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L’Ordine: Grandi entità statali come la Cina hanno molte risorse interne e tutto l’interesse si
concentra sulla conservazione dello status quo, che favorisce tendenze isolazioniste e
difensive, mentre piccole entità cercheranno sempre di ingrandirsi e di fare campagne di
conquista; da questo punto di vista la frammentazione europea ha generato inventivi molto
maggiori alla crescita economica di quelli registrati in Cina. Le esplorazioni geografiche
sono anch’esse state frutto della frammentazione politica e della competizione per
aumentare le ricchezze dei piccoli stati europei, che avevano una dotazione di risorse sempre
limitata. Il continuo stato di guerra in cui si sono trovati i paesi europei, definito da
Hoffman “modello competitivo del torneo” ha aumentato l’incentivo all’uso delle
tecnologie a scopi militari, ha migliorato le capacità strategiche di politici e condottieri e
imposto sistemi finanziari sempre più efficienti per poter sostenere le imprese belliche.
4. Cruciale il quarto elemento, la separazione dei poteri, per evitare una concentrazione
degli stessi in poche mani e per permettere i check and balances, ossia il controllo
reciproco; questo ha portato prima alla distinzione tra potere civile e religioso, poi d
un’articolazione della società in corporazioni, infine alla separazione dei poteri
legislativo, giudiziario, esecutivo.
Furono queste le caratteristiche che permisero il nascere di pratiche economiche largamente
inclusive, capaci di offrire un vantaggio comparato all’Europa già prima della rivoluzione
industriale.
Alexander Gerschenkron, di origine russa, emigrato in Austria dopo la rivoluzione d’ottobre, poi
approdato negli Stati Uniti dopo l’invasione nazista e diventato professore ad Harvard; grazie ad
una conoscenza di prima mano di lingue e realtà europee tanto diverse da quella anglosassone riuscì
a mostrare le differenze tra paesi europei più che le somiglianze e a formulare una spiegazione dei
processi di imitazione basata, appunto, sulle differenze.
La sua teoria si focalizza solo su due stadi della teoria rostowiana, ovvero la transizione e il decollo,
cercando così di identificare i meccanismi che permettono ai vari paesi di iniziare il processo di
sviluppo, pur trovandosi nella posizione di “ritardatari”. Egli comincia la sua riflessione avanzando
il concetto di arretratezza relativa, con il quale posiziona i vari paesi europei ad una distanza dalla
Gran Bretagna – paese leader – commisurata all’importanza e alla quantità di condizioni per lo
sviluppo presenti in Gran Bretagna e assenti altrove. Il paese più vicino alla Gran Bretagna è quello
che ha maggior probabilità di imitarla senza ritardi e senza importanti varianti.
Quanto più ci si allontana dalle condizioni della società inglese, tanto più difficile diventa
l’imitazione e sempre più probabile il ritardo, che naturalmente aggrava la posizione del
ritardatario, in quanto il divario si allarga sempre più. Gerschenkron vede, tuttavia, una possibilità
di recupero da parte di quei paesi che si rivelano in grado di attivare dei fattori sostitutivi degli
originali prerequisiti inglesi mancanti, fattori sostitutivi capaci di svolgere il medesimo ruolo dei
prerequisiti inglesi, sia pur in modo diverso. Poiché non tutti i paesi sono in grado di identificare
questi fattori sostitutivi, non tutti sono in realtà capaci di industrializzarsi o lo fanno in tempi molto
diversi, quando arrivano appunto ad attivare questi fattori sostitutivi.
Nel suo fondamentale volume del 1981, Sidney Pollard sviluppa due concetti che si sono rivelati
altamente significativi come basi di partenza per ulteriori ricerche.
- Il primo suggerisce un’importante correzione nell’unità base di applicazione della teoria
gerschenkroniana. Pollard ribadisce che non la nazione, ma la regione che decolla economicamente,
per regione intendendosi un’area, più o meno vasta, di attività economiche interconnesse attorno a
un centro propulsivo, area che spesso coincide con un’unità amministrativa, ma non sempre. Se nel
caso della Gran Bretagna il caso ha voluto che tutte le sue regioni decollassero più o meno
contemporaneamente, in nessun altra nazione questo è avvenuto, mostrando tutte dualismi più o
meno accentuati, quando non vere e proprie enclaves di sviluppo in un mare di arretratezza
perdurante. Dunque Pollard ha sottolineato che qualsiasi analisi aggregata a livello nazionale perde
efficacia e precisione nel delineare le caratteristiche del decollo, ma anche le vicende successive,
quanto più le aree dinamiche, vengono ad annegarsi in contesti di immobilismo. Un’analisi
regionale, che confronta le regioni dinamiche fra di loro e dà ragione dei motivi dell’immobilismo
delle altre, porta a risultati generalizzanti molto più significativi sul lungo periodo.
- Il secondo richiamo pollardiano focalizza l’attenzione su dei fattori che potremmo definire di
interferenza. Pollard sottolinea con il suo concetto di differenziale della contemporaneità che vi
sono eventi di tale risonanza internazionale che interferiscono con i sentieri predisposti dalle
decisioni dei singoli paesi, deviandoli talora in senso negativo, rispetto alle direzioni impresse
internamente, cosa che rende inevitabile l’analisi e la considerazione anche degli sviluppi
dell’economia internazionale per poter adeguatamente comprendere le diversità di percorsi
nazionali.
L’esempio che Pollard fornisce è quello delle ferrovie; tra le innovazioni della rivoluzione
industriale inglese che fecero più scalpore all’estero, senz’altro le ferrovie occupano il primo posto
nell’immaginario popolare come nelle preoccupazioni di tutti i governanti dell’epoca. Sembrò che
nessun paese potesse fare a meno delle ferrovie, ma la sfida da esse posta ai vari ambienti
economici nazionali produsse risultati non solo del tutto diversi, ma anche non sempre coerenti con
le direzioni di sviluppo delle varie nazioni. In Gran Bretagna le ferrovie non furono causa dello
sviluppo, ma il frutto maturo dello stesso e si materializzarono quando il paese non aveva certo
problemi di raccolta dei finanziamenti necessari, né problemi di interdipendenze settoriali da
risolvere (esistevano già un’industria meccanica e metallurgica adeguate). In Belgio, Francia,
Germania e Stati Uniti le ferrovie furono una potente molla di sviluppo, che indusse la costruzione a
monte di un’industria metalmeccanica nazionale, l’attivazione di canali di finanziamento adeguati e
nel caso statunitense (per le dimensioni colossali raggiunte dalla rete) anche di sistemi di gestione
su larga scala che furono il primo campo di applicazione di quell’organizzazione scientifica del
lavoro attraverso la quale gli Stati Uniti divennero potenti e famosi. In paesi più arretrati come
l’Italia, le costruzioni ferroviarie decise all’indomani dell’unificazione da governi che le vedevano
come un potente strumento di modernizzazione del paese necessitarono di notevoli flussi di
importazioni di materiali dall’estero senza indurre la nascita di un’industria metalmeccanica
nazionale se non verso la fine e non ebbero un grande successo commerciale, così che finirono col
pesare sulla finanza pubblica. Proprio Gerschenkron si chiese come mai i governanti italiani
decisero di introdurre le ferrovie prima che il paese fosse pronto a trarre da esse tutto il beneficio
economico possibile; ebbene, Pollard offre una risposta assai persuasiva: un tipico fattore di
interferenza, un “differenziale della contemporaneità”. Ancora peggio andò alla Turchia e ad altri
paesi ancora più arretrati, dove le ferrovie furono un lusso inutile, acquistato interamente dall’estero
e pagato (quando poi veniva pagato) con lo sfascio di finanze pubbliche già dissestate.
4. Impero asburgico
Si era costruito le tempo aggregando alla piccola Austria i territori più diversi, nell’ottocento
riuniva 11 diverse nazionalità, con le rispettive lingue; il territorio non era molto favorevole dal
punto di vista agricolo, poiché i due terzi erano formati da montagne e colline, l’unico sbocco al
mare era nell’Adriatico, con il porto di Trieste, inoltre le dotazioni di carbone erano poco
abbondanti e infelicemente localizzate. Come entità politica era importante e potente e nel
Settecento era stata anche relativamente avanzata, ma successivamente non riuscì a tenere il passo.
L’impero ritardò molto l’abolizione della servitù della gleba, che ebbe luogo solo dopo la
rivoluzione del 1848, quando venne instaurata un’unione doganale sul modello dello Zollverein.
Altro elemento negativo fu la politica protezionistica che la tenne fuori dal commercio
internazionale, inoltre quel poco commercio che c’era era concentrato con la Germania. Dal punto
di vista settoriale, lo sviluppo industriale che si realizzò privilegiò l’industria leggera – alimentare
(specialmente in Ungheria), tessile (lana e cotone), vetro, carta – ma si svilupparono anche
l’industria metalmeccanica, le ferrovie l’industria elettrica, tuttavia con risultati comparativamente
insoddisfacenti per l’impero. Il sistema finanziario imitò quello tedesco, con la creazione di
numerose banche miste, di cui le più famose furono la Creditanstalt (1855) e la Wiener Bankverein.
In realtà, il problema principale dell’impero era quello di ospitare aree con diversissime dotazioni di
prerequisiti per lo sviluppo (condizioni dell’agricoltura, diffusione dell’istruzione, infrastrutture)
agli inizi dell’Ottocento e di non essere riuscito a far fare alle aree più arretrate un salto di qualità.
Nella seconda metà dell’Ottocento tutte le aree crebbero, chi un po più come l’Ungheria, chi un po
meno, come la bassa Austria, ma, essendo partite da basi diverse e comunque assai più basse dei
paesi europei più avanzati, il risultato alla vigilia della prima guerra mondiale restava
complessivamente insoddisfacente; solo l’Austria era a un buon livello di sviluppo, mentre le altre
regioni erano più o meno arretrate.
