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STORIA ECONOMICA

1° Libro: Perché l’Europa ha cambiato il mondo


CAPITOLO 1: Le civiltà agricolo mercantili avanzate tra Medioevo ed età moderna
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L’umanità visse per decine di migliaia di anni in un regime economico basato sulla caccia, la pesca
e la raccolta di frutti selvatici. Era una vita nomadica di continuo movimento, che non permetteva
insediamenti stabili, perché ciò che la natura spontaneamente offriva si esauriva rapidamente.
Le caverne erano il rifugio più diffuso, in seguito tende o capanne di rapida costruzione. La
speranza di vita alla nascita si collocava tra i 20 e i 25 anni e la possibilità di moltiplicare la
popolazione era bassa, a causa della durezza delle condizioni di vita. Gli uomini vivevano in piccoli
gruppi sparsi, in alcune zone si era sviluppato un po’ di artigianato, specialmente tessile, ma spesso
per coprirsi dai rigori del clima gli uomini usavano le pelli; per questo motivo i luoghi stabilmente
caldi erano i più adatti. Si trattava dunque di una civiltà itinerante che non poteva accumulare, né
piantare radici e che trovava difficile anche tramandare oralmente le sue tradizioni.
In alcune zone a clima più temperato dell’Asia, dell’Europa, dell’America e dell’Africa
settentrionale a partire dal 9000 a.C. ebbe luogo un’evoluzione verso la civiltà agricolo-pastorale, in
cui si coltivava la terra e si allevavano gli animali, prima in transumanza, poi anche in ambiente
fisso, così hanno inizio le prime forme di stanzialità. Da questi luoghi la “rivoluzione agricola” si
diffuse in molte parti dell’Europa e dell’Oriente. La civiltà agricolo-pastorale rivelò una notevole
capacità accumulativa e vide il fiorire di città e imperi, l’espansione della popolazione e la
diffusione della cultura; si sviluppò la scrittura e l’amore per la conoscenza.
Tuttavia il livello della vita media non cambiò a causa di epidemie e dell’elevata conflittualità.
Tra il XVI e il XVIII secolo d.C., dopo circa nove millenni di civiltà agricolo pastorale, si assiste
alla tramutazione di questa in civiltà industriale; in Europa dunque, grazie alla civiltà industriale si
triplica la speranza di vita, la popolazione si espande fino a 7 miliardi, si diffonde anche
l’urbanizzazione e anche i modi di lavoro e di vita.
Gli studiosi si sono soffermati a lungo sull’esplicazione dei motivi per cui la rivoluzione industriale
abbia avuto luogo in Europa per prima piuttosto che in altri luoghi; elementi esplicativi sono i
seguenti: il clima, la localizzazione geografica, le risorse naturali, la visione filosofico-religiosa del
mondo e l’organizzazione della società, con la creazione di istituzioni apposite.
Gli studi in merito hanno ormai mostrato che i primi tre elementi hanno svolto un ruolo facilitante,
si è infatti notato che le civiltà più dinamiche erano localizzate in aree dal clima mite e con acque
che facilitavano il trasporto l’irrigazione e la vita comune, si è anche accertato che è pieno il mondo
di aree ricchissime di risorse naturali che per svilupparsi hanno dovuto attendere l’immigrazione di
gente da lontano, perché le popolazioni locali non erano state in grado di cogliere le opportunità
offerte dalle risorse disponibili né di sfruttarle in modo efficace.
Il vero ruolo strategico nel determinare il grado di progressività delle varie società è dunque stato
giocato dalle visioni filosofico-religiose del mondo e dalla organizzazione della società che ne è
derivata, con le diverse istituzioni politiche ed economiche che si sono susseguite.
Secondo Douglas North, (uno storico economico americano cui nel 1993 venne conferito il premio
Nobel per l’economia), il vero ruolo strategico nel determinare il grado di progresso nelle varie
società è dato dal ruolo delle idee nel determinare le scelte economiche e non tanto dalla razionalità
strumentale, ovvero la razionalità mezzi-fini utilizzata dagli economisti del cosiddetto mainstream
nei loro modelli.
Paul David introduce invece il concetto di path dependence (dipendenza dal sentiero) che
riconduce la spiegazione di molte configurazioni tecnologiche e istituzionali a un determinato
percorso storico e non a leggi economiche razionali di validità universale. Catene di eventi, talora
anche casuali, finiscono col chiudere alternative che inizialmente erano possibili e col delimitare il
campo delle scelte alla particolare configurazione che si viene a cristallizzare
Come noto, l’Europa non è mai esistita come entità statuale unitaria, neanche all’epoca dell’impero
romano, che si estendeva fino a comprendere l’Africa settentrionale e l’Asia Minore, ma mal
controllava le sue aree più a nord e a est. Anche la sua matrice culturale, che derivava sì dalla
Grecia e da Roma, non proviene solo dall’area riconosciuta come Europa, perché una componente
decisiva, il cristianesimo, deriva dalla Palestina.
Tuttavia, per ragioni geografiche, religiose e storiche l’Europa si costituì come un continente
limitato a ovest, sud e nord dai mari, mentre il confine a est è stato determinato più da fattori
culturali che da fattori geografici.
All’interno di questo continente si sviluppò una dinamica molto intensa, fatta di contaminazioni
culturali, di scontri militari e di scambi economici che ne legarono i destini in molti modi. E’ quindi
corretto parlare di Europa perché tutti gli stati che l’hanno storicamente composta hanno avuto una
vita politica, economica e culturale interconnessa, anche se il continente non è mai stato unito
politicamente.
Le civiltà agrarie del centro America (incas aztechi e maia) non vengono prese in considerazione
perché isolate, poco alfabetizzate e poco mercantilizzate. Inoltre esse furono pesantemente
dominate dagli europei in una fase ancora embrionale del loro sviluppo senza capacità di contrasto e
non sono dunque candidabili ad un confronto con l’Europa in ordine ai prerequisiti che hanno
portato all’industrializzazione. L’India invece ha avuto una complessa civiltà agraria fin dal terzo
millennio prima di Cristo, collegata in molti modi sia con la Cina sia con l’Europa.
Nel corso dei secoli che consideriamo, disponeva anche di un’attività mercantile complessa e di un
certo successo. La sua vita religiosa e intellettuale è per molti versi originale, perché contiene
elementi di laicità dello stato e di pluralismo assenti in altre aree dell’Asia, come è stato
autorevolmente chiarito fra gli altri da Amartya Sen, che stanno alla base dell’evoluzione
democratica del paese nel XX secolo. Tuttavia non è stata in grado di difendersi da una prima
conquista musulmana (impero di Moghul, durato fino al XVII secolo) e poi al dominio inglese,
iniziato con la penetrazione delle East India Company nel XVII secolo. Anche l’India dunque non è
candidabile a un confronto di civiltà in ordine alla possibilità di sviluppare una rivoluzione
industriale, perché le mancavano quei prerequisiti istituzionali, prevalentemente di tipo politico, che
invece le altre aree qui considerate avevano.
Cina, Europa e Mondo islamico avevano da tempo sviluppato la scrittura, l’attività manifatturiera e
il commercio e quindi la vita cittadina, benché l’agricoltura restasse ancora l’attività più diffusa.
Nonostante tutto la caduta dell’impero romano aveva creato in Europa un ritardo che venne colmato
faticosamente; la letteratura recente ha infatti chiarito che Cina e Mondo islamico erano aree più
avanzate fino all’XI secolo dell’Europa, non furono affatto paesi stagnanti, erano invece dotati di
macchine militari complesse, di attività mercantili fiorenti di manifatture di pregio, ma rivelarono
una diversa capacità di sostenere il passo dello sviluppo nel corso dei secoli. Per comprendere le
ragioni della “grande divergenza”, fortunata espressione usata per primo da Pomeranz, le mettiamo
a confronto da tre dimensioni differenti di vista:
 Libertà e assolutismo: In Cina ha sempre prevalso un governo assoluto che
paternalisticamente proteggeva i sudditi, ma non dava loro voce, e nel caso del mondo
islamico il governo era subordinato ai precetti religiosi, con legislazioni che calavano
sempre dall’alto. E’ ormai abbondantemente chiarito che non tutti i governi assoluti sono
governi rapaci e contrari allo sviluppo economico; anzi molti di essi cercano di promuovere
lo sviluppo; ma le legislazioni emanate dall’alto non sono mai favorevoli alle attività
economiche individuali come quelle disegnate dagli stessi soggetti economici, cosa che
avveniva in quelle città e poi in quegli stati autogovernati dalle élite economiche o governati
con la partecipazione delle élite economiche in Europa. Inoltre la libertà goduta dagli
individui nelle società con governi rappresentativi è incomparabile rispetto a quella
permessa nelle società con governi assoluti.
Ancora nei governi assoluti si creano istituzioni estrattive a danno di quelle inclusive molto
più facilmente che nei governi partecipati o in qualche misura democratici; Acemoglu e
Robinson definiscono estrattive le istituzioni che mettono al servizio dell’arricchimento di
pochi il sovrappiù economico prodotto, attraverso l’estrazione di rendite; inclusive invece le
istituzioni che permettono a un gran numero di persone di partecipare all’attività economica
con pari opportunità. Secondo i due autori, lo sviluppo prodotto da istituzioni estrattive è
inevitabilmente limitato nel tempo, mentre quello prodotto da istituzioni inclusive è
sostenibile e cumulativo.

 L’Ordine: Grandi entità statali come la Cina hanno molte risorse interne e tutto l’interesse si
concentra sulla conservazione dello status quo, che favorisce tendenze isolazioniste e
difensive, mentre piccole entità cercheranno sempre di ingrandirsi e di fare campagne di
conquista; da questo punto di vista la frammentazione europea ha generato inventivi molto
maggiori alla crescita economica di quelli registrati in Cina. Le esplorazioni geografiche
sono anch’esse state frutto della frammentazione politica e della competizione per
aumentare le ricchezze dei piccoli stati europei, che avevano una dotazione di risorse sempre
limitata. Il continuo stato di guerra in cui si sono trovati i paesi europei, definito da
Hoffman “modello competitivo del torneo” ha aumentato l’incentivo all’uso delle
tecnologie a scopi militari, ha migliorato le capacità strategiche di politici e condottieri e
imposto sistemi finanziari sempre più efficienti per poter sostenere le imprese belliche.

 La giustizia: è molto significativa se vista in concomitanza con la prima dimensione, quella


del sistema di governo. Se questo è assoluto la giustizia sarà arbitraria, se invece
rappresentativo e poi democratico sarà almeno in linea di principio uguale per tutti e non
darà adito a privilegi. La tradizione giuridica dell’impero romano (habeas corpus ossia
nessuno può essere perseguito se non con prove di colpevolezza) ereditata dall’Europa fu in
questo senso molto positiva.
L’Europa si segnala per una più elevata ed efficiente tassazione, necessaria in primo luogo per scopi
militari, ma utilizzata anche per una maggiore produzione di beni pubblici che erano strategici per
lo sviluppo. Anche in Europa erano gli stati con istituzioni più rappresentative a tassare di più
cittadini, per meglio difenderli e offrire loro maggiore supporto all’esercizio delle loro attività.
Proprio per l’elevatezza delle tasse la popolazione finì per imporre un controllo del loro uso, celebre
la formula coniata in Gran Bretagna: no taxation without representation; si attivarono dunque
nuove forme di partecipazione alla conduzione degli affari dello stato.
Quello che emerge dunque dal confronto tra le tre civiltà è che l’Europa si staglia dunque come
l’area dove le libertà individuali vennero a essere maggiormente tutelate, attraverso l’esistenza di
istituzioni politiche rispettose dell’individuo, ma anche pronte a interpretarne ed appoggiarne le
iniziative economiche, e poi attraverso una pluralità di istituzioni in campo culturale come le
università libere. E’ appunto la libertà di pensiero e di intrapresa che sta alla base di un progresso
economico che si autosostiene e di quella molteplicità di realtà economiche che produce la
concorrenza, ossia la molla più potente di un continuo miglioramento nell’uso delle risorse. Si può
quindi concludere che l’Europa seppe sviluppare un ambiente favorevole all’innovazione
(tecnologica e istituzionale) perché c’era maggiore libertà e una maggiore certezza del diritto,
inoltre essa forniva più sostegno all’iniziativa individuale sia sui pubblici poteri sia sul piano
politico e militare sia su quello economico (beni pubblici).
I fondamenti filosofico religiosi dell’’Europa si rivelarono strategici nel creare e sostenere questa
dinamica politica culturale ed economica, essi si possono riassumere in quattro punti:
1. il primo fondamento sta nella definizione di persona come unico valore assoluto, in
quanto secondo il cristianesimo l’uomo è stato creato a immagine di Dio, libertà e
giustizia discendono da questa centralità della persona, questo ha permesso di
sconfiggere l’assolutismo e lo schiavismo e si solo eliminati privilegi e
discriminazioni, arrivando a proclamare l’uguaglianza di tutte le persone, con
fondamentali implicazioni in campo politico (governo rappresentativo e poi
democratico)ed economico (libertà di iniziativa individuale)
2. Il secondo fondamento vede le persone in una relazione orizzontale, di fraternità,
dunque la solidarietà, la fiducia, le relazioni d’affari non si fermano al clan, ma si
estendono in modo universalistico, da cui la nascita di istituzioni elettive e
impersonali, con la necessità di mettere in atto meccanismi formali di sanzione
(tribunali specializzati) e di garanzia della pubblica fede (notariato). Il cristianesimo
fu un potente centro di irradiazione di questa fraternità universalistica. Furono
soprattutto i francescani a elaborare sul piano teologico e filosofico il concetto di
bene comune, che rendeva l’attività dei mercanti e dei manifattori finalizzata alla
prosperità della comunità di riferimento. E’ da questo fondamento che deriva la
mentalità espansiva dei mercanti europei che li spingeva al superamento dei limiti
con qualsiasi mezzo disponibile per aumentare il volume degli affari.
Nacque così l’economia civile, ossia un economia a servizio della città in cui
ciascuno trovava il suo ruolo per i bisogni della città.

3. Il terzo fondamento è l’esaltazione dello spirito come razionalità, da cui discendono


la nascita della scienza (rivoluzione scientifica) e la diffusione dell’istruzione, ma
anche la superiorità dell’uomo sulla natura.

4. Cruciale il quarto elemento, la separazione dei poteri, per evitare una concentrazione
degli stessi in poche mani e per permettere i check and balances, ossia il controllo
reciproco; questo ha portato prima alla distinzione tra potere civile e religioso, poi d
un’articolazione della società in corporazioni, infine alla separazione dei poteri
legislativo, giudiziario, esecutivo.
Furono queste le caratteristiche che permisero il nascere di pratiche economiche largamente
inclusive, capaci di offrire un vantaggio comparato all’Europa già prima della rivoluzione
industriale.

CAPITOLO 3: Perché la Gran Bretagna fu la prima nazione europea a industrializzarsi


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1. Nascita di un eccezione: la monarchia parlamentare inglese e il mercantilismo
La Gran Bretagna riuscì sull’arco di qualche secolo a riunire il maggior numero di quelle condizioni
favorevoli alla crescita; non solo aveva un clima mite e ricco di acque, non solo si trovò in una
posizione geograficamente strategica per partecipare alle esplorazioni geografiche, ma fu inoltre in
grado di far evolvere la propria cultura e il proprio sistema politico-istituzionale in modo da
sostenere al meglio le condizioni per l’innovazione e per l’investimento. Fu poi anche fortunata da
avere importanti riserve di carbone abbastanza superficiali, ma si può facilmente credere che anche
senza queste soluzioni energetiche avrebbe comunque trovato una soluzione, come avvenne per
l’industria del cotone, che non poteva godere di materie prime nazionali, ma venne sostenuta da
importazioni organizzate dalla Gran Bretagna stessa.
Dal punto di vista politico la Monarchia Inglese divenne sempre meno assoluta già con
l’introduzione della Magna Carta nel 1215, che conteneva una serie di clausole limitanti il potere
del re nei confronti degli ecclesiastici, dei baroni e persino della gente comune; in questo modo si
rafforzò sempre di più la consultazione di baroni ed ecclesiastici prima, con l’aggiunta dei
commons dopo, specialmente su questioni di finanza pubblica, pur in un continuo braccio di ferro
con i re.
Nel XVII sec. Si verificarono forti scontri che culminarono nel breve episodio repubblicano di
Cromwell, ma videro delle scaramucce anche in seguito, fino a quando nel 1688 con la Rivoluzione
Gloriosa il Parlamento assunse il controllo diretto della finanza pubblica, istituì un debito pubblico
distinto dalle finanze del re e fondò, nel 1694 la Banca d’Inghilterra. Di lì in poi la monarchia restò
un simbolo dell’unità della nazione, ma non governò più, mentre il governo rappresentativo andò
sempre più rafforzandosi fino ad arrivare a una vera e propria democrazia. Tuttavia essendo un
regno, aveva anche maggiori risorse militari delle città-stato per contrastare le potenze straniere e
sostenere le proprie imprese, con la forza della sua flotta militare, ma soprattutto con politiche
economiche che vennero definite “mercantiliste”. Fra le principali vanno annoverate i divieti di
esportare lana grezza per incentivarne la lavorazione in suolo inglese, di permettere l’emigrazione
di artigiani specializzati e l’esportazione di macchinario, allo scopo di utilizzare tutta la capacità
produttiva in patria. Ma certamente il provvedimento più importante fu quello che si concretizzò
negli Atti di navigazione, primo dei quali venne emanato sotto il governo repubblicano di
Cromwell nel 1651, che prescrivevano che il commercio da e per la Gran Bretagna dovesse essere
fatto con navi britanniche, evitando di utilizzare porti di altri paesi europei come tappe intermedie.
Venne così strappato il primato del commercio marittimo ai Paesi Bassi, favorendo anche la crescita
dell’industria delle costruzioni navali in Gran Bretagna. Successivamente il Calico Act (1701-
1721), attraverso il quale si proibiva l’importazione di tessuti di cotone stampato indiani, fu un
potente stimolo per l’industria cotoniera nazionale che fu una delle industrie leader nella
rivoluzione industriale inglese.
2. Altre spiegazioni della localizzazione della rivoluzione industriale in Gran Bretagna
Dal punto di vista giuridico, la Gran Bretagna sviluppò il Common law che presentava un alto grado
di adattamento ai cambiamenti che avvenivano nella società, perché legiferava e amministrava la
giustizia sulla base delle mutate consuetudini accertate attraverso i casi esaminati, che si facevano
modelli per le applicazioni successive, piuttosto che sulla base della conformità a un corpo di leggi
che solo a intervalli spesso molto lunghi potevano essere modificate. Questo rafforzò sempre di più
la protezione degli interessi dei privati contro altri privati, ma anche contro l’invadenza dello stato.
La vicenda delle enclosures rivela meglio di ogni altra il processo di progressiva privatizzazione
delle risorse che avvenne in Gran Bretagna, al fine di una loro migliore e più efficace utilizzazione,
capace di far aumentare la produttività di tutto il sistema. Al tempo stesso, per evitare che il diritto
di proprietà danneggiasse chi non era in grado di avvalersene, venne introdotta una legislazione
universalistica detta Poor law, che a partire già dal 1601 impose la tassazione dei ricchi a scopo
redistributivo, per il finanziamento di sussidi e case di lavoro volte al sollievo della disoccupazione
e dell’inabilità, col chiaro obiettivo di utilizzare al massimo le forze produttive del paese, assicurare
un ordine pubblico che non intralciasse l’ordinato svolgersi delle attività economiche e sostenere i
consumi.
In questo modo la certezza di avere una rete di salvataggio aumentò la propensione al rischio,
abbassò il tasso di violenza, con una riduzione delle rivolte, sostenne i consumi interni e offrì
occasioni di lavoro e di apprendistato anche a chi non era stato in grado di procurarsi un lavoro
autonomamente.
La Gran Bretagna intraprese l’avventura delle esplorazioni geografiche, del commercio
internazionale e del miglioramento dei trasporti per mare che la portarono alla creazione delle
compagnie commerciali specializzate in particolari rotte, al colonialismo rivolto a tutte le parti del
mondo, al superamento delle prime potenze coloniali.
A Londra si svilupparono le merchant banks che fornivano capitali soprattutto per commerci e altre
attività internazionali.
Le colonie permisero alla Gran Bretagna di delocalizzare le produzioni più intensive in terra che
sono a basso valore aggiunto, per specializzarsi in attività che producevano maggiori ricchezze.
Un altro elemento strategico è la diffusione dell’European marriage pattern, ossia la pratica della
famiglia nucleare; questa si sposa più tardi, tende a mandare al lavoro, soprattutto prima del
matrimonio, anche le donne, pratica un rapporto più paritario tra gli sposi, ha meno figli e tende ad
educarli meglio per renderli autonomi, è più aperta a legami esterni, da cui tutte le corporazioni
costruite con altri soggetti (monasteri, università, colleggi…) E’ la famiglia nucleare che sviluppa
quelle virtù “borghesi” di attaccamento al lavoro ben fatto, di promozione dei talenti individuali, di
igiene e intraprendenza che sono ritenuti necessari per il progresso economico e per la rivoluzione
industriale inglese.
Fra i più recenti contributi che hanno cercato di spiegare come mai la rivoluzione industriale è
avvenuta in Gran Bretagna occorre citare i lavori di Allen, Kelly, Mokyr, e O’Granda.
Allen sostenne che furono i salari più elevati dovuti alla Peste nera a spingere la Gran Bretagna a
innovazioni, soprattutto quelle labour savings, che potessero sostenerli. Kelly, Mokyr e O’Grada lo
rimproverarono di non aver tenuto conto che poche delle innovazioni inglesi andarono nella
direzione di risparmiare lavoro; questi si soffermarono invece sulla produttività del lavoro inglese,
che stava sì alla base di salari più elevati, ma spiegherebbe perché i salari più elevati non si
tramutavano in un costo più elevato per unità di prodotto, in questo modo garantendo alle
manifatture inglesi competitività.
3. Caratteristiche della rivoluzione industriale
La Gran Bretagna, realizzò la sua piena trasformazione industriale nei due secoli tra la metà del
Seicento e la metà dell’Ottocento. Nuovi processi di produzione sempre più meccanizzati vennero
introdotti in vari rami industriali, particolarmente nella filatura e nella tessitura di cotone, mentre
nella lavorazione del ferro si utilizzò del carbon coke, l’innovazione che con i successivi
perfezionamenti permise di produrre ghisa e poi acciaio attraverso il puddellaggio, non solo
liberandosi dalla dipendenza dal sempre più scarso carbone di legna, ma anche producendo un
prodotto più affidabile e resistente.
L’innovazione più importante fu la messa a punto della caldaia a vapore, un processo che venne
perfezionato sull’arco di quasi un secolo dal 1698 e il 1782, utilizzata sempre nelle miniere, dati i
gravi problemi di aspirazione dell’acqua e la presenza in loco del carbone. Si passò poi
all’applicazione alle filande di cotone (1785) al posto dell’energia idraulica, quindi fu la volta
dell’industria del ferro, di altri rami industriali, infine dei trasporti, con la costruzione della prima
locomotiva funzionante nel 1801. Con la macchina a vapore si cambiavano le modalità di
sfruttamento della terra, si passava dallo sfruttamento della crosta terrestre allo sfruttamento anche
delle risorse del sottosuolo liberando il suolo per la produzione di cibo e di qualche importante
materia prima (come il cotone), che non dovevano più competere con la produzione di quegli altri
beni che sottraevano spazio alle coltivazioni. Questo passaggio ebbe effetti mai visti prima di
innalzamento della produttività, questo perché le riserve del sottosuolo erano stock di grandi
proporzioni e non dei flussi limitati dall’estensione della terra e dall’andamento delle stagioni.
Perfezionando le macchine si potevano dunque aumentare l’estrazione e l’utilizzazione di tali stock
a piacimento, rendendo possibili forti accelerazioni produttive. Inoltre data una fonte di energia così
abbondante vi era un notevole incentivo a potenziare le macchine sempre di più, arrivando a
muovere complessi industriali e infrastrutture di colossali dimensioni, capaci di produrre quantità
mai prima viste di prodotti anch’essi mai prima visti. Dopo la rivoluzione industriale la povertà
diventa una responsabilità sociale legata alle modalità di distribuzione dei prodotti e non alla loro
insufficienza assoluta. Nessuna delle invenzioni importanti della rivoluzione industriale inglese
richiese basi scientifiche diverse da quelle presenti nell’impero romano. Persino la caldaia a vapore
era nota, ma non se ne era apprezzata l’utilizzabilità pratica e, come la polvere da sparo in Cina,
veniva impiegata solo per attività ludiche. Anche la visione energetica rinvia ad altre cause prime
più importanti, come le opportunità che si vedevano nei mercati di fare profitti vendendo di più aa
prezzi più bassi, il che forniva un forte incentivo a cercare fonti di energia più potenti e macchine
sempre più automatizzate per aumentare il flusso dei prodotti disponibili e contenerne i costi.

CAPITOLO 4: Modelli di imitazione della rivoluzione industriale


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1. I motivi dell’imitazione
Tre sono i fattori che hanno determinato un processo di imitazione della rivoluzione industriale
inglese da parte di molti paesi europei. Il primo è senz’altro il fatto di condividere con la Gran
Bretagna molti degli elementi che avevano portato alla rivoluzione industriale, anche se con
diversità notevoli da paese a paese, e persino, come si vedrà da regione a regione. Il secondo sta nel
passaggio rapido delle informazioni in uno spazio abituato agli scambi di idee, persone e cose. Ciò
che era avvenuto in Gran Bretagna dimostrava a chi era rimasto indietro la fattibilità di certi
avanzamenti (effetto di dimostrazione). Il terzo, infine, consiste nello spirito di competizione che ha
sempre animato le nazioni europee, prima ancora che i suoi cittadini, e ha sempre impedito
l’accettazione di una perdita relativa di potere di una nazione nei confronti di un’altra (è un effetto
denominato bilanciamento dei poteri, balance of power). Ora, non c’è niente di più dirompente
della rivoluzione industriale per alterare gli equilibri di potere, conferendo alla Gran Bretagna un
reddito e una ricchezza che aumentavano più rapidamente che non negli altri paesi e facendo
crescere esponenzialmente il divario, per la prima volta senza bisogno di guerre che conquistassero
nuove colonie o nuovi territori.

2. Una teoria dell’imitazione senza differenze


Molti sono stati coloro che hanno creduto in una imitazione senza varianti, trattando qualunque
differenza come una devianza che ritardava il successo dell’imitazione e giudicando i vari governi
sul metro della loro capacità o meno di ricreare nei propri paesi condizioni simili a quelle inglesi.
La più nota e significativa teorizzazione di questo tipo è quella di Walter Rostow, che nel 1960
produsse una teoria a stadi del processo di trasformazione di una società da agricola a industriale, e
applicabile a qualunque paese in via di industrializzazione. Gli stadi della teoria sono cinque:
1: la società tradizionale. Questo è il punto di partenza precedente la trasformazione, in cui il
sistema economico è bloccato su un trend di stagnazione dal basso sfruttamento delle risorse
naturali del suolo, dall’aumento della popolazione e dagli eventi naturali catastrofici (come la peste
e le carestie)
2: la transizione. A un certo punto (qui la ricerca di Rostow non è approfondita) la società inizia ad
abbandonare la tradizione, a cercare il mutamento. Questo fa nascere figure imprenditoriali, che
accumulano capitali, propri e di altri, da rischiare in attività nuove, pur senza ancora avere impatto
rilevante a livello aggregato;
3: Decollo (take off): Quando si forma un gruppo sufficientemente numeroso di imprenditori
dinamici, i nuovi investimenti assumono una dimensione consistente dal punto di vista
macroeconomico e il sistema presenta un’accelerazione, incominciando un percorso di
accumulazione del capitale e incremento della produttività autosostenentesi, con tassi di crescita
della produzione e del reddito mai prima sperimentati. In generale il sistema economico non viene
investito delle innovazioni in maniera uniforme, ma incomincia prima da certi settori che svolgono
il ruolo di settori-guida nei confronti di altri, generando un tipico processo di crescita settoriale
“squilibrata” (unbalanced), che solo con il tempo riesce a trascinare in avanti tutto il sistema,
attestandolo su nuove frontiere tecnologiche.
4: la maturità: Quando l’intero sistema si è modernizzato, si entra in una fase di rallentamento della
crescita dovuto a un restringersi delle opportunità di investimento e a un ridursi della creazione di
nuove tecnologie. L’investimento ristagna e dunque si possono dedicare più risorse ai consumi,
entrando nell’ultimo stadio del processo.
5: l’età dei consumi di massa: Mentre il periodo precedente è un periodo di compressione dei
consumi, per far posto ai grandi investimenti necessari a modernizzare l’intero sistema economico.
Solo dopo che questo periodo è terminato il tasso di accumulazione dell’economia può abbassarsi e
più potere d’acquisto può essere distribuito per il consumo. Questo incentiverà le imprese
produttrici di beni da consumo a investire in processi di standardizzazione della propria produzione,
per abbassare i costi e allargare quel mercato dei beni di consumo, che diventa cruciale per il
mantenimento di un tasso di crescita del sistema.

3. Teorie dell’imitazione con differenze

Alexander Gerschenkron, di origine russa, emigrato in Austria dopo la rivoluzione d’ottobre, poi
approdato negli Stati Uniti dopo l’invasione nazista e diventato professore ad Harvard; grazie ad
una conoscenza di prima mano di lingue e realtà europee tanto diverse da quella anglosassone riuscì
a mostrare le differenze tra paesi europei più che le somiglianze e a formulare una spiegazione dei
processi di imitazione basata, appunto, sulle differenze.
La sua teoria si focalizza solo su due stadi della teoria rostowiana, ovvero la transizione e il decollo,
cercando così di identificare i meccanismi che permettono ai vari paesi di iniziare il processo di
sviluppo, pur trovandosi nella posizione di “ritardatari”. Egli comincia la sua riflessione avanzando
il concetto di arretratezza relativa, con il quale posiziona i vari paesi europei ad una distanza dalla
Gran Bretagna – paese leader – commisurata all’importanza e alla quantità di condizioni per lo
sviluppo presenti in Gran Bretagna e assenti altrove. Il paese più vicino alla Gran Bretagna è quello
che ha maggior probabilità di imitarla senza ritardi e senza importanti varianti.
Quanto più ci si allontana dalle condizioni della società inglese, tanto più difficile diventa
l’imitazione e sempre più probabile il ritardo, che naturalmente aggrava la posizione del
ritardatario, in quanto il divario si allarga sempre più. Gerschenkron vede, tuttavia, una possibilità
di recupero da parte di quei paesi che si rivelano in grado di attivare dei fattori sostitutivi degli
originali prerequisiti inglesi mancanti, fattori sostitutivi capaci di svolgere il medesimo ruolo dei
prerequisiti inglesi, sia pur in modo diverso. Poiché non tutti i paesi sono in grado di identificare
questi fattori sostitutivi, non tutti sono in realtà capaci di industrializzarsi o lo fanno in tempi molto
diversi, quando arrivano appunto ad attivare questi fattori sostitutivi.
Nel suo fondamentale volume del 1981, Sidney Pollard sviluppa due concetti che si sono rivelati
altamente significativi come basi di partenza per ulteriori ricerche.
- Il primo suggerisce un’importante correzione nell’unità base di applicazione della teoria
gerschenkroniana. Pollard ribadisce che non la nazione, ma la regione che decolla economicamente,
per regione intendendosi un’area, più o meno vasta, di attività economiche interconnesse attorno a
un centro propulsivo, area che spesso coincide con un’unità amministrativa, ma non sempre. Se nel
caso della Gran Bretagna il caso ha voluto che tutte le sue regioni decollassero più o meno
contemporaneamente, in nessun altra nazione questo è avvenuto, mostrando tutte dualismi più o
meno accentuati, quando non vere e proprie enclaves di sviluppo in un mare di arretratezza
perdurante. Dunque Pollard ha sottolineato che qualsiasi analisi aggregata a livello nazionale perde
efficacia e precisione nel delineare le caratteristiche del decollo, ma anche le vicende successive,
quanto più le aree dinamiche, vengono ad annegarsi in contesti di immobilismo. Un’analisi
regionale, che confronta le regioni dinamiche fra di loro e dà ragione dei motivi dell’immobilismo
delle altre, porta a risultati generalizzanti molto più significativi sul lungo periodo.
- Il secondo richiamo pollardiano focalizza l’attenzione su dei fattori che potremmo definire di
interferenza. Pollard sottolinea con il suo concetto di differenziale della contemporaneità che vi
sono eventi di tale risonanza internazionale che interferiscono con i sentieri predisposti dalle
decisioni dei singoli paesi, deviandoli talora in senso negativo, rispetto alle direzioni impresse
internamente, cosa che rende inevitabile l’analisi e la considerazione anche degli sviluppi
dell’economia internazionale per poter adeguatamente comprendere le diversità di percorsi
nazionali.
L’esempio che Pollard fornisce è quello delle ferrovie; tra le innovazioni della rivoluzione
industriale inglese che fecero più scalpore all’estero, senz’altro le ferrovie occupano il primo posto
nell’immaginario popolare come nelle preoccupazioni di tutti i governanti dell’epoca. Sembrò che
nessun paese potesse fare a meno delle ferrovie, ma la sfida da esse posta ai vari ambienti
economici nazionali produsse risultati non solo del tutto diversi, ma anche non sempre coerenti con
le direzioni di sviluppo delle varie nazioni. In Gran Bretagna le ferrovie non furono causa dello
sviluppo, ma il frutto maturo dello stesso e si materializzarono quando il paese non aveva certo
problemi di raccolta dei finanziamenti necessari, né problemi di interdipendenze settoriali da
risolvere (esistevano già un’industria meccanica e metallurgica adeguate). In Belgio, Francia,
Germania e Stati Uniti le ferrovie furono una potente molla di sviluppo, che indusse la costruzione a
monte di un’industria metalmeccanica nazionale, l’attivazione di canali di finanziamento adeguati e
nel caso statunitense (per le dimensioni colossali raggiunte dalla rete) anche di sistemi di gestione
su larga scala che furono il primo campo di applicazione di quell’organizzazione scientifica del
lavoro attraverso la quale gli Stati Uniti divennero potenti e famosi. In paesi più arretrati come
l’Italia, le costruzioni ferroviarie decise all’indomani dell’unificazione da governi che le vedevano
come un potente strumento di modernizzazione del paese necessitarono di notevoli flussi di
importazioni di materiali dall’estero senza indurre la nascita di un’industria metalmeccanica
nazionale se non verso la fine e non ebbero un grande successo commerciale, così che finirono col
pesare sulla finanza pubblica. Proprio Gerschenkron si chiese come mai i governanti italiani
decisero di introdurre le ferrovie prima che il paese fosse pronto a trarre da esse tutto il beneficio
economico possibile; ebbene, Pollard offre una risposta assai persuasiva: un tipico fattore di
interferenza, un “differenziale della contemporaneità”. Ancora peggio andò alla Turchia e ad altri
paesi ancora più arretrati, dove le ferrovie furono un lusso inutile, acquistato interamente dall’estero
e pagato (quando poi veniva pagato) con lo sfascio di finanze pubbliche già dissestate.

