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SESTA MACRO AREA: INDIVIDUO E SOCIETA’;

LA CRISI D’IDENTITA’

FILOSOFIA.
Il concetto di alienazione Marx
In Hegel ha significato negativo perché l’idea esce fuori di sé, ma positivo perché ritorna a sé come
spirito arricchito delle cose precedenti.
In Feuerbach ha significato negativo perché l’uomo pone fuori di sé le sue qualità. La sinistra
hegeliana riprende 2 temi quello politico e quello religioso(ripreso da Feuerbach). La sinistra
riprende la dialettica, che era legge del reale.
Per Marx come dice Hegel, la storia è fatta di momenti che si contraddicono, e queste
contraddizioni vanno risolte. Per Hegel i conflitti che avvengono nella società civile si risolvono
nello stato, precisamente il processo si è concluso nello stato prussiano, per Marx questo processo
è ancora in atto.
Per Marx lo stato non è il compimento della società. Lo stato liberale è qualcosa che sancisce il
dominio di una classe, cioè giustifica dal punto di vista ideale l’egemonia di quella classe che in
quel momento ha il potere.
Lo stato liberale è quello della borghesia che ha assunto questo potere e vuole giustificarlo.
Secondo Marx nell'età moderna è venuta a crearsi una frattura irrisolvibile tra la società civile e lo
stato: l'individuo è indipendente ma l'interesse di ognuno è in contrasto con quello degli altri. Ne
deriva una scissione tra l'uomo come essere politico e l'uomo privato: come per il cristianesimo
tutti siamo uguali davanti a dio, tutti siamo diversi sulla terra. È critico nei confronti della rivoluzione
francese che nasce come rivoluzione dei nobili, ma è una rivoluzione dei borghesi desiderosi di
libertà.
Essa aveva sancito la libertà l’uguaglianza, ma in realtà dice Marx i cittadini sono uguali solo
davanti allo stato, ancora non abbiamo raggiunto un uguaglianza sostanziale.
Essa si può raggiungere solo se non si elimina la proprietà privata dei mezzi di produzione (perché
ci saranno sempre i proprietari della terra e altri che lavorano per loro). E’ necessaria
l’emancipazione non solo politica, ma umana: l’uomo deve essere reso libero.. Questo compito
spetta alla prassi.
Marx rimprovera agli Hegeliani, in particolare a Feuerbach di aver denunciato l’alienazione
religiosa, senza aver portato questa critica sul terreno politico. Marx intraprende questo compito
dopo essere venuto in contatto col socialismo francese di Proudhon. Incontrò anche Engels. Capì
che alla base dell’alienazione religiosa c’è l’alienazione economica
Nei manoscritti economico filosofici, Marx descrive l’alienazione come il prodotto di un particolare
processo storico. Non è naturale neppure che ci siano capitalisti proletari salari ecce cc.. questa
situazione è il prodotto dello sviluppo della borghesia. Gli economisti e i filosofi borghesi mistificano
la realtà sostenendo che ci sono sempre stati e ci debbano sempre essere padroni proletari e
merci..
Il capitalista investe il denaro per comprare una merce speciale, ovvero il lavoro dell’operaio:
anche il lavoro dell’operaio è una merce perché va sul mercato del lavoro e offre la sua forza
lavoro. L’alienazione in Marx ha significato negativo perché l’individuo è alienato rispetto al
prodotto, producendo un oggetto che non gli appartiene. Quindi è alienato rispetto al proprietario
della fabbrica che lo considera un oggetto e perde anche la dimensione umana, perciò si parla di
autoalienazione.
La divisione del lavoro va ad accrescere l’alienazione perché il lavoratore rimane legato ad un
unico pezzo del prodotto. 
Le macchine assumono un ruolo sempre più importante fino ad arrivare a sostituire gli operai, che
si aggiungeranno alla massa di disoccupati disponibile a farsi sfruttare pur di sopravvivere. Solo
grazie al comunismo l’uomo potrà riappropriarsi di sé stesso, della sua essenza. Esso nel
linguaggio hegeliano rappresenta la “negazione della negazione”. Così la dialettica di Hegel non
sarà più la legge del divenire dello spirito, perché non esiste una ragione che governa la storia e il
mondo. Il comunismo può realizzarsi solo cambiando la politica e l’economia, perché solo le idee
non bastano. E’ necessario eliminare il fondamento materiale dell’alienazione: la proprietà’ privata.

ITALIANO.
La crisi del positivismo.
La crisi del positivismo

Dopo il 1890 il Positivismo entrò in crisi, il pubblico comprese che la scienza non poteva
risolvere da sola i problemi della vita degli uomini. Lo sviluppo della società richiedeva
nuovi mezzi conoscitivi: la rivoluzione tecnologica aveva modificato le condizioni di vita e
di pensiero. La grande città era diventata espressione di solitudine. La questione sociale e
l'imperialismo rendevano sempre più difficile la speranza di una struttura razionale
dell'agire umano e preparavano la grande crisi europea che culminerà nella Prima Guerra
Mondiale. 
Sul piano culturale il tramonto del Positivismo lasciava emergere nuove correnti di
pensiero irrazionalistiche tipo Nietzsche, esaltatore della "volontà di potenza" (mito del
superuomo). 
Il nuovo irrazionalismo rifiuta lo storicismo romantico e il culto dei grandi ideali. Per
addentrarsi nell'analisi dell'inconscio, ha inizio in questi anni la meditazione di Freud e la
scoperta della psicoanalisi.
Sul piano letterario si ha una ripresa dell'esaltazione della creatività individuale.
Nell'età romantica e in quella positivistica il letterato era stato guida di popoli, mentre ora
avverte la propria solitudine in una società che lo rinnega.
I decadenti iniziano l'esplorazione delle zone profonde della coscienza, si interessano
all'analogia fra i diversi ordini di sensazioni. 
Essi esaltano l'IO soggettivo, creatore nell'arte, che diviene mezzo di conoscenza di quelle
evasioni o paradisi artificiali che consentono di sfuggire alla miseria della vita umana e di
attingere una conoscenza della realtà vera. La ragione e lo storicismo romantico vengono
rifiutati e la vita diviene una successione di attimi, di rivelazioni improvvise in cui si attua
una fusione con l'ignoto, fuori dal tempo e dalla storia, evadendo dal grigiore dell'esistenza
quotidiana ritenuta vana, senza scopo.