5. Russia
Alla vigilia della prima guerra mondiale la Russia era molto arretrata, con un reddito pro capite pari
a meno di un terzo di quello inglese, con il 75% della forza lavoro ancora impegnata in agricoltura
(59% in Italia e 62% in Giappone), con il 72% di analfabeti (48% in Italia) e solo il 15% della
popolazione insediata in aree urbane. Eppure i dati dimostrano che produceva tanto acciaio e tanta
elettricità quanto la Francia e vantava più Km di ferrovia di qualunque altro paese europeo.
Naturalmente il segreto sta nel fatto che la Russia era grandissima e quindi, pur possedendo una
base industriale di qualche importanza in valori assoluti, gli effetti in termini relativi e pro capite
venivano a dissolversi nel mare di arretratezza in cui venivano annegati. La Russia, trovandosi
all’estremo lembo orientale dell’Europa, aveva subito notevoli influenze dall’assolutismo orientale
e solo per iniziativa dall’altro da parte degli zar si era aperta a qualche maggiore influenza europea.
Si fanno risalire a Pietro il grande (1696-1725) i primi tentativi di importare tecnologia occidentale,
ma senza alcuno sforzo di cambiare le istituzioni del paese in modo che questo potesse evolvere
dall’interno verso una modernizzazione della sua struttura economica. A seguito della perdita della
guerra di Crimea lo zar Alessandro II si decise ad abolire la servitù della gleba che ormai era
rimasta in vigore solamente in Russia (1861); tuttavia, il modo in cui venne effettuata questa
abolizione non liberò affatto né la coltivazione della terra né la mobilità dei contadini; infatti, le
decisioni sulla distribuzione delle terre da coltivare e il controllo dei lavori furono demandate alla
comunità di villaggio (mir), a cui chi voleva emigrare doveva continuare a pagare le imposte e le
rate del riscatto. Soltanto nel 1907 il ministro Stolypin abolì i pagamenti residui del riscatto e
permise l’effettiva privatizzazione delle terre.
Alessandro II incoraggiò anche la costruzione di ferrovie e la riorganizzazione delle banche. A
partire dal decennio 1880 l’industrializzazione in Russia fece un grande passo in avanti, crescendo a
ritmi rapidi soprattutto nel 1890 e localizzandosi non solo a Mosca e San Pietroburgo, ma anche
negli Urali, nell’Ucraina e nelle regioni polacche. Decollò l’industria pesante (carbone, acciaio,
macchine) legata alle ferrovie, ma soprattutto aumentò l’industria degli armamenti; industria tessile
e alimentare non avevano una grande spinta, vista la ristrettezza del mercato interno per beni di
consumo. Ci fu dunque, anche in seguito ad alcune riforme che legalizzarono scioperi e sindacati,
ma alla vigilia della prima guerra mondiale l’economia russa era ben lontana dall’aver trovato un
suo equilibrato sentiero di crescita autosostenuta e gli imprenditori russi erano ancora pochi, male
organizzati e relativamente emarginati dal punto di vista sociale. Lo stato finanziò le ferrovie,
introdusse il gold standard per attivare investimenti stranieri, impose dazi sulle industrie strategiche
per incentivare la costruzione di impianti sul territorio nazionale, ordinò armamenti, fu largo di
sussidi agli imprenditori, specialmente stranieri. Gerschenkron ritiene che, se non ci fosse stata la
partecipazione della Russia alla prima guerra mondiale a destabilizzare la situazione economica del
paese, forse si sarebbe vista una lenta evoluzione verso equilibri politici più favorevoli a una
crescita autosostenuta e verso un’economia in cui la domanda contasse di più.
6. Italia
Molte delle innovazioni istituzionali che percorsero la rivoluzione industriale tra fine Medioevo e
Rinascimento furono introdotte in Italia, espressione che aveva allora una valenza meramente
geografica, essendo l’area occupata da numerose entità politiche tanto piccole quanto instabili. In
realtà l’Italia ospitava attività manifatturiere avanzate per l’epoca ed era molto prospera, come è
segnalato anche dall’elevato numero di città che vi si poteva contare. Da un lato la frammentazione
politica e la conflittualità endemica, dall’altro l’esagerata insistenza su manifatture di lusso ad alto
prezzo, insieme allo spostamento dell’asse dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico produssero un
vistoso declino dell’Italia nel Seicento e una sua persistente arretratezza nel Settecento, pur in
presenza di élite di pensatori ed economisti profondamente legati agli sviluppi del resto d’Europa.
Superati gli anni travagliati delle guerre napoleoniche, l’Italia venne riorganizzata dal Congresso di
Vienna in sette stati, due dei quali molto piccoli e uno (il Lombardo-Veneto) sotto diretta
dominazione austriaca. Fra questi stati, il solo Regno di Sardegna si rivelò dinamico
istituzionalmente (diventò una monarchia costituzionale nel 1848) ed economicamente, con la
costruzione di ferrovie, di manifatture (tessili, meccaniche, cantieristiche) e di banche. Con l’ascesa
al potere di Cavour, trovò anche l’uomo politico di larghe vedute che seppe tessere alleanze
internazionali tali da condurlo a sostenere l’irredentismo degli italiani che si volevano in primo
luogo liberare degli austriaci e poi anche di altri governi non amati perché pervicacemente
assolutisti. Come è noto, le trame abilmente tessute da Cavour, accoppiate alla focosità di Garibaldi,
che concepì l’idea di liberare il Regno delle due Sicilie dai Borboni, portarono all’unificazione
politica del paese, in presenza di profonde differenze di tradizioni culturali, infrastrutture
economiche, diffusione dell’istruzione e produttività dell’agricoltura. I nuovi governi dell’Italia
unificata modernizzarono il paese dal punto di vista istituzionale, introducendo una legislazione
commerciale liberista e un fisco allineato ai più avanzati sistemi europei, varando già nel 1859 una
fra le più avanzate leggi europee sull’istruzione (legge Casati) e legando la moneta al gold standard.
Quello che non si riuscì a fare fu un’unica banca centrale, perché le banche di emissione di alcuni
stati preunitari riuscirono a mantenersi in esistenza, benché la banca nazionale degli stati sardi,
ribattezzata Banca nazionale del Regno d’Italia, fosse chiaramente leader. Ma il paese stentava a
decollare, nonostante il programma di ferrovie lanciato dai primi governi. Le attività tradizionali,
particolarmente la produzione di seta grezza per il mercato internazionale, continuavano; quello che
non si vedeva era l’introduzione di nuovi settori industriali. Bisogna ricordare che l’Italia era
completamente prima di carbone e aveva poco ferro; il debito pubblico era elevato, per le cattive
condizioni delle finanze degli stati preunitari, le molte guerre e il tempo occorso a mandare a
regime il nuovo sistema fiscale; non mancavano le banche, ma poche erano quelle costituite in
società per azioni che avessero come obiettivo il finanziamento industriale. L’economia si ravvivò
un po’ all’inizio del 1880, anche per iniziativa dello stato, che si occupò di rimodernare la Marina
italiana, finanziò nel 1884 la creazione della prima importante acciaieria italiana, la Terni, e
reintrodusse un po’ di protezionismo nel 1887, sulla cui efficacia vi sono pareri discordanti. Ma una
vasta speculazione edilizia precipitò verso la fine del decennio il sistema bancario in una pesante
crisi, che vide il fallimento del Credito mobiliare e della Banca generale, la liquidazione della banca
romana e la fusione di altre due piccole banche di emissione nella banca nazionale, che venne
ribattezzata Banca d’Italia (1893) e continuò a condividere il potere di emettere banconote con altri
due istituti (il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia) di molta minor importanza. Tutti i settori
industriali decollarono, a parte la chimica (con l’eccezione dei fertilizzanti fosfatici), con particolare
successo per quello elettrico, che aveva affrancato parzialmente l’Italia dalla dipendenza dal
carbone, quello della gomma (la Pirelli, fondata nel 1872, divenne presto la prima multinazionale
italiana). Al termine di questo periodo, però, l’Italia appariva dai dati aggregati ancora piuttosto
arretrata avendo raggiunto solo il 47% del reddito pro capite della Gran Bretagna, un traguardo
simile a quello medio dell’impero asburgico. Gerschenkron ritenne che le politiche economiche dei
governi italiani (protezionismo mal concepito e la fretta nella costruzione delle ferrovie) avessero
impedito di sfruttare a pieno i vantaggi dell’arretratezza e che né lo stato né il sistema bancario
furono in grado di offrire potenti fattori sostitutivi come in Russia e in Germania. Inoltre è un fatto
che anche l’Italia soffriva, di profondi squilibri regionali anche se un po’ meno forti di quelli
dell’impero asburgico. In realtà erano solo tre le regioni dove il decollo industriale era pienamente
avvenuto (Piemonte-Liguria-Lombardia, nota come triangolo industriale); vi erano poi altre regioni
che si erano messe in movimento, ma ancora assai parzialmente, mentre l’intero sud del paese era
ancora ben poco progredito, a tal punto da attirare ai primi del ‘900 una serie di leggi speciali di
intervento, senza tuttavia apprezzabili miglioramenti.
7. Spagna
La spagna non era mai stata fra i paesi con reddito pro capite più elevato. L’agricoltura era arretrata
anche per le condizioni climatiche e del suolo. Nella seconda metà dell’800 le cose migliorarono
soprattutto perché si fecero strada due regioni la Catalogna e i Paesi Baschi, oltre alla capitale
Madrid. La prima sviluppò l’industria del cotone e dopo quella meccanica. La seconda l’industria
siderurgica. Fu così che all’alba della prima guerra mondiale il reddito pro capite della Spagna era
simile a quello dell’italia.