4. Il ruolo dello stato


Seguendo Gerschenkron in qualche caso lo stato è visto come fattore sostitutivo per il decollo ma
altrimenti la sua presenza è stata in generale notata solo quando mal si è comportato, fino
all’estremo paradosso di Pollard, che considera lo stato tanto più benefico allo sviluppo quanto
meno presente.
Sul ruolo dello stato si può avanzare una triplice tipologia:
1. Lo stato minimale: I sistemi capitalistici industriali non possono funzionare
adeguatamente senza un livello minimo di stato che garantisca difesa e law and order
(ossia una legislazione che stabilisca le regole del mercato, fra cui in prima linea la
difesa della concorrenza) e fornisca un bene pubblico essenziale, uno di questi è la
moneta e la banca centrale che amministra la moneta. Naturalmente a fronte di questi
ruoli, lo stato effettua una spesa pubblica che finanzia mediante tassazione.
2. Lo stato ad economia mista: In un economia mista lo stato produce molti altri beni
pubblici (istruzione infrastrutture compresa l’edilizia popolare), mentre assume ruoli di
supplenza del privato.
3. Lo stato massimale: Lo stato viene ad assumere tutte le responsabilità produttive. Si
tratta di un modello estremo che nega che nega le radici del capitalismo
Il modello storico dei paesi avanzati occidentali è quello a economia mista.

Capitolo 5: I principali casi di imitazione in Europa


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Il periodo che consideriamo adesso si ferma alla vigilia della prima guerra mondiale, che è un caso
evidente di differenziale della contemporaneità, essa andò ad interferire pesantemente con gli
sviluppi di tutte le economie che vi parteciparono, e anche, seppur in minor misura, con quelle che
non vi parteciparono, per cui, pur nella diversità degli stadi di sviluppo raggiunti, tutti i paesi
dovettero reagire alla guerra, generando una catena di reazioni che si studiano più agevolmente
come “effetti” della prima guerra mondiale.
1. Belgio
Il Belgio era il paese con una dotazione di risorse più simile all’Inghilterra, con una lunga tradizione
marittima (soprattutto il porto di Anversa), commerciale e manifatturiera preindustriale e una
significativa immigrazione di imprenditori, in particolare dalla Gran Bretagna. Si tratta di un
piccolo paese (7,7 milioni di abitanti nel 1913) che consiste in pratica di due sole regioni: Fiandre
(di lingua olandese) e la Vallonia (di lingua francese) unite dalla capitale Bruxelles. Il Belgio aveva
attraversato difficili sconvolgimenti politici, prima sotto gli spagnoli, poi sotto gli Asburgo, quindi
era stato incorporato nell’impero francese e dopo la restaurazione accorpato ai Paesi Bassi; si rese
infine regno autonomo dopo una rivoluzione poco cruenta nel 1830. Tutto questo non aveva però
impedito di sviluppare l’industria sul modello inglese, il che mostra quanto forte sia il radicamento
regionale del meccanismo di sviluppo: il Belgio è appartenuto a diverse nazioni, da cui non ha
assunto sul piano economico né direttive né incentivi, continuando in contesti politici diversi, ma
non soffocanti, a coltivare autonomamente i propri interessi economici.
Prima fu il turno della lana, impiantata a Verviers a partire dall’inizio del Settecento da una famiglia
originaria della Savoia; poi vennero le miniere, specie quelle di carbone, equipaggiate con caldaie a
vapore da numerosi imprenditori; quindi fu la volta delle macchine filatrici, introdotte da Cockerill,
un meccanico originario di Leeds, che in seguito costruì una grande fabbrica metalmeccanica nei
pressi di Liegi (nel 1830 era la più grande impresa belga) imitato da altri imprenditori. A rafforzare
e coordinare questa intensa attività imprenditoriale vennero create banche che rivelarono ben presto
un notevole dinamismo. Nel 1822 venne fondata a Bruxelles come società per azioni la Société
générale pour favoriser l’industrie nationale des Pays Bas, nota dopoil 1830 Société générale de
Belgique, una particolare banca di investimento, che non solo deteneva pacchetti azionari di
imprese industriali, ma le creava in prima persona e ne seguiva da vicino gli interessi,
configurandosi come l’antenata delle moderne holding finanziarie e dando al Belgio un originario
strumento finanziario non presente in Gran Bretagna. Tale fu il successo di questa banca che nel
1835 ne venne creata un’altra simile, la banque de belgique, che in meno di quattro anni fondò o
rilevo ventiquattro imprese industriali, alcune di notevole dimensione. Inoltre dopo l’indipendenza,
il governo finanziò la costruzione di un’estesa rete ferroviaria, che diede altro lavoro alle industrie
metalmeccaniche e del carbone. Fino alla prima guerra mondiale il Belgio sarà il paese più
industrializzato del continente.
2. Francia
La Francia presenta invece, una forte differenziazione dal modello inglese. Proprio queste
distinzioni, in un periodo in cui si consideravano aberrazioni le devianze dal modello inglese hanno
prodotto una visione negativa dello sviluppo francese, considerato a lungo dalla storiografia lento e
ritardato, anche perché non studiato direttamente da Gerschenkron, che aveva preferito interessarsi
della Germania, della Russia e persino dell’Italia. La Francia non fu, nonostante la presenza di molti
fattori che l’avrebbero resa possibile, la prima nazione ad industrializzarsi, infatti nel settecento era
un paese assai più popoloso della Gran Bretagna, con un mercato interno grande e unificato già dal
Medioevo, un’agricoltura abbastanza prospera, anche se non così dinamica come quella inglese e
con una zona mediterranea più povera e istituzionalmente più arretrata, una buona tradizione di
manifatture preindustriali, una crescita economica nel Settecento non irrilevante; tuttavia i livelli di
diffusione della cultura erano più bassi, la distribuzione del reddito più polarizzata, l’aristocrazia
meno orientata agli affari, soprattutto perché la monarchia era più assoluta di quella inglese. Gli
inizi della rivoluzione francese furono determinati proprio da un forte contrasto tra monarchia e
borghesia sulla questione di chi avesse la responsabilità ultima di introdurre nuove tasse, questione
che gli inglesi avevano risolto a favore del Parlamento un secolo prima. La rivoluzione francese,
poi, con i suoi estremismi, e infine la salita al potere di Napoleone trascinarono la Francia in un
conflitto permanente per 25 anni (1790-1815) che, se stimolò certe industrie, tagliò però fuori la
Francia dalle innovazioni inglesi e distorse l’uso delle risorse. In sostanza furono proprio i fattori
istituzionali a rivelarsi meno favorevoli rispetto alla Gran Bretagna, anche se di certo la Francia non
poteva contare su miniere di carbone altrettanto abbondanti, superficiali e di buona qualità come la
Gran Bretagna. L’indomani della restaurazione la Francia si scopriva in ritardo rispetto alla Gran
Bretagna, senza quell’egemonia sul continente europeo per la quale aveva a lungo lottato e con una
proiezione incompatibilmente minore di quella inglese sul piano del commercio mondiale. Ma uno
sviluppo industriale ci fu e se calcolato pro capite per scontare l’effetto della lenta crescita
demografica, fu di tutto rispetto, perché permise alla Francia di tener dietro allo sviluppo della Gran
Bretagna, ma con un andamento ciclico e senza periodi di particolare accelerazione che possano
essere identificati come un decollo reso più rapido dai vantaggi dell’arretratezza e capace di
permettere alla Francia l’aggancio con la Gran Bretagna. Si mantennero molto importanti la
tradizionale industria dei tessuti di seta, localizzata particolarmente a Lione, e quella della moda, in
cui la Francia era leader; crebbe l’industria meccanizzata del cotone; si impiantò la moderna
industria siderurgica, di cui il complesso di Le Creusot, aperto nel 1785 con l’aiuto finanziario di
luigi XVI, fu il più famoso. Poi iniziò l’epoca delle ferrovie, quindi quella dell’elettricità e
dell’automobile, che vide la Francia in prima linea, come leader in Europa con le sue famose case
automobilistiche: Panhard (1885), Peugeot (1895), Renault (1898), le quali tuttavia non seppero
volgersi alla produzione di massa se non più tardi, come imitatrici degli Stati Uniti.
L’industria Francese era dunque molto più diversificata di quella inglese, più dispersa nelle
campagne, quando non era localizzata nei dintorni di Parigi, di dimensioni generalmente più ridotte,
perché spesso impegnata in lavorazioni di carattere artigianale, ad alto valore aggiunto, per
consumatori di elevato potere d’acquisto, ancora più della Gran Bretagna volta verso la produzione
di beni di consumo (industria leggera)e largamente finanziata dagli stessi proprietari mediante il
reinvestimento dei profitti. Fu solo durante il secondo impero che Napoleone incentivò la creazione
di nuovi istituti finanziari, il più famoso dei quali, la Société Gènérale du crédit mobilier, nota come
Crédit mobilier, venne fondato nel 1852 dai fratelli Pereire; il Crédit mobilier intraprese un’attività
finanziaria di grane sostegno alle imprese industriali che sarebbe diventata cruciale in Germania, ma
il diverso contesto economico non ne permise la completa affermazione, fino al suo fallimento nel
1867. In seguito fu fondata la Banque de Paris et des Pays Bas e altre banche d’affari, ma
l’importanza della banca a scopi di finanziamento dell’industria francese non fu mai grande. Lo
Stato fu assai meno interventista che non nel periodo prerivoluzionario, limitandosi ad appoggiare
la costruzione di infrastrutture (specialmente ferrovie), a mantenere un certo protezionismo e a
sostenere una serie di importanti scuole superiori tecnico-professionali.
3. Germania
La Germania conservò a lungo le proprie tradizioni localistiche, restando nel settecento
frammentata in una pluralità di staterelli (oltre 400), tra cui uno solo si stagliava per dimensione e
potenza, la Prussia degli Hohenzollern, una dinastia arrivata al potere nel XV secolo in
Brandeburgo e ingranditasi per via ereditaria, che aveva attivato una macchina statale efficiente e
un potente esercito, ma non era riuscita a modernizzare l’economia. Anche dopo il periodo
napoleonico che aveva visto l’abolizione della servitù della gleba (1807), l’eliminazione delle
corporazioni e la liberalizzazione della terra, e dopo che il Congresso di Vienna aveva semplificato
la geografia politica della Germania in 39 stati, l’area non decollava, a dispetto della notevole
disponibilità di bacini carboniferi della Ruhr. Fu ancora la Prussia a iniziare nel 1818 quell’apertura
agli scambi internazionali, abbassando e semplificando i dazi, che l’avrebbe posta al centro di un
processo di aggregazione degli altri stati in un unione doganale (Zollverein), definitivamente
introdotta nel 1833, che aboliva i dazi interni e adottava moderati dazi esterni della Prussia. Il
decollo tedesco si colloca a cavallo tra l’epoca delle ferrovie (e delle grandi acciaierie) e la seconda
rivoluzione industriale, basata su elettricità, chimica organica e motore a scoppio; sono infatti
settori ad alta intensità di capitale (industria pesante), che richiedono imprese di notevoli e flussi di
finanziamento che eccedono le capacità di singole famiglie.
La Germania riuscì, come vedremo, a sfruttare al massimo le potenzialità dei nuovi settori
industriali, diventando il più grande produttore europeo di acciaio e leader in Europa e nel mondo
nell’elettricità e nella chimica, dotandosi di numerosi banche costituite in società per azioni
(Kreditbanken), che finanziarono ampiamente le nuove iniziative industriali – Deutsche Bank
(1870); Commerz Bank e Dresdner Bank (1882)- Si tratta di banche con modalità di funzionamento
del tutto innovative rispetto a quelle di tipo anglosassone. Esse, infatti, erano al contempo normali
banche commerciali, che raccoglievano i depositi da una vasta clientela e davano credito a breve
termine, e banche d’investimento, che incanalavano verso il credito a lungo termine non solo i
propri capitali, ma anche parte dei depositi dei loro clienti, superando la specializzazione del credito
di stampo anglosassone. Per questo motivo venivano chiamate banche miste, ma anche banche
universali, non solo perché non erano specializzate, ma anche perché offrivano alle imprese loro
clienti numerosi altri servizi, come collocamento di azioni, operazioni di ristrutturazione del
capitale, interventi di salvataggio, cosicché si diceva che assistessero le imprese “dalla culla alla
bara”. Esse spesso possedevano qualche pacchetto azionario di imprese, soprattutto con lo scopo di
piazzare qualche loro uomo nei consigli di amministrazione delle imprese per poterne seguire
l’andamento da vicino, ma in generale evitavano di diventare azionisti di riferimento. Poiché i
rappresentanti di ogni singola banca sedevano in più consigli di amministrazione, questi si
trovavano a possedere informazioni di prima mano su complessi industriali, a volte su interi settori,
favorendo, anche per abbassare i propri rischi, forme di protezione del mercato interno e di
organizzazione della produzione come i cartelli, di cui se ne contavano nel 1914 quasi mille, e un
moderato protezionismo esterno, che poteva essere rafforzato dal dumping. Per far fronte a crisi
temporanee, tali banche necessitavano di una banca centrale molto più interventista della Bank of
England o della Banque de France e così infatti si comportò la Reichsbank. Il tipo di sistema
economico che emerse da questa innovazione istituzionale della banca mista è un sistema molto più
coeso e coordinato ex ante, che Chandler ha definito “cooperativo” e gli studiosi tedeschi preferisco
definire “organizzato”, molto diverso dal sistema quasi concorrenziale, con imprese di piccole
dimensioni, tipico della Gran Bretagna e anche dal sistema americano. L’importanza della banca
mista venne per primo segnalata da Gerschenkron, che ne fece il suo esempio preferito di fattore
sostitutivo. Acciaio, elettricità e chimica, oltre a una buona industria delle macchine, furono i settori
portanti dell’industria tedesca. Nella chimica nacquero le tre famose imprese Bayer, Basf e Hoechst,
che impiantarono con sistematicità la carbochimica, ossia quella catena di lavorazione del carbone
che produceva intermedi da cui potevano derivare tutti i coloranti artificiali, un quantità
sorprendente di farmaceutici e gli esplosivi. All’alba della prima guerra mondiale la Germania
deteneva oltre la metà delle esportazioni chimiche del mondo e non aveva rivali. Nell’elettricità le
due grandi imprese Siemens e Aeg investirono in tutta Europa e rivaleggiarono a livello mondiale
con le due grandi imprese americane General Electric e Westinghouse, mentre nell’acciaio i nomi di
Krupp e Thyssen divennero mitici. Si trattava di imprese di grandi dimensioni, tutte collocate in
quella che è stata definita “l’industria pesante”, che può facilmente essere convertita in industria di
guerra, il che favorì la politica nazionalistica degli Hohenzollern che ritennero di essere in grado di
guadagnarsi con le armi l’egemonia in Europa fino a portare la Germania alla prima guerra
mondiale. La base scientifica della tecnologia utilizzata in queste imprese era più avanzata di quella
necessaria nelle imprese tessili e meccaniche della prima rivoluzione industriale e questo richiedeva
un maggiore sforzo di ricerca e di diffusione dell’istruzione secondaria e superiore. La Germania si
dotò di un efficiente sistema pubblico di scuole tecniche secondarie e di politecnici a livello
superiore, producendo un notevole numero di ingegneri, che acquisirono un’importante posizione
sociale. Inoltre, i laboratori di ricerca delle università e delle grandi imprese si scambiavano tecnici
di alto livello, in un’osmosi inedita, imitata solo su larga scala dagli Stati Uniti. Gran parte delle
imprese industriali stavano nella parte occidentale della Germania, mentre quella orientale restava
più agraria, generando un dualismo est-ovest, che segnò il destino del paese fino ad oggi; infatti la
Germania come nazione presentava aree molto avanzate, più avanzate di corrispondenti aree inglesi,
ma anche aree molto arretrate, che abbassavano notevolmente i dati medi nazionali. La Germania
inoltre, fu la prima nazione europea a promuovere un sistema di previdenza sociale gestita dallo
Stato e generalizzata a tutti i lavoratori già con Bismark nel decennio 1880; tra 1883 e il 1889
vennero introdotte assicurazioni obbligatorie gestite sotto il controllo pubblico contro gli infortuni
sul lavoro, l’invalidità e la vecchiaia, allo scopo di garantire pace sociale e di tenere a bada il
sindacato, permettendo l’ordinato svolgimento dell’industrializzazione.

4. Impero asburgico
Si era costruito le tempo aggregando alla piccola Austria i territori più diversi, nell’ottocento
riuniva 11 diverse nazionalità, con le rispettive lingue; il territorio non era molto favorevole dal
punto di vista agricolo, poiché i due terzi erano formati da montagne e colline, l’unico sbocco al
mare era nell’Adriatico, con il porto di Trieste, inoltre le dotazioni di carbone erano poco
abbondanti e infelicemente localizzate. Come entità politica era importante e potente e nel
Settecento era stata anche relativamente avanzata, ma successivamente non riuscì a tenere il passo.
L’impero ritardò molto l’abolizione della servitù della gleba, che ebbe luogo solo dopo la
rivoluzione del 1848, quando venne instaurata un’unione doganale sul modello dello Zollverein.
Altro elemento negativo fu la politica protezionistica che la tenne fuori dal commercio
internazionale, inoltre quel poco commercio che c’era era concentrato con la Germania. Dal punto
di vista settoriale, lo sviluppo industriale che si realizzò privilegiò l’industria leggera – alimentare
(specialmente in Ungheria), tessile (lana e cotone), vetro, carta – ma si svilupparono anche
l’industria metalmeccanica, le ferrovie l’industria elettrica, tuttavia con risultati comparativamente
insoddisfacenti per l’impero. Il sistema finanziario imitò quello tedesco, con la creazione di
numerose banche miste, di cui le più famose furono la Creditanstalt (1855) e la Wiener Bankverein.
In realtà, il problema principale dell’impero era quello di ospitare aree con diversissime dotazioni di
prerequisiti per lo sviluppo (condizioni dell’agricoltura, diffusione dell’istruzione, infrastrutture)
agli inizi dell’Ottocento e di non essere riuscito a far fare alle aree più arretrate un salto di qualità.
Nella seconda metà dell’Ottocento tutte le aree crebbero, chi un po più come l’Ungheria, chi un po
meno, come la bassa Austria, ma, essendo partite da basi diverse e comunque assai più basse dei
paesi europei più avanzati, il risultato alla vigilia della prima guerra mondiale restava
complessivamente insoddisfacente; solo l’Austria era a un buon livello di sviluppo, mentre le altre
regioni erano più o meno arretrate.
5. Russia
Alla vigilia della prima guerra mondiale la Russia era molto arretrata, con un reddito pro capite pari
a meno di un terzo di quello inglese, con il 75% della forza lavoro ancora impegnata in agricoltura
(59% in Italia e 62% in Giappone), con il 72% di analfabeti (48% in Italia) e solo il 15% della
popolazione insediata in aree urbane. Eppure i dati dimostrano che produceva tanto acciaio e tanta
elettricità quanto la Francia e vantava più Km di ferrovia di qualunque altro paese europeo.
Naturalmente il segreto sta nel fatto che la Russia era grandissima e quindi, pur possedendo una
base industriale di qualche importanza in valori assoluti, gli effetti in termini relativi e pro capite
venivano a dissolversi nel mare di arretratezza in cui venivano annegati. La Russia, trovandosi
all’estremo lembo orientale dell’Europa, aveva subito notevoli influenze dall’assolutismo orientale
e solo per iniziativa dall’altro da parte degli zar si era aperta a qualche maggiore influenza europea.
Si fanno risalire a Pietro il grande (1696-1725) i primi tentativi di importare tecnologia occidentale,
ma senza alcuno sforzo di cambiare le istituzioni del paese in modo che questo potesse evolvere
dall’interno verso una modernizzazione della sua struttura economica. A seguito della perdita della
guerra di Crimea lo zar Alessandro II si decise ad abolire la servitù della gleba che ormai era
rimasta in vigore solamente in Russia (1861); tuttavia, il modo in cui venne effettuata questa
abolizione non liberò affatto né la coltivazione della terra né la mobilità dei contadini; infatti, le
decisioni sulla distribuzione delle terre da coltivare e il controllo dei lavori furono demandate alla
comunità di villaggio (mir), a cui chi voleva emigrare doveva continuare a pagare le imposte e le
rate del riscatto. Soltanto nel 1907 il ministro Stolypin abolì i pagamenti residui del riscatto e
permise l’effettiva privatizzazione delle terre.
Alessandro II incoraggiò anche la costruzione di ferrovie e la riorganizzazione delle banche. A
partire dal decennio 1880 l’industrializzazione in Russia fece un grande passo in avanti, crescendo a
ritmi rapidi soprattutto nel 1890 e localizzandosi non solo a Mosca e San Pietroburgo, ma anche
negli Urali, nell’Ucraina e nelle regioni polacche. Decollò l’industria pesante (carbone, acciaio,
macchine) legata alle ferrovie, ma soprattutto aumentò l’industria degli armamenti; industria tessile
e alimentare non avevano una grande spinta, vista la ristrettezza del mercato interno per beni di
consumo. Ci fu dunque, anche in seguito ad alcune riforme che legalizzarono scioperi e sindacati,
ma alla vigilia della prima guerra mondiale l’economia russa era ben lontana dall’aver trovato un
suo equilibrato sentiero di crescita autosostenuta e gli imprenditori russi erano ancora pochi, male
organizzati e relativamente emarginati dal punto di vista sociale. Lo stato finanziò le ferrovie,
introdusse il gold standard per attivare investimenti stranieri, impose dazi sulle industrie strategiche
per incentivare la costruzione di impianti sul territorio nazionale, ordinò armamenti, fu largo di
sussidi agli imprenditori, specialmente stranieri. Gerschenkron ritiene che, se non ci fosse stata la
partecipazione della Russia alla prima guerra mondiale a destabilizzare la situazione economica del
paese, forse si sarebbe vista una lenta evoluzione verso equilibri politici più favorevoli a una
crescita autosostenuta e verso un’economia in cui la domanda contasse di più.

6. Italia
Molte delle innovazioni istituzionali che percorsero la rivoluzione industriale tra fine Medioevo e
Rinascimento furono introdotte in Italia, espressione che aveva allora una valenza meramente
geografica, essendo l’area occupata da numerose entità politiche tanto piccole quanto instabili. In
realtà l’Italia ospitava attività manifatturiere avanzate per l’epoca ed era molto prospera, come è
segnalato anche dall’elevato numero di città che vi si poteva contare. Da un lato la frammentazione
politica e la conflittualità endemica, dall’altro l’esagerata insistenza su manifatture di lusso ad alto
prezzo, insieme allo spostamento dell’asse dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico produssero un
vistoso declino dell’Italia nel Seicento e una sua persistente arretratezza nel Settecento, pur in
presenza di élite di pensatori ed economisti profondamente legati agli sviluppi del resto d’Europa.
Superati gli anni travagliati delle guerre napoleoniche, l’Italia venne riorganizzata dal Congresso di
Vienna in sette stati, due dei quali molto piccoli e uno (il Lombardo-Veneto) sotto diretta
dominazione austriaca. Fra questi stati, il solo Regno di Sardegna si rivelò dinamico
istituzionalmente (diventò una monarchia costituzionale nel 1848) ed economicamente, con la
costruzione di ferrovie, di manifatture (tessili, meccaniche, cantieristiche) e di banche. Con l’ascesa
al potere di Cavour, trovò anche l’uomo politico di larghe vedute che seppe tessere alleanze
internazionali tali da condurlo a sostenere l’irredentismo degli italiani che si volevano in primo
luogo liberare degli austriaci e poi anche di altri governi non amati perché pervicacemente
assolutisti. Come è noto, le trame abilmente tessute da Cavour, accoppiate alla focosità di Garibaldi,
che concepì l’idea di liberare il Regno delle due Sicilie dai Borboni, portarono all’unificazione
politica del paese, in presenza di profonde differenze di tradizioni culturali, infrastrutture
economiche, diffusione dell’istruzione e produttività dell’agricoltura. I nuovi governi dell’Italia
unificata modernizzarono il paese dal punto di vista istituzionale, introducendo una legislazione
commerciale liberista e un fisco allineato ai più avanzati sistemi europei, varando già nel 1859 una
fra le più avanzate leggi europee sull’istruzione (legge Casati) e legando la moneta al gold standard.
Quello che non si riuscì a fare fu un’unica banca centrale, perché le banche di emissione di alcuni
stati preunitari riuscirono a mantenersi in esistenza, benché la banca nazionale degli stati sardi,
ribattezzata Banca nazionale del Regno d’Italia, fosse chiaramente leader. Ma il paese stentava a
decollare, nonostante il programma di ferrovie lanciato dai primi governi. Le attività tradizionali,
particolarmente la produzione di seta grezza per il mercato internazionale, continuavano; quello che
non si vedeva era l’introduzione di nuovi settori industriali. Bisogna ricordare che l’Italia era
completamente prima di carbone e aveva poco ferro; il debito pubblico era elevato, per le cattive
condizioni delle finanze degli stati preunitari, le molte guerre e il tempo occorso a mandare a
regime il nuovo sistema fiscale; non mancavano le banche, ma poche erano quelle costituite in
società per azioni che avessero come obiettivo il finanziamento industriale. L’economia si ravvivò
un po’ all’inizio del 1880, anche per iniziativa dello stato, che si occupò di rimodernare la Marina
italiana, finanziò nel 1884 la creazione della prima importante acciaieria italiana, la Terni, e
reintrodusse un po’ di protezionismo nel 1887, sulla cui efficacia vi sono pareri discordanti. Ma una
vasta speculazione edilizia precipitò verso la fine del decennio il sistema bancario in una pesante
crisi, che vide il fallimento del Credito mobiliare e della Banca generale, la liquidazione della banca
romana e la fusione di altre due piccole banche di emissione nella banca nazionale, che venne
ribattezzata Banca d’Italia (1893) e continuò a condividere il potere di emettere banconote con altri
due istituti (il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia) di molta minor importanza. Tutti i settori
industriali decollarono, a parte la chimica (con l’eccezione dei fertilizzanti fosfatici), con particolare
successo per quello elettrico, che aveva affrancato parzialmente l’Italia dalla dipendenza dal
carbone, quello della gomma (la Pirelli, fondata nel 1872, divenne presto la prima multinazionale
italiana). Al termine di questo periodo, però, l’Italia appariva dai dati aggregati ancora piuttosto
arretrata avendo raggiunto solo il 47% del reddito pro capite della Gran Bretagna, un traguardo
simile a quello medio dell’impero asburgico. Gerschenkron ritenne che le politiche economiche dei
governi italiani (protezionismo mal concepito e la fretta nella costruzione delle ferrovie) avessero
impedito di sfruttare a pieno i vantaggi dell’arretratezza e che né lo stato né il sistema bancario
furono in grado di offrire potenti fattori sostitutivi come in Russia e in Germania. Inoltre è un fatto
che anche l’Italia soffriva, di profondi squilibri regionali anche se un po’ meno forti di quelli
dell’impero asburgico. In realtà erano solo tre le regioni dove il decollo industriale era pienamente
avvenuto (Piemonte-Liguria-Lombardia, nota come triangolo industriale); vi erano poi altre regioni
che si erano messe in movimento, ma ancora assai parzialmente, mentre l’intero sud del paese era
ancora ben poco progredito, a tal punto da attirare ai primi del ‘900 una serie di leggi speciali di
intervento, senza tuttavia apprezzabili miglioramenti.
7. Spagna
La spagna non era mai stata fra i paesi con reddito pro capite più elevato. L’agricoltura era arretrata
anche per le condizioni climatiche e del suolo. Nella seconda metà dell’800 le cose migliorarono
soprattutto perché si fecero strada due regioni la Catalogna e i Paesi Baschi, oltre alla capitale
Madrid. La prima sviluppò l’industria del cotone e dopo quella meccanica. La seconda l’industria
siderurgica. Fu così che all’alba della prima guerra mondiale il reddito pro capite della Spagna era
simile a quello dell’italia.