Sintesi di letteratura – Tra Ottocento e Novecento, crisi del Positivimo - Marino Martignon 1 TRA
OTTOCENTO E NOVECENTO, CRISI DEL POSITIVISMO 1. Il Positivismo I progressi dovuti alla scienza nel corso
del XIX secolo Nel corso dell‟Ottocento il progresso scientifico in tutti i campi portò ad un generale
miglioramento delle condizioni di vita, ed influì notevolmente su quella che era la visione del mondo. La
collaborazione tra industria e ricerca scientifica consentì di diffondere su larga scala nuove tecnologie, che
contribuiranno a modificare radicalmente la produzione, questa aumenterà notevolmente, e consentirà
allo stesso tempo uno sforzo minore agli operai grazie all‟uso massiccio delle macchine. Le nuove scoperte
e invenzioni miglioreranno, gradualmente, le condizioni di vita di tutti (si pensi alle scoperte in campo
chimico e in quello elettrico). I nuovi mezzi di comunicazione a distanza, e il notevole miglioramento nel
campo dei trasporti, facilitarono lo scambio tra persone appartenenti a culture diverse; si ruppe in tal modo
l‟equilibrio preesistente tra campagna e città. Gli uomini conoscono la diversità e sono più disposti ad
accettarla. Le nuove scoperte in campo medico consentiranno di debellare malattie infettive che erano
state un vero e proprio flagello per l‟umanità nei secoli precedenti, si pensi alla peste. L‟osservare tutti
questi progressi, dovuti alla scienza sperimentale, portò molti uomini dell‟Ottocento alla convinzione che la
scienza sia un bene in sé. Un bene che consentirà all‟umanità intera di raggiungere un elevato livello di
benessere, in una forma di progresso infinito. Caratteristiche della filosofia positivista. I rappresentanti
maggiormente significativi del Positivismo sono: Auguste Comte in Francia, John Stuart Mill ed Herbert
Spencer in Inghilterra; Jakob Moleschott ed Ernest Haeckel in Germania, Roberto Ardigò in Italia 1.
Diversamente che nell‟idealismo, nel Positivismo si rivendica il primato della scienza: noi conosciamo solo
quello che ci fanno conoscere le scienze, e l'unico metodo di conoscenza valido è quello delle scienze
sperimentali naturali. 2. Il metodo delle scienze naturali ( reperimento delle leggi causali e loro controllo sui
fatti) non vale solo per lo studio della natura, ma anche per lo studio della società e dell‟uomo. 3. Nel
positivismo non si ha soltanto l'affermazione dell'unità del metodo scientifico e del primato di questo
metodo come strumento conoscitivo, ma la scienza viene esaltata come l'unico mezzo in grado di risolvere,
nel corso del tempo,tutti i problemi umani e sociali che fino ad allora avevano tormentato l'umanità. 4.
L'era del Positivismo è un‟era pervasa da un ottimismo generale, che scaturisce dalla certezza in un
progresso inarrestabile (talvolta concepito come frutto dell'ingegnosità e del lavoro umano, e talvolta
invece visto come necessario e automatico) verso condizioni di benessere generalizzato in una società
pacifica e pervasa da umana solidarietà. Sintesi di letteratura – Tra Ottocento e Novecento, crisi del
Positivimo - Marino Martignon 2 5. Sempre in linea generale, il Positivismo è caratterizzato da una fiducia
acritica e spesso sbrigativa e superficiale nella stabilità e nella crescita senza ostacoli nella scienza. Tale
acritica fiducia nella scienza divenne un fenomeno di costume. 6. La "Positività" della scienza conduce la
mentalità positivistica a combattere le concezioni idealistiche e spiritualistiche della realtà: concezioni che i
Positivisti bollavano come metafisiche, anche se essi ricaddero poi in metafisiche altrettanto dogmatiche. 2.
Crisi economico-sociale di fine Ottocento e messa in discussione della validità dell’ideale positivista La grave
crisi industriale ed agricola di fine secolo In Europa e negli Stati Uniti si visse, nei primi settant‟anni
dell‟Ottocento, uno sviluppo praticamente ininterrotto; un continuo miglioramento nelle condizioni di vita
attestato anche dall‟incredibile aumento demografico (in Europa si passò dai 200 milioni di abitanti d‟inizio
secolo ai circa 350 milioni negli anni Settanta, nonostante l‟emigrazione verso le Americhe). Un così rapido
sviluppo industriale e un aumento così elevato nella produzione agricola non potevano continuare
all‟infinito, e così a partire dal 1873 e per circa un ventennio si visse una profonda crisi, in particolare in
Europa (con milioni di persone costrette ad emigrare per poter sopravvivere, il movimento migratorio è
rivolto innanzitutto verso gli Stati Uniti d‟America, questo Paese vide un aumento impressionante nella
popolazione: in cento anni, a partire da inizio Ottocento, si passò da 8 milioni ad 80 milioni di residenti). Per
l‟industria la crisi fu legata alla eccessiva produzione, per poter vendere quanto prodotto si fu costretti ad
abbassare i prezzi in modo considerevole, con il relativo calo di profitto avente conseguenze sui salari e
sull‟occupazione. Per l‟agricoltura la grande crisi si visse soprattutto in Europa, ancora prevalentemente
agricola; lo sviluppo dei mezzi di trasporto rese possibile il diffondersi a livello mondiale dei diversi prodotti
