune variazioni chimiche e strutturali pertanto si
parla di acido N‐acetiltalosaminuronico; questi due derivati glucidici sono legati mediante un
legame glicosidico β 1,3 a differenza del legame β 1,4 glicosidico presente nel
peptidoglicano.
Un'altra importante differenza è che tutti gli aminoacidi della catena laterale al
nostro Archea sono
L‐amminoacidi.
Nella parete cellulare possono essere collocati altri polisaccaridi, i più rappresentati sono i polimeri del
glucosio (acido glucuronico, galattosamina, acido uronico, e acetato).
Gli Archea estremamente alofili sono ben caratterizzati dalla presenza nella parete cellulare dei gruppi
solfato che essendo carichi negativamente legano ioni sodio presenti ad alte concentrazioni nei mari e nei
laghi (questi sono infatti archea in grado di sopravvivere e colonizzare habitat come mari e laghi salati e
quindi presentano una elevata tolleranza al cloruro di sodio e ai Sali).
le endotossine
Le endotossine sono le tossine caratteristiche dei batteri gram‐.
L’endotossina è la componente lipidica del lipopolisaccaride dei batteri gram‐ quindi quando parliamo di
endotossine ci riferiamo a molecole tossiche esclusivamente dei batteri gram‐.
Mentre le esotossine sono proteine che vengono secrete sia da batteri gram+ che da batteri gram‐ e
vengono riversate nel torrente ematico che vanno a raggiungere gli organi bersaglio.
L’esotossine
Le esotossine sono piccole molecole tossiche secreta da batteri G+ e G‐ che possono agire su tessuti
distanti rispetto al luogo di infezione.
Es. Tossina della Difterite: Corynebacterium diphtheriae
Tossina del Tetano: Clostridium Tetani
Tossina del Botulino: Clostridium Botulinum
STRUTTURE SULLA SUPERFICIE CELLULARE
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Molti batteri presentano delle strutture sulla superficie cellulare di natura polisaccaridica e proteica.
Queste strutture non sono considerate parte della parete cellulare perché non hanno il ruolo tipico della
parete cellulare ovvero quello di conferire rigidità alla cellula.
Le principali funzioni di questi polisaccaridi e proteine di superficie sono: l’adesione dei
microrganismi a superfici solide (es. adesione ai tessuti del corpo umano) questa è
caratteristica si riferisce sia a microrganismi patogeni che a microrganismi del microbiota
umano che instaurano nel rapporto di simbiosi con il l'ospite; l'altra funzione di queste
strutture è correlata alla formazione di biofilm.
Una struttura di superficie è la capsula (visibile al TEM), che è costituita da una spessa matrice
polisaccaridica e proteica e esclude la penetrazione anche di piccole molecole.
Le capsule hanno caratteristiche particolari quali: aderiscono fermamente alla parete
cellulare (alcune addirittura covalentemente legate al peptidoglicano), ancora, i batteri
patogeni incapsulati sono in grado di eludere il sistema immunitario più facilmente e dal
momento che la capsula che li avvolge rende più difficile il riconoscimento da parte delle
cellule del sistema immunitario (quindi la capsula nei batteri patogeni rappresenta un elemento di
virulenza); la terza caratteristica è che le capsule assorbono una significativa quantità di acqua quindi
svolgono la funzione di immagazzinamento di liquido.
Esistono anche altre e strutture di superficie per esempio le fimbrie e i pili solo strutture filamentose
proteiche che si estendono dalla superficie cellulare.
Le fimbrie permettono di aderire alle superfici (inclusi i tessuti animali) o di formare pellicole o biofilm sulle
superfici solide.
I pili sono solitamente più lunghi delle fimbrie e solo uno o pochi pili sono presenti sulla superficie una
cellula (mentre sulla superficie della cellula possono essere presenti più fimbrie).
I pili esercitano alcune importanti funzioni: i pili facilitano lo scambio di materiale genetico nel processo di
coniugazione e la seconda funzione è che nel caso di batteri patogeni i pili permettono l’adesione e
l'invasione del tessuto dell’ospite, la terza funzione infine riguarda i pili di tipo VI che sono coinvolti in una
forma inusuale di motilità detta motilità contratta.
I granuli e le altre inclusioni sono spesso presenti nelle cellule procariote.
Le inclusione funzionano come riserve di energia o riserve di costituenti cellulari.
I polimeri di immagazzinamento di carbonio sono un tipo di inclusione cellulare e tra questi
ricordiamo:
o L’acidopoliidrossibutiruci (indicato con la sigla PH) che è un lipide formato
da unità di acido idrossibutirrico legate mediante legami esterei.
Il polimero aggrega spontaneamente a formare granuli insolubili.
o Il glicogeno, un’altra forma di immagazzinamento del carbonio, che è un polimero del
glucosio.
Quindi l'acido polidrossibutirico ed il glicogeno sono sintetizzati dalle cellule quando c'è un eccesso
di carbonio.
Quindi il carbonio viene recuperato e conservato sotto forma di questi polimeri di
immagazzinamento che vengono degradati per scopi biosintetici ed energetici quando la fonte di
carbonio è limitata.
Un’altra forma di immagazzinamento e riserva che costituiscono le inclusioni cellulari sono i
polifosfati e il solfuro.
Molti microrganismi accumulano il fosfato inorganico in forma di granuli di polifosfato che possono
essere degradati e usati come fonte di fosfato per diverse finalità (ovvero la biosintesi degli acidi
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nucleici, la biosintesi dei lipidi di membrana e la formazione di ATP); quindi è importante avere dei
grandi polifosfato in modo tale da avere una riserva di fosfato.
Molti batteri gram‐ accumulano anche zolfo allo stato ridotto come acido solfidrico o zolfo
elementare in granuli (visibili al microscopio).
Appena la fonte di zolfo diventa limitante, lo zolfo presente in questi granuli viene ossidato a
solfato (SO42‐) e i granuli scompaiono col procedere di questa reazione.
ENDOSPORE
Le endospore sono ulteriori strutture tipiche delle cellule procariotiche.
Alcune specie di batteri producono strutture chiamate endospore durante un processo chiamato
sporulazione.
Le endospore (visisbili anche con miscorscopia ottica) sono cellule altamente differenziate, estremamente
resistenti alle condizioni di stress. Le endospore funzionano come istruttore di sopravvivenza e permettono
all’organismo di sopportare condizioni di crescita estremamente sfavorevoli (quali temperature estreme,
disidratazione, scarsità di sostanze nutritive ed esposizione ad agenti tossici e radiazioni).
Le endospore rappresentano uno stadio quiescente del ciclo vitale batterico.
In condizioni di stress la cellula vegetativa può trasformarsi in endospora, la quale, può tornare allo stadio
vegetativo nel momento in cui migliorano le condizioni di stress .
La figura mostra endospore batteriche in diverse specie batteriche
in diverse specie.
Nell’immagine abbiamo tre tipi di endospore (cerchietti bianchi): (1)spore
terminali che si trovano all'estremità della cellula, (2) spore subterminali
cioè vicine alle estremità della cellula e (3)spore centrali.
Un tipico esempio di batteri sporigeni è rappresentato dai membri del
genere bacillus.
Durante la formazione dell’endospora una cellula vegetativa è convertita in una struttura non replicativa
resistente a varie forme di stress.
La sporulazione incomincia quando diventa limitante per esempio un nutriente chiave (es. una fonte
carbonata o una fonte azotata).
Una volta che si è formata, l’endospora, può rimanere quiescente per periodi di tempo molto lunghi perché
magari le condizioni ambientali rimangono sfavorevoli ma può anche velocemente riconvertirsi in cellula
vegetativa sempre in relazione ad un cambiamento delle condizioni ambientali.
Nell’immagine c’è la cellula vegetativa (tipicamente è una cellula a forma di bastoncino)
all’interno della quale si può sviluppare l’endospora la quale poi nel processo di sporulazione e
diventa matura e persiste nell’ambiente per un periodo di tempo che dipende dal
cambiamento o meno delle condizioni ambientali.
La converse di un endospora a cellula vegetativa prevede tre passaggi:
1. L'a vazione→ avviene quando le cellule sono scaldate a temperature elevate ma subletali in
presenza di specifici nutrienti per esempio aminoacidi
2. La germinazione→ un processo rapido cara erizzato dalla perdita della resistenza al calore e le
sostanze chimiche
3. Crescita→ spesso cara erizzata da un rigonfiamento dovuto all’acquisizione di acqua e alla
sintesi di DNA, RNA e proteine.
Quindi la cellula vegetativa riemerge dalla spora e ricomincia a crescere.
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La struttura dell’endospora vista al microscopio si evidenzia come struttura fortemente rifrangente
(nell’immagine precedente endospore viste come formazioni rotonde traslucide bianche e luminose).
Le endospore sono impermeabili e la maggior parte dei coloranti pertanto vengono visualizzate come
regioni non colorate all’interno della cellula che magari è stata colorata con colorante basico (es. blu di
metilene).
La struttura dell’endospora si differenza dalla struttura della cellula vegetale.
Le endospore sono strutturalmente più complesse delle cellule vegetative infatti presentano più stati
sovrapposti che sono assenti nella cellula vegetativa.
A partire dallo stato più esterno fino ad arrivare alla parte più interna dell’endospora troviamo:
Una sostanza caratteristica dell’endospora che non è presente nella cellula vegetativa è l’acido dipicolinico
(DPA) che si accumula nel core e rappresenta il 10% del peso secco dell’endospora.
L’acido dipicolinico per la presenza dei due gruppi carbossilici legati all'anello aromatico è in
grado di complessarsi mediante legame ionico con lo ione calcio (di cui è ricca la spora.
Il complesso DPA‐Calcio (DPA‐Ca2+)svolge alcune funzioni importanti: (1) lega l'acqua libera
favorendo la disidratazione e (2) DPA‐Ca2 si va ad intercalare nel DNA stabilizzarlo e proteggendolo da una
denaturazione termica.
La presenza di acido dipicolinico non è l’unico motivo per cui il core dell’endospora differisce dalla cellula
vegetativa da cui proviene.
Il core dell’endospora matura contiene solo il 10‐25% di acqua rispetto alla cellula vegetale (grazie a DPA‐
Ca2+) e questo basso contenuto di acqua conferisce disidratazione per cui la consistenza del citoplasma del
core è di un gel e non un liquido come nella cellula vegetativa.
Ancora, la disidratazione del core conferisce resistenza al calore fino a 110 °C nella maggior parte dei casi e
ad agenti chimici (es. perossido di idrogeno un elemento che agisce da antibatterico per la cellula
vegetativa ma non ha alcun effetto sull’endospora).
Un'altra caratteristica del core dell’endospora è che gli enzimi cellulare diventano inattivi e che il PH del
core è inferiore di circa un’unità rispetto al PH del citoplasma della cellula vegetale.
Una caratteristica peculiare del core dell’endospora è la presenza di elevati livelli di piccole proteine acido
solubili (le SASPs, le small acid‐soluble protein); queste proteine sono prodotte durante la sporulazione e
svolgono due ruoli e funzioni principali: queste SASPs si legano al DNA nel core e lo proteggono dalle
radiazioni ultraviolette e dalla mancanza di acqua quindi dalla distruzione e la seconda funzione è quella di
fonti di carbonio ed energia per la crescita della cellula vegetativa dall’endospora durante il processo di
germinazione.
La sporulazione è una complessa serie di eventi nella differenziazione cellulare
I cambiamenti strutturali che è si verificano nella sporulazione sono presentati in questa figura
Il microorganismo modello in cui è stato studiato e carezzato questo processo e Bacillus subtilis batterio
gram positivo sporigeno.
Non tutti i batteri compiono sporulazione, soltanto e alcuni batteri gram positivi in modo particolare batteri
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appartenenti al genere Bacillus.
Il ciclo di sporulazione prevede 7 fasi:
1. La prima fase è la divisione cellulare asimmetrica
2. La fase due è la formazione di una prespora (colorata in verde) separata dalla cellula madre (rosa)
3. fase tre si chiama inghiottimento della prespora nella cellula madre
4. Fase quattro è la formazione della corteccia (struttura in giallo)
5. La fase cinque prevede la formazione del mantello, l’up take
degli ioni calcio che poi si complessano all’acido dipicolinico
e la sintesi e l’accumulo dell’acido dipicolinico e delle
proteine SASP
6. Poi abbiamo le fasi sei e sette che corrispondono alla
maturazione della endospora e alla lisi cellullare.
A questo qua questo punto siamo arrivati e alla formazione dello endospora
libera che in funzione delle condizioni ambientali può nuovamente andare incontro a germinazione
e trasformarsi in cellula vegetativa (che poi può andare incontro a divisione cellulare e quindi può
cominciare un processo di crescita cellulare) oppure se le condizioni ambientali non sono favorevoli
l’endospora libera rimane tale anche per periodi di tempo molto lunghi
L’intero ciclo di sporulazione chiede circa 8 ore calcolando il Bacillus subtilis e si stima che siamo coinvolti in
questo processo più di 200 geni specifici.
Circa 20 generi di batteria formano il endospore tra cui i più conosciuti sono i Bacillus
Noi abbiamo descritto il processo di sporulazione in Bacillus subtilis ma tutti i generi di batteri condividono i
principi generali di questo processo di sporulazione.
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MOTILITA’ MICROBICA
Molte cellule microbiche sono in grado di muoversi in maniera autonoma.
La motilità permette alle cellule di raggiungere diverse parti del loro ambiente.
Qual è l'obiettivo del movimento? Il movimento rappresenta un vantaggio per la cellula in quanto le
consente di avvicinarsi verso nuove opportunità e risorse (Es. grazie alla motilità le cellule sono in grado di
approssimarsi verso risorse nutritive) e nello stesso tempo allontanarsi da altre sostanze tossiche.
Ci sono due principali tipi di movimento cellulare: la motilità swimming e la motilità gliding.
Molti procarioti sono mobili in virtù della motilità swimming (motilità natante) che resa possibile
dalla presenza di uno o più flagelli. Quindi la struttura cellulare che rende possibile questo tipo di
motilità è il flagello ce, compiendo un movimento rotatorio , spinge la cellula avanti o indietro in
un mezzo a liquido.
I flagelli sono appendici lunghe e sottili, libere da un lato mentre dall'altro lato sono attaccate alla
cellula.
I flagelli si possono osservare al microscopio elettronico e possono essere attaccati alla cellula in
differenti modi: possiamo avere una flagellazione polare quando il i tuoi gemelli
sono attaccati a una o entrambe le estremità della cellula (nel caso della figura B
abbiamo un flagello legato ad una estremità della cellula); possiamo avere una
flagellazione peritrica (nella figura A) quando i flagelli sono inseriti in punti diversi
intorno alla superficie cellulare a formare una specie di raggiera; infine il terzo tipo di
flagellazione è la flagellazione lofotrica (figura C) quando un gruppo di flagelli qualcuno emerge
da una estremità cellulare.
I FLAGELLI hanno forma elicoidale, la parte esterna rispetto alla cellula batterica si chiama
filamento ed è costituito da tante coppie di una proteina specifica (la flagellina).
La flagellina e altamente conservata nella sequenza amminoacidica delle diverse specie
batteriche quindi non abbiamo variazioni della sequenza amminoacidica in funzione della
tassonomia (tutte le specie batteriche presentano lo stesso tipo di flagellina).
La base del flagello esterno è chiamato gancio ed è strutturalmente differente dal filamento.
Il gancio consiste di un singolo tipo di proteina e ha la funzione di connettere il filamento alla
porzione che si chiama corpo basale che funziona da motore e che è interno alla cellula.
L’immagine descrive la struttura di un progetto in battello gram‐ quale può essere Escherichia
Coli.
Andiamo ad analizzare la figura:
Si possono osservare il filamento, che protende dalla superficie cellulare ed è
costituita da flagellina, il gancio e il corpo basale che è incastonato nella
struttura di superficie del batterio gram‐ e va dalla membrana esterna alla
membrana citoplasmatica.
Focalizziamo la nostra attenzione sul motore (basal body)
Il motore consiste di un asta centrale che passa attraverso tre anelli.
Quest’asta centrale e attraversata (rappresentata col colore giallo) è
attraversata da un canale che permette il passaggio della flagellina
(sintetizzata a livello del citoplasma) che va a raggiungere il filamento del
flagello essendo essa la proteina fondamentale costitutiva del flagello.
L’asta centrale attraversa una serie di anelli:
L‐ring (rosso) questo è l'anello più esterno ed è ancorato al lipopolisaccaride
della membrana esterna (stiamo parlando esclusivamente di batteri gram‐
che possiedono tutti la membrana esterna).
P‐ring (azzurro/blu) che ancorato nel peptidoglicano della parete cellulare.
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MS‐ring (giallo) che è inserito nella membrana citoplasmatica.
C‐ring (sempre giallo) che è localizzato a livello del citoplasma in prossimità del lato interno
della membrana citoplasmatica. Nonostante questo sia attraversato dall’asta centrale, non si
vede perché circondata da proteine.
continuiamo con la descrizione del nostro e motore altri costituenti fondamentali del corpo basale
sono due tipi di proteine: le proteine Mot rappresentano il motore vero e proprio che fa partire il
movimento del flagello; queste proteine Mot sono ancorate alla membrana citoplasmatica ed
attraversano i bilayer fosfolipidico in prossimità dei due anelli più esterni (quindi di MS‐ring e il C‐
ring); poi ci sono le proteine Fli che hanno la funzione di “spegnere” il motore, queste proteine si
trovano tra l’MS‐ring e il C‐ring.
MOVIMENTO FLAGELLARE la rotazione del è impartita dal corpo
basale( che rappresenta il nostro motore)
L'energia necessaria al movimento deriva dalla forza proton‐motrice
che a sua volta è determinata dalla separazione di cariche (ioni H+
concentrati all'esterno e ioni OH‐ concentrati all’interno)
Il modello turbina protonica è stato proprio proposto per spiegare la rotazione del flagello
da un punto di vista fisico e meccanico.
Il movimento chiaramente è un'attività che consuma energia e quest’energia deriva dalla forza
proton‐motrice che a sua volta deriva dal gradiente di concentrazione H+/OH‐ presente nella
membrana.
I protoni quindi fluendo attraverso i canali delle proteine Mot (che permettono il passaggio degli
ioni H+ verso l'interno esercitano una forza elettrostatica sulle cariche presenti sugli anelli E ed MS.
Quindi il passaggio di ioni H+ attraverso le proteine Mot esercita una forza elettrostatica sulle
cariche L’attrazione tra cariche opposte genera la rotazione degli anelli e conseguentemente,
girando questi anelli, si verifica poi la rotazione dell’intero flagello.
La motilità flagellare che abbiamo detto essere responsabile del movimento di tipo swimming è
presente anche nelle specie di archea.
Vediamo quali sono le più importanti differenze fra i flagelli archeali e i flagelli batterici: i flagelli
archeali hanno diametri minori rispetto a quelli batterici (in generale possiamo dire che i flagelli
archeali sono più piccoli di quelli batterici) e ancora un'altra e diversa e caratteristica distintiva è
che nei filamenti dei flagelli archeali e sono presenti diversi tipi di flagelline (flagelline archea≠
flagellina batteri).
Un'altra caratteristica è che negli archea la velocità di swimming è inferiore rispetto a quella dei
batteri ed è questa ovviamente una conseguenza diretta e delle dimensioni ridotte
L’ultima caratteristica è i flagelli archeali sono alimentati dal punto di vista energetico direttamente
dall’idrolisi dall’ATP (molecola ad alto contenuto energetico) piuttosto che dalla forza proton‐
motrice (fondamentale per alimentare il movimento dei flagelli batterici).
SINTESI FLAGELLARE (sempre in battere gram‐)
La sintesi del flagello avviene attraverso una serie di step
1. Il primo step è la sintesi e l'assemblaggio degli anelli MS e C a livello della membrana
citoplasma che (in realtà il C‐ring non è proprio incastonato nella membrana citoplasmatica
ma nel citoplasma adiacente al lato interno della membrana citoplasmatica).
2. Vengono sintetizzati e assemblati gli anelli P ed L che si trovano a livello della parete e a
livello della membrana esterna
3. Quindi vengono assemblate le strutture hook (ganci che tengono connesso il corpo basale
al filamento) e Cap (la parte iniziale del filamento)
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4. E nella fase finale le molecole di flagellina
passano attraverso il canale rappresentato
dall'asta, attraversano l’hook per fermare il
filamento del flagello.
Quindi si informa il filamento del flagello.
Questo processo è guidato e assistito dalle proteine Cap (fondamentali per assistere
controllare e guidare e governare e di me processo di formazione del filamento).
Si è stimato che circa 20000 molecole di flagellina sono necessarie per creare un filamento
Alcuni procarioti sono mobili anche se non presentano flagelli; questi procarioti e che non
presentano flagelli sono in grado di muoversi tu e superfici solide grazie ad un processo che si
chiama gliding motivi (motilità di scivolamento).
La gliding motility è una forma più lenta e dolce di movimento rispetto alla motilità natante e
tipicamente avviene lungo l'asse maggiore della cellula.
La mobilità strisciante è ampiamente distribuita tra i batteri in particolare sono stati caratterizzati
i processi di gliding in batteri filamentosi, fondamentalmente bacilli, come cianobatteri, citofagia
ecc.
Al momento non si conoscono archea capaci di gliding motility.
In generale possiamo dire che il processo di gliding richiede che le cellule siano in contatto con
una superficie solida.
Vediamo ora i meccanismi di gliding motility che differiscono in funzione del tipo di
microrganismo. Vediamo di meccanismi e vengono diciamo attuati in cianobacteria e in
citofagia .
Il meccanismo consiste nella secrezione e del polisaccaride “limo” (in inglese slime) sulla
superficie esterna della cellula.
Lo slime è a contatto sia con la superficie cellulare della cellula batterica di un cianobacteria
piuttosto che di un citofagia sia con la superficie del solido su cui si muove la cellula
Quindi questo slime rappresenta e l'interfaccia fra la superficie della cellula batterica e la
superficie del solido sulla quale avviene la gliding motility.
Man mano che lo slime aderisce, la cellula e trascinata sulla superficie.
vediamo come si verifica la motilità strisciante in mixococcus.
Questo genere batterico presenta due forme di motilità gliding:
1. Possiamo avere una motilità gliding mediata dal pilo di tipo 4 (di cui abbiamo parlato in
precedenza) in pratica e ripetute estensioni e riparazioni di questo p lo spingono la cellula
lungo la superficie solida con la quale è a contatto.
2. Poi possiamo avere la motilità gliding mediata dalle complesso di adesione proteico.
Il complesso di adesione proteico si forma ad un polo della cellula (che essendo di
mixococcus è un bacillo) e rimane fisso in quella posizione e man mano che la cellula scivola
in avanti.
Quindi ad un estremità del nostro e bastoncino cellulare e si forma un complesso di
adesione proteico che rimane fisso e man mano che la cella scivola in avanti.
Quindi per rimanere fisso nella stessa posizione e sulla superficie il complesso di adesione
deve muoversi nella direzione opposta alla cellula presumibilmente alimentato da una
forma di energia proveniente dalle citoscheletro.
Nei batteri appartenenti al genere flavobacterium il meccanismo di gliding è associato al
movimento di proteine sulla superficie cellulare.
Specifiche proteine deputate alla motilità (gliding specific proteins) sono ancorate alla membrana
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citoplasmatica e alla membrana esterna.
Le proteine specifiche spingono le cellule di flavobacterium con un
meccanismo che è stato definito a cricchetto meccanismo a
cricchetto.
Nel peptidoglicano della parete cellulare sono presenti dei “binari” che
connettono le proteine della membrana citoplasmatica alle proteine
della membrana esterna.
A livello del peptidoglicano che si trova tra le due membrane ci sono
dei binari che mettono in comunicazione le gliding protein della
membrana citoplasmatica a quelle della membrana esterna.
L’impulso del movimento viene recepito dalle proteine della membrana citoplasmatica e viene
trasmesso alle gliding protein della membrana esterna attraverso questi binari di connessione.
Le gliding protein della membrana esterna incominciano a muoversi lungo una superficie solida
(rappresentata in basso) attraverso un movimento a cricchetto, movimento delle gliding protein
della membrana interna, che permette alla cellula di scivolare nella direzione opposta.
Da cosa deriva il momento delle proteine?
Il movimento delle proteine è determinato dalla entrata nella cellula di uno ione H+ (forza protpn‐
motrice), quindi l'energia necessaria ad effettuare questo tipo di questo scivolamento sulla
superficie di un solido è permesso dalla dissipazione della forza proton‐motrice.
TASSI MICROBICA
La tassi microbica è strettamente correlata alla motilità.
I procarioti spesso incontrano gradienti di agenti chimici e fisici nel loro ambiente naturale ed hanno
evoluto strategie per rispondere a questi gradienti: o muovendo verso la gente chimico o fisico e che in
questo caso li attrarre (agente attrattore se il procariote si avvicina a questo agente) o allontanandosi
dall’agente (agente il repulsore).
Per Tassi s’intende proprio questo movimento direzionato
Esistono due tipi di tassi: la chemiotassi e la fototassi
Nella chemiotassi il movimento direzionato è in risposta ad un agente chimico.
Nella fototassi il movimento direzionato è in risposta ad una sorgente luminosa.
Andiamo a ad esaminare i due tipi di tassi:
(Come sempre è il nostro modello è Escherichia Coli che è un batterio flagellato peritrico e gram‐)
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Queste proteine legano la sostanza chimica ed incominciano un processo di trasduzione
sensoriale attivando così il movimento del flagello.
A seconda che la sostanza sia attrattiva o repellente, il movimento
del flagello si muoverà nella direzione secondo gradiente di
concentrazione o contro gradiente.
Fototassi→ I microrganismi fototrofi (organismi per cui la sorgente di energia è rappresentata
dalla luce) .
Gli organismi fototrofi si muovono seguendo un gran niente luce in modo da favorire
il loro metabolismo che è fondamentalmente focalizzato sulla fotosintesi.
Come visibile dalla figura che rappresenta la fototassi nei batteri fotoautotrofi, in alcune specie
come questo Rhodospirillum centenum intere colonie si muovono all’unisono verso la sorgente
luminosa.
Si vedete nel tempo cosa succede e per la presenza della sorgente luminosa a una colonia.
C'è lo spostamento proprio di un'intera colonia verso la sorgente ovviamente analogamente ai
chemiocettori che abbiamo visto essere sensibili per la chemiotassi, nei microrganismi fototrofi ci
sono fotorecettori (proteine recettoriali) che percepiscono il gradiente di luce e anche in questo
caso analogamente a quello che avviene nei chemorecettori, viene inviato un segnale in modo
tale che fa partire la rotazione del flagello.
Vediamo molto rapidamente altri tipi di tassi:
o Aerotassi: un movimento direzionato verso e l’ossigeno o un allontanamento
dall’ossigeno
o Osmotassi: un movimento direzionato verso (o di allontanamento da)
o Idrotassi: un movimento esclusivamente di tipo gliding verso l’acqua.
Quindi è un movimento che caratterizza batteri che vivono in ambienti secchi per
esempio i fuori ok quindi un movimento che avviene su una superficie solida verso
l'acqua proprio alla ricerca di idratazione.
I movimenti verso determinati settori e così come gli allontanamenti hanno un importante significato
evolutivo ovvero il movimento o l’allontanamento permette ai procarioti di competere in maniera più
efficiente per le risorse ambientali e nello stesso tempo di evitare gli effetti tossici di sostanze che
potrebbero danneggiarli o ucciderli.
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METABOLISMO MICROBICO
I microrganismi per crescere devono assumere sostanze nutritive
Queste sostanze nutritive che vengono assunte dai microrganismi sono fondamentali per la loro crescita e
si possono classificare in due grandi gruppi: i Macronutrienti e i Micronutrienti.
I macronutrienti sono così chiamati perché sono necessari in grandi quantità e sono rappresentati da:
Carbonio C (tutte le richiedono carbonio e qui ritorniamo un attimo alla classificazione degli
organismi in funzione della fonte carbonata→ gli organismi eterotrofi utilizzano carbonio organico
presente in composti quali zuccheri, amminoacidi, acidi grassi, acidi organici e composti aromatici
mentre gli organismi autotrofi utilizzano carbonio inorganico che è presente nell’anidride
carbonica; avevamo anche detto che nell’ambito degli eterotrofi facciamo una distinzione tra
fototrofi e chemiolitotrofi).
Azoto N rappresenta un macronutriente e la maggior parte dell’azoto disponibile in natura è sotto
forma di azoto inorganico (come e ammoniaca, nitrati e azoto molecolare), l’azoto molecolare è
utilizzato solo da alcuni procarioti procarioti che vengono definiti azoto fissatori.
Molti microrganismi sono invece in grado di utilizzare l’azoto organico per esempio l'azoto
contenuto negli amminoacidi.
Fosforo P è un elemento chiave per la sintesi degli acidi nucleici fosfolipidi, è generalmente
disponibile per come nutriente sotto forma di fosfato ok
Zolfo S è considerato un macronutrienti dato che anche per lo zolfo esistono delle forme di
immagazzinamento, lo zolfo è presente e in alcuni e amminoacidi e vitamine e può essere assunto
dalle cellule sotto forma di solfuro o solfato ed è fondamentale per la sintesi di alcuni amminoacidi
e di alcune vitamine che sono importanti cofattori per le attività enzimatiche cellulari
Sali minerali ovvero potassio K (richiesto per l'attività di alcuni enzimi), magnesio Mg (che è
importante per stabilizzare i ribosomi), calcio Ca (che stabilizza la parete cellulare e gioca un ruolo
chiave nella stabilità termica delle endospore) e sodio Na (che è richiesto da tutti i microrganismi
marini osmotolleranti) e tutti questi elementi vengono assunti sotto forma di sali principalmente
sto formati e cloruri o di solfati.
I Micronutrienti sono detti tali perché possono essere assunti in tracce quindi non sono richieste grandi
quantità ma sono comunque molto importanti perché spesso la funzione di cofattori enzimatici.
Quali sono i principali micronutrienti fondamentali?
Metalli in particolare il ferro che gioca un ruolo chiave nella respirazione cellulare e in particolare lo
ione ferroso Fe2+ (interviene in condizioni anaerobie) mentre lo ione ferrico Fe3+ (è importante in
condizioni aerobie ovvero in presenza di ossigeno)
In alcune specie microbiche per esempio il lactobacillus il manganese svolge un ruolo simile al ferro
ossia interviene nella respirazione cellulare principalmente in condizioni anaerobie.
Fattori di crescita che sono dei coenzimi quindi dei fattori che coadiuvano l'attività di alcuni enzimi
e fondamentalmente i più importanti sono le vitamine.
Consideriamo alcuni principi di bioenergetica
Cosa si intende per energia? Per energia s’intende l’abilità fare lavoro e in microbiologia un si misura in
kilojoule (Kj); in particolare l'energia è disponibile per fare lavoro è definita energia libera e si indica con la
lettera G.
Data una determinata reazione chimica che porta e alla trasformazione dei reagenti A e B nei prodotti C e D
il ΔG01° (delta g zero primo) rappresenta la variazione di energia libera in condizioni standard.
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Le condizioni standard sono caratterizzate da un pH 7, da una temperatura corrispondente a 25 °C, da una
pressione corrispondente ad 1 atmosfera (1 Atm) e da concentrazioni molari pari a uno molare sia dei
reagenti che dei prodotti.
Come si calcola il ΔG01°? Si calcola il sottraendo dalle energie di formazione dei prodotti (C e D) le energie di
formazione dei reagenti (A e B)
L'energia di formazione in condizioni standard (ovvero Gf0) è l'energia
rilasciata o richiesta durante la formazione di una molecola a partire dai suoi elementi.
Esistono delle tabelle che riportano i valori di Gf0 quindi energia di formazione delle molecole più note.
In generale se
ΔG01°<0 → (variazione di energia libera in condizioni standard è minore di 0) si dice che la reazione è
esoergonica ovvero avviene con rilascio di energia.
ΔG01°>0→ vuol dire che la reazione è endoergonica cioè consuma energia.
Uscendo dalle condizioni standard il ΔG (la variazione energia libera) e andandolo a determinare nelle
attuali condizioni in cui il microrganismo vive il ΔG è dato da questa formula:
ΔG è la variazione energia libera non in condizioni standard
ΔG01° è la variazione di energia libera in condizioni standard
R è una costante fisica a 8,29 j/mole ∙K
T è la temperatura assoluta espressa nella scala kelvin
K è la costante di equilibrio della reazione che tiene conto delle reali concentrazione di reagenti e prodotti
nella reazione
Data la reazione, k è uguale al prodotto delle concentrazioni dei prodotti ciascuna elevata al proprio
esponente, fratto, il prodotto delle concentrazioni dei reagenti ciascuna elevata al proprio
esponente.
Anche le reazioni esoergoniche che avvengono spontaneamente è in realtà necessaria un’energia di
attivazione.
L'energia di attivazione è l'energia richiesta per rompere i legami all’interno delle molecole dei reagenti in
modo che i reagenti possano interagire per trasformarsi nei prodotti.
Il catalizzatore è una sostanza capace di abbassare l’energia di attivazione di una reazione aumentando
quindi la velocità di una reazione (gli enzimi voi sapete sono catalizzatori biologici).
Un catalizzatore biologico (un enzima) si lega al substrato nel suo sito attivo e si forma un complesso
enzima‐substrato che successivamente rilascia il prodotto.
L’enzima nella reazione rimane assolutamente inalterato e per questo le prima può essere riutilizzato in
cicli successivi di trasformazione del substrato S in un prodotto P proprio perché L’enzima non partecipa
alla reazione.
All’enzima e possono essere associate delle piccole molecole non proteiche che partecipano alla catalisi.
Queste piccole molecole possono essere per esempio gruppi prostetici legati covalentemente all’enzima
(Es. gruppo eme nei citocromi ), oppure e possono essere legati all’enzima dei coenzimi mediante legami
deboli (Es. vitamine, NADh e NAD+ che in realtà non sono altro che porzioni di vitamina).
In figura osserviamo in ordinata (y) l'energia libera e in ascissa (x) il progresso della reazione e che non è
altro che il passaggio dal substrati A e B ai prodotti C e D.
Vediamo che per passare dai substrati A e B ai prodotti C e D occorre fornire energia di attivazione
rappresentata dal picco della curva rossa in modo tale da rompere i legami e che ci sono all'interno delle
molecole per far sì che la reazione avvenga spontaneamente.
Si può osservare che è il livello energetico dei prodotti C e D è più basso quindi se noi andiamo a calcolare il
ΔG della reazione avremo un ΔG negativo perché appunto l’energia di formazione dei prodotti è inferiore al
all’energia di formazione dei reagenti quindi abbiamo una liberazione di energia da questa reazione.
In presenza di un catalizzatore abbiamo la curva verde poiché l'effetto del catalizzatore è quello di
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abbassare l'energia di attivazione e quindi e favorire l'interazione dei reagenti in modo tale da spingere più
velocemente la trasformazione nei prodotti.
Questa è la descrizione di quello che avviene in una reazione esoergonica.
In una reazione endoergonica, invece, abbiamo che il e ΔG>0 quindi il livello
energetico dei prodotti è più alto rispetto al livello energetico dei reagenti
quindi per far avvenire la reazione dobbiamo fornire energia, cioè, la reazione
deve essere accoppiata all’idrolisi di ATP.
L'energia rilasciata nelle reazioni è conservata nelle cellule e in virtù della
sintesi simultanea di composti altamente energetici.
Uno dei composti altamente energetici che la cellula utilizza come immagazzinamento di
energia è l’ATP.
Le reazioni che rilasciano una quantità sufficiente di energia per formare ATP sono reazioni di ossido‐
riduzione (redox) che sono reazioni con un ΔG<0 che rilasciano un’elevata quantità di energia tanto che
questa energia può essere sfruttata dalla cellula per formare ATP
Le sostanze differiscono nella tendenza a cedere o acquistare elettroni.
Questa tendenza a donare o ad accettare elettroni dipende da quello che viene definito potenziale di
riduzione
Il potenziale di risoluzione che possiamo chiamare anche E01°calcolato in condizioni standard e misurato in
Volt (V).
In generale minore è il valore di questo potenziale di riduzione (E01°) maggiore è la tendenza ad essere
donatore di elettroni (>E01°→ < tenza ad essere ele ron donatore).
Il ΔE01°corrisponde alla differenza nel potenziale di riduzione tra il donatore è l’accettore di protoni in una
coppia redox.
Tanto maggiore sarà il ΔE01° tanto maggiore sarà il ΔG quindi possiamo dire che la differenza nel potenziale
di riduzione è direttamente proporzionale alla differenza nell'energia liberazione.
Nel metabolismo energetico i donatori di elettroni sono anche definiti e sorgenti energetiche perché
rilasciata energia quando vengono ossidati.
Le redox sono tipicamente mediate da una o più piccole molecole; un carrier di elettroni molto comune è il
NAD (nicotinammide adenin dinucleotide) un coenzima derivato dalla vitamina niacina (una vitamina del
gruppo B).
Il potenziale di riduzione nella coppia NAD+/NADh e di ‐0,32 Volt e dimostra che
il NADh è un buon elettron donatore
Il NADh dona facilmente elettroni per ossidarsi in NAD+ .
Il fatto che il potenziale riduzione di questa coppia sia negativo e che come valore
assoluto sia abbastanza elevato dimostra che il NADh è un buon
elettrondonatore.
Oltre alla coppia NAD+/NADh nelle reazioni redox possono intervenire anche la
coppia fosforilata NADfosfato+/NADfosfatoH che è principalmente coinvolta nelle reazioni anaboliche e
biosintetiche, mentre NAD+ /NADH è principalmente coinvolta nelle reazione cataboliche. Per convenzione
la coppia redox si scrive indicando prima la specie ossidata e dopo la specie ridotta, ma il potenziale di
riduzione indica la capacità della specie ridotta ad ossidarsi e cedere elettroni.
CICLO NAD+/NADh (Nicotinamide Adenindinucleotide)
La figura descrive il ciclo del NAD+ evidenziando come reazioni redox diverse possono essere accoppiate
con il coenzima NAD+ che funziona come intermediario, come ponte. L’enzima 1 lega il NAD+ (forma
ossidata) e un sub‐strato elettron‐donatore, alla fine della reazione otteniamo l’ossidazione dl sub‐strato
(prodotto della reazione) e la riduzione del NAD+ a NADH L’enzima 2 lega il NADH (forma ridotta) e un sub‐
32
strato elettron‐accettore, al termine della seconda reazione abbiamo ottenuto la
riduzione del sub‐strato (prodotto della reazione) e abbiamo rigenerato il NAD+.
Procediamo dicendo che negli organismi viventi, l'energia rilasciata nelle reazioni
redox è conservata in composti ricchi di energia che sono primariamente composti
fosforilati.
Il fosfato può essere legato a questi composti organici mediante due tipi di legami:
mediante legami esterei o legami anidridici (legami tra un non metallo e l’ossigeno
presente all’interno di un’anidride).
In figura sono evidenziati in rosa i legami esterei e in blu i
legami anidridici.
Nella tabella sono evidenziati in blu i composti più ricchi di
energia in cui l’idrolisi del gruppo fosfato è associato ad un
ΔG maggiore di 30 Kj come valore assoluto.
I valori sono negativi in questo caso perché la reazione è
esoergonica.
Nel riquadro blu sono riportati i composti più ricchi di
energia in cui l’idrolisi del gruppo fosfato è associata ad
una liberazione di energia superiore a 30 Kj come valore assoluto.
Questi e sono i composti che la cellula utilizza tipicamente quel produrre e immagazzinare energia
Questi composti sono: il fosfoenolpiruvato, 1,3‐difosfoglicerato, acetilfosfato, l’ATP, l’ADP, l’acetil
coenzima A.
l’ATP ha tre fosfati ma solo due di questi presentano un ΔG di idrolisi maggiore di 30 Kj come valore
assoluto; oltre ai composti fosforilati anche l’acetil coenzima A presenta un legame tioestereo.
Torniamo a concentrarci sull’ATP adenosina trifosfato che è il composto fosforilato ricco di energia, più
importante per la cellula.
L'ATP è generato da reazioni esoergoniche di ossidoriduzione e consumato in reazioni endoergoniche
generalmente biosintetiche.
Dal punto di vista strutturale l’ATP consiste nella ribonucleasi adenosina alla quale sono legate tre molecole
di fosfato, due legami fosfato sono fosfo‐anidrili con un ΔG di idrolisi maggiore di 30 Kj (32Kj) come valore
assoluto.
Quindi possiamo dire che, l’idrolisi di una mole di ATP ad ADP+Pi, così come l’idrolisi di una mole di ADP ad
AMP+Pi comporta la produzione di 32 Kj di energia (lo stesso quantitativo di energia è necessario per
portare avanti le reazioni inverse cioè per sintetizzare una mole di ATP da ADP+Pi oppure una mola di ADP
da AMP+Pi).
Come già introdotto, i derivati del coenzima A contengono legami tioesterei ricchi di energia, in seguito a
idrolisi, questi composti producono una quantità di energia libera sufficiente per permettere la sintesi
legami fosfato ricchi di energia.
Es. L’aceti coenzima A (derivato del coenzima A) in presenza di acqua e in presenza di ADP e di fosfato viene
idrolizzato ad acetato più coenzima A con il gruppo SH libero con contemporanea sintesi di ATP .
acetyl‐S‐CoA + H2O + ADP + Pi → acetate‐ + HS‐CoA + ATP + H+
quindi diciamo che l’Acetil coenzima A è particolarmente importante nella bioenergetica dei microrganismi
anaerobi e cioè i microrganismi che effettuano i processi fermentativi.
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Per l’immagazzinamento dell'energia lungo termine e microrganismi producono dei polimeri insolubili che
possono essere catabolizzati in un secondo momento per produrre ATP.
Questi polimeri sono:
Nei procario → il Glicogeno, i poliidrossibuta e i poliidrossiarcanoa .
Negli eucario → polimeri del glucosio e lipidi (che sono polimeri di acidi grassi)
CATABOLISMO
Esistono due forme di catabolismo nei microrganismi chemiorganotrofi (organismi che utilizza o forma di
energia un posto chimico organico): il catabolismo anaerobico fermentativo o il catabolismo aerobico
respirativo.
Respirazione→ Un composto organico che in questo caso è il donatore di ele roni si ossida mentre
l'ossigeno funge da accettore finale di elettroni riducendosi
In questo caso l’accettore finale di elettroni e l’ossigeno mentre nella fermentazione è il composto
organico.
L’ATP viene generato mediante fosforilazione ossidativa alle spese della forza proton motrice di
membrana che viene in parte dissipata.
Ci concentriamo sulla produzione di ATP nei due tipi di catabolismo:
Nella fermentazione:
Nella figura A vediamo la produzione di ATP nella fermentazione quindi attraverso il meccanismo di
fosforilazione a livello del substrato nella quale si parte da un substrato (A) fermentabile e attraverso una
serie di trasformazioni si formano dei composti fosforilati ricchi di energia
che vengono poi defosforilati per produrre ATP durante il processo
catabolico.
Nella respirazione:
La figura B che descrive la fosforilazione ossidativa, il meccanismo con il
quale si produce ATP nella respirazione.
Nella respirazione l’ATP è prodotto attraverso la dissipazione di energia a
carico della forza proton motrice: la membrana citoplasmatica è
energizzata (come abbiamo precedentemente descritto poiché ha funzione
di conservare energia e quindi si dice che energizzata dalla forza proton
motrice).
Nella membrana infatti c’è una concentrazione di cariche positive
all'esterno ed una concentrazione di cariche negative all’interno.