Capitolo 8: L’economia internazionale tra fine 800 e primi del 900, il ruolo del gold standard e
l’evoluzione della finanza
Pag 143 a 162
L’industrializzazione ha prodotto un’incredibile aumento del commercio internazionale, che
precedentemente era tenuto a freno dagli alti costi di trasporto, dal basso potere d’acquisto della
gente e dalla scarsa diversificazione dei prodotti, tutti limiti che andarono progressivamente
allentandosi man mano che le economie si trasformavano. La Gran Bretagna fu naturalmente il
primo paese a espandere notevolmente il suo commercio internazionale, cosicché nel 1913 era
ancora la più grande esportatrice mondiale, tallonata da vicino dalla Germania; seguiti poi da Stati
Uniti e Francia. I due periodi migliori furono: 1820-1870, quando prevalse un’apertura di molti
paesi al commercio internazionale, e ancor più l’ultimo (1950- 1992), quando si avviò un
consistente processo di liberalizzazione del commercio; ma anche il periodo 1870-1913, che scontò
un aumento del protezionismo, non andò male, mentre il periodo tra le due guerre fu disastroso, non
solo per il commercio. Con l’allargarsi del commercio internazionale, la sua incidenza sul Pil
aumentò, in misura maggiore quanto più i paesi erano piccoli e potevano specializzarsi solo in una
gamma ristretta di prodotti. Inoltre, vi fu un processo di multilateralizzazione del commercio,
ovvero non era più necessario far bilanciare esportazioni e importazioni con ogni singolo partner
commerciale, perché le compensazioni si potevano effettuare sull’aggregato, permettendo in questo
modo maggior flessibilità di uso delle risorse mondiali. Il commercio internazionale è sempre stato
visto come un’importante estensione del principio della specializzazione del lavoro già applicato a
livello nazionale, che aumenta la produttività globale del sistema economico mondiale, rendendo
più efficiente l’uso delle risorse. E’ inoltre veicolo di modernizzazione, in quanto permette tra le
altre importazioni quelle di materie prime strategiche (cotone grezzo o carbone o petrolio) e di
macchinari avanzati, mentre facilita l’esportazione di prodotti manifatturieri anche se non troppo
avanzati, purchè i prezzi siano contenuti, permettendo alle industrie nascenti di consolidarsi
attraverso l’allargamento del mercato estero. Per questi motivi la prescrizione degli economisti è
sempre stata quella di lasciare il commercio libero, in modo che potesse dispiegare tutta la sua forza
benefica; eppure se si guarda alla storia del capitalismo industriale, si nota che nessun paese di
grandi dimensioni si è mai industrializzato in presenza di una totale libertà di commercio, nemmeno
la Gran Bretagna; sono piuttosto i paesi piccoli, fortemente dipendenti dal commercio
internazionale, a essere più favorevoli a una libertà di commercio, come dimostrano i bassi livelli di
protezione di Olanda e Danimarca. In realtà i paesi di grandi dimensioni avevano ragioni per
ritenere che un po’ di protezione all’industria nascente, avrebbe potuto avere successo nell’avviare
settori industriali non ancora presenti, con buone probabilità di riuscita, viste le potenzialità del
mercato interno di un paese grande; comunque non si trattò mai fino agli anni trenta di livelli
protettivi tali da avere un forte impatto negativo sul commercio internazionale.
Tutti concordano sul fatto che un protezionismo troppo elevato ha effetti solo negativi, mentre le
più moderne teorie del commercio strategico danno qualche giustificazione a una moderata
protezione temporanea accompagnata da un rafforzamento delle capacità competitive.
Proprio l’esistenza del protezionismo portava i paesi a negoziare vantaggi reciproci
dall’abbassamento di qualche selezionato dazio. Tali negoziati erano sempre bilaterale
nell’ottocento, ma se ne cercava di multilateralizzare gli effetti attraverso la cosiddetta clausola
della nazione più favorita (Npf), ovvero se un paese x riceveva da un paese y questa clausola aveva
automaticamente diritto a vedersi applicato un trattamento di maggior favore negoziato da y con un
terzo paese z, senza bisogno di riaprire i negoziati con y. Anche i fattori della produzione lavoro e
capitale, divennero internazionalmente molto più mobili. Come nel caso del commercio anche
l’emigrazione era sempre esistita, ma subisce un’esplosione nel corso dell’ottocento e inizio
novecento, da poco più di 2 milioni di emigrati nel 1850, si passa a 10,5 milioni nel XX sec. Con
una successiva flessione dovuta solo alla grande guerra. Le mete erano in parte paesi europei già
avanzati, ma in larga misura America e Australia. Gli effetti di questa emigrazione sono stati una
convergenza nei salari e nei redditi tra paesi di emigrazione e paesi di immigrazione. Nemmeno i
movimenti di capitale erano una novità, avendo i banchieri effettuato finanziamenti internazionali,
particolarmente di guerre, ma nell’ottocento molte economie diventarono più dinamiche, le borse si
allargarono, nacquero le prime multinazionali e i flussi di capitale a lungo termine aumentarono
sostanzialmente.
E’ con il prepotente allargamento dei mercati internazionali dei beni, del lavoro e della finanza che
nasce una vera e propria economia internazionale e ogni paese deve prestare attenzione alla sua
bilancia dei pagamenti, che mette a confronto tutti i pagamenti da effettuare all’estero a qualunque
titolo con tutti i pagamenti ricevuti dall’estero per vedere qual è la situazione del paese. Se la
bilancia è in pareggio, il paese può dare seguito ai suoi progetti di modernizzazione economica; se
la bilancia è in avanzo, è una situazione di squilibrio, che tenderà a produrre aggiustamenti, ma in
generale le attività economiche interne non ne sono influenzate negativamente. I problemi sorgono
quando la bilancia dei pagamenti è in deficit, perché il paese non riceve dall’estero abbastanza
valuta per effettuare i propri pagamenti sull’estero. Se ha delle riserve, può temporaneamente
utilizzarle, altrimenti può farsi dare dei prestiti, ma alla fine dovrà comunque trovare il modo di
raddrizzare la situazione, agendo sulle variabili economiche interne.
Tutti i paesi che si modernizzavano crearono una banca centrale che divenne presidio di uno dei più
indiscussi beni pubblici, la moneta. La prima u la banca di Svezia (1667), poi la Bank of England
(1694), gli Stati Uniti crearono le Federal Reserve solo nel 1914. La banca centrale aveva il
monopolio dell’emissione di carta moneta e del mantenimento delle riserve auree e di altre valute;
ma aveva anche molte altre responsabilità come la fissazione del tasso di sconto, che da riferimento
di tutti i tassi bancari e segnala politiche monetarie restrittive o espansive; o la supervisione del
tasso di cambio quando si era in regime di cambi fissi; regolava i rapporti col tesoro che potevano
essere più o meno stretti a seconda del grado di autonomia della banca centrale; la supervisione del
sistema bancario; ultima funzione era quella del prestatore di ultima istanza, questa funzione veniva
svolta con solerzia molto diversa a seconda delle tradizioni e del funzionamento del sistema
economico, quando vi era una crisi, per bloccare il panico che si diffondeva se si verificavano troppi
fallimenti, particolarmente di banche, e molti agenti economici erano alla disperata ricerca di
liquidità. La banca centrale interveniva, ma non si doveva sapere prima quando e come per evitare
speculazioni, offrendo liquidità con larghezza a un tasso di interesse fisso, in questo modo
bloccando la tendenza a vendere titoli, che ne deprimeva esageratamente le quotazioni, e favorendo
il recupero dell’equilibrio.
Nella seconda metà del settecento vennero create per prime le casse di risparmio, queste
comparvero prima nell’impero asburgico e si diffusero poi dappertutto. Si trattava di banche non
profit, create per raccogliere piccoli risparmi allo scopo di abituare la gente di modesto reddito al
risparmio remunerato, evitando nel contempo il tesoreggiamento, che sottraeva liquidità al sistema,
e limitando l’usura. La gestione dei depositi di queste banche era molto prudenziale e gli avanzi di
gestione che queste banche realizzavano venivano destinati a beneficenza e alla realizzazione di
opere sociali. Le casse di risparmio ebbero un grande successo e diventarono talora banche di
notevoli dimensioni, con un impatto importante sul territorio.
Si diffusero nello stesso periodo le società per azioni bancarie, che assunsero la configurazione di
istituti di credito a breve termine (banche commerciali) che contavano molto sui depositi, o istituti
di credito a lungo termine che davano prestiti sulla base del capitale sottoscritto (non svolgevano
attività di deposito).
A metà dell’ottocento nacquero in Germania le banche cooperative, in due versioni, una urbana sul
modello stilato da Shulze Delitzsch (banche popolari) e l’altra rurale (a responsabilità limitata) sul
modello di Raiffeisen (casse rurali). Anche queste banche ebbero una notevole diffusione sul
continente europeo; erano infatti più orientate agli affari rispetto alle casse di risparmio, soprattutto
al sostegno di attività locali di piccole dimensioni.
In questo modo si creò un potente reticolo di riciclo finanziario del risparmio, che da un lato
eliminò il tesoreggiamento e dall’altro riuscì a coprire lee più diverse esigenze di credito, cosicché
l’usura, mai interamente debellata, venne confinata in ristretti limiti.
Per quanto riguarda le grandi imprese, che costituivano la struttura più avanzata dei vari sistemi
economici nazionali, l’importanza relativa della borsa o della banca nel loro finanziamento ha
configurato l’esistenza di due sistemi finanziari alterativi. Il primo è quello anglosassone orientato
al mercato, dove la borsa ha un primato assoluto e la banca svolge un ruolo secondario più di
supporto alle attività correnti che non a quelle di investimento; in questo sistema le grandi imprese
rispondono singolarmente al mercato borsistico (quindi agli azionisti) e non hanno forme di
collaborazione o circolazione di informazioni al di fuori di quelle rese note al mercato borsistico. Il
secondo è quello tedesco orientato alla banca, dove la banca mista ha invece il ruolo di finanziatore
principale e la borsa è di dimensioni più ristrette e di importanza secondaria. La connessione delle
grandi imprese con le banche si traduce anche in un’interconnessione tra imprese, che spesso
detengono pacchetti azionari incrociati, e fa circolari informazioni riservate nel gruppo di
riferimento, che non disponibili né alla borsa né al pubblico, favorendo un maggior coordinamento
ex ante nelle decisioni.