Capitolo 6: Il declino inglese e l’emergere di competitori fuori dall’Europa: Stati Uniti e


Giappone
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L’interesse del declino inglese è dato dal fatto è il primo che si verifica in età industriale, mostrando
che il first mover in età industriale ha sì grandi vantaggi, ma non sufficienti da garantirgli di
mantenere tale posizione automaticamente. E’ sempre più sul piano economico che si decide una
leadership, piuttosto che su quello politico militare. Ancora, si tratta del declino della leadership
inglese, non della scomparsa del suo destino di paese avanzato. La Gran Bretagna ha continuato a
crescere economicamente e ad approfondire la sua trasformazione strutturale: è stato il primo paese
in cui l’agricoltura si è fortemente ridotta a favore dell’industria, già nella seconda metà
dell’Ottocento, ed è stato il primo paese in cui l’industria si è fortemente ridotta in favore dei
servizi. Ma i tassi di crescita del reddito sono stati complessivamente inferiori a quelli di molti altri
paesi industriali a partire dagli anni settata dell’800, permettendo un catching up dei suoi livelli di
reddito pro capite, non solo da parte degli Stati Uniti già a fine Ottocento, ma dopo la seconda
guerra mondiale da parte di quasi tutti i paesi europei più avanzati, compresa l’Italia, e dal
Giappone.
1. L’inizio precoce (early start). Un inizio precoce diede sicuramente dei vantaggi
dal punto di vista competitivo, ma si può vedere questa questione come l’altra
faccia della medaglia dei vantaggi dell’arretratezza. Come l’arretratezza può
rivelare dei vantaggi, aver incominciato presto produce degli svantaggi. I modelli
adottati di macchine e infrastrutture erano i primi, meno perfezionati, che
raggiunsero presto un elevato grado di obsolescenza economica, mentre erano
ancora perfettamente funzionanti. La tentazione di lasciarli funzionare fino a
esaurimento fisico era grande e così la Gran Bretagna perse di competitività in
vari campi.
2. Rigidità istituzionali. La Gran Bretagna aveva avuto un’evoluzione interna, tale
da renderla capace di realizzare la rivoluzione industriale e non seppe vedere
nelle innovazioni istituzionali che si realizzavano nell’Ottocento nei paesi che
cercavano di imitarla qualcosa cui ispirarsi per rendere più efficienti i suoi
comportamenti economici.
- Finanza. La Gran Bretagna non riuscì né a rendere efficiente la sua borsa né
a introdurre banche più legate al finanziamento industriale, lasciando le sue
industrie prive di un efficace sostegno finanziario. Nel caso della borsa la
necessaria trasparenza non era disponibile al pubblico che subì anche serie
perdite da emissioni azionarie di nuove industrie e preferiva quindi investire
in titoli più sicuri. Le merchant banks erano troppo legate al finanziamento di
attività internazionali per essere interessate al finanziamento dell’industria
nazionale, mentre banche d’affari alla francese o la banca mista tedesca non
vennero mai prese in considerazione
- L’istruzione. La Gran Bretagna non introdusse un sistema pubblico di
istruzione come tutti i paesi del continente e particolarmente non si interessò
specificamente dell’istruzione tecnica. Quindi i tecnici erano degli autodidatti
che non godevano di uno status sociale elevato, come gli ingegneri in
Germania o in Francia. La mentalità degli imprenditori era sempre più legata
agli affari in generale, piuttosto che al lato tecnico dell’attività produttiva.
Questo impedì alla Gran Bretagna di fare bene nella seconda rivoluzione
industriale, che necessitava di un’istruzione tecnica media e superiore più
diffusa.
- La grande impresa. L’evoluzione verso forme di organizzazione manageriale
delle imprese fu in Gran Bretagna molto più lenta degli Stati Uniti, ma anche
della Germania. Chandler ha battezzato il capitalismo inglese come
“personale”, con ciò intendendo che la rivoluzione manageriale non fu
generalizzata come negli Stati Uniti. La produttività di una simile
organizzazione del lavoro non scientifica non poteva essere competitiva con
quella americana o tedesca.
- Lo stato. Anche lo stato non si adeguò in Gran Bretagna verso l’assunzione di
maggiori responsabilità nei confronti dello sviluppo del paese, preferendo
impegnare larghe risorse in quel colonialismo, dai dubbi effetti e nella
leadership internazionale.
3. Il peso della leadership. Anche in questo caso, si è abituati a vedere nella
leadership internazionale di un paese un fattore di sostegno dei suoi redditi, il che
è vero.
- Il sostegno del gold standard. La Bank of England amministrava le sue
politiche monetarie più con l’obiettivo di mantenere la stabilità internazionale
che con quello di sostenere la congiuntura interna.
- Il predominio della city. Gli interessi della City, la più grande piazza
finanziaria dell’epoca, erano ritenuti più importanti di quelli delle industrie
inglesi e l’abilità da essa dimostrata nelle attività internazionali fu tale da
attirare gli investitori e le merchant banks verso investimenti esteri più che
verso investimenti nazionali, con la promessa di tassi di rendimento superiori.
- Il ruolo di poliziotto del mondo. La Gran Bretagna venne cooinvolta in molte
guerre, allo scopo di mantenere un bilanciamento dei poteri in Europa.
Questo la portò a eccessivi investimenti militari e a notevoli perdite di
capitale umano.
2. La prepotente ascesa degli Stati Uniti
Benchè la colonizzazione degli Stati Uniti fosse cominciata già nella prima metà del XVII secolo, il
popolamento europeo dell’area come colonia inglese procedette con molta lentezza. Un secolo dopo
non aveva raggiunto più di 250000 persone e alla vigilia dell’indipendenza i coloni erano solo due
milioni e mezzo. Distaccatasi dalla Gran Bretagna con la Dichiarazione dei diritti del 1776 e poi
con la vittoria delle guerre di indipendenza, si diede un governo federale nel 1789, in questo modo
regolando i rapporti tra stati in maniera non conflittuale. L’unico episodio di contrasto aperto fu la
guerra di secessione (1861-1865) che oppose gli stati del nord a quelli del sud e che vide la vittoria
dei primi sui secondi e l’abolizione della schiavitù. Lo sviluppo industriale degli Stati Uniti non
iniziò in modo particolarmente rapido. Quando si costituirono come nazione indipendente alla fine
del Settecento, 80-90% della forza lavoro era in agricoltura, con una buona produttività del lavoro,
data l’abbondante terra disponibile, e una remunerazione pro capite quindi elevata. Le prime
industrie vennero fondate già in quell’epoca, e continuarono a espandersi nella prima metà
dell’Ottocento; i salari erano alti e la meccanizzazione forte, sia per la scarsità di manodopera sia
per il suo alto costo. Ma furono le ferrovie dopo la metà del secolo e la fine della guerra civile a
segnare il vero e proprio decollo del paese, unificandone il già ampio mercato. La crescita continuò
a ritmi sostenuti e senza importanti soluzioni di continuità fino alla grande crisi del ’29 e si
caratterizzò per l’affermazione della grande impresa (corporation) nei settori ad alta intensità di
capitale propri della seconda rivoluzione industriale.
La grande impresa fu la carta vincente del successo statunitense per tre motivi:
- Il primo da considerare è il rapporto tra risorse e popolazione. Quello che divenne
territorio degli stati uniti in un lungo processo di colonizzazione era un’area
immensa e scarsissimamente popolata da popolazioni indigene a stadi di sviluppo
semiprimitivi. I colonizzatori europei, come è noto, non trovarono alcuna difficoltà
nel marginalizzare le popolazioni locali e ad appropriarsi, dunque, di questo
immenso territorio ricco di ogni bene, e particolarmente di terra da coltivare, oro e
petrolio. Quest’abbondanza di risorse lasciò un marchio indelebile nella mentalità
degli americani, che si trovarono da sempre ad affrontare il problema di governare in
modo più efficiente possibile il processo di sfruttamento delle risorse, piuttosto il
problema di come sottrarre qualche scarsa risorsa a chi ne era in possesso per eredità
storica e magari non la usava efficientemente, come in Europa. Negli Stati Uniti i
conflitti distributivi furono secondari e marginali, perché di risorse ce n’era in
abbondanza, e prevalse, dunque, come si diceva, un atteggiamento costruttivo: come
organizzare al meglio lo sfruttamento delle risorse.
- Il secondo elemento significativo deriva dalle implicazioni dell’essere una
popolazione di emigranti. L’emigrante è per definizione mobile e considera normale
andare a cercare il lavoro dove c’è piuttosto che restare a far la fame dove è nato, o
dove si trova. Quindi la nazione americana è fatta di gente che non si contenta di
quello che ha (o che non ha), ma che cerca di migliorare la sua condizione con un
atteggiamento disponibile allo spostamento, al rischio, al costruirsi il destino con le
proprie mani (il tipico self made man). Inoltre, da subito gli emigranti nel Stati Uniti
non vennero da un solo paese, ma da molti, con retroterra culturali diversi, pronti a
trovare, sia pur con qualche inevitabile frizione, un terreno di convivenza reciproca,
sviluppando valori americani che vennero condivisi da tutti, in un melting pot che
annullò il rischio di formazione di etnie diverse, fonte di insanabili divisioni e di
lotte, come in Europa. Non vi erano motivi di conflitto tra gli stati, né economici né
culturali, e fu quindi relativamente facile prendere la decisione di coordinarsi, pur
mantenendo una forte decentralizzazione dei poteri. Tale decisione si rivelò in
seguito strategica per la realizzazione di un mercato unico di proporzioni inedite, con
una moneta unica, il dollaro, e un’unica politica estera.
- Terzo, importante, elemento, il territorio, non era solo vuoto di gente e di culture, ma
naturalmente anche di legge. Non si trattava, per introdurre una nuova legge, di
lottare contro gli interessi di chi appoggiava quella già esistente. Le nuove leggi
venivano introdotte per consenso in un ambiente politico che da subito si organizzò
democraticamente, man mano che gli sviluppi dell’economia e della società le
richiedevano, con una coerenza rispetto alle esigenze di produttività ed efficienza
molto maggiore di quella che si poteva raggiungere in Europa, dove i compromessi
necessari con i regimi precedenti erano molteplici. Anche su questo versante venne
rafforzata la mentalità americana costruttiva, la mentalità del “si può fare” purchè ci
si impegni a trovare il modo.
E’ a questo punto più facile capire perché la grande impresa ebbe tanto successo proprio negli Stati
Uniti. In tale paese non si trovavano mercati già funzionanti come in Europa, né artigiani con una
loro professionalità. La gran parte degli emigranti arrivava senza molta istruzione alle spalle e
quindi il miglior modo di sfruttare efficientemente le risorse per aumentare la produzione così da
servire un mercato che si allargava prodigiosamente fu quello di creare imprese che controllassero
da cima a fondo il processo produttivo, attraverso integrazioni a monte e a valle e attraverso un
macchinario automatico per disciplinare a dovere la forza lavoro. La grande impresa nacque nelle
ferrovie, la cui lunghezza assolutamente eccezionale imponeva un forte coordinamento, che si
realizzò attraverso la nascita di una struttura manageriale che combinava la line, con responsabilità
operative e lo staff, con responsabilità di pianificazione e di stato maggiore, e attivava un sistema
informativo capillare, basato sui reports che permettevano una dettagliata analisi dei costi.
Poi fu la volta dei telegrafi e dei telefoni; quindi dell’acciaio, dove Andrew Carnegie iniziò a
costruire impianti sempre più colossali. All’acciaio fece seguito l’ascesa del petrolio, dove David
Rockefeller costruì i più grandi impianti del mondo e con la sua Standard Oil minacciò di diventare
monopolista. Seguirono l’elettricità con la General Electric e la Westinghouse e quindi iniziò
l’avventura dell’automobile, con Henry Ford che, introducendo per primo nel 1913 una catena di
montaggio completa, abbassò i tempi di produzione del suo famoso modello T nero da 12 ore e 8
minuti a 1 ora e 35 minuti, più che dimezzandone il costo. Fu così che, come scrive Chandler,
Henry Ford riuscì a quadrare il cerchio, [che gli permise] di pagare i salari più alti del mondo e di
diventare uno degli uomini più ricchi del mondo. Solo la chimica non riuscì da subito a rivaleggiare
con la Germania, anche se erano già sorte nel 1890 due grandi imprese come la Dow Chemicals e la
Du Pont, ancora oggi ai vertici delle classifiche internazionali; sarà negli anni ’20 con la
petrolchimica che gli Stati Uniti faranno un balzo in avanti anche in questo settore. Si configurò
dunque un paese in cui il centro sistemico era rappresentato dalle grandi imprese. Secondo il
monumentale lavoro di Sklar, la centralità della grande impresa è stata preferita negli Stati Uniti a
quella dello stato, in quanto l’impresa è un’espressione più diretta del popolo (negli USA la
sovranità è del popolo). L’impresa ha quindi teso ad assumere responsabilità sociali, e per questo
motivo si è managerializzata, per garantire stabilità e continuità, e ha ben presto voluto una
legislazione antitrust, per proteggersi dalle conseguenze perverse del gigantismo. Le banche
vennero dunque mantenute piccola da una legislazione restrittiva, che impediva loro di diventare
sufficientemente grandi da svolgere un ruolo di peso in alternativa alle corporations. Durante la
guerra civile, venne emanato un Banking Act, che impose alle banche nazionali di avere un’unica
sede senza filiali, mentre alle banche interne a ogni singolo stato era permesso di avere qualche
filiale, ma questa prassi venne raramente adottata. Inoltre, pur essendo le banche americane
universali, non potevano impegnare più del 10 % dei loro crediti con un singolo cliente. Fu così che
le banche americane si moltiplicarono fino a raggiungere il numero di quasi 30000, restando deboli
e marginali, anche perché non c fu una banca centrale che le supervisionasse fino al 1913. Venne
invece rafforzata la borsa al diretto servizio delle imprese. I poteri statali, particolarmente quelli del
governo federale, vennero mantenuti nei confini più ristretti possibili; persino la costituzione di una
banca centrale (Federal reserve) fu ritardata fino al 1913. Oltre la legislazione antitrust fu richiesto
allo stato anche il protezionismo, per poter sfruttare senza preoccupazioni il mercato nazionale. Già
alla fine dell’Ottocento il reddito pro capite americano aveva superato quello inglese, mentre anche
in valori assoluti l’economia americana diventò la più grande e potente del mondo.
3.Perché il Giappone fu l’unico paese di cultura non europea a decollare nell’800
Il Giappone aveva avuto nel corso della sua lunga storia forti influenze dalla Cina ed era quindi un
paese dalla civiltà sofisticata e complessa, basata sulla cultura confuciana della lealtà, della
rettitudine, del decoro e dell’armonia e su di un nazionalismo spinto, sviluppato per distinguersi
dalla Cina. Questo nazionalismo implicava un’etica della vita disciplinata e produttiva, che costituì
il background culturale sul quale le trasformazioni successive si poterono innestare. A differenza
della Cina, inoltre, aveva un imperatore che, con termini occidentali, divenne “costituzionale” già a
partire dal VII sec. d.C., in quanto conservava un ruolo simbolico di unità della nazione, ma non
esercitava direttamente il potere, che invece venne messo nelle mani del capo dell’aristocrazia
militare (shogun); così facendo la struttura di potere tese a frazionarsi localmente, dando vita ad un
sistema multicentrico simile al sistema feudale europeo (governatori locali daimyo). Il Giappone
preindustriale aveva grandi città e mercati funzionanti; la diffusione dell’istruzione nelle ristrette
classi più elevate (samurai) era eccellente, anche se queste non potevano dedicarsi agli affari,
lasciati nelle mani del popolo, che arricchendosi cominciò a mostrare interesse per la cultura. Il
Giappone si era chiuso all’influenza occidentale, proibendo ai cittadini di viaggiare all’estero e
limitando il commercio ad una nave olandese all’anno (politica dei sakoku, ossia paese chiuso). Per
questo motivo non aveva tenuto il passo con gli sviluppi europei ed americani. Tra il 1853 e il 1854
l’ammiraglio americano Matthew Perry approdò nel porto di Tokyo; con la minaccia di bombardare
la capitale se la politica restrittiva non fosse cambiata, Perry costrinse l’imperatore della dinastia
Tokugawa a cedere e gli impose i “trattati ineguali”, in base ai quali non solo il Giappone doveva
aprirsi, ma non poteva introdurre dazi superiori al 5%. Il paese inizialmente tentò una serie di
rivolte xenofobe, quindi salì al trono un giovane imperatore di nome Mutsuhito che diede una svolta
al destino del Giappone, iniziando una serie di riforme istituzionali (1868) (Restaurazione Meiji,
governo illuminato). Vennero abolite le caste e i samurai non ricevettero più uno stipendio, e così
vennero spinte ad intraprendere carriere negli affari, mentre la burocrazia statale veniva
modernizzata e il sistema educativo reso più efficiente e generale. Vennero mandati in Occidente
giovani, per studiare le istituzioni occidentali e consigliare il governo giapponese sul da farsi; così
le riforme seguirono il modello occidentale infatti, fu abolito il sistema feudale e il governo si dotò
di un’amministrazione centralizzata sul modello francese, l’esercito venne organizzato come quello
prussiano, la flotta come quella inglese, mentre industria e finanza seguirono i modelli prima
americano e poi tedesco. Nel 1882 venne creata la banca centrale e riformato l’’intero sistema
bancario e nel 1889 fu promulgata la costituzione. Adesso il Giappone poteva avviare l’avventura
industriale; il tentativo iniziale di creare imprese pubbliche fallì presto, queste vennero vendute e il
governo Meiji si limitò ad un ruolo di promozione e coordinamento. Non fu facile per il Giappone
decollare, perché il paese era piccolo, montuoso e scarso di risorse del sottosuolo, dunque per
produrre erano necessarie le importazioni, che si dovevano pagare con le esportazioni,
cominciarono esportando la seta grezza, elemento che avvicina il Giappone all’Italia; così facendo
rafforzo e modernizzò il suo ciclo produttivo e divenne grande esportatore di seta grezza,
soppiantando agli inizi del Novecento l’Italia sui mercati internazionali. Alla disperata ricerca di
risorse il Giappone divenne presto una potenza coloniale, con una prima guerra contro la Cina
(1894-1895) con cui guadagnò Taiwan (ribattezzata Formosa). Poi nella guerra del 1905 vinse la
Russia, acquisendo diverse aree di influenza tra le quali la Corea. Decollò dunque l’industria tessile
e anche quella pesante, lentamente e su piccola scala, perché solo alla fine dell’Ottocento vennero
abrogati i trattati ineguali e il Giappone poté offrire un po’ più di protezione ai suoi imprenditori;
furono costruite ferrovie (11000 Km nel 1913 non erano pochi per un paese più piccolo della
California), si diffuse l’elettricità e il reddito pro capite crebbe tra il 1870 e il 1913 a tassi
comparabili a quelli europei, ma ancora a grande distanza dalla Gran Bretagna, a causa del grande
peggioramento di inizio ottocento data la chiusura del Giappone, e della crescita non
particolarmente brillante alla fine che non permise un processo di catching up. In questo periodo
nascono le costellazioni di imprese che agiscono sinergicamente e diventeranno una caratteristica
del paese, chiamate zaibatsu con legami prevalentemente familiari; al centro avevano una banca che
agiva da polmone finanziario (i più famosi Mitsubishi, Sumitomo, Mitsui). Furono le occasioni che
il Giappone colse durante la crisi del ’29 (leggera per il Giappone) a permettergli di realizzare il
processo di catching up con l’occidente europeo e gli stati uniti che, violentemente interrotto dalla
seconda guerra mondiale, verrà ripreso con successo negli anni cinquanta, fino a portare il
Giappone al rango di grande potenza a fianco degli Stati Uniti e dell’Europa.

Capitolo 8: L’economia internazionale tra fine 800 e primi del 900, il ruolo del gold standard e
l’evoluzione della finanza
Pag 143 a 162
L’industrializzazione ha prodotto un’incredibile aumento del commercio internazionale, che
precedentemente era tenuto a freno dagli alti costi di trasporto, dal basso potere d’acquisto della
gente e dalla scarsa diversificazione dei prodotti, tutti limiti che andarono progressivamente
allentandosi man mano che le economie si trasformavano. La Gran Bretagna fu naturalmente il
primo paese a espandere notevolmente il suo commercio internazionale, cosicché nel 1913 era
ancora la più grande esportatrice mondiale, tallonata da vicino dalla Germania; seguiti poi da Stati
Uniti e Francia. I due periodi migliori furono: 1820-1870, quando prevalse un’apertura di molti
paesi al commercio internazionale, e ancor più l’ultimo (1950- 1992), quando si avviò un
consistente processo di liberalizzazione del commercio; ma anche il periodo 1870-1913, che scontò
un aumento del protezionismo, non andò male, mentre il periodo tra le due guerre fu disastroso, non
solo per il commercio. Con l’allargarsi del commercio internazionale, la sua incidenza sul Pil
aumentò, in misura maggiore quanto più i paesi erano piccoli e potevano specializzarsi solo in una
gamma ristretta di prodotti. Inoltre, vi fu un processo di multilateralizzazione del commercio,
ovvero non era più necessario far bilanciare esportazioni e importazioni con ogni singolo partner
commerciale, perché le compensazioni si potevano effettuare sull’aggregato, permettendo in questo
modo maggior flessibilità di uso delle risorse mondiali. Il commercio internazionale è sempre stato
visto come un’importante estensione del principio della specializzazione del lavoro già applicato a
livello nazionale, che aumenta la produttività globale del sistema economico mondiale, rendendo
più efficiente l’uso delle risorse. E’ inoltre veicolo di modernizzazione, in quanto permette tra le
altre importazioni quelle di materie prime strategiche (cotone grezzo o carbone o petrolio) e di
macchinari avanzati, mentre facilita l’esportazione di prodotti manifatturieri anche se non troppo
avanzati, purchè i prezzi siano contenuti, permettendo alle industrie nascenti di consolidarsi
attraverso l’allargamento del mercato estero. Per questi motivi la prescrizione degli economisti è
sempre stata quella di lasciare il commercio libero, in modo che potesse dispiegare tutta la sua forza
benefica; eppure se si guarda alla storia del capitalismo industriale, si nota che nessun paese di
grandi dimensioni si è mai industrializzato in presenza di una totale libertà di commercio, nemmeno
la Gran Bretagna; sono piuttosto i paesi piccoli, fortemente dipendenti dal commercio
internazionale, a essere più favorevoli a una libertà di commercio, come dimostrano i bassi livelli di
protezione di Olanda e Danimarca. In realtà i paesi di grandi dimensioni avevano ragioni per
ritenere che un po’ di protezione all’industria nascente, avrebbe potuto avere successo nell’avviare
settori industriali non ancora presenti, con buone probabilità di riuscita, viste le potenzialità del
mercato interno di un paese grande; comunque non si trattò mai fino agli anni trenta di livelli
protettivi tali da avere un forte impatto negativo sul commercio internazionale.
Tutti concordano sul fatto che un protezionismo troppo elevato ha effetti solo negativi, mentre le
più moderne teorie del commercio strategico danno qualche giustificazione a una moderata
protezione temporanea accompagnata da un rafforzamento delle capacità competitive.
Proprio l’esistenza del protezionismo portava i paesi a negoziare vantaggi reciproci
dall’abbassamento di qualche selezionato dazio. Tali negoziati erano sempre bilaterale
nell’ottocento, ma se ne cercava di multilateralizzare gli effetti attraverso la cosiddetta clausola
della nazione più favorita (Npf), ovvero se un paese x riceveva da un paese y questa clausola aveva
automaticamente diritto a vedersi applicato un trattamento di maggior favore negoziato da y con un
terzo paese z, senza bisogno di riaprire i negoziati con y. Anche i fattori della produzione lavoro e
capitale, divennero internazionalmente molto più mobili. Come nel caso del commercio anche
l’emigrazione era sempre esistita, ma subisce un’esplosione nel corso dell’ottocento e inizio
novecento, da poco più di 2 milioni di emigrati nel 1850, si passa a 10,5 milioni nel XX sec. Con
una successiva flessione dovuta solo alla grande guerra. Le mete erano in parte paesi europei già
avanzati, ma in larga misura America e Australia. Gli effetti di questa emigrazione sono stati una
convergenza nei salari e nei redditi tra paesi di emigrazione e paesi di immigrazione. Nemmeno i
movimenti di capitale erano una novità, avendo i banchieri effettuato finanziamenti internazionali,
particolarmente di guerre, ma nell’ottocento molte economie diventarono più dinamiche, le borse si
allargarono, nacquero le prime multinazionali e i flussi di capitale a lungo termine aumentarono
sostanzialmente.
E’ con il prepotente allargamento dei mercati internazionali dei beni, del lavoro e della finanza che
nasce una vera e propria economia internazionale e ogni paese deve prestare attenzione alla sua
bilancia dei pagamenti, che mette a confronto tutti i pagamenti da effettuare all’estero a qualunque
titolo con tutti i pagamenti ricevuti dall’estero per vedere qual è la situazione del paese. Se la
bilancia è in pareggio, il paese può dare seguito ai suoi progetti di modernizzazione economica; se
la bilancia è in avanzo, è una situazione di squilibrio, che tenderà a produrre aggiustamenti, ma in
generale le attività economiche interne non ne sono influenzate negativamente. I problemi sorgono
quando la bilancia dei pagamenti è in deficit, perché il paese non riceve dall’estero abbastanza
valuta per effettuare i propri pagamenti sull’estero. Se ha delle riserve, può temporaneamente
utilizzarle, altrimenti può farsi dare dei prestiti, ma alla fine dovrà comunque trovare il modo di
raddrizzare la situazione, agendo sulle variabili economiche interne.
Tutti i paesi che si modernizzavano crearono una banca centrale che divenne presidio di uno dei più
indiscussi beni pubblici, la moneta. La prima u la banca di Svezia (1667), poi la Bank of England
(1694), gli Stati Uniti crearono le Federal Reserve solo nel 1914. La banca centrale aveva il
monopolio dell’emissione di carta moneta e del mantenimento delle riserve auree e di altre valute;
ma aveva anche molte altre responsabilità come la fissazione del tasso di sconto, che da riferimento
di tutti i tassi bancari e segnala politiche monetarie restrittive o espansive; o la supervisione del
tasso di cambio quando si era in regime di cambi fissi; regolava i rapporti col tesoro che potevano
essere più o meno stretti a seconda del grado di autonomia della banca centrale; la supervisione del
sistema bancario; ultima funzione era quella del prestatore di ultima istanza, questa funzione veniva
svolta con solerzia molto diversa a seconda delle tradizioni e del funzionamento del sistema
economico, quando vi era una crisi, per bloccare il panico che si diffondeva se si verificavano troppi
fallimenti, particolarmente di banche, e molti agenti economici erano alla disperata ricerca di
liquidità. La banca centrale interveniva, ma non si doveva sapere prima quando e come per evitare
speculazioni, offrendo liquidità con larghezza a un tasso di interesse fisso, in questo modo
bloccando la tendenza a vendere titoli, che ne deprimeva esageratamente le quotazioni, e favorendo
il recupero dell’equilibrio.
Nella seconda metà del settecento vennero create per prime le casse di risparmio, queste
comparvero prima nell’impero asburgico e si diffusero poi dappertutto. Si trattava di banche non
profit, create per raccogliere piccoli risparmi allo scopo di abituare la gente di modesto reddito al
risparmio remunerato, evitando nel contempo il tesoreggiamento, che sottraeva liquidità al sistema,
e limitando l’usura. La gestione dei depositi di queste banche era molto prudenziale e gli avanzi di
gestione che queste banche realizzavano venivano destinati a beneficenza e alla realizzazione di
opere sociali. Le casse di risparmio ebbero un grande successo e diventarono talora banche di
notevoli dimensioni, con un impatto importante sul territorio.
Si diffusero nello stesso periodo le società per azioni bancarie, che assunsero la configurazione di
istituti di credito a breve termine (banche commerciali) che contavano molto sui depositi, o istituti
di credito a lungo termine che davano prestiti sulla base del capitale sottoscritto (non svolgevano
attività di deposito).
A metà dell’ottocento nacquero in Germania le banche cooperative, in due versioni, una urbana sul
modello stilato da Shulze Delitzsch (banche popolari) e l’altra rurale (a responsabilità limitata) sul
modello di Raiffeisen (casse rurali). Anche queste banche ebbero una notevole diffusione sul
continente europeo; erano infatti più orientate agli affari rispetto alle casse di risparmio, soprattutto
al sostegno di attività locali di piccole dimensioni.
In questo modo si creò un potente reticolo di riciclo finanziario del risparmio, che da un lato
eliminò il tesoreggiamento e dall’altro riuscì a coprire lee più diverse esigenze di credito, cosicché
l’usura, mai interamente debellata, venne confinata in ristretti limiti.
Per quanto riguarda le grandi imprese, che costituivano la struttura più avanzata dei vari sistemi
economici nazionali, l’importanza relativa della borsa o della banca nel loro finanziamento ha
configurato l’esistenza di due sistemi finanziari alterativi. Il primo è quello anglosassone orientato
al mercato, dove la borsa ha un primato assoluto e la banca svolge un ruolo secondario più di
supporto alle attività correnti che non a quelle di investimento; in questo sistema le grandi imprese
rispondono singolarmente al mercato borsistico (quindi agli azionisti) e non hanno forme di
collaborazione o circolazione di informazioni al di fuori di quelle rese note al mercato borsistico. Il
secondo è quello tedesco orientato alla banca, dove la banca mista ha invece il ruolo di finanziatore
principale e la borsa è di dimensioni più ristrette e di importanza secondaria. La connessione delle
grandi imprese con le banche si traduce anche in un’interconnessione tra imprese, che spesso
detengono pacchetti azionari incrociati, e fa circolari informazioni riservate nel gruppo di
riferimento, che non disponibili né alla borsa né al pubblico, favorendo un maggior coordinamento
ex ante nelle decisioni.
Fin dal Medioevo si era sviluppato in vari paesi europei uno standard misto di circolazione
monetaria metallo prezioso/banconote. Alcuni paesi utilizzavano due metalli (oro e argento) e lo
standard si chiamava allora bimetallico, altri utilizzavano solo l’argento o solo l’oro e si parlava
allora di monometallismo. Convenzionalmente si fa risalire al 1717 l’inizio del Gold standard in
Gran Bretagna, quando Isaac Newton, responsabile della zecca, fissò il prezzo dell’oro a 3 sterline,
17 scellini e 10.5 pence. Dal momento che il paese leader preferì l’oro, quello che andò in funzione
internazionalmente nella seconda metà dell’ottocento fu il monometallismo aureo.
Originariamente c’erano solo monete metalliche in circolazione, ma il diffondersi delle pratiche
bancarie di uso di cambiali, di tratte, quindi di banconote, più facili da circolare e anche da
moltiplicare, aveva relegato sempre più il metallo come riserva in lingotti nelle casseforti delle
banche, una riserva che non copriva interamente la circolazione cartacea, per risparmiare oro. Uno
dei cardini del sistema restava il diritto di convertibilità della carta moneta in metallo prezioso a una
parità prefissata. Tale convertibilità serviva ad impedire l’eccessiva emissione di carta moneta
(priva di valore intrinseco), obbligando le autorità a mantenere la quantità di banconote in
circolazione pari a un multiplo fissato dalla consuetudine prima, e poi dalle leggi, della riserva di
metallo prezioso. Per aumentare la circolazione cartacea occorreva acquisire più metallo prezioso, il
che non era mai facile, viceversa quando il metallo prezioso diminuiva, occorreva restringere la
circolazione cartacea. Era questa la disciplina del sistema legato al metallo prezioso, definita dalle
regole del gioco. Essendo un sistema fiduciario, dato che non esisteva abbastanza metallo in riserva
per convertire tutte le banconote in circolazione, esso si reggeva sulla corretta applicazione delle
regole del gioco; quando questo non avveniva la perdita di fiducia generava corse agli sportelli delle
banche per effettuare la conversione della cartamoneta in oro, il che portava l’intero sistema al
collasso e all’uscita dalla convertibilità.
Ciò che ha attirato maggiormente l’attenzione degli studiosi è il fatto che questo regime ha prodotto
un meccanismo di riaggiustamento internazionale degli squilibri nelle bilance dei pagamenti tali da
mantenere i cambi tra le monete fissi e quindi un notevole ordine e stabilità dell’economia
internazionale.
Quando in un paese le cose non vanno troppo bene ed emerge un deficit nella sua bilancia dei
pagamenti, il paese ha difficoltà ad avere sufficienti quantità di moneta straniera e tenderà ad offrire
più unità di moneta nazionale per acquisirla, in questo modo portando a svalutare la propria moneta;
poiché però vige un regime di convertibilità, chiunque debba essere pagato con la moneta che tende
a svalutarsi preferirà essere pagato direttamente in oro, che mantiene una parità prefissata sia con la
moneta che tende a svalutarsi, sia con la moneta in cui poi si andrà a convertire l’oro, in questo
modo evitando qualunque perdita sul cambio. Succede così che un paese con un deficit nella
bilancia die pagamenti vedrà le sue riserve di oro diminuire (deflusso di oro). Scattano a questo
punto le regole del gioco. Con una riserva diminuita il paese deve diminuire la circolazione
cartacea, con una restrizione del credito e un innalzamento del tasso di interesse; a sua volta queste
manovre faranno restringere la domanda interna, abbassare i prezzi, mentre tassi di interesse più alti
attireranno capitali dall’estero. Tutto questo porta a riequilibrare la bilancia dei pagamenti e a
impedire l’effettiva svalutazione della moneta che, quindi, pur con lievi fluttuazioni, resterà in
sostanza fissa. Il meccanismo funziona anche in modo inverso per riequilibrare una bilancia dei
pagamenti in avanzo, che vede un afflusso di oro e quindi un’espansione della circolazione cartacea,
in questo modo portando alla condivisione dell’onere del riaggiustamento tra paese in deficit e
paese in avanzo; tuttavia i paesi in avanzo talora amavano aumentare le proprie riserve senza
osservare le regole del gioco, evitando di allargare la circolazione monetaria (sterilizzazione
dell’oro) e creando maggiore difficoltà al paese deficitario, che si vedeva costretto a sostenere da
solo tutto l’onere del riaggiustamento. Proprio la gravità di questo onere poteva indurre qualche
paese ad uscire dal gold standard, lasciando fluttuare la propria moneta, ma gli svantaggi di non far
parte di questo club di nazioni era grande e i governi ricorrevano a questa misura quando non
potevano proprio farne a meno e in genere solo temporaneamente. Il meccanismo di
riaggiustamento è automatico, nel senso che ha una sua logica intrinseca, ma richiede che i paesi
seguano le regole del gioco, implicando dunque una volontà politica di voler restare all’interno del
sistema.
Alla luce di alcuni di studi che hanno dimostrato che per mantenere il gold standard occorra
un’economia internazionale non turbata da eventi troppo traumatici per permettere il corretto
funzionamento del sistema, alcuni studiosi hanno finito per concludere che sono stati periodi di
grande stabilità internazionale e di sviluppo a permettere il gold standard e non è stato il gold
standard a generare stabilità, anche se ha di certo contribuito a mantenerla. Il gold standard classico
fu sostenuto dalla sterlina inglese, non senza problemi per la Bank of England, che non sempre
disponeva delle riserve di oro necessarie.
L’altro episodio di gold standard di successo, fu deciso nel 1944 a Bretton Woods, noto come
sistema di Bretton Woods, fu sostenuto dal dollaro statunitense, e fu una versione depotenziata del
gold standard classico, chiamato gold exchange standard, perché la gran parte dei paesi non
deteneva riserve di oro, ma di dollari, e solo attraverso il cambio con il dollaro poteva accedere
all’oro. Anche in questo caso si registrarono problemi che alla fine degli anni sessanta ne
decretarono la fine. Questi problemi sono legati all’oro, infatti l’oro ha un suo mercato come ogni
altro bene, quando è scarso, il suo prezzo tende ad aumentare e viceversa quando è abbondante. Il
fatto è che le miniere d’oro sono limitate e vengono scoperte con ritmi più lenti; quindi un sistema
di gold standard non mantiene generalmente i livelli dei prezzi fissi, infatti quando c’è poca offerta
di oro, anche la moneta cartacea in circolazione aumenta poco e se contemporaneamente le attività
economiche aumentano, il livello dei prezzi tende a diminuire (deflazione); quando c’è una forte
immissione di oro e quindi la moneta cartacea aumenta più che proporzionalmente all’aumento
delle attività economiche, il livello dei prezzi tende ad aumentare (inflazione); solo che in un
sistema di gold standard deflazione e inflazione si propagano internazionalmente nella stessa misura
e quindi i cambi possono rimanere fissi.
Si giunse col tempo a due conclusioni: 1. Poiché la deflazione non è favorevole all’attività
economica, la scarsità di oro venne vista come un inutile fattore limitante che interferiva
negativamente con le attività economiche. 2. Al contempo, la necessità di una disciplina esterna per
impedire l’eccessiva inflazione venne di molto ridimensionata dalla maggior consapevolezza e
correttezza delle autorità monetarie dei paesi che contavano, cosicché si capì che era possibile
mantenere condizioni di stabilità dei cambi anche senza l’oro.