In seguito a una dissipazione (ovvero ad una entrata di ioni h più interno della sede), la membrana è meno
energizzata e l'energia dissipata viene utilizzata per catalizzare la reazione di sintesi della molecola di ATP.
GLICOLISI E FERMENTAZIONE
Abbiamo parlato dei due processi catabolici (fermentazione e respirazione) ed ora li andiamo a descrivere
più nel dettaglio.
Ci concentriamo in un primo momento sulla glicolisi e sulla fermentazione (in quanto la glicolisi corrisponde
alla fase preliminare e rispetto alla fermentazione).
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La glicolisi fermentazione può essere suddivisa in tre fasi: (1) le reazioni preparatorie, (2) la produzione di
NADh, ATP e Piruvato e (3) il consumo di NADh e la produzione dei prodotti di fermentazione veri e propri.
1. Reazioni preparatorie non sono reazioni redox e quindi non rilasciano energia.
A partire da una molecola di glucosio si ottengono due molecole di Gliceraldeide‐3‐fosfato
(molecola 6) che intermedio chiave processo glicolitico.
Queste reazioni comportano il consumo di due molecole di ATP
2. Nella fase due si verifica la prima reazione redox ovvero la conversione (ossidazione) della
gliceraldeide‐3‐fosfato (intermedio chiave della glicolisi) in acido 1,3‐difosfoglicerico ad opera di un
enzima chiave (gliceraldeide‐3‐fosfato deidrogenasi indicata in figura con il numero 6).
La fase due termina con l’ulteriore defosforilazione delle due molecole di fosfoenolpiruvato
(prodotto della defosforilazione di due molecole di acido‐1,3‐difosfoglicerico) a formare due
molecole di piruvato.
L’ossidazione e la fosforilazione della
gliceraldeide‐3‐fosfato avvengono con
contemporanea riduzione di due
molecole di NAD a NADh.
Si producono due molecole di NADh,
una per ogni molecola di gliceraldeide‐
3‐fosfato ossidata.
A questo punto della fase due si
verificano reazioni di defosforilazione di
prodotti fosforilati altamente energetici
(l’acido‐1,3‐difosfoglicerico appena
formato e il fosfoenolpiruvato).
Queste reazioni di defosforilazione sono
accompagnate dalla produzione di due
molecole di ATP (perché siamo partiti
da due molecole di gliceraldeide‐3‐fosfato e bisogna considerare la stechiometria).
Per ognuno degli intermedi fosforilati altamente energetici, l’indice stechiometrico sarà due per cui
il numero di molecole di ATP che si formano in seguito alla defosforilazione della gliceraldeide‐3‐
fosfato saranno due come saranno due le molecole di ATP che si formano in seguito alla
defosforilazione di fosfoenolpiruvato.
Quindi il numero di molecole di ATP prodotte al termine della fase due è quattro.
Quindi facciamo il bilancio energetico al termine della fase due: vengono prodotte due molecole di
NADh, 4 molecole di ATP (2 nello step 7, due nello step 10), e due molecole di Piruvato; alle 4
molecole di ATP bisogna però sottrarre le 2 molecole di ATP consumate nel primo step.
Quindi il bilancio energetico netto alla fine della fase due corrisponde alla produzione di due
molecole di ATP.
3. La fase tre corrisponde al consumo del NADh e alla produzione dei prodotti di fermentazione .
Nella fase tre si verifica la seconda reazione redox ovvero avviene riduzione di due molecole di
piruvato a due molecole di un prodotto di fermentazione che nei batteri lattici è lattato, nei lieviti
che sono anch’essi microrganismi in grado di effettuare fermentazione le due molecole di piruvato
vengono convertite in due molecole di etanolo+ due molecole di CO2.
In entrambi i casi questa reazione di riduzione avviene sfruttando il NADh prodotto nella fase
precedente, il quale viene riossidato a NAD+.
Quindi nella terza fase il NAD viene rigenerato.
Quindi diciamo che il bilancio netto della fermentazione del glucosio è il seguente: 1 molecola di
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glucosio viene consumata e il suo consumo corrisponde a 2 molecole di ciascun prodotto di
fermentazione che può essere lattato o etanolo+CO2 e alla produzione di 2 molecole di ATP.
1mol di Glucosio=2mol di ciascun prodotto di fermentazione (lattato/etanolo+CO2) + 2 mol ATP
Se vogliamo riassumere quale sia la resa energetica del processo di fermentazione possiamo
affermare che il consumo di una molecola di glucosio porta alla produzione di due molecole di ATP
e ovviamente porta alla produzione di prodotti di fermentazione che possono essere diversi a
seconda del microrganismo che opera questo tipo di catabolismo.
RESPIRAZIONE E TRASPORTATORI DI ELETTRONI
La forma più comune di respirazione avviene in presenza di ossigeno ma esiste anche un tipo di
respirazione anaerobia.
Nella respirazione, il piruvato, invece di essere ridotto è ulteriormente e completamente ossidato ad
anidride dei carbonica .
Questo processo comporta una maggior resa di ATP.
Si distinguono due tipi di respirazione: la respirazione aerobia in cui il piruvato è ossidato utilizzando
l'ossigeno come accettore finale di protoni e la respirazione anaerobia in cui il piruvato è ossidato
utilizzando altri accettori di elettroni diversi dall’ossigeno (condizioni anossiche).
Come vengono trasportati gli elettroni dai piruvato rubato all’accettore finale (che nella respirazione
aerobia è l’ossigeno mentre in quella anaerobia è un altro tipo di composto)?
Gli elettroni vengono trasportati attraverso una catena di trasporto che si verifica a livello della membrana
citoplasma e diversi tipi di enzimi ossido‐riduttivi partecipano a questo trasporto di elettroni.
Quali sono questi enzimi ossido‐riduttivi?
‐NADh deidrogenasi che è il primo enzima della catena
‐le flavoproteine che sono derivate e dalla vitamina riboflavina (esistono due tipi di flavoproteine: le FMN e
flavinmononucleotidi e le FAD flavinadenindinucleotide)
‐I citocromi che contengono un gruppo prostetico eme legato al ferro e ne esistono diversi tipi: Citocromo
A, Citocromi D e citocromi C.
‐Le proteine ferro‐zolfo ok che sono caratterizzate dalla presenza di zolfo e ferro non legati gruppo
prostetico eme (Es. ferridoxina)
‐Chinoni che sono molecole idrofobiche non proteiche che si muovono liberamente nella membrana.
I chinoni, nella catena di trasporto, si inseriscono tra le proteine ferro‐zolfo ed il primo citocromi
Quindi e diciamo che il trasporto di elettroni procede dal primo enzima ossidoriduttivo che è una NADh
deidrogenasi all'ultimo citocromo attraverso una cascata di reazioni ossidoriduttive.
L'ultimo trasportatore della catena trasferisce l’elettrone e uno ione H+ all’ossigeno che quindi riduce ad
acqua.
Torniamo al concetto di forza proton motrice.
Durante il trasporto di elettroni nella respirazione i protoni vengono spinti fuori dalla membrana; la
fuoriuscita di ioni H+ corrisponde ad un accumulo di ioni OH‐ (ossidrili) dal lato interno della membrana.
Come risultato di questa separazione H+/OH‐ i due lati della membrana si energizzano (cioè differiscono sia
nella carica che nel PH) e si forma un potenziale elettrochimico che attraversa la membrana, definito forza
proton motrice.
La forza protonmotrice è usata dalla cellula per diverse funzioni ovvero: (1) serve a sintetizzare ATP, (2)
serve per trasportare ioni nel trasporto attivo semplice e (3) serve nella rotazione flagellare (motilità
swimming).
La forza Motor motrice detta anche più semplicemente PMF è generata dal trasporto degli elettroni.
La sintesi di ATP è la prima delle funzioni della forza proton motrice che è generata dalla catena di trasporto
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di elettroni.
La sintesi di ATP è catalizzata da un complesso proteico detto ATP sintasi.
L’ATPasi (o ATP sintasi) consiste di due componenti: la componente F1 che si
vede in figura (che rappresenta la struttura e le funzioni dell’ATP sintasi in E.
Coli) che è il complesso citoplasmatico con funzione di statore.
Il complesso F1 è composto da 5 differenti polipeptidi che formano il complesso
α3β3γεδ (i diversi polipeptidi sono rappresentati dalle diverse lettere greche).
Il polipeptide α è presente e rappresentato da tre unità (α3) così come il
polipeptide (β3) mentre gli altri polipeptidi sono rappresentati come singole
unità.
F1 ovvero questo è complesso citoplasmatico che funge da statore è anche
indicato come il complesso catalitico ovvero il complesso responsabile
dell’interconversione di ADP+Pi ad ATP (a livello del complesso F1 avviene la sintesi di ATP) ma avviene
anche idrolisi di ATP perché la reazione può andare in entrambe le direzioni.
Il complesso F0 è un complesso di membrana con funzione di rotore; è composto da tre polipeptidi che
formano il complesso ab2c12 che è integrato a livello del bilayer fosfolipidico della membrana
citoplasmatica.
Quindi il complesso F0 è costituito da tre tipi diversi di polipeptidi: il polipeptide a che è presente come
singola unità, il polipeptide b che è rappresentato da due unità e il polipeptide c rappresentato da 12 unità.
Man mano che i protoni entrano attraverso il polipeptide a una dissipazione della forza proton motrice
guida la sintesi di ATP che avviene a livello del complesso catalitico che è complesso F1.
Misure stechiometriche suggeriscono che la sintesi di una molecola di ATP corrisponde al passaggio di tre
ioni H+ dall’interno all’esterno.
Meccanismo di funzionamento
Il movimento di protoni (H+) attraverso la subunità a del complesso di membrana F0 causa la rotazione
delle 12 subunità c; questa rotazione genera un momento torcente che è trasmesso alla subunità catalitica
F1 attraverso la rotazione accoppiata delle subunità γ e δ (epsilon e gamma) ovvero, la rotazione delle
subunità c del rotore F0 fa sì che incominciano a ruotare anche le subunità γ e δ dello statore F1 e
quest’ultima attività di rotazione genera una modificazione conformazionale delle subunità β di F1 che
permette loro il legame dell’ADP+Pi e quindi la sintesi di ATP.
Quindi tutto: il movimento a livello del rotore, la modificazione conformazionale a livello dello statore e la
sintesi di ATP è generato dalla dissipazione della forza proton motrice e quindi consumo di energia.
L’ATPasi è reversibile per questo si può chiamare ATPasi e ATPsintasi abbiamo focalizzato la nostra
attenzione sulla sintesi di ATP ma lo stesso complesso può catalizzare l’idrolisi di ATP.
L’idrolisi di ATP che avviene a questo livello (effettuata quando la cellula necessita di energia) determina un
momento torcente sulle unità γ e δ che le fa ruotare nella direzione opposta rispetto alla direzione che
porta la sintesi di ATP.
Questo fa sì che la fuoriuscita di protoni attraverso F0 sia catalizzata con il risultato generale forza proton
motrice.
Per generare forza proton motrice quindi per generare questo gradiente di membrana e si può consumare
ATP oltre che sfruttare il processo della catena di trasporto di elettroni.
L’ATPasi è presente anche nei microrganismi anaerobi cioè incapaci di respirare.
In questi microrganismi essa funziona unidirezionalmente per generare forza proton motrice (che non si
riesce a generare attraverso la respirazione) necessaria per altre attività cellulari quali la mobilità e il
trasporto.
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CICLO DI KREBS
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Nella respirazione il piruvato che è un composto a tre atomi di carbonio è completamente ossidato a CO2 in
un processo chiamato ciclo di Krebs o ciclo dell'Acido Citrico.
La prima trasformazione a cui va incontro il piruvato è una decarbossilazione ossidativa in presenza di
coenzima A (che si lega al gruppo acetile) e NAD (che viene ridotto) per formare un complesso altamente
energetico che si chiama acetilcoenzima A un composto a due atomi di carbonio; questo avviene con
contemporanea liberazione di una molecola di CO2 e riduzione del NAD+ a NADh.
A questo punto l’acetilcoenzima A (2 atomi di Carbonio) entra nel ciclo dell'acido citrico condensandosi con
un composto a quattro atomi di Carbonio (l’ossalacetato) per formare un composto a sei ad carbonio (il
Citrato).
Attraverso una serie di ossidazioni e trasformazioni il citrato (ottenuto dalla condensazione di ossalacetato
con coenzima A) viene nuovamente convertito ad ossalacetato che comincia un nuovo ciclo condensandosi
ad una nuova molecola di acetilcoenzima A.
In tutto questo ciclo vengono prodotte altre due molecole di CO2, tre molecole di NADh e una molecola
FADH2.
Nella respirazione il ciclo dell'acido citrico e catena di trasporto degli elettroni sono strettamente
interconnessi.
Il ciclo dell'acido citrico ha la funzione di ossidare il Piruvato a CO2 e gli elettroni rilasciati durante
l’ossidazione degli intermedi sono trasferiti al NAD che viene ridotto a NADh e al FAD che viene ridotto a
FADH2.
Il NADh e il FADH2 che vengono quindi prodotti nel ciclo dell'acido citrico insieme alla CO2.
Il NADh e il FADH2 hanno la funzione di alimentare la catena di trasporto degli elettroni che risulta in ultima
analisi nella riduzione del ossigeno ad H2O.
Quindi questi elettroni che vengono ceduti al NADh e al FADH2 durante il ciclo dell’acido citrico vengono
poi utilizzati per alimentare la catena di trasporto degli elettroni attraverso i gli elettroni vengono
progressivamente trasferiti all'ossigeno che viene ridotto ad acqua e contemporaneamente durante il
processo di trasporto di elettroni viene generata la forza proton motrice.
I prodotti finali del catabolismo del Glucosio nella respirazione sono CO2, H2O e ATP.
Nello specchietto è presentato il bilancio energetico nella respirazione; abbiamo visto che nella
fermentazione anaerobica si producono solo 2 molecole di ATP (basata sulla fosforillazione a livello del
substrato) mentre nella respirazione aerobica si producono ben 38 molecole di ATP (fomato durante la
fosforilazione ossidativa) quindi è evidente che la respirazione aerobica ha una resa energetica
estremamente maggiore.
Da dove provengono queste 38 molecole di ATP?
2 molecole di ATP provengono dalla Glicolisi (come fosforilazione a livello del substrato) che porta al
piruvato, 2 NADh della glicolisi entrano nella catena di trasporto degli elettroni e vengono convertiti a 6 ATP
quindi ogni NADh corrisponde a tre ATP.
Quindi nella glicolisi in tutto abbiamo ottenuto 8 ATP.
Poi abbiamo i 4 NADh del ciclo di Krebs che entrano nella catena di trasporto degli elettroni e vengono
convertiti in 12 ATP (perché abbiamo detto che un NADh corrisponde a 3 ATP).
Il FADH2 generato a questo punto entra in questa catena di trasporto degli elettroni e viene convertito in 2
ATP; poi un GTP del ciclo degli acidi carbossilici viene convertito ad ATP per fosforilazione a livello del
substrato.
Quindi in tutto abbiamo 15 ATP livello del ciclo di Krebs moltiplicati per due perché questo vale per
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ciascuna molecola di piruvato quindi sono 30 ATP a cui si aggiungono gli 8 della glicolisi quindi il totale degli
ATP prodotti è 38.
Torniamo a riprendere la classificazione che descrive la diversità metabolica tra i diversi organismi.
I microrganismi presentano un'ampia diversità catabolica ossia le strategie per produrre ATP sono
estremamente diversificate nel mondo microbico.
Schema riassuntivo che è mostra è la strategia metabolica nella
chemiorganotrofia, nella chemiolitotrofia e nella fototrofia:
I parametri sono fonte energetica, fonte carbonata,
elettrondonatore, elettronaccettore.
Nei chemiorganotrofi la fonte di energia è rappresentata dai
composti organici che sono anche la fonte di carbonio (quindi
parliamo anche eterotrofi) e il donatore di elettroni.
I chemiorganotrofi possono usare tre strategie cataboliche in
funzione dell’accettore finale di elettroni: parliamo di
fermentazione quando la accettore finale di elettroni è un
composto organico e la sintesi di ATP avviene mediante
fosforilazione a livello del substrato, parliamo di respirazione
aerobica quando l’accettore finale di elettroni e l'ossigeno che
riceve elettroni che passano attraverso la catena di trasporto
di elettroni e la sintesi di ATP avviene mediante fosforilazione
ossidativa, mentre parliamo di respirazione anaerobica quando
l’accettore finale di elettroni è un composto diverso
dall'ossigeno (si organico che inorganico) e la sintesi di ATP avviene attraverso la catena
di trasporto di elettroni per esempio e il nitrato NO3‐viene ridotto a nitrito NO2‐ questo avviene in
escherichia coli mentre pseudomonas riduce il Nitrato NO3‐ a azoto molecolare N2 , il ferro Fe3+ può essere
ridotto a ferro ferroso Fe2+ da altri microrganismi (geobacter) oppure ancora lo ione carbonato CO32‐ viene
ridotto a CH4 da microrganismi metanogeni.
Nei chemiolitotrofi la fonte di carbonio è la CO2 (quindi autotrofi),
il donatore di elettroni è sempre un composto inorganico (Es. H2,
H2S, Fe2+, NH4+) ed essi possono svolgere sia respirazione aerobica
se l’accettore finale è l’ossigeno che respirazione anaerobica se
l’accettore finale degli elettroni è diverso dall’ossigeno (in
analogia con i chemiorganotrofi).
Nei fototrofi la fonte energetica è rappresentata dalla luce da cui
si genera una forza proton motrice attraverso la catena di
trasporto di elettroni.
L’ATP prodotto in questo caso può essere utilizzato per assimilare
CO2 nei fotoautotrofi o per assimilare composti organici nei
fotoeterotrofi; quindi diciamo che anche nell'ambito della fototrofia possiamo distinguere
una fotoautotrofia se il la fonte di carbonio e la CO2 o una fotoeterotrofia se la fonte di carbonio è un
composto organico; in entrambi i casi però è fondamentale e la produzione di ATP perché questo ci
permette di assimilare l’una o l'altra fonte di carbonio.
In conclusione nella fermentazione la sintesi di ATP è guidata dalla fosforilazione a livello di substrato
mentre in tutte le altre forme di respirazione e di fotosintesi, la conservazione di energia, quindi la
produzione di ATP, è associata ad una catena di trasporto di elettroni e quindi alla generazione di una forza
proton motrice.
40
Le reazioni anaboliche consistono nella biosintesi di quattro classi di macromolecole che sono: gli zuccheri,
CATABOLISMO
gli aminoacidi, i nucleotidi e acidi grassi.
Le reazioni cataboliche degradano i substrati e portano a dei prodotti caratterizzati da una ridotta
complessità molecolare rispetto ai substrati di partenza e questi processi di degradazione e consentono la
produzione di energia.
Al contrario le reazioni anaboliche sintetizzano macromolecole e che hanno una complessità strutturale
superiore rispetto ai costituenti iniziali e questo processo comporta un consumo di energia sotto forma di
ATP.
Zuccheri ePolisaccaridi
Hanno due funzioni principali: (1) sono i costituenti fondamentali della parete cellulare e (2) alcuni
polisaccaridi come glicogeno e amido fungono da magazzino di carbonio quindi rappresentano una riserva
di energia.
La loro sintesi avviene a partire da due precursori che sono l’uridina difosfoglucosio (UDPG) e l’adenosina
difosfogluconato (ADPG).
Come avviene la sintesi del glucosio (gluconeogenesi)? Il glucosio viene sintetizzato quando l’organismo
cresce in assenza di glucosio cioè in presenza di altre fonti carbonate diverse dal glucosio per cui la cellula
ha bisogno di trovare delle strategie per sintetizzarlo.
Il materiale di partenza della gluconeogenesi è il fosfoenolpiruvato che è un intermedio della glicolisi; il
fosfoenolpiruvato è a sua volta sintetizzato dall’ossalacetato che è un intermedio del ciclo di Krebs per
decarbossilazione
La sintesi dei pentosi avviene per rimozione di un atomo di carbonio dagli esosi generalmente mediante
decarbossilazione. I pentosi fondamentali per la sintesi degli acidi nucleici sono il ribosio e il desossiribosio.
Il ribosio‐5‐fosfato viene ottenuto dal glucosio‐sei‐fosfato per decarbossilazione e viene usato per formare i
ribonucleotidi che sono i costituenti fondamentali dell’RNA.
Gli stessi ribonucleotidi possono essere ridotti a livello del gruppo ossidrile posizione due (con
contemporanea ossidazione delle NADfosfato a NADfosfato+) per formare i desossiribonucleotidi che sono
invece i costituenti del DNA.
Amminoacidi
Gli aminoacidi sono i monomeri che costituiscono le proteine; gli organismi che non riescono ad ottenere
gli aminoacidi dall’ambiente devono sintetizzarli da altre fonti
In generale le biosintesi di aminoacidi sono lunghe, complesse e multistep.
In generale i precursori degli aminoacidi sono intermedi del ciclo dell'acido citrico e della glicolisi
La figura rappresenta 5 classi diverse di aminoacidi definite in funzione del precursore:
La famiglia e del glutammato e dell'aspartato che derivano da intermedi del ciclo dell'acido citrico in
particolare la famiglia del glutammato (che include la prolina, glutammina e arginina) che ha come
propulsore l’α‐ketoglutarato mentre la famiglia dell’aspartato (che include asparagina, lisina, metionina,
treonina e isoleucina) ha come propulsore l’ossalacetato (ossalacetato e α‐ketoglutarato sono entrambi
intermedi del ciclo dell'acido citrico)
Poi ci sono la famiglia dell’alanina (valina e leucina e che ha come propulsore il piruvato), della serina e
degli amminoacidi aromatici che derivano da intermedi della glicolisi; la famiglia della serina (che include
glicina e cisteina) e ha come precursore il 3‐fosfoglicerato e la famiglia gli aminoacidi aromatici (tra cui
fenilalanina, tirosina e triptofano) che hanno come precursore il corismato, anch’esso un derivato del
processo glicolitico.
I nucleotidi sono i monomeri che costituiscono gli acidi nucleici e anche le biosintesi dei nucleotidi sono
generalmente molto complesse infatti le purine e le pirimidine sono costruite atomo per atomo da diverse
fonti carbonate e azotate.
La figura A mostra le componenti dello scheletro delle purine (adenina e guanina) e nella figura B invece
vediamo la struttura dell'acido inosinico che è il precursore per la biosintesi della delle purine.
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La figura C rappresenta le componenti dello scheletro della pirimidina (citosina, timina e uracile) e la figura
D di rappresenta la struttura della uridilato che è il precursore delle pirimidine.
Acidi Grassi e Lipidi
Le principali funzioni dei lipidi nei procarioti sono due: (1) la prima importante funzione è che sono i
costituenti fondamentali delle membrane (funzione strutturale) (2) seconda funzione è quella di riserve di
carbonio e di energia (funzione prettamente energetica).
La biosintesi degli acidi grassi (che sono i costituenti fondamentali dei lipidi) in generale procede con
l'aggiunta progressiva di unità bicarboniose quindi a due atomi di carbonio grazie all'aiuto di una proteina
trasportatrice di gruppi acilici che è ACP.
Le unità carboniose non sono altre che molecole di malonil‐ACP (3 atomi di carbonio) che entrano ad ogni
step, la reazione avviene con liberazione di una molecola di CO2, pertanto ad ogni step si aggiungono 2
atomi di carbonio.
Es. Processo biosintetico del palmitato.
Il palmitato è un acido grasso a 16 atomi di carbonio.
Il primo step della sua sintesi è la condensazione di un acetilACP (2 atomi di C) con un
MalonilACP (3 atomi di C) con contemporanea liberazione di una molecola di CO2
per formare un acetoacetilcoenzimaA (formato da 4 atomi di carbonio);
l'acetoacetilcoenzimaA viene ridotto con contemporanea ossidazione di due molecole di
NADfosfato ridotto a NADfosfato (nelle reazioni biosintetiche delle reazioni anaboliche
interviene principalmente la forma fosforilata del NAD).
Con la riduzione dell’AcetoacetilcoenzimaA abbiamo il coinvolgimento di due molecole di
NADfosfato ridotto che vengono ossidate a un due molecole di NADfosfato+ con la
liberazione una molecola d'acqua.
A questo punto il nostro è un prodotto che si ottiene entra nel e nel ciclo biosintetico
in cui ad ogni step viene aggiunta un’unità bicarboniosa fino a raggiungere la
lunghezza dell’acido grasso desiderato.
Queste unità bicarboniose che vengono aggiunte ad ogni step non sono altro che
molecole di malonilACP che entrano ad ogni step e con liberazione di una molecola di CO2 con risultato
dell'aggiunta di due atomi di carbonio.
42
REGOLAZIONE DEL METABOLISMO MICROBICO E ALTRI SISTEMI DI REGOLAZIONE
Il metabolismo microbico come il metabolismo di tutti gli organismi viventi è finemente regolato in modo
da garantire la produzione di energia sotto forma di ATP e la biosintesi e di metaboliti e costituenti cellulari
secondo il fabbisogno della cellula, nella prospettiva di ottimizzare l'utilizzo delle risorse disponibili con il
minore sforzo energetico.
Quindi obiettivo delle della regolazione del metabolismo è proprio quella di ottimizzare gli sforzi energetici
massimizzando la resa.
Per fare questo la cellula deve regolare gli enzimi chiave delle vie metaboliche; I meccanismi di regolazione
si possono classificare in due gruppi:
1. La regolazione dell'attività enzimatica e in questo caso i meccanismi di regolazione si esercitano
sull’enzima già sintetizzato quindi si esplicano a livello del suo funzionamento.
Nell'ambito della regolazione dell’attività enzimatica abbiamo fondamentalmente due meccanismi:
1. Inibizione feedback→ questo po di regolazione e interessa enzimi che catalizzano reazioni
biosintetiche, quindi è una relazione che riguarda enzimi biosintetici.
L’effettore e cioè l’inibitore che esercita il controllo feedback è il prodotto finale
della via biosintetica.
Questo meccanismo fa sì che l’accumulo di un prodotto finale inibisca
un'ulteriore sintesi di tale prodotto prevenendo quindi il dispendio energetico da
parte della cellula.
Gli enzimi sottoposti a questo tipo di regolazione sono definiti enzimi allosterici
perché non presentano due diversi siti di legame (presentano il sito attivo che
riconosce e lega il substrato ed è presenteun sito allosterico che riconosce elega
il prodotto finale che è l’effettore allosterico).
Si possono verificare due casi:
1) Nel primo caso vi è un eccesso di prodotto finale.
Il prodotto finale della via biosintetica si lega al sito allosterico determinando una
modificazione conformazionale dell'enzima tale per cui il sito attivo non è più in grado di
accogliere il substrato.
Quindi l’enzima non potendo legare il substrato ovviamente non svolge la sua attività e
non viene sintetizzato un ulteriore prodotto finale che non serve perché non è presente un
accumulo.
2) Il caso due è caratterizzato da una limitazione del prodotto finale: se il prodotto finale non
è presente, il sito allosterico è libero e l’enzima che è nella sua conformazione catalitica
attiva lega efficacemente il substrato e in seguito all’interazione con il substrato avviene la
reazione che porta alla trasformazione del substrato in prodotto.
In questo tipo di regolazione l’inibizione è reversibile e fondamentalmente risente della
concentrazione nel effettore allosterico che nel caso specifico è il prodotto finale della via
biosintetica.
2. La modificazione covalente dell'enzima →…….
2. La e regolazione dell'enzima può essere fatta a livello genico e parliamo in questo caso di un controllo
dell'espressione genica dell'enzima quindi è una regolazione della sintesi della proteina quindi della
quantità dell'enzima che è reso disponibile per un determinato processo metabolico.
LE VIE BIOSINTETICHE DEI MICRORGANISMI possono essere vie metaboliche lineari molto semplici ma
possono anche essere più complesse, possono presentare delle ramificazioni.
43
Prendiamo prima in considerazione una nel caso più semplice cioè è una via
metabolica lineare.
Diciamo che in una via metabolica lineare l’inibizione tipo feedback è molto
semplice;
in generale l’inibizione viene esercitata sull’enzima chiave della via biosintetica che è il primo enzima della
via (nel caso specifico riportato è l’enzima E1).
Partiamo da un substrato A che viene trasformato in B grazie all'attività catalitica dell'enzima E1;
l’intermedio B viene trasformato nell’intermedio C grazie all'attività dell'enzima E2;
l’intermedio C viene trasformato nel prodotto finale P grazie l'attività dell'enzima di E3.
Abbiamo detto e che l’effettore allosterico nel controllo di tipo feedback è il prodotto finale quindi il
prodotto finale P si comporta da inibitore allosterico dell'enzima E1 perché l’enzima di una via metabolica è
quasi sempre il primo enzima della via biosintetica quindi immaginiamo che sull’enzima E1 ci siano due siti
di legame (il sito attivo che riconosce il substrato e il sito allosterico che riconosce l’effettore allosterico che
nel caso specifico e il prodotto P).
Fintanto che P è presente a basse concentrazioni il sito allosterico non viene saturato dall’effettore
allosterico e quindi il sito attivo dell'enzima E1 è in grado di interagire con substrato A e trasformarlo
nell’intermedio B la reazione procede.
Quando si verifica un accumulo del prodotto P questo va a legarsi al sito allosterico presente sull’enzima E1
il quale cambia conformazione e non lega più A nel sito attivo e quindi si interrompe il processo biosintetico
a livello dell'enzima E1 e non viene sintetizzato P ma non vengono sintetizzati neppure intermedi B e C.
Vi è un preciso motivo per cui gli enzimi chiave sono i primi enzimi delle vie metaboliche: perché potendo
regolare questi enzimi (cioè i primi enzimi delle vie metaboliche) si evita un accumulo inutile degli
intermedi oltre che del prodotto finale.
Quando la via biosintetica è ramificata il meccanismo di regolazione è più complesso e posso analizzare
quattro tipi di controllo:
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1. Inibizione feedback concertata (o multivalente)→ Abbiamo sempre il nostro substrato A che viene
convertito nel intermedio B che viene convertito attraverso uno o più step nell’intermedio C che
rappresenta un crocevia metabolico nel senso che dall'
intermedio C si dipartono due vie: una via porta al
prodotto finale P1 attraverso l’intermedio D mentre
l'altra via porta al prodotto finale P2 attraverso
l’intermedio E.
Quindi in una via metabolica ramificata si ottengono più prodotti finali a partire dallo stesso
substrato.
L’enzima che viene regolato in questo tipo di controllo multivalente è sempre il primo enzima della
via metabolica ok; il controllo sull’enzima E1 è dovuto alla somma dei prodotti finali P1 e P2.
Quindi sull’enzima E1 oltre al sito attivo sono presenti 2 siti allosterici: un sito allosterico che
riconosce il prodotto finale P1 e un sito allosterico che riconosce P2.
L’enzima risulta inattivato solo quando sono presenti entrambi i prodotti finali; cioè solo quando
sia P1 che P2 sono presenti in eccesso a vanno a saturare i loro siti allosterici a livello del primo
enzima (E1) determinando una modificazione conformazionale tale da impedire l'accesso del
substrato A sul sito di legame.
Qual è il significato di questo tipo di controllo? Questa inibizione feedback previene che la cumulo
di uno dei due prodotti finali impedisca la produzione dell'altro prodotto finale anche se
quest'ultimo risultasse necessario.
Se ciascuno dei due prodotti finali esercitasse un controllo indipendente sull’enzima E1 potrebbe
capitare che l’accumulo di uno dei due prodotti vada a bloccare tutto in questo processo
biosintetico e bloccando così la sintesi anche dell’altro prodotto fondamentale per la cellula quindi
questo tipo di controllo garantisce sempre la sintesi di quantitativi sufficienti dei due metaboliti P1
e P2.
2. Inibizione feedback cooperativa→ Lo schema della via metabolica biosinte ca è la stessa quindi
parliamo sempre di una via biosintetica ramificata in cui l’intermedio C rappresenta il crocevia
metabolico e da qui si ottiene o l’intermedio D (enzima E2) che genera il prodotto P1 o
l’intermedio E (enzima E3) da cui si ottiene il prodotto P2.
I singoli prodotti P1 e P2 inibiscono il primo enzima della via metabolica che si trova dopo la
ramificazione (E2 per D ed E3 per E) atttraverso un controllo di tipo completo.
In questo caso abbiamo due tipi di controllo: un controllo indicato con il tratteggio blu che è un
controllo completo e un controllo indicato con il tratteggio verde e che indica un controllo parziale.
Ognuno dei due prodotti finali P1 e P2 esercita indipendentemente un debole controllo sull'attività
enzimatica di E1.
Come nel caso precedente sull’enzima E1 sono presenti due siti allosterici oltre al sito di legame
per il substrato A (il sito allosterico che riconosce l’effettore P1 e il sito allosterico che riconosce
l’effettore P2).
Questi due effettori allosterici si legano indipendentemente cioè se c’è soltanto P1 c'è solo un
parziale controllo per cui l’enzima E1 continua a funzionare meno velocemente ma diciamo la
reazione è catalizzata/portata avanti e quindi si può avere la sintesi di P2; e d’altra parte quando
P1 e P2 sono presenti entrambi, la presenza contemporanea dei due effettori determina una
inibizione completa sull’attività dell'enzima E1 per effetto sinergico.
Riassumendo quando i prodotti P1 e P2 sono presenti singolarmente il controllo è parziale mentre
quando sono presenti contemporaneamente si per verifica un effetto sinergico e quindi si verifica
un controllo totale dell'enzima E1.
Quindi l’enzima E2 che si trova subito a valle del punto di ramificazione e va nella direzione di P1
presenta un sito allosterico riconosciuto dal prodotto finale P1 per cui un accumulo di P1
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determina una saturazione dell’effetto del sito allosterico di E2 e una sua completa inibizione
analogamente l’enzima E3 che si trova subito a valle del crocevia
metabolico rappresentato dall'intermedio C che va nella direzione
di P2 attraverso l’intermedio D che avrà un sito allosterico che
viene riconosciuto dal prodotto finale P2 per cui un accumulo
in eccesso di P2 va a saturare il sito allosterico presente
sull’enzima E3 e a inibire in maniera completa sue attività.
Quindi è chiaro che questo tipo di inibizione è cooperativa e
complessa.
3. Inibizione feedback sequenziale→ La via metabolica nel sequenziale è sempre la stessa quindi
andiamo a vedere in cosa si differenza questo tipo di inibizione feedback rispetto al precedenti.
Ciascun prodotto finale P1 e P2 controlla il primo enzima (E1) dopò la ramificazione ok qui P1
controlla E2 P2 controlla E3 inibendo quindi la conversione dell’intermedio C rispettivamente in D
ed E quindi in ultima istanza inibendo la sintesi del prodotto finale P1 e P2.
Quindi nel controllo feedback sequenziale P1 e P2 controllano in modo completo gli enzimi
posti a valle del punto di ramificazione.
La particolarità di questo tipo di controllo è che P1 e P2 non esercitano
alcun tipo di controllo sul primo enzima nella via biosintetica ma il
controllo su E1 è esercitato in modo parziale dall'intermedio C (crocevia metabolico).
L’intermedio C esercita un controllo parziale e non completo in modo da garantire la
presenza di piccole quantità di C; cioè quando si accumula C vai di vivere in modo parziale l’enzima
E1 ma non in modo totale, in modo che ci sia sempre una certa quantità di C che potrà essere
convertita in P1 e P2 a seconda delle necessità.
Se c'è un accumulo di P1, questo inibisce E2 quindi tutto intermedio C che si forma (anche se in
minore quantità) verrà dirottato in direzione di E che verrà poi trasformato in P2 e viceversa se si
tratta di un accumulo di P2.
Quando entrambi i prodotti finali saranno in eccesso entrambi E2 ed E3 saranno inibiti e quindi
continuerà a formularsi C che a forza di accumularsi provocherà una parziale inibizione di E1.
Questo è un controllo che non previene una continua attività di E1 cioè c'è sempre un accumulo di
C che permette una più rapida conversione nei prodotti finali nel momento in cui la cellula ne
avesse necessità.
46
Quindi un accumulo di P2 andrà a determinare una diminuzione
dell’enzima E1B.
D’altra parte un accumulo di P1 in presenza di una carenza di P2 non
impedisce la trasformazione di A in B perché l’accumulo di P1
inibisce l’enzima E1A ma non ha alcun effetto su E1B che continua a
funzionare quindi la conversione da A a B è garantita.
Lo stesso discorso simmetrico vale per un accumulo del prodotto P2.
Questo è un meccanismo di regolazione estremamente efficiente.
Ricordiamo anche che due prodotti P1 e P2 regalano sempre con controllo feedback negativo
rispettivamente gli enzimi E2 e E3 posti subito a valle del crocevia metabolico; quindi in ogni modo
un accumulo del prodotto P1 impedisce la conversione di C in D e va ad inibire anche l’isoenzima
E1A rallentando il passaggio e da A a B che comunque viene garantito dalla presenza dell’isoenzima
E1B.
Questo è un meccanismo di controllo molto utilizzato dalle cellule batteriche e perché garantisce
sintesi di metaboliti finali secondo il reale fabbisogno della cellula in quanto abbiamo visto
l’accumulo di un prodotto inibisce selettivamente ed esclusivamente la sintesi di quel prodotto
senza condizionare la biosintesi dell’altro prodotto finale che condivide la stessa via metabolica
ramificata .
Es. Escherichia Coli
Questo esempio è rappresentato dalla sintesi degli aminoacidi aromatici (Tirosina, Fenilalanina e
Triptofano) in E. Coli.
L’enzima chiave su cui viene esercitato il controllo isoenzimatico è 3‐deossiD‐arabino‐eptulosonico
7‐fosfato sintetasi (DAHP sintetasi) che porta alla formazione dei 3 amminoacidi aromatici.
Esistono 3 isoenzimi di DAHP sintetasi ciascuno controllato indipendentemente da un prodotto
finale mediante feedback negativo. La tirosina controlla tramite feedback negativo l’isoenzima 1, la
fenilalanina controlla l’isoenzima 2 e il triptofano l’isoenzima 3. L’inibizione completa della sintesi
di questo intermedio DAHP si ottiene solo in presenza di tutti e 3 gli amminoacidi, se invece è
presente un solo amminoacido, la sintesi è garantita, perche il prodotto finale in eccesso andrà ad
inibire solamente il suo isoenzima. Ciascun amminoacido, quando in eccesso, inibisce
rispettivamente gli enzimi che si trovano a valle del corismato (intermedio C) crocevia metabolica,
affinché si interrompa la trasformazione del corismato in quell’amminoacido. Nello stesso tempo
consiste di sintetizzare i metaboliti di cui la cellula ha bisogno, garantendo la loro sintesi.
Un altro tipo di regolazione dell'attività enzimatica che è la regolazione per modificazioni covalenti degli
enzimi.
Le modificazioni covalenti consistono nell’attacco o nella rimozione di alcune piccole molecole all’enzima in
modo da determinare un cambiamento conformazionale dell'enzima e quindi una
modificazione della sua attività.
Diciamo che le più comuni molecole che modificano chimicamente gli enzimi
sono AMP, ADP, PO42 e CH3. Un classico esempio di enzima biosintetico che è
regolato mediante modificazione covalente è la glutammina sintetasi indica con
la sigla GS (che è un enzima chiave del processo di assimilazione di NH3).
L'attività della glutammina sintetasi è modulata dall'aggiunta di gruppi AMP e
questo processo di modificazione chimica si chiama adenilazione (ovvero quando la molecola che viene
aggiunta è l’AMP il processo di modificazione chimica si chiama adenilazione).
Ogni molecola di GS è composta da 12 e subunità identiche ciascuna delle quali può essere adenilata
(l’adenilazione è rappresentata dai pallini Rossi che indicano praticamente un gruppo AMP che si è legato
alla subunità dell'enzima).
47
Quando le cellule crescono in presenza di un eccesso di ammoniaca GS viene adenilata e in relazione alla
concentrazione dell’ammoniaca si può avere un diverso grado di adenilazione.
Fino a 12 gruppi di AMP possono essere aggiunti all’enzima perché 12 sono le subunità (ogni subunità può
interagire con un gruppo AMP quindi possiamo avere un’adenilazione fino a un massimo che corrisponde a
12 gruppi di AMP).
L’attività di GS diminuisce progressivamente con l’aumentare del numero dei subunità adenilate fino ad
arrivare a led annullarsi completamente cioè quando GS è legata a 12 unità di AMP.
Quando non è legato ad alcuna unità di AMP presenta il 100% delle attività, quando è legato a 6 AMP
presenta un'attività pari al 50% e presenta uno 0% di attività quando è legato a 12 gruppi AMP.
Nella figura B si può osservare sull’asse delle X il numero dei gruppi AMD aggiunti ed in ordinata l’attività
della glutammina sintetasi e si osserva una progressiva diminuzione della attività fino ad arrivare allo 0%
con quando il numero dei gruppi adenilati è pari a 12.
Quindi diciamo che quando le cellule crescono in condizioni di limitata disponibilità di
ammoniaca, i gruppi AMB vengono rimossi e l’enzima torna nella sua forma attiva.
L’eccesso di ammoniaca determina l’adenilazione quindi maggiore è la concentrazione di
ammoniaca nella cellulare maggiore e l’adenilazione e quindi si ha un calo progressivo
dell'attività enzimatica.
La conclusione è che in presenza di ammoniaca questo enzima viene inibito.
Alla base di questo meccanismo regolativo vi è la richiesta di ATP da parte dell’enzima GS (che
lavora consumando ATP) quindi la cellula si regola al fine di minimizzare il consumo di ATP.
Essendo un meccanismo dispendioso dal punto di vista energetico in quanto la sua attività
richiede consumo di ATP è chiaro che GS è un enzima estremamente finemente regolando e quindi è attivo
soltanto in presenza di un reale bisogno da parte la cellula.
Allora consideriamo i due casi rappresentati dalle 2 equazioni:
1. L’ammoniaca è presente ad alti livelli quindi penetra e nella cellula ed è disponibile per il
metabolismo cellulare,
In questo caso l’ammoniaca è assimilata in altri amminoacidi (Es. può essere
assimilata e legata ad un glutammato) da parte di enzimi che non consumano ATP.
I sistemi di assimilazione dell'azoto che non consumano ATP hanno generalmente una minore
affinità per l’ammoniaca rispetto a GS.
Quindi questa glutammato deidrogenasi è attiva ed essa rispetto alla glutammina sintetasi (GS) ha
una bassa affinità per l’ammoniaca pertanto l’inibizione di GS che avviene quando la concezione di
ammoniaca è elevata, permette che non ci sia competizione con questi sistemi meno affini (ma
meno dispendiosi dal punto di vista energetico).
Cioè se noi in presenza di elevate concentrazioni di ammoniaca, abbiamo inibita, la GS che ha una
maggiore affinità per l’ammoniaca, essa non compete con la glutammato deidrogenasi che ha una
minore affinità ma la cellula preferisce che lavori la glutammato deidrogenasi perché essa ha un
fabbisogno di ATP più basso.
2. Se i livelli di ammoniaca sono bassi è bassa l’adenilazione (o addirittura nulla) di GS e quindi essa è
forzata ad essere cataliticamente attiva di conseguenza viene consumato ATP ed utilizza il
residuo di ammoniaca per la sintesi di glutammina assente.