Fin dal Medioevo si era sviluppato in vari paesi europei uno standard misto di circolazione
monetaria metallo prezioso/banconote. Alcuni paesi utilizzavano due metalli (oro e argento) e lo
standard si chiamava allora bimetallico, altri utilizzavano solo l’argento o solo l’oro e si parlava
allora di monometallismo. Convenzionalmente si fa risalire al 1717 l’inizio del Gold standard in
Gran Bretagna, quando Isaac Newton, responsabile della zecca, fissò il prezzo dell’oro a 3 sterline,
17 scellini e 10.5 pence. Dal momento che il paese leader preferì l’oro, quello che andò in funzione
internazionalmente nella seconda metà dell’ottocento fu il monometallismo aureo.
Originariamente c’erano solo monete metalliche in circolazione, ma il diffondersi delle pratiche
bancarie di uso di cambiali, di tratte, quindi di banconote, più facili da circolare e anche da
moltiplicare, aveva relegato sempre più il metallo come riserva in lingotti nelle casseforti delle
banche, una riserva che non copriva interamente la circolazione cartacea, per risparmiare oro. Uno
dei cardini del sistema restava il diritto di convertibilità della carta moneta in metallo prezioso a una
parità prefissata. Tale convertibilità serviva ad impedire l’eccessiva emissione di carta moneta
(priva di valore intrinseco), obbligando le autorità a mantenere la quantità di banconote in
circolazione pari a un multiplo fissato dalla consuetudine prima, e poi dalle leggi, della riserva di
metallo prezioso. Per aumentare la circolazione cartacea occorreva acquisire più metallo prezioso, il
che non era mai facile, viceversa quando il metallo prezioso diminuiva, occorreva restringere la
circolazione cartacea. Era questa la disciplina del sistema legato al metallo prezioso, definita dalle
regole del gioco. Essendo un sistema fiduciario, dato che non esisteva abbastanza metallo in riserva
per convertire tutte le banconote in circolazione, esso si reggeva sulla corretta applicazione delle
regole del gioco; quando questo non avveniva la perdita di fiducia generava corse agli sportelli delle
banche per effettuare la conversione della cartamoneta in oro, il che portava l’intero sistema al
collasso e all’uscita dalla convertibilità.
Ciò che ha attirato maggiormente l’attenzione degli studiosi è il fatto che questo regime ha prodotto
un meccanismo di riaggiustamento internazionale degli squilibri nelle bilance dei pagamenti tali da
mantenere i cambi tra le monete fissi e quindi un notevole ordine e stabilità dell’economia
internazionale.
Quando in un paese le cose non vanno troppo bene ed emerge un deficit nella sua bilancia dei
pagamenti, il paese ha difficoltà ad avere sufficienti quantità di moneta straniera e tenderà ad offrire
più unità di moneta nazionale per acquisirla, in questo modo portando a svalutare la propria moneta;
poiché però vige un regime di convertibilità, chiunque debba essere pagato con la moneta che tende
a svalutarsi preferirà essere pagato direttamente in oro, che mantiene una parità prefissata sia con la
moneta che tende a svalutarsi, sia con la moneta in cui poi si andrà a convertire l’oro, in questo
modo evitando qualunque perdita sul cambio. Succede così che un paese con un deficit nella
bilancia die pagamenti vedrà le sue riserve di oro diminuire (deflusso di oro). Scattano a questo
punto le regole del gioco. Con una riserva diminuita il paese deve diminuire la circolazione
cartacea, con una restrizione del credito e un innalzamento del tasso di interesse; a sua volta queste
manovre faranno restringere la domanda interna, abbassare i prezzi, mentre tassi di interesse più alti
attireranno capitali dall’estero. Tutto questo porta a riequilibrare la bilancia dei pagamenti e a
impedire l’effettiva svalutazione della moneta che, quindi, pur con lievi fluttuazioni, resterà in
sostanza fissa. Il meccanismo funziona anche in modo inverso per riequilibrare una bilancia dei
pagamenti in avanzo, che vede un afflusso di oro e quindi un’espansione della circolazione cartacea,
in questo modo portando alla condivisione dell’onere del riaggiustamento tra paese in deficit e
paese in avanzo; tuttavia i paesi in avanzo talora amavano aumentare le proprie riserve senza
osservare le regole del gioco, evitando di allargare la circolazione monetaria (sterilizzazione
dell’oro) e creando maggiore difficoltà al paese deficitario, che si vedeva costretto a sostenere da
solo tutto l’onere del riaggiustamento. Proprio la gravità di questo onere poteva indurre qualche
paese ad uscire dal gold standard, lasciando fluttuare la propria moneta, ma gli svantaggi di non far
parte di questo club di nazioni era grande e i governi ricorrevano a questa misura quando non
potevano proprio farne a meno e in genere solo temporaneamente. Il meccanismo di
riaggiustamento è automatico, nel senso che ha una sua logica intrinseca, ma richiede che i paesi
seguano le regole del gioco, implicando dunque una volontà politica di voler restare all’interno del
sistema.
Alla luce di alcuni di studi che hanno dimostrato che per mantenere il gold standard occorra
un’economia internazionale non turbata da eventi troppo traumatici per permettere il corretto
funzionamento del sistema, alcuni studiosi hanno finito per concludere che sono stati periodi di
grande stabilità internazionale e di sviluppo a permettere il gold standard e non è stato il gold
standard a generare stabilità, anche se ha di certo contribuito a mantenerla. Il gold standard classico
fu sostenuto dalla sterlina inglese, non senza problemi per la Bank of England, che non sempre
disponeva delle riserve di oro necessarie.
L’altro episodio di gold standard di successo, fu deciso nel 1944 a Bretton Woods, noto come
sistema di Bretton Woods, fu sostenuto dal dollaro statunitense, e fu una versione depotenziata del
gold standard classico, chiamato gold exchange standard, perché la gran parte dei paesi non
deteneva riserve di oro, ma di dollari, e solo attraverso il cambio con il dollaro poteva accedere
all’oro. Anche in questo caso si registrarono problemi che alla fine degli anni sessanta ne
decretarono la fine. Questi problemi sono legati all’oro, infatti l’oro ha un suo mercato come ogni
altro bene, quando è scarso, il suo prezzo tende ad aumentare e viceversa quando è abbondante. Il
fatto è che le miniere d’oro sono limitate e vengono scoperte con ritmi più lenti; quindi un sistema
di gold standard non mantiene generalmente i livelli dei prezzi fissi, infatti quando c’è poca offerta
di oro, anche la moneta cartacea in circolazione aumenta poco e se contemporaneamente le attività
economiche aumentano, il livello dei prezzi tende a diminuire (deflazione); quando c’è una forte
immissione di oro e quindi la moneta cartacea aumenta più che proporzionalmente all’aumento
delle attività economiche, il livello dei prezzi tende ad aumentare (inflazione); solo che in un
sistema di gold standard deflazione e inflazione si propagano internazionalmente nella stessa misura
e quindi i cambi possono rimanere fissi.
Si giunse col tempo a due conclusioni: 1. Poiché la deflazione non è favorevole all’attività
economica, la scarsità di oro venne vista come un inutile fattore limitante che interferiva
negativamente con le attività economiche. 2. Al contempo, la necessità di una disciplina esterna per
impedire l’eccessiva inflazione venne di molto ridimensionata dalla maggior consapevolezza e
correttezza delle autorità monetarie dei paesi che contavano, cosicché si capì che era possibile
mantenere condizioni di stabilità dei cambi anche senza l’oro.
Capitolo 9: Le conseguenze sociali ed economiche della prima guerra mondiale e gli anni 20 in
Eu e USA
Pag 164 a 197
Molte ragioni hanno scatenato la seconda guerra mondiale, come il conflitto franco-tedesco sul
possesso di Alsazia e Lorena che aveva un importante risvolto economico: le importanti miniere di
ferro, di zinco e di carbone ivi localizzate; il successo e l’espansionismo delle imprese tedesche
veniva visto con forti preoccupazioni da italiani e francesi; i contrasti economici nei Balcani fra
tutte le principali potenze erano vivaci; era sorto un serio dissenso tra Germania e Russia sul
protezionismo. Tuttavia nessuna di queste motivazioni sarebbe stata sufficiente per scatenare una
guerra, se non avesse avuto profonde radici in Europa la convinzione che la guerra fosse uno
strumento valido per far prevalere un’egemonia e per acquisire nuovi territori, arricchendo il
vincitore. Nell’era industriale tale convinzione non aveva più fondamento, perché c’erano altri modi
per arricchirsi, la guerra rallentava l’accumulazione distruggendo il capitale fisso e umano e
scompigliando i mercati e spesso si concludeva con notevoli perdite economiche per tutti i
combattenti (gioco a somma zero). La prima guerra mondiale fu lunga e distruttiva, in capitale
umano e fisico. Quasi 9 milioni i soldati morti in guerra, ma circa 40 milioni di persone morirono
tra il 1918 e il 1919 per l’epidemia di spagnola, un’influenza letale che si diffuse a causa della
guerra, senza contare i morti della guerra civile in Russia. In questa guerra si può vedere quanto
furono pesanti le perdite umane e le distruzioni di capitale, a cui vanno aggiunti la dissoluzione
dell’impero austro-ungarico, il dramma delle riparazioni tedesche e il rallentamento delle economie
europee. Le finanze dei belligeranti vennero messe a dura prova, perché le spese militari furono
molto pesanti, con effetti che si faranno sentire a lungo. In alcuni paesi, come Francia e Italia, ci fu
la necessità di allargare l’insufficiente base produttiva nell’industria dell’acciaio, degli armamenti e
degli esplosivi, il che comportò ulteriori impegni finanziari da parte dello stato. Poiché risultò
impossibile, con la parziale eccezione della Gran Bretagna, far fronte a questi impegni solo con
l’aumento delle imposte e l’allargamento del debito pubblico, i governi fecero ampio ricorso alla
stampa di carta moneta, con un conseguente processo di inflazione, in parte represso dai controlli
durante la guerra, ma esploso successivamente e uscita dal gold standard.