agricoli, e così l‟Europa venne “inondata” di cererelai prodotti nel Canada, negli Stati Uniti, in Argentina con
grave danno per gli agricoltori europei. Le strade per uscire dalla crisi: Protezionismo, Colonialismo ed
Imperialismo Per uscire dalla grave crisi iniziata negli anni settanta, i più importanti paesi europei seguirono
strategie simili. Da una parte iniziarono una politica economica protezionistica, a difesa della produzione
interna e a scapito del libero scambio (questa politica andò ad accentuare i contrasti già esistenti tra alcuni
Paesi), dall‟altro accelerarono, e potenziarono, le attività di occupazione territoriale nei territori africani e
asiatici in una vera e propria corsa imperialistica all‟occupazione coloniale. Queste strategie aiutarono i
Paesi in crisi ad uscire dalle difficoltà economiche, ma misero nel contempo in luce come si fosse ben
lontani dall‟ideale positivista di benessere diffuso e generalizzato, il benessere dei paesi europei si era
potuto ottenere grazie allo sfruttamento delle risorse di altre popolazioni, in base all‟unico principio
riconosciuto come valido, “il principio del più forte”. Sintesi di letteratura – Tra Ottocento e Novecento, crisi
del Positivimo - Marino Martignon 3 Crisi dell’ideale positivista, la scienza come semplice strumento La
concezione secondo cui la scienza è uno strumento finalizzato unicamente a migliorare le condizioni di vita,
entra in crisi quando si inizia ad osservare come le scoperte scientifiche possono essere usate anche per fini
malvagi. In particolare si osserva come l‟imperialismo e il conseguente colonialismo di fine secolo sia reso
possibile dalla superiorità degli armamenti dei paesi occidentali. I nuovi strumenti di guerra, si pensi alla
mitragliatrice, mostrano come la scienza possa anche consentire la creazione di strumenti di morte, non
solo di strumenti di vita. Pian piano si diffonde la consapevolezza che la scienza in sé non è ne buona ne
cattiva, sono gli uomini che possono usare le scoperte che la scienza mette a disposizione per fare il bene o
fare il male. Le nuove possibilità offerte dalla scienza come possono essere un fenomenale strumento di
vita, così possono essere un altrettanto tremendo strumento di morte, come si vedrà nel primo conflitto
mondiale con i suoi 12 milioni di morti. 3. Freud, Bergson, Nietzsche e il definitivo crollo delle certezze
positiviste Il Positivismo entro definitivamente in crisi anche grazie all‟opera di tre importanti personalità:
Freud, Bergson e Nietzsche, vissuti tra gli ultimi anni dell‟Ottocento e i primi del Novecento. Questi tre
autori, con la loro opera, condizioneranno profondamente tutto il pensiero novecentesco, prima di
dedicarci a loro é importante ricordare come alla fine del XIX secolo, inizi del XX, la stessa scienza subisce
un mutamento radicale, le certezze che l‟avevano caratterizzata nei secoli presedenti vengono messe in
discussione da delle scoperte importantissime in diversi ambiti: la nascita della meccanica quantistica, il
principio di indeterminazione di Heisenberg, e soprattutto la teoria della relatività di Einstein, destinata a
stravolgere la fisica di Newton. La stessa scienza mette in discussione le precedenti certezze scientifiche e
l‟ideale positivista ne è colpito mortalmente. SIGMUND FREUD (1856-1839) Freud è un medico che
dedicandosi allo studio delle malattie mentali riconosce come la nostra struttura psichica sia
particolarmente complessa. Secondo il medico austriaco la psiche di ogni uomo è formata da tre
componenti: Sintesi di letteratura – Tra Ottocento e Novecento, crisi del Positivimo - Marino Martignon 4
consapevolezza di quanto i contenuti dell‟inconscio possano condizionare la nostra vita cosciente. In alcuni
casi il condizionamento è tale che ci costringe a vivere delle situazioni di vera e propria malattia, molti
comportamenti considerati patologici e inspiegabili fino ad allora, possono benissimo essere spiegati grazie
al riconoscimento di elementi di disturbo presenti nell‟inconscio. Un esempio è il caso, raccontato dallo
stesso Freud, di una donna che non riusciva a vivere serenamente il rapporto coniugale con il marito pur
amandolo profondamente, indagando nella psiche della donna il medico individua nel subconscio la
presenza di un episodio di violenza sessuale vissuto dalla donna quando era bambina, quel fatto, di cui la
donna non aveva chiara coscienza, pregiudicava un comportamento normale con il marito. Altro elemento
che ci porta a pensare all‟esistenza dell‟inconscio è dato dai lapsus, ossia da comportamenti o espressioni
involontarie che si possono spiegare grazie a degli impulsi derivanti dall‟inconscio. Secondo il medico
austriaco se noi vogliamo eliminare il comportamento disturbato è fondamentale rimuovere l‟elemento di
disturbo presente nel subconscio, ora per poter rimuovere tale elemento è necessario vi sia la coscienza
della sua esistenza, ma non è così semplice accedere al subconscio, per questo ci suggerisce tre possibili