Quindi fondamentalmente la vitamina sintetasi interviene per assimilare l’ammoniaca
disponibile quando ormai le risorse di ammoniaca sono già state consumate da altri enzimi sempre
coinvolti nel processo di assimilazione dell’ammoniaca che però sono meno dispendiosi dal punto
di vista energetico.
Uno di questi enzimi è la glutammato deidrogenasi.
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REGOLAZIONE DELLA SINTESI E DELLA QUANTITA’ DI ENZIMA PRESENTE
Tale regolazioni si esercita a livello genico in termini controllo della regolazione e della trascrizione e
dell’espressioni genica.
Possiamo distinguere i due tipi di meccanismi di controllo trascrizionale:
1. Un controllo negativo della trascrizione genica che riguarda gli enzimi degradativi che catalizzano
reazioni cataboliche.
Nel controllo negativo la proteina regolativa è il repressore che blocca la trascrizione quindi la
proteina regolativa è un repressore che va a legarsi ad un sito regolatore bloccando il lavoro del
RNApolimerasi quindi bloccando la trascrizione.
A sua volta il meccanismo di trascrizione genica negativo può essere di due tipi :
1) Induzione→ Abbiamo visto che il meccanismo di controllo feedback riguardava gli enzimi
biosintetici mentre ora sottolineiamo che il meccanismo dell’induzione (controllo negativo
della trascrizione genica) riguarda gli enzimi degradativi che catalizzano reazioni
cataboliche.
Un classico esempio di induzione è la regolazione dell'operone della lattosio, che contiene
tre geni lac (lacZ, lacY e lacA) coinvolti nella degradazione di questo zucchero
(monosaccaride).
La lacZ codifica per la β‐galattosidasi ed ha la funzione di scindere il disaccaride lattosio in
glucosio + galattosio, la lacY codifica per permeasi del lattosio (già vista quando abbiamo
studiato i meccanismi di trasporto) che permette un’up take del lattosio dalla cellula e la
lacA codifica per un’acetilasi del lattosio (il lattosio dev’essere acetilato prima di essere
idrolizzato).
L'operone per definizione è un cluster di geni organizzati in modo lineare consecutivo la cui
espressione è sotto il controllo dello stesso operatore ovvero dello stesso promotore e
terminato.
I geni che appartengono allo stesso operone codificano per proteine ed enzimi che
svolgono funzioni correlate (in questo caso tutte funzioni inserite nel catabolismo del
lattosio).
L’operatore è una regione regolativa del DNA posta valle del promotore (promotore
dell’operone lac a cui si lega l’RNApolimerasi subito a monte dell’operatore lac) e che
controlla la trascrizione interagendo meno con una proteina regolativa che si chiama
repressore (nel caso A l’operatore interagisce con il repressore nel caso B ciò non avviene).
Nella regolazione dell’operone lac possiamo avere due situazioni differenti:
a) Il caso A è caratterizzato dall'assenza del lattosio.
In questo caso il repressore che è presente forma attiva
e legato a l’operatore e questa interazione specifica fra
repressore e operatore impedisce all’RNApolimerasi di
trascrivere i geni lac.
b) Il caso B è caratterizzato dalla presenza di lattosio.
Il lattosio (substrato degli enzimi catabolici) si
comporta induttore quindi si lega alla proteina
repressore inattivandola.
Quindi in presenza di lattosio il repressore è inattivo, non è più in grado di legarsi
all’operatore e quindi lascia libera l’RNApolimerasi di trascrivere i geni lac (quindi
la trascrizione procede e vengono sintetizzati gli enzimi deputati al catabolismo del
lattosio.
49
Questo meccanismo risponde ad una precisa necessità metabolica: se il substrato del
processo catabolico è assente è inutile per la cellula attivare la trascrizione che geni
che codificano per enzimi coinvolti in tale catabolismo se invece il substrato è presente
è quest’ultimo ad andare a indurre la trascrizione dei geni per la sua degradazione.
a) Il caso A è caratterizzato dall' assenza di arginina(il metabolita finale della via
biosintetica).
In questo caso il repressore è presente in forma inattiva e non riesce a legarsi
all’operatore quindi diciamo una situazione speculare
rispetto a quella descritta nell’Induzione.
In questo caso il repressore è normalmente presente
in forma inattiva quindi in condizioni normali il
repressore non si lega all’operatore delle operone
dell’arginina e si procede con la sintesi e degli RNA
che poi porteranno alla sintesi degli enzimi
biosintetici.
b) Il caso B è caratterizzato dalla presenza di arginina o meglio da un accumulo di
essa.
In questo caso l’Arginina (prodotto finale della via biosintetica) funge da
corepressore quindi questa si lega al repressore attivandolo.
Il repressore attivo quindi si lega all’operatore bloccando la trascrizione di ArgC,
ArgB e argH.
In conclusione, gli enzimi coinvolti nella sintesi dell’aminoacido arginina vengono
sintetizzati dalla cellula solo se vi è carenza di questo amminoacido nella cellula.
Se l’arginina è in eccesso non occorre sintetizzarla ed infatti la stessa arginina va a
bloccare la trascrizione dei geni arg.
L’arginina come tutti gli amminoacidi (metaboliti primari) è sintetizzata mediante un
processo di biosintesi che è sotto controllo genico della repressione.
Quindi generalmente i geni codificano per gli enzimi coinvolti nella biosintesi di
amminoacidi sono e regolati in modo tale che il repressore sia inattivo e quindi la
sintesi dei geni avvenga perché è fondamentale avere la produzione
dell’amminoacido; d’altra parte quando si verifica un accumulo di quel amminoacido
la cellula si regola con questo tipo di intervento per cui lo stesso amminoacido che è
presente in eccesso va ad agire da corepressore attivando il repressore e andando a
bloccare la trascrizione dei geni.
La differenza sostanziale tra induzione e repressione è che nella prima c'è un
meccanismo che permette e l'attivazione di un macchinario trascrizionale ed
enzimatico solo in presenza di un particolare substrato che può esserci ma può anche
non esserci; mentre la repressione è un meccanismo che va a garantire che la
biosintesi di metaboliti primari come aminoacido fondamentale per la crescita
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cellulare sia sempre attiva e blocca questo meccanismo solo quando si verifica un
accumulo eccessivo di tali metaboliti.
2. Un controllo positivo che si dice attivazione.
Nel controllo positivo la proteina regolativa è un attivatore che invece ha la funzione esattamente
contraria cioè quella di andare a interagire sempre con un sito regolatore (in prossimità del
promotore del gene) attivando la trascrizione.
Un esempio classico di attivazione, ossia di controllo positivo della trascrizione, è la regolazione del
catabolismo del maltosio in E. Coli a livello di enzimi catabolici.
I promotori degli operoni regolati mediante meccanismi di attivazione presentano sequenze
nucleotidiche che legano debolmente l’RNApolimerasi e possiamo quindi possiamo definirli
promotori deboli.
Il ruolo dell’attivatore (proteina) è quello di aiutare l’RNApolimerasi a riconoscere il promotore per
far partire la trascrizione quindi l’attivatore fondamentalmente ha la funzione di assistere
l’RNApolimerasi nel riconoscimento e nella interazione con il promotore (perché è un promotore
debole, caratterizzato da una bassa affinità di legame per l'RNApolimerasi.
Una proteina attivatore è una proteina che si lega al DNA nel sito di legame all’attivatore (activator
binding site) che si chiama vedete che si trova subito a monte del promotore dell’operone.
Anche in questo caso si possono verificare due situazioni:
a) Il caso A è caratterizzato dall’assenza di maltosio.
Quindi è assente lo zucchero per il quale questi enzimi
(malE, malFe malG) sono coinvolti nel catabolismo.
Quindi in questo caso l’attivatore non è in grado di legarsi al
sito attivo del DNA e in assenza di attivatore
l’RNApolimerasi si lega poco o per nulla al suo promotore e
quindi la trascrizione dei geni catabolici del maltosio non
parte.
In assenza di maltosio dal punto di vista economico ovvero dal punto di vista
dell’efficienza energetica
b) Il caso B è caratterizzato dalla presenza di maltosio.
Il maltosio si composta da induttore (come avevamo visto per il lattosio).
Il maltosio si Lega all’attivatore che presenterà un sito di legame specifico per il
riconoscimento dell’induttore (ovvero il maltosio) e questo determina una modificazione
conformazionale dell'attivatore che consente a quest'ultimo di interagire con il suo DNA
binding site (regione celeste a Monte del promoter);
Quest’interazione permette all’RNApolimerasi di legarsi al promotore e di far partire la
trascrizione dei geni mal che codificano per enzimi catabolici del maltosio e quindi il malto
che è presente nella cellula e che è conveniente sfruttare come fonte carbonata viene
idrolizzato (quindi degradato).
Quindi come nel controllo negativo dell' operone lac anche il controllo positivo
dell'operone mal garantisce la sintesi degli enzimi catabolici solo in presenza del substrato
(che in questo caso è il maltosio ma nel caso dell’induzione era il lattosio).
CONTROLLO GLOBALE DELL’OPERONE LAC
Il controllo globale dell’operone lac è un po’ una sintesi di come vengono messi in atto diversi meccanismi
di sintesi.
Diversi meccanismi di controllo possono concorrere alla regolazione globale di una via metabolica.
51
Abbiamo fino ad ora osservato dei casi semplici ma molti processi metabolici presentano più meccanismi di
regolazione che si intersecano e questo viene chiamato controllo globale.
Un esempio classico è il controllo globale nell’operone lac in E. Coli.
Il controllo globale dell’operone lac prevede un controllo negativo (l’induzione): in cui la proteina
repressore lacI (“lac uno”) lega l’operatore (O) a meno che non sia presente l’induttore (il lattosio in questo
caso) che invece legandosi a lacI la inattiva impedendo la traduzione dei tre enzimi (lacZ, lacY e lacA).
Nello stesso tempo avviene un controllo positivo (o attivazione o repressione da catabolita) è il secondo
controllo ed è definito anche repressione da catabolita perché la presenza o l’assenza di glucosio e il suo
catabolismo giocano un ruolo chiave in questo tipo di controllo.
Il glucosio è la fonte carbonata più presente in natura e gli enzimi che lo degradano sono costitutivi ovvero
sempre costituzionalmente espressi nella cellula e quindi non subiscono processi regolativi.
Per questo se il glucosio è disponibile esso viene sempre utilizzato come
prima fonte energetica e solo quando esso è esaurito allora la cellula
batterica può consumare altre fonti carbonate tra cui il lattosio.
Più in generale la repressione da catabolita controlla , oltre che le reazioni
cataboliche, l’espressione di diversi operoni (principalmente operoni
catabolici ma anche altri operoni con quelli che riguardano la sintesi dei
flagelli).
Cosa succede se presente il glucosio?
Se è presente il glucosio viene inibita la sintesi di AMP ciclico a partire da ADP
attraverso una reazione di inibizione dell’enzima adenilciclasi responsabile
della sintesi di AMP ciclico (e quindi i livelli di AMP ciclico si riducono)
La proteina CRP è fondamentalmente una proteina attivatrice che in
presenza di glucosio non viene attivata e si lega al sito C del DNA .
la proteina parli CRP (proteina attivatrice) per potersi legare al suo sito di legame C deve essere a sua volta
essere legata ad un AMP ciclico che se i livelli di glucosio sono elevati non viene sintetizzato, di
conseguenza CRP non si legga al sito c del DNA e quindi la trascrizione dei geni lac non parte.
Quindi in presenza di glucosio la trascrizione dei geni lac non parte perché prima la cellula vuole
consumare il glucosio; viceversa in assenza di glucosio i livelli di AMP ciclico sono elevati, l’AMP ciclico si
lega alla proteina CRP, che a sua volta si lega al sito attivo del DNA a monte del promotore e questo fa sì
che l’RNApolimerasi si leghi al promotore e vengano trascritti i geni lac; ma i geni lac per essere trascritti
devono anche presentare il repressore inattivo quindi anche l'operatore deve essere.
Quindi per compiere la trascrizione dei geni lac e permettere la sintesi degli enzimi coinvolti nel
catabolismo del lattosio sono indispensabili due condizioni: l'assenza di glucosio e la presenza di lattosio.
MECCANISMI DI TRASDUZIONE DEL SEGNALE NEI PROCARIOTI
I procarioti regolano il metabolismo cellulare in risposta agli stimoli ambientali (che possono essere
variazioni di parametri ambientali quali temperatura, disponibilità i ossigeno e di sostanze nutritive, oppure
anche la presenza di altri organismi nell’aria).
Tutti questi fattori ambientali possono rappresentare degli stimoli che in un qualche modo intervengono
nella regolazione del metabolismo della cellula procariotica
Esistono quindi dei diversi per sistemi di regolazione con i quali le cellule ricevono dei segnali dall'ambiente
esterno e li trasmettono a specifici target che devono essere regolati.
Il processo di trasferimento del segnale che proviene dall'esterno alle proteine regolatorie che controllano
la trascrizione genica viene definito trasduzione del segnale.
Il sistema di regolazione a due componenti è estremamente diffuso nei procarioti come strategia
trasduzione del segnale che proviene dalla matrice e extracellulare.
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Si chiama sistema di regolazione a due componenti perché è basato su due componenti ovvero: una
proteina chinasi (localizzata nella membrana citoplasmatica) questa fosforila se stessa risposta ad un
segnale ambientale utilizzando un gruppo fosfato rilasciato da una molecola di ATP (quindi questa
autofosforilazione comporta il consumo di ATP); poiché l'autofosforilazione avviene a livello di residui di
istidina queste chinasi sensori appartengono alla classe delle istidinchinasi (poiché l’autofosforilazione della
chinasi avviene proprio livello di un residuo di istidina).
Poi abbiamo la seconda proteina che è un regolatore di risposta (che nell’esempio riportato è un
repressore).
Il regolatore di risposta ha una localizzazione diversa dalla chinasi che si trova a livello della membrana; il
regolatore di risposta è una proteina citoplasmatica che riceve un gruppo fosfato dall’autofosforilazione
della chinasi che quindi in forma fosforilata è in grado di legarsi al DNA e
modulare la trascrizione genica.
Un sistema di regolazione bilanciato deve avere un feedback loop cioè un
modo per chiudere il circuito regolatorio e terminare la risposta.
Questo feedback loop coinvolge una fosfatasi, una un’attività enzimatica
che può essere presente nel regolatore risposta, che lentamente idrolizza
gruppo fosfato allontanandolo dal regolatore di risposta, il quale senza
gruppo fosfato non ha più questa caratteristica di elevata affinità
all’operatore, per cui il regolatore di risposta si stacca e quindi torniamo
alla base line di questo.
Un esempio di sistema a due componenti è la regolazione della chemiotassi.
La chemiotassi utilizza un sistema a due componenti per regolare la rotazione del flagello (flagelli che sono
preesistenti quindi non viene regolata una trascrizione di geni che codificano flagelli ma viene regolata la
rotazione quindi il movimento)
La figura presenta l'interazione delle proteine MCP (Methyl‐accepting chemotaxis proetein) con le proteine
Che (tra cui vi sono le chinasi sensore ed i regolatori di risposta) e con il motore flagellare.
La regolazione della chemiotassi avviene in tre step:
1. Risposta al segnale In questo sistema di regolazione giocano un ruolo chiave le proteine MCP che sono
proteine che avvertono la presenza di diversi composti chimici (che possono essere attrattivi, per esempio
zuccherino e quindi sostante nutritive, fonti carbonato, oppure repellenti, per esempio sostanze tossiche o
metalli pesanti).
Nell'esempio troviamo sostanze repellenti.
La proteina NCP forma un complesso con le proteine citoplasmatiche Che A e CheW.
CheA è una chinasi sensore della chemiotassi mentre CheW (che è associata a CheA) è un aiutante della
chinasi sensore, coadiuva la chinasi sensore CheA nell’autofosforilazione.
Quando MCP lega una sostanza chimica, cambia la sua conformazione, e con l'aiuto di CheW che abbiamo
detto essere una proteina ausiliaria e, questo cambiamento di conformazione, favorisce l'autofosforilazione
di CheA (proteina sensore Chinasica).
Quindi l’autofosforilazione della chinasi comporta il consumo di una molecola di ATP.
Il CheA fosforilato passa il segnale a due possibili regolatori di risposta che sono CheY e CheB.
Di conseguenza ci sono due possibili eventi:
‐CheA fosforilata passa il proprio gruppo fosfato a CheY che diventa CheY‐P che è in grado di controllare la
rotazione flagellare.
Oppure
‐La chinasi sensore CheA cede il gruppo fosfato a CheB, che una volta fosforilato, va a sottrarre gruppi
metilici dalla proteina recettore MCP intervenendo nella risposta adattativa.
Possiamo concludere lo step 1 osservando che le sostanze chimiche attrattive diminuiscono il grado di
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fosforilazione mentre le sostanze repellenti lo aumentano infatti l’esempio riportato è quello di una
sostanza repellente.
2. Controllo della rotazione In step caso CheY è la proteina chiave del sistema perché determina la direzione
della rotazione del flagello.
Se la rotazione del flagello è antioraria la cellula continua a muoversi nella corsa, se la rotazione è a oraria
la cellula continua a muoversi.
CheY‐P interagisce direttamente con il motore flagellare e induce una rotazione oraria che interrompe la
corsa.
Quindi il risultato di tutta questa catena di trasferimento del segnale (che parte dall’alterazione del
repellente con la proteina MCP che porta alla fosforilazione di CheA, che a sua volta porta alla fosforilazione
di CheY) è che CheY‐P interagisce direttamente con il motore flagellare inducendo una rotazione oraria che
interrompe la corsa.
CheY‐P può essere defosforilato a CheY da parte della
proteina CheZ.
Nella forma defosforilata CheY non interagisce con il motore
che riprende il suo movimento antiorario causando quindi la
ripresa della corsa della cellula.
Quindi solo nella forma fosforilata CheY è in grado di
interagire con il motore flagellare inducendo una rotazione
oraria e quindi interrompendo il movimento.
3. Adattamento Una volta che l’organismo ha risposto con successo ad uno stimolo, la risposta ovviamente
si deve fermare, il sistema si deve resettare per essere pronti a rispondere a nuovi segnali.
Durante l'adattamento delle sistema chemiotattico interviene un feedback loop (un po' come abbiamo
visto nello schema generale del sistema regolatorio a due componenti); in questo caso quindi anche nella
regolazione della chemiotassi interviene un feedback loop che resetta il sistema.
In questo feedback loop di resettamento gioca un ruolo chiave l'altro regolatore di risposta che è CheB.
Le proteine CheR (presenti in figura) continuano ad aggiungere gruppi mettici alle proteine MCP
transmembrana.
CheB fosforilato è una demetilasi che rimuove i gruppi metilici dall’MCP.
Il grado di metilazione delle proteine transmembrana MCP è cruciale perché controlla la loro capacità di
rispondere ed interagire con le sostanze chimiche (attrattive o repellenti) in modo particolare: maggiore è il
grado di metilazione maggiore è la sensibilità ai repellenti, minore è il grado di metilazione, maggiore è la
sensibilità alle sostanze attrattive.
Quindi diciamo che il grado di metilazione delle MCP determina l’affinità di queste proteine di legame alle
sostanze repellenti o alle sostanze attrattive.
Oltre alla chemiotassi esistono altre forme di movimento che sono la Fototassi in cui le proteine sensibili
alla luce sostituiscono le MCP e quindi in questo caso il segnale non è una sostanza chimica ma è una
radiazione luminosa e la Aerotassi in cui le proteine redox monitorano il livello ossigeno e sostituisco lei
MCP.
Questi sensori poterci (sia di fototassi che di aerotassi) interagiscono con le proteine Che nel citoplasma per
direzionare il movimento cellulare.
QUORUM SENSING
Il quorum sensing è un meccanismo con il quale i batteri avvertono la densità di popolazione.
Molti batteri usano il quorum sensing per assicurarsi che il numero di cellule appartenenti alla stessa specie
sia sufficiente per cominciare delle attività che richiedono un’alta densità cellulare per essere svolte con
successo.
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Un esempio è rappresentato da batteri patogeni che esplicano le attività di tossiche nei confronti
dell’ospite solo in caso siano presenti ad alte concentrazioni.
A basse concentrazioni, per esempio, la produzione di una tossina sarebbe uno sforzo pressoché inutile
quindi la produzione della tossina avviene in seguito ad un meccanismo di quorum sensing delle cellule
durante cui i batteri percepiscono che la presenza di cellule sia adeguata per poter sostenere il processo di
infezione.
Il quorum sensing è ampiamente diffuso tra i batteri gram negativi e anche in alcuni batteri gram positivi.
Un ruolo chiave del quorum sensing è svolto dall'autoinduttore che è una molecola segnale specie‐specifica
(quindi specifica per una determinata specie batterica) che raggiunge concentrazioni elevate in presenza di
elevate densità cellulari.
In queste condizioni, l’autoinduttore entra nelle cellule vicine e si lega ad una proteina attivatore che agisce
a livello del DNA che attiva la trascrizione di specifici geni del quorum sensing.
Tra questi geni possono esserci anche i geni che codificano per enzimi che sono
coinvolti nella sintesi dello stesso autoinduttore per cui il fenomeno di produzione
dell’autoinduttore si autoalimenta.
Ci sono numerosi classi di autoinduttori, per esempio nei batteri gram negativi i
più appresentati gli AHL (acyl homoserine lactones) in cui il sostituente R è un
archile che può avere da 1 a 17 atomi di carbonio(quindi queste molecole di
carbonio possono differenziarsi in funzione della lunghezza delle sostituente R);
nei batteri gram positivi invece di solito funzionano da autoinduttori diversi
piccoli.
In seguito alla interazione tra questi autoinduttori con le proteine attivatrici avviene l’attivazione della
trascrizione di determinati geni (tra cui i geni coinvolti nella sintesi dell’autoinduttore stesso) ma anche
l'attivazione di altri geni, per esempio nel caso specifico che abbiamo descritto dei organismi patogeni
questo meccanismo di autoinduzione può portare anche all’attivazionedel la trascrizione di geni coinvolti
nella sintesi delle tossine.
Un esempio di Quorum sensing lo possiamo osservare in Aliivibrio fischeri che è un batterio marino
bioluminescente.
Il meccanismo di quorum sensing è stato studiato per la prima volta in questo organismo bioluminescente.
La luce che questo organismo emette è generata dall’enzima luciferasi che è codificato dall’operone lux;
quest’operone è sotot il controllo della proteina attivatore LuxR che è in grado di attivare la trascrizione
quando la concentrazione di uno specifico autoinduttore (che è proprio un AHL) è sufficientemente alta.
Quindi l’operone lux è proprio sotto il controllo di una proteina attivatore che quando viene attivata va a
sua volta ad attivare la trascrizione solo quando la concentrazione cellulare di quella determinata specie è
sufficientemente elevata.
Un altro esempio è quello di Pseudomonas aeruginosa in cui il quorum sensing assiste le cellule nella
transizione dalla crescita planctonica (crescita in sospensione liquida) a quella biofilm (crescita in una
matrice semisolida formata da polisaccaridi che vengono prodotti dall’organismo).
Quindi quando un microrganismo e soprattutto un microrganismo patogeno transitata da una modalità di
crescita planctonica una modalità di crescita in biofilm, la sua patogenicità diventa molto più evidente e
questo passaggio è guidato da un meccanismo di quorum sensing quindi si verifica solo quando la
concentrazione cellulare è elevata.
Un altro esempio di quorum sensing riguarda Staphylococcus aureus ed in questo caso il quorum sensing
controlla la produzione e la secrezione dei piccoli peptidi extracellulari che danneggiano le cellule
dell’ospite e che interferiscono con il sistema immunitario aumentando il potenziale patogeno del batterio.
Abbiamo detto prima che le nei batteri gram negativi l’autoinduttore è un AHL mentre nei batteri gram
positivi come in questo caso come nel caso l’autoinduttore è un piccolo peptide.
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Quindi se la concentrazione di Staphylococcus aureus raggiungerà e supererà un certo valore critico,
aumenterà al di sopra di un certo valore critico anche la concentrazione di questo autoinduttore ed a
questo livello di concentrazione l’autoinduttore è in grado di danneggiare le cellule dell’ospite interferendo
in maniera significa con il sistema immunitario.
RISPOSTA STRINGENTE (SR)
La risposta stringente è un altro esempio di controllo globale del metabolismo, si può definire come un
meccanismo di aggiustamento del macchinario biosintetico cellulare in risposta disponibilità di
sostanze nutritive e di energia.
Nella figura A sono rappresentate: la cinetica della curva di crescita cellulare (la curva verde), la
cinetica della sintesi di RNA e proteine (curva rossa) e la cinetica della sintesi dei mediatori
della risposta stringente (curva blu tratteggiata), quando il sistema passa da una crescita in
terreno ricco ad una condizione di limitazione di nutrienti (per esempio una connessione di
limitazione di un aminoacido).
In condizione di fame (starvation) si ferma la crescita cellulare e la sintesi di RNA e proteine
perché si verifica una situazione di stress per esempio limitazione uno specifico amminoacido .
Nel momento in cui si ferma la crescita cellulare e la sintesi di RNA e proteine incomincia la
sintesi dei mediatori della risposta stringente che sono una miscela di due nucleotidi (ppGpp
guanosina tetrafostafo e pppGpp guanosina pentafosfato).
Questa miscela può essere genericamente definita come alormone.
Nella figura C è rappresentato il normale processo di traduzione che richiede la presenza di
RNA transfer carichi su ribosomi e quindi se l’RNAtransfer carico porta il suo amminoacido la
traduzione avviene normalmente.
Nella figura D è rappresentando ciò che avviene in condizioni di limitazione come per esempio la
limitazione di amminoacidi.
L’RNAtranfert in questo caso è scarico e non presenta l’amminoacido.
L’RNAtranfert scarico può legarsi al ribosoma bloccando l'attività del ribosoma e questo evento induce la
proteina RelA a sintetizzare gli allomoni consumando ATP; gli allomoni esercitano un controlo globale sul
metabolismo inibendo la sintesi degli RNAribosomali e RNAtransfert e attivando la trascrizione di operoni
per la biosintesi amminoacidi.
RISPOSTA ALLO SHOCK TERMICO
La risposta allo shock termico è un altro tipo di controllo globale.
Le proteine da shock termico vengono sintetizzate in condizioni di stress che può essere il calore ma può
anche essere esposizione ad agenti chimici o radiazioni ultraviolette.
Queste proteine e hanno la funzione è importante di assistere la cellula a riprendersi da danni provocati
dallo stress.
In E. Coli come nella maggior parte dei prtocarioti ci sono tre classi principali di heat shock proteins:
1. L’Heat shock protein 70 (Hsp70) detta anche Dnk che ha la funzione di stabilizzare proteine destrutturate
a causa dello stress e quindi previene la formazione di proteine di nuova sintesi.
2. L’Heat shock protein 60 (Hsp 60) detta anche GroEL e l’heat shock protein 10 (Hsp19) detta anche GroES
catalizzano il corretto ripiegamento di proteine denaturate.
Nei batteri la risposta allo stress termico è controllata da fattori sigma alternativi che sono l’RpoH o l’RpoE.
Il fattore sigma RpoH controlla le espressioni heat shock proteins a livello del citoplasma mentre il
fattoresigma RpoE controlla le espressione di heat shock proteins a livello nel periplasma.
Si possono avere due situazioni:
‐Situazione A:temperature normali
La proteina DnaK si lega al fattore RpoH favorendone la rapida degradazione da parte di proteasi.
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Quindi condizioni di base temperature le proteasi vanno a degradare il fattore e RpoH.
‐Situazione B: In condizione di alte temperature o di u altro tipo di stress la concentrazione di proteine
denaturate è alta a causa dello stress e queste potente legano e chaperonina DnaK sottraendola al legame
con il fattore RpoH che è quindi libero, non viene degradata le proteasi e attiva
iscrizione di geni hot shock che codificano per le proteine che concorrono a riparare il
danno cellulare.
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CRESCITA MICROBICA
In microbiologia la crescita è definita come un aumento del numero delle cellule.
Le cellule microbiche hanno una durata di vita finita e una specie è mantenuta grazie alla crescita continua
della sua popolazione.
La fissione binaria è un processo di divisione cellulare in cui due cellule figlie vengono generate da una
cellula madre.
Nella figura è rappresentata la fissione binaria in batteri rod‐shaped quindi batteri a forma di bastoncino
(ES. E. Coli).
Il processo prevede alcune fasi:
1. la prima fase è l’elongazione cioè la cellula si allunga fino a raggiungere una dimensione
doppia rispetto alla lunghezza originaria
2. Il secondo step è una formazione di un setto; la cellula forma una sorta di partizione che
deriva dalla crescita interna della membrana citoplasmatica e della parete cellulare
3. il terzo step è la separazione delle cellule figlie; in quest'ultima fase in pratica viene
completata la formazione del setto e si verifica la separazione delle due cellule figlie.
Quindi la fissione è detta binaria perché il numero di cellule raddoppia ad ogni generazione.
Quando da una cellula si formano due cellule figlie è venuta una generazione, ora cerchiamo di definire il
tempo di generazione indicato anche come “tg” ed è il tempo richiesto perché avvenga una generazione
cellulare.
Durante una generazione tutti i costituenti cellulari aumentano proporzionalmente; ciascuna cellula figlia
ricevo un cromosoma e sufficienti di copie di ribosomi e macromolecole allo scopo di esistere come cellula
autonoma e indipendente.
Il tempo di generazione è estremamente variabile in funzione della specie (quindi è specie specifico) e
dipende anche da fattori genetici, nutrizionali e ambientali (Es. la temperatura).
Quindi il tempo di generazione è un parametro costante a parità di specie e condizioni nutrizionali e
ambientali.
Il tempio di generazione medio di una cultura di laboratorio di E. Coli coltivata in un terreno classico per i
batteri come e Luria‐Bertani è di 20 minuti.
La crescita dei microrganismi può avvenire in due forme:
1. Forma Platonica → le cellule microbiche vivono in sospensione ed è quello che si verifica per
esempio in diversi ambienti acquatici ed è una crescita microbica in medium liquido.
2. Forma di Biofilm→ le cellule microbiche crescono adese ad una superficie.
Un Biofilm si forma attraverso tre stadi:
1) Attacco delle cellule platoniche ad una superficie (che può essere una superficie biotica o
una superficie abiotica).
2) Produzione di una matrice polisaccaridica esocellulare.
3) Ulteriore crescita microbica che risulta nella formazione di un biofilm maturo e
impenetrabile.
Alcuni biofilm possono essere addirittura multistrato.
Questi biofilm maturi presentano un’incrementata resistenza a sostante chimiche (per
esempio antimicrobici) e un'aumentata capacità di eludere il sistema immunitario.
quindi se parliamo di microrganismi patogeni la formazione di biofilm è un elemento importante di
virulenza perché in primis il biofilm favorisce l’adesione all’epitelio ed in secondo luogo incrementa la
resistenza alle sostanze chimiche poiché le cellule microbiche l'interno del biofilm sono più difficilmente
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raggiungibili e penetrabili dall' antibiotico ed infine sono più resistenti all’azione dei mediatori della risposta
immunitaria.
CURVA DI CRESCITA MICROBICA
La crescita microbica può avvenire in 2 condizioni: possiamo avere un sistema chiuso (detto anche sistema
batch o cultura batch) che non permette alcuno scambio con l'ambiente esterno (quindi nel momento in
cui io faccio l’inoculo all’interno di un contenitore in cui è presenta il treno culturale, il contenitore viene
chiuso e il sistema rimane chiuso e la crescita avviene per un certo perditempo fintanto che non si
esauriscono i nutrienti); e possiamo avere un sistema aperto (in questo caso si parla di cultura continua)
che permette lo scambio con l'ambiente esterno e si verifica un continuo apporto di nutriente di substrato
fresco e una continua fuoriuscita dal sistema di terreno culturale esausto attraverso un flusso che passa
attraverso il sistema.
La figura rappresenta la curva di crescita microbica di una cultura Batch quindi di un sistema chiuso (che si
può realizzare in un laboratorio, all’interno di una beta, all’interno di un turbo o altri strumenti contenenti il
terreno culturale idoneo alla crescita del microrganismo).
La curva di crescita descrive la variazione della concentrazione cellulare che possiamo chiamare anche
biomassa quindi in ordinata abbiamo due diversi tipi di lettura della concentrazione cellulare: a sinistra
abbiamo la conta vitale (curva rossa) mentre a destra abbiamo la densità ottica (curva verde).
Andiamo a descrivere le diverse fasi della curva.
La curva di crescita presenta quattro fasi:
1) Fase di lag o fase di latenza→ In questa fase le cellule si ada ano alle nuove condizioni culturali e si
verifica una riorganizzazione genica ed enzimatica che permette al microrganismo di utilizzare i
substrati presenti nel terreno.
La capacità di utilizzare i substrati è quindi la premessa fondamentale per la crescita.
2) Fase esponenziale→ In questa fase si verifica la crescita cellulare che avviene proprio in modo
esponenziale con una velocità che dipende dal microrganismo e dalle specifiche condizioni culturali
in cui si trova.
La velocità di crescita è inversamente proporzionale al
tempo di generazione (tanto minore è il tempo di
generazione, tanto maggiore è la velocità specifica di
sviluppo questo individuo) ed è maggiore nei procarioti
rispetto al eucarioti quindi i procarioti generalmente
hanno elevate velocità specifica di sviluppo e bassi tempi
di generazione.
3) Fase stazionaria→ Si passa dalla fase esponente alla fase stazionaria quando si esaurisce il
substrato limitante (per esempio la fonte carbonata) o si accumula un metabolita tossico che
ostacola alla crescita cellulare.
Durante la fase stazionaria non si verifica più accumulo di biomassa cioè la concentrazione
cellulare rimane costante e la velocità di crescita al cellulare è uguale a 0 o perché si interrompe la
duplicazione cellulare o perché sì perché la velocità di crescita diventa uguale alla velocità di
morte.
In questa fare le cellule non si duplicano ma restano vive e metabolicamente attive quindi il
metabolismo è attivo.
4) Fase di morte→ Questa fase è visibile solo con il metodo del conteggio vitale perché questo
metodo è grado di discriminare le cellule vive e le cellule morte.
Questa fase corrisponde alla morte delle cellule microbiche che si verifica prolungando la
coltivazione del microrganismo in un terreno esausto cioè privo di principi nutritivi.
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La morte cellulare avviene e in modo esponenziale ma con una velocità decisamente minore
rispetto alla velocità di crescita.
Le varie fasi della curva di crescita sono strettamente correlate al metabolismo microbico.
I microrganismi producono due tipi principali processo continuo e metaboliti secondari.
I metaboliti primari sono aminoacidi, nucleotidi, acidi grassi cioè di mattoni fondamentali per la sintesi
delle macromolecole biologiche (proteine, acidi nucleici e lipidi); questi metaboliti vengono prodotti in fase
esponenziale e sono fondamentali per sostenere la duplicazione cellulare e la crescita microbica perché
sono le unità fondamentali delle macromolecole.
I metaboliti secondari (tra cui la categoria più importante è sicuramente quella degli antibiotici e in
generale tutti i metaboliti che esplicano attività antimicrobica come per esempio batteriocine
biosurfattanti) sono prodotti e in fase stazionaria e sono quindi svincolati dalla crescita microbica (durante
la fase stazionaria non si verifica più crescita microbica anche se il metabolismo è attivo) quindi i metaboliti
secondari sono svincolati dalla crescita microbica.
Il significato fisiologico dei metaboliti secondari è la capacità che queste sostanze hanno, di permettere al
microrganismo di competere con altri microrganismi nello stesso habitat.
Per poter competere con i batteri presenti nello sesso habitat è fondamentale la capacità di produrre
antibiotici; certi antibiotici non sono prodotti in fase esponenziale perché potrebbero interferire con la
crescita cellulare ma sono prodotti quando la crescita è terminata.
Oltre a queste due categorie principali metaboliti i microrganismi possono produrre anche un terzo tipo di
metaboliti: i metaboliti parzialmente legati alla crescita.
I metaboliti parzialmente associati alla crescita vengono prodotti in una tarda fase esponenziale inizio fase
stazionaria (quindi in una fase intermedia) ed i più importanti sono gli acidi organici come l'acido lattico o
l’acido acetico e anche questi possono avere un significato di competizione rispetto alla presenza di altri
microrganismi che condividono lo stesso habitat.
MATEMATICA DELLA CRESCITA ESPONENZIALE
Ci concentriamo sulla fase esponenziale della curva di crescita e ne descriviamo il modello cinetico.
La variazione della concentrazione cellulare nel tempo µX (che si esprime come dX/dt) dipende dalla
velocità specifica di crescita µ (h‐1) del microrganismo nelle specifiche condizioni culturali in cui il
microrganismo si trova e dalla concentrazione stessa.
Questa variazione è descritta dalla equazione differenziale: = µ
X=concentrazione cellulare (detta anche biomassa) espressa in g/L o anche come numero di cellule/L
t= tempo espresso in h
µ= tasso specifico di crescita espresso in h‐1
Andiamo a risolvere l'equazione differenziale integrando tra x e x0 il primo membro e t con t0
il primo membro dove x è la concentrazione cellulare al tempo t della fase esponenziale
(stiamo considerando due tempi diversi la fase esponenziale e vogliamo vedere come in questo periodo di
tempo si ha un incremento della concentrazione cellulare), mentre x0 è la concentrazione cellulare al tempo
t0.
Risolvendo l'integrale si ottiene un equazione in forma logaritmica: lnX ‐ lnX0 = µt → lnX = lnX0 + µt (1)
questa equazione 1 è l’equazione corrispondente di una retta che descrive la fase esponenziale di crescita
della curva di crescita io scala semi logaritmica (cioè andando a sostituire a x il logaritmo di x e lasciando in
ascissa il tempo).
Andando a costruire una curva di crescita semi logaritmica, cioè andando a sostituire ad x logaritmo di x, la
fase esponenziale diventa una retta e la pendenza di questa retta corrisponde a µ (velocità specifica di
sviluppo.
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Dall’equazione 1 possiamo calcolare il tempo di generazione del microrganismo nelle specifiche condizioni
culturali in cui si trova a crescere.
Il tempo di generazione tg è il tempo necessario affinché x sia uguale a 2x0.
Quindi riprendiamo l'equazione 1 e sostituiamo a x il valore 2x0 mettendo in evidenza tg e definiamo le
l’equazione 2:
lnX = lnX0 + µt (1)
lnX/X0 = µt
ln2X0/X0 = µtg
tg = ln2/µ (2) .
L’equazione 2 descrive matematicamente il tempo di generazione cellulare tg; da questa equazione
possiamo dedurre che tg è inversamente proporzionale alla µ (cioè la velocità specifica di sviluppo è tanto
maggiore quanto minore è il tempo di generazione cellulare).
Per calcolare tg occorre calcolare prima la µ che viene determinata sperimentalmente valutando la
variazione della concentrazione cellulare nel tempo.
Quindi per calcolare la µ di un microrganismo in un determinato processo culturale batch bisogna andare a
misurare la concentrazione cellulare il tempo, quindi andare a costruire la curva di crescita e calcolare la
pendenza della retta della curva semilogaritmica.
EFFETTO DEL SUBSTRATO SULLA VELOCITA’ SPECIFICA DI SVILUPPO
In un processo batch la velocità specifica di sviluppo (µ) è influenzata dalla concentrazione del substrato
limitate (Es. fonte carbonata, fonte azotata, ossigeno, ecc.).
Per studiare l'effetto del substrato sulla velocità specifica di crescita immaginiamo di allestire n culture
batch, ciascuna delle quali caratterizzata da una concentrazione differente di substrato S.
E sperimentalmente andiamo a calcolare per ognuna delle nostre fermentazioni in parallelo con un diverso
quantitativo di substrato la µ in fase esponenziale.
A questo punto costruiate un grafico che mette in relazione la µ in ordinata e in ascissa la concentrazione di
substrato S.
Otteniamo la curva in cui vedete la µ crescere esponenzialmente con l’aumentare della concentrazione di S
fino a raggiungere un valore massimo che si mantiene indipendentemente dall’incremento della
concentrazione substrato; abbia raggiunto quella che viene definita la µmax ovvero la velocità specifica di
sviluppo massima.
L’equazione di Monod descrive la curva che mette in relazione la velocità specifica di sviluppo rispetto la
concezione di substrato in cui µ = µ max .
In questa equazione compare una costante che è la Ks (definita costante di saturazione) che è un indice che
misura l’affinità del microrganismo per un determinato substrato.
Tanto minore è la Ks tanto maggiore è l’affinità per il substrato (quindi l’affinità e la Ks sono inversamente
proporzionali); si può notare l’analogia con l'equazione di Michaelis‐Menten che descrive la relazione fra la
velocità di una reazione enzimatica e la concentrazione substrato dell’enzima.
La concentrazione iniziale di un substrato batch è dell’ordine dei grammi/litro e mentre la Ks è dell'ordine
di milligrammi/litro ne deriva che la concentrazione del substrato all'inizio del processo e durante tutta la
fase esponenziale di crescita è molto maggiore della Ks e quest'ultima si può trascurare nell’equazione di
Monod.
La Ks dal punto di vista grafico non è altro che una concentrazione di substrato che corrisponde alla µmax/2.
All’inizio di un processo batch, e per tutta la fase esponenziale, la concentrazione di substrato S è molto
maggiore della Ks e quindi nell’equazione di Monod possiamo trascurare la KS.
Quindi trascurando la Ks possiamo andare a semplificare l’equazione di Monod ed a questo punto risulta
che la µ è uguale alla µmax cioè corrisponde alla massima velocità che il microrganismo può raggiungere in
quelle determinate condizioni culturali.
[S]: g/L
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KS: mg/L → µ = µmax → µ = µmax
[S] >>> KS
Quindi in fase esponenziale di crescita la µ è uguale alla µmax .
Quando il substrato incomincia a scarseggiare e diciamo (di solito il valore critico in cui il microrganismo
comincia a sentire la carenza di substrato corrisponde ad una concentrazione di
substrato pari a circa 10 volte la Ks), la velocità specifica di sviluppo µ non è più indipendente dalla
concentrazione substrato ma crolla esponenzialmente al diminuire di S.
Questa diminuzione molto rapida della velocità specifica di sviluppo da µmax a µzero
corrisponde al passaggio dalla fase esponenziale alla fase stazionaria cioè quando µ diventa uguale a 0 (in
seguito al consumo finale del substrato) siamo entrati in fase stazionaria.
COLTURE CONTINUE
La cultura continua presenta alcune caratteristiche peculiari: il sistema culturale (il fermentatore) in questo
caso si chiama chemostato, il sistema è aperto allo scambio con l'ambiente esterno (a differenza della
cultura batch in cui sistema era chiuso).
Nella coltura continua si verifica un’aggiunta continua di bordo colturale (terreno fresco contenente
filtrato) e una continua rimozione di brodo culturale esausto.
Il flusso di terreno in entrata è usuale al flusso di brodo esausto in uscita, in modo
che il volume del brodo fermentativo all’interno del fermentatore sia costante.
Un processo culturale continua si realizza prolungando, per un periodo di tempo
determinato, la fase esponenziale di crescita in modo da ottenere lo sviluppo allo
stato stazionario per tempi relativamente lunghi.
Attenzione: questo stato stazionario nel processo continuo è molto diverso dalla
fase stazionaria una cultura batch perché nel processo continuo non si arriva mai
alla fase stazionaria (fase in cui la velocità specifica di sviluppo è uguale a 0) perché processo continuo è un
prolungamento per un periodo di tempo definito della fase esponenziale di crescita quindi in questo caso
per stato stazionario s’intende stato di equilibrio; quindi mentre in una cultura un batch si possono
produrre sia metaboliti primari che metaboliti secondari perché tutta la curva di crescita è rappresentata
nella cultura Beach (e si arriva alla fase stazionaria in alcuni casi anche la fase di morte), nel processo
continuo invece possono essere prodotti solo metaboliti primari perché nel processo continuo si prolunga
la fase esponenziale e non si arriva mai alla fase stazionaria.