1. Lo smembramento dell’impero Asburgico e la riorganizzazione territoriale
dell’Europa
Alla Germania fu tolto il 13% del suo territorio, restituendo l’Alsazia e la Lorena alla Francia e
accorpando le regioni polacche al resto della Polonia ristabilita come nazione, attraverso il recupero
anche della parte russa e di quella asburgica. Dalle ceneri dell’impero asburgico vennero formate 10
muove nazioni più due città libere (Fiume e Danzica) e le regioni che passarono all’Italia. Le
frontiere doganali furono aumentate, le monete in circolazione si moltiplicarono e con esse le
banche centrali, nuovi sistemi fiscali dovettero essere impiantati, il che significò l’ulteriore
frammentazione dell’Europa. Ma ancora più foriero di instabilità futura fu il modo in cui le nuove
nazioni dovettero iniziare la loro vita economica, prive di qualunque aiuto internazionale che non
fosse di consulenza. Ci fu solo un piccolo fondo privato americano di aiuto (Ara, American Relief
Administration) che durò da Gennaio a Luglio del 1919. I nuovi stati dovettero affrontare problemi
quali:
1. La riforma agraria. Per motivi politici ed economici insieme, i latifondi di cui erano
ancora largamente popolate queste aree dell’est europeo andavano ridimensionati e
questo richiedeva riforme che erano politicamente difficili ed economicamente
travagliate, nel senso che il latifondo, appena smembrato, di solito dà come risultato un
calo di produttività, superato dopo la costruzione di opportune infrastrutture da uno
sfruttamento più intensivo;
2. Il ridirezionamento del commercio. I legami commerciali di aree che facevano parte di
compagini nazionali diverse dovevano essere da un lato riorganizzati in funzione del
mercato interno, dall’altro di mercati esteri più diversificati, un processo che richiedeva
tempo;
3. Il ricompattamento e ridirezionamento delle infrastrutture. Anche le infrastrutture interne
erano o appartenute a nazioni diverse e quindi avevano standard diversi o costruite in
funzione di direzioni e dimensioni diverse.
4. La promozione dell’industria. Poche delle nuove nazioni (solo Cecoslovacchia e
Austria) avevano una base industriale di qualche importanza e quindi tutte si trovarono a
dover promuovere l’industrializzazione in un contesto non certamente favorevole. Tutte
pensarono subito ad aumentare i dazi, causando così una tendenza generale in Europa
all’aumento dei dazi. Il successo in questi tentativi di forzare l’industrializzazione fu
molto deludente, dato che poi la grande crisi peggiorò la situazione dovunque. Solo la
Cecoslovacchia ebbe un buon tasso di crescita e quasi raddoppiò il suo indice ella
produzione industriale, partendo da una base nel 1920 abbastanza buona. Come seconda
per tasso di crescita viene la Iugoslavia, tuttavia il livello di reddito pro capite nel 1929
la colloca poco sopra Romania e Bulgaria. Polonia e Bulgaria mostrano risultati molto
deludenti, la Polonia soprattutto per gli effetti negativi della guerra e la Bulgaria per una
totale disorganizzazione del paese. Se teniamo conto del fatto che il reddito pro capite
era poco più della metà di quello degli Stati uniti allora ci rendiamo conto della povertà
di questi paesi.
In conclusione, si può affermare che la riorganizzazione territoriale dell’est europeo avrebbe avuto
bisogno di un lungo periodo di prosperità internazionale e di pace per consolidarsi ed evolvere
verso un assetto più prospero di quelle aree; ma questo non avvenne, in primo luogo perché si
scatenò la grande crisi e quindi perché scoppio la seconda guerra mondiale, foriera di una soluzione
che rinviò ancora di almeno cinquant’anni il consolidamento economico dell’area.
2. Le ripartizioni tedesche e l’economia della Germania negli anni 20
La nuova Repubblica di Weimar iniziò la sua vita economica sotto i peggiori auspici. Non solo le
perdite umane della guerra erano state elevate, ma il paese aveva perduto il 13% del suo territorio,
con ¾ delle sue miniere di ferro il 68% di quelle di zinco, il 26% di quelle di carbone. Tutte le
colonie erano state confiscate come anche tutto il materiale bellico e la marina militare, oltre alle
navi mercantili superiori a 1600 tonnellate di stazza, ¼ della flotta di pescherecci e varie
locomotive, carri ferroviari e camion. Inoltre la Germania fu costretta a invii in natura agli alleati di
svariati prodotti in conto riparazioni fino al 1923, come già si diceva nel precedente capitolo. Nei 14
punti del presidente americano Wilson che costituirono la base della pace di Versailles, ve n’era uno
che prevedeva che la Germania, ritenuta responsabile della guerra, pagasse una somma riparatrice
per i danni subiti dagli alleati. Tuttavia non vi erano fissati dei parametri quantitativi e
l’interpretazione dei danni poteva essere più o meno estensiva. Si poteva infatti pensare che la
Germania dovesse pagare anche i costi delle truppe di occupazione e le pensioni di guerra dei paesi
alleati. Per arrivare ad una proposta operativa, venne nominata una commissione per le riparazioni
con sede a Berlino e intanto vennero fatte delle requisizioni di materiali in natura. Anche in passato,
alla parte che perdeva una guerra era talora richiesto di pagare un’indennità, ma in generale si
trattava di una somma una tantum, in alcuni casi versata in qualche rata. Il pagamento di
un’indennità era destabilizzante dell’equilibrio economico esistente, oltre ad essere odioso per la
parte perdente e difficoltoso, se le riserve di oro erano andate tutte perse come nel caso tedesco
successivo alla prima guerra mondiale. Si capisce perché Keynes, in uno dei suoi primi scritti
raccomandasse prudenza e moderazione con le richieste di riparazioni, se non si voleva incentivare
vendetta da parte dei paesi oppressi. Poiché le riparazioni tedesche erano anche collegate al
pagamento dei debiti di guerra da parte degli alleati, Keynes suggeriva che questi venissero
cancellati, anche perché riteneva che né le riparazioni né i debiti di guerra sarebbero comunque stati
pagati per più di qualche anno, perché non sono compatibili con la natura umana né con lo spirito
dei tempi. Le raccomandazioni di Keynes terminavano con un’esortazione agli Stati Uniti, che lui
già vedeva come potenza egemone, a essere larghi di aiuti per la ricostruzione europea.
Nessuno dei suggerimenti di Keynes fu accolto e la realtà superò tutte le più tragiche previsioni con
il secondo grande conflitto mondiale. Il fatto è che gli Stati Uniti furono inflessibili nel richiedere il
pagamento dei crediti per i beni che avevano inviato agli alleati durante il conflitto e questo rese
altrettanto rigidi i paesi europei vincitori nel pretendere che la Germania pagasse delle riparazioni
almeno sufficienti a rimborsare il debito con gli Stati Uniti.
La prima proposta della commissione berlinese per le riparazioni fu avanzata alla conferenza di
Boulogne del 20 Giugno 1920 ed era di 269 miliardi di marchi-oro, si trattava di una somma pari a
circa 6 volte il Pil tedesco. I tedeschi non ritennero la somma realistica e chiesero una revisione.