strade:  seduta psicanalitica  interpretazione dei sogni  ipnosi La seduta psicanalitica mette in contatto la
persona con un medico esperto il qual sarà in grado, attraverso delle domande o il libero flusso di
coscienza, di individuare gli elementi di disturbo presenti nel subcosncio. Un‟altra strada che può aiutarci
nel comprendere il nostro inconscio è legata al sogno. Quando sogniamo, infatti, la nostra coscienza è
meno vigile e quindi i contenuti dell‟inconscio possono emergere con più facilità. Dato però che la nostra
coscienza cerca sempre di mascherare i contenuti è necessario interpretare il sogno al fine di attribuirgli il
corretto significato (Freud ha scritto un testo dedicato proprio a questo “L’interpretazione dei sogni”). Altro
metodo che consente di abbassare il livello di coscienza è l‟ipnosi, applicata dallo stesso Freud, soprattutto
nei primi anni di attività. Il superio è quella componente della psiche che raccoglie le norme, il dovere,
l‟autorità. E‟ grazie agli impulsi che provengono dal superio che noi ci comportiamo correttamente,
nonostante l‟istinto ci spinga in altra direzione (abbiamo fame e vediamo un panino ci viene l‟istinto di
prenderlo anche se non è nostro, il superio ci ricorda però che un tale comportamento non è adeguato e
quindi smorza l‟impulso). Secondo Freud un corretto comportamento è dato dall‟equilibrio tra istinto e
dovere, se prevale l‟istinto e quindi cerchiamo di soddisfare i nostri bisogni nonostante le norme contrarie,
rischiamo il carcere. Se prevale la norma, il dovere, e ogni impulso istintivo viene soppresso rischiamo di
non vivere mai pienamente. Il pensiero di questo medico ha condizionato profondamente letteratura,
filosofia, medicina del Novecento, il messaggio più importante trasmesso è che in ogni uomo esiste il bene
e il male, e che il male che è in ognuno di noi può manifestarsi all‟improvviso in modo inconsapevole,
indipendentemente dalla nostra volontà, come si comprende si va oltre i concetti piuttosto semplicistici di
bontà e cattiveria. Sintesi di letteratura – Tra Ottocento e Novecento, crisi del Positivimo - Marino
Martignon 5 Il pensiero di Freud condizionerà pesantemente tutta la letteratura del Novecento, da Svevo a
Joyce. HENRI BERGSON (1859-1941) Una critica radicale al pensiero positivista viene da Henri Bergson. Il
filosofo francese riconosce nella complessità della vita, nel suo svolgersi, degli elementi che sfuggono alle
possibilità conoscitive delle scienze sperimentali. La vita di un individuo nella sua complessità non potrà mai
essere definita attraverso la spiegazione dei diversi meccanismi chimico-fisici che la regolamentano, vi è
qualcosa che sfugge allo studio sperimentale un qualcosa non di secondario, anzi la cosa più importante
l‟essenza dell‟individuo stesso (non è sufficiente definire altezza, peso, colore dei capelli, degli occhi, della
pelle, numero di cellule costituenti, ecc. per poter definire chi è Giovanni, ogni descrizione, per quanto
particolareggiata e accurata, non mi dirà nulla di realmente importante in merito al chi è Giovanni, in
merito alla sua essenza). Nei limiti che ci siamo imposti vediamo di Bergson solo alcuni elementi del
pensiero, concentrandoci su quelli che hanno avuto maggior peso negli anni successivi:  Evoluzione
creatrice  Tempo della scienza e tempo della coscienza  Intuizione quale strumento fondamentale per la
conoscenza Evoluzione creatrice Nell‟opera L’evoluzione creatrice del 1907, Bergson elabora una “visione
del mondo” che sintetizza il suo pensiero. Secondo il filosofo, la vita biologica non è una macchina che si
ripete sempre identica a se stessa, ma è continua ed incessante novità, è creazione, imprevedibilità, è vita
sempre nuova che, assorbendo e conservando l‟intero passato, cresce su se stessa. La vita è vista
dall„autore come “una realtà che si stacca nettamente sulla materia bruta”. La vita è creazione libera e
imprevedibile, è slancio vitale, mentre la materia non è altro che il momento dell‟arresto di quello slancio
vitale. Tempo della scienza e tempo della coscienza Secondo Bergson quando noi parliamo di tempo ci
riferiamo a due realtà completamente diverse. Esiste, infatti, un tempo della scienza da intendersi come
una successione di istanti tutti uguali, perfettamente distinguibili, come una serie di trattini che si
distinguono su una linea che si distende nello spazio. Ed esiste il tempo della coscienza, in questo caso il
tempo è vissuto come percezione del tempo che passa (tempo come durata), istanti possono durare ore e
ore possono passare rapidamente, in pochi istanti. La coscienza vive quindi un rapporto del tutto
particolare con il tempo: per la nostra coscienza il tempo è vissuto come presente (l‟attimo del vissuto),
passato (nel ricordo), futuro (come anticipazione). Gli esseri viventi diversi dall‟uomo non vivono il tempo
secondo queste dimensioni, per gli animali manca la dimensione del futuro (inteso come consapevolezza
dell‟esistenza di un tempo futuro). Sintesi di letteratura – Tra Ottocento e Novecento, crisi del Positivimo -