Quindi il processo continuo è il processo ideale dal punto di vista cinetico, per produrre metaboliti primari e
per produrre biomassa perché nella fase stazionaria avviene la produzione di biomassa (cioè la crescita
cellulare) e la produzione di metaboliti primari.
Nello stato stazionario di una cultura continua rimangono costarsi i seguenti parametri:
Concentrazione cellulare o di biomassa [X]
Concentrazione di substrato [S]
Concentrazione di prodotti metabolici legati alla crescita e sintetizzati in fase esponenziale [P]
Velocità specifica di sviluppo (µ), che è controllato dal flusso di diluizione D (=F/V)
In una coltura continua possiamo regolare la velocità di crescita cellulare µ modulando la velocità di
diluizione ossia il flusso di alimentazione.
La velocità specifica di sviluppo in un processo continuo è uguale al rapporto tra il flusso di alimentazione F
e il volume del fermentatore V cioè uguale alla cosiddetta velocità di diluizione D.
Quindi il vantaggio che presenta un processo continuo rispetto ad una coltura batch è che noi poss iamo
andare a determinare, a definire e ad impostare la velocità di diluizione di sviluppo andando ad influire sul
flusso di alimentazione e quindi a determinare la velocità specifica di sviluppo.
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La concentrazione cellulare di biomassa allo stato stazionario e che rimane costante dipende oltre che dalla
velocità di diluizione D anche dalla concentrazione del substrato in entrata che S0 nel flusso di
alimentazione.
Lo schema di una e di una cultura con nua è questo→
Abbiamo il fermentatore mantenuto in agitazione una pala, entra un flusso con una concezione di substrato
S0 e, allo stato stazionario ovvero in condizioni di equilibrio abbiamo: la concentrazione di biomassa X, la
concentrazione di substrato S e la concentrazione di prodotto P (che è esclusivamente un
metabolita primario) è costante ed è uguale alla concentrazione le stesse grandezze in
uscita dal fermentatore.
Non dobbiamo confondere la fase stazionaria di una cultura batch con lo stato stazionario di
un processo continuo.
In un processo continuo non arriviamo mai alla fase stazionaria intesa come fase in cui cessa la crescita
(caratteristica della cultura Batch) in quanto la velocità specifica di sviluppo non è mai pari a 0 ma è sempre
costante ed è pari alla massima velocità che si può raggiungere in quelle determinate condizioni.
Poi avremo sempre una e velocità specifica di sviluppo elevata e massima che noi possiamo determinare
andando opportunamente a determinare il flusso di entrate ok ho spiegato la differenza.
S0 e la concentrazione di substrato all’interno del brodo che viene alimentato che è durante il processo
fermentativo viene consumato.
La concentrazione cellulare la X che si raggiunge allo stato stazionario dipende da due parametri importanti
infatti possiamo affermare che: la concentrazione di biomassa X e la concentrazione di prodotto P (che è un
metabolita primario) allo stato stazionario (e che corrispondono anche alle concentrazioni di biomassa e di
prodotto in uscita) dipendono da quanto substrato viene immesso S0 e dalla velocità specifica di sviluppo.
TERRENI DI COLTURA
Esistono diverse classi di terreni culturali: 21.49
Il terreno definito (detto anche terreno minimo) che viene preparato aggiungendo precise quantità
di sostanze chimiche che possono essere organiche o organica ad acqua distillata.
Si definisce terreno definito perché ne conosciamo la composizione esatta sia dal punto di vista
qualitativo che qualitativo.
Il terreno complesso invece è costituito da digeriti di prodotti microbici che possono essere animali
o vegetali (Es. possono contenere caseina, estratto di manzo, estratto di lievito, brodo trittico).
Questi terreni sono disponibili commercialmente in forma disidratata e possono essere facilmente
preparati mediante l'aggiunta di un'opportuna quantità di acqua .
Si chiamano terreni complessi perché contengono funti carbonate e fonti azotate a partire da dei
digeriti delle miscele che sono spesso a sotto costo (sottoprodotti della lavorazione industriale)
però in questo caso noi non possiamo conoscere l’esatta composizione chimica dei vari costituenti.
Il terreno arricchito è spesso utilizzato per la coltivazione microrganismi che presentano alcune
esigenze dal punto di vista nutrizionale.
Si prepara solitamente partendo da un terreno complesso e arricchendolo con ulteriori principi
nutritivi (es. siero o sangue intero che sono degli ingredienti che spesso vengono utilizzati per
arricchire a causa di alcune particolari esigenze nutrizionali di determinati microrganismi).
Il terreno selettivo è un terreno che contiene composti che permettono la crescita selettiva di un
determinato gruppo microbico sfavorendo invece la crescita di altri (Es. il treno selettivo può
contenere una fonte carbonata impiegata selettivamente da un gruppo microbico oppure può
contenere un agente antimicrobico per il quale il microrganismo e resistente e quindi questo
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agente antimicrobico inibirà la crescita di altri microrganismi presenti in coltura selezionando il
microrganismo resistente.
Il terreno differenziale che contiene un indicatore (Es. colorante reattivo) che rivela una particolare
reazione chimica durante la crescita.
Anche questo tipo di terreno può consentire di identificare alcuni tipi di microrganismi: può essere
considerato un terreno selettivo.
COLTURA IN LABORATORIO
Per preparare una cultura microbica in laboratorio si deve partire da un inoculo, ed il primo step per
ottenerlo è la sterilizzazione del terreno (che come abbiamo visto può essere di diverso tipo; quindi una
volte preparato il terreno bisogna (cioè pesate le giuste quantità e risospese in acqua), questo va
sterilizzato, il metodo più utilizzato per sterilizzare i terreni è la sterilizzazione mediante calore umido
(ovvero sotto pressione ed utilizzando un’autoclave).
I parametri e operativi sono solitamente 120°C per 15 minuti o 110°C per 30 minuti quindi se abbassiamo la
temperatura aumentiamo il tempo di esposizione in modo da garantire la completa uccisione di tutte le
forme microbiche.
Una volta ottenuto un terreno sterile possiamo procedere con l’inoculo che si ottiene prelevando una
colonia da una piastra Petri agarizzata (in cui abbiamo le colonie isolate) mediante un’ansa (di plastica o
metallica) e introducendo la colonia prelevata all’interno del terreno agarizzato.
I terreni culturali possono essere di due tipi: possono essere terreni liquidi e in questo caso vengono definiti
brodi (che possono essere contenuti in beute o in tubi utilizzando una diversa geometria del contenitore a
seconda e che si voglia coltivare microrganismi aerobi o anaerobi ovvero i microrganismi aerobi hanno
bisogno di un’elevata ossigenazione e quindi si utilizzano delle fiasche mentre per i microrganismi anaerobi
si utilizzano delle beute con un volume del contenitore molto superiore rispetto al volume del terreno.
Inoltre, i terreni liquidi si mettono poi ad incubare in agitazione per favorire il più possibile lo scambio con
l'ossigeno.
Se invece vogliamo coltivare dei microrganismi anaerobi (che prediligono terra fresca e condizioni
anossiche) invece utilizzare le beute, utilizziamo dei tubi che riempiamo lasciando solo un minimo spazio in
modo tale da ridurre il più possibile lo scambio con l'ossigeno.
Un'altra differenza fra le culture liquide di microrganismi aerobi e anaerobi è che i tubi e vengono incubati
in condizioni statiche mentre le beute vengono incubate in.
Il secondo tipo di possibili sono terreni solidi (Es. piastre) che si preparano aggiungendo ai componenti del
terreno un componente agarizzante (l’agar) prima della sterilizzazione ad una percentuale che è
generalmente pari a 1,5%.
Le piastre ci permettono di isolare le colonie e sono quindi fondamentali.
In queste fotografie è rappresentata la crescita microbica su piastra e sono visibili le colonie (che sono
ammassi di cellule formate dalla divisione di una cellula parentale e che contengono più di 109 cellule tutte
uguali).
Si chiamano colonia perché sono dei cloni di cellule che derivano tutte dalla stessa cellula madre.
Possiamo osservare diverse colorazioni delle colonie che compaiono su terreni diversi queste sono quattro
immagini: l’immagine B è un ingrandimento dell’immagine A mentre le immagini C e D sono diverse.
La figura A e la B rappresentano Serratia marcescens cresciuta in MacConkey agar, la colonia C è
Pseudomonas aeruginosa cresciuta in un terreno tsa (trypticase soy agar) e l’immagine D è Shigella flexneri
sempre cresciuta in MacConkey agar.
Bisogna considerare che il colore, la forma e le dimensioni delle colonie sono utili informazioni per valutare
la purezza di una cultura: se sono presenti con ogni diverse per forma colore dimensione e la cultura non è
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pura ma è mista e quindi la prima cosa da fare è quella di osservare la morfologia della colonie dopodiché e
si va a utilizzare la colonia per un osservazione più approfondita al microscopio ottico o elettronico.
ASPETTI TECNICI
Tutti gli esperimenti di microbiologia vanno condotti in condizioni asettiche e, per poter lavorare in
serenità occorre lavorare vicino a una fiamma nell'ambito di un diametro di circa 20 cm in quanto
questi garantiscono un alone di serenità.
Nelle figure da A a F vengono descritti i vari step di un trapianto microbico effettuato in sterilità.
La prima cosa da fare è accendere il nostro Bunsen, (A) sterilizziamo l’ansa (immaginiamo di avere
un'nasa metallica), a questo punto (B) prendiamo il tubo contenente il terreno
culturale (con la mano sinistra teniamo la base del tubo e con la mano destra
che ha già in mano l’ansa utilizzando il mignolo si apre il tubo), (C) quindi con la
mano sinistra andiamo a flambare (passare sulla fiamma) l’imboccatura del tubo
e (D) con la mano destra andiamo a toccare una colonia presente sulla piastra e andiamo a inocularla al
interno del tubo; a questo punto (E) andiamo a flambare di nuovo il tubo (la flambatura dei contenitori va
fatta sia quando si aprono che prima di chiuderli) ed infine (F) andiamo a chiudere.
A questo punto il nostro tubo contenente la colonia lo andiamo ad incubare nelle condizioni opportune che
abbiamo visto possono essere diverse in funzione del microrganismo che vogliamo far crescere che
possono essere aerobie o anaerobie (per esempio nell’immagine si riporta un tubo piuttosto che una
beuta).
Immaginiamo che la nostra cultura liquida che abbiamo preparato nella prima e procedura sia cresciuta ed
a questo punto vogliamo andare a fare uno striscio su una piastra agarizzata.
La finalità dello striscio sulla piastra è quello di poter isolare delle colonie pure.
A questo punto, sempre lavorando in sterilità, andiamo l'ansa a raccogliere un po’ di materiale dalla
sospensione cellulare, formatasi in seguito all’incubazione e la strisciamo su una piastra di terreno dal
opportuno.
Si suddivide la piastra in tre zone e passando dalla prima alla terza zona si ha una diluizione della cultura e
lo vediamo perché nella terza zona noi riusciamo a vedere delle colonne isolate.
Per preparare uno striscio, dopo avere toccato la nostra cultura liquida
sviluppata, andiamo a strisciare con l'ansa la prima zona, dopodiché andiamo a
sterilizzare l'ansa con la fiamma; a questo punto tocchiamo il margine della
prima zona e strisciamo la seconda zona, dopodiché risterilizziamo l'ansa,
tocchiamo il margine della seconda zona e andiamo a strisciare la terza zona.
La preparazione di uno striscio richiede una certa esperienza nel senso che, facendo qualche errore, si
potrebbe avere una concentrazione e di colonie tutti in una zona per cui non si riesce ad ottenere la colonia
isolata (che è invece l’obbiettivo)
METODI PER VALUTARE LA CRESCITA MICROBICA
Abbiamo già definito i due metodi sperimentali utilizzati per valutare la crescita microbica quando abbiamo
descritto la curva di crescita microbica.
Abbiamo infatti definito due linee: una linea che veniva costruita sulla base della conta vitale su piastre ed
una che veniva costruita sulla base della torbidità della torbidità.
La (1) conta vitale in piastra consente di calcolare il numero di cellule vitali capaci di riprodursi.
La colonia può essere visualizzata su una piastra di terreno agarizzata e il numero di colonie riflette il
numero di cellule presenti nel campione (perché se da una cellula deriva una colonia, contando il numero di
colonie e possiamo dedurre il numero di cellule presenti nel campione).
Esistono due metodi per effettuare un conteggio vitale su piastra: il piastramento in superficie e il
piastramento in immersione.
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Nel piastramento in superficie il volume d’inoculo sulla superficie della piastra è pari a 0,1 mL e avviene
esclusivamente in superficie.
Nel piastramento in immersione il volume di inoculo che viene depositata sul fondo della piastra Petri vuota
e sterile è di 1 mL; dopo l’inoculo viene versato nella piastra e si attende che la piastra solidifichi e che le
colonie cresceranno in tre dimensioni ovvero in tutto il volume della piastra agarizzata (mentre nel caso
precedente crescevano solo sulla superficie)
Queste quantità si riferiscono a delle piastre peli standard che hanno un diametro di 9 cm e quando
parliamo di conteggio fatto con queste piastre sappiamo che il conteggio in superficie prevede un volume di
inoculo pari a 0,1 mL e che il conteggio di ammissione prevede un volume di inoculo pari ad 1 mL.
Per poter contare le colonie sulla piastra occorre diluire opportunamente il campione.
Il campione può essere estremamente concentrato dal punto di vista della carica microbica e quindi
bisogna diluire n volte in modo da avere sulla piastra (o nello spessore dell’agar) un numero di colonie
contabile (normalmente il minor errore si commette quando il numero di colonie è compreso fra 30 e 300).
La prima cosa da fare è prendere il campione, che contiene la cultura microbica che vogliamo contare e
andarla ad unire in che modo in modo seriale decimale.
La concentrazione cellulare( espressa come cellule mL) viene calcolata moltiplicato il numero di colonie
cresciute sulla piastra per il fattore di diluizione della piastra (che è il reciproco della diluizione).
Nell’immagine sono descritti i due metodi di piastramento.
Nello spread‐plate method partiamo con delle piastre preformate e
andiamo a fare un inoculo sulla superficie della piastra che poi andiamo
a distribuire con l’ansa su tutta la superficie (le colonne in questo caso
crescono unicamente sulla superficie) ed il volume di inoculo pari a 0,1
mL.
Nel secondo metodo che il pour‐plate method (cioè il metodo in
immersione) il primo step è il deposito sul fondo della piastra Petri la
nostra sospensione batterica; dopodiché andiamo a versare un terreno
solido, andiamo ad incubare e vedremo le colonne sulla superficie ma
anche colonie a livello tridimensionale lungo lo spessore dell’agar.
arriviamo alla conta vitale alla porta vita utilizzando Le Iene sono i seriali
Siamo arrivati a descrivere il processo al punto della conta vitale.
Descriviamo la conta vitale nel pour‐plate method perché è il più semplice dal punto di vista del calcolo
matematico nonostante non sia il metodo più utilizzato.
Partiamo a descrivere dalla nostra beuta che contiene una coltura microbica per esempio la cultura Batch di
cui vogliamo seguire la curva di crescita.
Quindi a intervalli di tempo prestabiliti andiamo a fare dei prelievi e andiamo a misurare la vitalità (quindi la
concentrazione cellulare col metodo della conta vitale).
Quindi ad ogni tempio noi abbiamo un campione che dobbiamo quantificare.
Ogni campione viene diluito in maniera seriale decimale utilizzando dei tubi di terreno oppure anche di
soluzione fisiologica (non è necessario utilizzare il terreno per le divisioni, possiamo utilizzare anche della
soluzione fisiologica sebbene sia terreno che fisiologiche devono essere sterili).
Questi tubi di soluzione fisiologica contengono tutti 9 ML di terreno o di soluzione per cui se noi andiamo a
fare il prelievo di 1 mL e lo portiamo il 9 ML di liquido avremo una prima edizione 1/10 che corrisponda un
fattore diluizione 10‐1.
Quindi eseguiamo tutte queste diluizioni decimali serie ‐agitando bene ad ogni passaggio il tubo
precedente‐ andando ogni volta a prelevare 1 mL e portandolo nel tubo successivo (contenente 9 mL)
diminuendo quindi ogni volta di 1 l’esponente del fattore di diluizione 10 (10‐1, 10‐2, 10‐3 e così via).
Andiamo avanti in relazione a quello che immaginiamo sia la concentrazione del campione (è chiaro che ad
66
esempio se stiamo facendo di studio della curva di crescita di un organismo, all'inizio del processo
fermentativo mi aspetto una concentrazione minore che alla fine) per cui all'inizio posso diluire di meno
campione rispetto che alla fine perché mi aspetto che ci sia una forte concentra cellulare.
‐6
Nell’esempio riportato arriviamo al fattore di diluizione 10 .
Quindi la prima procedura operativa è quella di preparare le diluizioni seriali decimali.
Abbiamo ora disposizione le nostre diluizioni che utilizziamo per andare a fare la
piastratura.
La piastratura nell’esempio è sempre riportata in relazione al pour plate method in
cui andiamo a piastrare 1 mL di campione ( quindi il fattore di diluizione della piastra
corrisponde esattamente al fattore di diluizione del tubo).
A questo punto noi andiamo versare 1 mL in ciascuna piastra, versare il terre,
incubare e terminato il periodo di tempo necessario per la crescita andiamo a
contare il numero di colonie.
Immaginiamo di avere come nell’esempio 0 colonie nella piastra 6, 2 colonie nella
piastra 5, 17 nella piastra 4, 159 nella piastra 3 e un numero di colonie troppo alto
per essere contato nelle prime due piastre.
Per restituire il conteggio a questo punto il calcolo da effettuare è: il numero di colonie per il
fattore di diluizione (quindi sarà 159×10‐3 e in notazione scientifica sarà 1,59×10‐5 ).
Abbiamo utilizzato questa piastra (la terza con all’interno 159 colonie) e non le altre perché questa piastra è
quella che ha un numero di colonie compreso fra 30 e 300 (quindi il numero di colonie al quale è associato
un errore più basso nel conteggio).
Quindi abbiamo calcolato con questa proceduta la concentrazione espressa come CFU/mL (colony‐forming
cells su millilitro) del nostro campione di partenza.
Un elemento di complicazione è dato dall’altro metodo di conteggio che è lo spread‐plate method in cui
abbiamo detto che non s’inoculo 1 mL ma solo 0,1 ML quindi nel metodo di piastratura di superficie le
piastre che trovate qua non avranno lo stesso fattore di diluizione dei tubi corrispondente ma avranno un
fattore di diluizione aumentato di 10 volte poiché nel momento in cui s’inocula 0,1 mL si sta applicando un
ulteriore fattore di diluizione pari a 10.
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Il secondo metodo indiretto di valutazione della concentrazione cellulare è il (2) metodo turbidimetrico.
Tutti i metodi turbidimetrici sono basati sulla proprietà delle cellule di disperdere la luce.
Una sospensione cellulare appare torbida (più cellule sono presenti più torbida è la sospensione) e
conseguentemente più luce viene dispersa, quindi la torbidità è una misura indiretta della
concentrazione cellulare.
Un terreno culturale sterile, quindi appena uscito dall' autoclave sterile è limpido; nel
momento in cui effettuo l’inoculo si comincia ad osservare una leggera torbidità; se metto il
terreno culturale inoculato nelle opportune condizioni di occupazione che favoriscono la
crescita del microrganismo che ho inoculato, dopo un certo periodo di tempo, osserverò
una forte torbidità della sospensione cellulare che è proporzionale alla concentrazione
cellulare.
La torbidità viene misurata con lo spettrofotometro.
Lo spettrofotometro è uno strumento dotato di un prisma di diffrazione che genera un
raggio luminoso ad una certa lunghezza d’onda (tipicamente da 540 a 600 nm).
In 0 è l'intensità del raggio incidente a colpire il campione (la nostra sospensione di cellule
microbiche).
Le cellule microbiche disperdono una parte di quell’intensità ed una fotocellula (situata a valle del
campione) misura la luce non di spersa (che chiamiamo I).
Lo spettrofotometro restituisce un valore di densità ottica OD che corrisponde al logaritmo di I0/I (Log I0/I)
e tanto maggiore è la concentrazione cellulare tanto minore sarà I e tanto maggiore sarà il valore numerico
che corrisponde al logaritmo di I0 su I.
Questa operazione si traduce nel concetto che tanto maggiore è la concentrazione cellulare che si trova nel
campione, tanto maggiore sarà la dispersione della luce e quindi tanto minore sarà la luce non dispersa (e
quindi sarà basso il valore al denominatore) di conseguenza questo valore numerico che corrisponde alla
densità ottica sarà più alto.
Il valore di densità ottica (OD) sono proporzionati alla concentrazione cellulare (e si possono quindi
utilizzare per costruire una curva di crescita).
Nella figura infatti sono confrontate le curve di crescita di due diversi microrganismi, ottenute mediante
densità ottica.
La curva di crescita si può costruire mettendo in ordinata la densità ottica rispetto al tempo; è possibile
osservare che c’è un organismo B un po' più lento e con un tempo di latenza maggiore, che presenta una
velocità specifica di sviluppo più bassa (dato che la pendenza della curva in fase esponenziale è minore) e
che raggiunge delle concentrazioni di biomassa più basse; il microrganismo A ha invece tempi di latenza
decisamente inferiore, ha una velocità specifica di sviluppo più alta e
raggiunge delle concentrazioni di biomassa maggiori.
Per correlare un valore di OD ad una concentrazione (espressa come
cellule/ml) occorre costruire una retta di calibrazione mettendo in
relazione i valori di OD (densità ottica) con i conteggi vitali.
Nella figura a lato è messa in evidenza la relazione lineare tra questi
due parametri; la linearità si perde per alti valori di OD per avere la
linearità bisogna lavorare su valori di OD inferiori a 0,5.
Quindi quando i valori di OD sono compresi tra 0,1 e 0,5 siamo nel range di
massima linearità in cui l’intensità ottica è direttamente proporzionale alla concentrazione cellulare.
Quindi possiamo costruire una curva di calibrazione, andando a misurare la crescita cellulare in parallelo
con le due metodiche (con il conteggio vitale e la densità ottica); una volta trovata questa curva di
correlazione possiamo calcolare la pendenza quindi trovare il fattore di correlazione che poi possiamo
sfruttare negli esperimenti successivi per direttamente associare un valore di densità ottica (calcolato
misurando la torbidità) alla concentrazione.
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FATTORI AMBIENTALI CHE INFLUENZANO LA CRESCITA MICROBICA
La crescita dei microrganismi è ampiamente influenzata da alcuni parametri
ovvero da quelle che sono le condizioni ambientali in cui il microrganismo si
trova a crescere.
I principali fattori ambientali che condizionano la crescita microbica sono: la
temperatura, il PH, la disponibilità di acqua e quella di ossigeno.
Da questo si deduce che per coltivare con successo microrganismi in laboratorio
occorre valutare in maniera razionale le condizioni culturali che risultano
ottimali per quei microrganismi che includono la composizione del terreno
culturale ma anche le condizioni di incubazione.
Studiamo l’effetto di diversi parametri ambientali sulla crescita.
Partiamo dalla temperatura:
La temperatura è probabilmente il fattore più importante che condiziona e la crescita e la sopravvivenza
dei microrganismi; per ogni di microrganismo ci sono tre temperature caratteristiche dette temperature
cardinali.
Abbiamo una temperatura minima, la temperatura ottimale e la temperatura massima.
La (1)temperatura minima è la temperatura alla quale le membrane incominciano a gelificare ed i processi
di trasporto sono così lenti che la crescita è limitata; a questa temperatura si blocca anche la formazione e il
consumo della forza proton motrice per tanto bloccandosi il processo di formazione e di utilizzo della forza
proton motrice, si blocca anche il resto del metabolismo.
In tutto parte dal fatto che le membrane gelificano e quindi i processi di trasporto vengono estremamente
rallentati l’up take di nutrienti e estremamente.
La (2) temperatura ottimale è la temperatura alla quale le reazioni enzimatiche e la crescita hanno le
massime velocità (temperatura alla quale l’organismo si trova nelle migliori condizioni di crescita).
Nel grafico in cui in ordinata c’è la crescita e in ascissa la temperatura si può osservare che che aumentando
la temperatura minima si ha un incremento delle reazioni enzimatiche che si riflette in un incremento della
crescita cellulare fino ad arrivare ad un optimum di temperatura in corrispondenza del quale le reazioni
enzimatiche e la crescita hanno le massime velocità.
La (3) temperatura massima è vicina a temperatura ottimale.
A questa temperatura però le proteine si denaturano, le membrane citoplasmatiche collassano e le cellule
muoiono per Lisi termica.
In relazione al loro optimum di temperatura i microrganismi vengono classificati in quattro gruppi:
1. Microrganismi psicrofili in cui l’optimum di temperatura è basso (inferiore 10 gradi)
Sono microrganismi che crescono in ambienti freddi (vicino gli oceani, nei mari, nei laghi, ecc).
2. Microrganismi mesofili e in cui l’optimum di temperatura è un range intermedio (nel caso di
escherichia coli intorno ai 39‐40 °) e sono ampiamente distribuiti natura (colonizzano gli animali a
sangue caldo e gli ambienti terrestri e acquatici e alle latitudini temperate e tropicali).
3. Microrganismi termofili in cui l’optimum di temperatura è intorno ai 60 ° mediamente e crescono in
ambienti caldi.
4. Microrganismi ipertermofili ed estremofili in cui l’optimum di temperatura è estremamente alto e
vivono in ambienti estremamente caldi (come le sorgenti calde sorgenti termali, i geysers.)
Focalizziamo l'attenzione sulla vita microbica in ambienti freddi (gli oceani, le regioni del circolo polare
artico e antartico e ghiacciai).
I microrganismi psicrofili che colonizzano questi ambienti freddi hanno un optimum di temperatura per la
crescita di circa 15 °C o anche inferiore (nell’esempio precedente la temperatura ottimale era intorno ai
69
4°C), un maximum di temperatura di 20 °C e un minimo ma intorno a 0 °C.
I microrganismi i profili possono essere batteri o archea a la capacità di questi microrganismi di sviluppare
in ambienti freddi è la conseguenza la risposta ad alcuni meccanismi di adattamento.
Il primo meccanismo riguarda la struttura secondaria delle proteine che è in gran parte ad α‐elica mentre la
struttura secondaria a β‐foglietto è meno rappresentata in questi microrganismi perché la struttura ad α‐
elica conferisce alla proteina una maggiore flessibilità strutturale per la catalisi di reazioni a bassa
temperatura.
Gli enzimi psicrofili inoltre hanno un maggior contenuto di aminoacidi polari rispetto agli aminoacidi
idrofobici; inoltre i legami deboli sono poco rappresentati (legami idrogeno e legami ionici).
Un altro meccanismo di adattamento riguarda le membrane citoplasmatiche che nel caso di organismi
psicrofili sono ricche di acidi grassi insaturi, polinsaturi e a corta catena e questa configurazione aiuta la
membrana a rimanere in uno stato semi fluido anche a bassa temperatura e quindi permettere l’up take di
sostanze nutritive.
Ancora, i microrganismi psicrofili producono proteine cold shock e sostanze crioprotettrici.
Le proteine e cold shock aiutano altre proteine a rimanere in forma attiva anche a basse temperature
oppure si legano a specifici RNA messaggeri facilitandone la traduzione.
I crioprotettori come il glicerolo o anche altri zuccheri prevengono la formazione di cristalli ghiaccio che
potrebbero danneggiare la membrana citoplasma.
Consideriamo ora la vita microbica in ambienti caldi (superfici terrestri completamente esposte al sole,
materiale di fermentazione come compost, fenomeni vulcanici in generale tra cui le sorgenti calde le
sorgenti di vapore per esempio le fumarole e le sorgenti idrotermali presenti e nel fondo degli oceani).
I microrganismi termofili possono essere archea e batteri con temperature ottimali di crescita comprese fra
i 45°C e gli 80 °C (queste condizioni si trovano nelle sorgenti calde, negli ambienti con un gradiente termico
ma anche negli scaldabagni domestici e industriali).
I microrganismi ipertermofili hanno un optimum di temperatura superiori agli 80°C e crescono in sorgenti
calde bollenti e sorgenti idrotermali).
Gli archea hanno temperatura ottimale di crescita che possono addirittura superare i 100 °C mentre
nessuna specie batterica cresce al di sopra dei 95°C.
I principali meccanismi molecolari al caldo riguardano sempre la stabilità delle proteine
allora anche qui meccanismi molecolari riguardano fondamentalmente la stabilità delle proteine la stabilità
delle membrane.
Per quanto riguarda la stabilità proteica alte temperature questa è dovuta all’alto numero di legami ionici
tra aminoacidi acidi e basici e grazie anche alla idrofobicità della parte interna delle proteine.
Per quanto riguarda invece la stabilità delle membrane alle alte temperature questa è dovuta alla presenza
di lipidi ricchi in acidi grassi saturi che quindi creano un forte e robusto ambiente.
Gli area hanno una peculiare struttura di membrana costituita da unità ripetute di isoprene che protegge la
membrana stessa dal melting.
Io mi microrganismi termofili ed ipertermofili hanno trovato importanti applicazioni nelle biotecnologie per
esempio una classica applicazione è la DNA polimerasi isolata da thermus acquaticus che viene usata in
PCR.
Vediamo ora gli effetti del PH sulla crescita microbica.
La maggior parte degli ambienti naturali ha un pH compreso tra 4 e 9, pertanto i microrganismi con
optimum di pH per la crescita e compresi in questo range sono più abbondanti in natura.
In funzione del range ottimale di PH possiamo identificare tre classi fisiologiche:
I neutrofili che crescono a pH compresi tra 5.5 e 8 ed un esempio di questi è E. coli che ha un
optimum di pH a 7
70
Gli acidofili con un optimum di pH inferiore 5,5.
Per questi microrganismi e fondamentale un'alta concentrazione di ioni idrogeno per garantire la
stabilità di membrana e possiamo avere optimum di pH diversi in funzione dell'organismo acidofilo
che viene presa in postazione lei per esempio Rhodopila globiformis ha un optimum di PH pari a 5
mentre Acidithiobacillus ferroxidans ha un optimum di 3ma si può arrivare addirittura ad optimum
pari ad 1 come per Picrophilus oshimae
I basofili che crescono a pH maggiore o uguale a 8 e anche qui possiamo avere optimum pari a 8, 9
o 10 in base alle specie.
Ci occupiamo infine dell’effetto della concentrazione dei soluti nel medium di crescita sulla crescita
microbica
All'aumentare della concentrazione dei soluti si riduce l'attività dell'acqua che è fondamentalmente il
rapporto tra la pressione di vapore della soluzione e la pressione di vapore e
l'acqua pura.
Aumentando la concentrazione di soluti si riduce la attività dell'acqua ovvero
la disponibilità dell'acqua libera e questo può essere uno svantaggio nella
maggior parte dei casi perché microrganismi hanno necessità di interagire
con le molecole d'acqua.
Nella figura sono rappresentate le classi dei microrganismi in relazione alla
tolleranza o richiesta di cloruro di sodio che è un assoluto che si scioglie in acqua (e
quindi riduce la disponibilità di acqua libera e di conseguenza riduce
l'attività dell'acqua)
Gli Halotolleranti (curva verde) un esempio è rappresentato da staphylococcus aureus sono in grado di
tollerare una certa concentrazione di cloruro di sodio che si riflette nella riduzione dell'attività dell'acqua.
Gli alofili (curva marrone) sono organismi marini che richiedono concentrazione di cloruro di sodio
comprese fra il l’1e il 10% e una concentrazione ottimale intorno al 4‐5%.
Gli alofili estremi (curva rosa) che hanno bisogno di alte concentrazioni saline superiori al 10%.
I microrganismi non alofili (curva azzurra) per i quali le concentrazioni di soluti disciolti sono tossiche perché
hanno bisogno di una elevata attività dell'acqua per cui a concentrazioni già dell' 1‐2% di cloruro di sodio
questi microrganismi non alofili e non riescono a sopravvivere.
Oltre a questi ricordiamo gli organismi osmofili e che crescono in ambienti caratterizzati da alte
concentrazioni di zuccheri.
Quindi quando parliamo di alofili ci riferiamo le concentrazioni di sali e fondamentalmente sono
microrganismi marini mentre quando parliamo di osmofili ci riferiamo a organismi che crescono in ambienti
ricchi di zuccheri.
Come meccanismo compensativo questi organismi producono i cosiddetti soluti compatibili (zuccheri,
alcoli, reparti di aminoacidi) che restano al interno della cellula e richiamano acqua per effetto osmotico.
Consideriamo la relazione tra l'ossigeno e la crescita dei microrganismi.
L'ossigeno è un altro parametro ambientale importante; abbiamo già introdotto il concetto che non tutti
microrganismi richiedono ossigeno per crescere.
Gli habitat esposti all’ossigeno sono i più comuni nel nostro pianeta ma sono comuni anche gli habitat
anossici (es. fanghi o altri sedimenti, paludi, terreni umidi, tratto intestinale degli animali).
Pertanto possiamo affermare che i microrganismi variano in funzione delle richieste di ossigeno e della
tolleranza di ossigeno.
I microrganismi possono essere classificati in relazione a quella che è la loro e diciamo necessità e
intolleranza dell'ossigeno allora diciamo in alcuni sottogruppi (nell’ambito dei due gruppi principali: aerobi
e anaerobi).
Nell'ambito degli aerobi abbiamo:
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Aerobi obbligati per i quali la presenza di ossigeno è obbligatoria e necessaria per il tipo di
metabolismo che portano avanti ovvero respirazione aerobia.
Si trovano in habitat esposti alla luce (es. pelle, polvere)
Aerobi facoltativi per i quali l'ossigeno non è richiesto però diciamo e favorevolmente accolto, cioè
questi microrganismi preferiscono crescere in presenza di ossigeno poiché fanno respirazione
aerobia ma essendo in grado di svolgere anche respirazione anaerobia e fermentazione possono
vivere anche in assenza di ossigeno.
Microaerofili per i quali l'ossigeno è chiesto a piccole dosi poiché svolgono respirazione aerobia ma
la concentrazione di ossigeno necessaria è decisamente più bassa rispetto a quella richiesta per i
microrganismi aerobi obbligati,
Nell’ambito degli anaerobi distinguiamo:
Anaerobi aerotolleranti i quali l’ossigeno non è richiesto e crescono meglio in assenza poiché fanno
un tipo di metabolismo fermentativo ma lo tollerano a concentrazioni relativamente basse.
Anaerobi obbligati che sono esclusivamente anaerobi e quindi non vogliono l'ossigeno in nessun
modo poiché per questi è tossico, fanno fermentazione e respirazioni anaerobia
I microrganismi aerobi e anaerobi vengono coltivati diversamente in laboratorio.
Per la crescita dei microrganismi aerobi la disponibilità di ossigeno rappresenta un fattore limitante
l'ossigeno si può considerare un nutrilita limitante la crescita come la fonte carbonate e quella azotata.
Possiamo proprio immaginare l’ossigeno come un substrato limitare la crescita dei microrganismi aerobi.
Per favorire l’apporto di ossigeno si allestiscono culture in areazione forzata che si può ottenere in due
modi: (1) agitando vigorosamente il contenitore per esempio la beuta oppure (2) se si lavora con un
fermentatore si può insufflare aria sterile nella cultura (l'aria sterile si ottiene facendo passare l'aria
attraverso un filtro sterilizzate).
Si cerca per questi microrganismi di aumentare il più possibile lo spazio di testa,
quindi tipicamente e le culture aerobie prevedono un volume di terreno culturale ben
inferiore rispetto al volume del contenitore in modo che ci sia un elevato spazio di
testa che favorisca lo scambio con l'ossigeno.
Per quanto riguarda invece la coltivazione dei microrganismi anaerobi questa richiede degli accorgimenti
ulteriori.
Occorre quindi acquisire tutta una serie di accorgimenti manuali quando si lavora con gli organismi
anaerobi; intanto le bottiglie e i tubi sono preferibili rispetto le beute perché la superficie dell’interfaccia
liquido‐aria è minore; le bottiglie tubi devono essere riempite completamente con il terreno culturale e con
uno spazio di testa ridotto al minimo; inoltre viene aggiunto un agente riducente al terreno in modo che
reagisca con l'ossigeno disciolto riducendolo (un agente riducente molto utilizzato e la cisterna).
Le colture e vengono poi incubate in condizioni anossiche che si possono ottenere mediante due elementi:
una giara anaerobica in cui vengono e alloggiate le piastre o i tubi e in cui viene inserito un reattivo che
sprigiona e idrogeno creando un ambiente anaerobico interno, ovvero, l'idrogeno reagisce con l'ossigeno
presente nella giara riducendolo ad acqua e la CO2 contribuisce a mantenere un ambiente e anaerobico.
L'ossigeno può essere trasformato in forme tossiche per gli organismi; i principali derivati tossici
dell'ossigeno sono l’anione superossido O2‐, il perossido di idrogeno H2O2 ed il radicale idrossile OH▪ (H
puntato perché ha l’elettrone spaiato).
Alcuni microrganismi hanno evoluto dei meccanismi di difesa da queste forme tossiche che potrebbero
generarsi in ambienti esposti all’ossigeno e questi meccanismi consistono fondamentalmente nella sintesi
di enzimi che distruggono questi composti.
Gli enzimi presenti nei microrganismi aerobi che possono in qualche modo proteggere questi microrganismi
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dalla presenza di forme tossiche dell'ossigeno solo la catalasi (che fondamentalmente protegge dall’acqua
ossigenata) come la perossidasi, la superossidodismutasi che protegge dall’anione superossido; ed in tutti
questi casi l’ossigeno in forma tossica viene trasformato in acqua e ossigeno.
La superossidodismutasi e la catalasi possono essere in combinazione e trasformare l’anione superossido in
acqua ossigenata e di seguito l’acqua ossigenata viene poi convertita dalla catalasi ad
acqua e ossigeno.
FOTOTROFIA, CHEMIOLITOTROFIA E MAGGIORI CICLI BIOSINTETICI
La fototrofia la strategia metabolica che utilizza della luce solare come fonte di
energia ed è ampiamente distribuita nel mondo microbico ma anche nell’ambito
vegetale.
La fotosintesi consiste nella conversione dell'energia luminosa in energia chimica ed è il più importante
processo biologico presente sulla terra, gli organismi che effettuano la fotosintesi sono definiti fototrofi.
Gli organismi fototrofi in relazione alla forte carbonata possono essere: fotoautotrofi se utilizzano la CO2
come fonte carbonata (carbonio inorganico) oppure fotoeterotrofi se utilizzano composti organici come
fonte carbonata (carbonio organico)
Co focalizziamo sulla fotoautotrofia che richiede che avvengano in parallelo due distinti set di reazione: il
primo è la produzione di ATP ed il secondo set riguarda la riduzione della CO2 a carbonio organico che
serve per la sintesi dei vari costituenti cellulari.
Gli elettori necessari per questa reazione di riduzione (riduzione della CO2 a carbonio organico) vengono
forniti dal NADH o dal NADPH presenti in forma ridotta che cedono elettroni e si ossidano.
Le molecole di NADH e NADPH si ottengono per riduzione
rispettivamente del NAD+ e NADP+ in presenta di donatori di elettroni
che hanno un elevato potere riduttivo.
Gli elettron donatori che quindi cedono elettroni al NAD+ e dal NADP
(provengono dalla habitat in cui gli organismi vivono) e possono
essere: l'acido solfidrico H2SO o l'idrogeno molecolare (in questo caso non si ha la produzione di ossigeno e
la fotosintesi è definita anossigenica), i microrganismi che operano questo tipo di fotosintesi sono i batteri
viola e verdi; se invece il donatore è l'acqua si produce ossigeno e la fotosintesi definita ossigenica, gli
organismi che opera questo tipo di fotosintesi sono i cianobatteri, le alghe e le piante verdi.
In entrambi i casi mediante la fonte luminosa si ha la conversione di ADP in ATP.
Le strutture che supportano la fotosintesi sono svariate.
La fotosintesi richiede la presenza di pigmenti sensibili alla luce che assorbono l'energia, questi pigmenti
possono essere clorofille presenti negli organismi fototrofi ossigeni e batterioclorofilla presenti nei fototrofi
anossigenici.
Questi pigmenti hanno una struttura chimica riferibile alle porfirine con il nucleo tetrapirroico coordinato
ad un atomo di magnesio centrale.
I citocromi hanno una struttura simile alle clorofille ma al posto del magnesio è presente un ferro.
Le clorofille e presentano anche dei sostituenti specifici sull'anello (come alcool idrofobici e altri sostituenti)
che favoriscono l'ancoraggio di queste molecole alle membrane fotosintetiche.
La figura a rappresenta la struttura della clorofilla A presente in piante superiori, alghe e cianobatteri e
della batterioclorofilla presente nei batteri viola e il loro spettro di assorbimento che descrive le diverse
proprietà spettrali del pigmento.
Lo spettro di assorbimento della clorofilla e (che è verde) ha due picchi di assorbimento, a 430 che
corrisponde la luce blu e uno a 680 che corrisponde alla luce rossa, ma la clorofilla emette nel verde per
questo conferisce colore verde agli organismi che la contengono.
Esistono diversi tipi di clorofilla e di batterioclorofilla e questo permette agli organismi fototrofi di sfruttare
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al meglio l'energia disponibile nello spettro elettromagnetico.
Il fatto di avere a disposizione tanti pigmenti con diversi spettri di assorbimento fa si che possa essere
l’energia disponibile nello spettro elettromagnetico possa essere sfruttata nel miglior modo possibile.
Quindi la diversità dei pigmenti ha un preciso significato ecologico e cioè questa diversità permette la
coesistenza di diversi fototrofi nello stesso habitat perché questi utilizzano la luce a diverse lunghezze
d’onda e non entrano quindi in competizione tra di loro.
Andiamo ad approfondire nel dettaglio il concetto di autotrofia.
Abbiamo detto che la fotosintesi consiste nella conversione l'energia luminosa in energia chimica e gli
organismi che effettuano la fotosintesi sono definiti fototrofi e in funzione della forte carbonata possono
essere fotoautotrofi o fotoeterotrofi.
La fonte di energia è sempre la luce.
Abbiamo detto che la fotoautotrofia richiede che avvengano in parallelo
due distinti set di reazioni: la produzione di ATP che avviene grazie
all’utilizzo dell’energia luminosa e la riduzione della CO2 a carbonio
organico per la sintesi dei vari costituenti cellulari.
Gli elettroni necessari per questa reazione di riduzione provengono dalle NADH o dal NADP che si
ottengono per riduzione rispettivamente del NAD+ e del NADP+ in presenza di elettron donatori che hanno
un elevato potere riduttivo.
Tra gli elettron donatori che riducono il NAD+ e il NADP+ possiamo avere l'acido solfidrico o l’idrogeno in
questo caso non stia produzione di ossigeno (fotosintesi anossigenica) o diversamente il potere riduttivo
può provenire dall'acqua la quale viene e ossidata a ossigeno e questa ossidazione consente poi la riduzione
delle NADH (fotosintesi ossigenica).
