Introduzione
I pazzi sono davvero tali o è il resto del mondo che li fa sentire folli? Dire che cosa
sia realmente la follia è un'impresa abbastanza ardua, eppure in tanti hanno provato a
dare un valido significato a questo termine. Nel passato come nel presente, la follia si
è manifestata in tanti suoi piccoli aspetti: attraverso il genio degli scienziati, i versi
dei poeti, le melodie dei musicisti, i colori vivaci sulle tele degli artisti. La prima
difficoltà è già tutta racchiusa nell’etimo del termine follia, dal latino follis, che
significa mantice, sacco vuoto, pallone gonfio d’aria. Per traslazione, il folle è quindi
colui che ha la testa vuota, piena d’aria.
esistono due concetti nettamente distinti di pazzia: uno è orientato nella società,
l'altro nell'individuo. Nel concetto di pazzia legato alla società, specie nelle letterature
moderne, il matto è colui che è più cosciente delle convenzioni e dell’assurdità della
vita borghese (un esempio è Pirandello con “Uno, Nessuno e Centomila”). Quindi,
nel concetto di salute psichica orientato nella società, l'uomo è sano quando è
all'altezza dei compiti che la società gli assegna, ovvero quando funziona in modo
conforme ai bisogni di essa.
La scelta di trattare il tema della malattia mentale è nato da un personale interesse,
grazie alla lettura di libri e alla visione di film riguardanti questa patologia. Inoltre ho
deciso di approfondire tale tema anche in vista del percorso di studi che mi
piacerebbe intraprendere. Sono sempre stata affascinata dalla mente umana e dai
meccanismi che entrano in atto quando essa si ammala. Per di più la mia curiosità
riguardo alla questione dei disturbi mentali è stata stimolata nel corso di quest’anno
scolastico dallo studio di Svevo e di Pirandello, due autori della letteratura italiana
che nelle loro opere rappresentano dei personaggi nevrotici. E dallo studio in ambito
classico di Platone e Virgilio.
Ma ciò che in particolare mi ha più portato a voler approfondire questa incredibile
tematica è stato il percorso terapeutico e farmacologico che, ormai da ben due anni,
ho intrapreso. Sono stati due anni nei quali ho imparato a mettermi in discussione, ho
riflettuto e analizzato quelle che in parte erano le mie problematiche e ho riacquisito
la forza per voler continuare a vivere. Non è stato facile, lo devo ammettere ci sono
molti alti e altrettanti bassi e trovare un equilibrio e imparare a mantenerlo certe volte
mi risultava impossibile. A tenermi compagnia e a darmi un notevole supporto furono
e sono tutt’ora i libri che ho voluto leggere. Mi hanno dato conforto quando meno me
l’aspettassi, perché anche se non sembra le parole aiutano, soprattutto quelle belle. E
cosi ho passato gli ultimi anni in compagnia di Alda Merini e delle sue poesie. In
particolare, “Manicomio è parola assai grande” perché si percepisce il dolore ma allo
stesso tempo la speranza della poetessa cosi fragile quanto imponente con le sue
parole. Ho conosciuto Hillman e il suo codice dell’anima, che mi ha insegnato a non
avere rimpianti. Poi Goleman e l’importanza che attribuisce alle emozioni che molto
spesso possono “rendere stupidi anche gli individui più intelligenti”; poi Fromm e
l’incredibile “Arte di amare”. L’autore sostiene più volte che la maggior parte della
gente ritiene che amore significhi “essere amati”, anziché amare, di conseguenza, il
problema diventa come rendersi amabili e per raggiungere questo scopo le persone
seguono le strade più svariate. Ho avuto anche la curiosità di imbattermi in Paul
Watzlawick, psicologo degli ultimi anni del novecento che con il suo libro “Come
rendersi infelice” mi ha aiutato ad eliminare comportamenti nocivi. Ma l’autor eche
più mi ha segnato è Kundera che con la sua “Insostenibile leggerezza dell’essere” mi
ha fatto comprendere quanto la vita, dopotutto, bisogna prenderla con leggerezza.