Marino Martignon 6 Intuizione quale strumento fondamentale per la conoscenza Secondo il pensatore
francese esistono due modi per conoscere il reale: un primo metodo, più superficiale, è legato alla
conoscenza esterna della cosa, alla descrizione della stessa; il secondo modo, in grado di andare al cuore, o
essenza, delle cose, è l‟intuizione (metodo conoscitivo considerato obsoleto dalla scienza sperimentale).
Per comprendere cosa intende Bergson con intuizione proviamo ad immaginare di raccogliere il maggior
numero d‟informazioni descrittive relative ad una persona, dati quantitativi relativi al peso, all‟altezza, ecc.
dati incontrovertibili raccolti grazie a misurazioni, ebbene cosa sappiamo noi di quella persona, intesa come
essenza della persona, è una persona di cui fidarsi, ha un animo buono, potremmo diventare amici, nulla ci
viene detto dell‟essenza della persona dai dati di misurazione raccolti, molto meglio avere un incontro con
quella persona, il suo modo di muoversi, di esprimersi, le espressioni del viso ci consentono di intuire qual è
l‟animo e quindi l‟essenza della persona stessa. Del pensiero di Bergson troviamo chiare tracce nell‟opera
di Pirand ello, di Proust e di molti altri autore novecenteschi. FRIEDRICH NIETZSCHE (1844-1900) “Filosofare
con il martello” è sufficiente fermarsi al titolo di quest‟opera per comprendere lo spirito che anima
l‟attività filosofica di Nietzsche. Al di là delle intenzioni, realmente il filosofo tedesco è riuscito a demolire
molte convinzioni dei suoi contemporanei mostrandone l‟illusorietà e le mistificazioni, stimolando i
successivi pensatori del Novecento nel cercare nuove strade al pensiero. Due sono gli oggetto sui quali si
concentra l’opere distruttiva di Nietzsche: il cristianesimo e la filosofia razionalistica nata con Socrate. Per il
cristianesimo l‟odio del filosofo nasce dal riconosce nel cristianesimo un formidabile impulso alla
mediocrità, secondo Nietzsche, infatti, l‟idea di uguaglianza tra gli uomini professata dal cristianesimo altro
non è che il fondamento di una morale del branco; invece di stimolare gli individui per far emergere le loro
eccellenze, si impone loro la mortificazione delle loro abilità, con grave danno per i singoli individui e per
l‟intera collettività. In riferimento alla filosofia razionalistica di Socrate il filosofo tedesco sottolinea come
con Socrate e con il successivo sviluppo della filosofia occidentale si sia spenta definitivamente una delle
principali forze espresse dalla Grecia presocratica: la forza dionisiaca. Dionisio rappresenta la vita nella sua
massima espressione, intesa come piena salute, giovinezza, passione, entusiasmo, ebbrezza creativa; lo
spirito di Dionisio porta l‟uomo a sentirsi pienamente parte della natura. Da queste due idee nasce il
concetto di “superuomo”, individuo destinato ad una vita straordinaria con imprese eccezionali, il
superuomo, in grado di esprimere pienamente le sue potenzialità, può andare, e va, oltre la morale
comune, egli si pone al di sopra e al di fuori di questa. Nella sua opera Nietzsche proclama anche la morte
di Dio. Gli uomini, secondo il filosofo, l‟avrebbero ucciso. Ora per comprendere cosa vuole dirci il pensatore
dobbiamo pensare che per “Dio” Nietzsche intende il riconoscimento di un ordine, di una provvidenza nel
mondo, un punto di riferimento che consenta di poter dire ciò che è bene e ciò che è male. Non è un caso
che una famosa opera del filosofo tedesco Sintesi di letteratura – Tra Ottocento e Novecento, crisi del
Positivimo - Marino Martignon 7 s‟intitoli “Al di là del bene e del male”. Dio è stato ucciso dagli uomini
perché gli uomini non riconoscono più la sua presenza nella storia, essi si comportano come se Dio non ci
fosse. Effettivamente nell‟imperialismo e nel colonialismo di fine secolo, così come nelle guerre mondiali e
nei crimini operati dalle dittature nella prima metà del XX secolo, è difficile non riconoscere l‟esattezza
nella profezia di Nietzsche. Per questa sua immagine di un mondo senza Dio, il filosofo tedesco viene
identificato anche come l‟autore del nichilismo1 . Il pensiero di Nietzsche influenzerà moltissimo la cultura
d‟inizio Novecento. La sua critica alla ragione sarà una formidabile spinta per l‟irrazionalismo di inizio
secolo, irrazionalismo manifestatosi non solo nell‟arte, ma anche nelle scelte di massa, basti pensare
all‟entusiasmo con il quale molti cittadini accolsero l‟inizio del primo conflitto mondiale. La critica di
Nietzsche alla morale dell‟uguaglianza e la sua idea del superuomo, verranno sfruttate dalla Germania di
Hitler per giustificare la critica alla democrazia, il potere assoluto assunto dal dittatore, i genocidi. Molti
sono gli scrittori del Novecento in vario modo condizionati dal pensiero di Nietzsche, per l‟Italia ricordiamo
D‟Annunzio.
Le Maschere di Pirandello
La chiave di lettura è sempre la stessa: l’identità. Uno, nessuno e centomila si differenzia per stile e
contenuto: questa storia è un dialogo diretto con il lettore, una riflessione filosofica che affronta
con coraggio la fragilità e l’insicurezza umana.