I pigmenti clorofilliani e tutti gli altri componenti del apparato fotosintetico sono localizzati
all’interno di sistemi di membrana che sono chiamati membrane fotosintetiche.
La localizzazione di queste membrane fotosintetiche è diversa nei fototrofi eucarioti e procarioti.
Nei fototrofi eucarioti la fotosintesi è associata ed avviene a livello di organuli intracellulari
chiamati cloroplasti; nei fototrofi procarioti invece i pigmenti fotosintetici sono integrati in sistemi
di membrana interni che possono essere: invaginazioni della membrana citoplasmatica, possono
essere la stessa membrana citoplasmatica oppure possono essere delle strutture specializzate chiamate
clorosomi.
All’interno della membrana fotosintetica le molecole di clorofilla e batterioclorofilla (pigmenti sensibili alla
luce) sono e attaccate a proteine per formare dei fotocomplessi costituiti da un numero di molecole che
diciamo variabile da 50 a 300 molecole.
Questi fotocomplessi possono essere di due: tipi abbiamo i centri di reazione (RC) che partecipano
direttamente alla reazione di conversione l'energia luminosa in ATP poi abbiamo i pigmenti antenna (o
pigmenti di raccolta LH1 o LH2) che hanno funzione di assorbire la luce e incanalarla verso il centro di
reazione.
Alcuni organismi hanno due tipi di pigmenti antenna LH1 e LH2.
Nel caso in cui siano presenti questi due diversi tipi di pigmenti antenna, i complessi LH2 due assorbono
l'energia luminosa, la trasferiscono ai complessi LH1 che a loro volta trasferiscono l'energia al centro di
reazione il quale la convertirà in ATP. I clorosomi sono, come abbiamo già detto, strutture specializzate e
fotosintetiche che fondamentalmente rappresentano dei sistemi di membrana interni.
Dal punto di vista più funzionale i clorosomi sono strutture specializzate per catturare la luce a bassa
intensità, possiamo anche definire dei pigmenti antenna speciali.
Sono presenti nei batteri verdi sia che utilizzano che non utilizzano i solfuri.
I clorosomi possono essere considerati pigmenti antenna giganti perché devono catturare la luce a bassa
intensità e le grandi dimensioni favoriscono questa attività.
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Il clorosoma è posizionato sulla superficie interna della membrana citoplasmatica.
(nell’immagine è presente una micrografia a trasmissione elettronica e di una sezione di un batterio
sulfureo che fa fotosintesi e di seguito lo schema di un doloroso ma che si può osservare lo vedete e
proprio facendo una analisi al TEM)
All’interno del cloroso ma sono presenti le bacterio clorofille (Bchl B, Cchl C e Bchl E), arrangiate vedete in
matrici che formano dei tubuli.
L'energia luminosa assorbita da questi pigmenti antenna quindi l'energia luminosa assorbita dalle bacterio
clorofille B, C ed E è trasferita alla bacterio A che si trova nel centro di reazione.
Il centro di reazione contiene la bacterio clorofilla A che si trova a livello della membrana citoplasmatica.
L'energia assorbita dai pigmenti antenna presenti nei clorosomi è trasferito ai centri di reazione RC grazie
all'aiuto di proteine che si chiamano FMO (proteine che fanno da ponte fra il clorosoma e
il centro di reazione).
Poi abbiamo delle altre proteine che sono queste BP (base plate) che si trovano a livello
del clorosoma ed insieme alle FMO fanno da ponte tra il clorosoma e la membrana
citoplasmatica.
Quindi la connessione che consente il trasferimento di energia tra il clorosoma e il centro
di reazione che si trova a livello della membrana citoplasmatica è permessa da due tipi di
proteine che sono le proteine FMO e le proteine BP.
L'energia luminosa che arriva al centro di reazione viene poi convertita in ATP.
Grazie alla presenza dei clorosomi i batteri verdi solfuri riescono a colonizzare e a
sopravvivere e crescere nelle acque profonde dei laghi, dei mari e di altri habitat acquatici
anossici; mentre i batteri verdi non solfurei sono i principali componenti di spessi biofilm
presenti e nelle sorgenti calde e negli ambienti altamente salini.
Quindi grazie a questi clorosomi che sono recettori antenna speciali che catturano la luce a
bassa intensità i batteri verdi (sia solfurei che non) riescono a sfruttare anche un minime quantità di luce in
maniera efficiente.
Oltre alle clorofille e alle bacterio clorofille gli organismi fototrofi contengono anche altri pigmenti; i
pigmenti accessori più rappresentati sono i carotenoidi.
Questi pigmenti sono pigmenti idrofobici sensibili alla luce e fermamente legati alle membrane
fotosintetiche (ed associati a clorofille e batterio clorofille).
I carotenoidi punto di vista delle proprietà spettrali sono tipicamente gialli, rossi, marroni e verdi e
assorbono nella luce nella regione del blu.
Le principali funzioni dei carotenoidi sono: l’assorbimento della luce e il
trasferimento nei centri di reazione (quindi hanno una funzione ausiliaria rispetto ai pigmenti
antenna, cioè assistono e collaborano con i pigmenti antenna nell’assorbimento delle energia luminosa) e
diciamo un’altra funzione importante è la foto protezione, i carotenoidi infatti smorzano gli effetti tossici di
alcune specie reattive dell'ossigeno assorbendo la luce dannosa e proteggendo gli organismi fototrofi dalla
foto ossidazione.
La struttura a fianco è quella del β‐carotene che è un tipico in comune carotenoide e vedete la struttura
chimica del carotenoide caratterizzata da un sistema a doppi legami coniugati evidenziato in arancio,
responsabile dell’assorbimento della luce ma anche del legame con le speciali attive dell'ossigeno che
quindi vengono e immobilizzate per proteggere le proteine e gli acidi nucleici.
FOTOSINTESI ANOSSIGENICA
Come abbiamo già detto nella fotosintesi anossigenica non si ha produzione di ossigeno.
Nelle reazioni fotosintetiche, gli elettroni viaggiano trasportati attraverso una serie di carrier a livello della
membrana fotosintetica.
Questo trasporto di elettroni genera una forza proton motrice che a sua volta guida la sintesi di ATP (quindi
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ci sono delle analogie con quello che avviene a livello della respirazione negli organismi chemiorganotrofi).
La fotosintesi anossigenica avviene in almeno 5 fila di batteri:
Proteobacteria (batteri viola)
Batteri verdi solfuri
Batteri verdi non solfuri
Batteri gram positivi
Acidobatteri
(Noi prendiamo come esempio i meccanismi che si e sono osservati e caratterizzati nei batteri viola e nei
batteri verdi).
L'apparato fotosintetico dei batteri viola è stato ampiamente studiato e caratterizzato nel dettaglio.
Il centro direzione (RC) del complesso fotosintetico consiste di:
2 molecole di batterioclorofilla A (Bchl a) che insieme costituiscono la coppia reattiva chiamata p
870
2 addizionali molecole di batterioclorofilla A (Bchl a) che sono coinvolte nel flusso di elettroni
fotosintetici
2 molecole di batteriopepitina a (Bph a) che corrisponde ad una un batterio clorofilla a senza
l'atomo di magnesio (Bph a = Bchl a – Mg)
2 molecole di chinone in particolare il chinone A e il chinone B
1 pigmento ausiliario: un carotenoide con funzione ausiliaria
3 polipeptidi chiamati L, Me H che sono fermamente associati alla membrana fotosintetica
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Descriviamo il flusso di elettroni nella fotosintesi anossigenica operata dai batteri viola.
Come già descritto l'energia luminosa viene trasferita dai pigmenti antenna (LH1 o LH2 o clorosomi) al
centro di reazione RC in pacchetti di energia chiamati anche excitoni che rappresentano una forma di
energia mobile.
Il trasferimento di elettroni all’interno del centro RC (ed anche parzialmente
all'esterno a livello della membrana citoplasmatica) incomincia quando l'energia
luminosa arriva alle alla coppia reattiva costituita dalle 2 bacterio clorofilla a
(definita p 870) che rappresenta la coppia reattiva.
Prima dell'eccitazione, il potenziale di riduzione (quindi E01 di P 870) è uguale a +0,5
V; dopo l'eccitazione, il potenziale di riduzione di p870 è uguale a ‐ 1 V.
Quindi in seguito all’eccitazione si ha un passaggio da +0,5 a ‐1 V quindi la coppia
reattiva diventa un forte donatore di elettroni in seguito all’assorbimento di
energia.
P 870 in forma eccitata riduce la batterioclorofilla a che a sua volta riduce la
batteriopepitina a.
Gli step successivi vedono la riduzione sequenziale dei due chinoni (A e B) associati
al centro di reazione.
A questo punto gli elettroni dal chinone B si spostano alla membrana quindi fino al
chinone B il trasferimento di elettroni avviene all’interno del centro di reazione e la velocità di
trasferimento di elettroni è dell’ordine di 10‐12 secondi (velocità elevatissima) a questo punto invece il
chinone trasferisce gli elettrone ad un pool di chinoni sulla membrana citoplasmatica e le reazioni trasporto
elettronico sono più lente (nell’ordine del micromillisecondo rispetto al picosecondo del centro di
reazione).
Dal pool di chinoni gli elettroni vengono trasferiti attraverso anche le proteine zolfo‐ferro e grazie ai
citocromi (in particolare i citocromi BC1 e C2, quest’ultimo in particolare è periplasmatico e funziona da
shuttle di elettroni tra il citocromo BC1 legato alla membrana e il centro di reazione).
Il ciclo è completo quando il citocromo C2 dona un elettrone A 870 che ritorna alla sua configurazione
elettronica basale caratterizzata da un potenziale di riduzione pari a +0.5 volte in modo che il centro di
reazione sia così capace di assorbire nuova energia luminosa e ripetere il processo ciclico.
Il flusso di elettroni è ciclico e durante il flusso si forma forza proton motrice.
Si parla di fotofosforilazione perché l’ATP che è strettamente associato alla forza proton motrice è
sintetizzato durante il flusso elettronico fotosintetico.
Si parla di fotofosforilazione ciclica perché gli elettroni si muovono all’interno di un loop chiuso; quindi nel
caso della fotosintesi diversamente dalla respirazione non c’è guadagno o produzione di elettroni, questi
semplicemente viaggiano in un circuito chiuso.
Il passaggio in particolare in cui si forma il gradiente protonico è l’interazione tra il pool di chinoni ( a livello
della membrana) e il citocromo BC1 (semple localizzato a livello della membrana).
La luce colpisce i pigmenti antenna che trasferiscono l’energia al centro di reazione che possiede una
coppia reattiva (p860) che si eccita diventando un buon donatore di elettroni e riduce la batterioclorofilla
che a sua volta riduce la batteriopepitina che fa lo stesso con i chinoni a e b che vanno a ridurre il pool di
chinoni a livello della membrana.
Qui il pool di chinoni si riduce prendendo un elettrone dal chinone nel centro di reazione e
contemporaneamente si lega a due H+ provenienti dal citoplasma e si trasforma in UH2.
Nello step successivo UH2 cede un elettrone al citocromo BC1 e due H+ vengono trasportati fuori dalla
membrana, generando in questo modo il gradiente protonico che alimenta l’ATPsintasi.
A questo punto il BC1 cede l’elettrone alla proteina ferro‐zolfo che a loro volta lo cedono al citocromo C2
che fa da shuttle dell’elettrone fino al centro di reazione chiudendo il ciclo.
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Quindi il passaggio fondamentale per la generazione della forza proton motrice è
il trasferimento di elettroni dal citocromo BC1.
I requisiti per crescere in fotoautotrofi a sono due: il primo requisito è la sintesi
di ATP che avviene grazie all’ATPsintasi che sfrutta il gradiente protonico
generato durante il trasporto di elettroni a livello del centro di reazione e della
membrana citoplasma; l'altro requisito fondamentale per crescere in
fotoautotrofia è la disponibilità di NADH o NADPH che ci serve per ridurre la CO2 a
carbonio organico.
Per ottenere le forme ridotte di NADH e NADPH dalle rispettive forme ossidate (NAD+ e NADP+) occorre un
potere riducente che può provenire da acido solfidrico ma più in generale dai composti solforati e idrogeno
ma anche da altre sostanze che rappresentano potere riducente come lo ione ferroso, il nitrito e l’arsenito.
Quando il donatore di elettroni è H2S nei batteri viola soldurei H2s può seguire due destini.
Possiamo avere una completa ossidazione dell’H2S a solfato in cui il numero di ossidazione passa da ‐2 a +6
oppure possiamo avere una parziale ossidazione a Zolfo elementare in cui il numero di ossidazione dello
zolfo passa da ‐2 a 0.
Questo zolfo elementare si accumula in granuli intracellulari che sono visibili al microscopio elettronico.
Gli elettroni ceduti dall'acido solfidrico vanno a finire in quel pool di chinoni di membrana che rappresenta
quindi l’accettore di elettroni primario.
Il potenziale di riduzione del chinone corrisponde a 0 Volt quindi non è sufficientemente elettronegativo
per ridurre il NAD che ha un potenziale di riduzione pari a ‐0.32 Volt 0, pertanto gli elettroni in questo caso
devono essere forzati contro il gradiente elettrochimico verso il NAD e questo processo (che è dispendioso
punto di vista energetico) è definito trasporto elettronico inverso e consuma energia prodotta dalla forza
protonmotrice.
Confrontiamo la fotosintesi anossigenica che avviene nei batteri viola (appena descritta) con la fotosintesi
anossigenica nei batteri verdi solfuri (che chiamiamo GSB) e negli altri nel eliobactiria (HB).
Il potenziale di riduzione dei centri di reazione eccitati di GSB e di HB (rispettivamente p840 e p798) sono
più elettronegativi del centro di reazione dei battere viola (p870) e questo è un’importante differenza.
Un’altra importante differenza è che nel centro di reazione di GSB è presente la clorofilla a che non
avevamo visto nei batterie viola in cui ci sono solo solo bacterioclorofille mentre nei batteri HB è presente
una forma idrossilata della clorofilla A (indicata come chl a‐OH).
La terza importante differenza è che l'accettore di elettroni primario in GSB e HB è una proteina ferro‐zolfo
che ha un potenziale di riduzione decisamente più elettronegativo del chinone q (accettore primario di
elettroni in nei pb) quindi mentre nella nei batteri viola è necessario un flusso di elettroni inverso nei GSB e
negli HB questo flusso di elettroni inverso non è richiesto.
Ancora un'altra importante differenza in GSB e HP è che le elettroniche arrivano alle proteine ferro‐zolfo
vengono in parte trasferiti alla ferrodoxina ed in parte continuano il flusso verso i chinoni e verso i
citocromi per chiudere il ciclo (cioè tornare alla coppia reattiva).
Un ruolo cruciale nella riduzione del NADh è svolto dalla Feredoxina che è un'altra proteina presente
soltanto in GSB e in HP e caratterizzata dalla presenza di ferro nella sua struttura
E’ un'importante trasportatori di elettroni infatti quetsa, una volta che hai ricevuto gli elettroni dalla
proteina ferro‐zolfo (in entrambi i casi quindi sia da GSB che da HP), riduce a sua volta il NADh.
Poiché i potenziale di riduzione della feredoxina è più elettronegativo di quello del NAD in questo caso non
hai chiesto un flusso di elettroni inverso.
Quindi l'importante differenza tra i tre fila di batteri è che nei purple bacteria si deve attivare un flusso
inverso di elettroni per generare in NADh quindi per ridurre il NAD a NADh mentre nei green bacteria
questo non è necessario perché abbiamo una centro di reazione diverso, abbiamo dei componenti diversi
nel centro di reazione e abbiamo il coinvolgimento di una proteina pero zolfo che fa da accettore primario e
contemporaneamente cede elettroni alla feredoxina che è una proteina chiave in questo processo perché a
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sua volta va a ridurre il NAD a NADh e quindi rende disponibile potenziale di riduzione per trasformare la
CO2 in composti organici (in questo caso non è richiesto il flusso elettronico inverso perché il potenziale
d'azione della feredoxina è più elettronegativo del NADH e quindi la reazione di ossido riduzione avviene
spontaneamente).
FOTOSINTESI OSSIGENICA
Nella fotosintesi ossigenica il flusso
di elettroni procede attraverso due
serie di reazioni luminose differenti
ma interconnesse all’interno di
membrane fotosintetiche
specializzate.
Bisogna prendere in considerazione
due fotosistemi: il fotosistema I (PS
I) e il fotosistema II (PS II).
Nelle fotosistema I il centro di
revisione è costituito da una clorofilla a definita p700 che assorbe la luce alla lunghezza d'onda del lontano
rosso; Il PS I contiene anche una proteina ferro‐zolfo come accettore primario di elettroni (che come
abbiamo già visto ha un potenziale di riduzione molto elettronegativo e decisamente più elettronegativo
del NAD).
Nel fotosistema II il centro di reazione è costituito da una clorofilla a definita p680 (con un potenziale di
riduzione di + 1 Volt) che assorbe la luce a lunghezze d'onda del vicino rosso; nel PS II il chinone
rappresenta l’accettore primario di elettroni (il chinone ha potenziale di riduzione di circa 0 Volt).
I fototrofi ossigenici utilizzano la luce per generare sia l’ATP che e NADPH.
Gli elettroni che servono per generare un NADPH Nella reazione di riduzione del NADP+ provengono
dall’ossidazione dell’acqua che si comporta da elettrondonatore e che genera ossigeno molecolare.
In sintesi quindi i prodotti della fotosintesi ossigenica sono so ATP, NADPH e ossigeno molecolare.
Quindi si tratta di fotosintesi ossigenica perché oltre a generare ATP e potenziale riducente quale il NADPH
si genera anche l'ossigeno.
Il flusso di elettroni nella fotosintesi ossigenica ha la forma della lettera Zeta, per questo viene anche
definito schema Zeta.
Il flusso di elettroni incomincia nelle fotosistema II.
Il primo step corrisponde alla scissione della molecola d'acqua in ossigeno più protoni e questa scissione
genera due elettroni (è una reazione di ossido riduzione in cui l'acqua si ossida cedendo due elettroni al
centro di reazione p 680 e quindi si riduce).
Questa reazione è possibile e spontanea grazie al potenziale di riduzione estremamente elettropositivo di
p680.
Quindi p 680 si riduce favorevolmente e riceve elettroni dall’acqua grazie al suo elevato potenziale di
riduzione.
Contemporaneamente p680 (coppia reattiva del PS II) assorbe energia luminosa.
In seguito a questi due fenomeni ,acquisizione elettroni ed eccitazione luminosa, il potenziale di riduzione
di p680 da +1 passa a ‐1.
Quindi a questo punto, p680 attivato (asteriscato in figura), grazie al suo potenziale di riduzione
elettronegativo, riduce la pepitina a (il primo carrier di elettroni dopo alla coppia reattiva) e da qui gli
elettroni viaggiano attraverso una serie di carrier con potenziale di riduzione sempre più positivo (il chinone
a, il chinone b, il pool di chinoni, i citocromi e la palstocianina una proteina contenente rame).
Quindi abbiamo, come per la fotosintesi anossigenica, una catena di trasporto di elettroni a partire da
carrier fortemente elettronegativi fino ad arrivare a carrier sempre più elettropositivi.
79
Le reazioni di ossido riduzione sono quindi spontanee che seguono il potenziale di riduzione.
A questo punto il flusso di elettroni dalla plastocianina passa al fotosistema I.
Quindi la plastocianina dona elettroni al centro di reazione p700 del PS I k; dopo
l'acquisizione di elettroni da parte di p700 e l’assorbimento di energia luminosa
(anche la coppia reattiva del fotosistema I subisce due tipi di eccitazione
l’acquisizione di elettroni e l’assorbimento di excitoni quindi di energia luminosa)
il potenziale di riduzione di p700 (asteriscato) diventa pari a ‐1,25 Volt.
Questo potenziale di riduzione estremamente elettronegativo consente a p700 di
ridurre la clorofilla a che a sua volta riduce una proteina ferro‐zolfo; la proteina
spero‐zolfo cede elettroni alla feredoxina la quale riduce il NAD o il NADP per
formare NADH o NADPH (necessari per trasformare il carbonio inorganico in
composti organici).
Oltre alla sintesi di potere riducente (rappresentato dal NADH e NADPH), il flusso
di elettroni nella fotosintesi ossigenica genera forza proton motrice che viene
sfruttata per produrre ATP dall’ATPasi.
L'obiettivo della fotosintesi è sempre duplice: produrre ATP e produrre potere riducente nella forma del
NADH e del NADPH.
La produzione di ATP (l'altro obiettivo delle della fotosintesi) avviene attraverso due meccanismi.
Il primo è la fotofosforilazione non ciclica: in questo processo si ha la produzione sia di NADH e NADPH che
di ATP.
In questo caso non abbiamo ciclo chiuso perché gli elettori non tornano indietro a ridurre il p680 ossidato
ma sono utilizzati unicamente per ridurre il NADH o NADPH nelle rispettive forme ridotte.
Nella fotofosforilazione non ciclica il flusso di elettroni passa dal foto sistema due al foto sistema uno con il
semplice schema Z (non aperto) e il flusso di elettroni termina con la terra produzione di una NADH o
NADPH.
La fotofosforilazione ciclica si verifica quando il potere riducente è già sufficiente per cui non si ha
produzione di altro potere riducente sotto forma di NADH o NADPH,
In questo caso gli elettroni della fedoxina del fotosistema I tornano al foto sistema due riducendo i
citocromi e da qui tornando alla coppia reattiva nel fotosistema II.
Questi elettroni generano ulteriore forza proton motrice che supporta la sintesi di quantitativi maggiori di
ATP.
Quando il quantitativo di NADH e NADPH è sufficiente e quindi non c'è necessità di produrne dell'altro si
attiva il meccanismo di fotofosforilazione ciclica.
In questo caso gli elettroni dalla feredoxina tornano a citocromo BF del fotosistema II e dal questo
citocromo possono tornare anche a p680 chiudendo in questo modo il ciclo.
CHEMIOLITOTROFIA
Ci sono diversi esempi di chemiolitotrofia di cui ci occuperemo.
In generale la chemiolitotrofia è l’utilizzo di sostanze chimiche inorganiche come sorgente di energia; i
chemiolitotrofi sono organismi che ottengono energia dalla ossidazione dei composti inorganici e quindi
fungono da donatori di elettroni.
Anche in questo caso possiamo distinguere gli autotrofi dai mesototrofi in relazione alla fonte carbonata
che viene utilizzata.
Gli autotrofi utilizzano la CO2 come unica fonte di carbonio i mesototrofi utilizzano composti organici come
fonte di carbonio.
Gli elettroni che derivano dall’ossidazione della sostanza inorganica scusate entrano in una catena di
trasporto elettronico fino a ridurre un accettore finale.
Questo trasporto di elettroni crea una forza proton motrice che crea quel gradiente elettro chimico di ion
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H+ che alimenta e guida l'attività dell’ATPasi e quindi la sintesi di energia chimica sotto forma di ATP.
Contemporaneamente anche in questo caso è necessario potere riducente sotto forma di NADH che può
arrivare direttamente dalla sostanza inorganica (che un donatore di elettroni) se la sostanza è più
elettronegativa del NAD oppure dal trasporto elettronico inverso se il potenziale di azione della sostanza
inorganica è più elettropositivo del NADH .
Gli organismi hanno molte sorgenti inorganiche di elettroni che possono essere geologiche, biologiche o
anche l'altro (per esempio derivanti da attività umane).
I vulcani per esempio sono le principali sorgenti di composti solforati mentre per quanto riguarda le attività
antropiche, le attività agricole forniscono composti del fosforo, dell’azoto e del ferro che quindi possono
essere sfruttati dai microrganismi chemiolitotrofi.
Nella tabella sono elencati diciamo i tutti i possibili composti
inorganici che possono fungere da elettron donatori per i
microrganismi chemiolitotrofi con le corrispondenti reazioni
redox ed alcuni dettagli energetici (come il potenziale di riduzione,
il ΔG della reazione e il numero di elettroni.
I composti inorganici quindi donatori di elettroni possono essere
classificati come in tabella e di conseguenza anche i
microrganismi chemiolitotrofi vengono classificati in gruppi in relazione proprio alla sostanza inorganica che
viene ossidata.
Un certo numero di organismi chemiolitotrofi utilizzano l’idrogeno come donatore di elettroni nel
metabolismo energetico ed i più comuni sono i batteri aerobici che ossidano l’idrogeno.
I batteri aerobici che ossidano l’idrogeno accoppiano l’ossidazione dell’idrogeno con la riduzione
dell'ossigeno (l'ossigeno si comporta da accettore finale di elettroni): la reazione avviene
con la contemporanea formazione di acqua.
Osserviamo i parametri energetici dell’ossidazione dell’idrogeno in
Ralstonia eutrophai che si può considerare un sistema modello per
l’ossidazione dell’ossidazione aerobica nella chemiolitotrofia.
La reazione molecolare è H2 + ½ O2 = H2O ΔG0i = ‐237KJ
Dal valore estremamente negativo del ΔG0 capiamo che la reazione è
altamente esoergonica e quindi supporta la sintesi di ATP.
In Ralstonia eutrophai esistono due enzimi idrogenasi : una idrogenasi legata
alla membrana ed un’idrogenasi solubile citoplasmatica.
Quest’idrogenasi partecipa all’energetica infatti questa riceve gli elettroni dall’idrogeno extracellulare e poi
li trasferisce inizialmente ad un chinone e da questo, passando attraverso una serie di citocromi, arrivano
all’ossigeno (l’accettore finale), il quale viene ridotto ad acqua.
Durante il flusso di elettroni a livello della riduzione del chinone q e dell'ultimo citocromo si genera una
forza proton motrice ovvero gli h più vengono portati fuori dalla cellula creando il gradiente protonico che
verrà poi sfruttato dall’ATPsintasi per la sintesi di ATP a partire da ADP+Pi.
In generale possiamo dire che la funzione della idrogenasi associata alla membrana è quella di utilizzare gli
elettroni che provengono da l'idrogeno per ridurre l'ossigeno e produrre forza proton che guida la sintesi di
ATP.
La seconda idrogenasi, l’idrogenasi solubile citoplasmatica ha un'altra ovvero si trova a livello del
citoplasma.
L’idrogenasi citoplasmatica lega l'idrogeno e catalizza la seguente reazione redox: NAD+ + H2 = NADH + H+ .
L’idrogeno molecolare si ossida ad H+ e il NAD si riduce a NADH.
Il NADH formatosi serve a trasformare la CO2 in materiale cellulare anche grazie all’ATP.
81
La necessità o meno di attivare un flusso elettronico inverso dipende dalla differenza di potenziale d'azione
fra la coppia NAD+/NADH e la sostanza organica che funge da elettron donatore.
Il potenziale di riduzione della coppia H+/H2 o più semplicemente dell’idrogeno è uguale a ‐0,42 Volt
mentre il potenziale di riduzione e la coppia NAD+/NADH è pari al ‐0 32 Volt quindi la coppia più
elettronegativa è la coppia dell’idrogeno quindi questa reazione catalizzata dall’idrogenasi citoplasmatica
avviene spontaneamente cioè non c'è bisogno di ricorrere al flusso inverso di elettroni.
Cioè l’H riduce spontaneamente il NAD+ a NADH senza la necessità di un flusso inverso di elettroni (che è
un processo dispendioso dal punto di vista energetico).
In conclusione la funzione dell’idrogenasi citoplasmatica è quella di ridurre il NAD+ o NADP+ a NADH o
NADPH /poi utilizzati per trasformare la CO2 in materiale cellulare) sfruttando sempre elettrone l'idrogeno
(ossia la sorgente energetica) mentre la funzione dell’idrogenasi integrale di membrana è quella di
sintetizzare ATP.
Alcuni altri batteri chemiolitotrofi utilizzano diversi composti solforici come donatori di elettroni.
Diversi composti ridotti dello zolfo vengono quindi utilizzati come donatori di elettroni da batteriche che
vengono appunto detti batteri solfurei e non colorati (da distinguersi dai batteri sulfurei verdi e viola che
invece contengono clorofilla che utilizzano una strategia metabolica di fototrofia piuttosto che
chemiolitotrofia).
I composti dello zolfo più comuni usati come donatori di elettroni sono i solfuri H2S (acido solfidrico), HS‐
(solfuro), S (zolfo elementare) e S2O32‐ (tiosolfuro).
Le rispettive reazioni di ossido riduzione (ΔG0i relativo al singolo elettrone scartato):
H2S + 2O2 = SO42‐ + 2H+ → ΔG0i = ‐798.2 KJ/reaction nell’acido solfidrico il numero di ossidazione dello
zolfo è‐2 e passa a +6 quindi nel processo sono stati scartati 8 elettroni infatti dividendolo per 8 si
ottiene il numero a fianco (‐99.75 KJ/e‐)
HS‐ + ½ O2 + H+ = S0 + H2O → ΔG0i = ‐209.4 KJ/reaction nel processo lo zolfo ha numero di ossidazione
‐2 e passa a 0 quindi gli elettroni scartati sono 2 e divido per 2 (‐104.7 KJ/e‐)
S0 + H2O + ½ O2 = SO42‐ + 2H+ → ΔG0i = ‐587.1 KJ/reaction nella reazione lo zolfo ha numero di
ossidazione 0 e passa a 6nquindi gli elettroni scartati sono 6 e divido per 6 (‐97.85 KJ/e‐)
S2O32‐ + H2O + 2 O2 = 2SO42‐ + 2H+ → ΔG0i = ‐818.3 KJ/reaction nel processo lo zolfo del tiosolfato ha
numero di ossidazione +2 e passa a +6 quindi gli elettroni scartati sono 4 ma bisogna moltiplicare
per due perché sono coinvolti 2 atomi di elettroni quindi dividerò per 2x4=8 (‐102 KJ/e‐)
Quindi fondamentalmente la bioenergetica dei microrganismi chemiolitotrofi si basa su reazioni
ossidoriduzione.
In funzione del potenziale di riduzione del composto ridotto dello zolfo gli elettroni che vengono ceduti
dallo zolfo entrano nella catena di trasporto di elettroni a due livelli.
Se il donatore fa parte dei solfuri (numero di ossidazione ‐2) gli elettroni vengono ceduti alle flavoproteine
FAD che hanno potenziale di riduzione pari a ‐0,2V.
Se invece l’elettron donatore è un tiosolfato o uno zolfo elementare (che hanno rispettivamente numero di
ossidazione +2 e 0) in cui lo stato di ossidazione dello zolfo è basso gli elettroni vengono ceduti a citocromo
C che ha un potenziale di riduzione pari a +0,3V.
Gli elettroni vengono attraverso la catena fino all'ossigeno che è l’accettore finale che viene ridotto ad
acqua.
Nel caso dei solfuri c’è un passaggio più lungo fino ad arrivare al citocromo aa3 che a sua volta riduce
l'ossigeno ad acqua.
Nel caso dei tiosolfati e dello zolfo elementare il trasporto elettronico è più breve la citocromo c gli
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elettroni vengono ceduti al citocromo aa3 il quale riduce l'ossigeno ad acqua.
Il trasporto elettronico genera la forza proton motrice che porta alla sintesi di ATP.
La forza proton motrice viene generata a due livelli: viene generata nel passaggio di elettroni dal citocromo
aa3 all'ossigeno e viene generata anche dal passaggio di elettroni dal
chinone q al citocromo BC1.
Abbiamo una formazione di forza proton motrice maggiore quando lo zolfo
è un solfuro infatti le coppia redox S2O32‐/SO42‐ o S/ SO42‐ hanno un
potenziale di riduzione meno elettronegativo possono inserirsi soltanto a
livello del citocromo c e quindi saltando uno step di prodotti della forza
proton motrice avranno una minore efficienza nella generazione forza.
Un altro aspetto fondamentale è la sintesi di NADH perché è un passaggio fondamentale per trasformare la
CO2 in materiale cellulare.
Gli elettroni necessari per ridurre il NAD+ a NADH derivano da un flusso inverso gli elettroni perché il NADH
ha un potenziale di riduzione più elettronegativo sia rispetto alle coppie H2S/SO42‐ e HS‐/S0 sia a maggior
ragione delle coppie S0/SO42‐ e S2O32‐/SO42‐.
Quindi per poter ridurre dal NAD+ al NADH occorre puntare gli elettroni nella direzione auto inversa a
quella che avverrebbe spontaneamente; e chiaro che se si utilizza come donatore di elettroni un solfuro il
flusso di elettroni è più corto, se si utilizza invece un tiosolfato o zolfo elementare il flusso inverso di
elettroni sarà maggiore.
Il ferro può essere ossidato mediante ossidazione aerobia Fe2+ a Fe3+ da organismi chemiolitotrofi per
supportare la crescita dei batteri chemioautotrofi che sono detti aerobacteria.
Lo ione ferrico che si forma in questo processo reagisce l'acqua per formare idrossido ferrico e ioni H+.
La produzione dei protoni acidifica il medium abbassare il PH per questo motivo i batteri che ossidano il
ferro sono acidofili obbligati ed i più conosciuti sono Acidithiobacillus ferroxidans e Leptospirillum
ferroxidans che hanno un optimum di PH è estremamente acido (2‐3) anche se possono crescere i valori di
PH addirittura inferiori.
Il potenziale di riduzione della coppia Fe2+/Fe3+ a PH acido è elettropositivo
quindi il potenziale di riduzione è pari a 0,77 Volt a PH2 per questo motivo il
percorso del trasporto di elettroni e verso l'ossigeno il cui potenziale di
riduzione è 0,82V è molto corto.
L’ossidazione del ferro incomincia a livello della membrana esterna dove Fe2+
viene ossidato a Fe3+ dal citocromo c associato alla membrana esterna (siamo
quindi nell’ambito dei batteri gram‐).
L’elettrone ceduto dall’ossidazione del Fe2+ viene preso da una proteina
periplasmatica contenente rame (chiamata rusticianina).
Il potenziale di riduzione della rusticianina è pari a 0,68 Volt dal punto di vista termodinamico questa
reazione non è favorevole perché il potenziale di riduzione della coppia Fe2+/Fe3+ è 0,82V mentre quello
della rusticianina 0,68V quindi il passaggio di un elettrone dal diciamo dal citocromo c alla rusticianina è un
processo che non avviene spontaneamente.
Questi batteri riescono a portare avanti questo trasferimento grazie alla rimozione del Fe3+ in seguito alla
formazione in acqua dell’idrossido ferrico Fe(OH).
La rusticianina riduce il citocromo c che si trova a livello delle bilayer fosfolipidico, che a sua volta riduce il
citocromo aa3 e quest'ultimo (come già visto anche nel ciclo metabolico precedente) va a ridurre l'ossigeno
ad acqua con contemporanea espulsione di ioni H+ e quindi la generazione del gradiente elettrochimico
che sostiene la sintesi di ATP.
Come negli altri cicli metabolici la produzione di ATP è associata alla generazione di gradiente protonico che
a sua volta si genera durante il trasporto di elettroni.
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Rimane da capire come si forma il potere riducente ovvero il NADH necessario per la trasformazione della
CO2 in materiale cellulare.
A causa del potenziale di riduzione elettropositivo della coppia ferro Fe2+/Fe3+ (+0.77V) è chiaro che è
fondamentale attivare un flusso elettronico inverso e che molta energia deve essere consumata nel flusso
inverso elettroni per poter ottenere il NAD.
Gli elettroni che provengono dall’ossidazione del ferro sono in parte pompati indietro cioè parte vengono
cioè convogliarli verso il citocromo C e poi verso il citocromo aa3 per sintetizzare acqua e quindi ridurre
l’ossigeno e sintetizzare l’ATP ed in parte vengono pompati indietro verso citocromo bc1 e il pool di chinoni
per poi essere ceduti al NAD+ che viene ridotto a NADH.
Bisogna quindi in generale ricordare che tanto più è elettropositivo il potenziale di riduzione della coppia
che partecipa alla bioenergetica e che viene utilizzata per il metabolismo tanto più lungo sarà il percorso
elettronico inverso quindi tanta più energia occorrerà utilizzare per la sintesi del NADH.
Quindi a fronte di una bassa resa energetica Acidithiobacillus ferroxidans deve ossidare una grande quantità
di ferro per far fronte alla sintesi del materiale cellulare.
Un ulteriore processo è quello della nitrificazione in cui composti azotati inorganici come ammoniaca (NH3)
e ione nitrito (NO2‐) vengono ossidati aerobicamente da organismi chemioautotrofi che sono definiti in
questo caso batteri nitrificanti.
I batteri nitrificanti sono ampiamente distribuiti nell’acqua e nel suolo e si dividono in due gruppi che
compiono un metabolismo diverso.
Il primo gruppo è rappresentato da Nitrosomonas che ossida l’ammoniaca (NH3) a nitrito.
Il secondo gruppo è rappresentato da Nitrobacter e Nitrospira che ossidano i nitriti (NO2‐) a nitrati (NO3‐).
La completa ossidazione dell’ammoniaca a nitrato che comporta il trasferimento totale di 8 elettroni, è
portata avanti dall’attività concertata di questi due gruppi di microrganismi perché Nitrosomonas ossida
l'ammoniaca a nitrito che viene reso disponibile l'ambiente e viene utilizzato da Nitrobacter e Nitrospira
che ossidano completamente a nitrato.
Ci focalizziamo sulla bioenergetica di Nitrosomonas.
Il primo aspetto da tenere in considerazione è il potenziale di riduzione della coppia NH3/NO2‐ che è
elettropositivo e uhale a +0.34V.
Il ciclo metabolico che stiamo per descrivere prevede i seguenti step:
NH3 + O2 + 2H+ + 2e‐ = NH2OH + H2O
L’ammoniaca è ossidata a idrossilammina (dall'enzima ammoniaca monossigenasi AMO che è una
proteina integrale di membrana) e quindi il numero di ossidazione e passa da ‐3 a ‐1.
NH2OH + H2O = NO2‐ + 5H+ + 4e ‐
Un secondo enzima chiave è l’idrossilammina ossidoreduttasi (HAO) che è
un enzima periplasmatico che ossida l’idrossilammina a nitrito.
I due enzimi AMO e HAO sono accoppiati nel senso che i 4 elettroni
generati da HAO raggiungono il citocromo c e sono suddivisi in due
direzioni: (1) due elettroni raggiungono il citocromo aa3 il quale
interagisce con l’ossigeno per formare acqua (abbiamo sempre la
generazione gradiente protonico e quindi la possibilità di sintetizzare
ATP), (2) gli altri due elettroni vengono trasferiti dal citocromo c
all’enzima AMO attraverso un pool di chinoni (questi due elettroni sono fondamentali per la prima
reazione descritta che non produce elettroni ma che ha bisogno di elettroni).
Nei batteri che ossidano l’ammoniaca la formazione del NADH avviene mediante flusso inverso di elettroni
perché abbiamo sempre un potenziare di riduzione nel nostro elettron donatore meno elettronegativo
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rispetto al potenziale di riduzione della coppia NAD+/NADH.
Quindi diciamo che nei proteomonas il flusso inverso di elettroni viene utilizzato per due motivi: per
alimentare l’enzima AMO in modo che possa catalizzare la prima reazione e per la riduzione da NAD+ a
NADH.
Ora ci focalizziamo invece sull’ossidazione del nitrito.
Il nitro è reso disponibile nell’ambiente da nitrosomonas quindi i batteri che ossidano il nitrito convivono
con nitrosomonas (colonizzano gli stessi habitat perché collaborano).
Andiamo a focalizzare l'attenzione sul potenziale di riduzione della coppia NO3‐
/NO2‐, anche questo è un potenziale di riduzione elettropositivo uguale a +0.43V.
Il potenziale di riduzione della coppia essendo elettropositivo comporterà
l'attivazione di un flusso elettronico inverso per ridurre il NAD+ a NADH, l’enzima
chiave di questo ciclo metabolico è il nitrito ossidoriduttasi indicato con la sigla NXR
che è una proteina integrale di membrana, che ossida il nitrito a nitrato.
NO2‐ + H2O = NO3‐ + 2H+
Data l’ossidazione del nitrito a nitrato, poiché il potenziale di riduzione di questa coppia è elettropositivo,
gli elettroni nella catena di trasporto elettronico percorrono un tratto relativamente breve fino alla ossidasi
terminale che il citocromo aa3 che è responsabile della riduzione dell'ossigeno ad acqua.
Gli ioni H+ che si generano vengono pompati all'esterno e si genera il gradiente protonico che alimenta
l’ATPsintasi.
Anche in questo caso la resa energetica non è particolarmente elevata perché inserendosi come trasporto
elettronico a livello del citocromo c, vengono saltati gli step precedenti di generazione di gradiente
protonico quindi il gradiente si genera solo a questo livello pertanto la resa energetica non è elevata.
I batteri nitrificanti hanno quindi una bassa resa energetica e quindi anche una bassa resa di crescita e per
queste ragioni molti batteri che ossidano i nitriti hanno evoluto meccanismi alternativi di conservazione
dell'energia essendo capaci anche di crescere chemioorganotroficamente in presenza di glucosio o altre
sostanze organiche.
Il NADH si produce mediante un flusso inverso di elettroni, ci inseriamo in un punto della catena di
trasporto di elettroni già molto a valle, molto vicina allo stadio terminale quindi il diciamo la strada da
percorrere nel flusso inverso di elettroni è piuttosto lunga e per questo che parliamo di notevole dispendio
energetico e quindi di resa complessiva di produzione di energia è relativamente bassa.
In Anammox il ciclo metabolico è molto interessante.
L’ammoniaca può essere ossidata anche in condizioni anaerobie in un processo che si chiama Annamox
(anoxic ammonia oxidation) e l’ossidazione in condizioni anossiche.
NH4+ + NO2‐ = N2 + 2 H2O ΔG0i = ‐357 kJ
La reazione che descrive questo processo consiste nell’ossidazione dell’ammonio e nella riduzione del
nitrito con formazione di azoto molecolare e acqua.
Si tratta di una reazione esoergonica in cui l’ NH4+ si comporta da elettron donatore mentre NO2‐ si
comporta da elettron accettore.
Il primo organismo scoperto in grado di effettuare questa reazione è Brocadia anammoxidans.
Questo batterio presenta due interessanti caratteristiche strutturali: la prima è che manca di
peptidoglicani, la seconda è che è presente una struttura peculiare che si chiama anamoxosoma che altro
non è che un compartimento di membrana chiuso è interno alla cellula in cui avviene il processo Anamox.
La robusta membrana dell’anammoxosoma ha la funzione di proteggere la cellula da alcuni intermedi
tossici che vengono prodotti durante queste reazioni che avvengono all'interno di questo compartimento
quindi gli enzimi della cellula non sono coinvolti e non sono diciamo attaccati e dagli intermedi tossici (tra
cui il più pericoloso è sicuramente l’idrazina).
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La prima reazione è la riduzione del nitrito (NO2‐) a monossido di azoto (NO), reazione è catalizzata dalla
nitrito reduttasi (NIR).
Lo ione ammonio (NH4+) reagisce con il monossido di azoto (NO) per formare
nitrazina (N2H4)e questa reazione è catalizzata dall'enzima a idrozina idrolasi (HH).
L’idrazina (N2H4) che si ottiene, viene a sua volta ossidata ad azoto molecolare (NO)
dall'enzima idrazina deidrogenasi (HAO).
Questo step finale comporta la produzione di elettroni.
L'azoto molecolare esce dalla cellula per diffusione.
Gli elettroni che sono generati nel terzo step possono seguire due direzioni: (1)possono entrare nella
catena di trasporto di elettroni dell’anamoxosoma che portano alla generazione della forza proton motrice
e alla sintesi di ATP, oppure, (2) possono tornare indietro nel sistema per alimentare i primi due step che
richiedono elettroni (il primo step è il secondo step richiedono elettroni).