Capitolo 9: Le conseguenze sociali ed economiche della prima guerra mondiale e gli anni 20 in
Eu e USA
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Molte ragioni hanno scatenato la seconda guerra mondiale, come il conflitto franco-tedesco sul
possesso di Alsazia e Lorena che aveva un importante risvolto economico: le importanti miniere di
ferro, di zinco e di carbone ivi localizzate; il successo e l’espansionismo delle imprese tedesche
veniva visto con forti preoccupazioni da italiani e francesi; i contrasti economici nei Balcani fra
tutte le principali potenze erano vivaci; era sorto un serio dissenso tra Germania e Russia sul
protezionismo. Tuttavia nessuna di queste motivazioni sarebbe stata sufficiente per scatenare una
guerra, se non avesse avuto profonde radici in Europa la convinzione che la guerra fosse uno
strumento valido per far prevalere un’egemonia e per acquisire nuovi territori, arricchendo il
vincitore. Nell’era industriale tale convinzione non aveva più fondamento, perché c’erano altri modi
per arricchirsi, la guerra rallentava l’accumulazione distruggendo il capitale fisso e umano e
scompigliando i mercati e spesso si concludeva con notevoli perdite economiche per tutti i
combattenti (gioco a somma zero). La prima guerra mondiale fu lunga e distruttiva, in capitale
umano e fisico. Quasi 9 milioni i soldati morti in guerra, ma circa 40 milioni di persone morirono
tra il 1918 e il 1919 per l’epidemia di spagnola, un’influenza letale che si diffuse a causa della
guerra, senza contare i morti della guerra civile in Russia. In questa guerra si può vedere quanto
furono pesanti le perdite umane e le distruzioni di capitale, a cui vanno aggiunti la dissoluzione
dell’impero austro-ungarico, il dramma delle riparazioni tedesche e il rallentamento delle economie
europee. Le finanze dei belligeranti vennero messe a dura prova, perché le spese militari furono
molto pesanti, con effetti che si faranno sentire a lungo. In alcuni paesi, come Francia e Italia, ci fu
la necessità di allargare l’insufficiente base produttiva nell’industria dell’acciaio, degli armamenti e
degli esplosivi, il che comportò ulteriori impegni finanziari da parte dello stato. Poiché risultò
impossibile, con la parziale eccezione della Gran Bretagna, far fronte a questi impegni solo con
l’aumento delle imposte e l’allargamento del debito pubblico, i governi fecero ampio ricorso alla
stampa di carta moneta, con un conseguente processo di inflazione, in parte represso dai controlli
durante la guerra, ma esploso successivamente e uscita dal gold standard.
1. Lo smembramento dell’impero Asburgico e la riorganizzazione territoriale
dell’Europa
Alla Germania fu tolto il 13% del suo territorio, restituendo l’Alsazia e la Lorena alla Francia e
accorpando le regioni polacche al resto della Polonia ristabilita come nazione, attraverso il recupero
anche della parte russa e di quella asburgica. Dalle ceneri dell’impero asburgico vennero formate 10
muove nazioni più due città libere (Fiume e Danzica) e le regioni che passarono all’Italia. Le
frontiere doganali furono aumentate, le monete in circolazione si moltiplicarono e con esse le
banche centrali, nuovi sistemi fiscali dovettero essere impiantati, il che significò l’ulteriore
frammentazione dell’Europa. Ma ancora più foriero di instabilità futura fu il modo in cui le nuove
nazioni dovettero iniziare la loro vita economica, prive di qualunque aiuto internazionale che non
fosse di consulenza. Ci fu solo un piccolo fondo privato americano di aiuto (Ara, American Relief
Administration) che durò da Gennaio a Luglio del 1919. I nuovi stati dovettero affrontare problemi
quali:
1. La riforma agraria. Per motivi politici ed economici insieme, i latifondi di cui erano
ancora largamente popolate queste aree dell’est europeo andavano ridimensionati e
questo richiedeva riforme che erano politicamente difficili ed economicamente
travagliate, nel senso che il latifondo, appena smembrato, di solito dà come risultato un
calo di produttività, superato dopo la costruzione di opportune infrastrutture da uno
sfruttamento più intensivo;
2. Il ridirezionamento del commercio. I legami commerciali di aree che facevano parte di
compagini nazionali diverse dovevano essere da un lato riorganizzati in funzione del
mercato interno, dall’altro di mercati esteri più diversificati, un processo che richiedeva
tempo;
3. Il ricompattamento e ridirezionamento delle infrastrutture. Anche le infrastrutture interne
erano o appartenute a nazioni diverse e quindi avevano standard diversi o costruite in
funzione di direzioni e dimensioni diverse.
4. La promozione dell’industria. Poche delle nuove nazioni (solo Cecoslovacchia e
Austria) avevano una base industriale di qualche importanza e quindi tutte si trovarono a
dover promuovere l’industrializzazione in un contesto non certamente favorevole. Tutte
pensarono subito ad aumentare i dazi, causando così una tendenza generale in Europa
all’aumento dei dazi. Il successo in questi tentativi di forzare l’industrializzazione fu
molto deludente, dato che poi la grande crisi peggiorò la situazione dovunque. Solo la
Cecoslovacchia ebbe un buon tasso di crescita e quasi raddoppiò il suo indice ella
produzione industriale, partendo da una base nel 1920 abbastanza buona. Come seconda
per tasso di crescita viene la Iugoslavia, tuttavia il livello di reddito pro capite nel 1929
la colloca poco sopra Romania e Bulgaria. Polonia e Bulgaria mostrano risultati molto
deludenti, la Polonia soprattutto per gli effetti negativi della guerra e la Bulgaria per una
totale disorganizzazione del paese. Se teniamo conto del fatto che il reddito pro capite
era poco più della metà di quello degli Stati uniti allora ci rendiamo conto della povertà
di questi paesi.
In conclusione, si può affermare che la riorganizzazione territoriale dell’est europeo avrebbe avuto
bisogno di un lungo periodo di prosperità internazionale e di pace per consolidarsi ed evolvere
verso un assetto più prospero di quelle aree; ma questo non avvenne, in primo luogo perché si
scatenò la grande crisi e quindi perché scoppio la seconda guerra mondiale, foriera di una soluzione
che rinviò ancora di almeno cinquant’anni il consolidamento economico dell’area.
2. Le ripartizioni tedesche e l’economia della Germania negli anni 20
La nuova Repubblica di Weimar iniziò la sua vita economica sotto i peggiori auspici. Non solo le
perdite umane della guerra erano state elevate, ma il paese aveva perduto il 13% del suo territorio,
con ¾ delle sue miniere di ferro il 68% di quelle di zinco, il 26% di quelle di carbone. Tutte le
colonie erano state confiscate come anche tutto il materiale bellico e la marina militare, oltre alle
navi mercantili superiori a 1600 tonnellate di stazza, ¼ della flotta di pescherecci e varie
locomotive, carri ferroviari e camion. Inoltre la Germania fu costretta a invii in natura agli alleati di
svariati prodotti in conto riparazioni fino al 1923, come già si diceva nel precedente capitolo. Nei 14
punti del presidente americano Wilson che costituirono la base della pace di Versailles, ve n’era uno
che prevedeva che la Germania, ritenuta responsabile della guerra, pagasse una somma riparatrice
per i danni subiti dagli alleati. Tuttavia non vi erano fissati dei parametri quantitativi e
l’interpretazione dei danni poteva essere più o meno estensiva. Si poteva infatti pensare che la
Germania dovesse pagare anche i costi delle truppe di occupazione e le pensioni di guerra dei paesi
alleati. Per arrivare ad una proposta operativa, venne nominata una commissione per le riparazioni
con sede a Berlino e intanto vennero fatte delle requisizioni di materiali in natura. Anche in passato,
alla parte che perdeva una guerra era talora richiesto di pagare un’indennità, ma in generale si
trattava di una somma una tantum, in alcuni casi versata in qualche rata. Il pagamento di
un’indennità era destabilizzante dell’equilibrio economico esistente, oltre ad essere odioso per la
parte perdente e difficoltoso, se le riserve di oro erano andate tutte perse come nel caso tedesco
successivo alla prima guerra mondiale. Si capisce perché Keynes, in uno dei suoi primi scritti
raccomandasse prudenza e moderazione con le richieste di riparazioni, se non si voleva incentivare
vendetta da parte dei paesi oppressi. Poiché le riparazioni tedesche erano anche collegate al
pagamento dei debiti di guerra da parte degli alleati, Keynes suggeriva che questi venissero
cancellati, anche perché riteneva che né le riparazioni né i debiti di guerra sarebbero comunque stati
pagati per più di qualche anno, perché non sono compatibili con la natura umana né con lo spirito
dei tempi. Le raccomandazioni di Keynes terminavano con un’esortazione agli Stati Uniti, che lui
già vedeva come potenza egemone, a essere larghi di aiuti per la ricostruzione europea.
Nessuno dei suggerimenti di Keynes fu accolto e la realtà superò tutte le più tragiche previsioni con
il secondo grande conflitto mondiale. Il fatto è che gli Stati Uniti furono inflessibili nel richiedere il
pagamento dei crediti per i beni che avevano inviato agli alleati durante il conflitto e questo rese
altrettanto rigidi i paesi europei vincitori nel pretendere che la Germania pagasse delle riparazioni
almeno sufficienti a rimborsare il debito con gli Stati Uniti.
La prima proposta della commissione berlinese per le riparazioni fu avanzata alla conferenza di
Boulogne del 20 Giugno 1920 ed era di 269 miliardi di marchi-oro, si trattava di una somma pari a
circa 6 volte il Pil tedesco. I tedeschi non ritennero la somma realistica e chiesero una revisione.
Nella conferenza di Parigi del Gennaio 1921, la commissione fissò una somma minore, 226 miliardi
di marchi-oro, ma vi aggiunse un prelievo del 12 % sulle esportazioni tedesche per 42 anni, oltre
alle fornitura in natura. Ancora una volta la Germania rispose che erano condizioni inaccettabili, e
allora gli alleati proclamarono nel maggio del 1921 “l’ultimatum di Londra”, nel quale le
riparazioni erano fissate a 132 miliardi di marchi, da pagarsi a rate con un tasso del 6%. Per
assicurarsi il flusso dei pagamenti, la commissione aveva individuato una serie di cespiti fiscali che
avrebbero dovuto essere dedicati allo scopo. Questa volta la Germania non aveva scelta, ma poiché
la situazione economica interna era caotica, chiese una moratoria dei pagamenti in denaro, mentre
continuavano quelli in natura. Fu proprio per questi pagamenti in natura che si aprì un contenzioso
che finì col portare all’invasione della Ruhr da parte di truppe francesi e belghe nel gennaio del
1923. Gli invasori pretesero di dirigere loro stessi le operazioni di fornitura dei prodotti, una cosa
che generò una reazione di resistenza passiva da parte della popolazione tedesca, che cessò di
produrre e dovette essere mantenuta attraverso sussidi governativi. La situazione monetaria della
Germania, già molto precaria, cominciò a peggiorare drasticamente. Se nel 1921 lee imposte
coprivano il 47% delle spese e nel 1922 il 40%, nel corso del 1923 la copertura precipitò fin che in
agosto solo il 7% delle spese era coperto da entrate, e in ottobre solo l’1%, il resto essendo coperto
dalla stampa di cartamoneta. L’inflazione si tramutò in iperinflazione e il sistema monetario tedesco
venne distrutto. Nel novembre del 1923, dopo che l’inflazione aveva reso il marco inservibile,
venne introdotto un nuovo marco, chiamato Renten Mark con un vago richiamo al valore dei beni
immobili del paese. Nel dicembre del 1923 venne affidato a una commissione presieduta da un alto
funzionario americano, Charles Dawes, il compito di fissare un piano ragionevole di pagamento
delle riparazioni. Il piano Dawes, che andò in funzione nel 1924, prevedeva il pagamento di rate
annuali che aumentavano con un indice di prosperità dell’economia tedesca, senza fissare un
orizzonte temporale. Inoltre per facilitare l’inizio del meccanismo, prevedeva un prestito di carattere
commerciale da piazzare sulla borsa di New York, che ebbe notevole successo, permettendo
all’economia tedesca non solo di iniziare il pagamento delle riparazioni con i proventi di tale
prestito, ma anche di coprire qualche altro buco della bilancia dei pagamenti. Fu solo nel 1924, che
in corrispondenza con l’applicazione del piano Dawes, che la circolazione monetaria fu alla fine
stabilizzata con il Reichs Mark. Poiché fu un afflusso di capitali esteri che permise questa
stabilizzazione, l’economia tedesca si trovo fortemente dipendente da tali capitali, che finanziarono
nel 1925-1927 un terzo degli investimenti interni e più che finanziarono con le divise straniere che
affluivano le rate delle riparazioni, mantenendo la bilancia dei pagamenti in equilibrio. Dunque,
come sostenne Costigliola, il piano Dawes fu il pilastro degli sforzi americani degli anni venti per
sostenere l’economia europea, un pilastro che tuttavia poggiava su sabbie mobili. La Germania
doveva mantenere alti i tassi d’interesse per attirare i capitali, che erano privati e non pubblici. Ma
poiché questi capitali venivano presi a prestito per lo più dai comuni, per progetti infrastrutturali
pubblici, e dal settore agricolo, non ci si poteva aspettare da tali settori una profittabilità sufficiente
alla copertura di interessi così elevati, che tesero dunque a diminuire. Così l’attrattività del mercato
tedesco diminuì per gli investitori stranieri, in particolare con i capitalisti americani che a partire dal
1928 videro la loro borsa in costante espansione. Quando poi alla fine del 1927, si profilò un
raffreddamento della congiuntura tedesca, il ritiro dei capitali americani divenne inevitabile,
provocando un aggravamento dell’economia tedesca e quindi una vera e propria crisi, che iniziò
verso la fine del 1928, un anno prima della grande crisi americana. Nel 1928 si pensò di rendere più
definitivo il metodo delle riparazioni con un nuovo piano, affidato a una commissione presieduta
dal banchiere americano Owen Young, che nel ’29 produsse il piano Young. In esso si abbassava la
rata annuale (prevedendone un aumento successivo) e si fissava l’orizzonte temporale di pagamento
in 37 anni. Quando l’accordo fu raggiunto l’economia tedesca era già in crisi, mentre quella
mondiale precipitò di li a poco con la crisi americana. Il pagamento di riparazioni e debiti di guerra
venne sospeso nel giugno del 1931, al culmine della crisi finanziaria internazionale, e non venne più
ripreso in seguito. Furono dunque le conseguenze della vicenda delle riparazioni a mantenere
l’economia tedesca depressa e debole, fino al punto da renderla uno dei poli della grande crisi.
L’iperinflazione aveva azzerato tutti i capitali liquidi (depositi bancari, titoli di stato), oltre alla
moneta corrente, provocando grandi perdite alla classe media, che era la maggior detentrice di tali
capitali. Dopo la stabilizzazione, si trascinò in Parlamento un’interminabile discussione sui possibili
modi per compensare almeno parzialmente tali perdite, ma alla fine non se ne fece nulla,
aumentando la disaffezione della classe media nei confronti della Repubblica di Weimar e
spingendo tale classe verso partiti estremi, che vennero poi ulteriormente rafforzati dalle disastrose
conseguenze della grande crisi. In conclusione, le riparazioni effettivamente pagate furono un
ammontare assai modesto, se si accoglie la stima della commissione berlinese, che escludeva gran
parte dei pagamenti in natura e del valore dei beni tedeschi all’estero confiscati, che invece
comparivano nella stima del governo tedesco. Le responsabilità di tale insipiente politica vanno
equamente divise tra gli Stati Uniti, ancora troppo isolazionisti per pensare di assumersi l’onere di
equilibrare l’economia e la politica mondiali, e i paesi europei, che ancora non avevano capito che
occorreva abbandonare la logica nazionalistica e della vendetta, per abbracciare una nuova logica di
integrazione europea. Infine la vicenda delle riparazioni tedesche era stata mal congegnata dal punto
di vista politico e anche dal punto di vista economico, gli Stati Uniti infatti avrebbero dovuto avere
una bilancia dei pagamenti in deficit, per assorbire capitali dall’estero. Essi continuavano invece ad
avere una bilancia dei pagamenti in avanzo, trovandosi così nella necessità di finanziare essi stessi i
trasferimenti a loro rivolti, in questo modo rendendo di fatto impossibile quello che loro stessi
pretendevano.
3. Gli anni 20 in Gran Bretagna Francia e Italia
Gli anni Venti videro un’Europa incapace di dar vita un nuovo ciclo di sviluppo, fondamentalmente
per i motivi strutturali e di relazioni internazionali illustrati nel precedente paragrafo. A questi
motivi, alcuni paesi aggiunsero altre difficoltà proprie, che portarono a sviluppi diversi e a esiti
talora inaspettati e paradossali. Delle tre maggiori economie fu proprio il leader, la Gran Bretagna, a
presentare il risultato più insoddisfacente. Fu la debolezza dei due paesi europei che erano stati
prima della guerra economicamente più solidi (GB e Germania) a causare il ritardo dell’Europa
intera in questo decennio.
Se le difficoltà della Germania erano prevedibili, date le irragionevoli condizioni a essa imposte dal
trattato di Versailles, certo più sorprendente è vedere che la Gran Bretagna, la potenza vincitrice, si
avvitò negli anni Venti in una spirale negativa, che le impedì quasi del tutto di accrescere il suo
reddito pro capite. La disoccupazione rimase alta, fluttuando tra il 7% e l’11% per l’intero decennio,
tasso simile solo a quello della Danimarca, mentre le esportazioni ristagnavano. La grande guerra
aveva indebolito la Gran Bretagna sia finanziariamente, sia sul piano industriale e commerciale. I
suoi impianti non erano stati rinnovati; le sue esportazioni tradizionali erano state soppiantate da
altri paesi, mentre aveva accumulato un debito di 4,7 miliardi di dollari nei confronti degli Stati
Uniti, a fronte di crediti nei confronti di alleati europei che si rivelarono largamente inesigibili.
L’inflazione, benchè più contenuta di quella degli altri paesi europei, era superiore a quella
americana, rendendo inevitabile una svalutazione della sterlina. Ma proprio questo fu l’evento che
si volle evitare a qualunque costo. Vi era una convinzione largamente condivisa da politici e
operatori economici che i problemi dell’economia inglese sarebbero stati risolti se si fossero
ristabilite le condizioni prebelliche, una delle quali era la stabilità monetaria. Quando, su pressione
americana collegata al piano Dawes, gli europei ritornarono al gold standard, la decisione della
Gran Bretagna nell’aprile del 1925 fu di ritornarvi allo stesso tasso di cambio con il dollaro che
vigeva prima della guerra, ossia 4,86 dollari per sterlina. Moggridge descrive dettagliatamente
l’analisi superficiale che venne fatta del funzionamento del gold standard prebellico, insiste sulla
fiducia che gli inglesi avevano di essere ancora leader e quindi di non poter subire contraccolpi
negativi da decisioni non cooperative eventualmente prese da altri paesi, chiarendo che la teoria
economica di riferimento era quella tradizionale che faceva ritornare all’equilibrio mediante la
flessibilità di prezzi e salari e la corretta applicazione delle regole del gioco nei pagamenti
internazionali e nell’uso delle riserve. Fu soltanto Keynes ad alzare una voce inascoltata contro la
decisione di Churchill, in un articolo in cui si scagliava contro l’uso di una teoria obsoleta, che non
corrispondeva a comportamenti effettivi, e anticipava che la decisione presa avrebbe mantenuta
l’economia inglese in una cronica posizione di equilibrio spurio, per la combinazione perversa di
sopravvalutazione e deflazione. Infatti, il governo, per sostenere il cambio sopravvalutato della
sterlina, dovette far uso di una politica monetaria restrittiva con alti tassi di interesse che
disincentivarono gli investimenti, mentre lee esportazioni cadevano, anche a seguito di un
lunghissimo sciopero dei minatori nel 1926. La bilancia dei pagamenti divenne negativa e le riserve
si assottigliarono, causando notevoli problemi alla Banca d’Inghilterra, che non voleva fare ricorso
ai prestiti.
Molti sono i paradossi dell’economia francese degli anni Venti. Il primo è certamente dato dal fatto
che la Francia, che subì grosse perdite dalla guerra, riteneva indispensabile ottenere mezzi per la
ricostruzione attraverso le riparazioni e su questo basò la sua diplomazia della pace, mentre in realtà
finì col ricostruirsi con i suoi propri mezzi, data la lentezza e l’esiguità dei pagamenti effettuati. Di
sicuro il recupero dell’Alsazia e della Lorena, regioni ricche di materie prime e industrializzate,
giocò un ruolo positivo, come pure fu positivo l’allargamento della capacità produttiva
nell’industria pesante che era stata realizzata durante la guerra. Ma un altro paradosso va
menzionato ed è la grande instabilità politica che afflisse il paese in un crescendo che sembrava
inarrestabile, fino a che tra il marzo 1924 e il luglio 1926, nello spazio di 29 mesi si susseguirono
11 diversi governi, senza che questo determinasse un rischio di dittatura. Raymond Poincaré nel 23
luglio 1926 stabilizzò il franco di fatto, riportando ordine nella finanza pubblica e nella politica
monetaria, senza danni per la democrazia francese. Il terzo paradosso è legato al tipo di
stabilizzazione che venne effettuata. Contrariamente ai suggerimenti inglesi, il franco venne
stabilizzato al tasso corrente, 25.53 franchi per dollaro, contro i 5.18 franchi prebellici, prendendo
semplicemente atto della svalutazione del franco che si era avuta tra guerra e dopoguerra, senza
tentare improbabili recuperi dei tassi di cambio prebellici. Il successo francese fu il rovescio della
medaglia dell’insuccesso inglese, anche se gli inglesi non vollero ammetterlo, continuando a
rimproverare alla Banca di Francia di aver accumulato oro e al governo francese di aver permesso la
svalutazione allo scopo di sottrarre mercati esteri alle esportazioni inglesi. Il fatto è che in un
mondo come quello degli anni Venti dove mancavano organismi economici internazionali
multilaterali, non vi era modo di armonizzare le decisioni, né era legittimo criticare come
improvvide ed egoistiche decisioni prese unilateralmente, quando tutti si muovevano in tale ottica
(Gran Bretagna inclusa). L’economia Francese fu la migliore delle tre analizzate, anche se superate
dall’Italia quanto a produzione industriale. Particolarmente brillanti le esportazioni, aumentate di
circa il 50%, e notevole l’aumento del reddito pro capite, pari a oltre un terzo.
In Italia si verifica un susseguirsi di difficoltà politiche drammatiche, tali da far scivolare il paese in
vent’anni di dittatura. Sono molti i fattori che hanno spinto il paese a quest’uscita dalla democrazia
impensabile negli anni prebellici.
A) Il difficile processo di riconversione delle industrie dalla produzione di guerra a quella di
pace, difficilmente sostenibile dallo stato, con i conseguenti fallimenti di imprese e
banche
B) Il conflitto sociale esacerbato dalla disoccupazione e dall’inflazione, che portò
all’occupazione delle terre e delle fabbriche nel biennio rosso -1919 1920.
C) Gli sviluppi politici che videro la creazione del partito popolare nel 1919, anno del
cambiamento del sistema elettorale da maggioritario a proporzionale, che vide la
sconfitta del partito liberale e la vittoria di due partiti, socialista e popolare, nessuno dei
quali con esperienza di governo e per di più non desiderosi di collaborare. I governi
minoritari che ne derivarono erano privi della necessaria autorevolezza.
D) La nascita nel 1919 del movimento fascista di Benito Mussolini, che iniziò a perpetrare
azioni illegali non adeguatamente contrastate dalla polizia
E) L’atteggiamento scarsamente garantista del re, che non volle bloccare con l’esercito la
marcia su Roma dell’ottobre 1922, consegnando il potere a Mussolini che aspettava a
Milano e raggiunse Roma per formare il suo primo governo con un vagone letto.
Non è facile giudicare quale di questi fattori pesò di più nel portare al risultato finale dell’ascesa al
potere di Mussolini, ma di certo le condizioni alterate dalla guerra e la mancanza di qualsiasi aiuto
internazionale per la ricostruzione sono l’iniziale causa scatenante di tutto il processo, mentre la
scarsa pratica di una democrazia di massa è l’altro motivo di fondo. La salita al potere di Mussolini
non segnò immediatamente una qualche forte discontinuità con le politiche precedenti, perché
Mussolini nominò Alberto De Stefani, un economista accademico liberista, anche se vicino al
fascismo, ministro delle finanze. De Stefani continuò nel processo di riequilibrio della finanza
pubblica, già iniziato precedentemente, fino ad arrivare al pareggio di bilancio. Gli scioperi vennero
proibiti (ma i sindacati vennero aboliti solo 1925) e l’economia si riprese, con trend troppo
inflazionistico che fece decidere Mussolini alla fine del 1924 a sostituire De Stefani con Giuseppe
Volpi, un grande finanziere e imprenditore veneziano, costui dovette affrontare il problema del
pagamento dei debiti a Gran Bretagna e Stati Uniti, che egli riuscì quasi interamente a farsi
condonare, e poi dovette effettuare la stabilizzazione della Lira per rientrare nel gold standard. In
questo frangente, la sua volontà che era quella di stabilizzare la Liraal tasso di cambio di mercato,
venne superata da Mussolini il quale impose nel 1926 la “quota 90”, ossia un tasso di cambio
sopravvalutato di 90 lire per £, che era pressappoco il medesimo tasso di cambio trovato in vigore
da Mussolini quando era andato al potere. Ciò perché non si pensasse che Mussolini lasciasse
perdere valore alla Lira. Contemporaneamente si consolidò il debito pubblico e si fece una riforma
bancaria, in cui la Banca d’Italia diventava per la prima volta la sola banca di emissione. Il
consolidamento del regime che portò il governo a manovrare al ribasso prezzi e salari senza troppe
difficoltà, evitò una crisi di gravi proporzioni così che ne 1928 si vedeva già una ripresa. Il governo
si dedicò allora all’organizzazione della “bonifica integrale”, che doveva migliorare strutturalmente
l’agricoltura italiana e le condizioni del paese parevano tornare a condizioni di normalità. Nel
complesso gli anni Venti furono abbastanza positivi per l’economia italiana, che vide la sua
produzione industriale aumentare sensibilmente un po’ in tutti i settori, particolarmente in quello
chimico, dove per la prima volta si affacciarono imprese importanti come la Montecatini e la Snia
Viscosa.

4. I ruggenti anni 20 negli Stati Uniti


Gli anni Venti furono invece negli Stati Uniti un decennio di rapida crescita economica, ma
soprattutto di profondi cambiamenti socio culturali, basati sulla nascita della società dei consumi di
massa. I governi repubblicani diminuirono la tassazione sulle classi di popolazione più ricche (che
erano state molto tassate durante gli anni della guerra mondiale). Questa manovra, insieme a una
politica monetaria espansiva, crearono un clima favorevole agli investimenti, mentre i consumi
vennero promossi da una politica di salari crescenti, dovuta al welfare capitalism inaugurato da
Henry Ford subito prima della guerra, ma andato in funzione soprattutto negli anni Venti. Il
protagonismo delle grandi imprese americane in politica e nella società marginalizzò però i
sindacati e questo contribuì alle crescenti diseguaglianze che si fecero strada negli Stati Uniti in
questo decennio, nonostante la diffusione la diffusione dei consumi di base. Il modello di
industrializzazione tipicamente americano basato su produzione di massa standardizzate si affermò
soprattutto con l’automobile, la radio, il fonografo, il telefono, il cinema, l’elettricità, la chimica e il
frigorifero. I nuovi prodotto richiesero grandi investimenti infrastrutturali, largamente finanziati
dallo stato, e fece progredire l’urbanizzazione, mentre il settore agricolo perse di peso. Sul piano
sociale, l’estensione del voto alle donne nel 1920, l’eliminazione di alcune leggi discriminatorie e la
grande domanda di lavoro delle corporations cambiarono il ruolo delle donne, che divennero più
libere, aumentarono la loro presenza nel mondo del lavoro e cambiarono anche la moda verso vestiti
più comodi e meno coprenti. Furono anche gli anni del proibizionismo, ossia del divieto di
produzione, importazione, vendita e negli anni finali anche di consumo di alcool, introdotto nel
1919 con il Volstead Act (abrogato nel 1933), con il contorno di malavita alla Al Capone che
emerse per aggirare il divieto di consumo di bevande alcoliche. Si affermò il Jazz e si diffusero i
giochi sportivi. Tutto questo definì quel American way of life fatta di beni di consumo durevoli, di
libertà di intrapresa, di rottura delle tradizioni, che gli europei non si potevano permettere, a causa
dei loro piccoli mercati protetti che impedivano l’introduzione di una produzione di massa.