"Una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non
sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile." Con
questa citazione tratta da "Uno, nessuno e centomila" possiamo meglio comprendere le
"maschere" che Luigi Pirandello, attraverso la sua opera, affida all'uomo del Novecento.
Pirandello basa la sua intera produzione letteraria su una semplice teoria: "L'uomo accetta
la maschera che lui stesso ha messo o con cui gli altri tendono a identificarlo." 
Se prendiamo, come esempio, proprio il romanzo "Uno, nessuno e centomila", vediamo
che attraverso la storia del protagonista Vitangelo Moscarda come ognuno di noi è "Uno",
perchè è solo una la personalità che pensiamo di possedere, "Centomila", perchè ognuno
può avere tante personalità, in base a quante sono le persone che ci giudicano, e
"Nessuno", perchè in realtà non possediamo nessuna personalità. Questa filosofia decreta
così una perdita dell'individuo che diventa la tematica chiave nell'opera di Pirandello. Egli
stesso nel 1900 scrisse una teoria: "Crisi dell'io", secondo la quale l'uomo, ovvero il suo
spirito, è composto da frammenti che ogni volta si uniscono e associano in maniera
differente, dando vita così a tante personalità e a tante visioni della vita. 
Soltanto una figura nella poetica di Pirandello riesce a liberarsi della maschera: il "folle",
l'unico personaggio che riesce ad avere un'esistenza autentica e vera. Si pensi al
personaggio di Ciampa (Il berretto a sonagli): il protagonista è costretto ad affidarsi alla
pazzia per distruggere la sua maschera e quella degli altri per dichiarare la verità. 
In conclusione, quando ci avviciniamo all'opera pirandelliana, facciamolo con la
consapevolezza che tutto potrebbe essere reale così come tutto potrebbe essere solo una
gran mascherata. E' da questo dubbio che nasce l'Umorismo dello scrittore siciliano.
Fin dal primo Ottocento l’uomo si interrogava su cosa fosse la realtà e su cosa fosse
l’apparenza;  “persona” in latino significa letteralmente “maschera d’attore” ed indica il ruolo che
viene recitato dall’uomo durante la vita di tutti i giorni, l’uomo è costretto a recitare e ad indossare
una maschera per farsi accettare dalla società in cui vive. Il concetto che Pirandello vuole mettere
in primo piano è la ricerca continua della propria identità la quale non è possibile da individuare
poiché in ogni individuo vi sono più personalità, l’autore sostiene la presenza di una maschera anzi
per la precisione di più maschere che l’essere umano cambia e ricambia a seconda del luogo,
della circostanza in cui si trova.  La maschera è uno dei temi fondamentali affrontati nei testi di
Pirandello, essa diventa una sorte di metafora di un atteggiamento dell’uomo che assume in
diverse situazioni e circostanze. Secondo Pirandello la vita dell’uomo è in continuo cambiamento,
questo pensiero viene definito dallo stesso Pirandello come “vitalismo”, tale definizione sta a
significare un continuo cambiamento da uno stato all’altro, chiunque crede di essere “uno” sia per
sè che per le persone che circondano l’individuo, ma la verità è che ci sono più individui diversi in
ognuno di noi a seconda di chi ci guarda. Ciascuna di queste forme è una maschera,  secondo
l’autore l’uomo è quasi costretto ad indossare diverse maschere nella vita di tutti i giorni e questo è
anche “causato” dalla società, egli infatti sostiene che la maschera indossata sia conforme a ciò
che gli altri si aspettano da noi.Ognuno di noi quindi, indossa una maschera e continua a farlo fino
a quando questa non diventa una “maschera di piombo” dalla quale il soggetto cercherà di liberarsi
come se fosse una vera e propria trappola, tuttavia quando l’uomo riesce a levarsi la maschera
viene visto da coloro che lo circondano come un uomo diverso, rifiutato e talvolta definito
pazzo. Spesso indossiamo una maschera per la paura di non essere capiti o per non essere
esclusi, costruiamo una falsa identità a seconda di chi abbiamo davanti nascondendo quindi la
nostra vera personalità.Una delle opere che rispecchia pienamente il pensiero di Pirandello sulla
maschera è Uno, nessuno, centomila uno dei suoi romanzi più famosi pubblicato nel 1926. Per
Pirandello la maschera è una sorta di mistero ed è ciò che ci permette di conoscere una persona.