I batteri Anamox sono autotrofi perché crescono in presenze di anidride carbonica come sola fonte
carbonara e usano il nitrito come elettron donatore per produrre materiale cellulare.
CO2 + 2 NO2‐ + H2O = CH2O + 2 NO3‐
L’anidride carbonica viene ridotta a carbonio organico e contemporaneamente il mezzo viene ossidato.
La fissazione della CO2 avviene mediate il pathway dell’Acetil‐CoA che è pathway autotrofico ampiamente
distribuito principalmente nei batteri anaerobi.
Per quanto riguarda l'ecologia dei Anamox in natura la sorgente dei nitriti è rappresentato dai batteri
aerobi che ossidano l’ammoniaca per tanto i due gruppi batteriche che ossidano l’ammoniaca aerobi e
anaerobi quindi nitrosomonas e batteri che fanno processo anamox vivono insieme in habitat ricchi di
ammoniaca.
AUTOTROFIA
Abbiamo fin ora analizzato le diverse modalità di utilizzo della fonte energetica focalizzandoci sulla fonte
energetica luce, quindi fototrofia e sostante chimiche inorganiche, chemiolitotrofia.
Ora co focalizziamo sulla fonte carbonata.
L’autotrofia è il processo per il quale una fonte carbonata in forma ossidata (quindi povera dal punto di
vista energetico) viene ridotta e assimilata in materiale cellulare; questo processo che descrive la
trasformazione della CO2 in materiale organico viene anche definito fissazione della CO2.
Diversi pathway possono essere utilizzati dai batteri autotrofi per la fissazione della CO2.
Questi pathways sono fondamentalmente tre:
1. Il ciclo di Calvin→ è il pathway autotrofico più ampiamente distribuito.
E’ operativo nei fototrofi come batteri viola, cianobatteri, alghe e piante verdi, ma anche in molti
batteri chemiolitotrofi e in alcuni Archea.
Gli elementi fondamentali che permettono al Ciclo di Calvin di avvenire sono: la presenza di CO2, di
una molecola che funge da accettore di CO2, la disponibilità del NADP in forma ridotta (NADPH), e
di ATP e di due enzimi chiave: ribulose bisphosphate carboxylase (rubisco) e fosforibulochinasi.
L’enzima rubisco quindi ribulose bisphosphate carboxylase catalizza la prima reazione che consiste
nella formazione di due molecole di acido fosfoglicerico PGA dai substrati che sono CO2 (la nostra
fonte carbonata) ed il ribulosio bifosfato (che è un intermedio instabile che è stato caratterizzato
ma che non è possibile isolarlo per un periodo di tempo sufficientemente lungo).
Nello step successivo, l’acido fosfoglicerico (PGA) è fosforilato ad acido 1,3‐difosfoglicerico e poi
ridotto a gliceraldeide‐3‐fosfato che è l’intermedio chiave della glicolisi e da questa è quindi
possibile partire a sintetizzare gli zuccheri a 6 atomi di carbonio (esosi quali glucosio e fruttosio).
Nel secondo step abbiamo il consumo di una molecola di ATP e di una molecola di NADPH per ogni
molecola di PGA.
Nel terzo step entra in gioco il secondo enzima coinvolto, la fosforibulochinasi, che interviene per
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catalizzare la conversione del ribulosio‐5‐fosfato in ribulosio bifosfato che
rappresenta l’accettore di CO2. Quindi praticamente lo step tre catalizza la
formazione della ribulosio bifosfato (con il consumo di ATP) che è il
substrato della CO2.
A questo punto il ciclo si ripete partendo dallo step A.
Quindi in pratica si può affermare che la fosforibulochinasi a partire
dal ribulosio‐5‐fosfato ed ATP mette a disposizione il ribulosio
bifosfato il quale viene poi della rubisco il presenza di CO2 per fissare la
CO2 e per generare il PGA.
In conclusione è importante avere la CO2 che è la
fonte di carbonio inorganico, è importante avere
una molecola che funge da accettore che è il
ribulosio bifosfato, è importante avere l’ATP e il
NADP e ovviamente i due enzimi.
La stechiometria del ciclo di Calvin
Il ciclo di Calvin porta alla produzione di esosi a
partire dalla presenza della CO2.
Come si può notare dalle ciclo e dalla reazione
stechiometrica ogni sei molecole di CO2 che
vengono incorporate si ha la sintesi di un esoso
(nel caso riportato il fruttosio);sono necessarie 12 molecole di NADPH e 18 molecole di ATP per
sintetizzare uno zucchero a 6 atomi di Carbonio a partire da 6 molecole di CO2.
L’esoso che si forma può essere immagazzinato in polisaccaridi di riserva (per esempio glicogeno)
usati poi per costruire nuovi materiali cellulari.
Delle 12 molecole di gliceraldeide, 2 vengono convogliate verso la sintesi del fruttosio le altre 10 in
seguito a un riarrangiamento possono essere sfruttate per sintetizzare 6 molecole di ribulosio‐5‐
fosfato il quale a sua volta in presenza di ATP è pronto a ricevere sei molecole di CO2 per ripartire
col ciclo.
Molti procarioti autotrofi che utilizzano il ciclo di Calvin producono delle strutture che si chiamano
Carbossisomi.
I carbossisomi sono delle inclusioni cellulari poliedriche con un diametro di circa 100 nanometri
circondate da una membrana proteica con un contenuto di circa 250 molecole dell'enzima rubisco.
Questi carbossisomi rappresentano un importante meccanismo di concentrazione della CO2
all'interno della cellula e un compartimento dove la CO2 diventa più facilmente disponibile per
l’enzima rubisco deputato alla sua fissazione.
Quindi la reazione catalizzata dall’enzima rubisco avviene all’interno di queste inclusioni cellulari a
livello delle quali c’è una forte concentrazione dell’enzima rubisco che ha a disposizione un’ampia
concentrazione di CO2.
2. Il ciclo dell’acido citrico inverso→ I ba eri verdi solfuri fissano la CO2 due partendo
dall’ossalacetato.
Partendo dall’ossalacetato ciascun ciclo consiste nell’incorporazione di 3 molecole di CO2 e nel
consumo di 5 ATP e nella sintesi di una molecola di esoso fosfato e nella produzione di 3 molecole
di acqua.
Questo pathway è caratterizzato dai seguenti enzimi: due enzimi associati alla feredoxina (donatore
di elettroni con potenziale di riduzione molto elettronegativo=‐0,4V), questi enzimi catalizzano: (1)
la carbossilazione del sucinil‐CoenzimaA ad α‐chetoglutarato e la (2 carbossilazione dell’Acetil‐
CoenzimaA a piruvato.
87
Un enzima chiave è la citrato liasi che è un enzima ATP dipendente che taglia il citrato (un
composto a 6 atomi di carbonio) in ossalacetato (4 atomi di carbonio) ed AcetilCoA (2 atomi di C).
L’ossalacetato rientra nel ciclo mentre l’Acetil‐CoA viene carbossilato grazie al secondo enzima
associato alla feredoxina e trasformato a piruvado e poi in
fosfoenolpiruvato e gliceraldeide‐3‐fosfato.
Quindi per ottenere molecola di esoso occorrono 3
molecole di CO2 (due nel ciclo ed una per
carbossilare l’Acetil‐CoA a piruvato) e 5 molecole
di ATP perché la conversione di piruvato a
fosfoenol‐piruvato consuma 2 ATP che
vanno sommati ai 3 utilizzati nelle altre fasi.
In questo caso per ogni molecola di esoso
prodotta vengono utilizzate 3 molecole di CO2.
3.
88
E’ chiamato pathway dell’idrossipropionato perché l’idrossipropionil‐CoA è un intermedio nel
processo di fissazione della CO2.
FISSAZIONE DELL’AZOTO
La fissazione è l'azoto processo biologico che consiste nell’utilizzo dell’azoto molecolare atmosferico.
L’azoto allo stato gassoso viene ridotto ad ammoniaca e poi assimilato in forme organiche quali
amminoacidi e nucleotidi.
Solo alcuni procarioti sono in grado di fissare l’azoto, cioè di utilizzare biologicamente l’azoto
atmosferico, e questi sono microrganismi liberi aerobi o anaerobi oppure microrganismi simbionti
che sono in grado di fissare l’azoto solo se si trovano in simbiosi con certe piante.
La fissazione dell’azoto è catalizzata dalla nitrogenasi (enzima chiave) che è un complesso
enzimatico costituito da due proteine: la dinitrogenasi (MoFe7S8‐ ), caratterizzata dalla presenza di
un cofattore costituito da un atomo di Molibdeno, 7 atomi di ferro e 8 di zolfo legati ad una
molecola di omocitrato (il cofattore) e la dinitrogenasi reduttasi in cui è presente un atomo di ferro.
La fissazione dell’azoto è inibita dall'ossigeno.
Molti batteri azoto fissatori solo però aerobi obbligati ed in questi microrganismi la fissazioen dell’azoto è
protetta dall’inattivazione dell'ossigeno mediante diversi meccanismi.
(1) Il primo meccanismo consiste nella rimozione molto rapida dell’ossigeno mediante la respirazione.
(2)Il secondo meccanismo consiste nella produzione di uno strato di limo che circonda la cellula e che
ritarda laa diffusione dell’ossigeno nella cellula.
(3)Il terzo meccanismo riguarda la compartimentazione della nitrogenasi in strutture
differenziate delle eterocisti in cui si verificano condizioni anostiche (più che strutture
sono vere e prorpie cellule specializzate che a differenza delle cellule vicine
non eseguono la fotosintesi ossigenica).
Flusso di elettroni nel processo di azoto fissazione.
Partiamo dal piruvato; il piruvato si ossida ad Acetil‐CoA riducendo la Flavodoxina.
La flavodoxina ridotta si ossida riducendo la dinitrogenasi reduttasi.
La dinitrogenasi reduttasi nello stato ridotto lega l’ATP abbassando il suo
potenziale di riduzione e quindi le permette di interagire e ridurre la dinitrogenasi,
consumando l’ATP.
In seguito al trasferimento di elettroni alla dinitrogenasi incomincia un nuovo ciclo di riduzione e
legame all’ATP.
L'ultimo step fondamentale nella fissazione consiste nella riossidazione della dinitrogenasi ridotta,
riducendo l’azoto molecolare ad ammoniaca.
Questa riduzione avviene a livello del cofattore molibdeno‐ferro.
Il processo di fissazione dell’azoto comporta un notevole consumo di energia (per ogni molecola di azoto
ridotta bisogna mettere un coefficiente stechiometrico di 16 ATP); quindi è chiaro che è un processo
metabolico altamente dispendioso dal punto di vista energetico.
La regolazione della fissazione dell’azoto essendo questo un processo estremamente dispendioso dal punto
di vista energetico, la sintesi e l’attività dell'enzima nitrogenasi devono necessariamente essere regolati in
maniera stringente.
Esistono due tipi di regolazione:
1. La regolazione della sintesi della nitrogenasi→ tale sintesi è inibita sia dall’ossigeno sia dalla
disponibilità di ammoniaca ed avviene una regolazione mediante controllo genico (che abbiamo
esaminato precedentemente).
2. La regolazione dell’a vità della nitrogenasi→ avviene ad opera dell’ADP e l’abbiamo già descri a
quando abbiamo presentato i meccanismi della regolazione dell’attività.
89
Tale regolazione è ad opera dell’ammoniaca il cui eccesso favorisce l’adenilazione dell’enzima
dinitrogenasi reduttasi determinandone una perdita di attività.
In breve la regolazione dell’attività dell’enzima nitrogenasi è ad opera del meccanismo di
modificazione covalente dell'enzima mediante legame gruppi ADP in funzione della concentrazione
di ammoniaca.
CHEMIORGANOTROFIA
Torniamo alla chemiorganotrofia per concludere l’argomento del metabolismo microbico.
I microrganismi chemiorganotrofi utilizzano come fonte di carbonio e come donatori di elettroni composti
organici.
I chemiorganotrofi possono usare tre strategie cataboliche in funzione di quello che è l’accettore finale di
elettroni.
1. Fermentazione in cui l’accettore di elettroni è un composto organico.
2. Respirazione Aerobica in cui l’accettore di elettroni è l'ossigeno.
3. Respirazione Anaerobica in cui l’accettore finale di elettroni è un composto diverso dall'ossigeno
che può essere organico o inorganico
1. Fermentazioni
Studiamo le fermentazioni da un punto di vista biochimico ovvero come processi chemiorganotrofici in cui
l’accettore di elettroni è un composto organico.
Gli aspetti fondamentali delle fermentazioni sono: (1) che le fermentazioni
avvengono in ambienti anossici e che la decomposizione di materiale organico
comporta reazioni anaerobiche; (2) che l’ATP viene sintetizzato mediante
fosforillazione a livello del substrato ed in questo processo sono coinvolti dei
composti organici che contengono fosfato ricchi di energia oppure composti che
contengono il CoA (riporta in tabella)→ l’idrolisi di ques compos in tabella può
essere accoppiata a una sintesi di ATP il cui il cui ΔG0’=‐31,8 : in altre parole nelle
fermentazioni si forma un composto altamente energetico la cui idrolisi consente la
fosforilazione di ADP in ATP; (3) che i prodotti della fermentazione che vengono generati dal substrato
originario vengono secreti dalla cellula e solo una piccola quantità di carbonio organico viene impiegata per
le biosintesi.
Nell’immagine è mostrato ciò che avviene all'interno di una cellula che compie fermentazione.
Un composto organico viene captato all’interno della cellula, viene trasformato (durante i processi di
trasformazione) in elementi altamente energetici come quelli nella tabella precedente e grazie all’idrolisi di
uno di questi composti può avvenire la fosforilazione a livello del substrato ovvero la formazione di ATP.
In seguito a questi processi di trasformazione si ottengono composti ossidati da cui si formano dei prodotti
di scarto che vengono escreti dalla cellula.
In questi processi fermentativi si ha un ricircolo del NAD poiché questo viene ridotto a NADH e riossidato a
NAD+ in un processo accoppiato di conseguenza nella fermentazione non viene consumato NAD.
Questi che sono riportate in una tabella a fianco e grazie all idrolisi d'uno di questi composti e noi possiamo
avere la tua scuola adesso in strada cioè eh vabbè possiamo avere la sintesi di atp a partire da adp e quindi
si ottengono dei composti ossidati sentito a questi processi di trasformazione EE da qui dei prodotti di
scarto dei prodotti la fermentazione che vengono iscritti dalla cella in questi processi fermentativi sia un
ricircolo e della nate cioè il naso viene ridotto e Anna da HE in una reazione accoppiata viene poi ridursi
dato quindi diciamo che non c'è consumo netto di Nando nei progetti capita bene devo ripetere qualcosa o
posso procedere.
90
Nelle fermentazioni come in tutte le reazioni chimiche occorre rispettare il bilancio netto atomico e redox
questo significa che il numero totale di ciascun atomo e il numero totale di elettroni e nei prodotti della
reazione deve essere lo stesso di quello presente nei reagenti.
Un classico esempio di fermentazione è la trasformazione del piruvato in acetato con formazione di H, CO2
e ATP.
Questa fermentazione può seguire due meccanismi:
(1) Il primo meccanismo è caratterizzato dalla produzione diretta di idrogeno .
Il piruvato viene ossidato ad Acetil‐CoA più CO2 e gli elettroni vengono ceduti alla feredoxina che a sua
volta li trasferisce a due ioni H+ per formare una molecola di H2.
L’acetil‐CoA viene poi fosfvorilato formando Acetil.fosfato che viene poi idrolizzato
ad acetato ed il fosfato viene utilizzato per sintetizzare ATP da ADP.
(2) ll secondo meccanismo è anche definito produzione indiretta di
idrogeno.
Il piruvato, condensandosi con una molecola di CoA, forma una
molecola di Acetil‐CoA e una di formato (perché in questo caso
non abbiamo una decarbossilazione).
L’Acetil‐CoA viene idrolizzato ad acetato (molecola a due
atomi di carbonio fortemente energetica) e la sua idrolisi libera
una quantità di energia sufficiente per la sintesi di una molecola di ATP.
Il formato viene a sua volta idrolizzato grazie all’enzima formato‐idrogenasi a CO2+H2.
Quindi in entrambi i meccanismi prodotti finali della reazione sono l’acetato, la CO2, l’H2 e l’ATP e per
entrambi i processi l’intermedio chiave è l’Acetic‐CoA
Nella tabella sono elencate le
principali fermentazioni batteriche,
classificate sulla base del prodotto
formato.
Alcune fermentazioni minori che non
sono riportate in tabella vengono
classificate anche sulla base delle
substrato che viene consumato.
Introduciamo la fermentazione acida lattica (detta anche comunemente fermentazione lattica).
La fermentazione lattica viene effettuata proprio dei batteri lattici che sono organismi gram positivi che
producono acido lattico come unico o principale prodotto di fermentazione; quindi questi batteri lattici
possono essere omofermentativi se pattern fermentativo origina un solo prodotto che è l’acido lattico
oppure possono essere eterofermentativi se il pattern fermentativo origina, oltre che l'acido lattico che è il
principale prodotto, anche altri composti che possono essere etanolo e CO2.
Fermentazione La ca→ I pathways metabolici per la fermentazione del glucosio possono essere studia
sia nei batteri lattici omofermentativi sia in quelli eterofermentativi.
Nei batteri lattici omofermentativi esiste un enzima chiave detto aldolasi che catalizza la rottura del
fruttosio1,6‐difosfato in due molecole di gliceraldeide‐3‐fosfato.
Fino a questo step vengono consumate due molecole di ATP; le due molecole di gliceraldeide‐3‐fosfato che
si originano sono successivamente convertite a due molecole di lattato con produzione totale di 4 ATP (2
ATP per ogni conversione di gliceraldeide‐3‐fosfato a lattato).
Nel primo step della fermentazione lattica abbiamo ottenuto due molecole di gliceraldeide‐3‐fosfato con il
consumo di 2 ATP, nel secondo step e le 2 molecole di gliceraldeide‐3‐fosfato vengono ossidate a formare 2
molecole di acido 1,3‐difosfoglicerico con riduzione dei un NAD per ogni molecola di gliceraldeide (2), a
questo punto le due molecole di acido 1,3‐difosfoglicericore vengono trasformate in 2 molecole di piruvato
91
comportando la sintesi di 4 molecole di ATP.
Il piruvato a questo punto viene ridotto a lattato (unico prodotto finale della reazione) comportando la
riossidazione del NAD (non c’è consumo netto di NAD).
La resa netta della reazione è: Da 1 molecola di Glucosio si ottengono 2 molecole di Lattato + 2H+ +2ATP.
2 ATP perché abbiamo avuto la formazione di 4 ATP nel secondo step a cui vanno sottratti i 2 ATP
consumati per formare 2 molecole di gliceraldeide‐3‐fosfato.
Nei batteri lattici eterofermentativi non è presente
l’enzima chiave aldolasi ma l’enzima chiave è la fosfoketolasi che
converte un pentosofosfato in una molecola di
acetilfosfato ed una molecola di Gliceraldeide 3‐P.
Questi batteri ossidano il glucosio‐6‐fosfato a 6‐
fosfogluconato che viene decarbossilato a ribulosio‐5fosfato (un pentoso).
Questo ribulosio‐5‐fosfato viene riarrangiato in Xylulosio 5‐fosfato che è il pentafosfato che viene scisso
dall’enzima chiave in Gliceraldeide 3‐P e acetilfosfato.
Fino a questo step è stata consumata una molecola di ATP e sono state ridotte e due molecole NAD a
NADH.
La gliceraldeide 3‐P viene (con lo stesso tipo di pathway del processo fermentativo) trasformata in piruvato
e successivamente in lattato (in questo caso però avendo una molecola di gliceraldeide si formerà una
molecola di lattato e 2 ATP non più 4).
Quindi una molecola di gliceraldeide 3‐P viene ossidata ad acido 1,3‐difosfoglicerico e quest'ultimo viene
poi trasformato piruvato (sintesi di due molecole di ATP) ridotto poi a lattato.
Anche in questo meccanismo abbiamo il ciclo del NAD.
La molecola di acetilfosfato viene progressivamente ridotto prima ad acetaldeide
(rigenerazione molecola di NAD) e poi ad etanolo
(rigenerazione della seconda molecola di NAD
delle due utilizzate nella prima fase).
La resa netta della reazione è la seguente: Da 1
molecola di Glucosio si ottiene 1 molecola di
Lattato + 1 molecola di etanolo + H+ + CO2 + 1
molecola di ATP (solo 1 perché: si ha il
consumo di 1 molecola di ATP nel primo step di
fosforilazione del glucosio, la generazione di 2
molecole di ATP nel processo di trasformazione della
gliceraldeide 3P a lattato e la resa netta di energia è quindi 1ATP)
La resa energetica della fermentazione lattica è in generale molto bassa ma è ancora più bassa se il
processo è eterofermentativo.
La fermentazione acida mista è tipica dei batteri intestinali come Escherichia, Salmonella, Shigella,
Klebsiella, Enterobacter.
Da questa fermentazione vengono prodotti tre acidi diversi: acido acetico, acido lattico e acido
succinico, oltre a etanolo, idrogeno e anidride carbonica che sono sottoprodotti di fermentazione; alcuni
batteri enterici producono anche delle molecole neutre come 2,3‐butandiolo.
La fermentazione operata e da batteri del genere Clostridium.
Le specie del genere Clostridium batteri anaerobi fermentativi ed in funzione della specie possono
essere fermentati diversi substrati (possono essere zuccheri, aminoacidi o anche e derivati nucleotidici).
Molti clostridi fermentano gli zuccheri producendo acido butirrico (o butirrato) come principale prodotto
finale e questo tipo di fermentazione si chiama saccarolitica o anche butirrica.
Saccarolitica perché il substrato è il glucosio e butirrica perché è uno dei principali prodotti è l’acido
butirrico.
92
Molte specie producono anche molecole neutre come l’acetone e il butanolo oltre al butirrato.
Il clostridium acetobutylicum è un classico esempio di fermentazione butirrica associata alla
produzione di molecole neutre.
gli step biochimici di quetsa fermentazione sono 4: (1) Il glucosio è convertito a piruvato mediante la
glicolisi, (2) il piruvato è scisso a formare Acetil‐CoA, CO2 e H2 (attraverso
la feredoxina).
Durante le prime fasi della fermentazione viene prodotto principalmente butirrato
e piccole quantità di acetato.
Quindi una volta prodotto l’Acetil‐CoA si possono intraprendere due vie (3), una
che porta alla formazione di butirrato e l’altra che porta alla formazione di
acetato.
Ovviamente (4) sia l’acetato che il butirrato (che sono due acidi, acido acetico e
acido butirrico) abbassano il pH del midium determinando l’inibizione della sintesi
di altri acidi, pertanto l’acetone e il butanolo che sono prodotti neutri
incominciano ad accumularsi e se il pH del midum viene mantenuto
neutro mediante l'aggiunta di tamponi si può spingere in avanti la produzione di
ATP e acetato.
Se non si va a tamponare il midum ad un certo punto il butirril‐CoA invece di
andare verso la direzione del butirrato andrà verso quella dell’etanolo.
In generale, in una fase iniziale del processo metabolico si accumulano principalmente acido
butirrico e acido acetico ma i due acidi accumulandosi vanno ad abbassare il PH
determinando l’inibizione della sintesi di altri acidi per cui man mano che si accumulano butirrato ed
acetato si attuano dei meccanismi che portano al dirottamento del pathway metabolico verso l’acetone e
verso il butanolo (in parte anche verso all’etanolo) che sono prodotto neutri e vanno quindi la presenza
degli acidi che si sono prodotti durante la prima fase del processo fermentativo.
La sintesi di ATP è associata agli ultimi che immediatamente precedono la sintesi di butirrato e di acetato.
Per cui è chiaro che dal punto di vista energetico è sconveniente che la cellula segua la direzione che
porta agli acidi d’altra parte nel momento in cui si ha eccessiva acidificazione si innescano dei meccanismi
compensativi perché acidificazione è tossica per la cellula e quindi si ha anche la sintesi parallela di altri
prodotti (acetone butanolo..).
Fermentazione degli amminoacidi da parte di Costridium.
Abbiamo detto che in funzione della specie il substrato che viene fermentato è diverso; in Costridium il
substrato sono amminoacidi.
Questo tipo di fermentazione si chiama proteolitica invece che saccarolitica.
Nell'ambito delle fermentazioni proteolitiche, molto frequente è la reazione di Strickland.
Nella reazione di Strikland gli aminoacidisono fermentati in coppia: nella reazione
di Strikland in Costridium si verifica il co‐catabolismo degli aminoacidi alanina e glicina.
L’alanina si comporta da donatore di elettroni e viene ossida la glicina si comporta da
accettore elettroni e viene ridotta.
La stechiometria prevede il coinvolgimento di una molecola di alanina e due di glicina.
I prodotti della reazione sono CO2, NH3 e un acido carbossilico (che in questo caso specifico è l’Acetato9
che contiene un numero di atomi di Carbonio pari a quelli dell’amminoacido ossidato meno 1 (quindi
l’Alanina ne ha 3 che – 1 fa 2 ed otteniamo quini acetato).
La reazione comporta la produzione di tre molecole di ATP, 1 ATP viene prodotta negli step di ossidazione e
2 negli step di riduzione.
Anche in questo caso il NAD si ossida e si riduce ciclicamente.
Negli step di ossidazione è contemplato un passaggio di decarbossilazione infatti la CO2 è uno dei prodotti
di reazione mentre negli step di riduzione è contemplata la liberazione di ammoniaca.
93
Quindi la relazione finale è la trasformazione di Acetil‐fostato ad Acetato
con produzione di ATP (la defosforilazione dell’acetil fosfato mette a
disposizione l’energia libera necessaria e sufficiente a sintetizzare una
molecola di ATP).
Nella tabella sono riportate alcune copie di amminoacidi che possono
partecipare alla reazione:
Un esempio molto semplice è quello che abbiamo appena spiegato in
cui partecipa alanina e glicina
In base ai due partner della reazione si può ipotizzare l’acido che si produce (n° carboni
dell’amminoacido che si ossida‐1)
2.respirazione aerobica
L’abbiamo già ampiamente trattata all’inizio quando abbiamo parlato della catena di trasporto di elettroni
e della formazione di forza proton motrice.
3.Respirazione anaerobica
La respirazione anaerobica è una forma di conservazione di energia che si verifica in
condizioni anossiche utilizzando accettori di elettroni diversi dall’ossigeno.
La respirazione anaerobica può essere effettuata da due tipi di microrganismi:
i microrganismi anaerobi facoltativi (e in questo caso la respirazione
anaerobica compete con quella aerobica in particolare se l'ossigeno è presente i
batteri respirano aerobicamente e quindi sono repressi i geni che codificano
per le proteine necessarie per la respirazione anaerobica mentre quando
l'ossigeno è assente i batteri utilizzano la strategia della respirazione
anaerobica e quindi viene ridotto un accettore di elettroni alternativo
all'ossigeno); e i microrganismi anaerobi obbligati che non sono in grado di utilizzare l'ossigeno in nessuna
maniera e conservano energia solo attraverso la respirazione anaerobica.
Nella tabella sono elencate le principali forme di respirazione anaerobica; le coppie redox sono elencate in
ordine di elettronegatività cioè dalla più elettronegativa alla più elettropositiva e come si può notare la
coppia H2O/1/2O2è la più elettropositiva cioè più energia viene messa a disposizione quando
l’ossigeno viene usato come accettore di elettroni rispetto ad altre sostanze ed è quindi il più conveniente
dal punto di vista energetico (motivo per cui gli organismi che possono effettuare entrambi i tipi di
respirazione prediligono quella aerobia).
In generale i composti inorganici dell'azoto sono comuni accettori di elettroni in processi di respirazione
anaerobica; in particolare il nitrato è il più comune accettore di elettroni in alternativa all'ossigeno.
Il nitarto può essere ridotto a nitrito NO2‐, ad acido nitroso N2O, a monossido di azoto NO e ad azoto
molecolare N2.
N2O,NO e N2 sono composti gassosi e quindi vengono facilmente persi dall'ambiente questo processo
viene quindi chiamato denitrificazione o riduzione del nitrato dissimilativa (dissimilatica perchè si tratta di
una strategia con la quale si ha la dispersione del’azoto con l’ambiente), questi due termini
indicano anche la strategia con la quale l’azoto viene formato biologicamente.
La riduzione del nitrato che si verifica nei batteri anaerobi facoltativi è scematizzata in figura.
Tutti gli enzimi sono de‐repressi in condizioni anossiche, questo significa che finché è presente l'ossigeno
viene effettuata la respirazione aerobia (perché abbiamo visto che è energeticamente più
conveniente) quando l'ossigeno viene a mancare, il nitrato viene ridotto nella respirazione anaerobica.
Il primo step della riduzione è catalizzato dall’enzima nitarto reduttasi che permette la riduzione del
nitrato in nitrito.
Alcuni microrganismi si fermano a questo cioè si fermano alla produzione di nitrito mentre altri (come
diverse specie di psedomonas e di Paracoccus es. Pseudomonas stutzeri and Paracoccus denitrificans)
94
possiedono anche gli enzimi che consentono l’ulteriore riduzione del nitrito a gas azotati che sono poi
liberati nell’ambiente.
In queste specie batteriche che appartengono al
genere pseudomonas avviene quella che abbiamo definito
la denitrificazione cioè la perdita di azoto che viene liberato nell’ambiente sotto
forma di gas.
Durante il trasporto di elettroni nei vari step ossidoriduttivi viene stabilita una
forza proton motrice che alimenta l’ATPasi a produrre ATP.
Quindi anche nella respirazione anaerobica come in quella aerobica il trasporto di elettroni porta alla
formazione di ATP in seguito a produzione di forza proton motrice.
Soltanto nella fermentazione la sintesi di ATP non è associata alla forza proton motrice ma avviene per
fosforilazione a livello del substrato.
Riduzione dei solfati quindi un altro esempio di respirazione anaerobica.
Diversi composti inorganici dello zolfo sono importanti accettori di elettroni nella
respirazione anaerobica. Il solfato è la forma più ossidata dello zolfo (numero di ossidazione +6) e viene
utilizzato dai batteri solfato riduttori che costituiscono un gruppo microbico ampiamente distribuito in
natura e che fanno respirazione anaerobica.
Il solfato viene ridotto ad acido solfidrico che viene escreto dalla cellula ed è libero di reagire con
altri organismi o metalli a formare solfuri metallici.
Questo processo è definito riduzione dissimilativa del solfato perché ripeto lo zolfo non viene conservato
per la sintesi di componenti cellulare ma liberato nell’ambiente.
La biochimica della riduzione del solfati (in Desulfovibrio il nostro modello) chiarisce che questo processo
richiede 8 elettroni (perché il numero di ossidazione del solfato è +6 mentre quello dell’acido solfidrico è
‐2) e avviene attraverso una serie di stati interventi.
Il primo step consiste nell’attivazione del solfato ovvero il solfato è chimicamente stabile e quindi non può
essere ridotto se prima non viene attivato.
L'attivazione del solfato avviene a spese dell’ATP grazie all’azione dell'enzima ATP solforilasi che attacca un
AMP al solfato formando l’intermedio arrivato che si chiama adenosina‐5‐fosfosolfato APS (in cui è
presente il gruppo solfato in forma attivata).
Nella riduzione disimilativa del solfato l’intermedio attivato APS viene direttamente ridotto a solfito
dall’azione dell’APS reduttasi coni rilascio di una molecola di AMP.
Il primo step è comune a entrambi i processi (dissimilativo e assimilativo) è l'attivazione del solfato che
viene a cin consumo di un ATP ad opera dell'enzima ATP sulfurilasi.
Si forma APS che può seguire la via della riduzione
dissimilativa del solfato in cui interviene l’enzima APS
reduttasi con la quale si libera il gruppo AMP e viene ridotto il solfato in solfito che grazie all’enzima solfito
reduttasi si riduce completamente a H2S (acido solfidrico) il quale diffonde attraverso la membrana
cellulare e quindi viene escreto; questa è la via metabolica che porta alla riduzione dissimilativa.
Nella riduzione assimilativa del solfato, un altro fosfato è aggiunto ad APS (che rappresenta un intermedio
comune alle due vie) a formare un PAPS (figura A).
PAPS, rispetto ad APS, ha un gruppo fosfato in più, quindi il solfato nel PAPS viene ridotto a solfito con
liberazione di una molecola di fosfoadenosinafosfato PAP quindi in entrambi i casi si forma solfito dalla
prima riduzione del solfato che poi viene ridotto ad acido solfidrico che nella via dissimilativa viene escreto
dalla cellula, mentre nella riduzione assimilativa l’acido solfidrico viene impiegato nella sintesi di composti
organici dello zolfo (per esempio di aminoacidi solforati come cisteina).
Durante la riduzione di simulativa del solfato le reazioni di trasporto di elettroni generano una
forza proton motrice che guida la sintesi di ATP ad opera di ATPasi.
In conclusione diciamo che la dissimilazione del solfato è il processo dominante che è anche quello a cui è
associata la generazione della forza proton motrice e la sintesi di ATP; l'altro processo è presente ma meno
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importante dal punto di vista quantitativo e permette di andare a utilizzare l'acido
solfidrico per sintetizzare i composti organici dello zolfo.
Una via viene scelta rispetto all’altra in base alla necessità di un determinato
prodotto (ATP o composti organici dello zolfo).
INTERAZIONI TRA MICRORGANISMI: SIMBIOSI E PATOGENICITA’
Abbiamo esplorato il mondo microbico nella sua complessità e diversità sia filogenetica che metabolica da
questo momento in poi prenderemo in esame le interazioni tra i microrganismi e l’uomo a diversi livelli:
relazioni di simbiosi e patogenicità quindi rapporti di collaborazione e mutualismo e rapporti invece di
opportunismo e dannosi che i microrganismi possono esercitare nei confronti dell'uomo.
I microrganismi possono interagire con l'uomo con modalità differenti: possiamo avere (1) una interazione
di mutualismo o di simbiosi se entrambi i partner traggono beneficio dalla relazione e sia il microrganismo
che l’ospite sono definiti interdipendenti, (2) un altro tipo di interazione può essere il commensalismo che è
una relazione nella quale il microrganismo commensale trae benefici mentre l'ospite non trae nei vantaggi
né danni (quindi l’ospite rimane indifferente a questo tipo e interazione) in questo tipo di relazione il
commensale può vivere sulla superficie o all’interno dell’ospite e poi nutrirsi di sostanze presenti sulla
superficie dell’ospite o ingerite dall'ospite; l’altro tipo di interazione (3) è il parassitismo o patogenicità in
cui i microrganismo è definito parassita e trae benefici interazione mentre l’ospite può venire
danneggiando.
Una relazione controllata parassita‐ospite può rimanere costante a lungo cioè si può instaurare una sorta di
omeostasi tra l’ospite e il parassita; questo equilibrio però si può anche rompere.
Ci sono due casi possibili in caso che questo equilibrio si rompa:
Il primo caso è che l'equilibrio si sposta a favore dell’ospite grazie ad una difesa immunitaria efficace.
In questo caso il parassita può perdere il suo habitat e quindi non è più in grado di sopravvivere.
Il secondo caso è che l’equilibrio si sposti a favore del parassita ed in questo caso l'ospite subisce
un'alterazione definita patologica cioè si ammala (il parassita diventa patogeno).
I microrganismi che instaurano con l’uomo un rapporto di simbiosi/mutualismo o di commensalismo
costituiscono il cosiddetto microbiota umano, i parassiti che in taluni circostanze possono diventare
patogeni sono gli agenti eziologici delle malattie infettive.
Andiamo a descrivere i rapporti di simbiosi e di commensalismo che caratterizzano il microbiota umano.
Il corpo umano è carissimo dalla presenza di diversi ecosistemi microbici che vengono definiti il microbioti
associati principalmente a intestino, bocca, pelle, vie aeree e tratto vaginale; l’insieme di tutti questi
ecosistemi microbici è definito microbiota umano.
C’è una sfumatura di differenza tra il microbiota e il microbioma: per microbioma s’intende l’insieme dei
geni presenti nei genomi microbici che costituiscono il microbiota umano.
Alla luce di queste considerazioni l'uomo è stato definito un metaorganismo, un super organismo perchè è
costituito da cellule microbiche e cellule umane il cui e corredo genetico è rappresentato dall’insieme dei
geni presenti nel genoma umano e nel microbioma.
Iil microbiota umano è stato anche definito e l'organo dimenticato pur svolgendo le funzioni estremamente
importanti per il mantenimento della salute dell’ospite prevenendo lo sviluppo di diverse patologie.
I microbioti umani e in particolare il microbiota intestinale che è sicuramente il più complesso e più
studiato sono stati estensivamente analizzati mediante tecniche culturali (tecniche di microbiologia che
prevedono l'impiego di terreni quindi che si basano sulla coltivazione dei microrganismi).
E’ noto che queste tecniche culturali forniscono una rappresentazione parziale di quella che è la
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complessità e biodiversità del microbiota per tutta una serie di problematiche tra cui le più importanti
sono: (1) la difficoltà di coltivare i microrganismi anaerobi che nel microbiota umano sono presenti in
buona percentuale, (2) le particolari esigenze nutrizionali di alcuni gruppi microbici per cui non sono stati
sviluppati ancora i terreno culturale ad hoc e (3) la rilevazione di gruppi microbici poco rappresentati cioè in
generale le tecniche colturali consentono di evidenziare i gruppi microbici dominanti quindi è chiaro che
utilizzando le tecniche culturale noi non possiamo tenere una caratterizzazione completa ed esaustiva di
quella che è la complessità del microbiota umano (che è estremamente complesso e diversificato).
Queste problematiche sono state superate con l’avvento negli ultimi 10 anni delle tecniche molecolari
cultura‐indipendenti basate su un analisi delle
sequenze del gene 16s dell’RNA ribosomiale.
Il gene 16 S dell’RNA ribosomiale è attualmente il
marker filogenetico più utilizzato per
l’identificazione tassonomica e quindi la
caratterizzazione filogenetica di ecosistemi microbici complessi; questo perché a livello delle sequenze
geniche dei geni 16 sono presenti delle regioni variabili e ipervariabili e quindi altamente specifiche a livello
di genere ma anche a livello di specie quindi se noi andiamo a sequenziare questi tratti genici e in seguito li
confrontiamo con le banche dati possiamo capire quali sono le specie presenti in un determinato
campione.
Il gene 16 S dell’RNA ribosomiale batterico consiste di circa 1500 nucleotidi e contiene delle regioni variabili
(che sono indicate con la V) alternate a delle regioni costanti (indicate con la lettera C) e, per la sua
peculiare struttura, questo gene 16 S è il target ideale per gli studi di caratterizzazione filogenetica di
comunità batteriche complesse.
Le tecniche basate sull’analisi del gene 16 S dell’RNA ribosomiale sono anche definite colture indipendenti
perché non prevedono la coltivazione di microrganismi.
In un tipico schema sperimentale si parte da una campione biologico complesso come per esempio un
campione di feci e da questo campione complesso si estrae il DNA genomico totale che viene utilizzato
nelle reazioni di PCR in cui si utilizzano dei primer universali che amplificano l’intero gene ribosomiale 16S
che poi andrò ad analizzare a livello di sequenza ed infine andrò a confrontare la zona sequenziata con le
banche dati ottenendo un’informazione tassonomica (chi è presente a livello di genere e specie nel mio
campione).
Nella PCR ci sono degli elementi fondamentali contenuti nella miscela di reazione: il templato (il DNA da
amplificare), la taq polimerasi (una DNA polimerasi purificata da un microrganismo termofilo ed è
importante che la DNA polimerasi sia termostabile perché la PCR è un processo termico), i primer
(oligonucleotidi che funzionano da innesco per la funzione di amplificazione; vengono nominati in modi
diversi: primer left o forward che appaia nella regione 5’ e primer right o revers che si appaia nella regione
3’; questi due primer si vanno ad appaiare sulla sequenza esattamente complementare fungono da innesco
per la DNA polimerasi che comincia la sintesi di DNA).
In seguito a un elevato numero di cicli di amplificazione (30‐40) noi avremo un’amplificazione, la
produzione di un elevato numero di copie di quel frammento di DNA compreso tra i due primer.
I diversi il microbioti di associati al corpo umano.
Il microbiota intestinale, come già sottolineato, rappresenta il principale sito di colonizzazione microbica
permanente del corpo umano ed è considerato il più complesso ecosistema microbico presente in natura.
E’ costituito da 1014 cellule che sono 10 volte il numero delle cellule germinali e somatiche nell’organismo.
La quantità in peso del microbiota intestinale corrisponde ad alcune centinaia di grammi di microrganismi e
la maggiore concentrazione è riscontrata a livello del colon.
Per quanto riguarda il microbioma, si è stimato che il numero di geni del microbioma intestinale risulta
essere 150 volte superiore rispetto ai geni del genoma umano.
Il microbiota intestinale svolge un ampio numero di funzioni protettive, strutturali e metaboliche che sono
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alla base della relazione di simbiosi mutualistica che si è voluta con l’ospite.
Le principali funzioni protettive riguardano principalmente l’effetto barriera contro la colonizzazione di
esopatogeni; questo effetto barriera si esplica mediante diversi meccanismi: (1) i microrganismi del
microbiota intestinale competono per i siti di adesione dell’epitelio intestinale quindi esercitano quella che
viene definita una esclusione competitiva cioè andando ad aderire ai siti di adesione della mucosa
intestinale impediscono che altri microrganismo potenzialmente patogeni facciano lo stesso e tipo di e
adesione.
Il secondo meccanismo (2) è la competizione per le sostanze nutritive sempre nei confronti dei
microrganismi potenzialmente patogeni.
Il (3) terzo meccanismo è la produzione di fattori antimicrobici che nella maggior parte dei casi sono
rappresentati da acidi organici per esempio acido lattico.
Le funzioni strutturali riguardano lo sviluppo e la regolazione del sistema immunitario e la fortificazione
delle tight junction che a loro volta concorrono all’effetto barriera mediante il controllo della permeabilità
cellulare. E’ stato caratterizzato in numerosissimi studi che il microbiota intestinale ha un ruolo
fondamentale nello sviluppo e nella maturazione stessa, non solo, microbiota intestinale diciamo favorisce
la sintesi delle proteine che costituiscono le tight junction (giunzioni strette presenti a livello dell’epitelio
intetinale).
L'effetto barriera si può considerare sia una conseguenza dell’attività del microbiota intestinale sia in senso
strutturale che in senso protettivo.
Le principali funzioni metaboliche includono: la fermentazione di residui alimentari non digeribili (come i
poilisaccaridi che non vengono digeriti dall’uomo nei tratti iniziali dell’intestino vengono fermentati dai
microrganismi del microbiota intestinale nel colon dove si trova la massima concentrazione di questi
microrganismi). Questa fermentazione porta alla produzione di acidi grassi a corta catena come l'acido
probionico, l'acido butirrico ma anche l’acido acetico che hanno tutta una serie di effetti importanti e
positivi per la salute dell’ospite.
L’acido più caratterizzato dal punto di vista delle attività è il butirrato (acido butirrico) che viene proprio
prodotto dal microbiota intestinale ed ha effetto trofico sulla differenziazione dei colonociti.
Un'altra funzione metabolica che i microrganismi del microbiota intestinale svolgono è quella di sintetizzare
alcune vitamine e soprattutto vitamine del gruppo B e amminoacidi e concorrono all’assorbimento degli
ioni.