Capitolo 10: L’unione sovietica dalla creazione alla seconda guerra mondiale
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1. La rivoluzione d’ottobre
La prima guerra mondiale aveva colto la Russia in un periodo ancora incoativo della sua
trasformazione capitalistica, in cui la privatizzazione delle terre seguita alla legge di Stolypin era
agli inizi e il decollo industriale era localizzato solo in poche città e aree dell’immenso territorio.
Nonostante anche un reddito pro capite molto più basso di quello inglese, la Russia fu spinta a
partecipare alla grande guerra dalla parte degli alleati sotto le pressioni francesi e anche per
affermare il suo ruolo di grande potenza. Ma l’economia e la società russe non erano in grado di
affrontare l’enorme dispendio di risorse di una guerra ormai combattuta sulla base della propria
potenza industriale e nemmeno erano preparate logisticamente per far fronte alla riorganizzazione e
regolamentazione dei mercati imposta dalla guerra. In particolare si rivelò difficile assicurare le
forniture di derrate alimentari ai soldati e alle città industriali che producevano per la guerra, con un
conseguente scontento generalizzato, soprattutto da parte di una popolazione che non era motivata a
combattere. Si arrivò dunque nel 1917 alla deposizione dello zar con la “rivoluzione borghese” che
formò un nuovo governo guidato da Aleksander Kerenskij. Probabilmente il più grande errore di
questo governo fu quello di dichiarare la continuazione della guerra, senza fondate speranze di
riuscire a migliorare l’organizzazione del paese. Nel caos crescente, fu relativamente facile alla
propaganda socialista di Lenin e del suo partito bolscevico fare breccia nel popolo, organizzato in
consigli rivoluzionari (soviet), che nell’ottobre del 1917 lanciarono l’attacco al governo borghese
con la presa del palazzo d’inverno a San Pietroburgo. Seguirono quattro anni di guerra civile,
durante i quali l’economia si trovò in un regime di “comunismo di guerra”. Si trattava di un ritorno
al baratto: la moneta era stata eliminata, il commercio privato abolito, i lavoratori erano militarizzati
e remunerati in natura (attraverso buoni d’acquisto) a livello di sussistenza, la produzione agricola
requisita, le industrie nazionalizzate, i servizi essenziali venivano forniti gratuitamente in un
ammontare minimo. La produzione industriale cadde a un quinto di quella del 1913, l produzione
agricola a due terzi, mentre esportazioni e importazioni scomparvero. Il partito sovietico e i suoi
sostenitori riuscirono ad impadronirsi di tutto il paese, vincendo la guerra civile.
2. La Nep
Lenin decise agli inizi del 1921 di varare la Nuova Politica Economica (NEP), che pose fine al
razionamento e alle requisizioni, cercando di combinare il mercato con elementi di socialismo. La
moneta venne reintrodotta, commercio e industria vennero liberalizzate per le piccole imprese al di
sotto di 20 occupati, ma fu soprattutto la sorprendente liberalizzazione dell’agricoltura a denotare la
Nep. Lenin sperava di indurre gli agricoltori a produrre di più e soprattutto a vendere di più con
incentivi di prezzo tipicamente capitalistici, imponendo un’imposta fondiaria proporzionale del tipo
di quella vigente sotto gli zar. Delle grandi imprese industriali nazionalizzate, solo quelle ritenute
strategiche venivano sottoposte a decisioni centralizzate, mentre alle altre veniva lasciata una certa
autonomia, anche nella formazione di gruppi. A questi gruppi si permetteva di firmare contratti
autonomamente e di seguire principi di efficienza e di ottimizzazione delle risorse, pagando allo
stato imposte sul reddito e sul patrimonio, mentre solo la loro strategia generale veniva determinata
dal consiglio supremo dell’economia nazionale, che era già in funzione durante il periodo del
comunismo di guerra. Si può veramente definire la Nep come il primo esperimento di economia
mista, in cui lo stato svolgeva una funzione programmatrice generale e gestiva una serie di imprese
nazionalizzate, lasciando tutto il resto al mercato all’interno di un’economia monetizzata, e in
questo senso anticipò l’esperimento nazista degli anni Trenta, e quello francese degli anni
Cinquanta-Sessanta. Sul piano produttivo, ottenne risultati positivi nel permettere la ripresa
dell’economia, arrivando anche a qualche importante recupero nel commercio estero, dove si
doveva scontare l’atteggiamento discriminatorio di molte potenze occidentali. Tuttavia la Nep
conteneva alcuni difetti intrinseci e manteneva aspetti del sistema capitalistico inaccettabili a certe
componenti del partito bolscevico. In primo luogo, i trust tenevano alti i prezzi dei prodotti
manifatturieri, si sviluppò una crisi delle forbici, con conseguente disincentivo alla
commercializzazione dei prodotti agricoli, il che imponeva rialzi dei prezzi agricoli, cosa che
ripugnava a una mentalità bolscevica. In secondo luogo, non veniva percepita l’importanza di un
controllo macroeconomico, il che favoriva inflazione e disoccupazione, altri aspetti di un’economia
di mercato che venivano aborriti. Inoltre vi era la mai sopita contrarietà di una parte del partito nei
confronti dei favori concessi agli agricoltori e ai commercianti nemici del popolo e il rifiuto della
componente speculativa inerente al meccanismo di mercato. Infine la lentezza del sistema di
mercato nel raggiungere le mete che il partito bolscevico assegnava all’economia, particolarmente
quelle di un riarmo forzato, aveva fatto aumentare il divario fra l’economia sovietica e quelle
occidentali.
Tutte queste contraddizioni e insoddisfazioni scoppiarono dopo la morte di Lenin, facendo
emergere visioni alternative.
1. La visione dell’ala sinistra del partito, guidata da Preobrazhensky, che raccomandava
un grande balzo industriale, particolarmente dell’industria pesante, accreditando un
processo di crescita sbilanciato a danno dell’agricoltura, che tuttavia si riteneva dovesse
essere lasciata in mano ai privati.
2. La visione della destra estrema del partito, guidata da Shanin, che era il portavoce di un
ritorno alle tradizioni agrarie della Russia, sulla base dell’argomentazione che una
maggiore produttività agraria avrebbe accresciuto i risparmi e mantenuto bassi i costi dei
prodotti alimentari, permettendo all’industria di crescere senza inflazione in un tempo
successivo.
3. La visione dell’ala destra del partito, sostenuta da Bukharin, che voleva la continuazione
di una crescita bilanciata sul tipo della Nep.
Mentre il dibattito si dispiegava, Stalin, alto dirigente del partito sovietico, non diede un suo
contributo autonomo, ma si limitò ad allinearsi con la posizione di Bukharin, sottolineando i
risultati positivi della Nep e ridicolizzando la proposta di superindustrializzazione della sinistra. Ma
nel 1927 le relazioni esterne dall’Urss peggiorarono, mentre si moltiplicavano i problemi interni di
disponibilità di cereali sui mercati urbani. Per aumentare questa disponibilità, Stalin finì con
l’adoperare misure sempre più coercitive, dirigendo personalmente la raccolta dei cereali in Siberia.
Diventava così sempre più convinto che non c’era altro modo di realizzare i progetti industriali che
premevano al partito se non spezzando le reni una volta per tutte agli agricoltori. Emerse in questo
modo il suo inopinato passaggio a una versione ancora più drastica della visione della sinistra di una
superindustrializzazione forzata a spese dell’agricoltura.
3. La pianificazione sovietica
Nell’Ottobre del 1928 Stalin, ormai padrone del partito dopo le purghe che avevano eliminato
Trockij, varò il primo piano quinquennale, nel bel mezzo di un’altra crisi di raccolta dei cereali. La
risposta di Stalin non si fece attendere e nell’autunno del 1929 venne dichiarata la collettivizzazione
integrale delle terre. Le proteste non mancarono, non solo nelle campagne, ma persino in alcune
città che avevano visto una vasta immigrazione di contadini, ma ciò non fece che rafforzare la
tendenza di Stalin a governare con la violenza. Ha inizio nel 1929 la pianificazione sovietica.
L’organismo centrale di coordinamento divenne il Gosplan dell’Urss (comitato statale di
pianificazione), che esisteva già negli anni Venti, ma era stato marginalizzato dal consiglio supremo
dell’economia, che fu eliminato. Gli obiettivi annuali stabiliti dal Gosplan erano quelli che
andavano realizzati dall’economia; di questi obiettivi, il Politburo del partito controllava
direttamente i principali. I piani operativi per ciascun settore industriale e ciascuna impresa erano
elaborati a partire dagli obiettivi del Gosplan, configurando un meccanismo dirigistico integrale
(top-down). Le materie prime venivano distribuite con matrici input output costruite in termini
fisici. I prezzi venivano stabiliti dal Gosplan secondo criteri di coerenza con gli obiettivi del piano,
usando discriminazione di prezzo e prezzi multipli. E’ proprio quest’ultima caratteristica di prezzi
integralmente amministrati che fece perdere ai prezzi in Urss il loro legame con i costi di
produzione e la scarsità o abbondanza dei prodotti rispetto alla domanda relativa, producendo i
tipici fenomeni di eccesso di offerta o di domanda. Tutti i fenomeni di eccesso di domanda
venivano trattati col razionamento e le code, invece che col rialzo del prezzo. Tuttavia i difetti della
pianificazione centralizzata sovietica vanno ben al di là del problema dei prezzi amministrati. La
rigidità della pianificazione quinquennale era uno dei problemi principali: era infatti impossibile
prevedere il futuro alla perfezione e quindi spesso si doveva ricorrere a modifiche del piano che
avvenivano sempre con molto ritardo e con ripercussioni negative sulla filiera interessata. E’
proprio per ovviare a questi problemi che paradossalmente il mercato che era stato spinto fuori dalla
porta prendeva la sua rivincita; infatti i direttori di fabbrica erano costretti a servirsi di mercati
informali per liberarsi di prodotti in eccesso e acquisire quelli in difetto, allo scopo di raggiungere
gli obiettivi del piano. Ma spesso gli obiettivi del piano risultavano del tutto irraggiungibili. Un
altro serio problema era dato dalla tecnologia. Durante la Nep più di 2000 ingegneri tedeschi
avevano aiutato i sovietici ad aggiornarsi tecnologicamente, mentre molti ingegneri sovietici
venivano mandati all’estero per imparare. Secondo Sutton, tra il 1917 e il 1930 non vi fu spazio per
una tecnologia sovietica, ma ci si limitò ad introdurre modelli occidentali. All’inizio della
pianificazione staliniana, si preferirono però i modelli americani, in parte perché più adatti al
gigantismo degli impianti sovietici, in parte per paura che gli europei presenti in Urss favorissero la
controrivoluzione. Negli anni 1930 1933 gli americani fornirono iniezioni massicce di tecnologia,
tale che in un secondo volume Sutton sostiene che anche sotto Stalin non ci fu alcuna possibilità di
produrre tecnologia autoctona, con la parziale eccezione della gomma sintetica. Il problema vero
era che in un sistema pianificato diventava ancora più difficile produrre tecnologia endogenamente,
dato che i tempi e le caratteristiche della nuova tecnologia non sono pianificabili ex ante. E’ inoltre
noto che la ricerca richiede spazi di libertà impensabili in un regime poliziesco come quello di
Stalin. Persino l’introduzione di tecnologia straniera dava problemi non prevedibili ex ante, che
spesso venivano ascritti ad atti di sabotaggio, dando luogo ad ancora più crudeli purghe, ma erano
dovuti in realtà all’impreparazione tecnica sia degli ingegneri sovietici sia dei lavoratori, molti dei
quali presi direttamente dalle campagne, oltre che agli inevitabili errori contenuti nei piani. Sta di
fatto che i primi due piani quinquennali raggiunsero circa il 70% degli obiettivi prefissati,
nonostante tutte queste difficoltà infatti vennero raggiunti alcuni importanti risultati. Il reddito
nazionale crebbe a un tasso sostenuto, in forza del grande balzo dell’industria. L’agricoltura in
realtà conobbe vicende drammatiche, la collettivizzazione forzata produsse una crisi di cui, per via
delle requisizioni forzate, furono soprattutto gli stessi agricoltori a sopportare le conseguenze.
All’interno del settore industriale fu privilegiata l’industria pesante, con un forte spostamento del
Pil dai consumi agli investimenti e alla difesa. Si può concludere che la pianificazione Staliniana
produsse un’industrializzazione forzata a beneficio della difesa e delle infrastrutture del paese,
accompagnata da un leggero aumento dei consumi personali pro capite, determinato da un aumento
dei consumi dei prodotti manifatturieri.
Il paese si trovò quindi in condizioni migliori per far fronte alla seconda guerra mondiale, rispetto
alla prima. La mobilitazione bellica fu molto più efficace, per il miglioramento delle infrastrutture e
l’aumentata capacità produttiva in campo militare. Il completo controllo dell’agricoltura evitò una
disorganizzazione annonaria. Ci furono altri due fattori di sostegno che spiegano come l’Urss riuscì
a vincere i ben più avanzati tedeschi. Il primo è un fattore tradizionale in Russia, già sperimentato al
tempo di Napoleone e anche prima: la vastità del territorio e la numerosità della popolazione
sfiancava di per sé l’avversario. Si pensi che durante la seconda guerra mondiale vennero mandati a
morte 9 milioni di soldati e oltre 16 milioni di civili. Il secondo elemento fa parte dei paradossi
della storia. Dopo la battaglia di Stalingrado in cui i russi dimostrarono di essere allo stremo della
loro capacità di resistenza, gli americani misero in opera una vasta operazione di sostegno all’Urss
con una spesa di circa 10 miliardi di dollari dell’epoca in aeroplani da combattimento, carri armati,
Jeep, camion, cibo in scatola e specialmente apparecchi di comunicazione che l’Urss non possedeva
e che furono strategici nel permettere il coordinamento delle operazioni in un territorio tanto vasto
come quello della Russia. Secondo Harrison, l’aiuto americano, calcolato a prezzi sovietici,
ammontò a circa il 10% del Pil sovietico negli anni 1943 1944, un ammontare che non poteva
essere sottratto ai già risicati consumi e che talora consisteva di beni che non si potevano produrre
nel sistema sovietico. Ciò rivela il ruolo strategico giocato da tale aiuto americano nel permettere ai
russi di vincere la guerra a fianco degli alleati, un risultato che si ritorse in seguito contro gli alleati.
Fu dunque l’America a contribuire in maniera determinante alla vittoria di quei russi che poi furono
gli unici a contrastare la grande potenza americana fino agli anni Ottanta.

Capitolo 11: La prima grande crisi internazionale


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Alla fine degli anni Venti si sviluppò nei paesi capitalistici occidentali una crisi di proporzioni mai
viste. In verità economisti e storici dell’economia hanno sempre osservato che il sistema
capitalistico ha un andamento ciclico, ma molta discordanza vi è sull’interpretazione dei cicli.
Esistono quattro scuole di pensiero:
1. La scuola dell’instabilità, che sostiene che il sistema capitalistico sia intrinsecamente
instabile, vede tra i suoi aderenti Malthus Marx Keynes. Marx arrivò a parlare di
contraddizioni interne del sistema dovute all’anarchia di mercato e al sottoconsumo
cronico, contraddizioni che avrebbero potuto portare il capitalismo all’autodistruzione.
Keynes formulò, proprio in seguito alla crisi, una teoria di intervento stabilizzatore da
parte dello stato per contrastare cadute della domanda effettiva.
2. La scuola della stabilità, che ritiene che il mercato è in grado di digerire gli shock di
varia natura cui è sottoposto, riportando infallibilmente il sistema all’equilibrio.
3. La scuola dei cicli, che invece mette il ciclo al centro della sua teorizzazione (Shumpeter
e Kuznets). Una riflessione che si è fatta strada in relazione con i cicli lunghi di sviluppo
riguarda il tema della saturazione dei mercati. Questa saturazione può essere effetto di
una completa diffusione del regime tecnologico esistente in un periodo storico, tale da
portare a una domanda legata solo alla sostituzione di beni usurati, presupposto per una
stagnazione secolare se non si profilano innovazioni. Ma ci può essere una saturazione
spuria dovuta alla crescita di diseguaglianze. Se i ricchi diventano sempre più ricchi e i
poveri non aumentano i loro redditi, ci saranno grandi disponibilità di risorse per gli
investimenti, ma la domanda effettiva non aumenterà. Ciò genererà sovrapproduzione e
dunque una tendenza dei capitali a cercare impieghi finanziari, con risultante creazione
di bolle finanziare e di crisi generalizzata.
4. Esiste anche una teoria finanziaria del ciclo, che spiega come si creano le bolle
finanziarie, producendo prima euforia e poi panico. Questa teoria finanziaria del ciclo si
deve a Minsky ed è essenzialmente una teoria a stadi, l’ultimo dei quali risulta più o
meno lungo nel tempo, a seconda se si presenta o no un Pui efficace.
Tradizionalmente, la grande crisi è stata fatta incominciare dalla caduta della borsa di New York
con una serie di giornate “nere” a partire dal 24 ottobre 1929; mentre la Germania, la quale si
trovava già in forti difficoltà dall’anno precedente, fu il secondo polo della crisi. La situazione
economica di molti paesi precipitò poi senza ripresa fino al 1932, con particolare contrazione del
settore industriale e del commercio internazionale, che collassò a un terzo in valore (per la forte
caduta dei prezzi) e al 40% in volume. I due paesi più colpiti furono Germania (ma anche Austria) e
Stati Uniti, e poiché la crisi tedesca iniziò prima, possiamo affermare che ci fu un bipolarismo della
crisi, con un focolaio in Europa e uno negli Stati Uniti. La durata della crisi e la sua gravità furono
superiori rispetto a qualsiasi crisi precedente del sistema capitalistico industriale. Il Giappone fu in
gran parte risparmiato dalla crisi, mentre anche i paesi europei che sembrarono inizialmente
cavarsela meglio in termini di reddito ebbero conseguenze ancora più negative, come vedremo nel
capitolo dodicesimo. Gli effetti sociali in un contesto dove il Welfare state forniva reti di protezione
modeste furono dirompenti, con lunghe code di disoccupati che cercavano un piatto di minestra o
un aiuto per la casa. I seguenti sono cinque elementi esplicativi della crisi:
1. I mutamenti strutturali che si erano verificati negli anni Venti avevano reso sia il
mercato dei prodotti (aumentando il grado di monopolio) sia quello dei fattori
(specialmente il fattore lavoro) molto meno flessibili di prima, il che rendeva più arduo
ristabilire automaticamente l’equilibrio dopo uno shock.
2. Il sistema monetario internazionale degli anni Venti aveva sì reintrodotto il gold
standard, ma a condizioni molto squilibrate. Inoltre gli Stati Uniti avevano cambiato il
loro ruolo da debitori netti a creditori netti, senza seguire le regole del gioco e senza
permettere quei trasferimenti netti dall’Europa. Questa rendeva il sistema scarsamente
solido e funzionante.
3. Il ruolo della caduta della borsa di New York è stato eccessivamente enfatizzato sia
come motivo scatenante della crisi, sia come causa principale.
4. Ciò che rese la crisi subito così seria fu una politica monetaria statunitense (ma anche
tedesca) molto restrittiva che produsse panico finanziario, fallimenti a catena,
deflazione, in assenza di un prestatore di ultima istanza a livello internazionale.
5. La trasmissione della crisi dai paesi che la generarono agli altri avvenne attraverso i
meccanismi del gold standard, la mancanza di coordinamento, la caduta dei prezzi
accompagnata da una mal interpretata ortodossia fiscale (si continuò a credere nei
bilancio in pareggio, anche quando la diminuzione delle entrate spingeva i governi a
tagliare la spesa e aumentare le tasse nel bel mezzo della crisi) e da un crescente
protezionismo.
Tutte le politiche economiche che erano state utilizzate fino ad allora con risultati generalmente
positivi diedero pessima prova in una congiuntura come quella che si verificò, perché una sincronia
quasi generale privò l’economia interna e internazionale di fattori di compensazione. Si prenda ad
esempio il protezionismo: se un paese lo inasprisce, potrà pensare di importare meno ed esportare di
più; ma se tutti i paesi lo inaspriscono contemporaneamente, la diminuzione delle importazioni di
tutti i paesi farà diminuire le esportazioni di tutti i paesi, dato che a livello aggregato importazioni
ed esportazioni si equivalgono; la riduzione delle esportazioni farà diminuire anche il redito e così
via in una spirale negativa. Si rifletta anche sulla politica fiscale: se, in generale, un bilancio in
pareggio è una buona regola, in presenza di una grave crisi occorre porre in essere dei fattori
controciclici. A completare questo quadro negativo stava la deflazione che, non essendo contrastata,
continuava a far abbassare i prezzi, creando difficoltà economiche anche alle imprese sane, in
quanto queste producono a prezzi salari vigenti e sono costrette a vendere prezzi inferiori. Inoltre la
mancanza di meccanismi di sostegno dei redditi dei disoccupati fece crollare la domanda effettiva in
una spirale di cui non si ravvisava il fondo.
Le banche non ebbero un ruolo di primo piano nella crisi del ’29, ma quando la crisi si fu
incancrenita, risultarono naturalmente incapaci di sostenere il peso dei troppi crediti non restituiti.
La catena di eventi legata alla parte bancaria della crisi è quella più spettacolare e dà la dimensione
del livello di interconnessione raggiunto ormai dall’economia mondiale e della necessità di un
governo internazionale dell’economia, che verrà posto però in essere solo dopo la fine della seconda
guerra mondiale. La situazione delle banche iniziò a peggiorare nel Novembre del 1931. La prima
crisi scoppiò in Austria, dove il Creditanstalt, la più grande banca mista del paese, fallì nel maggio
del 1931. Le difficili condizioni del paese spinsero il Creditanstalt a sostenere sempre di più le
imprese cui era legato, finendo con l’acquisire il 60% delle azioni delle spa austriache, anche sotto
la pressione del governo austriaco. Inoltre, a differenza delle banche italiane, il 50% delle sue azioni
era in mani straniere, e il 40% delle sue attività si svolgeva all’estero. Poiché le richieste d’aiuto
non vennero accolte, il governo austriaco intervenne mediante la banca centrale, ma con molto
ritardo. Solo nell’ottobre del 1931 vennero introdotti i controlli dei cambi e lo stato si decise a
diventare l’azionista di riferimento della banca, rimettendola in piedi senza alternarne il
funzionamento come banca universale. L’incapacità di bloccare il fallimento della banca viennese
ebbe ripercussioni ancora più serie. Le banche ungheresi furono le prime ad andare in crisi, ma ben
presto le difficoltà si spostarono in Germania. Tra la fine di maggio e la metà di giugno la
Reichsbank perse metà delle sue riserve di oro. Gli Stati Uniti dovettero correre in aiuto della
Germania, e il 20 giugno il presidente Hoover accordò una moratoria nei pagamenti delle
riparazioni e dei debiti di guerra, superando a stento l’ostilità della Francia. In luglio la crisi
bancaria esplose con il fallimento della Danat, una delle quattro più grandi banche miste. Il governo
decise di chiudere banche e borsa per una settimana, predisponendo un pacchetto di misure, tra cui
l’aumento del tasso di interesse al 10% e un’iniezione di liquidità nelle banche miste. La Danat
venne fusa con la Dresdner Bank e il suo capitale, come quello della Commerz, divenne a
maggioranza pubblico, mentre alla Deutsche Bank bastò una partecipazione pubblica di un terzo.
Anche in questo caso non si alterò il funzionamento delle banche, che ritornarono private alla fine
del 1930. La crisi bancaria tedesca diffuse i suoi effetti in tutta Europa, con una corsa all’oro che
finì col mettere sotto pressione la Banca d’Inghilterra, che aveva riserve modeste, per le difficoltà
dell’economia inglese del 1920. Molte furono le divergenze di opinioni sul come affrontarla fino a
provocare una crisi di governo. Il nuovo governo istituito il 28 agosto aumentò le imposte e diminuì
le spese, in un disperato tentativo di pareggiare il bilancio. Ma il 16 settembre uno sciopero del
personale di Marina di stanza a Ivergorden che protestava per la riduzione delle paghe venne
gonfiato dalla stampa come un ammutinamento e provocò altre gravi perdite di oro da parte della
Banca d’Inghilterra. Fu così che la decisione di abbandonare il gold standard si profilò come
inevitabile e il 19 settembre la Banca d’Inghilterra ne informò la Federal Reserve e la Banca di
Francia. Il 21 settembre la Gran Bretagna uscì dal Gold standard, con ripercussioni particolarmente
negative in quei paesi che non abbandonarono anch’essi il gold standard. La crisi giunse anche in
Italia, dove nel settembre del 1931 i direttori delle tre più grandi banche miste dovettero andare da
Mussolini per chiedere aiuto. Mussolini incaricò Beneduce di provvedere. Beneduce organizzò un
salvataggio delle banche in due tempi, fondando nel Novembre del 1931 un nuovo istituto di credito
industriale a lungo termine pubblico, l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI), che doveva assumere il
ruolo di finanziatore al posto delle banche miste, e sollevando poi le banche miste delle loro
immobilizzazioni in azioni, attraverso l’Istituto di ricostruzione industriale (Iri), che doveva gestire
le partecipazioni azionarie come una grande holding. Nel 1936 emanò una nuova legge bancaria
con la quale aboliva le pratiche di banca mista in Italia, riducendo le tre ex banche miste a banche
commerciali possedute dall’Iri. Si può veramente dire che in Italia gli effetti della crisi del ’29
furono strutturali e duraturi. L’unico paese europeo che fu risparmiato dalla crisi finanziaria fu la
Francia, per via della sua ampia riserva di oro (pari al 24% dello stock mondiale); il suo problema
più serio sembrava quello di liberarsi delle riserve di sterline svalutate senza rimetterci troppo, ma
questa relativa tranquillità non la mise al riparo da un peggioramento dell’economia, che anzi non
riusciva a riprendersi mentre le altre piano piano recuperavano. La crisi bancaria del 1931 si
ripercosse anche negli USA, con un grave aumento delle panche fallite. Il 7 ottobre del 1931 il
presidente Hoover, vedendo che la Fed non era in grado di fronteggiarla, spinse i banchieri a creare
la National Credit Corporation allo scopo di fermare i fallimenti bancari con operazioni di
intervento dirette, ma con scarso successo. La crisi bancaria si trascinò fino al 1933 mettendo
l’intero sistema bancario americano in rischio. Il nuovo presidente Franklin Delano Roosevelt,
appena insediatosi agli inizi di marzo, dovette chiudere le banche per una settimana e dovette
emanare il 9 marzo un Emergency Act, incorporato successivamente in Giugno nel Glass Steagall
Act, il quale mantenne la piccola dimensione delle banche americane, ma ne separò le attività: le
banche di deposito non potevano effettuare investimenti a lungo termine e le banche di
investimento potevano rischiare solo i loro propri capitali, perché non potevano avere depositi.
Venne anche introdotta l’assicurazione sui depositi, venne vietato il pagamento di interessi sui
depositi a vista e allargati i poteri di intervento della Federal Reserve, mentre la creazione di una
banca era sottoposta ad autorizzazione. Venne anche creata un’agenzia per il controllo della borsa.
Questa regolamentazione del sistema creditizio americano restò in vigore fino agli anni ottanta.
In conclusione, si può affermare che da un lato l’assenza di cooperazione internazionale rese il gold
standard una camicia di forza e impedì di mettere in funzione un prestatore di ultima istanza, mentre
dall’altro le politiche interne volte al pareggio di bilancio non fecero che peggiorare la situazione.
Gli automatismi e le ortodossie economiche cui si era abituati non più presa su un’economia
mondiale ormai fortemente interrelata e molto più complessa rispetto alla prima rivoluzione
industriale. Priva di un governo adeguato, l’economia mondiale divenne disarticolata e
discriminatoria, con l’emergere di blocchi economici e lo scivolamento verso un nuovo conflitto
mondiale.

Capitolo 12: Gli anni 30 e la seconda guerra Mondiale


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Mentre l’economia globale subiva l’unico periodo di involuzione dopo le guerre napoleoniche, le
vicende dei principali paesi europei presentano differenze notevoli, anche in seguito al modo
diverso di reagire alla crisi e alla diversa intensità di preparazione bellica, che avrebbe poi portato
alla seconda guerra mondiale.