Nella conferenza di Parigi del Gennaio 1921, la commissione fissò una somma minore, 226 miliardi
di marchi-oro, ma vi aggiunse un prelievo del 12 % sulle esportazioni tedesche per 42 anni, oltre
alle fornitura in natura. Ancora una volta la Germania rispose che erano condizioni inaccettabili, e
allora gli alleati proclamarono nel maggio del 1921 “l’ultimatum di Londra”, nel quale le
riparazioni erano fissate a 132 miliardi di marchi, da pagarsi a rate con un tasso del 6%. Per
assicurarsi il flusso dei pagamenti, la commissione aveva individuato una serie di cespiti fiscali che
avrebbero dovuto essere dedicati allo scopo. Questa volta la Germania non aveva scelta, ma poiché
la situazione economica interna era caotica, chiese una moratoria dei pagamenti in denaro, mentre
continuavano quelli in natura. Fu proprio per questi pagamenti in natura che si aprì un contenzioso
che finì col portare all’invasione della Ruhr da parte di truppe francesi e belghe nel gennaio del
1923. Gli invasori pretesero di dirigere loro stessi le operazioni di fornitura dei prodotti, una cosa
che generò una reazione di resistenza passiva da parte della popolazione tedesca, che cessò di
produrre e dovette essere mantenuta attraverso sussidi governativi. La situazione monetaria della
Germania, già molto precaria, cominciò a peggiorare drasticamente. Se nel 1921 lee imposte
coprivano il 47% delle spese e nel 1922 il 40%, nel corso del 1923 la copertura precipitò fin che in
agosto solo il 7% delle spese era coperto da entrate, e in ottobre solo l’1%, il resto essendo coperto
dalla stampa di cartamoneta. L’inflazione si tramutò in iperinflazione e il sistema monetario tedesco
venne distrutto. Nel novembre del 1923, dopo che l’inflazione aveva reso il marco inservibile,
venne introdotto un nuovo marco, chiamato Renten Mark con un vago richiamo al valore dei beni
immobili del paese. Nel dicembre del 1923 venne affidato a una commissione presieduta da un alto
funzionario americano, Charles Dawes, il compito di fissare un piano ragionevole di pagamento
delle riparazioni. Il piano Dawes, che andò in funzione nel 1924, prevedeva il pagamento di rate
annuali che aumentavano con un indice di prosperità dell’economia tedesca, senza fissare un
orizzonte temporale. Inoltre per facilitare l’inizio del meccanismo, prevedeva un prestito di carattere
commerciale da piazzare sulla borsa di New York, che ebbe notevole successo, permettendo
all’economia tedesca non solo di iniziare il pagamento delle riparazioni con i proventi di tale
prestito, ma anche di coprire qualche altro buco della bilancia dei pagamenti. Fu solo nel 1924, che
in corrispondenza con l’applicazione del piano Dawes, che la circolazione monetaria fu alla fine
stabilizzata con il Reichs Mark. Poiché fu un afflusso di capitali esteri che permise questa
stabilizzazione, l’economia tedesca si trovo fortemente dipendente da tali capitali, che finanziarono
nel 1925-1927 un terzo degli investimenti interni e più che finanziarono con le divise straniere che
affluivano le rate delle riparazioni, mantenendo la bilancia dei pagamenti in equilibrio. Dunque,
come sostenne Costigliola, il piano Dawes fu il pilastro degli sforzi americani degli anni venti per
sostenere l’economia europea, un pilastro che tuttavia poggiava su sabbie mobili. La Germania
doveva mantenere alti i tassi d’interesse per attirare i capitali, che erano privati e non pubblici. Ma
poiché questi capitali venivano presi a prestito per lo più dai comuni, per progetti infrastrutturali
pubblici, e dal settore agricolo, non ci si poteva aspettare da tali settori una profittabilità sufficiente
alla copertura di interessi così elevati, che tesero dunque a diminuire. Così l’attrattività del mercato
tedesco diminuì per gli investitori stranieri, in particolare con i capitalisti americani che a partire dal
1928 videro la loro borsa in costante espansione. Quando poi alla fine del 1927, si profilò un
raffreddamento della congiuntura tedesca, il ritiro dei capitali americani divenne inevitabile,
provocando un aggravamento dell’economia tedesca e quindi una vera e propria crisi, che iniziò
verso la fine del 1928, un anno prima della grande crisi americana. Nel 1928 si pensò di rendere più
definitivo il metodo delle riparazioni con un nuovo piano, affidato a una commissione presieduta
dal banchiere americano Owen Young, che nel ’29 produsse il piano Young. In esso si abbassava la
rata annuale (prevedendone un aumento successivo) e si fissava l’orizzonte temporale di pagamento
in 37 anni. Quando l’accordo fu raggiunto l’economia tedesca era già in crisi, mentre quella
mondiale precipitò di li a poco con la crisi americana. Il pagamento di riparazioni e debiti di guerra
venne sospeso nel giugno del 1931, al culmine della crisi finanziaria internazionale, e non venne più
ripreso in seguito. Furono dunque le conseguenze della vicenda delle riparazioni a mantenere
l’economia tedesca depressa e debole, fino al punto da renderla uno dei poli della grande crisi.
L’iperinflazione aveva azzerato tutti i capitali liquidi (depositi bancari, titoli di stato), oltre alla
moneta corrente, provocando grandi perdite alla classe media, che era la maggior detentrice di tali
capitali. Dopo la stabilizzazione, si trascinò in Parlamento un’interminabile discussione sui possibili
modi per compensare almeno parzialmente tali perdite, ma alla fine non se ne fece nulla,
aumentando la disaffezione della classe media nei confronti della Repubblica di Weimar e
spingendo tale classe verso partiti estremi, che vennero poi ulteriormente rafforzati dalle disastrose
conseguenze della grande crisi. In conclusione, le riparazioni effettivamente pagate furono un
ammontare assai modesto, se si accoglie la stima della commissione berlinese, che escludeva gran
parte dei pagamenti in natura e del valore dei beni tedeschi all’estero confiscati, che invece
comparivano nella stima del governo tedesco. Le responsabilità di tale insipiente politica vanno
equamente divise tra gli Stati Uniti, ancora troppo isolazionisti per pensare di assumersi l’onere di
equilibrare l’economia e la politica mondiali, e i paesi europei, che ancora non avevano capito che
occorreva abbandonare la logica nazionalistica e della vendetta, per abbracciare una nuova logica di
integrazione europea. Infine la vicenda delle riparazioni tedesche era stata mal congegnata dal punto
di vista politico e anche dal punto di vista economico, gli Stati Uniti infatti avrebbero dovuto avere
una bilancia dei pagamenti in deficit, per assorbire capitali dall’estero. Essi continuavano invece ad
avere una bilancia dei pagamenti in avanzo, trovandosi così nella necessità di finanziare essi stessi i
trasferimenti a loro rivolti, in questo modo rendendo di fatto impossibile quello che loro stessi
pretendevano.
3. Gli anni 20 in Gran Bretagna Francia e Italia
Gli anni Venti videro un’Europa incapace di dar vita un nuovo ciclo di sviluppo, fondamentalmente
per i motivi strutturali e di relazioni internazionali illustrati nel precedente paragrafo. A questi
motivi, alcuni paesi aggiunsero altre difficoltà proprie, che portarono a sviluppi diversi e a esiti
talora inaspettati e paradossali. Delle tre maggiori economie fu proprio il leader, la Gran Bretagna, a
presentare il risultato più insoddisfacente. Fu la debolezza dei due paesi europei che erano stati
prima della guerra economicamente più solidi (GB e Germania) a causare il ritardo dell’Europa
intera in questo decennio.
Se le difficoltà della Germania erano prevedibili, date le irragionevoli condizioni a essa imposte dal
trattato di Versailles, certo più sorprendente è vedere che la Gran Bretagna, la potenza vincitrice, si
avvitò negli anni Venti in una spirale negativa, che le impedì quasi del tutto di accrescere il suo
reddito pro capite. La disoccupazione rimase alta, fluttuando tra il 7% e l’11% per l’intero decennio,
tasso simile solo a quello della Danimarca, mentre le esportazioni ristagnavano. La grande guerra
aveva indebolito la Gran Bretagna sia finanziariamente, sia sul piano industriale e commerciale. I
suoi impianti non erano stati rinnovati; le sue esportazioni tradizionali erano state soppiantate da
altri paesi, mentre aveva accumulato un debito di 4,7 miliardi di dollari nei confronti degli Stati
Uniti, a fronte di crediti nei confronti di alleati europei che si rivelarono largamente inesigibili.
L’inflazione, benchè più contenuta di quella degli altri paesi europei, era superiore a quella
americana, rendendo inevitabile una svalutazione della sterlina. Ma proprio questo fu l’evento che
si volle evitare a qualunque costo. Vi era una convinzione largamente condivisa da politici e
operatori economici che i problemi dell’economia inglese sarebbero stati risolti se si fossero
ristabilite le condizioni prebelliche, una delle quali era la stabilità monetaria. Quando, su pressione
americana collegata al piano Dawes, gli europei ritornarono al gold standard, la decisione della
Gran Bretagna nell’aprile del 1925 fu di ritornarvi allo stesso tasso di cambio con il dollaro che
vigeva prima della guerra, ossia 4,86 dollari per sterlina. Moggridge descrive dettagliatamente
l’analisi superficiale che venne fatta del funzionamento del gold standard prebellico, insiste sulla
fiducia che gli inglesi avevano di essere ancora leader e quindi di non poter subire contraccolpi
negativi da decisioni non cooperative eventualmente prese da altri paesi, chiarendo che la teoria
economica di riferimento era quella tradizionale che faceva ritornare all’equilibrio mediante la
flessibilità di prezzi e salari e la corretta applicazione delle regole del gioco nei pagamenti
internazionali e nell’uso delle riserve. Fu soltanto Keynes ad alzare una voce inascoltata contro la
decisione di Churchill, in un articolo in cui si scagliava contro l’uso di una teoria obsoleta, che non
corrispondeva a comportamenti effettivi, e anticipava che la decisione presa avrebbe mantenuta
l’economia inglese in una cronica posizione di equilibrio spurio, per la combinazione perversa di
sopravvalutazione e deflazione. Infatti, il governo, per sostenere il cambio sopravvalutato della
sterlina, dovette far uso di una politica monetaria restrittiva con alti tassi di interesse che
disincentivarono gli investimenti, mentre lee esportazioni cadevano, anche a seguito di un
lunghissimo sciopero dei minatori nel 1926. La bilancia dei pagamenti divenne negativa e le riserve
si assottigliarono, causando notevoli problemi alla Banca d’Inghilterra, che non voleva fare ricorso
ai prestiti.
Molti sono i paradossi dell’economia francese degli anni Venti. Il primo è certamente dato dal fatto
che la Francia, che subì grosse perdite dalla guerra, riteneva indispensabile ottenere mezzi per la
ricostruzione attraverso le riparazioni e su questo basò la sua diplomazia della pace, mentre in realtà
finì col ricostruirsi con i suoi propri mezzi, data la lentezza e l’esiguità dei pagamenti effettuati. Di
sicuro il recupero dell’Alsazia e della Lorena, regioni ricche di materie prime e industrializzate,
giocò un ruolo positivo, come pure fu positivo l’allargamento della capacità produttiva
nell’industria pesante che era stata realizzata durante la guerra. Ma un altro paradosso va
menzionato ed è la grande instabilità politica che afflisse il paese in un crescendo che sembrava
inarrestabile, fino a che tra il marzo 1924 e il luglio 1926, nello spazio di 29 mesi si susseguirono
11 diversi governi, senza che questo determinasse un rischio di dittatura. Raymond Poincaré nel 23
luglio 1926 stabilizzò il franco di fatto, riportando ordine nella finanza pubblica e nella politica
monetaria, senza danni per la democrazia francese. Il terzo paradosso è legato al tipo di
stabilizzazione che venne effettuata. Contrariamente ai suggerimenti inglesi, il franco venne
stabilizzato al tasso corrente, 25.53 franchi per dollaro, contro i 5.18 franchi prebellici, prendendo
semplicemente atto della svalutazione del franco che si era avuta tra guerra e dopoguerra, senza
tentare improbabili recuperi dei tassi di cambio prebellici. Il successo francese fu il rovescio della
medaglia dell’insuccesso inglese, anche se gli inglesi non vollero ammetterlo, continuando a
rimproverare alla Banca di Francia di aver accumulato oro e al governo francese di aver permesso la
svalutazione allo scopo di sottrarre mercati esteri alle esportazioni inglesi. Il fatto è che in un
mondo come quello degli anni Venti dove mancavano organismi economici internazionali
multilaterali, non vi era modo di armonizzare le decisioni, né era legittimo criticare come
improvvide ed egoistiche decisioni prese unilateralmente, quando tutti si muovevano in tale ottica
(Gran Bretagna inclusa). L’economia Francese fu la migliore delle tre analizzate, anche se superate
dall’Italia quanto a produzione industriale. Particolarmente brillanti le esportazioni, aumentate di
circa il 50%, e notevole l’aumento del reddito pro capite, pari a oltre un terzo.