In conclusione possiamo dire che le attività del microbiota intestinale sono in perfetta complementarietà e
sinergia come quella che è la fisiologia e metabolismo dell’ospite, è per questo che si parla di simbiosi
mutualistica: perché due partner che partecipano alla relazione (microrganismo e ospite) traggono
reciproco beneficio e sono interdipendenti.
Il microbiota infatti svolge le importanti funzioni protettive, strutturali e metaboliche mentre l’ospite da
parte sua contribuisce a questa relazione di simbiosi mutualistica garantendo al microbiota un ambiente
ospitale in cui svilupparsi in termini di temperatura, disponibilità dei substrati nutritivi e condizioni di
anaerobiosi.
Brevi riferimenti alla caratterizzazione filogenetica del microbiota intestinale umano.
Il microbiota intestinale contiene tutti e tre i domini della vita (batteri, archea ed Eukarya).
Il dominio bacteria è il più rappresentato nonostante l'altissima densità cellulare dei batteri, a livello di
divisioni (quindi ad un alto livello filogenetico) è molto bassa.
Le stime disponibili basate sulle sequenze del gene 16S indicano che più del 90% dei filotipi batterici del
colon appartengono a sole due divisioni dominante che sono i Bacteroidetes e i Firmicutes delle 70 note nel
dominio di batteria e meno del 10% degli altri tipi appartengono a 5 divisioni subdominanti.
Se si scende nella scala gerarchica, cioè dalle divisioni di fila scendiamo verso i generi e le specie, la diversità
aumenta drammaticamente, ovvero sono stati per il momento identificati più di 1800 generi e più di 16.000
filotipi a livello di specie; quindi il microbiota intestinale dal punto di vista della composizione è
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caratterizzato da una vasta biodiversità ad un alto livello filogenetico e da una estremamente enorme
diversità a livello di generi e specie.
Possiamo anche dire che ciascun individuo ospita il suo specifico e distinto microbiota e cioè che il
microbiota intestinale non può essere considerato un fingerprinting unico in termini di composizione a
livello di specie e di ceppi.
In condizioni di salute il microbiota intestinale e l'ospite stabiliscono un rapporto di simbiosi mutualistica.
Questo rapporto di mutualismo e raffigurato diciamo dalle oscillazioni in figura che vanno da 1 a 9.
Questa omeostasi ottimizza quelle che sono le performance metaboliche e immunologiche dell'uomo
inteso come super organismo.
Quindi in condizioni di salute c’è perfetto equilibrio tra il
microbiota e l’organismo (un perfetto mutualismo).
In determinate circostanze fattori ad esempio di stress
ambientale (come infezioni o trattamenti antibiotici) sono fattori
estremamente importanti nel determinare un’alterazione; fattori che
vanno ad alterare l'equilibrio che si instaura tra il microbiota e
l’organismo.
In queste particolari circostanze questi fattori ambientali possono forzare
uno spostamento del microbiota intestinale da una configurazione mutualistica ad una configurazione
associata ad una patologia.
Se noi mettiamo sull'asse delle y la biodiversità vediamo che una vasta biodiversità è associata di una
condizione di equilibrio ma se la biodiversità si riduce passiamo ad uno stato di patologia.
Quindi per quanto riguarda il microbiota intestinale una scarsa biodiversità è indice di alterazione quindi di
patologia mentre una elevata biodiversità è indice di uno stato di mutualismo e quindi di salute.
Le alterazioni nella composizione del microbiota intestinale (anche dette disbiosi o dismicrobismi) si
riflettono sulla struttura del microbioma soprattutto a livello di equilibrio fra le diverse divisioni o fila(o
anche a livello di generi o di specie).
Tra le disbiosi più importanti (1) ricordiamo le IBD ( o inflammatory bowel disease) cioè le malattie
infiammatorie intestinali e le più importanti tra queste sono sicuramente la colite ulcerosa e il morbo di
Crohn; nelle IBDcsi è osservato un incremento dei Proteobacteria e dei Actinobacteria e una riduzione del
Clostridium cluster XIVa and IV.
Anche l’obesità (2) è una diciamo sindrome che è stata associata a disbiosi intestinale e nei soggetti obesi
infatti si riscontrano degli incrementi a livello dei firmicutes edegli actinobacteria e una riduzione a carico
dei bacteriodetes.
Ancora un'altra patologia che negli ultimi anni è stata fortemente correlata disbiosi intestinali (3) è la
dermatite atopica che è associata ad un incremento nelle enterobacteria.
Possiamo dire che noi nasciamo sterili in un mondo pieno di microrganismi e durante il periodo neonatale
incomincia l'interazione dinamica e complessa con quelli che sono i microrganismi ambientali e che culmina
dopo lo svezzamento nella con l’acquisizione delle microbiota individuale adulto (in seguito allo
svezzamento e con l'introduzione dei cibi soldi).
La flora vaginale della madre rappresenta sicuramente la prima sorgente di microrganismi per lo sviluppo
del microbiota del neonato se il neonato viene partorito spontaneamente altrimenti la prima sorgente di
contaminazione per lo sviluppo del neonato è la la flora cutanea della madre.
A queste prime e fonti di contaminazione si aggiungono altre sorgenti di contaminazione quali la flora
fecale del padre e del padre, la flora cutanea della madre e del padre e le rispettive flore orali, i
microrganismi presenti nell’ambiente e quelli presenti nel latte materno.
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In particolare, il latte materno gioca un ruolo chiave nel modulare lo sviluppo del microbiota intestinale
favorendo in particolare la colonizzazione da parte del genere bifidobacterium che è un genere dominante
nel microbiota intestinale ed è associato a tutta una serie di attività benefiche.
Inoltre il microbiota intestinale del neonato che ha una complessità piuttosto bassa rispetto al microbiota
intestinale adulto, in generale, è caratterizzato da dinamicità un’ampia da un’elevata plasticità (mentre il
microbiota intestinale dell’adulto è più stabile, quello del neonato è più suscettibile alle alterazioni).
L’introduzione di cibi solidi determina la progressiva transizione verso il profilo microbico adulto che si
stabilizza circa al terzo anno di vita; quindi fino al terzo anno di vita possiamo parlare del microbiota
intestinale infantile che possiede le caratteristiche precedentemente descritte.
A partire dal terzo anno di vita comincia il viraggio (o si completa a seconda dei casi) verso il profilo adulto
che è caratterizzato invece da una incrementata complessità tassonomica e contemporaneamente in questi
primi tre anni di vita avvengono dei cambiamenti a livello della mucosa tra cui anche la maturazione del
sistema immunitario intestinale che contribuisce a stabilizzare l’ecosistema.
Questi cambiamenti si stabilizzano con il terzo anno di vita quindi con l’acquisizione di una dieta
paragonabile a quella adulta.
Possiamo dire quindi che lo sviluppo del microbiota intestinale è determinato da tre fattori:
(1) un fattore verticale: correlato alla madre (principalmente) o dal padre
(2) un fattore orizzontale trasferito dall’ambiente circostante
(3) un fattore intrinseco rappresentato dalla genetica individuale che ha certamente un impatto sullo
sviluppo del microbiota intestinale.
Il cavo orale costituisce il primo tratto dell’apparato gastrointestinale e presenta una complessa microflora
orale anche se meno densa di quella dell’intestino.
Contiene microrganismi che sono in grado di resistere alla rimozione meccanica attaccati alle gengive e ai
denti, quindi sono microrganismi in grado di formare dei biofilm e come sapete sono delle forme di crescita
e caratterizzate da un’alta capacità di adesione e di crescita.
La mucosa orale è in generale favorevole allo sviluppo dei microrganismi per la presenza di acqua e
nutrienti, per il pH e la temperatura ottimali.
La bocca rappresenta il primo sito di colonizzazione del corpo infatti i microrganismi ambientali e del corpo
della madre e quelli ambientali colonizzano il neonato entro poche ore dalla nascita.
I microrganismi del cavo orale possono anche contribuire alla formazione della placca dentale, alla
formazione di carie, gengivite e disturbi periodontali.
Per quanto riguarda la composizione sono stati fatti studi molecolari (basati sull’analisi dei geni 16 S) che
hanno evidenziato una complessa microflora caratterizzata dalla presenza di numerosi generi batterici
(alcuni tra i più presenti sono Actinomyces, Bacteroidetes, Capnocytophaga; Lachnospiraceae,
Lactobacillus, Leptotrichia, Neisseria, Prevotella, Selenomonas, Streptococcus, Treponema).
Il microbiota vaginale ha un impatto molto importante sulla salute ginecologica e generale della donna
proteggendola da infezioni di vario tipo e consentendo la fertilità e il decorso positivo della gravidanza.
Il basso tratto genitale femminile è una nicchia ecologica in cui vari microrganismi coesistono in simbiosi
con l’organismo.
Tra l’ospite ed i batteri si instaurano delle interazioni sinergiche.
Il microbioma intestinale gioca un ruolo chiave nel prevenire la colonizzazione di microrganismi responsabili
di infezioni urogenitali.
La composizione in generale del microbiota vaginale può variare in risposta a diverse esigenze sia esogene
che endogene (es. fase del ciclo mestruale, presenza di farmaci, utilizzo di antibiotici…).
Il termine eubiosi si riferisce ad un microbiota sano e normale mentre col termine bisfiosi ci si riferisce ad
un microbiota alterato a cui può essere associata una patologia.
Nelle donne sane il microbiota intestinale è dominato dal genere lactobacillus che ha un ruolo chiave nel
prevenire la crescita incontrollata di microrganismi patogeni (quindi nel mantenimento dell’omeostasi
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dell’organismo) andando a prevenire la crescita incontrollata e l’infezione da parte dei microrganismi
patogeni.
I microrganismi con i quali i lactobacilli esercitano queste attività benefiche per il microbiota vaginale sono
prevalentemente tre:
1. La competizione per i siti di adesione (i lactobacilli vanno a competere con i microrganismi patogeni
per quanto riguarda i siti di adesione all’epitelio)
2. Competizione per il substrato (che insieme al meccanismo uno può essere definito meccanismo di
esclusione competitiva)
3. Produzione di sostanze antimicrobiche da parte del lactobacillus.
I genomi dei lactobacilli vaginali sono stati sequenziati e confrontati con quelli dei lactobacilli intestinali e si
è osservato che i lactobacilli vaginali presentano genomi più piccoli con un più basso contenuto in GC di
rispetto a quelli intestinali; questa osservazione ha portato ad ipotizzare che i lactobacilli vaginali abbiano
un più alto grado di adattamento e dipendenza dalla nicchia ecologica (tanto più piccolo è il genoma tanto
maggiore è l’integrazione tra il microrganismo e l'ospite perché c'è una complementarietà di funzioni).
Quindi i lactobacilli vaginali vengono considerati un importante esempio di simbiosi funzionale
(mutualistica) contra microbiota e ospite, ancora di più rispetto ad altri microrganismi che colonizzano altre
mucose del corpo umano.
Abbiamo osservato che i lactobacilli giocano una funzione protettiva contro patogeni attraverso differenti
meccanismi.
In generale i lactobacilli mettono in atto due tipi di inibizione contro i patogeni: inibizione diretta e
inibizione indiretta.
Nell’inibizione diretta i lactobacilli sono in grado di coaggregare con i patogeni quindi uno dei meccanismi è
la coaggregazione con i patogeni interferendo con la capacità di infezione delle specie patogene; la
coaggregazione avviene grazie a delle molecole presenti sulla parete cellulare die lactobacilli che
favoriscono questa adesione superficiale con le cellule dei patogeni che è la coaggregazione.
Un altro meccanismo di inibizione diretta è la produzione sostanze antimicrobiche come per esempio
l’acido lattico che abbassa il pH e rende inospitale l’habitat alla colonizzazione da altri microrganismi,
oppure il perossido d’idrogeno (acqua ossigenata) particolarmente tossica per microrganismi catalasi
dipendenti, o ancora le batteriocine che hanno un attività antimicrobica associata alla formazione di pori e
quindi il patogeno che viene colpito da queste batteriocine avrà una alterazione a livello della permeabilità,
un altro tipo di sostanza che viene prodotta dai lattobacilli e che è attualmente in fase di studio molti
laboratori sono i biosurfattanti, uno dei metaboliti secondari prodotti dai lactobacilli in fase stazionaria che
più che esercitare un'azione antimicrobica e diretta vanno a impedire l’adesione del patogeno all’epitelio
cellulare o la formazione del biofilm (biosurfattanti hanno attività antiadesiva e antibiofilm).
I lactobacilli mettono anche in atto diversi meccanismi di inibizione indiretta come (1) il meccanismo di
esclusione competitiva nei confronti dei patogeni competendo a due livelli con i patogeni (per i siti di
adesione e per i nutrienti).
Questi due tipi di competizione nel loro complesso prendono il nome di esclusione competitiva.
I lactobacilli (2) promuovono l'integrità dell’epitelio dell’ospite regolando positivamente l'espressione delle
proteine tight‐junction (come abbiamo visto per il microbiota intestinale)
Ancora un importante effetto dei lactobacilli (3) è quello di modulare la risposta immunitaria e questa
modulazione risulta nella produzione da parte dell’ospite di fattori che sono per peptidi antimicrobici per
esempio le defensine in risposta a una stimolazione dovuta alla presenza di lactobacilli, ancora le cellule
dell’ospide producono latoferina e lisoenzima che possono uccidere i patogeni e i lactobacilli possono
stimolare anche la produzione di fosfatasi alcalina da parte dell’ospite che agisce principalmente sul
lipopolisaccaride dei batteri gram negativi riducendone la tossicità.
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Quindi la modulazione della risposta immune da parte dei lactobacilli è soprattutto dovuta ad una
stimolazione da parte dei lactobacilli alle cellule dell’ospite a produrre
sostanze antimicrobiche quali defensine, lattoferrina, lisozima e
fosfatasi alcalina.
La composizione delle microbiota vaginale cambia drasticamente nel
tempo sulla base dei cambiamenti nei livelli di estrogeni durante la
crescita e lo sviluppo della donna.
Nel microbiota vaginale invece il fattore fondamentale (che per il
microbiota intestinale era la dieta) che determina la composizione è la
stimolazione ormonale rappresentata dagli estrogeni.
In base a questi cambiamenti nei livelli di estrogeni si può classificare
il microbiota vaginale in tre stege:
1. Il microbiota dell’età prepuberale → Ci sono bassi nei livelli di
estrogeni che si riflettono in una mucosa vaginale sottile che
produce bassi livelli di glicogeno: se lo spessore dell’epitelio
vaginale è piccolo, anche la produzione di glicogeno diminuisce.
Le stesse cellule epiteliali producono una α‐amilasi e consente di idrolizzare il glicogeno e di
mettere a disposizione del glucosio che è una fonte carbonata che stimola fortemente la
colonizzazione dei lactobacilli.
Bassi livelli di estrogeni > Mucosa vaginale sottile > Bassa produzione di glicogeno > Microbiota
vaginale caratterizzato da lactobacilli ma anche da altre specie (Microbiota che presenta una certa
variabilità) e caratterizzato da un alto valore di PH.
3. il microbiota in post menopausa→ I livelli di estrogeni diminuiscono e lo spessore della mucosa
vaginale quindi si assottiglia nuovamente con la conseguenza di un basso livello di glicogeno e
quindi compare nuovamente un microbiota caratterizzato dalla presenza di microrganismi diversi
dal lactobacilli.
Quindi nelle donne in post menopausa si assiste ad uno shift del profilo microbico vaginale e ad un
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ritorno del microbiota simile a quelli dell’età prepuberale.
La composizione filogenetica del microbiota vaginale è stata caratterizzata
utilizzando le sequenze del RNA ribosomiale quindi tecniche molecolari su
culture batteriche.
L'albero filogenetico del microbiota vaginale umano evidenzia la presenza di
quattro divisioni dominanti (Actinobacteria, Proteobacteria, Firmicutes,
Bacteroidetes) che includono la quasi totalità dei filotipi identificati a livello
vaginale quindi paradossalmente nel microbiota vaginale abbiano una
maggiore biodiversità a un alto livello filogenetico mentre ad un basso livello
filogenetico in condizioni di salute abbiamo una bassa biodiversità in quanto predomina il genere
lactobacillus.
Abbiamo detto che le alterazioni del microbiota sono definite disbiosi o dismicrobismi; nel caso delle
disbiosi vaginali queste sono spesso associate ad una riduzione dell'abbondanza relativa ai lactobacilli
mentre le disbiosi intestinali sono caratterizzate da una ridotta biodiversità le disbiosi vaginali sono
caratterizzate da un' incrementata biodiversità e da una riduzione nell’abbondanza relativa dei lactobacilli.
Le principali disbiosi sono la vaginosi batterica dovuta a una complessa alterazione della flora vaginale in
cui i lactobacilli si riducono e gli anaerobi crescono in eccesso e microrganismi prettamente anaerobi, la
vaginite aerobica che è invece caratterizzata da microrganismi aerobi, l’infezione da candida che è un
fungo e le patologie a trasmissione sessuale che rappresentano l'aspetto più critico associato ad un
microbiota vaginale (e di cui, per quanto riguarda le infezioni batteriche, alcuni esempi possono essere
l’infezione da clamidia e la gonorrea che sono strettamente associate a disbiosi vaginali, ma esistono anche
molte malattie sessualmente trasmissibili di carattere virale legate a disbiosi vaginale come per esempio
l’HIV, l’herpes e il papilloma virus che risultano più aggressivi in presenza di disbiosi).
Prendiamo in considerazione il microbiota associato alla cute cioè associato ad una superficie esterna (fino
ad ora abbiamo sempre visto microbioti associati a superfici interne ovvero il microbiota orale, intestinale e
vaginale.
Il corpo umano ha in media di 2m2 di superficie cutanea che varia enormemente in composizione chimica e
contenuto di umidità in funzione delle zone.
La pelle è formata da 3 strati che a partire dall’esterno sono: l’epidermide, il derma e lo strato
sottocutaneo.
In generale la pelle è un organo meno adatto rispetto ad altri siti anatomici alla colonizzazione microbica
per una serie di motivi: (1) per la sua peculiare struttura la pelle rappresenta una forte barriera meccanica
all’invasione batterica, lo stato esterno infatti è costituito da cheratinociti che sono cellule spesse e
strettamente impaccate che quindi rappresentano una certa barriera all’invasione; (2) la pelle è in generale
considerato un ambiente inospitale a causa del PH debolmente acido dell'alta concentrazione di cloruro di
sodio e della mancanza di umidità in molte aree; (3) nella pelle sono presenti sostanze inibitrici prodotte
dalle ghiandole sudoripare e per esempio il lisozima che è una sostanza antimicrobica che agisce
principalmente sui batteri gram+ prodotta dalle ghiandole sudoripare.
I microrganismi e colonizzano la pelle sono considerati batteri commensali (quindi il rapporto che si
instaura con l'ospite non è un rapporto di mutualismo come nel caso del microbiota intestinale o vaginale
ma è principalmente un rapporto di commensalismo) cioè l'ospite è fondamentalmente non trae benefici
mentre i microrganismi colonizzanti traggono vantaggio perché si cibano di sostanze presenti sulla pelle.
Questi batteri commensali possono essere sia residenti cioè che colonizzano in modo permanente sia
transienti che colonizzano per un periodo di tempo.
Questo microbiota cutaneo può essere associato all’epitelio squamoso superficiale cioè si tratta di
microrganismi in grado di colonizzare le cellule morte (aderendo a queste cellule morte e qui costituendoil
103
loro microhabitat), o anche alle ghiandole sebacee sudoripare che secernono nutrienti (quali acqua,
amminoacidi, sostante azotate e amminoacidi).
Le principali specie che colonizza la pelle sono staphylococcus epidermidis e Propionibacterium acnes che
in particolari condizioni può determinare un insorgenza
dell'acne volgare (di solito questa condizione si
amplifica quando è presente un elevata secrezione
sebacea che è a sua volta associata ad una stimolazione
ormonale).
Il microbiota della pelle è stato studiato mediante
tecniche culturali e più recentemente mediante
approcci molecolari metagenomici basati sul
sequenziamento del gene 16 S RNA ribosomiale batterico.
Nella figura sono riportati i risultati dello studio di Grice e colleghi e pubblicato nel 2009 su Science e
condotto su un numero limitato di soggetti (10 volontari sani) che nonostante il numero limitato di soggetti
è considerato uno studio di riferimento per la caratterizzazione del microbiota cutaneo umano.
Il sequenziamento del gene 16S ha evidenziato che sono presenti nel microbiota cutaneo 19 fila batterici di
cui 4 dominanti (actinobacteria, firmicutes, propriobacteria, bacteroidetes).
Un'altra considerazione importante che è emerso da questo studio è relativa un po’ alla distribuzione delle
popolazioni batteriche in relazione alle caratteristiche della pelle: pelle grassa, pelle mista e pelle secca e si
è visto che in funzione di queste caratteristiche chimico fisiche della pelle la composizione varia in maniera
significativa.
In particolare si osservato che le aree grasse della pelle sono predominate da proprionibacterium e
stafilococcus, le aree miste sono dominate da Corynebacterium e Stafilococci e le aree secche da
betapropriobatteri corynebacteria.
Introduciamo l’interazione di patogenicità.
Abbiamo preso in esame le comunità microbiche normalmente associate al corpo umano ora consideriamo
la patogenicità microbica.
I microrganismi patogeni sono così definiti perché creano un danno all’ospite (responsabili dell’insorgenza
di una patogenicità).
La patogenesi microbica avviene seguendo degli step:
1. L’esposizione al patogeno
2. L’adesione del patogeno alla pelle o alla mucosa
3. L’invasione attraverso le cellule epiteliali
4. Colonizzazione e crescita con produzione di fattori di
virulenza
5. Questi fattori di virulenza possono essere tossine
(sostanze tossiche per l’ospite che possono avere effetti locali o sistemici) o sostanze che
favoriscono un ulteriore crescita del microrganismo nel sito originale o in altri siti (promuovono
l’espansione dell’invasione)
6. L’effetto dei fattori di virulenza e dell’invasività si traducono in un danno al tessuto e quindi
nell’insorgenza della patologia.
Prendiamo in considerazione il primo step del processo di patogenesi successivo all’esposizione al patogeno
ovvero l’adesione alla pelle o alla mucosa.
I microrganismi patogeni aderiscono alle cellule epiteliali attraverso interazioni specifiche tra molecole che
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si trovano sulla superficie della cellula del patogeno e molecole recettoriali presenti sull’epitelio dell’ospite.
I principali fattori di adesione che permettono al patogeno di aderire sono:
Proteine di Adesione per esempio la proteina di superficie M di Streptococcus pyogenes lega i
recettori della mucosa respiratoria; la proteina OPA di Neisseria gonorrhoeae lega il recettore CD66
presente sulla superfice dei tratti genitali, degli occhi, del retto e della gola.
Acidi Lipotecoici che sono dei costituenti della parete cellulare soprattutto dei batteri gram positivi
(dove la parete cellulare è rappresentata quantitativamente in modo più abbondante) un esempio
è rappresentato dall’acido lipotecosico di Streptococcus pyogenes che facilita il legame ai recettori
della mucosa respiratoria insieme alla proteina di adesione M (vista prima)
Capsule e slime layer: polimeri secreti dal microrganismo che coprono la superficie del
microrganismo stesso.
Es. le capsule di E. Coli promuovono l’adesione ai microvilli intestinali oppure un altro esempio lo è
slime layer uno strato a base di destrano (polisaccaride prodotto da streptococcus mutans che lo
avvolge) promuove l’adesione di streptococco mutans alla superficie dei denti.
Fimbrie e Pili di cui conosciamo alcuni esempi come Neisseria gonorrhoeae nei serie a condurre EA
presenta dei pili che facilitano il legame all’epitelio ancora, la fimbria di tipo uno di Salmonella
species facilita l’adesione alle cellule del piccolo intestino.
Per creare un danno all’ospite il patogeno deve moltiplicarsi e colonizzare il tessuto.
La crescita e la colonizzazione sono il terzo step del processo di patogenesi e i principali fattori che
influenzano la crescita del patogeno nei tessuti umani sono: la disponibilità di nutrienti (zuccheri, vitamine,
amminoacidi, acidi nucleici..), la temperatura, il PH e la presenza o l’assenza di ossigeno.
In funzione della localizzazione della colonizzazione microbica possiamo avere diversi tipi di infezione: (1)
infezione localizzata in corrispondenza del sito di entrata del microrganismo quindi la colonizzazione rimane
circoscritta in corrispondenza del sito di entrata del microrganismo, (2) una bacteriemia, in cui i batteri si
riversano nel flusso sanguigno del sangue (spostandosi dal sito di entrata) e (3) septicemia quando
l’infezione è sistemica e quindi coinvolge il tessuto che corrisponde al sito di entrata ma anche il sangue e
altri tessuti che il microrganismo è riuscito a colonizzare muovendosi attraverso il flusso sanguigno.
In molti casi la colonizzazione e la crescita del patogeno sono associate al processo di invasione.
I patogeni devono penetrare all'interno delle cellule epiteliali per far partire il processo patologico.
Dopo l’invasione questi patogeni possono accedere a siti di scambio rispetto al sito di entrata attraverso il
sistema circolatorio linfatico sanguigno.
Il patogeno non si limita ad aderire ma penetra all’interno della cellula e in seguito a questa penetrazione i
patogeni possono accedere a siti di scambio rispetto al sito di entrata attraverso il flusso sanguigno e
linfatico.
Andiamo a prendere in esame i fattori di virulenza che rappresentano la quinta fase dello schema generale
della patogenesi.
I principali fattori di virulenza sono le tossine e gli enzimi ; entrambi potenziano direttamente o
indirettamente la colonizzazione e la crescita microbica.
I più importanti enzimi che rappresentano fattori di virulenza sono: la Hyaluronidase che è prodotta da
streptococci, staphylococci and clostridia ed è un enzima in grado di degradare l’acido ialuronico (un
polisaccaride che costituisce la matrice intercellulare) e pertanto promuove la diffusione dei microrganismi,
la Collagenase che è prodotta principalmente da clostridia e degrada la rete di collagene che supporta I
tessuti, altri enzimi importanti sono proteasi, nucleasi e lipasi che sono proteine prodotte da streptococci e
staphylococci e che degradano proteine e acidi nucleici dell’ospite andando ad esercitare un danno diretto
sull’ospite, un ulteriore enzima è la coagulasi che viene prodotta in particolare da Staphylococcus aureus e
105
promuove la formazione di rivestimenti di fibrina insolubili che ricoprono la cellula batterica che quindi in
questo modo viene protetta dall’attacco delle cellule del sistema immunitario.
Altri importanti fattori di virulenza sono le tossine che possono essere esotossine o endotossine.
Ci concentriamo sulle esotossine che sono proteine rilasciate dal batterio durante la sua crescita e, in
seguito a questo rilascio da parte della cellula batterica vengono trasportate, attraverso il torrente ematico,
dal sito di colonizzazione/entrata/infezione a siti distanti dove provocano diversi danni tessutali.
Le esotossine vengono classificate in tre categorie: (1) le tossine citolitiche che degradano le membrane
delle cellule dell’ospite causandone la lisi (meccanismo d'azione associato alla degradazione della
membrana citoplasmatica), (2) le tossine AB che consistono di due subunità (sub A e sub B) in cui il
componente B ha la funzione di legarsi ad un recettore specifico presente sulla superficie cellulare
dell’ospite facilitando il trasferimento della subunità A attraverso la membrana citoplasmatica della cellula
bersaglio, all’interno della cellula la subunità A svolge la sua attività tossica e quindi e due subunità delle
testine abiti lavorano in concerto (sub B funzione di recettore, sub A funzione tossica), (3) le tossine super‐
6antigene che stimolano un gran numero di cellule immunocompetenti provocando un'infiammazione
estesa la cui conseguenza può essere anche un danno tissutale.
Nella famiglia delle esotossine sono comprese le enterotossine che sono un particolare tipo di esotossine
prodotte da alcuni batteri alimentari intestinali (Staphylococcus aureus, Clostridium perfringens, Bacillus
cereus, Vibrio cholerae, Escherichia coli and Salmonella enterica) che agiscono in maniera specifica a livello
del piccolo intestino causando una secrezione abnorme di fluido nel lume intestinale (quindi la
manifestazione chimica associata a queste enterotossine sono il vomito e la diarrea).
Alcuni esempi di esotossine scelti tra quelle prodotte da batteri patogeni che causano frequenti infezioni
sono:
Staphylococcal α‐toxin (cytolytic toxin) è prodotta da cellule in crescita di staphilococcus (in fase
esponenziale) ed è rilasciata come monomero.
Questi monomeri vanno ad assemblarsi ovvero sette identiche
subunità proteiche oligomerizzano nella membrana citoplasmatica
delle cellule target.
L’oligomero che si forma altro non è che un poro che consente
l'entrata di materiale extracellulare (blu e rosso nell’immagine) e
l'uscita dei componenti citoplasmatici (giallo).
Il risultato della colazione di questi pori a livello della membrana citoplasmatica è deleterio infatti le
cellule eucariotiche si gonfiano e lisano; per questo la tossina è detta citolitica.
106
Corynebacterium diphtheriae toxin (AB toxin) per parlare della tossina AB prodotta da
Corynebacterium diphtheriae raccontiamo due casi:
Il caso A descrive il normale funzionamento della cellula eucariotica
mentre il caso B descrive la cellula eucariotica infettata da questa
tossina AB.
Nel caso A il fattore di elongazione 2 si lega al ribosoma portando
con se un RNA transfer e questa operazione permette l’elongazione
proteica, quindi un’efficiente sintesi.
Nel caso B, in cui è presente la tossina si lega ad un recettore proteico della membrana
citoplasmatica attraverso la subunità B.
La subunità B permette il riconoscimento con il recettore proteico e quindi l’interazione tra questo
e la tossina, questa operazione permette la separazione delle due subunità che a sua volta
consente alla subunità B di essere internalizzata.
Il peptide A una volta all’interno della cellula catalizza l’ADP‐ribosilazione del fattore di elongazione
2 (modificazione chimica di EF2) che diventa EF2* che è ancora in grado di legarsi al ribosoma ma
non è più in grado di legare il tRNA.
La conseguenza è che non avviene più la corretta elongazione della proteina ma si blocca la sintesi
proteica portando alla e quindi la cellula eucariotica muore
Clostridium toxin (AB toxin), le due specie clostridium botulinum e clostridium tetani sono batteri
sporigeni comunemente presenti nel suolo. Occasionalmente questi microrganismi possono
provocare delle patologie negli animali attraverso l'azione di potentissime esotossine che sono
tossine di tipo AB che agiscono a livello dei tessuti nervosi (per questo sono anche definite
neurotossine).
Le neurotossine dei due batteri clorstidium possono essere entrambe mortali.
o Clostridium botulinum toxin (ab toxin)
Anche in questo caso consiederiamo i due eventi: la
normalità e ciò che avviene in presenza della tossina.
In condizioni normali, in seguito ad un segnale di
eccitazione da parte del sistema nervoso centrale,
il neurotrasmettitore acetilcolina (indicato dalla
lettera A) viene rilasciato da vescicole a livello
della giunzione azione neuromuscolare (la zona di contatto
fra terminazioni nervose e la fibra muscolare).
L’acetilcolina rilasciata in seguito al segnale si va a legare a specifici recettori della fibra
muscolare determinando la contrazione.
In presenza di botulismo (ovvero in presenza di Clostridium botulinum che produce la
tossina AB) questa tossina si lega a livello della placca neuromuscolare impedendo il rilascio
di acetilcolina dalle vescicole.
Il risultato è una mancanza di stimolo per la fibra muscolare quindi un rilassamento
irreversibile del muscolo e una paralisi che è definita flaccida.
A livello molecolare la subunità B (funzione di riconoscimento del recettore) si lega ad un
recettore sulla terminazione nervosa, la subunità A (funzione tossica) si stacca e interagisce
con le vescicole impedendone il rilascio di acetilcolina.
Il muscolo rimane quindi privo dello stimolo che porta alla contrazione di conseguenza il
risultato è il rilassamento del muscolo anche detta paralisi flaccida
o Clostridium tetani toxin (AB toxin) Anche qui consideriamo il caso normale A e quello
patologico B in cui è presente la neurotossina di tipo AB.
107
In condizioni normali il rilassamento della muscolatura è indotto da un neurotrasmettitore
che è la glicina rilasciato da vescicole (in arancione) prodotte da interneuroni inibitori.
La glicina rilasciata va ad interagire sul neurone
che è legato alla placca neuromuscolare
bloccando il rilascio di acetilcolina a livello
della giunzione neuromuscolare e
permettendo il rilassamento del muscolo.
In presenza di Clostridiun tetani che produce la
potente neurotossina di tipo AB avviene una
contrazione irreversibile del muscolo.
La tossina del tetano si lega a recettori presenti
sull'interneurone inibitorio, anche in questo
caso, nello specifico, è la porzione B a legarsi mentre la subunita A viene liberata ed espleta
la sua funzione tossica.
L'attività tossica esplicata dalla subunità A è quella di impedire il rilascio di glicina da parte
delle vescicole dell'interneurone inibitorio.
Quindi in presenza della tossina del tetano viene a mancare il segnale di inibizione di
conseguenza il segnale di eccitazione che proviene il sistema nervoso centrale va in
continuo, si ha in continuo senza nessun tipo di controllo e inibizione il rilascio di
acetilcolina a livello della placca muscolare che va a stimolare la fibra muscolare con
risultato esattamente opposto rispetto a quello in presenza di clostridium botulinum.
Ovvero in presenza di Clostridium tetani avviene una contrazione irreversibile del muscolo
e una paralisi che viene definita spastica.
108
Vibrio cholerae toxin (AB toxin) è nello specifico un enterotossina.
La tossina del colera è un enterotossina prodotta dal Vibrio cholerae ed è
una malattia caratterizzata da una massiva perdita di fluidi dall'intestino
che si traduce in una diarrea molto severa, una fortissima disidratazione e
deplezione di elettroliti (la patologia può essere mortale).
La malattia incomincia con l’ingestione di Vibrio colere (contaminante
alimentare) che colonizza l’intestino dove secerne la tossina AB
(rappresentata in verde e rosso).
La subunità B (rappresentata in verde) dell’enterotossina si lega in modo
specifico al ganglioside GM1 che è un complesso glicopeptide che si trova
sulla membrana citoplasmatica delle cellule epiteliali intestinali.
In seguito a questo legame, la subunità si stacca A dalla B e penetra nella
cellula epiteliale esplicando la sua attività tossica che consiste
nell’attivare l’adenilato ciclasi.
L’adenilato ciclasi è un enzima che converte l’ATP in AMP ciclico che a sua
volta modula molti sistemi regolatori nella cellula tra cui anche l'equilibrio
idrico‐salino.
In seguito all’aumento dei livelli di AMP ciclico viene indotta la secrezione
di ioni Cl‐ e HCO3‐ nel lume intestinale che previene l’assorbimento del
sodio.
Quindi l'effetto di questo aumentato livello di AMP ciclico è quello di
favorire la secrezione di ioni cloro e bicarbonato e di prevenire
l’assorbimento del sodio questo cambiamento nella concentrazione ionica
porta alla secrezione di una grande quantità di acqua nel lume intestinale
(principalmente per effetto osmotico).
Il risultato è quindi una grande perdita di acqua a livello del lume e quindi una diarrea acuta.
Abbiamo parlato delle esotossine come fattori di virulenza e degli enzimi come fattori di virulenza, restano
da trattare le endotossine come importanti fattori di virulenza.
Abbiamo già parlato delle endotossine quando abbiamo descritto la membrana esterna dei batteri gram‐.
Le endotossine sono componenti strutturali della membrana esterna dei batteri gram‐ e in modo più
specifico l’endotossina rappresenta il lipide A del lipopolisaccaride che è il costituente fondamentale della
membrana esterna.
Le endotossine sono quindi possedute solo dai batteri gram ‐.
Le endotossine sono legate alle cellule e vengono rilasciati in grande quantità solo in seguito a lisi cellulare
(non sono molecole che vengono secrete ma vengono rilasciate in seguito a lisi), sono prodotte solo da
alcuni generi di batteri gram negativi come escherichia, shigella e salmonella causano una varietà di effetti
fisiologici dell’animale infetto (la sintomatologia più caratteristica è rappresentata da febbre perché le
endotossine dette anche pirogeni batterici vanno a stimolare pirogeni endogeni che dette anche citochine
che vanno a stimolare il rialzo remico, altri sintomi possono essere diarrea e un’infiammazione
generalizzata).
Esotossine sintomatologia specifica, endotossine sintomatologia aspecifica.
Le endotossine sono in generale meno tossiche delle esotossine come evidenziato dalla dose letale
calcolata nel topo; la dose letale 50 delle endotossine di aggira intorno ai 200‐400 μg mentre la dose letale
50 delle esotossine è tipicamente dell'ordine di poche decine di μg (circa 25).
La dose letale 50 è la concentrazione di una tossica che in grado di provocare la morte del 50% degli animali
presi in esame per valutare l'attività tossicologica; è un parametro farmacologico tossicologico
fondamentale per valutare quanto una sostanza è.
Tanto minore è il valore di questa dose letale 50 (LD50) tanto maggiore è la tossicità della sostanza.
109
Esiste un test molecolare (che vedremo quando ci occuperemo e degli aspetti più metodologici e dei
protocolli microbiologici) per il dosaggio di endotossina di batteri gram‐ nelle preparazioni farmaceutiche e
nei campioni biologici; questo test si chiama LAL test e consente anche di applicare un saggio limite cioè di
verificare se una determinata preparazione farmaceutica che deve essere somministrata per via sistemica
risponde ai requisiti di sterilità secondo la farmacopea ufficiale.
CONFRONTO ESOTOSSINE E ENDOTOSSINE
Le esotossine sono proteine secrete sia da
batteri gram+ che da gram‐ e sono
tendenzialmente termolabili, da un punto di
vista chimico, mentre le endotossine
rappresentano il lipide a della membrana
esterna dei batteri gram – e sono
estremamente termostabili.
La modalità di azione delle esotossine è
specifica dovuta all’interazione con uno
specifico recettore e anche la sintomatologia è
specifica mentre per le endotossine vale tutto
il contrario.
La tossicità delle esotossine è alta in alcuni casi
sono fatali mentre le endotossine sono meno tossiche come dimostrato dalle dosi letali 50.
Le esotossine sono altamente immunogeniche, vengono riconosciute da specific anticorpi e quindi
stimolano fortemente il sistema immunitario mentre le endotossine sono scarsamente immunogeniche e
stimolano una risposta immune che non è sufficiente a neutralizzare le tossine stesse.
Mentre le esotossine tendono a non produrre febbre le endotossine sono pirogeniche e quindi comportano
febbre.
110
PARTE ESERCITAZIONALE
LAL Test
Il LAL test è il test molecolare utilizzato per la detection delle endotossine.
I batteri in base alla colorazione di Gram possono essere gram+ (colorazione viola) o gram‐ (colorazione
rossa) e la diversa colorazione è dovuta alle diverse caratteristiche strutturali della parete cellulare dei
Batteri G+ e G‐ .
G+: membrana citoplasmatica, parete cellulare spessa (strati multipli di peptidoglicano)
G‐: membrana citoplasmatica, parete cellulare sottile (strato singolo di peptidoglicano e membrana esterna.
Gli elementri strutturali della membrana esterna dei batteri G‐ sono:
1. Lipopolisaccaridi (LPS): costituenti fondamentali.
2. Lipopoproteine: piccole proteine con funzione di ancoraggio della membrana esterna al
peptidoglicano.
3. Porine: proteine con funzione di canale per il passaggio di piccole molecole idrofiliche. Sono
impermeabili agli enzimi presenti nello spazio periplasmatico e ad altre molecole di grandi
dimensioni.
Lo spazio periplasmatico è tipico dei batteri G‐ ed è la regione compresa fra la membrana
citoplasmatica e la membrana esterna (12‐15 nm in Escherichia coli).
I batteri G‐ possiedono 3 tipi di proteine:
‐enzimi idrolitici: iniziano la degradazione di molecole nutritive
‐proteine di legame: trasferiscono i substrati alle proteine carrier di membrana
‐chemorecettori: proteine coinvolte nella risposta chemiotattica.
Ci focalizziamo sul Lipide‐A che è la componente tossica del lipopolisaccaride della membrana esterna dei
Batteri Gram‐negativi (è un’endotossina) e viene rilasciata in grande quantità in seguito alla lisi della cellula
batterica.
In alcuni casi anche alla porzione polisaccaridica è associata l’attività tossica.
I principali batteri gram‐ patogeni sono Salmonella, Shigella, Escherichia che abbiamo già studiato e hanno
come effetti fisiologici: febbre (secrezione dei pirogeni endogeni da parte dell’ospite), diarrea, diminuzione
dei linfociti, leucociti e piastrine e infiammazione.
Abbiamo anche già osservato che la DL50 nelle endotossine è decisamente maggiore rispetto che nelle
esotossine (topo).
Andiamo quindi a focalizzarci su questo test molecolare microbiologico che è il LAL test.
Il LAL test è un test in vitro e LAL è la sigla per Lisato di Amebocita di Limulus polyphemus (Limulus
polyphemus è un artopode).
Il test ha due applicazioni: (1) il controllo dell’apirogenicità di tutti i prodotti farmaceutici che vengono
somministrati per via parenterale (endovenosa e intratecale) e (2) la ricerca di pirogeni in liquidi biologici:
sangue, liquido cerebrospinale, ecc.
La scoperta della possibilità di utilizzare gli amebociti di limulus polyphemus come indicatori della presenza
di endotossine è avvenuta quando dei cercatori trovarono un grande numero di questi animali morti sulle
spiagge californiane e cercando di capire la causa di questa epidemia trovarono una coagulazione
intravascolare risultata letale per questi animali
Si scoprì che la coagulazione intravascolare era provocata da un infezione da batteri gram negativi che
rilasciavano un’endotossina.
L’endotossina che viene rilasciata in seguito alla lisi del batterio gram meno che infetta l'animale, va ad
attivare un fattore C il quale a sua volta attivato va ad attivare un fattore B, il quale a sua volta attivato va
ad attivare l’enzima coagulasi che è normalmente in forma inattiva e quando viene attivata va a idrolizzare
111
il coagulogeno (solubile) trasformandolo in coagulina (sotto forma di gel).
La trasformazione del coagulogeno in coagulina si traduce in un coagulo del
sangue che è letale per l’animale.
Quindi si è pensato di utilizzare la parte corpuscolata del sangue di limulus polyphemus
(in modo particolare il lisatp degli amebociti) come indicatore della presenza dell’endotossina.
In geneale quindi questo LAL consente di evidenziare la presenza di endotossine (che abbiamo
anche definito pirogeni) in campioni liquidi.
Il LAL test è un saggio in vitro rapido, sensibile e semplice nell’esecuzione e viene utilizzato per due
applicazioni importanti:
1. La prima applicazione è riferita all’ambito farmaceutico ovvero il LAL test utilizzato come saggio
limite.
Il saggio serve per verificare i requisiti di apirogenicità di tutti i prodotti farmaceutici che devono
essere somministrati per via parenterale ovvero le preparazioni farmaceutiche che vengono
somministrate per via endovenosa e per via intratecale.
Queste tipologie di prodotti farmaceutici devono essere necessariamente ma non solo, è
necessario anche verificare che il contenuto di endotossina sia inferiore ad un certo limite già
stabilito dalla farmacopea (il testo di riferimento per il controllo qualità di tutti i farmaci).