1. Gran Bretagna gli effetti dell’abbandono del gold standard


La Gran Bretagna era stata costretta ad uscire dal gold standard nel settembre del 1931. La sterlina
nel corso del 1932 si svalutò del 30% nei confronti del dollaro e del franco francese, tuttavia
bisogna tener conto anche delle altre monete, nei confronti delle quali la sterlina si svalutò meno o
per niente. La svalutazione media del 1932 fu in realtà del 13%, scesa al 9% già l’anno successivo.
In realtà l’uscita dal gold comportò numerosi benefici, permise una politica monetaria interna
finalmente espansiva, con tassi di interesse basi che incentivarono gli investimenti, specialmente nel
settore delle costruzioni. Fu così che la produzione industriale e l’edilizia ebbero un notevole
recupero, posizionando la Gran Bretagna in un ristretto club di paesi che ebbero negli anni Trenta
una ripresa consistente. La disoccupazione scese ma si mantenne agli ancor alti livelli degli anni
Venti; secondo alcuni studiosi questo era dovuto alla mancanza di una politica fiscale keynesiana,
altri invece propendono per cause strutturali: gli investimenti furono in larga misura di
razionalizzazione e di compattamento delle imprese attraverso fusioni e si concentrarono sulle
industrie nuove, lasciando scoperte le aree della tradizionale industria inglese, dove si concentrava
prevalentemente la disoccupazione. Solo a partire dal 1938 la Gran Bretagna intraprese una politica
di riarmo, quando le preoccupazioni nei confronti del riarmo tedesco si fecero veramente serie. Era
già chiaro che le risorse inglesi erano impari rispetto allo stock di armi accumulato dalla Germania.
La Gran Bretagna poteva contare su un rapporto privilegiato con gli USA, tale per cui erano
convinti di vincere il confronto. La vittoria ci fu, ma furono gli americani a vincere la guerra,
impiantando così la loro egemonia sul mondo, mentre la Gran Bretagna divenne definitivamente
una potenza di secondo rango. Alla fine del 1931 anche la Gran Bretagna tornò al protezionismo,
non essendoci più le condizioni internazionali per continuare ad essere portabandiera del libero
commercio, ma ci tornò concedendo particolari condizioni in favore di paesi del Commonwealth
con il trattato di Ottawa. Questo favorì l’ulteriore concentrazione del commercio estero inglese con
le colonie, da cui riceveva il 40% circa delle sue importazioni. Secondo Drummond, questo risultato
fu raggiunto a prezzo di grandi concessioni alle colonie, che segnarono l’inizio della creazione di
condizioni favorevoli alla decolonizzazione. Nel 1938, soltanto il 30% delle esportazioni inglesi
erano dirette in Europa, percentuale che scese ancora al 20% dopo la fine della guerra. Questo
comportò un atteggiamento inglese di scarso interesse iniziale per il processo di integrazione
europea e un grave impatto della decolonizzazione postbellica sull’economia inglese.
2. Germania: La relazione di Hitler e il riarmo
La Germania applicò in modo estremo le politiche deflazionistiche, le imposte vennero aumentate
senza pietà e i tasi di interesse salirono a vette incredibili, che portarono al collasso dell’economia
tedesca e provocarono una progressiva disaffezione dei cittadini nei confronti della repubblica di
Weimar. Alcuni lavori hanno dimostrato che man mano che la disoccupazione saliva, i consensi ai
partiti estremi si allargavano, con preferenza per il partito nazionalsocialista di Hitler. I seguenti
aspetti ci aiutano a capire le difficoltà che dovevano affrontare i governanti tedeschi:
1. Non essendoci più un afflusso di capitali esteri già a partire dal 1928, per il pagamento
delle riparazioni si doveva provvedere attraverso un avanzo della bilancia dei pagamenti,
per ottenere il quale bisognava essere molto più restrittivi di altri paesi, cui bastava
raggiungere il pareggio;
2. Il collasso dell’economia tedesca poteva indurre al cancellamento o alla sospensione
delle riparazioni (cosa che in effetti avvenne);
3. Il marco non poteva essere svalutato, sempre a causa delle condizioni internazionali
imposte alla Germania dalla pace di Versailles;
4. Una svalutazione avrebbe comunque aumentato il peso reale del debito;
5. I salari erano inflessibili, a causa del potere dei sindacati, e avrebbero impedito alle
politiche fiscali molta della loro efficacia;
6. Non vi erano significative elaborazioni contemporanee di linee di politica economica
alternative in Germania.
Alle elezioni del 1932, il partito nazista ottenne un rilevante successo, che portò Hitler al potere nel
Gennaio del 1933. E’ stata quindi la perversa catena di azioni e reazioni che lega la sciagurata
politica di riparazioni tedesche con l’iperinflazione e destabilizzazione dell’economia tedesca prima
e la gravità della crisi economica poi, che ha portato in definitiva la Germania al rifiuto della
democrazia e al prevalere di una logica della vendetta e della violenza. Una volta al potere Hitler
operò per riavviare gli investimenti nel settore edilizio e del trasporto restaurando la piena
occupazione prima dell’inizio del riarmo su ampia scala. Questo successo economico rafforzò
molto il regime. Tale risultato venne ottenuto grazie a un notevole aumento della spesa pubblica,
che passò dal 15% del reddito nel 1928 al 23% nel 1934 e al 33% nel 1938, aumento reso possibile
da un ingegnoso allargamento del credito da parte del presidente della Reichsbank Schacht. Invece
di aumentare semplicemente l’offerta di moneta, cosa la Germania non avrebbe potuto fare perché
non poteva ufficialmente uscire dal gold standard, emise dei certificati di credito che potevano
essere utilizzati in pagamento solo da banche e imprese, in questo modo evitando anche la nuova
moneta potesse essere utilizzata per i consumi, che recuperarono solamente i livelli già raggiunti nel
1929. Il riarmo iniziò su larga sala nel 1936, con un piano quadriennale, rafforzato nel 1938 con i
piani di costruzione della muraglia occidentale e presentò aspetti economici interessanti, come una
nuova versione di economia mista con una parte delle risorse sotto controllo diretto dello stato
attraverso mercati prioritari e un’altra parte lasciata al mercato. L’obiettivo di Hitler era di crearsi
uno stock di armamenti che permettesse un irresistibile blitzkrieg (guerra lampo), dato che non
riteneva opportuno sottrarre troppe risorse correnti all’economia civile. Tuttavia una certa lentezza
nelle realizzazioni dovuta anche all’inefficacia della direzione di Goring, e la decisione di Hitler di
entrare in guerra prima del previsto non permisero al riarmo di essere compiutamente efficace. Oltre
alla pianificazione, due furono gli strumenti impiegati dai nazisti per mobilitare risorse per il
riarmo, ossia l’autarchia e lo sfruttamento economico dei paesi dell’Europa centro meridionale,
ambedue con risultati assai inferiori rispetto alle aspettative. Nel caso dell’autarchia si utilizzò con
un certo successo l’industria chimica per produrre materiali sostitutivi, ma la Germania nel 1939
restava fortemente dipendente da paesi non egemonizzati per il petrolio, il ferro e molti altri
minerali, soprattutto impiegati nelle leghe per produrre aeroplani. Per quanto riguarda la politica di
creazione di un Lebensraum (spazio vitale), attraverso l’egemonia su molti paesi dell’Europa centro
meridionale e l’annessione di Austria e Cecoslovacchia, non vi sono dubbi che il commercio
tedesco si ridirezionò a loro favore, ma la loro incidenza restò modesta. Se consideriamo il gruppo
di paesi formato da Bulgaria, Grecia, Romania, Turchia, Iugoslavia, Italia e Spagna, le importazioni
tedesche da questi paesi passarono dal 1929 al 1938 da 9,8% al 18,7% e le esportazioni dall’11,2%
al 20,8%, percentuali che non potevano risolvere la sete di materie prime dell’economia tedesca.
Attraverso meccanismi di clearing a favore della Germania, tuttavia, molte di queste economie
finirono col finanziare lo sforzo bellico della Germania, mentre l’industria tedesca si impiantò in
grande stile in Austria e in Cecoslovacchia. In conclusione, il nazismo usò ampiamente l’arma
economica per i suoi scopi militari, sena raggiungere né perfetta efficienza né perfetta sincronia tra
ritmi produttivi operazioni militari, ma attivando comunque una macchina da guerra potente e
tecnologicamente avanzata.
3. Italia l’imperialismo straccione
Attraverso l’operazione di salvataggio bancario condotta da Beneduce in Italia, che vide la
creazione dell’Imi nel 1931 e dell’Iri nel 1933, lo stato italiano si trovò a possedere il 21,5% di tutto
il capitale delle società per azioni italiane, ma a controllare ben il 42% di tale capitale, con
particolare riferimenti a certi settori. L’Iri controllava la totalità della produzione di armi, l’80-90%
delle costruzioni navali, compagnie di navigazione, compagnie aeree, telefoni, il 40% della
siderurgia, il 30% dell’elettricità, il 25% della meccanica, il 15% della chimica, oltre alle ex banche
miste Comit, Credit, Banco di Roma e una serie di altre imprese in vari settori, che l’Iri cercò di
rivendere ai privati. Il management dell’Iri si adoperò per razionalizzarne la gestione, creando delle
subholding, la Stet per i telefoni nel 1933, la Finmare per le società di navigazione nel 1936 e la
Finsider per l’acciaio nel 1937. In tale anno l’Iri, pensato inizialmente come organo temporaneo, fu
dichiarato permanente, mentre nel 1936 venne varata una riforma bancaria, che rendeva pubblica la
banca d’Italia e aboliva la pratica di banca mista, e venne abbandonato il gold standard, legando la
Lira al dollaro. Il settore bancario italiano venne organizzato attorno a banche a breve termine e
istituti di investimento a lungo termine, tutti in mano pubblica, e così rimase fino alla legge bancaria
del 1990, che recepisce le direttive europee di liberalizzazione del settore bancario, non solo nel
senso di privatizzazione e apertura dei mercati a banche straniere, ma anche nel senso di ritorno
della banca universale. Tuttavia, il regime fascista non considerò la svalutazione della Lira fino al
1936, per l’attaccamento alla Lira forte instaurato nel 1926, e questo rese la politica monetaria
inevitabilmente restrittiva, anche se mitigata da controlli sui cambi e da accordi di clearing. In realtà
vennero formulati due interventi, da cui il regime si riprometteva sostegno popolare e benefici
economici, ma si rivelarono di modesta portata. Uno era la Bonifica integrale, che continuò a pieno
ritmo durante gli anni della crisi, ma la dove le bonifiche erano state capite e apprezzate, dato che
occorreva il concorso dei privati per la realizzazione dei progetti. Nel mezzogiorno e anche nel resto
d’Italia di progressi se ne facevano pochi perché i privati poco o nulla collaboravano e si profilò
quindi la necessità di passare ad espropri, che non si vollero fare da parte del regime, il quale, anzi,
arrivò a rimuovere nel 1934 il capace amministratore della bonifica Arrigo Serpieri. In seguito la
bonifica perse di incisività e significato economico, trascinandosi in una stanca routine. Il secondo
intervento fu quello di introduzione delle corporazioni, che vennero lungamente preparate e poi
introdotte nel 1934; dovevano essere lo strumento di superamento della conflittualità tra capitale e
lavoro e la Camera delle Corporazioni il luogo di rappresentanza degli interessi comuni alternativo
al parlamento liberale. Era, dunque, l’organo strategico per la realizzazione di quella “terza via” tra
liberismo e pianificazione che il fascismo accreditava ideologicamente come sua caratteristica
politico ideologica avanzata. In realtà la Camera delle Corporazioni non ebbe grande efficacia,
limitandosi a supervisionare i cartelli, le decisioni di investimenti, i prezzi e i contratti di lavoro.
Ma, per esempio, l’Iri era amministrato separatamente e il suo presidente Alberto Beneduce
rispondeva direttamente a Mussolini, mentre anche le decisioni sopra elencate venivano spesso
prese l di fuori delle Corporazioni e da queste semplicemente ratificate. Forse sull’effettiva
funzionalità delle Corporazioni incise anche il nuovo contesto politico militare in cui dal 1935 si
venne a trovare l’Italia, che impose all’economia un dirigismo più spinto da parte del governo.
Infatti nel 1934 l’economia italiana non dava ancora segni di ripresa e fu allora che Mussolini
aumentò l’incidenza della spesa per armamenti del regime. Nel 1934, sull’onda della propaganda
nazista, o delle difficoltà economiche interne, Mussolini cominciò a parlare di dare sbocco alla
popolazione italiana in Africa e a progettare un intervento militare, che effettivamente iniziò nella
seconda metà del 1935 in Etiopia e portò nel 1936 alla conquista di tale territorio e alla
proclamazione dell’impero. Tutto ciò andando contro un accordo raggiunto a livello internazionale
secondo il quale non si sarebbero più effettuate campagne coloniale in Africa, il chè costò all’Italia
la proclamazione delle sanzioni economiche da parte della Lega delle Nazioni. Con la campagna in
Etiopia iniziò una corsa al riarmo, che proseguì con il sostegno italiano al generale Franco nella
guerra civile spagnola e poi con il progressivo avvicinamento ad Hitler, culminato con il Patto
d’Acciaio del 1938, prodromo dell’adozione delle leggi razziali contro gli ebrei e dell’entrata della
seconda guerra mondiale nel giugno 1940. Mussolini cercò di imitare l’autarchia hitleriana, con
risultati ancora meno soddisfacenti, e con un rilevante spostamento del commercio estero verso la
Germania. Tuttavia lo sforzo di produrre materiali alternativi attivò anche in Italia ricerche e
impianti che, se non diedero risultati immediati importanti, si rivelarono significativi e utili per la
ripresa postbellica. Si può dunque concludere che, a differenza della Germania, in cui la ripresa
venne innescata sulla base di investimenti in campo civile, la ripresa italiana fu prevalentemente
basata sul riarmo, anche se i risultati furono del tutto inadeguati rispetto alle caratteristiche e alle
modalità della seconda guerra mondiale.
4. Francia dalla crisi alla disfatta
A causa del suo grande stock di oro e del suo basso livello di disoccupazione dovuti alla sua relativa
vivacità negli anni Venti, dalla svalutazione della sterlina in poi la Francia cominciò ad accusare
una notevole caduta delle esportazioni e delle entrate turistiche. L’attaccamento al franco di
Poincarè fece escludere una svalutazione e questo significò la continuazione di una politica
monetaria restrittiva e di una spirale deflazionistica di tagli a prezzi e salari, fino al tardo 1936,
quando anche la Francia si decise a svalutare. Quando il paese si rese conto dell’incapacità dei suoi
governi, volle tentare di cambiare mandando al potere il 5 luglio del 1936 un governo di sinistra
guidato da Leon Blum e appoggiato da socialisti e comunisti. Le prime decisioni di questo governo
furono nell’ordine di aumentare salari e diminuire le ore di lavoro con gli accordi di Matignon.
L’incongruità di queste misure rispetto alle condizioni dell’economia francese venne subito
percepita dagli imprenditori che, temendo il peggio, iniziarono ad esportare capitali, rendendo la
svalutazione del franco inevitabile, ma non aiutando certo a riavviare gli investimenti e la ripresa
economica. Il franco venne svalutato, ma la situazione rimase tesa. Dal Giugno 1937 all’aprile del
1938 ci fu una paralisi politica che vide un susseguirsi di diversi governi. Nel maggio del 1938
viene incaricato Paul Reynaud per governare l’economia; allora vennero varati incentivi agli
investimenti, promossa la ricerca e la raccolta di statistiche e venne iniziato un massiccio
programma di riarmo. La produzione industriale risalì, ma troppo tardi per poter efficacemente
contrastare l’attacco tedesco del 10 maggio 1940, che la Francia si trovò assolutamente impreparata
ad affrontare, venendo schiacciata in 40 giorni di massiccia campagna. Da ricordare anche il
governo Petain, da tutti condannato perché collaborò con i tedeschi che occuparono la Francia;
tuttavia tale governo si adoperò per migliorare i metodi di produzione dell’industria francese,
aumentando la produttività sulla base di un piano decennale di modernizzazione degli impianti e di
una migliore e più efficiente raccolta di dati statistici.
5. Il New Deal Americano
Il New Deal ha portato a una profonda modifica dell’economia e società americane, con un
significativo cambiamento nella conduzione macroeconomica della nazione, realizzato anche
attraverso l’aumento delle spese federali statunitensi: mentre le spese statali e municipali rimasero
pressappoco invariate, quelle federali quadruplicarono nel corso degli anni trenta, portando
l’incidenza della spesa pubblica dall’11% del 1929 al 17% del 1939. L’importanza della spesa
federale sul totale delle spese raddoppiò entro la fine del decennio Trenta, per aumentare ancora
successivamente fino a oltre la metà della spesa pubblica totale alla fine del Novecento. Oltre al
Glass Steagall Act, inizialmente il New deal introdusse una serie di interventi di emergenza.
Attraverso la Fera (Federal Emergency Relief Adminstration) si provvide a offrire lavoro in opere
pubbliche e infrastrutturali. Nell’inverno tra il 1933 e il 1934 furono 2mln i lavoratori che ne
beneficiarono. Attraverso l’Aaa (Agriculture Adjustment Administration) si perseguì l’obiettivo di
rialzare i prezzi dei prodotti agricoli caduti a livelli insopportabilmente bassi: misure analoghe per
l’industria si introdussero con la Nra (National Recovery Administration). Il successo delle
politiche di Roosevelt fu tale che i democratici conquistarono anche il congresso e nell’inverno del
1935 iniziò la seconda fase del New Deal, in cui i provvedimenti di emergenza dei primi 100 giorni
vennero tramutati in componenti permanenti delle politiche macroeconomiche americane. In
agricoltura, L’Aaa fu riproposto come schema permanente di sostegno dei prezzi agricoli anche
attraverso il controllo delle quantità prodotte, cui provvedeva un meccanismo amministrato da Soil
Conservation and Domestic Allotment Act del 1936. La Nra fu invece abolita, ma sostituita da tre
diversi tipi di interventi. Con il Wagner act del 1935 venne creato il National Labor Relations Board
(NLRB), che garantì ai sindacati un riconoscimento ufficiale e li abilitò a rappresentare i lavoratori
nei conflitti di lavoro. Inoltre nel 1938 venne approvato il Fair Labor Standards Act, che stabiliva
un salario minimo, un orario massimo di lavoro e il compenso per gli straordinari. La seconda area
di intervento fu quella della sicurezza sociale, che non aveva trovato fino ad allora applicazione
generalizzata negli Stati Uniti. Nel 1935 fu varato il Social Security Act, che riordinava il sistema
pensionistico, le assicurazioni contro la disoccupazione e gli schemi di sostegno ai disabili e agli
orfani. Infine la terza area fu quella dei lavori pubblici, dipendenti dalla Public Works
Administration e dalle varie agenzie specializzate di volta in volta costituite per realizzare i vari
progetti, come la Tennessee Valley Authority che bonificò, ellettrificò e canalizzo l’acqua in una
vastissima area europea.
6. La seconda guerra mondiale
La ripresa degli anni Trenta in Europa fu dunque diversa da paese a paese, perché dovuta a
meccanismi interni, almeno fino al riarmo generale che si impose alla fine del decennio. Anche in
Giappone negli anni Trenta si ebbe una grande crescita del settore pesante; ancora nel 1934 due
terzi circa dell’occupazione industriale giapponese erano nell’industria tessile (seta e cotone),
mentre nel 1942 non vi restava più del 20% e il 60% era passato al settore dell’industria pesante.
Questi sviluppi furono dovuti al prevalere di un’élite militarista, che portò prima a una guerra di
aggressione alla Cina, con l’invasione della Manciuria e infine arrivò all’attacco agli USA a Pearl
Harbor nel 1941. A questo punto Giappone e Germania risultano i paesi con i migliori risultati in
termini di crescita del Pnl, politiche monetarie e fiscali, anche se in Giappone la crisi era stata
contenuta, mentre il Germania la ripresa fu fenomenale. La Gran Bretagna si posizione ad un livello
intermedio, anche perché la crisi fu modesta, mentre l’Italia ebbe una debole ripresa, che forse
spiega la decisione di Mussolini di provare con l’imperialismo. Le peggiori performance sono
invece quelle di Francia e USA, la Francia ebbe una ripresa debolissima e gli USA subirono una
crisi gravissima e una ripresa insufficiente, anche se in sé non del tutto disprezzabile. Le economie
più brillanti si dotarono di politiche monetarie espansionistiche, mentre quella tedesca si
avvantaggiò di politiche economiche efficaci da ogni punto di vista. L’economia americana invece,
venne rovinata da politiche incredibilmente inadeguate, e rimise in moto la propria macchina
produttiva a pieno ritmo solo con la guerra, che peraltro cercò a lungo di evitare. La seconda guerra
mondiale consumò nel fuoco della battaglia un’incredibile quantità di risorse, ancora maggiori della
prima guerra mondiale. L’Italia ebbe la mobilitazione più modesta, probabilmente perché il regime
fascista non credeva più di tanto nella guerra e non riteneva di poter pretendere da cittadini che ci
credevano ancor meno sacrifici consistenti, ma anche perché mancavano le materie prime per poter
produrre di più. L’escalation di Germania e dell’Unione Sovietica a partire dal 1942 e degli USA a
partire dal 1943 è grande. Gli incredibili livelli raggiunti dalla Germania e particolarmente
dall’URSS, un paese ancora molto povero, hanno parte della loro spiegazione nel fatto che ambedue
(e anche la Gran Bretagna) potevano contare su risorse aggiuntive proveniente dall’esterno, dagli
Stati Uniti per la Gran Bretagna e URSS (contributo consistente dell’ordine del 10% del Pil russo),
dai paesi occupati per la Germania. Durante i lunghi anni in cui la guerra devastò l’Europa,
Germania e Gran Bretagna elaboravano le loro proposte per la riorganizzazione del mondo dopo la
fine della guerra. In Germania l’idea-base era quella di un Nuovo Ordine, i cui contenuti non erano
uniformemente interpretati nei circoli nazisti, ma che comunque comprendeva i seguenti elementi:
- Uno stato corporativo di stampo fascista;
- Una programmazione da economia mista con forte presenza dello stato;
- L’autarchia
- Lo “spazio vitale” (lebensraum), ossia una sorta di egemonia tedesca dell’economia
europea.
Lo “spazio vitale” venne interpretato in maniera coercitiva, attraverso l’annessione e la connessione
di molti paesi, che poi venivano richiesti di contribuire all’economia tedesca. La Francia con il
governo collaborazionista di Petain diede il contributo più rilevante allo sforzo bellico tedesco
(anche se veniva richiesta per lo più di produrre beni destinati al mercato civile, liberando così
capacità produttiva tedesca per gli armamenti). Importanti furono anche la Norvegia per le materie
prime strategiche che vennero ottenute, l’Italia nel periodo dell’occupazione, perché i tedeschi si
fecero pagare una forte indennità di guerra, Belgio e Olanda per la loro capacità produttiva. La
Germania cercò di realizzare piani di produzione integrati, con l’apertura di nuovi impianti da parte
delle principali aziende tedesche. Tuttavia, proprio perché l’intero sistema si reggeva sulla
coercizione e la violenza, i tedeschi dovettero affrontare il serio problema dell’organizzazione di
una forza lavoro spesso riottosa. Sauckel preferiva l’internamento forzato in Germania, dove la si
poteva controllare meglio, ma sollevava problemi logistici formidabili; mentre Speer favoriva la
soluzione di farli lavorare in patria, il che lasciava però maggiori spazi al sabotaggio. Il fatto è che
nessuna soluzione poteva essere ottimale, per gli elementi di costrizione che ciascuna di esse
conteneva. Il Gran Bretagna il primo problema da risolvere fu quello di trovare risorse per far fronte
a una guerra che, con la sconfitta della Francia, diventava sempre più lunga e costosa. L’aiuto
proveniente dal Commonwealth si rivelò ben presto inadeguato e quindi ci si dovette rivolgere agli
USA, che non erano ancora in guerra. Nell’estate del 1940 gli USA suggerirono di liquidare gli
investimenti inglesi all’estero, ma anche questo fu un sollievo temporaneo. Nel marzo 1941 il
congresso americano approvò una legge (Neutrality act) secondo la quale qualsiasi aiuto di guerra ai
belligeranti sarebbe stato fornito senza contropartita, allo scopo di eliminare alla radice una
ripetizione dei perversi effetti dei debiti di guerra interalleati successivi alla prima guerra mondiale,
di cui ci si rese tardivamente conto. Nel maggio del 1941 la Gran Bretagna inviò negli USA una
delegazione capeggiata da Keynes a negoziare un piano d’aiuti; costui aveva pensato di restare negli
USA solo per una settimana e invece vi restò per tre mesi a causa dell’insorgere di divergenze tra
amministrazione americana e inglese. Gli americani infatti volevano dei precisi impegni da parte
degli inglesi sulla liberalizzazione dell’economia dopo la guerra e la reintroduzione del gold
standard, ma Keynes era restio a sottoscriverli, perché riteneva che la Gran Bretagna avrebbe avuto
bisogno di molti controlli per rimettere in sesto la propria economia durante la ricostruzione. Alla
fine venne raggiunto un compromesso e venne varata la Carta Atlantica, in cui si affermava
esplicitamente il principio del multilateralismo e si invocava un assetto mondiale cooperativo per
espandere produzione, occupazione e scambi, eliminando pratiche discriminatorie e riducendo le
barriere al libero commercio. A seguito di quell’accordo venne approvato nel febbraio 1942 il
Mutual Aid Agreement con uno schema di aiuto noto come Lend Lease (affitti e prestiti), che fece
affluire alla Gran Bretagna 30 mld di dollari di materiale bellico, di cui 10 vennero distribuiti alla
Russia, più qualche flusso minore ad altri paesi. Il punto di svolta della guerra fu la partecipazione
diretta degli USA a partire dal 1942 che rese le sorti della guerra immediatamente più bilanciate,
fino a che si profilò la vittoria degli alleati. In realtà, con gli Stati Uniti gli alleati potevano contare
su di un ammontare di risorse che era più del doppio di quelle dell’Asse. Fu questo ruolo dominante
che gli americani si guadagnarono con il contributo determinante alla sconfitta della Germani e del
Giappone che rese gli USA la chiave di volta dell’architettura della pace successiva.

Capitolo 13: Le conseguenze sociali ed economiche della seconda guerra mondiale e la


ricostruzione
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1. La presenza americana in Europa dopo la fine della guerra e il piano Marshall
Il coinvolgimento degli americani nella seconda guerra mondiale fu così intenso che fu subito loro
chiaro che era impossibile ritornare al vecchio isolazionismo. Anzi, vararono a partire dal novembre
del 1943 un piano di aiuti per la popolazione civile con l’United Nations Relief and Rehabilitation
Administration, che portò in Europa circa 4 mld di dollari in aiuti alimentari fino al 1947; quindi si
pose il problema di amministrare le zone tedesche occupate, dove l’economia non funzionava e il
sistema monetario era nuovamente andato distrutto. Ma il problema principale era quello di
disegnare una ricostruzione dell’Europa che desse maggiori garanzie di continuità rispetto a quella
che era stata concepita dopo la pace di Versailles. In realtà, i paesi europei, con la Francia in testa,
iniziarono di nuovo ad agitare il problema delle riparazioni, mentre procedevano allo
smantellamento di molti impianti tedeschi e procrastinavano ogni proposito di ricostruzione
dell’economia della Germania. Un altro problema incombente era l’espansionismo sovietico che
faceva leva sui partiti comunisti esistenti in vari paesi europei, cercando di inglobare sotto la propria
sfera di influenza il maggior numero possibile di paesi. A fronte di questa situazione, vi erano le
necessità della ricostruzione. Non che i paesi europei non si fossero messi all’opera, ma essendo
tutti poveri di materie prime e avendo perso tutte le riserve di valuta estera per finanziare le
importazioni, si ritrovarono ben presto intrappolati nel seguente circolo vizioso: solo esportando
avrebbero potuto importare le materie prime, ma senza di queste non potevano produrre per
esportare. Il 5 giugno 1947, durante il discorso di chiusura dell’anno accademico presso
l’Università di Harvard, il segretario di stato americano George Marshall annunciò che Stati Uniti
erano decisi a finanziare un piano pluriennale di sostegno alla ricostruzione di tutti i paesi europei
che avessero voluto aderire; il piano si chiamò European Recovery Program, ma noto anche come
piano Marshall dal nome di chi per primo lo annunciò. Il suo obiettivo era quello di coprire
attraverso aiuti americani i disavanzi delle bilance dei pagamenti dei paesi europei, in modo da
permettere loro di riavviare il processo produttivo senza tensioni inflazionistiche o colpi di mano
politici. Il modello di crescita che gli americani proponevano era il loro, basato sull’aumento della
produttività e l’organizzazione scientifica del lavoro, che sarebbero stati in grado di aumentare il
reddito nazionale e di rendere quindi meno gravi i conflitti distributivi. Tuttavia gli americani non si
limitarono a offrire fondi; progettarono anche un meccanismo di distribuzione degli stessi, che è
rimasto unico nel suo genere, basato su due piloni importanti:
a) si trasferivano direttamente i beni richiesti;
b) qualunque decisione doveva essere concordata con gli americani, che mantenevano la
supervisione e la responsabilità ultima dell’intero sistema. A seguito di ciò, benché il piano fosse
multilaterale, vennero aperti degli uffici in ciascuno dei paesi che vi aderirono, per negoziare la lista
di beni da inviarvi, sulla base di un piano quadriennale di crescita e di piani operativi annuali. I
beni, che venivano reperiti e acquistati direttamente dagli americani o sui loro mercati mondiali,
venivano consegnati ai governi dei paesi aderenti al piano Marshall senza pagamento. Questi
governi ne organizzavano la vendita sui loro mercati nazionali, ritirando moneta locale, che doveva
essere accumulata in un fondo contropartita, il cui utilizzo doveva essere concordato con gli
americani. L’Erp fece affluire beni in Europa per un valore di 12,5 mld di dollari e durò
formalmente quattro anni, dalla metà del 1948 alla metà del 1952, ma nel 1952 per le
preoccupazioni suscitate dalla guerra in Corea si snaturò tramutandosi in un piano di aiuti molto più
limitato e di carattere militare, la Mutual Security Agency (Msa). Tra i paesi aderenti si trovano
anche Portogallo e Turchia, furono inseriti dagli americani per ragioni geopolitiche, ma assorbirono
una quantità di risorse del tutto marginale data la loro partecipazione periferica alla guerra. Fra i
paesi maggiormente beneficiati vi furono certamente la Gran Bretagna e la Francia, che da sole
assorbirono poco meno della metà degli aiuti, seguite alla pari dalla Germania e Italia e poi dalla
piccola Olanda, che era stata gravemente distrutta. Si arriva a circa 100 miliardi di dollari del 1948,
che sono corrispondenti a circa 850 miliardi di dollari del 2015, di cui almeno due terzi in
armamenti. A tanto ammontò il contributo di risorse arrivato n Europa in gran parte dagli USA per
vincere la guerra contro la Germania e per riattivare l’economia Europea, ma il contributo
organizzativo che gli americani diedero fu altrettanto importante.
2. Il piano Marshall e gli inizi del processo di integrazione europea
Dopo l’annuncio del piano Marshall, Gran Bretagna e Francia pensarono di egemonizzare
l’amministrazione del piano dal lato europeo alleandosi e mettendosi a capo del gruppo delle
nazioni aderenti. Il 12 luglio del 1947 venne creato a Parigi un comitato per la cooperazione
economica europea, con rappresentanti di tutti i paesi. Il compito di questo comitato era quello di
far effettuare degli studi tecnici sulle economie europee per permettere a ciascun paese di formulare
il proprio piano quadriennale e per rendere gli obiettivi di ciascun paese compatibili a livello
aggregato. Si pensò in seguito di dare maggior risalto al gruppo tramutandolo nell’aprile del 1948
nell’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece). Gli americani vedevano
nell’Oece l’anticipazione di un assetto federativo dell’Europa e pensarono di affidare a tale
organizzazione compiti importanti come la suddivisione dei fondi del piano Marshall tra i paesi
europei. Ma l’Oece dimostrò subito di non avere potere decisionale, che i paesi europei tenevano
ancora gelosamente ancorato all’individualità nazionale e non volevano delegare a organismi
sovranazionali, e quindi la sua dimensione politica divenne del tutto secondaria. Continuò a
funzionare egregiamente a livello tecnico e di consulenza, fino a quando nel 1981 venne tramutato
in Ocse, con l’inserimento di altri paesi sviluppati come Canada, Australia e Giappone. Gli europei
questa volta avevano forti incentivi a trovare soluzioni cooperative, anche per l’insistenza degli
americani e per la presenza del piano Marshall che alleviava le necessità più urgenti. Fu l’insorgere
di un altro serio problema che si rivelò fecondo di soluzioni creative. Con il piano Marshall era
diventato chiaro che non si poteva più procrastinare la ricostruzione dell’economia e dello stato
tedesco, anche se depotenziato dalla sottrazione della zona sotto controllo sovietico, che venne
costituita in stato autonomo all’interno del blocco sovietico. I francesi tuttavia, continuavano a
temere la rinascita dell’industria pesante tedesca e alimentavano la questione dell’istituzione di
un’Alta autorità che tenesse sotto controllo la Ruhr. Il problema era che non si capiva da chi
dovesse essere guidata tale Alta autorità. I francesi non volevano che fosse guidata dagli americani
e si rendevano conto che la Gran Bretagna non era molto attiva nel cercare soluzioni non sentendosi
economicamente parte integrante dell’Europa continentale. Fu per il coraggio del ministro degli
esteri francese Robert Shuman che venne proposta una soluzione del tutto innovativa, senza
nemmeno informarne precedentemente gli inglesi, nella piena consapevolezza che questo
significasse la fine della cooperazione anglo-francese. Tale soluzione fu un accordo diretto con i
tedeschi per la costituzione di un organismo congiunto sovranazionale con pieno potere decisionale,
aperto all’adesione di altri paesi, per il controllo dei settori del carbone e dell’acciaio. Questo
accordo, cui parteciparono inizialmente 6 paesi (Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e
Italia) venne firmato l’8 aprile 1951 e fu la comunità europea del carbone e dell’acciaio. Negli anni
successivi la Ceca, inizialmente anche con fondi Erp, creò un mercato comune per il carbone e
l’acciaio, rimuovendo dazi, contingentamenti e altre restrizioni e armonizzando tecnologia e salari,
e dimostrò così che un’istituzione sovranazionale poteva lavorare per l’interesse di tutti i suoi
membri. Proprio per questo effetto dimostrativo e per l’asse franco-tedesco sul quale la ceca venne
fondata, tale istituzione si rivelò strategica per aprire quella strada lunga, ma efficace e cumulativa,
verso l’integrazione economica europea che mai si era potuta praticare in passato. La Gran Bretagna
non volle partecipare, isolandosi sempre di più dall’Europa fino alla svolta avvenuta negli anni
sessanta. Insieme alla Ceca venne messa in funzione anche l’Unione Europea dei pagamenti che in
un contesto di scarsità di riserve da parte delle banche centrali europee, doveva finanziare deficit
temporanei delle bilance dei pagamenti, allo scopo di non intralciare i flussi di importazioni e
esportazioni a causa della carenza di mezzi di pagamento. L’Uep, la cui ideazione fu aiutata dagli
americani anche attraverso l’Erp, fu dunque il primo esperimento di cooperazione monetaria, che
affinò i metodi di intervento sul mercato finanziario ma, soprattutto, abituò a negoziati che
dovevano ottenere benefici per tutti, mostrando agli europei la superiore validità di un
comportamento cooperativo. In conclusione si può dire che il piano Marshall reintrodusse il
multilateralismo, dopo le negative esperienze del bilateralismo degli anni fra le due guerre, diede un
impulso strategico al processo di integrazione europea, avviò un’era di grande espansione
economica mondiale, estese le aree di negoziati internazionali, diffuse il modello americano di
organizzazione economica in Europa. Non si era mai visto nella storia che il paese vincente
aiutasse a ricostruire a proprie spese alleati e sconfitti, consolidando un’egemonia, che possiamo
riconoscere senza difficoltà come guadagnata sul campo.
3. Creazione di organismi economici internazionali: Gatt, Fmi e Banca Mondiale
Nel 1946 venne formato all’interno delle Nazioni Unite un comitato preparatorio di 19 paesi per
stilare una convenzione per la costituzione di un organismo deputato alla supervisione del
commercio internazionale. Venne prodotta nel 1947 la carta costitutiva di una Organizzazione
Internazionale del Commercio, mai ratificata dagli USA perché considerata troppo vincolistica. Al
suo posto andò in funzione nel 1948 un’altra istituzione, sorta come forum di negoziati commerciali
e denominata General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt), che ebbe molto successo. Tre furono
i criteri per la conduzione dei negoziati:
a) Non discriminazione, ossia applicazione generalizzata della Npf; vennero concessi
alcune eccezioni fra cui clausole antidumping, accordi preferenziali come il
Commonwealth
b) Eliminazione delle restrizioni quantitative (contingentamenti)
c) Reciprocità, ossia concessione delle stesse condizioni tra tutti i partner. Anche in questo
caso vennero previste delle eccezioni per i paesi più arretrati.
Le sedute negoziali iniziarono già nel 1947 a Ginevra, con 123 accordi raggiunti da 23 paesi che
stabilirono di dare continuità ai negoziati, creando appunto il Gatt a partire dal gennaio dell’anno
successivo; vi fu poi il round di Annécy (1953), seguito da altri quattro negoziati negli anni
Cinquanta, che arrivarono ad eliminare quasi tutte le restrizioni quantitative, oltre ad abbassare i
dazi. Negli anni Sessanta ci fu un round importante, denominato Kennedy Round dal presidente
americano sotto il quale ebbe inizio, che riuscì a diminuire di un terzo i dazi sui prodotti industriali.
L’ultimo negoziato, denominato Uruguay Round, terminò nel 1994 con importanti risultati, come
l’inserimento nei negoziati commerciali internazionali del settore agricolo e dei servizi,
tradizionalmente esclusi in precedenza, e con la creazione di quell’organismo più forte che era stato
rifiutato nel 1947, denominato Organizzazione Mondiale del Commercio, che prese a funzionare dal
1995 ed ha anche quel potere sanzionatorio che era stato negato al Gatt. Sul fronte monetario, dopo
la Carta Atlantica Harry White per conto degli Usa aveva continuato a studiare un piano per la
reintroduzione del gold standard che venne reso pubblico nell’aprile del 1943 e che prevedeva la
creazione di un fondo con il potere di intervento a sostegno dei tassi di cambio in vigore. Intanto
Keynes preparava una controproposta, il suo progetto era in realtà molto più ampio e avrebbe
portato a un vero e proprio governo mondiale dei flussi finanziari, con un tentativo di eliminare alla
radice squilibri nelle bilance dei pagamenti attraverso un monitoraggio centralizzato che
introducesse disincentivi sia per i paesi in deficit sia per quelli in surplus a permanere nel loro stato
di equilibrio. A capo di questo governo integrato dei flussi finanziari globali doveva esserci una
Clearing Union con una sua propria moneta da utilizzare solo nelle transazioni tra banche centrali. Il
governo americano non volle accettare la creazione di un organismo super partes e appoggiò il
proprio progetto, che creava un fondo di intervento controllato da chi aveva conferito al Fondo
stesso maggiori risorse con qualche emendamento ispirato alle idee di Keynes. Nel luglio del 1944
venne convocata a Bretton Woods una riunioni dei paesi facenti parte delle Nazioni Unite, dove il
progetto venne discusso e poi ratificato nel 1945 da 45 paesi, dando così luogo alla creazione del
Fondo Monetario internazionale e della Banca Mondiale, ambedue entrati in funzione nel 1947. La
Banca Mondiale divenne ben presto una banca per lo sviluppo dei paesi arretrati, senza alcun nesso
con quella Clearing Union che Keynes aveva concepito come quella banca centrale del mondo. Per
quanto riguarda il Fmi, due principali compiti: la supervisione del nuovo sistema di cambi fissi e gli
interventi di sostegno finanziario a paesi temporaneamente in difficoltà. La supervisione che l’Fmi
fece del gold standard, reintrodotto a partire dal 1947, fu impeccabile, ma non potè impedire che le
riserve di oro degli USA, che costituivano oltre i due terzi dell’oro mondiale all’inizio del sistema
di Bretton Woods, si assottigliassero al 20% alla fine degli anni sessanta, creando le condizioni per
un abbbandono del gold standard nel 1973 con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro. Da
allora in poi prevalse un sistema monetario di cambi fluttuanti che non necessita di un fondo in
intervento. L’altro compito dell’Fmi era limitato alle scarse risorse proprie di cui il fondo
disponeva, così che venne sviluppato un metodo di intervento che assegnava al fondo un ruolo di
garante e apripista: il fondo veniva incaricato di ispezionare il paese che chiedeva un prestito, di
concordare un piano di misure di politica economica e di concedere un modesto credito, che poi
veniva complementato con altre fonti, le quali si aggiungevano sulla fiducia che il paese debitore si
sarebbe allineato alle richieste del Fmi. Questo è l’attuale ruolo del Fmi. In conclusione, nel
secondo dopo guerra ci fu un grande attivismo a livello internazionale, sia a livello economico che
politico (l’Onu) e militare (Nato), perché l’esperienza negativa di due guerre mondiali e di una
grande crisi avevano suggerito la necessità di monitorare fin dal loro insorgere gli sviluppi degli
inevitabili shock che il mondo era destinato a subire per cause naturali e ancor più, per conflitti
generati da popoli e individui, al fine di impedire che gli effetti perversi si accumulassero e infine
scoppiassero con tremende conseguenze. Inoltre, la creazione di organismi internazionali, contribuì
a multilateralizzare i negoziati, che producendo risultati di maggiore efficienza ed equità nelle
decisioni che venivano prese, per la presenza contemporanea di tutti i partner interessati ai tavoli di
negoziato.
4. La ricostruzione nei quattro principali paesi europei
Si tratta di anni in cui vennero messe le fondamenta di nuove democrazie, di un nuovo tipo di
convivenza tra gli stati europei e di un nuovo modello economico ispirato agli USA, temperato da
Welfare state tendenzialmente sempre più universale. Le ricerche disponibili hanno chiarito che la
capacità produttiva di vari paesi era stata molto meno distrutta delle infrastrutture: in Italia era stata
persa non più del 10% della capacità produttiva industriale, ma nella meccanica la capacità
produttiva postbellica era superiore a quella prebellica di almeno un terzo.; le ricerche di
Abelshauser hanno evidenziato che la Germania terminò la guerra con un capitale fisso nel settore
industriale superiore dell’11% a quello disponibile nel 1936, per di più in gran parte di recente
installazione; in Francia non vi fu alcuna perdita consistente, ma l’apparecchiatura industriale
soffriva per le conseguenze della mancata ripresa dalla grande crisi, mentre la Gran Bretagna uscì
dalla grande guerra quasi intatta, ma con un capitale fisso invecchiato e con tutti i suoi precedenti
problemi. Non era quindi la capacità produttiva che mancava, ciò che mancava era un contesto
internazionale favorevole alla ripresa produttiva, che fu appunto quello che le varie organizzazione
internazionali resero disponibile, avviando la ripresa. I migliori risultati vennero ottenuti dalla
Germania, la quale tuttavia scontava un livello di partenza nel 1948 terribilmente basso, quindi da
Austria, Italia e Francia, mentre tutti gli altri paesi si attestano su livelli di aumento tra il 10 e il
17%. I paesi con i migliori risultati produttivi sono anche quelli che hanno utilizzato una maggior
quantità di fondi di contropartita per scopi produttivi, denotando in questo modo una particolare
attenzione a politiche economiche volte a sostenere l’offerta. In particolare la lentezza
dell’economia inglese di quegli anni, preludio di altri anni successivi di lenta crescita, è collegata
con la scarsa attenzione degli inglesi ad aumentare gli investimenti e aggiornare le tecnologie e,
probabilmente, anche con la mancata partecipazione alla Ceca. Altri fatti notevoli da ricordare
relativamente a questo periodo in Gran Bretagna sono:
a) il National Insurance Act inspirato al rapporto Beveridge del 1942, che introduceva il servizio
sanitario nazionale, il pagamento degli assegni familiari e delle pensioni di vecchiaia;
b) le estese nazionalizzazioni dei settori del carbone, acciaio, elettricità, gas, trasporti aerei,
ferroviari e su gomma, telefoni, fatte dai governi laburisti. Non si tratta tanto di un tratto distintivo
in sé, ma in Gran Bretagna le nazionalizzazioni vennero fatte su una base prevalentemente
ideologica, mentre negli altri paesi o venivano ereditate dal passato (come in Italia e in Germania),
o avvennero per raggiungere precisi obiettivi di politica economica, come in Francia. La presenza in
Gran Bretagna di un esteso settore nazionalizzato non si combinò però con una forte politica
industriale, impedendo un’utilizzazione espansiva delle imprese pubbliche, che vennero in generale
gestite come monopoli di stato. Dei quattro principali paesi europei, quindi tre si stagliano per una
performance particolarmente brillante, collegata non solo con il piano Marshall, ma anche con una
serie di importanti misure di politica economica. In Germania, tre sono da ricordare: a) la riforma
monetaria del 1948, che fece ritornare in funzione l’economia di mercato e rimise in piena attività
l’industria tedesca; b) l’adozione di un’economia sociale di mercato, ossia di un’economia mista
rispettosa del mercato, ma attenta a correggerne gli effetti distributivi più inaccettabili; c) una
cooperazione tra capitale e lavoro permessa dalla cogestione, ossia dalla presenza dei rappresentanti
sindacali nel consiglio di supervisione delle imprese. L’insieme di queste politiche e delle
condizioni internazionali permisero alla Germania una ripresa rapidissima e poi un miracolo
economico. In Francia i problemi di controllo macroeconomico non furono di facile soluzione, con
ricorrenti crisi della bilancia dei pagamenti e inflazione, ma il sistema produttivo fu rimesso in moto
dalla decisione presa da DeGaulle nel gennaio 1946 di affidarsi a un sistema di programmazione.
Un piccolo Commissariat du Plan (Commissariato per la programmazione) venne istituito presso la
presidenza del consiglio, con a capo Jean Monnet, il quale fu molto abile a ottenere consenso
nazionale e internazionale intorno ad alcuni obiettivi produttivi di base (inizialmente carbone,
acciaio, elettricità, cemento, macchine agricole e ferrovie), formulando il suo primo piano
quinquennale. Anche il metodo fu innovativo: si stabilivano obiettivi realistici e mutualmente
compatibili, poi si provvedeva a un livello di concertazione con chi era coinvolto nella realizzazione
del piano e infine si mettevano in essere incentivi adeguati. I risultati del primo piano iniziato nel
1947 furono considerati così positivi, che la programmazione divenne uno strumento permanente
della politica economica in Francia fino alla fine degli anni settanta, inaugurando quel forte
coinvolgimento dello stato francese nel processo di sviluppo economico del paese che rimase una
costante anche quando la programmazione venne abbandonata. L’Italia dovette lavorare molto per
restaurare una democrazia che mancava da oltre vent’anni, in presenza di un forte partito comunista
che, con l’alleanza con i socialisti, minacciava di vincere le elezioni e di risospingere il paese in una
dittatura, sia pur di segno opposto. Il 18 aprile 1948 le elezioni segnarono la vittoria del partito di
centro, l Democrazia Cristiana, che amministrò il piano Marshall con una scelta produttivistica ed
europeista ed entrò nella Nato, legando fortemente l’Italia alle sorti delle avanzate democrazie
occidentali. L’imprenditoria italiana, messa a contatto col modello americano, fu in grado di
recepirne quel tanto che serviva ad attrezzare le sue più grandi imprese, mentre mostrò capacità di
riorganizzazione creativa del vasto mondo dell’artigianato e della piccola impresa, lanciando il
paese in un miracolo economico analogo a quello tedesco.