«FUORI DELLA LEGGE E FUORI DI QUELLE PARTICOLARITÀ, LIETE


O TRISTI CHE SIENO, PER CUI NOI SIAMO NOI, CARO SIGNOR
PASCAL, NON È POSSIBILE VIVERE. […] MATTIA PASCAL: NON
SONO AFFATTO RIENTRATO NÉ NELLA LEGGE, NÉ NELLE MIE
PARTICOLARITÀ. MIA MOGLIE È MOGLIE DI POMINO, E IO NON
SAPREI PROPRIO DIRE CH’IO MI SIA». 1

Così si conclude Il Fu Mattia Pascal (1904), celeberrimo romanzo di Luigi Pirandello, specchio di


un’epoca di crisi morale, psicologica, esistenziale che mette in luce i paradossi umani, polemizza e
ironizza sul sistema delle convenzioni sociali entro cui l’individuo, allora come oggi, è costretto a
vivere. Mattia Pascal, così come Vitangelo Moscarda di Uno nessuno e centomila (1926), si perde nel
triste e assurdo gioco delle maschere, assume identità diverse in situazioni diverse, vive vite parallele,
per sperimentare sul finale l’amaro della sconfitta: l’impossibilità di comprendere fino in fondo e in
maniera radicale se stesso e chi lo circonda.
A ben vedere i romanzi di Pirandello rispecchiano quello che accade all’uomo contemporaneo, spesso
restio a mostrarsi per quello che è, difficilmente limpido e puro nelle relazioni con l’altro. Oggi come
allora l’umanità si trova a vivere frequentemente un alto grado di menzogna, ad ideare stratagemmi
macchinosi per ottenere risultati, avvalendosi di atteggiamenti fittizi che possono nascondere i veri
interessi. L’onesto arriva per ultimo, è letto come ‘lo sconfitto’ dato che fatica di più per giungere a
destinazione; meglio allora indossare una maschera messa a punto per la situazione che possa rendere il
percorso più agevole e meno accidentato!
Così accade anche nelle relazioni interpersonali: Pirandello ci insegna che essere noi stessi
implicherebbe accettare il peso del confronto, dibattere, affrontare conflitti e sperimentarne i danni,
mettere in discussione le proprie idee con il pericolo che vengano demolite. Da ciò deriva che l’uomo
trova più facile e meno rischioso occultare il proprio volto dietro una maschera, vivere ai margini della
mediocrità, senza abbracciare apertamente alcuna posizione. Chi non si mostra non ha il pericolo di
perdere, dato che appare inattaccabile su ogni fronte. Chi non si mette in gioco non può stabilire
autentici legami con l’altro, ma allo stesso tempo è in grado di adagiarsi sulle piume della quiete
quotidiana.
Da qui il dibattito che scaturisce dai romanzi dell’autore, la crisi che investe i personaggi, il loro essere
dei ‘disadattati’, sempre alla ricerca di se stessi, imprigionati in forme e situazioni che non sentono
peculiari a sé. A ben vedere la realtà attuale non sempre offre una visione più rosea: costretto e gettato
in un mondo mutevole e dall’esponenziale velocità, l’uomo si trova a sottoporre sé e il prossimo a
continue rivalutazioni, a mostrarsi diversamente nei vari contesti per poi chiedersi alla resa dei conti:
“Chi sono io? Quale delle infinite figurazioni di me stesso? E gli altri come mi vedono?”
Si pensi anche soltanto alle circostanze che ogni persona si trova a vivere nella propria quotidianità:
dall’esperienza lavorativa a quella con il/la partner alle relazioni con gli amici; è sempre sé stessa
oppure si scompone, si ‘frantuma’ in un’individualità diversa, in una, cento, mille maschere difronte ad
ognuno di loro? A ben vedere, la società stessa richiede questa ‘fossilizzazione’ in entità differenti che
in parte sono responsabili della morte dell’individuo. In situazioni ufficiali è necessario ostentare la
dovuta formalità, con i conoscenti si indossano maschere che possano risaltare i pregi caratteriali, con
il/la partner ci si sforza di mostrare il lato migliore e via dicendo.
Viviamo in un mondo in cui le maschere ci appaiono quasi necessarie per fronteggiare situazioni, in una
realtà in cui l’estrema labilità delle relazioni non permette facilmente di acquisire la conoscenza di chi
ci sta attorno e di contro nemmeno di noi stessi. Ci illudiamo di comprendere appieno chi è di fronte a
noi, fino a quando un evento casuale fa crollare immancabilmente il castello di carte che avevamo
creato. Non ci resta così che raccogliere i cocci della casa, per iniziare una nuova costruzione.
Ma cosa rimane allora all’uomo se non può conoscersi e conoscere il mondo appieno? Quale via d’uscita
gli si pone davanti in una realtà fatta di apparenze e finzioni?
L’ammissione e l’accettazione dei cambiamenti in sé e negli altri, la consapevolezza che « una realtà
non ci fu data e non c’è […] una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile », come direbbe
Pirandello, e il tentativo di essere, per quanto possibile, più sinceri con il proprio io e con chi è difronte
a noi.
Insomma, è il momento di abbandonare le maschere e tentare di mostrare la nudità del proprio volto.

LA SCISSIONE DELL’IO

La scissione dell'io: persona e personaggio

Il contrasto tra “vita” (ciò che siamo) e “forma” (ciò che sembriamo) genera la crisi d’identità e la
dissociazione dell’Io. Costretto a vivere nella “forma”, l’individuo, secondo la concezione
pirandelliana, non è più una persona intesa come unità intellettuale, morale e psicologica, ma è un
personaggio ridotto a maschera, che recita il ruolo impostogli dalle convenzioni sociali o dai propri
ideali. Perciò, nell’arte umoristica ci sono solo maschere e personaggi, creature dissociate e
grottesche, le cui deformazioni fisiche riflettono la scissione psicologica.

La crisi d’identità dell’Io

I personaggi pirandelliani sono comici e tragici insieme, scissi e contraddittori.


Mano a mano che scoprono il valore fittizio delle forme in cui si è alienata la loro persona
acquisiscono anche la coscienza dell’assurdita del vivere, che spesso li porta a deridere con
dolente pietà chi non raggiunge tale consapevolezza e si sente integrato nella società. L’uomo è
schiavo della forma quando, all’improvviso, per un evento casuale, comprende la propria
condizione esistenziale e non gli resta che scegliere se fuggirne oppure adeguarsi alla scissione.

L'uomo, inoltre, deve adeguarsi alle convenzioni imposte dalla società, egli assume quindi una
maschera, o per propria volontà o perché così è visto e giudicato. Questa maschera è l'aspetto
esteriore dell'individuo (la sua apparenza). Siccome il personaggio è condannato a recitare sempre
la stessa parte, non ha nessuna possibilità di mutare la propria maschera, si verifica così la
disintegrazione fisica e spirituale dei personaggio che si può riassumere nella teoria della triplicità
esistenziale:
1.come il personaggio vede se stesso;
2.come il personaggio è visto dagli altri;
3.come il personaggio crede di essere visto dagli altri.
Quando il personaggio scopre di essere calato in una maschera, cade in una condizione
angosciosa senza fine, perché si rende conto che:
1.la realtà di un momento è destinata a cambiare nel momento successivo
2.la realtà è un'illusione perché non si identifica in nessuna delle forme che gli altri gli hanno dato.

Nella società l'unico modo per evitare l'isolamento è il mantenimento della maschera: quando un
personaggio cerca di liberarsene con un diverso comportamento viene considerato preso dalla
follia che scatena in tutti il riso perché non è comprensibile; per questo viene allontanato, rifiutato e
considerato un elemento di disturbo della società, non trovando più posto negli schemi e
convenzioni di essa. Nel caleidoscopio delle forme e delle apparenze, l'uomo si ritrova privo di una
precisa e unica identità; cerca di conoscersi, ma scopre di essere una "maschera nuda" .
Nella realtà di ogni giorno gli individui non si mostrano mai per quello che sono veramente, ma in
ogni momento, in ogni circostanza, assumono una maschera diversa, che li fa "personaggi" e non
li rivela come "persone". Come è impossibile la conoscenza di noi stessi, così sono impossibili
rapporti autentici tra gli individui. Si possono stabilire con gli altri, soltanto rapporti mediati da
atteggiamenti esteriori, dalle forme delle maschere, dai modelli dei ruoli che ciascuno è costretto
ad assumere per poter vivere e operare in società, o che gli altri e la società in genere impongono.
Queste maschere-ruoli sono prodotti dalle disposizioni naturali di ciascuno, dalla condizione
sociale, dall'educazione, dalla cultura, da tutta la serie di convenzioni sociali in mezzo alle quali
l'individuo si trova a vivere. Si tratta comunque sempre di forme fisse, aride,morte. In questa
inautenticità, in cui la società tenta di imprigionare l'individuo, l'esistenza è niente più che un
grande "palcoscenico" sul quale ognuno recita la propria parte di personaggio e maschera,
secondo un meccanismo in cui ciascuno finisce per essere la "marionetta" di se stesso. Solo la
follia permette al personaggio la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire se
stessi. Ma questi sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili, perché il legame con le norme
della società è troppo forte.