Perche se ci mettiamo a guardare a tutto ciò che di pesante ci circonda sarebbe
impossibile essere felici.
Oggi, quando mi guardo indietro non rimpiango nulla, anzi penso proprio che questi
“brutti momenti” servano proprio a ritrovare la “via smarrita”. perché perdersi di
questi tempi è più che facile ma trovare la forza di ritrovarsi non lo è altrettanto.
Ma come era concepita anticamente la follia? Quali erano le sue forme e in quale
modo si stabiliva chi doveva essere considerato folle e chi sano? Le civiltà antiche, in
primis quella greca, concepivano la malattia mentale come manifestazione di
specifiche divinità. I maggiori pensatori greci si sono espressi sul tema della follia
non solo a livello letterario, ma anche filosofico e artistico. Platone, ad esempio,
affermava che il folle fosse colui in grado di poter pensare “fuori dagli schemi”,
capace di raggiungere livelli di conoscenza e comprensione di sé che non potrebbero
essere raggiunti dai limiti dei “normali”.
Il filosofo nel Fedro, per bocca di Socrate, analizza e descrive due forme di mania
(μανία): la follia, furore, ossessione, alienazione, patologia «derivante da malattie
umane, e un’altra, invece, derivante da un divino mutamento radicale delle comuni
consuetudini».
L’ opera è uno dei dialoghi più noti della filosofia antica e analizza, con tre discorsi,
il tema dell’amore. Fedro è un giovane incantato dalle possibilità di trasformare la
realtà che la retorica dei sofisti offre. Dibattendo con lui Socrate - voce alter ego del
suo allievo Platone - analizza la vera natura dell’anima immortale.
Non è vero, dice Socrate, che si deve preferire chi non ama a chi ama, perché il primo
sa controllare se stesso (sophronei), mentre il secondo è pazzo (mainetai). Questo
sarebbe ben detto, se fosse ovvio che la mania (follia) è un male; ma i beni più grandi
vengono a noi attraverso la follia.
Di questa follia, prosegue Socrate, la tradizione ha riconosciuto 4 modelli:
Il primo è quello degli oracoli e delle profezie:
«I beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti
la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona [nell’Epiro], quando erano prese da
mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre
quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla e di tutti
gli altri che, avvalendosi dell’arte mantica [arte di prevedere il futuro] ispirata da un
dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il
futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere
addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi
non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole»1.
Dopo aver dimostrato l’immortalità dell’anima e aver narrato il mito del carro alato,
Platone (sempre per bocca di Socrate) presenta il quarto modello, quella della mania
erotica:
«L’anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d’uscita
comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di
giorno restare ferma dov’è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere
colui che possiede la bellezza: e una volta che l’ha visto e si è imbevuta del flusso
d’amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere
pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo
piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del
suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa
nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le
1
Cfr. Platone, Il Fedro, Mondadori, p. 45.
2
Idem, p. 56
3
Idem, p. 60
consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d’allora ed è disposta a servire
l’amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al
suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza
l’unico medico dei suoi più grandi mali».4
4
Idem pg. 73
Misero Catullo, smetti di impazzire,
e quello che vedi perduto, consideralo perduto.
Brillarono un tempo per te giorni luminosi,
quando andavi dovunque ti conduceva lei,
amata da noi quanto non sarà amata mai nessuna.
Lì si facevano quei tanti giochi d’amore,
che tu volevi e a cui lei non si negava.
Brillarono davvero per te un tempo giorno luminosi.
Ora lei non vuole più: e anche tu, seppur tu non possa, non volere.
Non correre dietro a chi fugge, e non essere infelice,
ma con cuore risoluto resisti, non cedere.
Addio, fanciulla, ormai Catullo resiste,
non ti verrà a cercare, non pregherà più te che non vuoi;
ma tu soffrirai quando non sarai cercata.
Sciagurata, povera te! Che vita ti resta?
Chi si avvicinerà a te ora? A chi sembrerai bella?
Chi amerai ? Di chi diranno che sei?
Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
Ma tu , Catullo, risoluto resisti.