Capitolo 14: Dall’età dell’oro della crescita europea al ritorno dell’instabilità


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Mai l’Europa aveva sperimentato una crescente prosperità del tipo di quella che ebbe a vivere
all’epoca dei miracoli economici tra ricostruzione e metà anni settanta, ma questo processo
dinamico di crescita venne interrotto da eventi che ne abbassarono molto la velocità e innescarono
effetti perversi che arrivarono a produrre una nuova grande crisi.
1. Miracoli economici fatti e interpretazioni
Per quanto riguarda i paesi dell’Europa occidentale (l’Europa orientale si trovava sotto l’egemonia
dell’Unione Sovietica), questi mostrano in questo periodo un grande balzo produttivo. Negli anni
della grande espansione fino al 1973 i risultati raggiunti erano ottimi e vennero incrementati
successivamente, anche se i tassi di crescita mondiali si abbassarono di molto. Prendendo come
riferimento il paese leader, gli USA, c’è stato un grande processo di catching up da parte
dell’Europa occidentale, e ancor più del Giappone che però partiva da livelli ancora più bassi; i tassi
di crescita europei e giapponesi sono stati in media sempre superiori a quelli del paese leader, così
che i livelli relativi agli USA si sono avvicinati rispetto al 1950, benché il divario non sia stato
interamente colmato. Se, dunque, in generale l’Europa occidentale è notevolmente migliorata, si
nota che all’interno di tale area i paesi che sono maggiormente cresciuti sono quelli con livelli
iniziali più bassi, anche se la correlazione negativa non è perfetta. Il caso della Gran Bretagna, che
era nel 1950 tra i paesi meglio piazzati in Europa è paradigmatico, essendo il paese rimasto sulla
stessa posizione anche nel 1973, raggiunto e talora superato dalla maggior parte dei paesi
dell’Europa occidentale. Anche l’Irlanda ha avuto una performance relativa deludente, come pure la
Norvegia, mentre l’Italia ha avuto un tasso di crescita tra i più alti in assoluto e pari a quello della
Germania. Grecia, Portogallo e Spagna partivano da livelli simili a quelli del Giappone e più bassi
di quelli degli altri paesi dell’Europa occidentale, sono sì stati in grado di crescere
complessivamente più di qualunque altro paese europeo, ma ben al di sotto della performance
giapponese, restando nel 1973 ancora lontani dal resto dell’Europa occidentale. L’espressione “età
dell’oro” viene usata per indicare questa robusta espansione post bellica dell’Europa occidentale, di
seguito i principali elementi interpretativi di questa crescita:
1. Creazione di istituzioni nuove che si rivelarono particolarmente adatte a promuovere il
coordinamento delle politiche economiche.
2. L’esistenza di una vasta riserva di forza lavoro sotto occupata o disoccupata, soprattutto
in agricoltura, pronta a riversarsi nell’industria senza pretese di aumenti salariali. Ciò
permise un allargamento del settore industriale mediante l’accumulazione di profitti,
realizzando un processo di capital widening, che fece elevare la produttività media di
sistema, e dunque i consumi.
3. I “vantaggi dell’arretratezza” o altrimenti detto “gap tecnologico”, che permise
all’Europa di imitare gli USA, americanizzandosi in varia misura
4. La grande liberalizzazione progressiva del commercio internazionale attraverso il Gatt
che da un lato ha permesso una migliore specializzazione del lavoro e dall’altro ha
aumentato la competizione, due fattori che hanno incrementato l’efficienza nell’uso
delle risorse mondiali.
5. La bassa crescita dei prezzi delle materie prime, e dunque ragioni di scambio favorevoli
6. Bassi livelli di speculazione finanziaria, dovuti ai tassi di cambio fissi (sistema di
Bretton Woods), e forte incentivo all’investimento estero diretto attraverso la crescita
delle multinazionali
7. Politiche economiche espansive, anche se solo in pochi casi di marca prettamente
keynesiana sul lato del sostegno della domanda, ma piuttosto sul lato delle politiche
industriali di qualificazione e sostegno dell’offerta.
Si tratta, dunque, di un ventaglio di condizioni favorevoli che si resero disponibili tutte insieme
come mai nella storia era successo. Furono anche anni fortunati dal punto di vista della
distribuzione dei frutti di questa crescente prosperità, perché l’introduzione o la diffusione del
welfare state permise di contenere le diseguaglianze al punto da generare l’idea che la crescita per
sua natura è in grado di generare benessere su tutta la popolazione, un’idea che è stata purtroppo in
seguito smentita.
2. Il Walfare state
Le sperequazioni sociali anno caratterizzato la società fin dai suoi albori, ma il principio di
solidarietà, insito nella civiltà europea a motivo soprattutto delle sue radici cristiane, ha provato ben
presto a porvi rimedio. Con l’avvio della rivoluzione industriale, questa spinta solidaristica ebbe
una graduale consacrazione istituzionale, sia nel fisco progressivo (tassazione più alta per i ricchi),
che consentiva di finanziare istruzione e assistenza, sia nella copertura sempre più generalizzata
contro i rischi. Fatta prevalentemente con contributi dei datori di lavoro, ma anche con sussidi
pubblici. Dopo la seconda guerra mondiale si ebbe un’ulteriore progressione di misure in tal senso,
alla ricerca di una società più equa e giusta.
Principali campi di intervento furono: pubblica istruzione, servizio sanitario nazionale, sussidi di
disoccupazione o di accertato stato di bisogno, pensioni, assistenza per particolari forme di
svantaggio. A essi vanno aggiunti altri aspetti correlati, come l’accesso alla cultura e la tutela
dell’ambiente naturale, inteso come spazio da difendere per ragioni etiche, estetiche e di salubrità, a
vantaggio di tutti i cittadini. I modelli europei di welfare sono due: quello tedesco e quello nordico.
Il modello tedesco è noto come economia sociale di mercato e di distingue per i suo finanziamento
principale a carico dei datori di lavoro, con una modesta compartecipazione dei lavoratori e una più
consistente dello stato, soprattutto per assistenza e contribuzioni diverse da quelle legate
direttamente ai lavoratori. Venne introdotto da Bismark nel 1880 per i dipendenti delle grandi
imprese e generalizzato dopo la seconda guerra mondiale, in concomitanza anche della cogestione,
che assicurava ai lavoratori una presenza nei consigli di sorveglianza delle grandi imprese. Il
modello svedese di welfare state universalistico assomiglia come architettura a quello tedesco, nel
senso che anche in questo caso l’impegno pubblico a tutela del cittadino è ampio e solido, ma ne
differisce nel fondamento: mentre in Germania lo stato sociale è un derivato dello sviluppo
industriale, in Svezia è accaduto il contrario, si è fatto leva sui diritti sociali di ogni cittadino per
innescare la crescita economica. Inoltre, esso viene erogato come diritto di cittadinanza e non come
benefit legato al lavoro e viene dunque finanziato interamente mediante la tassazione. Nel 1946 il
governo socialdemocratico attuò un programma di riforme che prevedevano un forte indebitamento
statale a sostegno della costruzione dello stato sociale. Le ricadute di quest’ultimo sul sistema
produttivo furono estremamente positive, con le nuove generazioni più istruite e preparate che
fecero fare un salto di qualità alle imprese del paese e con una popolazione con un tenore di vita più
stabile e crescente che offriva un importante mercato interno. In questo modo l’elevata tassazione
ricavata dall’aumento del reddito andò a compensare e ridurre il debito pubblico inizialmente
sostenuto. Gli USA hanno a lungo criticato i modelli europei di welfare, perché hanno sempre
ritenuto responsabilità individuale non solo procacciarsi col proprio lavoro adeguati livelli di
benessere, ma anche aiutare i meno fortunati attraverso la filantropia erogata da singoli, fondazioni,
gruppi religiosi e associazioni. Fu solo dopo la crisi del ’29 che il New Deal introdusse con il Social
Security Act pacchetti di assistenza per i cittadini in difficoltà. Si tratta di un sistema che ha
l’obiettivo di ridurre al minimo l’impegno dello stato, lasciando i rischi sociali a carico dei cittadini,
con l’eccezione di quelli caduti in povertà. Solo con la presidenza Obama si è visto il tentativo,
molto contrastato, di aiutare anche quella fascia intermedia di cittadini, non abbastanza poveri per
godere dell’aiuto pubblico, ma non sufficientemente benestanti da potersi pagare adeguate polizze
assicurative e ottenere pensioni accettabili. In ogni caso, il welfare europeo non è stato di per sé
ragione di inefficienza del sistema economico, almeno fino a quando il suo finanziamento è stato
compatibile con i tassi di crescita dell’economia e non è stato effettuato con larghi deficit del
bilancio dello stato. Dovunque tra il 1980 e il 2013 l’incidenza del welfare sulla spesa pubblica
aumenta anche di molto; emerge chiaramente l’eccezionalità degli USA, che così hanno una spesa
pubblica sociale più bassa di qualunque altro paese. Gran Bretagna e Irlanda mostrano un’incidenza
più bassa di quella degli altri paesi europei, ma comunque più alta di quella americana. Fra i paesi
con incidenza maggiore svetta la Francia, seguita da Belgio, Finlandia e Danimarca, con la Svezia,
che tradizionalmente era il paese con l’incidenza più alta, che l’ha contenuta dopo il 2005. La sola
Germania ha abbassato l’incidenza tra il 2005 e il 2013, per merito di una molto contestata, ma
assai efficace, riforma. A partire dalla fine del XX secolo il welfare state è entrato in crisi, a causa
dell’invecchiamento della popolazione, degli aumentati costi delle prestazioni e del sorgere di
nuove povertà. Ciò impone un ripensamento del modello, verso un maggiore coinvolgimento della
società civile, passando dal welfare state al welfare society.
3. I cambiamenti di regime degli anni 70
Molte delle condizioni che avevano sostenuto il miracolo economico non potevano durare
indefinitamente: la dinamica salariale divenne ben presto più vivace, con le proteste sindacali a
cavallo tra il 1960 e il 1970, il maggio francese, l’autunno caldo italiano e tanti altri movimenti che
segnarono una discontinuità nel campo della crescita, che ormai doveva essere legata ad aumenti
della produttività, più che ad investimenti di allargamento della capacità produttiva. Il regime dei
cambi fissi del gold exchange standard (sistema di Bretton Woods) venne abbandonato con la
dichiarazione di inconvertibilità del dollaro nel 1973, che aprì la strada ai cambi flessibili e con essi
al ritorno della speculazione basata sui molti mercati futuri generati dal moltiplicarsi di aspettative
di cambiamento di molte variabili economiche. Ancora, i prezzi di alcune materie prime si
impennarono (quelli del petrolio quadruplicarono tra il 1973 e il 1974), instaurando delle ragioni di
scambio tendenzialmente sfavorevoli, ma in ogni caso molto volatili. Infine si fece largo una terza
rivoluzione industriale. Tutto questo provocò la fine della supercrescita europea e il ritorno a
un’economia mondiale più instabile, che iniziò a generare crisi locali già partire dagli anni ottanta,
ma non innescò una crisi mondiale fino al 2007. Nel periodo 1973-1995, benché i tassi di crescita
europei si fossero più che dimezzati, essi restarono però ancora superiori a quelli americani, facendo
proseguire il processo di convergenza, sia pur a tassi molto inferiori. Tra il 1995 e il 2007, invece, il
panorama è molto cambiato, con molto paesi europei che crescono meno degli USA, anche se
marginalmente, e gli anni finali della crisi 2007-2013 che denunciano difficoltà generalizzate. Come
conseguenza, l’ordinamento dei redditi pro capite europei con riferimento agli USA presenta
mutamenti contenuti, con fluttuazioni diverse da paese a paese. La questione che emerge con più
forza da questi dati è che il processo di convergenza sembra essersi arrestato prima di aver
raggiunto la sua meta finale, ossia l’eguagliamento dei livelli di reddito europei e giapponesi con
quello americano. Occorre però ricordare che il Pil è il risultato di varie variabili: la produzione,
certamente, ma anche i tassi di occupazione della popolazione e le ore annue lavorate. Ora, ci sono
notevoli differenze in queste variabili, tra paese e paese, ma soprattutto tra Europa e USA, che
portano a concludere che la convergenza nella produttività tra USA e i principali paesi europei si è
realizzata prima della fine del XX secolo, ma non emerge chiaramente dai dati del Pil pro capite,
perché in Europa si lavora generalmente meno ore che negli USA e i tassi di occupazione sono
spesso inferiori, anche per il più diffuso impiego part time. Il processo di imitazione della
tecnologia americana è sostanzialmente giunto a una conclusione e dunque l’Europa si deve
attrezzare a diventare un’area innovativa, una cosa che al momento non ha avuto molto successo, se
non in alcune ristrette aree del continente.
4. La terza rivoluzione industriale e la globalizzazione
La terza rivoluzione industriale, che ha iniziato a diffondersi in contemporanea con la rinascita
dell’instabilità mondiale degli anni settanta, ha portato un notevole cambiamento nel sistema
produttivo, con il progressivo abbandono di catene di montaggio rigide e l’introduzione della
cosiddetta produzione flessibile. Si tratta di una flessibilità sia all’interno della fabbrica, che vede
l’introduzione di robot e di impianti automatici, con la possibilità di modificare i modelli con
innumerevoli varianti e di sostituire il lavoro più pesante e insalubre con le macchine, sia nella
localizzazione delle fabbriche stesse, che si frammentano in tanti luoghi diversi, con ciascun
impianto specializzato in una fase della produzione. Il commercio mondiale diventa un commercio
soprattutto di prodotti intermedi che vengono poi assemblati da qualche parte. In questo consiste la
globalizzazione produttiva: è il mondo a ospitare le varie fasi della produzione e per i prodotti più
complessi non ha senso chiedersi dove sono fatti, perché sono made in the world. Essi sono
disegnati dalla casa madre, che poi affida i vari pezzi di produzione a filiali o a fornitori
indipendenti, scegliendo quelli più specializzati o capaci di produrre a costi inferiori, a seconda
delle opportunità. Anche le imprese che precedentemente costruivano tutto in house sono ora spinte
a delocalizzare, per acquisire vantaggi che non si potrebbero ottenere nel luogo di origine. Le
imprese, che al tempo della seconda rivoluzione industriale erano ben localizzate nei luoghi più
avanzati, da dove non avevano incentivo a spostarsi, con la possibilità di controllo a distanza fornito
dall’elettronica e con la facilità attuale dei trasporti, si sono frammentate e hanno coinvolto nella
filiera produttiva anche medie e piccole aziende altamente specializzate o aziende a basso costo del
lavoro dei paesi in via di sviluppo. Le imprese della terza rivoluzione industriale sono dunque
organizzate a rete, con legami che vanno oltre il mercato e che assumono varia natura contrattuale.
Questo ha generato nei paesi sviluppati la corsa a spostarsi su settori e lavorazioni ad alto valore
aggiunto, per poter continuare a pagare i loro alti salari, ma anche per non dover competere con i
nuovi entranti, esternalizzando le produzioni a più basso valore aggiunto in paesi a basso costo del
lavoro. Un’altra implicazione della terza rivoluzione industriale è che il lavoro d’ufficio è stato reso
più efficiente con l’elaborazione di software dedicato, che può essere usato anche da impianti meno
specializzati. E’ così che il mercato del lavoro ha subito un cambiamento notevole; ha assunto
adesso la forma di una clessidra, piuttosto che quella di piramide della seconda rivoluzione, infatti il
lavoro generico è ancora necessario, mentre quello direzionale si è di molto allargato, ma è il
segmento intermedio a essersi notevolmente ristretto, assottigliando le cosiddette classi medie.
Ancora, il processo di imitazione si è reso assai più rapido che in passato, dando origine sia a
processi di crescita miracolosi nei Brics, sia a una vera e propria corsa alle invenzioni nei paesi
avanzati, che non avevano mai sperimentato in passato un’obsolescenza così spinta di qualsiasi
strumento tecnologico. Diventa dunque sempre più necessario per le imprese che vogliono
competere sui segmenti avanzati del mercato fornirsi di laboratori di ricerca, far parte di reti di
ricerca a livello internazionale e internazionalizzarsi, ossia essere presenti in vari mercati mondiali.
Va da sé che le implicazioni della terza rivoluzione industriale hanno reso l’attività produttiva per
gli imprenditori dei paesi più avanzati molto più complessa e competitiva, mentre
l’internazionalizzazione richiede una dimensione di impresa almeno media.
5. Deregulation e finanziarizzazione dell’economia
Già durante il gold exchange standard si era aperto un varco nel controllo dei flussi finanziari
internazionali con la nascita del mercato dell’eurodollaro. Convenzionalmente si ritiene il 1963
l’anno di nascita di tale mercato, quando per la prima volta l’Unione sovietica depositò dollari
presso banche occidentali, senza intenzione di cambiarli in propria moneta. Da lì le banche
dell’Europa occidentale si ritrovarono con consistenti depositi di dollari, che pensarono di utilizzare
per impieghi nella medesima moneta, non essendoci una legge che lo vietava. Ora, questo circuito
del credito non era sottoposto a nessuna regolamentazione, perché le banche centrali europee
avevano autorità sulle loro monete, mentre la Fed non poteva estendere il suo controllo fuori del
proprio stato. Il mercato dell’eurodollaro ebbe un’impennata negli anni settanta, con la crescita
delle rendite petrolifere dei paesi del golfo. Nel 1973 ammontava a 315 mld di dollari, mentre dieci
anni dopo aveva raggiunto i 2278 mld. Il mercato dell’eurodollaro fece apprezzare a molte banche
la mancanza di regolamentazione, che permetteva guadagni maggiori, anche se con livelli di rischio
maggiori. Iniziò così già nei primi anni ottanta una lunga catena di crisi finanziarie, dovute a eccessi
di credito a paesi con scarsa possibilità di restituzione. Furono appunto i problemi di mancata
restituzione che suggerirono una serie di innovazioni finanziarie volte a rendere liquidi i prestiti. In
primo luogo se ne fece una cartolarizzazione, per poter vendere a sconto dei crediti, recuperare
liquidità ed effettuare con quella altre operazioni. Da lì fu tutto un crescendo di titoli variamente
connotati, che avevano lo scopo di permettere rendimenti maggiori sia alle banche sia ai
risparmiatori, cercando di bilanciare i rischi che questi alti rendimenti implicavano. Le banche si
tramutarono da aziende di servizio alla produzione e al consumo attraverso il credito in produttori di
profitti da ingegneria finanziaria. Proprio gli alti rendimenti offerti dai loro titoli produssero infatti
una corsa a investire in essi, tanto più rapida quanto meno regolamentati erano i mercati, fino alla
liberalizzazione dei mercati internazionali dei capitali nel 1990. Questa impennata delle attività
finanziarie a livello mondiale è stata generata soprattutto da un grande cambiamento avvenuto negli
USA. Dal Glass Steagall Act nulla era più cambiato nella finanza americana fino ai primi anni
ottanta, quando dalla constatazione che l’America era tagliata fuori dalle novità che si stavano
verificando nel mondo della finanza prese avvio un processo di liberalizzazione del settore, noto
come deregulation. Iniziata da Reagan nel 1980, la deregulation, procedette senza sosta, eliminando
le restrizioni dimensionali, favorendo fusioni e creazioni di filiali (1994), fino ad arrivare nel 1999
all’abolizione del Glass Steagall Act, con ciò permettendo alle banche di investimento di utilizzare
per le proprie attività anche i depositi dei clienti. La banca americana quindi, ridiventava universale,
come quella tedesca, ma senza una consolidata tradizione all’investimento nell’industria, colse il
vento favorevole all’investimento in titoli, al puro scopo di effettuare trading, ossia acquisti e
perdite che generassero profitti nel breve periodo. I suoi investimenti erano dunque di brevissimo
termine, a scopi speculativi e non di sostegno delle attività produttive o del risparmio privato. La
deregulation proseguì fino al 1999, sottraendo larghe fette di attività finanziaria al controllo delle
autorità, con l’implicazione di una notevole opacità del sistema, che sarà magna pars delle difficoltà
a valutare la dimensione della bolla speculativa del 2007.