In Italia si verifica un susseguirsi di difficoltà politiche drammatiche, tali da far scivolare il paese in
vent’anni di dittatura. Sono molti i fattori che hanno spinto il paese a quest’uscita dalla democrazia
impensabile negli anni prebellici.
A) Il difficile processo di riconversione delle industrie dalla produzione di guerra a quella di
pace, difficilmente sostenibile dallo stato, con i conseguenti fallimenti di imprese e
banche
B) Il conflitto sociale esacerbato dalla disoccupazione e dall’inflazione, che portò
all’occupazione delle terre e delle fabbriche nel biennio rosso -1919 1920.
C) Gli sviluppi politici che videro la creazione del partito popolare nel 1919, anno del
cambiamento del sistema elettorale da maggioritario a proporzionale, che vide la
sconfitta del partito liberale e la vittoria di due partiti, socialista e popolare, nessuno dei
quali con esperienza di governo e per di più non desiderosi di collaborare. I governi
minoritari che ne derivarono erano privi della necessaria autorevolezza.
D) La nascita nel 1919 del movimento fascista di Benito Mussolini, che iniziò a perpetrare
azioni illegali non adeguatamente contrastate dalla polizia
E) L’atteggiamento scarsamente garantista del re, che non volle bloccare con l’esercito la
marcia su Roma dell’ottobre 1922, consegnando il potere a Mussolini che aspettava a
Milano e raggiunse Roma per formare il suo primo governo con un vagone letto.
Non è facile giudicare quale di questi fattori pesò di più nel portare al risultato finale dell’ascesa al
potere di Mussolini, ma di certo le condizioni alterate dalla guerra e la mancanza di qualsiasi aiuto
internazionale per la ricostruzione sono l’iniziale causa scatenante di tutto il processo, mentre la
scarsa pratica di una democrazia di massa è l’altro motivo di fondo. La salita al potere di Mussolini
non segnò immediatamente una qualche forte discontinuità con le politiche precedenti, perché
Mussolini nominò Alberto De Stefani, un economista accademico liberista, anche se vicino al
fascismo, ministro delle finanze. De Stefani continuò nel processo di riequilibrio della finanza
pubblica, già iniziato precedentemente, fino ad arrivare al pareggio di bilancio. Gli scioperi vennero
proibiti (ma i sindacati vennero aboliti solo 1925) e l’economia si riprese, con trend troppo
inflazionistico che fece decidere Mussolini alla fine del 1924 a sostituire De Stefani con Giuseppe
Volpi, un grande finanziere e imprenditore veneziano, costui dovette affrontare il problema del
pagamento dei debiti a Gran Bretagna e Stati Uniti, che egli riuscì quasi interamente a farsi
condonare, e poi dovette effettuare la stabilizzazione della Lira per rientrare nel gold standard. In
questo frangente, la sua volontà che era quella di stabilizzare la Liraal tasso di cambio di mercato,
venne superata da Mussolini il quale impose nel 1926 la “quota 90”, ossia un tasso di cambio
sopravvalutato di 90 lire per £, che era pressappoco il medesimo tasso di cambio trovato in vigore
da Mussolini quando era andato al potere. Ciò perché non si pensasse che Mussolini lasciasse
perdere valore alla Lira. Contemporaneamente si consolidò il debito pubblico e si fece una riforma
bancaria, in cui la Banca d’Italia diventava per la prima volta la sola banca di emissione. Il
consolidamento del regime che portò il governo a manovrare al ribasso prezzi e salari senza troppe
difficoltà, evitò una crisi di gravi proporzioni così che ne 1928 si vedeva già una ripresa. Il governo
si dedicò allora all’organizzazione della “bonifica integrale”, che doveva migliorare strutturalmente
l’agricoltura italiana e le condizioni del paese parevano tornare a condizioni di normalità. Nel
complesso gli anni Venti furono abbastanza positivi per l’economia italiana, che vide la sua
produzione industriale aumentare sensibilmente un po’ in tutti i settori, particolarmente in quello
chimico, dove per la prima volta si affacciarono imprese importanti come la Montecatini e la Snia
Viscosa.
Capitolo 10: L’unione sovietica dalla creazione alla seconda guerra mondiale
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1. La rivoluzione d’ottobre
La prima guerra mondiale aveva colto la Russia in un periodo ancora incoativo della sua
trasformazione capitalistica, in cui la privatizzazione delle terre seguita alla legge di Stolypin era
agli inizi e il decollo industriale era localizzato solo in poche città e aree dell’immenso territorio.
Nonostante anche un reddito pro capite molto più basso di quello inglese, la Russia fu spinta a
partecipare alla grande guerra dalla parte degli alleati sotto le pressioni francesi e anche per
affermare il suo ruolo di grande potenza. Ma l’economia e la società russe non erano in grado di
affrontare l’enorme dispendio di risorse di una guerra ormai combattuta sulla base della propria
potenza industriale e nemmeno erano preparate logisticamente per far fronte alla riorganizzazione e
regolamentazione dei mercati imposta dalla guerra. In particolare si rivelò difficile assicurare le
forniture di derrate alimentari ai soldati e alle città industriali che producevano per la guerra, con un
conseguente scontento generalizzato, soprattutto da parte di una popolazione che non era motivata a
combattere. Si arrivò dunque nel 1917 alla deposizione dello zar con la “rivoluzione borghese” che
formò un nuovo governo guidato da Aleksander Kerenskij. Probabilmente il più grande errore di
questo governo fu quello di dichiarare la continuazione della guerra, senza fondate speranze di
riuscire a migliorare l’organizzazione del paese. Nel caos crescente, fu relativamente facile alla
propaganda socialista di Lenin e del suo partito bolscevico fare breccia nel popolo, organizzato in
consigli rivoluzionari (soviet), che nell’ottobre del 1917 lanciarono l’attacco al governo borghese
con la presa del palazzo d’inverno a San Pietroburgo. Seguirono quattro anni di guerra civile,
durante i quali l’economia si trovò in un regime di “comunismo di guerra”. Si trattava di un ritorno
al baratto: la moneta era stata eliminata, il commercio privato abolito, i lavoratori erano militarizzati
e remunerati in natura (attraverso buoni d’acquisto) a livello di sussistenza, la produzione agricola
requisita, le industrie nazionalizzate, i servizi essenziali venivano forniti gratuitamente in un
ammontare minimo. La produzione industriale cadde a un quinto di quella del 1913, l produzione
agricola a due terzi, mentre esportazioni e importazioni scomparvero. Il partito sovietico e i suoi
sostenitori riuscirono ad impadronirsi di tutto il paese, vincendo la guerra civile.
2. La Nep
Lenin decise agli inizi del 1921 di varare la Nuova Politica Economica (NEP), che pose fine al
razionamento e alle requisizioni, cercando di combinare il mercato con elementi di socialismo. La
moneta venne reintrodotta, commercio e industria vennero liberalizzate per le piccole imprese al di
sotto di 20 occupati, ma fu soprattutto la sorprendente liberalizzazione dell’agricoltura a denotare la
Nep. Lenin sperava di indurre gli agricoltori a produrre di più e soprattutto a vendere di più con
incentivi di prezzo tipicamente capitalistici, imponendo un’imposta fondiaria proporzionale del tipo
di quella vigente sotto gli zar. Delle grandi imprese industriali nazionalizzate, solo quelle ritenute
strategiche venivano sottoposte a decisioni centralizzate, mentre alle altre veniva lasciata una certa
autonomia, anche nella formazione di gruppi. A questi gruppi si permetteva di firmare contratti
autonomamente e di seguire principi di efficienza e di ottimizzazione delle risorse, pagando allo
stato imposte sul reddito e sul patrimonio, mentre solo la loro strategia generale veniva determinata
dal consiglio supremo dell’economia nazionale, che era già in funzione durante il periodo del
comunismo di guerra. Si può veramente definire la Nep come il primo esperimento di economia
mista, in cui lo stato svolgeva una funzione programmatrice generale e gestiva una serie di imprese
nazionalizzate, lasciando tutto il resto al mercato all’interno di un’economia monetizzata, e in
questo senso anticipò l’esperimento nazista degli anni Trenta, e quello francese degli anni
Cinquanta-Sessanta. Sul piano produttivo, ottenne risultati positivi nel permettere la ripresa
dell’economia, arrivando anche a qualche importante recupero nel commercio estero, dove si
doveva scontare l’atteggiamento discriminatorio di molte potenze occidentali. Tuttavia la Nep
conteneva alcuni difetti intrinseci e manteneva aspetti del sistema capitalistico inaccettabili a certe
componenti del partito bolscevico. In primo luogo, i trust tenevano alti i prezzi dei prodotti
manifatturieri, si sviluppò una crisi delle forbici, con conseguente disincentivo alla
commercializzazione dei prodotti agricoli, il che imponeva rialzi dei prezzi agricoli, cosa che
ripugnava a una mentalità bolscevica. In secondo luogo, non veniva percepita l’importanza di un
controllo macroeconomico, il che favoriva inflazione e disoccupazione, altri aspetti di un’economia
di mercato che venivano aborriti. Inoltre vi era la mai sopita contrarietà di una parte del partito nei
confronti dei favori concessi agli agricoltori e ai commercianti nemici del popolo e il rifiuto della
componente speculativa inerente al meccanismo di mercato. Infine la lentezza del sistema di
mercato nel raggiungere le mete che il partito bolscevico assegnava all’economia, particolarmente
quelle di un riarmo forzato, aveva fatto aumentare il divario fra l’economia sovietica e quelle
occidentali.