2. La seconda applicazione è più generale e riguarda una determinazione semi quantitativa (ricerca di
pirogeni) in un campione liquido (che può essere biologico, ma anche farmaceutico o cosmetico, in
uno alimentare o ancora in un terreno culturale).
Per eseguire il LAL test abbiamo due reattivi fondamentale: uno è il LAL (il lisato in forma liofilizzata)
caratterizzato da una sensibilità (indicata con e espressa in EU/ml unità di endotossina per ml).
La sensibilità indica la concentrazione più bassa di endotossina che il nostro reattivo LAL è in grado di
individuare cioè la concentrazione più bassa di endotossina capace di dare coagulazione nelle condizioni del
test.
L’altro reattivo è un’endotossina standard di controllo (indicata con la sigla CSE).
L’endotossina standard di controllo è una preparazione contenente una concentrazione nota di
endotossina (espressa come ng/ml nanogrammi su ml o EU/ml unità di endotossina per ml).
Es pratico. Supponiamo che sull'etichetta nel nostro kit (che comprende i due reattivi) sia riportata una
sensibilità di =0,125 EU/mL e supponiamo che per la CSE sia riportato che per ogni nanogrammo sono
presenti 10 unità di endotossina.
Supponiamo di solubilizzare la nostra endotossina (perché i due reattivi sono forniti sotto forma di
liofilizzati ai fini della conservazione) e di risospenderla in 5 mL in modo da avere una concentrazione di 2
ng/ml.
Quindi noi conosciamo questi due dati: sappiamo che la concentrazione come peso/volume è 2 ng/ml e
sappiamo che per ogni nanogrammo sono presenti 10 unità di endotossina EU.
Ora troviamo il valore di concentrazione espresso EU/ml quindi facilmente calcoliamo che corrisponde a 20
EU/ml; a questo punto i due parametri (sensibilità e concentrazione di CSE) sono espressi con la stessa
unità di misura.
Quindi diluiamo la CSE in modo da ottenere delle concentrazioni di CSE pari a 2=0,25EU/ml (sensibilità del
lisato, a =0,125 EU/ml , a 0.5=0,062 EU/ml e a 0.25=0,031 EU/ml che a noi servono, in primis, per poter
validare la sensibilità ed in secondo luogo, per poter effettuare il saggio limite e la determinazione della
concentrazione di tossina.
La prima cosa da fare è validare il valore di sensibilità teorico dichiarato in questo caso pari a 0,125 EU/ml.
La sensibilità del lisato viene validata lavorando sul CSE ed è un test che va eseguito in quadruplo, sulle
diluizione preparate in precedenza (2, , 0,5 e 0,25).
112
Dal punto di vista sperimentale è importante utilizzare vetreria sterile e apirogena; tutti i materiali devono
essere apirogenati mediante riscaldamento con stufa a 200 ° per almeno due ore.
Si utilizzano delle provette da saggio che prevedono un volume finale di 0,2 ml di cui 0,1 ml corrispondono
a quello che viene definito il nostro campione inserito (detto anche test) e il restante 0,1 è composto del
reattivo LAL (risospeso in un volume opportuno di acqua apirogena).
Quindi ad ogni diluizione della CSE (a differenti sensibilità) preleviamo 0,1 ml e aggiungiamo a ciascuno dei
nostri volumi 0,1 ml di LAL.
Mettiamo in termostato 37 °C per un'ora (tempo ideale affinché si completi la cascata delle reazioni
enzimatiche del processo coagulativo.
Dopodiché andiamo ad osservare se è avvenuta la coagulazione ovvero se il campione è rimasto allo stato
liquido o si è trasformato in un gel.
(Esistono anche termostati specifici per far avvenire il LAL test)
Come abbiamo già affermato la validazione della sensibilità del test va fatta in quadruplo che significa che
per ogni valore ella CSE avrò 4 repliche (quindi avrò 4 provette per la concentrazione 0,25EU/ml , 4
per0,125EU/ml , 4 per 0.062 EU/ml e 4 per 0,031 EU/ml).
A questo punto per interpretare i dati, al termine del periodo di incubazione, per ciascuna delle
concentrazioni vado ad osservare se è avvenuta o meno la coagulazione:
Concentrazione 0,25 EU/ml→ nelle quattro repliche è avvenuta la coagulazione quindi ho quattro +
(coagulazione avvenuta in ogni prova)
Concentrazione 0,125 EU/ml→ nelle prime tre repliche è avvenuta la coagulazione mentre nell’ul no e
quindi avrò tre + ed un ‐
Concentrazione 0,062 EU/ml→ in nessuna prova è avvenuta la coagulazione quindi avrò qua ro ‐
Concentrazione 0,031 EU/ml→ in nessuna prova è avvenuta la coagulazione quindi avrò qua ro ‐
(‐ sta per liquido, + sta per campione coagulato ovvero gel)
Ora vado a considerare tutte e quattro le repliche (quindi le 4 colonne verticali):
Nella prima replica, l’end point (ovvero la concentrazione minima a cui avviene la coagulazione) è 0,125
EU/ml , nella seconda replica, è sempre 0,125 EU/ml, così come nella terza
replica è sempre 0,125 EU/ml, nella quarta replica invece è 0,25
EU/ml.
A questo punto, per calcolare la sensibilità sperimentale del lisato
basta calcolare la media dei log10 dei 4 end‐point e facendo di
questo valore l’antilog10.
La sensibilità è validata se il valore di sensibilità sperimentale cioè quella
calcolata è compresa tra il doppio e la metà della sensibilità dichiarata (che
sono i limiti di accettabilità).
Quindi in questo caso il valore di sensibilità sperimentale (l’anti log x) deve essere compreso fra 0,25 EU/ml
e 0,62 EU/ml.
Una volta validata la sensibilità si può procedere con il saggio limite e la determinazione della
concentrazione di tossina.
SAGGIO LIMITE
Andiamo a vedere come si esegue il saggio limite; in un primo momento considereremo l'applicazione
farmaceutica successivamente la seconda applicazione che è la determinazione semi quantitativa
dell’endotossina.
Per effettuare un saggio limite occorre individuare una MVD (massima diluizione valida) ovvero il rapporto
tra la concentrazione limite dell’endotossina e la sensibilità del lisato (MVD= ELC/).
La ELC è la concentrazione limite della tossina permessa in quella determinata preparazione farmaceutica e
si calcola sulla base di alcuni parametri riportati in farmacopea nella di una determinata preparazione
113
farmaceutica.
La ELC è uguale alla massima dose accettabile di endotossina K (in EU/Kg/h che varia in funzione del tipo di
via parenterale utilizzata perché ci sono vie parenterali più delicate come ad esempio quella intratecale che
hanno un K costante uguale a 0,2 EU/Kg/h e vie meno delicate come quella endovenosa con un K che può
avere due valori: K=5 EU/Kg/h se viene somministrato un prodotto radio farmaceutico si dimezza a K=2,5
EU/Kg/h ) moltiplicata per concentrazione della soluzione iniettabile C (mg/ml o UI/ml) tutto diviso per la
dose massima M (in mg o UI/Kg/h).
ELC=KC/M
La ELC avrà come unità di misura EU/ml infatti ELC e devono avere la stessa unità di misura perché la
MVD (massima diluizione valida) è un numero scalare e quindi adimensionale.
Come si imposta il saggio limite:
Consideriamo la tabella in figura (riportata anche nel
kit di istruzioni del test) e rimarchiamo la riga verticale
tra la voce campione e la voce TEST: tutto ciò che si
trova a sinistra di questa linea è la preparativa mentre
quello che si trova a destra è quello che viene inserito
nella provettina del saggio.
Si preleva 0,1 ml si TEST e si unisce ad 0,1 ml di LAL si
fa l’incubazione come precedentemente descritto a
37°C per un'ora e si va ad osservare se è avvenuta o
meno la coagulazione.
Gli elementi che entrano in gioco nel saggio limite
sono: il campione farmaceutico s cui dobbiamo effettuare il saggio e abbiamo
poi 3 controlli (un controllo negativo, un controllo positivo e un controllo inibizione).
Il campione è il nostro prodotto farmaceutico di cui dobbiamo verificare se il
contenuto di endotossina è al di sotto o al di sopra del limite; è
fondamentale calcolare la MVD nel senso che la MVD è una sorta di
concentrazione critica è data da ELC la concentrazione limite / cioè
la sensibilità del nostro reattivo LAL quindi in corrispondenza della MVD possiamo dichiarare che se avviene
la coagulazione, la concentrazione di endotossina supera il limite, se invece non si registra coagulazione, la
concentrazione di endotossina è inferiore al limite.
In altre parole la MVD è il valore di diluizione del campione critico sul quale si può applicare il concetto di
saggio limite perché è quel valore di diluizione campione che mi permette di dire se il limite è rispettato o
superato.
Il fine del saggio limite è quello di trovare la diluizione critica (MVD) in corrispondenza della quale
effettuare il saggio, nel quale se si verifica coagulazione posso affermare che il limite di endotossine è stato
superato e viceversa.
Nell’esempio che andiamo a trattare la MVD è pari a due e ciò in base a tutti i parametri che abbiamo
considerato significa che noi abbiamo trovato una ELC pari al doppio della (di conseguenza la MVD è pari
a 2) e quindi dovrò diluire il mio campione di un fattore pari a 2.
Il campione diluito 1:2 (uno a due) si presta a questo punto al saggio limite.
Come si prepara il campione diluito:
Il campione diluito si prepara facilmente diluendo con acqua sterile apirogena (altrimenti andiamo a creare
delle variabili che potrebbero portare a dei risultati non attendibili).
Supponiamo di voler lavorare con un volume finale di 1ml e quindi per fare una diluizione 1:2 del campione
prendo 0,5 ml di acqua e le aggiungo 0,5 ml del mio campione.
A questo punto a questa preparazione che corrisponde a 1 ml di soluzione diluita 1:2 aggiungerò 0,1 ml di
114
LAL.
Del campione diluito secondo MVD (in questo caso diluito 1:2) bisogna avere due replica (previste dal
prodotto).
Come si prepara il controllo negativo:
Il controllo negativo (anch’esso va fatto in doppio) non è altro che acqua sterile apirogena ovvero che ha già
subito controlli di apirogenicità e della quale sono certa che debba risultare negativa (quindi non c'è
bisogno di fare alcuna preparazione ma semplicemente prendere direttamente 0,1 ml).
Come si prepara il controllo positivo:
Il controllo positivo che per definizione è rappresentato da una CSE pari a 2 .
Quindi data una sensibilità del lisato il controllo positivo è una preparazione standard di CSE diluita in
modo tale da avere una concentrazione pari a 2 .
In questo caso specifico in cui =0,125 EU/ml il controllo positivo altro non è che una CSN quindi una
direzione corrispondente a 2 =0,25 EU/ml.
Prelevo 0,1 ml di test e 0,1 ml di LAL
(anche in questo caso non devo fare preparazioni perché queste diluizioni le ho già pronte dalla validazione
della sensibilità)
Come si prepara il controllo di inibizione:
Il controllo di inibizione viene effettuato per verificare che nel campione farmaceutico non siano presenti
sostanze interferenti con la cascata coagulativa che porta alla formazione del gel.
Potrebbe capitare che nel prodotto farmaceutico che si va ad esaminare siano presenti sostanze inibenti
(es. metalli pesanti) che potrebbero andare a sottostimare la presenza di endotossina e quindi dare un
risultato e di non coagulazione anche in presenza di una concentrazione di tossine che supera il limite.
Per definizione il controllo di inibizione deve correre in campione farmaceutico che si sta esaminando alla
stessa concentrazione presente nel controllo campione (in questo caso diluito secondo MVD 1:2).
Quindi nel caso specifico devo applicare un fattore di diluizione al campione presente nel controllo di
inibizione pari a 2.
Il controllo di inibizione non contiene solo campione ma contiene anche CSE presente a concentrazione
uguale a quella della CSE nel controllo positivo quindi in questo caso pari a 2 .
Quindi per esempio lavorando con un volume di 1 ml si preleva dal campione X 0,5 ml e si aggiungono 0,5
ml di CSE con una concentrazione pari a 4 (=0,5 EU/ml) è chiaro che facendo una diluizione 1:2 di
entrambi i componenti (CSE e campione) mi ritrovo nel controllo di inibizione ad avere il campione diluito
1:2 come nella stringa campione e la CSE (4 ) diluita 1:2 come nella stringa del controllo positivo quindi
diventa pari a 2 .
A questo punto di questa preparazione preleverò 0,1 ml e lo aggiungerò a 0,1 ml di LAL.
A questo punto per tutti i controlli abbiamo prelevato 0,1 ml di test e aggiunti a 0,1 ml di LAL, abbiamo
messo ad incubare per un’ora a 37 °C e un'ora e terminato questo periodo di incubazione andiamo a
leggere risultati.
A questo punto avremo 6 provettine (2 campioni, 1 controllo di inibizione, 2 controlli negativi e 1 controllo
positivo).
Prima di leggere il campione si leggono i controlli perché se i controlli non sono validati è leggere il
campione.
Controllo negativo in entrambe le provettine ci si aspetta un che rimanga liquido limpido (perché il
controllo negativo è acqua sterile apirogena).
Controllo positivo contiene una CSE che ha una concentrazione pari a 2 quindi l’aspettativa è quella della
coagulazione (per validare il controllo positivo questo deve gelificare).
Controllo di inibizione in base alle informazioni precedenti ci si aspetta la coagulazione (perché contiene la
stessa concentrazione di CSE presente nel controllo positivo quindi se il controllo positivo coagula deve
necessariamente coagulare anche il controllo di inibizione); se non coagula significa che nel mio campione è
115
presente una sostanza interferente che va a mascherare e sottostimare la mia endotossina e quindi non si
può procedere con la lettura del campione.
Nel caso succedesse questo bisogna attuare una rimozione delle sostanze interferenti e ripetere il saggio.
Le sostanze interferenti si possono rimuovere attraverso alcune tecniche che sono la filtrazione, la dialisi o
la neutralizzazione chimica.
Quindi tutti i controlli sono validati quando il controllo positivo da il coagulo, quello negativo non da il
coagulo e il controllo di inibizione da il coagulo.
A questo punto vado a leggere il campione (applicando il concetto di saggio limite) a quella riduzione del
campione, la concentrazione di endotossina supera il limite mentre se non si verifica coagulazione, la
concentrazione di endotossina è inferiore al limite.
Se il campione resta limpido vuol dire che ha superato il controllo di qualità, nel senso che la
concentrazione di endotossina presente è inferiore alla ELC (quindi se leggendo il mio campione ho un
meno, significa che la concentrazione di endotossina è minore rispetto alla ELC).
Non sono in grado di quantificare l’endotossina presente ma solo se supera o meno la ELC e quindi se
supera o meno il saggio di qualità e se può essere somministrato o no per via endovenosa o endotecale
Il saggio limite non ci consente di calcolare una concentrazione ma ci permette semplicemente di effettuare
una prova di qualità.
E’ possibile però effettuare un test semi‐quantitativo che mi consente di determinare la concentrazione
dell'endotossina.
E’ fondamentale come sempre avere a disposizione un valore di sensibilità che bisogna validare (anche in
questo caso bisogna validare la sensibilità).
Supponiamo di averla validata e che il nostro (lambda) sia sempre uguale a 0,125 EU/ml.
A questo punto bisogna diluire il campione in esame in maniera seriale quadratica
(1:2, 1:4, 1:8, 1:16, 1:32, 1:64) ed è necessario fare almeno due repliche (a
seconda della disponibilità di volume del campione posso effettuare
anche più repliche, infatti il maggiore è numero di repliche, maggiore
è l’accuratezza della valutazione quantitativa).
(Mediamente si fanno quattro repliche)
Quindi si preparano tutte queste diluizioni e si aggiunge a ciascuna 0,1
ml di LAL (volume finale 0,2 ml).
Ed in seguito ad incubazione sempre a 37 °C per un'ora a valutare dove
avviene la coagulazione nelle diverse repliche.
Nell’esempio la coagulazione nella prima replica avviene nelle diluizioni 1:2, 1:4 e 1:8 e poi non avviene più
mentre nella seconda replica la coagulazione avviene fino alla diluizione 1:16.
A questo punto si va a definire l’end point delle due diluizioni (quattro nel caso si fossero effettuate 4
repliche).
Per diluizione end point s’intende la diluizione più bassa che consente la coagulazione e corrisponde ad 1:8
nella prima replica e 1:16 nella seconda replica.
Andando a calcolare il valore numerico di 1:8 otteniamo 0. 125 (1/8=0,125) mentre calcolando il valore
numerico di 1:16 si ottiene 0,062 (1/16=0,062); una volta calcolato questo valore calcolo di questo il
logaritmo in base 10 ovvero Log(10)0,125= ‐0.903 e Log(10)0,062= ‐1.204 e faccio la media dei due valori
ottenuti quindi (‐0,903‐1,204)/2=‐1,054 ed infine calcolo l’anti logaritmo della media che è 0,088 e
trasformo questo valore numerico in frazione: 1/11.3.
Questo 11.3 si può assimilare la mia MVD, cioè 11.3 ragazzi non è altro che un valore di diluizione critico
mediato tra i valori di diluizione critica.
In questo caso l’interesse è quello di calcolare l’ELC (concentrazione di endotossine) che conosciamo essere
ELC (conc endotossina)= x MVD quindi semplicemente inseriamo i valori conosciuti teoricamente e
ricavati sperimentalmente nella formula quindi ELC (conc endotossina)= x MVD= 0.125 x 11.3= 1.4 EU/ml.
116
Quindi questo è il procedimento che consente di valutare in maniera semi‐quantitativa la concentrazione di
endotossina.
Importante anche per questa applicazione è che il campione sia allo stato liquido perché c’è la necessità di
evidenziare la coagulazione.
Esercizi:
1. Supponiamo di avere (nell'ambito del saggio limite) una MVD=3 e
una sensibilità =0.2 EU/ml: impostare come si prepara il campione, come preparare il
controllo positivo e quelli di inibizione.
2. Esercizio sulla determinazione semi‐quantitativa si endotossina:
DETERMINAZIONE DELLA MINIMA CONCENTRAZIONE INIBENTE (MIC)
La determinazione sperimentale della minima concentrazione inibente (MIT) di una sostanza d'attività
antimicrobica è un test microbiologico che può essere facilmente impiegato in laboratori di microbiologia
clinica.
La definizione di minima concentrazione inibente è la concentrazione più bassa di una determinata
sostanza che in grado di inibire lo sviluppo di un microrganismo test (microrganismo di riferimento); la MIC
è un parametro fondamentale che descrive l'attività di un gente antimicrobico (tanto minore è la MIC tanto
maggiore è la potenza/attività di un agente antimicrobico).
Un antibiotico che funziona e che po' essere utilizzato clinicamente ha dei valori di MIC all'unità di
microgrammo/ml di antibiotico.
Quando si vuole caratterizzare una nuova sostanza attività antimicrobica la determinazione della MIC è un
esperimento fondamentale (per definire se si tratta di una sostanza ad attività antimicrobica e nelle
caratterizzare la sua potenza).
Per effettuare l’esperimento, occorre preparare una stock solution dell'antibiotico in un solvente in cui
l’antibiotico si può solubilizzare (non tossico per i microrganismi test, la condizione migliore è la solubilità in
acqua così da non escludere qualunque tipo di effetto solvente sulla crescita microbica).
A questo punto facciamo delle diluizioni.
Nell’esempio parto da una stock solution di antibiotico con la concentrazione di 50ug/ml di antibiotico e
preparo delle diluizioni quadratiche scalari fino ad arrivare sotto l'unità ( 0,2 ug/ml di antibiotico); ovvero
concretamente vado ad incorporare queste concentrazioni di antibiotico nelle piastre Petri agarizzate in cui
vado a inserire il terreno ideale per la crescita dei microrganismi test nei confronti dei quali voglio valutare
l'attività dell' antibiotico (solitamente nello screening dell'attività di una sostanza antimicrobica si utilizzano
dai 4 ai 6 microrganismi test che coprono un po’ tutta la panoramica microbica tra cui alcuni rappresentati
dei batteri gram+ ed alcuni gram‐).
Nella scelta dei microrganismi gram+ si utilizzano spesso staphylococcus aureus e bacillus subtilis mentre
per quanto riguarda i gram‐ si utilizza Escherichia Coli e ciò da Pseudomonas aueruginosa ma poi si può
anche estendere l'analisi all’attività antifungina si prende come riferimento una muffa o un lievito.
Quindi diciamo che quando si va ad indagare l'attività antimicrobica si prendono in considerazione due
rappresentanti del gruppo batteri gram positivi, due batteri gram negativi, una lievità una muffa lievito; è
chiaro che batteri, muffe e lieviti utilizzino terreni colturali differenti quindi per ciascuno dei microrganismi
117
test avrò una serie di piastre Petri ovvero i microrganismi test vengono inoculati separatamente.
Tipicamente nella preparazione del terreno culturale si sterilizza la beuta che contiene il terreno e l’agar ed
una volta un'uscita dall' autoclave la si posiziona in un bagno termostatato a 55 °C ed una volta raggiunta la
temperatura si aggiunge alla beuta il volume di antibiotico che servono dopodiché si versa il contenuto
nella piastra.
Quando le piastre si sono solidificate a temperatura ambiente, a questo punto vado a inoculare in tutte le
piastre (con le diverse concentrazioni) la stessa quantità di microrganismo cresciuto overnight (quindi un
microrganismo vitale).
A questo punto vado ad incubare le piastre nelle condizioni opportune di incubazione quindi nel caso dei
batteri le condizioni ottimali sono 37 ° per 24 ore, se invece abbiamo terreno per i lieviti i tempi sono più
lunghi (48 ore) e sono diverse anche la temperature (tipicamente sui 30 °).
Quindi in funzione del terreno utilizzato dall' inoculo che è stato fatto io andrò a incubare le piastre nelle
condizioni opportune.
Terminato il periodo incubazione andrò a leggere i risultati, nell’esempio osserverò che nelle prime quattro
piastre non è cresciuto nulla, la piastra rimane sterile, mentre alla concentrazione pari a 3,1 incomincia a
osservarsi crescita che risulta sempre più intensa ed evidente al calare della concentrazione di antibiotico.
La MIC che nell’esempio corrisponde a 6,2 microgrammi/ml perché la concentrazione più bassa che inibisce
completamente la crescita.
Ogni microrganismo test deve essere valutato e la MIC dev’essere valutata per ciascun microrganismo test.
Solitamente nell’ambito dei gram+ le MIC sono omogenee così come nell’ambito sei gram negatici, così
come potremmo avere delle nicchie diverse tra batteri e funghi ovvero potremmo avere una sostanza che è
attiva esclusivamente nei confronti dei batteri e che non lo è affatto nei confronti dei funghi.
Supponiamo di avere calcolato 6,2 per escherichia coli, 3,1 per staphylococcus aureus e valori di 50 per i
funghi, potremmo dire che la sostanza ha un attività antibatterica e che la MIC globale nei confronti dei
batteri sarà 6,2; cioè nel momento in cui si vuole andare a formulare un prodotto ad attività antibatterica
dovremo scegliere una concentrazione d'uso che sia come minimo uguale alla MIC più alta.
DOSAGGIO MICROBIOLOGICO DEGLI ANTIBIOTICI
118
Un altro test microbiologico che si effetto sugli antibiotici (sulle sostanze ad attività antimicrobica) ovvero il
dosaggio microbiologico degli antibiotici che permette di determinare la concentrazione di
antibiotico (sostanza ad attività antimicrobica) presente in un campione e in cui la concentrazione è pari a
X.
Pensiamo per esempio ad un processo fermentativo industriale nel quale si vuole produrre un antibiotico
come prodotto ad alto valore aggiunto (gli antibiotici naturali vengono prodotti da microrganismi a livello di
impianti industriali che sono grossi fermentatori nei quali si coltiva il microrganismo produttore e alla fine si
va a fare un recupero e purificazione del metabolita).
Un esempio di fermentazioni industriali utilizzate per il dosaggio microbiologico degli sono i
processi produrre le penicilline.
Gli antibiotici sono metaboliti secondari che vengono prodotti in fase stazionaria di crescita
e di conseguenza il processo fermentativo che viene portato avanti per produrre antibiotici un
processo bech che permette di percorrere tutta la curva di crescita microbica e ad arrivare anche in fase
stazionaria mentre il processo continuo è ottimale per produrre metaboliti primari o per produrre
biomassa.
L’antibiotico prodotto nel processo fermentativo betch va dosato chimicamente con metodi chimico
analitici se si conosce la struttura chimica dell’antibiotico ma nelle molecole biologicamente attive (come gli
antibiotici) questo dosaggio non corrisponde sempre al dosaggio biologico che ci interessa particolarmente
perché ci dà indicazioni su quella che è l'attività della molecola biologicamente
attiva perché potenzialmente potrei avere un'elevata concentrazione di antibiotico dal punto di vista della
e peso/volume ma non biologicamente attivo quindi è importante il dosaggio biologico per le molecole che
devono esercitare un'attività biologica (lo stesso discorso è valido per gli enzimi e le endotossine).
Quindi nell’ambito degli antibiotici noi dobbiamo andare a effettuare un dosaggio biologico.
Il dosaggio biologico lo svolgiamo con l’Agar diffusion method.
Prendiamo una piastra Petri di grandi dimensioni (tipicamente il diametro di questa piastra è di 15 cm) ci
inoculiamo un microrganismo test (di solito lo staphylococcus aureus, molto utilizzato
perché solitamente è abbastanza sensibile al dosaggio degli antibiotici, soprattutto delle penicilline).
Una volta inoculato il nostro microrganismo in maniera uniforme su tutta la superficie della piastra
andiamo a posizionare, sulla superficie della piastra, in maniera razionale (in modo tale che i dischetti di
cotone siano il più possibile distanti tra di loro) dei dischetti di cotone imbevuti di una una soluzione che
contiene l’antibiotico.
Dobbiamo costruire una curva di calibrazione, per cui avremo da 6 a 8 circa dischetti (più sono meglio è)
dedicati alla retta di calibrazione che significa che bisogna avere un antibiotico standard di riferimento.
Es. Se non vogliamo usare penicillina prodotta da Penicillium notatumio dovremo avere una penicillina di
riferimento a concentrazione nota di cui faremo una stock solution; quindi si avranno diluizioni a
concentrazione nota che vanno inoculate nei dischetti ovvero nei deschetti dedicati alla retta di
calibrazione.
Parallelamente si ha il brodo fermentativo di cui bisogna valutare la concentrazione pellicina prodotta cioè
si va a calcolare la resa produttiva del processo fermentativo in termini di concentrazione‐attività
dell'antibiotico prodotto dal microrganismo che è stato fermato.
Quindi si prende il campione di brodo fermentativo, lo si centrifuga e si filtra (perché i metaboliti secondari
vengono secreti dalle cellule li ritrovo in una parte della cultura quindi voglio separare la biomassa dal
surnatante culturale con cui voglio lavorare).
Vado a lavorare su surnatante culturale (perché è qui che è presente l’antibiotico) che vado a diluire in
modo da avere 3/4 diluizioni diverse; con cui vado ad inoculare 3/4 dischetti di cotone che quindi
rappresentano il mio brodo che contiene la concentrazione X e li vado ad appoggiare nella mia piastra.
A questo punto la piastra in cui è stato inoculato stafilococcus aureus avrà dei dischetti inoculati con una
soluzione standard di riferimento contenente la penicillina a concentrazione nota ma avrà anche dei
dischetti inoculati con il surnatante culturale in cui immagino ci sia penicillina (ho fatto fermentazione
119
proprio per produrre penicillina) e la devo dosare.
Per dosarla vado a incubare la piastra nelle condizioni opportune per
Staphylococcus aureus ovvero 37 ° per un’ora e vado ad osservare il giorno dopo
come appare: si formeranno intorno ai dischetti di cotone degli aloni di inibizione
perché l'antibiotico che è stato inoculato nel dischetto è in grado di diffondere
nella matrice della piastra agarizzata andando a inibire lo sviluppo delle
microrganismo che era stato precedentemente inoculato e quello che è stato calcolato è
che il diametro dell’alone di inibizione è proporzionale al logaritmo della
concentrazione della sostanza antimicrobica.
Quindi sulla base dell’ampiezza di questi aloni possiamo avere un’indicazione di quanto antibiotico è
presente nel dischetto.
Nel grafico infatti il diametro dell’alone di inibizione è direttamente proporzionale al logaritmo della
concentrazione del antibiotico.
Andiamo a costruire la retta di calibrazione ponendo nel grafico sull'asse delle ordinate Y il diametro
dell’alone di inibizione (in mm) che è il nostro parametro sperimentale che andiamo a misurare per tutti i
campioni standard e brodi fermentativi diluiti e nell’asse delle X; questo parametro X ce lo abbiamo
soltanto per gli standard che quindi ci permettono di costruire la retta mettendo in relazione il diametro
dell’alone con la concentrazione della sostanza.
Per calcolare la concentrazione X dello stesso antibiotico presente nel mio brodo fermentativo andrò a
misurare l’alone di diluizione (con dei righelli/calibri) e ad inserire il dato sull’asse delle Y e per
interpolazione vado a calcolare il logaritmo della concentrazione e quindi facendo l’antilogaritmo andrò a
calcolare la concentrazione.
Si utilizzano diverse diluizioni del brodo femmina perché non sapendo esattamente la
concentrazione di antibiotico prodotta, medianti 3/4 diluizioni mi assicuro di avere almeno
una diluizione che sia nel range della retta di calibrazione, in modo tale da fare un calcolo per
interpolazione piuttosto che per estrapolazione (e quindi avere una maggiore accuratezza
nella determinazione della concentrazione).
Bisogna tener conto del fattore di diluizione del brodo fermentativo, se ho diluito di 1:10 il valore
che ottengo per interpolazione dovrà essere moltiplicato per 1:10, ciò diluito 1:5 dovrà essere moltiplicato
per 5.
A questo punto andiamo a vedere un altro dosaggio del microbiologico molto simile dal punto di vista
concettuale a questo ma allo stesso tempo anche diametralmente opposto ovvero il dosaggio
microbiologico delle vitamine.
DOSAGGIO MICROBIOLOGICO DELLE VITAMINE
Anche nel caso di dosaggio microbiologico delle vitamine parliamo di molecole e sostanze ad attività
biologica quindi è importante che, come per gli antibiotici di cui bisognava effettuare un dosaggio, ci si
riferisca ad un attività biologica.
Le vitamine, a differenza degli antibiotici, sono i fattori di crescita (quindi se l’antibiotico inibisce la crescita
io microrganismo test) la vitamina stimola la crescita di un organismo test che ed è per questo che ti
abbiamo detto che il dosaggio segue una procedura analoga ma allo stesso tempo diametralmente
opposta.
Le vitamine che stimolano lo sviluppo sono metaboliti primari e quindi prodotte in fase esponenziale di
crescita (a differenza degli antibiotici che vengono prodotti in fase stazionaria) e sono strettamente
associate alla crescita.
Il metodo microbiologico per la valutazione della concentrazione di vitamine (e in generale in tutti i fattori
di crescita) si basa su due presupposti: (1) l'impiego di microrganismi auxotrofi per la sostanza che si vuole
dosare o con particolari esigenze nutrizionali (l’auxotrofia è una necessità metabolica/nutrizionale per cui
un microrganismo auxotrofo per una vitamina è un microrganismo che non è in grado di sintetizzare quella
120
vitamina e quindi è fondamentale che sia presente nel terreno culturale altrimenti non cresce; quindi
l’auxotrofia è una dipendenza forte da una fattore di crescita).
Es. Supponiamo di voler dosare la vitamina B 12 che viene prodotta a per fermentazione di microrganismi
che sono in grado di produrla, dall'industria.
Per il dosaggio della vitamina B12 verranno utilizzati microrganismi test auxotrofi per la vitamina B 12 e che
quindi hanno necessità metaboliche nei confronti di questa vitamina.
(2) Impiego di terreni colturali a composizione chimica definita (privi di tale sostanza) ovvero un terreno in
cui si inseriscono esattamente le concentrazione dei diversi componenti privo della sostanza per la quale il
microrganismo test presenta l’auxotrofia.
Es. Supponiamo di utilizzare come microrganismo test un lactobacillus auxotrofo per la vitamina B 12in
terreno culturale con un minimo arrivo della vitamina B 12; questo perché la vitamina B 12 la andiamo a
dosare in maniera controllata cioè a concentrazioni diverse e crescenti in modo tale da costruire anche in
questo caso una curva di taratura.
Quindi prendiamo una serie di tubi di terreno culturale minimo in cui non è presente la vitamina B12 e la
andiamo ad aggiungere in quantità crescente; in questo caso il saggio viene fatto in brodo, terreno
culturale liquido (e non in piastra come nel test precedente).
Supponiamo di avere 10 minuti di cui 7 dedicati alla retta di calibrazione e 3 alla determinazione della
concentrazione vitaminica nel nostro campione X.
Quindi andiamo a prendere una preparazione standard della vitamina B 12 a concentrazione nota (in
analogia a quello che abbiamo visto prima con antibiotico) e la diluiamo; aggiungiamo queste diluizioni nei
7 tubi che corrispondono alla retta di calibrazione quindi questi primi 7 tubi avranno una concentrazione
nota decisa in partenza di vitamina B 12.
A questo punto si va ad inoculare i tre tubi del brodo fermentativo che ha prodotto una concentrazione X di
vitamina B 12 che devo dosare (anche in questo caso sfruttando la strategia delle diluizioni sempre perché).
Una volta fatte queste opportune aggiunte, quindi dopo aver aggiunto le diluizioni della vitamina B 12 a
concentrazione nostra nei tubi che corrispondono alla retta di calibrazioni e, dopo aver aggiunto le 3
diluizioni del brodo fermentativo nei tubi che corrispondono al campione da dosare, vado ad inoculare il
microrganismo test auxotrofo per la vitamina B 12.
Il microrganismo test a questo punto ha a disposizione vitamina B 12 aggiunta nelle varie provette a
concentrazioni diverse sempre maggiori e sapendo questo vado a valutare la crescita mediante misurazione
della densità ottica (infatti per misurare la crescita abbiamo fondamentalmente due possibili metodi: il
metodo culturale ovvero della conta vitale su piastra e il metodo della misurazione densità ottica, della
assorbanza a 600 nanometri).
Andiamo a costruirci una curva dose‐risposta in cui viene correlata la densità ottica alla concentrazione di
vitamina.
Abbiamo detto che la densità ottica è una misura della concentrazione (è direttamente proporzionale alla
concentrazione di biomassa), quindi andiamo a studiare come il fattore di crescita è andato a influenzare la
crescita cellulare andando a misurare la densità ottica.
La crescita della nostra cultura del microrganismo test auxotrofo è direttamente proporzionale alla
concentrazione del fattore di crescita della vitamina per il quale microrganismo presente l’auxotrofia.
Quindi possiamo costruire una retta di calibrazione in cui relazioniamo la densità ottica alla concentrazione
di vitamina.
Anche in questo caso costruiremo la retta di calibrazione considerando i tubi che corrispondono alla retta di
calibrazione cioè i tubi in cui ho inoculato concentrazioni note di vitamina quindi mi costruisco prima la
retta di calibrazione ed una volta costruita la retta vado a misurare la densità ottica dei tubi in cui ho
aggiunto il mio brodo fermentativo contenente una concentrazione X di vitamina e per interpolazione vado
a calcolare la concentrazione di vitamina nel brodo.
Anche in questo caso devo tener conto del fattore di diluizione ovvero se questa una interpolazione
corrisponde ad una diluizione di 1:5 del brodo, il valore di concentrazione che calcolo da questo grafico lo
121
devo moltiplicare per 5 per restituire una resa produttiva della vitamina nel mio processo fermentativo.
Le sostanze che esplicano attività biologica (es. vitamine e antibiotici) hanno una concentrazione
strettamente correlata all’attività biologica quindi è importante affiancare a dei saggi chimico analitici
anche dei dosaggi biologici (es dosaggi microbiologici che impiegano microrganismi test per valutare
l’attività biologica di determinate sostanze quali antibiotici, vitamine, enzimi ed endotossine).
CALLENGE TEST
Il Challenge test, che in inglese significa sfida, si applica principalmente alle preparazioni cosmetiche per
controllare la qualità microbiologica nelle formulazioni cosmetiche.
Diciamo che la contaminazione microbica delle preparazioni cosmetiche determina una serie di
conseguenze chimico fisiche, per esempio possiamo assistere alla rottura di un emulsione, quindi vediamo
separate la fase oleosa della fase acquosa e questa perdita è un indice macroscopico di contaminazione; e
ancora la contaminazione microbica può diciamo determinare cambiamenti di colore,
odore e consistenza del prodotto ma soprattutto può diventare un veicolo di
infezione.
Il rischio di contaminazione di un cosmetico dipende da due fattori principalmente:
(1)dallo stato fisico del prodotto (le preparazioni in cui predomina la fase acquosa sono più
a rischio perché i microrganismi sviluppano in fase acquosa, quindi laddove vi è una e
elevata rappresentatività della fase acquosa il rischio di contaminare sale), (2) dal tipo di
emulsionante usato infatti i detergenti non ionici che sono particolarmente efficaci possono
rappresentare dei substrati per lo sviluppo di batteri gram negativi.
eisitono dei limiti : al massimo sono consentite 103 cfu/g (colony‐forming unit/g) e cioè i cosmetici non
devono essere sterili come invece i farmaci che vengono somministrati per via parenterale ma devono stare
a dei limiti ) e devono essere assenti microrganismi patogeni come S. aureus, P. aeruginosa, C. albicans .
Le fonti di inquinamento di contaminazione possono essere (1) materie prime contaminate e quindi dalla
materia prima che si utilizza per formulare il materiale del prodotto cosmetico tra cui l'acqua, (2) impianti e
attrezzature contaminati, (3) personale addetto la produzione confezionamento e (4) contaminazione post
produzione ovvero contaminazione da parte dell'utente ovvero dell’utilizzatore.
Per prevenire la contaminazione occorre effettuare un controllo di qualità delle materie prime, curare
l'igiene dei personaggi, degli impianti e soprattutto nell’ambito cosmetico utilizzare un corretto sistema
conservante.
I conservanti sono strumenti estremamente importanti nell'ambito della cosmesi.
I conservanti sono delle sostanze che possono essere di sintesi chimica ma anche naturali che prevengono
lo sviluppo microbico di un prodotto rendendolo sicuro dal punto di vista della salute del consumatore e
mantenendone inalterate le caratteristiche chimico‐fisiche.
Fondamentalmente un osservati ideale dovrebbe avere un largo spettro d’azione (che copra sia batteri che
funghi), dovrebbe avere azione battericida più che batteriostatica cioè un'azione di uccisione di
microrganismi, il conservante ideale non dovrebbe essere sensibilizzante né irritante perché i cosmetici
vengono applicate sulla pelle, dovrebbe avere buona solubilità in acqua, dovrebbe essere stabile ed efficace
a qualsiasi intervallo di PH, dovrebbe essere stabile e non volatile a temperatura di preparazione e
conservazione, dovrebbe essere compatibile con tutti i componenti della formulazione cosmetica e con il
materiale di confezionamento, dovrebbe essere inodore, insapore e incolore.
Nella realtà non esiste nessuna sostanza che presenti di tutti questi requisiti per cui si parla di sistema
conservante cioè si utilizza una miscela di conservanti ad attività antimicrobica con un azione sinergica
complessa.
Un sistema conservante (e la sua concentrazione d’uso) è scelto sperimentalmente in funzione delle
caratteristiche del prodotto cosmetico.
La concentrazione d'uso dipende dalla MIC e viene scelta sulla base della sua MIC e quindi dovrà essere una
concentrazione superiore alle MIC.
122
Per Challenge test di intende la validazione di un sistema conservante (utilizzato tantissimo per il controllo
qualità dei prodotti cosmetici) e consiste nel contaminare deliberatamente un prodotto cosmetico con una
determinata carica microbica e successivamente monitorare lo sviluppo della popolazione microbica nel
prodotto mediate il conta vitale (il conteggio su piastre) dei microrganismi che sono stati utilizzati per la
contaminazione dopo determinati intervalli.
Quindi io vado a preparare un cocktail di microrganismi test (Escherichia coli, Staphylococcus aureus,
Pseudomonas aeruginosa, Candida albicans, Aspergillus niger) e l’inoculo previsto dalla farmacopea è di
circa 106 cfu/g di batteri e 104‐105 di funghi e di lieviti; quindi rispettando queste indicazioni di
concentrazione si va a preparare il cocktail che si ca ad inoculare nel mio prodotto cosmetico.
La prova viene fatta in parallelo sul prodotto cosmetico che contiene il sistema conservante da validare e
sul prodotto cosmetico che ha la stessa identica componentistica ma senza il sistema conservante ovvero il
nostro testimone.
In seguito all’inoculazione del cocktail nei due prodotti vado a fare conteggi a diversi tempi (t0, t1, t2, t3,t7,
714,t28 giotni dall’inoculo) e poi vado a incubare tipicamente 32‐37 ° per i batteri e 27‐32° per i lieviti.
Una volta che ho fatto la contaminazione del campione e del mio testimone faccio il primo conteggio
ovvero prelevo 1 ml e faccio il conteggio su piastra in terreno selettivo (per ogni microrganismo esiste un
terreno selettivo specifico) ed a questo punto vado a osservare i risultati durante il mese di prova.
I primi risultati li vedrò nei primi giorni mentre gli ultimi risultati alla fine del mese.
Il sistema conservante è considerato validato per i batteri e i lieviti quando si determina una diminuzione
del 99,9% della popolazione entro i primi 7 giorni (quindi vuol dire che il tempo 7 devo avere una riduzione
della concentrazione batterica e del lievito del 99,9%); per valutare la riduzione confronto l'abbattimento
della concentrazione nel campione con il sistema conservante e nel campione senza sistema conservare e
mi aspetto che nel campione senza sistema conservante non ci sia abbattimento della concentrazione
mentre nel campione con sistema conservate io immagino che nel momento in cui faccio l’inoculo il
sistema conservante cominci ad agire e quindi mi aspetto un calo della concentrazione dei batteri e lieviti
ma anche delle muffe in questo periodo di tempo in cui faccio il saggio.
La farmacopea pretende che il conservante determina una riduzione del 99,9% di tutti i batteri e i lieviti nei
primi 7 giorni mentre è più permissiva per le muffe e per i fungi in quanto è ammessa una riduzione 99%
entro i 28 giorni.
Quando si verificano queste condizioni vuol dire il sistema è in grado effettivamente di affrontare una
eventuale contaminazione microbica.
Il Challenge test dev’essere effettuato: durante lo sviluppo di prodotto cosmetico per identificare quello
che è il sistema conservante più efficace, durante gli studi di stabilità del prodotto, per verificare la stabilità
e l’attività del conservante alla data di scadenza e ogni volta che si sostituisce un componente della
formulazione o il sistema conservate stesso.
Esiste una variante del Challenge test che è il Rechallenge o il Multi‐challenge test che consiste nel valutare
il numero minimo di inoculi microbici consecutivi che rendono inattivo il sistema conservante.
In pratica con il re‐Challenge o multi‐Challenge test andiamo a simulare le molteplici contaminazioni che si
verificano in un prodotto cosmetico multidose.
Questo test ovviamente si applica soltanto su prodotti cosmetici che possono subire una forte
sollecitazione.
Tipicamente si effettuano quattro Challenge test: uno subito e le altre dopo 6, 12 e 18 mesi sempre sullo
stesso prodotto sollecitato il primo mese.
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