Questa è la prova di quanto l’amore possa rendere schiavi, folli, insignificanti dinanzi
alla morte, che non può essere sconfitta perché essa è tale e non può essere negata
malgrado lo si tenti di fare con tutte le proprie forze. Tutto finisce e tutto si perde non
per caso ma per una brama e per una follia amorosa che dominano sulla ragione,
come viene evidenziato dai versi di Virgilio nelle Georgiche (Quis et me miseram et
te perdidit Orpheu, quis tantus furor? Quale, quale così grande follia ha rovinato sia
me infelice sia te, Orfeo?). L’amore in questo senso diventa dementia, assurda
contemplazione di quel sentimento che dovrebbe sì riscattare l’animo ma lo rende
privo di qualsiasi senno. Orfeo non riprende con sé Euridice perchè è vittima della
propria energia emotiva interiore.
Orfeo ama e può questo solo se la sua amata Euridice risale alla vita insieme a lui e al
suo fianco. Orfeo ha creduto di non aver fede, di non poter vincere quel desiderio di
voltarsi. Si è reso conto troppo tardi che il suo amore era follia allo stato puro.
Non vi è una seconda possibilità. Questo perché chi ha una seconda opportunità è
debole in quanto non vive quella presente. Il coraggio di vivere è proprio accettare
questa vita e la sua follia.
La prospettiva dell’amore dannoso che conduce anche alla morte é ripresa da
Virgilio anche nell’Eneide, soprattutto nel 4 libro, interamente dedicato alla grande
storia d’amore e di morte dell’eroina per eccellenza: Didone. L’amore anche in
questo caso è presentato come una forma di pazzia, infatti la passione amorosa priva
chi ama del suo equilibrio interiore e lo condanna a una tormentosa inquietudine che
spesso sfocia nell’ossessione.
“Ardet amans Dido traxitque per ossa furorem” (Eneide IV, v. 101): ha assorbito
nelle ossa il furore morboso.
“Furor” è il termine che caratterizza le reazioni e i gesti di Didone: nell’episodio
ricorre tredici volte nelle diverse declinazioni: “furor – furibunda – furens – furiis”,
sia nella narrazione del narratore, sia nelle osservazioni degli altri personaggi. Invece,
a proposito di se stessa, la regina ricorre a due termini estremamente significativi e
patetici: “demens”5 e “insania6, con i quali esprime la perdita della “mente”, cioè
l’abdicare delle facoltà razionali alla “insania”, la malattia, alla follia incontrollabile;
“inops animi “7, senza più la facoltà di controllo, Didone si lascia dominare dalla
funesta passione che esplode in un crescendo progressivo; cancellando la dignità del
suo ruolo,”bacchatur per urbem”, vaga per la città con gesti e abiti discinti consoni
alle Baccanti, le Menadi invasate del corteo di Dioniso, finché il funesto delirio la
porta al gesto finale del suicidio.
Parlando di opere teatrali non c’è niente di più artistico di un’opera d’arte. Nel corso
di quest’anno scolastico il pittore che più mi ha colpita fu proprio quel “folle genio”
di Van Gogh. Il quale attraverso le sue opere caratterizzate da colori forti e tratti
decisi ti mette in contatto con la sua anima fortemente geniale ma disturbata al tempo
stesso. Diagnosticato come schizofrenico, il nostro poeta non ebbe una vita alquanto
facile, venne infatti al mondo esattamente lo stessi giorno di un anno dopo del fratello
nato morto, anche lui di nome Vincent. Chissà cosa avrà pensato il pittore di fronte al
sepolcro del fratello, forse mi azzarderei a dire che anche questo potrebbe essere uno
dei motivi per il quale soffriva di un grande senso di inadeguatezza.
8
Italo Svevo, La Coscienza di Zeno, Oscar Mondadori, pg.145
9
Luigi Pirandello, Enrico VI, atto II
Nel maggio del 1889, dopo una serie di vicissitudini, accettò di farsi internare in una
clinica psichiatra dove, consapevole ormai di stare male , produsse capolavori
struggenti tra cui la “Notte stellata”. Il dipinto pare descrivere la sua vita tormentata,
carica di energia, attraverso le sue sicure pennellate.