Tutte queste contraddizioni e insoddisfazioni scoppiarono dopo la morte di Lenin, facendo
emergere visioni alternative.
1. La visione dell’ala sinistra del partito, guidata da Preobrazhensky, che raccomandava
un grande balzo industriale, particolarmente dell’industria pesante, accreditando un
processo di crescita sbilanciato a danno dell’agricoltura, che tuttavia si riteneva dovesse
essere lasciata in mano ai privati.
2. La visione della destra estrema del partito, guidata da Shanin, che era il portavoce di un
ritorno alle tradizioni agrarie della Russia, sulla base dell’argomentazione che una
maggiore produttività agraria avrebbe accresciuto i risparmi e mantenuto bassi i costi dei
prodotti alimentari, permettendo all’industria di crescere senza inflazione in un tempo
successivo.
3. La visione dell’ala destra del partito, sostenuta da Bukharin, che voleva la continuazione
di una crescita bilanciata sul tipo della Nep.
Mentre il dibattito si dispiegava, Stalin, alto dirigente del partito sovietico, non diede un suo
contributo autonomo, ma si limitò ad allinearsi con la posizione di Bukharin, sottolineando i
risultati positivi della Nep e ridicolizzando la proposta di superindustrializzazione della sinistra. Ma
nel 1927 le relazioni esterne dall’Urss peggiorarono, mentre si moltiplicavano i problemi interni di
disponibilità di cereali sui mercati urbani. Per aumentare questa disponibilità, Stalin finì con
l’adoperare misure sempre più coercitive, dirigendo personalmente la raccolta dei cereali in Siberia.
Diventava così sempre più convinto che non c’era altro modo di realizzare i progetti industriali che
premevano al partito se non spezzando le reni una volta per tutte agli agricoltori. Emerse in questo
modo il suo inopinato passaggio a una versione ancora più drastica della visione della sinistra di una
superindustrializzazione forzata a spese dell’agricoltura.
3. La pianificazione sovietica
Nell’Ottobre del 1928 Stalin, ormai padrone del partito dopo le purghe che avevano eliminato
Trockij, varò il primo piano quinquennale, nel bel mezzo di un’altra crisi di raccolta dei cereali. La
risposta di Stalin non si fece attendere e nell’autunno del 1929 venne dichiarata la collettivizzazione
integrale delle terre. Le proteste non mancarono, non solo nelle campagne, ma persino in alcune
città che avevano visto una vasta immigrazione di contadini, ma ciò non fece che rafforzare la
tendenza di Stalin a governare con la violenza. Ha inizio nel 1929 la pianificazione sovietica.
L’organismo centrale di coordinamento divenne il Gosplan dell’Urss (comitato statale di
pianificazione), che esisteva già negli anni Venti, ma era stato marginalizzato dal consiglio supremo
dell’economia, che fu eliminato. Gli obiettivi annuali stabiliti dal Gosplan erano quelli che
andavano realizzati dall’economia; di questi obiettivi, il Politburo del partito controllava
direttamente i principali. I piani operativi per ciascun settore industriale e ciascuna impresa erano
elaborati a partire dagli obiettivi del Gosplan, configurando un meccanismo dirigistico integrale
(top-down). Le materie prime venivano distribuite con matrici input output costruite in termini
fisici. I prezzi venivano stabiliti dal Gosplan secondo criteri di coerenza con gli obiettivi del piano,
usando discriminazione di prezzo e prezzi multipli. E’ proprio quest’ultima caratteristica di prezzi
integralmente amministrati che fece perdere ai prezzi in Urss il loro legame con i costi di
produzione e la scarsità o abbondanza dei prodotti rispetto alla domanda relativa, producendo i
tipici fenomeni di eccesso di offerta o di domanda. Tutti i fenomeni di eccesso di domanda
venivano trattati col razionamento e le code, invece che col rialzo del prezzo. Tuttavia i difetti della
pianificazione centralizzata sovietica vanno ben al di là del problema dei prezzi amministrati. La
rigidità della pianificazione quinquennale era uno dei problemi principali: era infatti impossibile
prevedere il futuro alla perfezione e quindi spesso si doveva ricorrere a modifiche del piano che
avvenivano sempre con molto ritardo e con ripercussioni negative sulla filiera interessata. E’
proprio per ovviare a questi problemi che paradossalmente il mercato che era stato spinto fuori dalla
porta prendeva la sua rivincita; infatti i direttori di fabbrica erano costretti a servirsi di mercati
informali per liberarsi di prodotti in eccesso e acquisire quelli in difetto, allo scopo di raggiungere
gli obiettivi del piano. Ma spesso gli obiettivi del piano risultavano del tutto irraggiungibili. Un
altro serio problema era dato dalla tecnologia. Durante la Nep più di 2000 ingegneri tedeschi
avevano aiutato i sovietici ad aggiornarsi tecnologicamente, mentre molti ingegneri sovietici
venivano mandati all’estero per imparare. Secondo Sutton, tra il 1917 e il 1930 non vi fu spazio per
una tecnologia sovietica, ma ci si limitò ad introdurre modelli occidentali. All’inizio della
pianificazione staliniana, si preferirono però i modelli americani, in parte perché più adatti al
gigantismo degli impianti sovietici, in parte per paura che gli europei presenti in Urss favorissero la
controrivoluzione. Negli anni 1930 1933 gli americani fornirono iniezioni massicce di tecnologia,
tale che in un secondo volume Sutton sostiene che anche sotto Stalin non ci fu alcuna possibilità di
produrre tecnologia autoctona, con la parziale eccezione della gomma sintetica. Il problema vero
era che in un sistema pianificato diventava ancora più difficile produrre tecnologia endogenamente,
dato che i tempi e le caratteristiche della nuova tecnologia non sono pianificabili ex ante. E’ inoltre
noto che la ricerca richiede spazi di libertà impensabili in un regime poliziesco come quello di
Stalin. Persino l’introduzione di tecnologia straniera dava problemi non prevedibili ex ante, che
spesso venivano ascritti ad atti di sabotaggio, dando luogo ad ancora più crudeli purghe, ma erano
dovuti in realtà all’impreparazione tecnica sia degli ingegneri sovietici sia dei lavoratori, molti dei
quali presi direttamente dalle campagne, oltre che agli inevitabili errori contenuti nei piani. Sta di
fatto che i primi due piani quinquennali raggiunsero circa il 70% degli obiettivi prefissati,
nonostante tutte queste difficoltà infatti vennero raggiunti alcuni importanti risultati. Il reddito
nazionale crebbe a un tasso sostenuto, in forza del grande balzo dell’industria. L’agricoltura in
realtà conobbe vicende drammatiche, la collettivizzazione forzata produsse una crisi di cui, per via
delle requisizioni forzate, furono soprattutto gli stessi agricoltori a sopportare le conseguenze.
All’interno del settore industriale fu privilegiata l’industria pesante, con un forte spostamento del
Pil dai consumi agli investimenti e alla difesa. Si può concludere che la pianificazione Staliniana
produsse un’industrializzazione forzata a beneficio della difesa e delle infrastrutture del paese,
accompagnata da un leggero aumento dei consumi personali pro capite, determinato da un aumento
dei consumi dei prodotti manifatturieri.
Il paese si trovò quindi in condizioni migliori per far fronte alla seconda guerra mondiale, rispetto
alla prima. La mobilitazione bellica fu molto più efficace, per il miglioramento delle infrastrutture e
l’aumentata capacità produttiva in campo militare. Il completo controllo dell’agricoltura evitò una
disorganizzazione annonaria. Ci furono altri due fattori di sostegno che spiegano come l’Urss riuscì
a vincere i ben più avanzati tedeschi. Il primo è un fattore tradizionale in Russia, già sperimentato al
tempo di Napoleone e anche prima: la vastità del territorio e la numerosità della popolazione
sfiancava di per sé l’avversario. Si pensi che durante la seconda guerra mondiale vennero mandati a
morte 9 milioni di soldati e oltre 16 milioni di civili. Il secondo elemento fa parte dei paradossi
della storia. Dopo la battaglia di Stalingrado in cui i russi dimostrarono di essere allo stremo della
loro capacità di resistenza, gli americani misero in opera una vasta operazione di sostegno all’Urss
con una spesa di circa 10 miliardi di dollari dell’epoca in aeroplani da combattimento, carri armati,
Jeep, camion, cibo in scatola e specialmente apparecchi di comunicazione che l’Urss non possedeva
e che furono strategici nel permettere il coordinamento delle operazioni in un territorio tanto vasto
come quello della Russia. Secondo Harrison, l’aiuto americano, calcolato a prezzi sovietici,
ammontò a circa il 10% del Pil sovietico negli anni 1943 1944, un ammontare che non poteva
essere sottratto ai già risicati consumi e che talora consisteva di beni che non si potevano produrre
nel sistema sovietico. Ciò rivela il ruolo strategico giocato da tale aiuto americano nel permettere ai
russi di vincere la guerra a fianco degli alleati, un risultato che si ritorse in seguito contro gli alleati.
Fu dunque l’America a contribuire in maniera determinante alla vittoria di quei russi che poi furono
gli unici a contrastare la grande potenza americana fino agli anni Ottanta.