Capitolo 15: Il processo di integrazione europea


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1. Il trattato di Roma e L’Unione Doganale
Subito dopo la Ceca, l’Europa provò a costruire una Comunità europea di difesa (Ced). Si trattò di
un clamoroso insuccesso, che finì col rafforzare la convinzione secondo cui l’economia doveva
costituire campo fertile per il processo di integrazione europea. Raccogliendo suggerimenti che
provenivano da tentativi precedenti di unioni doganali – solo uno dei quali riuscito, il Benelux – nel
giugno 1955 si riunirono a Messina i ministri degli esteri dei sei paesi aderenti alla Ceca ed emerse
la proposta di creazione di un’unione doganale e della messa in comune di altre politiche
economiche, nel settore dei trasporti e dell’energia. La Gran Bretagna venne di nuovo invitata a
partecipare ai negoziati, ma nuovamente rifiutò l’idea di sacrificare parte della sua sovranità
nazionale a istituti sovranazionali. Il 25 marzo 1957 vennero firmati a Roma due trattati di
straordinaria importanza: quello istitutivo della comunità economica europea (Cee), ae quello che
creava la comunità europea dell’energia atomica (Euratom). Mentre quest’ultima istituzione non
ebbe, in realtà molto successo, anche se contribuì a mantenere gli europei molto competitivi nel
capo dell’energia nucleare. La Cee, allora conosciuta come Mec (Mercato comune europeo), fu di
importanza cruciale, non solo perché abolendo le barriere doganali interne ai sei paesi, allargò per la
prima volta il mercato intraeuropeo, ma anche perché fece della comunità europea un soggetto
unitario di negoziati internazionali sul piano commerciale. Con l’entrata in vigore del Mec nel 1958,
l’abolizione delle barriere doganali interne venne scaglionata sull’arco d dieci anni, raggiungendo la
totale eliminazione dei dazi nel luglio del 1968. Fu questo il periodo in cui il commercio dei sei
paesi registrò un vero e proprio boom, con la progressiva integrazione dei flussi all’interno
dell’unione doganale. Da poco più di un terzo, l’interscambio interno al Mec superò la metà del
commercio estero dei paesi membri, con effetti di creazione netta di nuovo commercio, almeno nei
prodotti industriali. Come risposta all’evidente successo del Mec, i paesi che ne erano rimasti fuori
formarono l’Area europea di libero scambio (Efta), che aboliva i dazi interni, ma lasciava libertà ai
vari paesi aderenti di negoziare i dazi verso l’esterno, in questo modo perpetuando la debolezza
tipica dei paesi piccoli. Il Mec divenne soggetto unitario nei negoziati commerciali internazionali,
prima all’interno del Gatt, poi iniziando una propria politica commerciale nei confronti dei paesi in
via di sviluppo, con il Sistema delle preferenze generalizzate (1971) e le convenzioni con alcune ex
colonie, ribattezzate paesi Acp (African, Caribbean, and Pacific Countries), iniziate a Yaoundé nel
1963 e proseguite a Lomé a partite dal 1975. A poco a poco, anche grazie alla successiva adesione
di altri paesi europei, l’Ue divenne il più importante soggetto di commercio internazionale,
superando persino gli USA. Inoltre fece la sua parte nella progressiva liberalizzazione del
commercio mondiale, pur mantenendo un’agricoltura molto protetta e una serie di particolari
protezioni (o sussidi) per settori in crisi o maturi o considerati strategici, ma non affermati. Molti di
questi interventi protezionistici sono stati pesantemente criticati, in particolare dagli USA, che non
hanno visto di buon occhio la perdita della leadership mondiale in campo commerciale, fino ad
accreditare l’idea che l’Ue si fosse chiusa come una fortezza, il che non corrisponde al vero, sia
perché l’Ue non era la sola area avanzata a praticare del protezionismo sia perché comunque,
l’apertura dell’economia della Ue al commercio internazionale, anche escludendo il commercio
intraeuropeo, è superiore a quella di USA e Giappone. Un’altra importante caratteristica del
commercio esterno europeo è che importazioni e esportazioni sono abbastanza bilanciate, a fronte
dei forti deficit degli USA e degli avanzi del Giappone. Resta comunque vero che l’abolizione dei
dazi interni non implicò l’immediata creazione di un vero e proprio mercato europeo libero, per la
persistenza di numerosissimi ostacoli non doganali alla libera circolazione delle merci, ostacoli in
gran parte smantellati solo dopo l’atto unico del 1986. In campo finanziario col Trattato di Roma
venne istituita la banca europea degli investimenti (Bei), come agenzia di finanziamento dello
sviluppo, ma nulla si fece per armonizzare il sistema bancario o monetario. Per il lavoro era stata
introdotta, su pressione italiana, la libertà di movimento dei lavoratori all’interno dell’Unione, con
parità di trattamento e diritto all’accumulazione dei benefici sociali maturati in paesi diversi, ma
senza alcuno sforzo di accumulazione di politiche sociali europee. Per facilitare l’aggiustamento
degli emigranti nei nuovi paesi di destinazione, venne creato un Fondo sociale europeo,
dall’impatto tuttavia assai limitato. Se, dunque, il trattato di Roma segnò un passo fondamentale nel
processo di integrazione dell’Europa perché si rivolgeva a un ambito d cruciale importanza per lo
sviluppo economico generale dei paesi coinvolti, esso non presentava, però elementi tali da
differenziarlo sostanzialmente all’interno di quell’approccio di risoluzione di problemi parziali
senza un coordinamento di politiche macroeconomiche già inaugurato con la Ceca.
2. La successive adesioni
All’inizio degli anni Sessanta il successo dei sei paesi del Mec e la grande battuta d’arresto
dell’economia inglese erano diventati già così evidenti da indurre la Gran Bretagna a cambiare la
sua politica di disinteresse nei confronti dell’integrazione europea e a presentare, insieme ai suoi
satelliti economici, Irlanda e Danimarca, domanda di adesione nell’Agosto del 1961. Ma la
presenza di De Gaulle al potere e l’atteggiamento sempre poco collaborativo degli inglesi indusse i
francesi a porre il veto nei confronti di tale domanda, che venne dunque accantonata. Un reiterato
tentativo venne fatto nel 1967 e vide un analogo diniego, questa volta motivato con le difficoltà
dell’economia inglese, che portarono alla svalutazione della sterlina. Si capì che solo dopo l’era di
De Gaulle si sarebbero potute riprendere le fila del negoziato con la Gran Bretagna. Ciò avvenne
nel 1970, quando si aggiunse la Norvegia. Questa volta l’esito fu positivo e il trattato di adesione
dei nuovi paesi fu firmato nel gennaio 1972, ma non ratificato dalla Norvegia, dove un voto
popolare rifiutò l’adesione all’Ue, che così si allargò a 9 paesi a partire dall’1 gennaio 1973.
L’inclusione della Gran Bretagna non fu una cosa facile, anche perché venne a coincidere con gli
anni travagliati dell’abolizione del sistema dei cambi fissi noto come sistema di Bretton Woods e
con lo scoppio delle crisi petrolifere e dell’instabilità internazionale. In particolare la Gran Bretagna
si trovò in grande difficoltà nei confronti della politica agricola comune, che le causava grandi
esborsi e nessun vantaggio. Per correggere questo effetto perverso, si concordò in seguito, su
insistenza di Margareth Thatcher, un alleggerimento del contributo britannico alle entrate dell’Ue,
ma dovette passare del tempo prima che anche il commercio inglese si ridirezionasse verso
l’Unione e la Gran Bretagna ridiventasse un paese europeo, pur mantenendo un suo peculiare
atteggiamento di non completa collaborazione, che la contraddistingue anche oggi. Per Danimarca e
Irlanda l’ingresso fu più facile e rapido. Per l’Irlanda, in particolare, l’entrata in Europa segnò
l’inizio di un fenomenale processo di sviluppo che ha riscattato questo paese dalla secolare povertà
e dipendenza della Gran Bretagna, portandolo a svettare nelle classifiche europee per reddito pro
capite.
Il secondo allargamento dell’Unione riguardò la Grecia, un paese che era stato il primo nel 1959 a
ottenere un trattato di associazione con la comunità, che prevedeva vari privilegi, tra cui
l’abbattimento unilaterale dei dazi comunitari per le importazioni dalla Grecia di prodotti
manifatturieri. Tale accordo era stato congelato con la salita al potere dei colonnelli nel 1967 e si
era tramutato in una domanda di adesione nel 1975, dopo il ritorno della democrazia. Il negoziato
ebbe esito positivo, nonostante si trattasse di un paese con un reddito di molto inferiore alla media
comunitaria, e il trattato di adesione venne firmato il 28 maggio del 1979. Gli effetti dell’adesione
all’Ue sull’economia greca sono un po’ contraddittori, perché tale paese non riuscì a sviluppare
consistenti flussi di esportazioni nell’Unione, né a correggere rapidamente i difetti atavici della sua
economia, ma riuscì comunque a restare agganciato al resto dell’Europa, sia pur come fanalino di
coda. Anche Spagna e Portogallo, liberatisi delle rispettive dittature, presentarono domanda di
adesione. Questa volta la decisione si fece attendere più a lungo, perché l’unione stessa si trovava in
una fase di stallo e si temeva che il peso della Spagna avrebbe cambiato gli equilibri faticosamente
raggiunti. Fu solo con l’era di Felipe Gonzales in Spagna nel 1982 che i negoziati vennero rilanciati
e le richieste dei paesi iberici fondamentalmente accettate, fino alla firma del trattato il 12 giugno
1985, con decorrenza dal 1 gennaio 1986. Ambedue i paesi furono lesti ad adattarsi alle regole
dell’Unione e a partecipare a pieno titolo ai suoi meccanismi economici, che subirono un rilancio a
partire dagli anni della loro adesione. A questo punto l’Ue contava dodici paesi, ma altri bussavano
per entrare. L’Efta infatti, era ormai ridotta al lumicino e così gli ultimi paesi che ne facevano parte
si risolsero a fare domanda di adesione tra fine anni ottanta e inizio Novanta, ottenendo una pronta
risposta dall’Unione, che prima firmò il trattato per la creazione dello Spazio economico europeo
(1992) e poi nel 1994 accettò tutti i paesi ex Efta nell’Unione stessa. Solo Austria, Finlandia e
Svezia effettivamente aderirono, mentre la Norvegia e la Svizzera non ratificarono il trattato di
adesione e restarono nello Spazio economico europeo. Mentre si consumava questo storico processo
di integrazione, nell’Europa dell’est crollava l’egemonia sovietica, dando luogo nel 1990
all’unificazione della Germania, e sollecitando immediatamente i nuovi governi degli altri paesi a
rivolgersi all’Ue per aiuti, trattati di associazione e poi la richiesta di una era e propria adesione.
L’Ue ha creato nel 1990 la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), che si affianca
alla Bei, e ha poi avviato la procedura per l’adesione di molti dei paesi dell’Europa orientale e
anche di altri che nel frattempo avevano fatto domanda. L’impegno fu davvero considerevole. Non
si è trattato di un nuovo piano Marshall, ma di qualcosa di più, perché oltre agli aiuti materiali, la
Ue si è impegnata in un processo di institution building, per sostenere la transizione delle istituzioni
di quei paesi verso un’economia di mercato. Nel 2005 10 paesi vennero accolti nell’Unione, mentre
altri due lo furono nel 2007, portando il totale dei paesi europei dell’unione a 27. Per quanto
riguarda gli indici di Pil pro capite questi convergono verso la media, i nuovi entrati beneficiano
dell’ingresso e si avvicinano alla media degli altri paesi e alcuni dei paesi storici tendono a
peggiorare la loro condizione.
3. La politica agricola comune (PAC)
Nel trattato di Roma era già previsto che rendessero omogenei all’interno del Mec gli interventi
protezionistici che erano in vigore in tutti i paesi membri, per eliminare uno degli effetti più
distorsivi del commercio all’interno del Mec, dove l’agricoltura contava molto di più di oggi in
termini di addetti e di valore aggiunto. L’obiettivo del protezionismo agricolo era quello di evitare
all’Europa il destino dell’agricoltura inglese dopo l’abolizione del protezionismo con l’abrogazione
del Corn Laws nel 1846, ossia la rapida scomparsa del settore agricolo, essendo ritenuta
l’agricoltura strategica per la sicurezza alimentare della popolazione europea. Per far questo
occorreva sostenere i redditi degli agricoltori, o attraverso schemi di integrazione diretta dei redditi
o attraverso il sostegno dei prezzi a livelli considerati sufficientemente remunerativi per le aziende
agricole. Fu a partire dall’inizio del 1960 che si pose mano al compito di delineare una politica
agricola comune (Pac) e ci si accordò su di un protezionismo basato da un lato sul sostegno dei
prezzi di alcuni prodotti strategici e dall’altro lato su dazi doganali che si scelse di fissare non ad
valorem, ma in modo compensativo, per neutralizzare la variabilità dei prezzi mondiali. Ogni
primavera venivano concordati i prezzi di intervento per i singoli prodotti, da mantenere fissi per
l’anno successivo e da tradurre nelle singole monete nazionali mediante i cambi fissi allora vigenti.
L’eccesso di offerta che si determinava sui vari mercati rispetto alle quantità che si riusciva a
collocare al prezzo stabilito veniva neutralizzato ritirando i prodotti in eccesso ai prezzi di
intervento e stoccandoli in magazzini comunitari. Questo sistema entrò in funzione il 1 gennaio
1962 e venne amministrato dal fondo europeo di orientamento e garanzia agricola (Feoga), che
aveva una piccola sezione dedicata alla ristrutturazione dell’agricoltura europea. Fu uno schema che
si rivelò da subito abbastanza costoso e che assorbì gran parte del modesto bilancio dell’Unione,
mantenendo i prezzi dei prodotti agricoli protetti ben al di sopra dei prezzi mondiali, anche se in
misura variabile. Si può dire che il costo di tale politica sia ricaduto sui consumatori
prevalentemente, i quali hanno pagato prezzi più alti di quelli mondiali per i prodotti alimentari
protetti, e più marginalmente sui contribuenti che hanno finanziato mediante le imposte i costi di
funzionamento del Feoga. Ma un effetto imprevisto del sistema fu quello di tramutare l’Ue da area
tradizionalmente importatrice di prodotti alimentari ad area esportatrice, spiazzando in questo modo
i flussi di commercio provenienti dai paesi in via di sviluppo che si videro progressivamente i
mercati europei sempre più impermeabili alle loro esportazioni, ma anche insidiando sui mercati
mondiali la preminenza degli USA come paese esportatore. Infatti, poiché lo stoccaggio di prodotti
invendibili all’interno dell’Unione minacciava di ingolfare in maniera irrimediabile i magazzini, il
Feoga decise di sussidiare le esportazioni, coprendo la differenza tra i prezzi interni della Comunità
e quelli mondiali, così da potersi liberare di stock che altrimenti sarebbero marciti. Le politiche
agricole europee su produzione, esportazioni e importazioni sono riuscite prima a far aumentare e
dopo gli anni ottanta a mantenere la produzione totale dell’Ue, in modo analogo a quanto successo
in USA e Giappone. Ma in quanto alle esportazioni l’Ue si è distinta per una performance
incomparabilmente più dinamica delle esportazioni rispetto agli altri due paesi, e per un
corrispettivo contenimento delle importazioni più accentuato. Il sistema affrontò una prima crisi con
l’abolizione dei cambi fissi e le difficoltà insorte alla metà degli anni Settanta nell’amministrare i
prezzi comuni. A tale scopo vennero introdotte le monete verdi, dal valore fissato ogni anno, nelle
quali veniva tradotto il prezzo di riferimento. Poiché, tuttavia, le monete fluttuavano nella realtà, la
differenza in più o in meno tra le monete verdi e il valore delle varie monete determinato dal
mercato dava luogo a cosiddetti “montanti monetari compensativi” che aggiungevano distorsione a
distorsione e facevano aumentare lo scontento nei confronti del funzionamento del Feoga. La
seconda crisi venne alla metà degli anni ottanta, quando l’Ue si rese conto dell’eccessiva prevalenza
che gli interessi agrari avevano sul suo bilancio, a fronte di un’agricoltura europea che non doveva e
non poteva più crescere, mentre molti altri urgenti problemi necessitavano di maggiori attenzioni.
Inoltre durante l’Uruguay Round, gli americani avevano fatto molte pressioni per diminuire il
protezionismo agricolo europeo e in generale, affinchè i prodotti agricoli, da sempre esclusi dai
negoziati Gatt, vi venissero ricompresi. Si giunse quindi all’accordo di riformare la Pac, tramite la
riforma MacSharry del 1992, in questa si prevedeva una progressiva riduzione dei prezzi di
intervento, un passaggio a schemi di compensazione diretta dei redditi degli agricoltori,
l’imposizione di quote di produzione per i prodotti per i quali si verifica una meggiore eccedenza,
compensi per la conversione di aree coltivabili in aree riforestate, incentivi alla coltivazione di
prodotti per i quali non vi è eccedenza; per il miglioramento della qualità e per il maggiore rispetto
dell’ambiente. Con l’approvazione dell’Uruguay Round nel dicembre 1994 e l’entrata in vigore
dell’Omc nel 1995 ci si accordò anche per la traduzione in dazi delle varie forme di protezionismo
agricolo, al fine di semplificare i negoziati, per l’eliminazione progressiva dei sussidi alle
esportazioni, per l’introduzione di quote minime di importazione e per trattamenti preferenziali nei
confronti dei paesi in via di sviluppo. Con l’apertura nel 2001 dei negoziati di Doha, che avevano
come obiettivo principale l’abbassamento del protezionismo in agricoltura, l’Unione Europea si rese
conto che la riforma del 1992 non poteva bastare e ne varò un’altra nel 2003, come riforma
Fischler. Fu questa una riforma ancora più radicale, perché venne abbandonato del tutto l’approccio
di sostenere i prezzi di mercato a favore di un sostegno diretto ai redditi degli agricoltori. Nella fase
di transizione tale sostegno teneva conto dei pagamenti storici effettuati con sistema precedente, che
perpetuavano una serie di squilibri tra paesi e tra prodotti, ma almeno produceva un allineamento
progressivo dei prezzi interni della Ue a quelli internazionali. Termina dunque con questa svolta
epocale la storia di uno dei pilastri dell’integrazione europea voluto dal trattato di Roma. Dopo
decenni in cui la protezione dell’agricoltura h permesso all’unione di assicurarsi una buona base
agricola senza peraltro impedire un imponente esodo di forza lavoro dalle campagne, si può ora
pensare di diminuire i costi di tale protezione, abbandonando l’ossessivo interesse alla quantità per
puntare più sulla qualità dei prodotti e dell’ambiente riaprendo i mercati agricoli della Ue ai paesi in
via di sviluppo. Anche l’incidenza dei costi della Pac è stata portata sotto controllo passando da
circa il 75% del bilancio dell’Unione al 40%, pur rimanendo uno dei pilastri dell’Ue.
4. Le politiche regionali e sociali
Nel 1974, nel bel mezzo della prima crisi petrolifera, quando tutti i paesi avevano già dovuto
affrontare le pressioni inflazionistiche dell’abbandono del sistema di Bretton Woods e dell’aumento
dei prezzi del petrolio e si trovavano con gravi deficit nella bilance dei pagamenti e nei bilanci
pubblici, venne creato il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr), con lo scopo di evitare che
le difficoltà internazionali peggiorassero le condizioni delle ragioni europee meno sviluppate.
Inizialmente si trattava di un fondo modesto, distribuito in base a quote nazionali in contributi che
coprivano non più del 30% del costo dei progeti finanziati e utilizzato prevalentemente dall’Italia e
dall’Irlanda; ma quando anche Grecia, Spagna e Portogallo entrarono a far parte della comunità,
l’interesse per l’opera di riequilibrio territoriale che si poteva raggiungere mediante il Fesr aumentò
notevolmente. Negli anni ottanta si sperimentarono interventi più compatti e completi, attraverso i
programmi integrati mediterranei (Pim), che volevano coordinare meglio gli interventi; questo
venne realizzato attraverso una prima riforma del fondo nel 1985, in cui si sostituirono le quote
prefissate con indicatori quantitativi che stabilivano un massimo e un minimo delle allocazioni per
ciascun paese e si identificarono più chiaramente i criteri di accoglimento dei progetti, che davano
chiara preferenza a pacchetti integrati di intervento. Ma la vera riforma fu realizzata nel 1988,
quando si riorganizzarono tutti i foni strutturali in un disegno unitario che fissava vari obiettivi,
oltre allo sviluppo delle aree arretrate e alla lotta alla disoccupazione, fra cui il sostegno alle aree in
declino e la promozione delle regione a bassa intensità abitativa. L’aspetto più importante della
riforma era che non venivano più allocati fondi a livello nazionale, bensì a livello regionale, con una
clausola automatica che permetteva alle regioni con un livello di reddito pro capite inferiore al 75%
della media europea di presentare progetti. Anche la procedura seguita per la selezione dei progetti
è stata cambiata, dando maggiore importanza ai livelli locali di governo (comuni e regioni) e
introducendo un sistema comprensivo di valutazione delle fasi di attuazione dei progetti e dei
risultati. In campo sociale sono stati lanciati vari Programmi di azione sociale, volti a migliorare le
condizioni di lavoro, a realizzare la parità tra tutti i soggetti lavorativi, a incentivare il dialogo fra le
parti sociali, d arrivare al mutuo riconoscimento dei titoli di studio, fino all’adozione nel 1989 della
Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, vista come lo strumento per
arrivare a un’armonizzazione della legislazione sociale europea, un obiettivo che, tuttavia, è ancora
distante. Con il Trattato di Maastricht si decise di dare ancora più rilievo all’impegno di migliorare i
livelli di sviluppo delle regioni più sfavorite della comunità, aumentando notevolmente la dotazione
dei fondi strutturali e attivando dal 1993 un nuovo Fondo di coesione, destinato ai paesi con un
reddito pro capite inferiore al 90% della media europea. Molti dei paesi europei hanno a questo
punto messo da parte i loro programmi di intervento nelle aree in difficoltà per lavorare su progetti
co-sponsorizzati dall’Unione. Con l’entrata dei nuovi membri, i fondi strutturali sono diventati
sempre più importanti, fino a coprire il 40% del bilancio dell’Unione, anche perché sono stati
attivati progetti transfrontalieri, con l’obiettivo di unificare la Ue dal punto di vista infrastrutturale e
di modernizzarla con la promozione di nuove fonti di energia e con la diffusione delle autostrade
informatiche. Da alcune analisi, è emerso che il processo di convergenza fra le regioni europee è
stato continuo e sostenuto, con una tendenza congiunta di numerose aree inizialmente più avanzate
a regredire in termini relativi e di ancora più numerose aree inizialmente più arretrate ad avanzare,
in termini sia assoluti sia relativi. Anche con i successivi allargamenti, il processo di convergenza è
continuato; resta comunque vero che se il processo di convergenza è marcato tra paesi, lo è di meno
tra regioni, particolarmente negli anni della crisi dopo il 2008. Le regioni centrali degli stati si sono
dimostrate assai dinamiche, mentre un certo numero di quelle periferiche hanno invece rivelato
debolezze persistenti. Fra queste, alcune regioni del Mezzogiorno italiano.
5. Il sistema monetario europeo
Quando nel 1971 si verificò la prima crisi sul mercato dei cambi per la sospensione della
convertibilità del dollaro si pensò subito che fosse opportuno per i paesi dell’Unione continuare a
mantenere tassi di cambio strettamente collegati. Nel marzo del 1972 venne varato il cosiddetto
“serpente monetario”, che prevedeva una fluttuazione delle monete comunitarie fra di loro limitata a
+- 2,25%, e un agganciamento al dollaro, nei confronti del quale si fissava una fluttuazione del +-
4,25%. Ma il serpente durò solo 7 settimane, perché la sterlina inglese e irlandese dovettero uscire,
seguite l’anno dopo dalla lira italiana, mentre il franco tentò in vano di resistere, uscendo e
rientrando più volte, fino al definitivo abbandono nel 1976. A quel punto l’asse franco tedesco entrò
in crisi, insieme all’amministrazione della Pac, mentre si spegneva la speranza che una moderata
inflazione e flessibilità dei cambi potessero essere utilizzati per correggere squilibri strutturali senza
sostanziali effetti perversi, a fronte dell’instabilità e dell’enorme aumento della speculazione che
essere implicavano. Non passò molto tempo prima che riprendessero le consultazioni per giungere a
una versione più matura e flessibile del serpente monetario e si giunse così nel settembre del 1978
alla proposta di un sistema monetario europeo (Sme). Questo si basava sulla fissazione della parità
di ciascuna moneta del sistema con una moneta paniere di riferimento, il valore nei confronti delle
monete esterne alla Comunità veniva determinato dalla media ponderata del valore delle monete
della comunità che componevano l’Ecu. Quando una moneta divergeva dalla parità per più del
2,25%, vi era l’obbligo per il paese dove circolava tale moneta di intervenire, con possibilità di
ricevere qualche aiuto temporaneo da parte di un fondo predisposto a tale scopo; altrimenti si
sarebbe effettuato un riallineamento, che avveniva in maniera concordata, per evitare svalutazioni
competitive ed effetti imprevisti su altre monete. Lo Sme ha subito numerosi riallineamenti, ma nel
complesso ha riportato un notevole successo nell’accompagnare il rientro dall’inflazione da parte di
molti paesi europei e nell’aumentare la stabilità monetaria in Europa. Quando già era stata decisa
l’unione monetaria ci fu una grande tempesta speculativa tra l’estate del 1992 e l’estate del 1993,
che spinse prima la lira e poi la sterlina a uscire dallo Sme, consigliando infine di allargare fino a +-
15% la banda di fluttuazione, per evitare che anche altre monete fossero costrette ad uscire. Ma
ormai l’esperienza dello Sme stava per volgere al termine, essa era certamente servita a far
apprezzare i vantaggi della stabilità in Europa a tal punto da suggerire di farli diventare permanenti.
6. Politiche industriali e mercato unico
Il rallentamento della crescita sperimentato a partire dalla metà degli anni settanta spinse l’interesse
dell’Unione verso interventi in campo industriale. Dapprima si trattò di interventi difensivi in quei
settori base dove la sovrapproduzione minacciava il fallimento di grandi imprese (settore
dell’acciaio, settore delle fibre artificiali, cantieri navali) Ma l’insoddisfazione per questo approccio
meramente difensivo montava, mentre le analisi del ritardo dell’Europa in certo settori industriali di
punta segnalavano la mancanza di una massa critica in molti ambii di ricerca dovuta alla
frammentazione nazionale e alla dimensione troppo piccola delle imprese europee. Sorse così l’idea
di lanciare progetti di ricerca sostenuti dall’Unione, che aggregassero liberamente partner di varie
nazioni europee, soprattutto imprese e centri di ricerca universitari. Il primo di questi progetti venne
proposto nel settembre del 1980nel settore dell’elettronica, piuttosto debole in Europa, lo Esprit; il
successo di questo progetto fece prendere una strada nuova e i programmi di ricerca cominciarono a
proliferare. Nel 1987 venne approvato il programma Erasmus, che permetteva a selezionati studenti
di università europee di recarsi per un periodo di studio in un’altra università, potendo dare esami e
accumulare crediti relativi. L’importanza della ricerca divenne tale da portare nel 2006 alla
creazione di un Consiglio europeo per la ricerca, che è direttamente responsabile di selezionare
ricerche e di concedere borse di studio a seguito di domande presentate da studiosi e centri di
ricerca dell’intera Unione. Il progetto più ambizioso fu quello di creare il cosiddetto “mercato
unico”, abolendo i molto ostacoli non daziari che ancora restavano e che avevano reso
l’unificazione del Mec soltanto parziale. Nel dicembre del 1985 venne approvato dal Consiglio
europeo un atto unico, così denominato a rimarcare che il suo principale contenuto riguardava la
realizzazione del mercato unico entro il dicembre 1992, anche se conteneva altre misure di riforma
del trattato di Roma, fra le quali molto importanti l’elevazione a circa tre quarti delle decisioni che
si potevano prendere a maggioranza invece che all’unanimità e l’inclusione di nuovi ambiti di
attività dell’Unione. Ci si mise dunque al lavoro, dopo un periodo di tempo che ha visto delle
resistenze alla realizzazione di questo processo, per realizzare il mercato unico, seguendo due criteri
guida. Il primo prevedeva l’armonizzazione della legislazione europea in tutta una serie di campi di
fondamentale importanza, dove non era opportuno che permanessero delle diversificazioni. A
questo scopo vennero concordate circa 300 risoluzioni che poi vennero recepite dai vari governi. Il
secondo criterio riguardava invece tutti gli ambiti in cui non veniva riconosciuta una necessità di
armonizzazione e prevedeva l’adozione del principio del mutuo riconoscimento: prodotti e servizi
potevano venire confezionati osservando la legislazione in vigore in uno dei paesi dell’Unione e
venire offerti su tutti i mercati della Comunità, senza discriminazioni. Sarebbe stato il mercato a
determinare il gradimento dei consumatori e, eventualmente, a persuadere le autorità nazionali a
conformarsi ai modelli vincenti. I controlli di frontiera sulle merci vennero progressivamente
eliminati; la tassazione indiretta venne ricondotta entro bande comparabili; i sussidi alle imprese
vennero armonizzati; le gare pubbliche vennero aperte a concorrenti provenienti da tutta l’Unione;
in campo bancario, vennero armonizzate le norme di controllo e liberalizzata l’apertura di sportelli,
con applicazione del principio di mutuo riconoscimento. In tempi successivi sono stati liberalizzati
altri servizi, come il trasporto aereo e le telecomunicazioni. Si può veramente dire che per la prima
volt il mercato europeo diventava un mercato interno, anche se la lingua, il fisco e la moneta, che
restavano diversi, costituivano ancora barriere non secondarie come verrà dimostrato dagli sviluppi
successivi. Nel corso dei lavori preparatori per il mercato unico, si ritenne indispensabile, dotarsi di
uno strumento ancora più incisivo degli artt. 85 e 85 del trattato di Roma, per tutelare il mercato nei
confronti delle concentrazioni e acquisizioni, attraverso il Merger Control Act, in esso si definiva un
concetto di dimensione comunitaria delle imprese che ricadevano sotto la giurisdizione della
legislazione europea: un fatturato totale mondiale delle imprese considerate eccedente i 5mld di
Ecu; un fatturato nell’Unione di almeno due delle imprese considerate eccedente i 250 mln di Ecu;
la clausola che le imprese dell’Unione coinvolte non avessero due terzi del fatturato concentrato in
un solo paese della comunità, perché in tal caso ricadevano sotto la legislazione antitrust nazionale.
Tra la sorpresa di molti, non solo tutti questi cambiamenti vennero realizzati entro il 1992, ma
sull’onda del crollo dell’egemonia sovietica, dell’unificazione tedesca e della forte determinazione
integrazionista di Jacques Delors si riuscì entro tale data anche a liberalizzare i mercati dei capitali,
ad accelerare l’armonizzazione in campo sociale, con l’adozione della carta comunitaria, ad avviare
l’unificazione monetaria e a giungere infine a un nuovo trattato in cui per la prima volta si parlava
di Unione Europea, con esplicito riferimento anche a componenti politiche.
7. Il trattato di Maastricht
Già a partire dal 1988 incominciarono le discussioni sul progetto di unione monetaria e di
cooperazione politica e monetaria. Visioni diverse e proposte di mediazione si affastellarono nelle
numerose riunioni del Consiglio europeo che si susseguirono fino ad arrivare il 9-10 dicembre del
1991 a Maastricht alla presentazione del nuovo trattato, che comprende 252 articoli nuovi o
risultanti da modifiche dei trattati Cee, Ceca e Euratom, oltre a 17 protocolli e 31 dichiarazioni.
Oltre a una riorganizzazione organica di tutta la legislazione precedente in campo economico, il
nuovo trattato che istituisce l’Ue incorpora le disposizioni sull’unione monetaria, quelle concernenti
una politica estera e di sicurezza comune e quelle in materia di cooperazione di polizia e di
giustizia. Il trattato sull’Ue venne firmato il 7 febbraio 1992 dai ministri degli esteri e delle finanze
degli stati membri, e ratificato nel corso dell’anno dai paesi membri. Su insistenza inglese, venne
inserita una clausola di “non coercizione” in base alla qualche era possibile per qualche stato
membro non aderire a singoli aspetti delle nuove decisioni che si andavano via via prendendo, ma
fu chiarito che si doveva trattare di casi eccezionali. Per quanto riguarda la Pesc, scarse sono state le
novità sul piano politico, al di là dell’impegno a ricercare posizioni comuni in seno alle
organizzazioni internazionali, mentre per la sicurezza comune, si decise di rilanciare l’Unione
dell’Europa Occidentale, includendola ormai come parte integrante dell’Ue in una delle
dichiarazioni annesse al trattato, con la prospettiva di assunzione della responsabilità della propria
difesa da parte dell’Ue, un obiettivo, tuttavia, da coordinarsi con la Nato. Infine, in relazione
all’Aig, si è di molto rafforzata la cooperazione di polizia, anche perché i paesi che avevano
formato il cosiddetto gruppo di Schengen hanno soppresso i controlli di polizia alle frontiere e agli
aeroporti, fino ad arrivare nel 2006 alla creazione di Frontex, per il controllo comune delle frontiere
esterne dell’Unione. Per quanto riguarda la politica di immigrazione, si sono fatti dei passi in avanti,
ma ancora molto resta da fare. Su pesante sollecitazione italiana, nel 2014 Frontex ha lanciato
l’operazione Triton, per controllare il Mediterraneo e fronteggiare l’emergenza immigrazione che in
tale mare si sta consumando da molti anni. Ma forse l’aggiunta più significativa del trattato è quella
dell’art. 8 dove si afferma che è istituita la cittadinanza dell’Unione. E’ cittadino dell’Unione
chiunque abbia la cittadinanza di uno stato membro. E’ pure vero che il Parlamento europeo, che
dovrebbe esprimere questa cittadinanza europea, non dispone di una sua capacità decisionale
autonoma, ma propria il trattato sull’Ue gli ha conferito un potere di codecisione con il consiglio in
aree esplicitamente previste, rafforzando le competenze già possedute, in questo modo facendo fare
un passo avanti anche a quello che in prospettiva è destinato l’organo dell’unione politica
dell’Europa, secondo il principio di sussidiarietà enunciato nell’art. 3B.

8. L’unione monetaria, l’euro e l’unione bancaria


La maggiore innovazione del trattato di Maastricht è stata comunque la creazione dell’Uem.
Venivano previsti tre stadi per la realizzazione della moneta unica:

- 1° stadio: fissazione dei criteri di convergenza delle economie, da verificare nel


1998;
- 2° stadio: creazione dell’Istituto monetario europeo (Ime) nel gennaio del 1994,
embrione della Bce; passaggio dallo statuto delle banche centrali dell’Uem verso
forme di più accentuata autonomia dal Tesoro, laddove ciò non fosse stato già in
vigore; costituzione di un sistema europeo delle banche centrali_;
- 3° stadio: fissazione della parità irrevocabile fra le monete dell’Uem al 31 dicembre
1998 e creazione della moneta europea, l’euro, da mettere in circolazione
effettivamente nel 2002, iniziando con una parità col dollaro.
L’adesione a questo programma, che ha rispettato le scadenze previste, ha visto impegnati 11 dei 15
paesi dell’Unione (Grecia, Svezia, Danimarca e Gran Bretagna rimasero fuori per loro decisione).
L’Italia con il governo guidato da Romano Prodi, ha preparato a partire dal 1996 una spettacolare
rincorsa per riguadagnare il tempo perduto dai precedenti governi e centrare uno dopo l’altro i
criteri di convergenza, onorando così l’appuntamento con la moneta unica. In verità, sarebbe stato il
primo appuntamento europeo mancato dall’Italia, che aveva sempre fatto parte delle istituzioni
europee fin dalle loro origini. Da qui si misura l’importanza della determinazione con cui il duo
Prodi-Ciampi hanno evitato all’Italia una rottura con un baluardo della politica economica italiana
del dopoguerra, ossia il legame con l’Europa. La vita dell’euro a partire dal 2002 è stata
inizialmente tranquilla. La moneta europea si rivelò subito debole nei confronti del dollaro, poi si
riprese e divenne una moneta forte, ma la sua performance non fu degna di nota fino alla grande
crisi internazionale del 2008. In tale crisi la speculazione internazionale si rese conto dei molti
squilibri esistenti all’interno dell’area dell’euro e iniziò a colpire l’euro in molti modi. Scoppiò
prima la crisi della Grecia, poi quella dell’Irlanda, del Portogallo e della Spagna e infine quella del
debito pubblico italiano. Al di là degli sviluppi della crisi, i problemi strutturali dell’area dell’euro
erano legati a politiche fiscali e di competitività troppo diverse fra i paesi dell’area dell’euro, che
produssero andamenti divergenti di prezzi, salari, spesa pubblica e bilance dei pagamenti,
insostenibili all’interno di una medesima area valutaria, come era stato messo in chiaro, ma non
reso obbligatorio, con l’introduzione stessa dell’euro. L’euro andò a rischio di collassare, perché
non possedeva strumenti utili al riequilibrio e aveva una banca centrale dagli obiettivi troppo
ristretti e dalla flessibilità troppo bassa nell’uso degli strumenti tipici delle banche centrali per
contrastare le crisi. Il grave pericolo venne scongiurato con alcune importanti riforme attuate nel
2012:
1. Un sistema di sorveglianza della finanza a livello dell’Unione rinforzato;
2. La creazione di un fondo di intervento antispeculazione consistente, attorno ai 1000 mld di euro;
3. Il Fiscal Compact, ossia un meccanismo di convergenza fiscale obbligatorio; 4. L’unione
bancaria, entrata in vigore alla fine del 2014, che ha messo 130 banche europee sistemiche sotto il
controllo diretto della Bce. E’ vero che il fiscal compact ha introdotto in Europa un’austerità non
opportuna in un periodo di superamento di una grande crisi, ma se sarà interpretato con intelligenza,
potrà avviare l’unione monetaria verso una lunga vita. A inizio 2015 si sta verificando proprio
questo: la Bce ha deciso di intervenire sui mercati per contrastare la deflazione con iniezioni di
liquidità, mentre l’Unione Europea si sta attivando per incentivare una nuova ondata di
investimenti. E’ comunque ormai opinione diffusa presso numerosi economisti che l’unione
monetaria per operare efficientemente ha bisogno del federalismo fiscale, il quale viene considerato
attualmente il miglior stabilizzatore automatico. L’unificazione federale impedirebbe inoltre il
perseguimento di politiche fiscali incaute e quindi la destabilizzazione della valuta comune. Il
federalismo fiscale richiede nondimeno la centralizzazione delle entrate fiscali nazionali e delle
relative decisioni di spesa: al momento è improbabile che gli stati europei cedano il controllo, anche
solo di una parte delle imposte e della spesa, in assenza di integrazione politica. Tuttavia, fin dalla
metà degli anni Settanta, i progetti comunitari che si sono occupati di studiare la prospettiva
dell’unificazione politica hanno incontrato tutti la stessa difficoltà nel coniugare le aspirazioni
teoriche con la realtà del nazionalismo. Sarà necessario ritrovare in futuro la forza propulsiva,
italiana o no di cui parla Jacques Levy, affinchè si diffonda e si affermi il senso di appartenenza
all’Europa, si formi un’identità europea che sia tanto forte quanto il sentimento di identità nazionale
che ancora oggi prevale. Il lungo e travagliato cammino dell’integrazione europea ha bisogno di
nuovi obiettivi, di un disegno ambizioso sul quale far convergere gli sforzi comuni: l’Europa
federale è certamente oggi il principale e più controverso dei nuovi obiettivi. In conclusione, il
processo di integrazione europea ha realizzato nei circa sessant’anni della sua presenza risultati
davvero sorprendenti.

Capitolo 16: La scomparsa dell’Urss e l’ascesa dell’Asia


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Se, dunque, il periodo successivo alla metà degli anni Settanta è stato per l’economia dell’Europa
occidentale meno soddisfacente di quello precedente, va ricordato che esso ha visto la fine
dell’Unione Sovietica e l’apertura del blocco orientale che sono due eventi da salutare con grande
sollievo, perché hanno disinnescato ogni residua possibilità di guerra generale in Europa e hanno
liberato tanti europei dalla cappa che a lungo ha loro impedito di vedere migliorate le proprie
condizioni così come era avvenuto nell’Europa occidentale. A livello mondiale, poi, la
decolonizzazione e la globalizzazione dovuta alla grande liberalizzazione del commercio e dei
movimenti di capitale e ai crescenti flussi turistici ha coinvolto nella crescita una serie di paesi
sempre più numerosa, paesi che erano rimasti fino ad allora confinati in posizioni marginali, come
le cosiddette “tigri asiatiche”. La modernizzazione dell’area asiatica ha seguito un percorso di
imitazione del modello occidentale, con rilevanti modifiche o “fattori sostitutivi”. In particolare si
nota che dovunque lo stato ha giocato un ruolo più importante rispetto a quello dell’Europa nel
Settecento Ottocento, America del nord e Australia. Dei modelli di intervento statale che si sono
manifestati nel mondo nella seconda metà del XX sec. Quello asiatico è stato il modello di maggior
successo. Infatti il modello sovietico di stato massimale, che abolisce il mercato è fallito. Il modello
prevalentemente latino americano di import substitution, ossia di sostituzione delle importazioni
attraverso il protezionismo, ha avuto solo un limitato successo, perché ha promosso settori
industriali che spesso non potevano riuscire competitivi sul lungo termine, usando le risorse in
maniera inefficiente. Quello asiatico invece, inaugurato dal Giappone e poi seguito da tutti gli altri
paesi, ha privilegiato gli investimenti in piano di sviluppo industriale a lungo termine che
rendessero le imprese interne competitive sull’estero e fossero dunque in grado di esportare. Le
imprese estere sono state tenute a distanza, specie nelle prime fasi del decollo, mentre quelle locali
sono state incentivate a ingrandirsi e a guadagnare profitti monopolistici da dedicare prima
all’acquisizione e poi all’autonoma produzione di tecnologia.
1. Il Giappone Dal successo alla stagnazione
La ripresa economica del Giappone dopo la sconsiderata avventura bellica che lo aveva visto sfidare
gli USA fu fortemente aiutata dagli americani, che avevano bisogno anche in Asia di un presidio
contro la Russia, con un piano di intervento analogo al piano