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Nelle città afghane le donne protestano, in campagna le cose sono più complicate – il post
Da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, instaurando il loro nuovo
regime, nelle principali città del paese si tengono quasi tutti i giorni forti proteste, molte
delle quali organizzate da sole donne, che temono di perdere le libertà conquistate nel
corso degli ultimi vent’anni sotto un regime che, tra il 1996 e il 2001, rese la vita delle
donne praticamente impossibile. Le proteste frequentate soprattutto dalle donne sono
state molto raccontate sui media, e a oggi sono il principale fenomeno di opposizione al
regime talebano tra la popolazione afghana.
La situazione, però, è molto diversa nelle zone rurali dell’Afghanistan, dove la condizione
delle donne non è cambiata in modo altrettanto evidente, e dove tutte le occupazioni – sia
quella sovietica che quella americana – sono state caratterizzate da momenti di grande
violenza, spesso contro i civili. Per le donne afghane che vivono nelle campagne, quindi, il
ritorno dei talebani ha poco o nulla a che fare con i loro diritti, la cui conquista è percepita
come qualcosa di abbastanza indipendente da chi governa il paese.
Le proteste contro il nuovo regime talebano, a cui hanno partecipato moltissime donne,
sono cominciate nei primi giorni dopo la conquista di Kabul.
Già il 17 agosto, due giorni dopo che i talebani avevano preso Kabul, alcune donne si erano
raccolte in un quartiere di Kabul per protestare contro il nuovo regime, chiedendo il rispetto
dei loro diritti. Le proteste sono poi continuate, quotidianamente, con risposte molto
violente da parte dei talebani, che hanno provocato anche dei morti.
Le donne hanno continuato a riunirsi e a protestare: «non rinunceremo al nostro diritto allo
studio, al lavoro, alla partecipazione sociale e politica», ha detto l’attivista Fariha Esar
durante una protesta del 20 agosto. Le proteste hanno coinvolto anche altre città oltre a
Kabul: a Herat, che è una delle città più liberali dell’attuale Afghanistan, decine di donne
hanno marciato per le strade con megafoni e cartelli, in una delle manifestazioni più
significative fino a quel momento, annunciando la loro intenzione di diffondere la protesta
in tutte e 34 le province del paese. Le donne afghane hanno continuato a protestare, per
due giorni consecutivi, anche dopo la presentazione del nuovo governo da parte dei talebani
(naturalmente composto da soli uomini). Anche in questo caso, i talebani hanno risposto
alle proteste con violenza. Ma le donne afghane hanno continuato a protestare: «Non ho
paura», ha detto una di loro a BBC, «continuerò a protestare ancora, ancora e ancora, fino
alla morte: meglio morire all’improvviso che farlo gradualmente».
Le proteste sono state così significative che, non riuscendo più a gestirle, i talebani le
hanno poi vietate: è stata la loro prima ordinanza da nuovi governanti dell’Afghanistan,
seguita da un altro divieto: quello, per le donne, di fare sport.
Nelle proteste delle donne afghane contro il nuovo regime ha avuto un ruolo importante
anche RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane), il gruppo autorganizzato
impegnato da quarant’anni nella lotta per i diritti delle donne in Afghanistan. In
un’intervista al Manifesto pubblicata qualche giorno dopo la conquista dell’Afghanistan da
parte dei talebani, RAWA ha detto che le donne del movimento non vogliono fuggire, ma
«rimanere e lottare contro il regime». Le donne di RAWA hanno espresso, anche in altre
occasioni la loro volontà di continuare a resistere e a lottare per i diritti loro e di tutte le
donne afghane, chiedendo a chi sta fuori dall’Afghanistan di non riconoscere il regime dei
talebani.
Le proteste delle donne afghane nelle città, però, non sono state accompagnate da reazioni
simili nelle campagne, dove vive più del 70 per cento della popolazione afghana.
L’Afghanistan rurale è infatti molto diverso da quello urbano, e ha vissuto molto
diversamente anche gli ultimi vent’anni di occupazione americana.
Nelle campagne, l’instaurazione del nuovo regime dei talebani non ha destato
l’indignazione e il malcontento che ha caratterizzato le città, né le donne intervistate hanno
intenzione di lasciare il paese. Per capire come questo sia possibile, è importante sapere
che l’Afghanistan rurale ha vissuto l’occupazione sovietica e quella americana, così come il
passato regime talebano, in modo molto diverso dalle città.
Se nelle città l’occupazione sovietica e quella americana hanno spesso portato – sebbene
con problemi e molte inadeguatezze – diritti e prosperità, nelle campagne hanno portato
più che altro violenza, spesso contro i civili. Nelle città, il regime talebano è stato vissuto
come un inferno; nelle campagne, come un momento di pace.
All’occupazione sovietica seguì una sanguinosa guerra civile tra i mujaheddin islamisti e il
governo afghano, raccontata dalle donne con immagini di cadaveri trasportati nelle
campagne, stupri e uccisioni, suoni di spari e urla che arrivavano inaspettati durante le
normali occupazioni quotidiane.
In un contesto come questo, quando nel 1996 i talebani (gruppo fondato nel 1994 dal
mullah Omar, che aveva combattuto tra i mujaheddin) presero il potere e instaurarono il
loro regime, alle donne afghane arrivò più che altro la pace: il regime talebano veniva da
loro giudicato alla luce di quanto era accaduto prima più che sulla base di qualche principio
universale di giustizia e rispetto dei diritti umani. Soprattutto, la loro vita non cambiò
granché, se non nella misura in cui smisero di sentire spari e di subire incursioni notturne in
casa da parte di stranieri che cercavano il nemico.
Nelle campagne, le donne afghane hanno vissuto quindi molto male anche l’occupazione
americana, che per loro ha significato più che altro una nuova ripresa delle violenze e della
guerra civile. Per molte di loro, l’immagine del male non corrispondeva tanto ai talebani
quanto ai comandanti dell’esercito afghano e ai soldati americani che perlustravano le
campagne, casa per casa, cercando i talebani, e a volte uccidendo civili sospettati di
esserlo, o portandoli in prigione.
Le donne raccontano anche che erano i talebani, spesso, ad avvisare la popolazione locale
degli attacchi e dei conflitti imminenti, consigliando di chiudersi in casa, di non transitare
per le strade, o chiudendo il traffico ai civili quando dovevano attaccare un veicolo militare
americano. Gli americani, invece, non lo facevano, e ogni volta che moriva un civile
l’indignazione verso di loro cresceva, anche nelle donne, che raccontano le morti
improvvise di bambini che giocavano o dormivano, di mariti o parenti uccisi da un drone
mentre partecipavano a un funerale.
Non stupisce, quindi, che i rapporti del governo americano parlassero di una percezione
«sfavorevole» delle forze di coalizione da parte della popolazione locale. Per alcune donne
che vivevano nelle campagne, gli stessi programmi di istruzione venivano percepiti come
un’imposizione di valori occidentali.
Quando pensiamo a come le donne afghane che vivono nelle campagne stiano vivendo
l’instaurazione del nuovo regime talebano, è importante avere in mente tutto questo. Per
molte di loro – che in questi vent’anni non sono andate all’università, non hanno viaggiato,
non sono diventate giornaliste, politiche o diplomatiche, non hanno vissuto in città che
crescevano e si trasformavano – la fine dell’occupazione americana e il ritorno dei talebani
significa semplicemente la conclusione della guerra.