La crisi dell'io di cui parla Pirandello


di jole011 (Medie Superiori) scritto il 04.05.14

Nella formazione culturale, Pirandello, incontrò l’opera dei grandi veristi:


Capuana, Verga, De Roberto. S’interessò anche agli studi di psicologia di
Alfred Binet (Le alterazioni della personalità) e a quelli del relativismo di
George Simmel il quale affermava che non esiste una verità assoluta ma solo
una soggettiva. Per lui la vita è un continuo fluire che crea “forme” che poi
deve distruggere. Questi termini di “vita e forma” saranno usati
nell’”Umorismo”. Pirandello vede la realtà come un magma caotico, dal quale
però si stacca per affermare la propria identità attraverso una maschera che
non gli permette di vivere. Tutta la poetica di Pirandello si può riassumere in
un solo concetto il relativismo. Pirandello s’inspira alle teorie di Freud anche
se a differenza di Svevo non lo ha mai letto. Il Relativismo corrisponde alla
frantumazione dell’io: l’uomo non è una sola persona ma si suddivide in tante
persone. Da ciò deriva che non esistono delle verità e dei valori assoluti:
ognuno percepisce la realtà non per quello che è ma per come la vede in un
determinato momento, a seconda anche della propria educazione (religione,
famiglia, ecc…). Il Relativismo corrisponde al dualismo tra vita e forma: la vita
è un libero fluire degli istinti umani e la forma è una maschera che la società
ci impone. Di maschere ce ne sono due: un’attribuita da noi stessi e un’altra
che ci viene imposta dalla società, e che c’imprigiona nella trappola delle
convenzioni sociali. La prima trappola è la famiglia. Si diventa così forestieri
della vita e spettatori della vita altrui. La realtà è multiforme poiché ognuno la
guarda con occhi propri. Secondo Freud nell’uomo esistono tre personalità:
Es= che corrisponde all’io inconscio; Io= che corrisponde all’io cosciente e
che è il tramite tra l’Es e il Superio; Superio= che corrisponde alla maschera
pirandelliana. Per fuggire da questa realtà esistono tre possibilità: il suicidio;
la pazzia (qui emerge l’elemento autobiografico che si ricollega alla pazzia
della moglie); e infine il vedersi vivere, che è un po’ come morire (la vita non
la vivo ma la vedo dal di fuori).Egli, insieme a Svevo, rappresenta la crisi
dell’uomo che ha visto crollare tutti i valori della civiltà borghese. Originale
prodotto della sua riflessione è la Lanterninosofia: che corrisponde al
rapporto tra uomo e mondo. Gli uomini rispetto alle altre specie hanno il
privilegio di “sentirsi vivere”. Essi lo usano come strumento di conoscenza del
mondo esterno, illudendosi di averne una conoscenza oggettiva. In realtà
ognuno di noi ha un’idea soggettiva del mondo esterno. Questo sentimento
della vita è paragonabile a un lanternino (sapienza) colorato, che ci portiamo
appresso e che diffonde un chiarore debole che fa apparire minaccioso il
buio. Con questi lanternini noi alimentiamo i grandi lanternoni delle ideologie,
che in determinati periodi della vita cadono e ci lasciano vagare nel buio. Noi
abbiamo così inadeguati strumenti di conoscenza, da cui ricaviamo un senso
di smarrimento per il buio che ci circonda. A questa situazione pessimistica
Pirandello cerca una soluzione attraverso il “teatro dei miti”.

Per Pirandello l’uomo ha avuto sempre bisogno di autoinganni, di ideali e


di leggi morali e sociali per cercare di dare un senso a un mondo che in
realtà non ne ha, e l’umorismo ha denunciato tale situazione irridendo le
illusioni che l’umanità si costruisce in questo vano tentativo. È però con la
nascita della modernità e con la scoperta di Copernico, con la fine
dell’antropocentrismo tolemaico e con la scoperta dell’assoluta irrilevanza
del pianeta Terra e della stessa vita umana, che ai afferma pienamente la
consapevolezza della relatività di ogni fede, di ogni valore, di ogni
ideologia e l’intuizione che si tratta solo di autoinganni, utili per
sopravvivere ma del tutto mistificatori. Nella modernità una letteratura
fondata sul tragico e sull’eroico non è perciò più praticabile. I parametri
distintivi che rendevano possibili l’epos e il tragico – come le categorie
vero/falso o bene/male – si rivelano alla coscienza moderna come mere
illusioni. L’umorista perciò non propone valori, né eroi esemplari, ma un
atteggiamento critico-negativo e personaggi problematici, inetti all’azione;
non risolve problemi, non indica soluzioni, ma mette in rilievo le
contraddizioni, irridendo e compatendo nello stesso tempo.

 Per Pirandello gli autoinganni individuali e sociali costituiscono


la forma dell’esistenza: essa è data dagli ideali che ci poniamo, dalle leggi
civili, dal meccanismo stesso della vita associata. La forma blocca la spinta
anarchica delle pulsioni vitali, la tendenza a vivere momento per
momento al di fuori di ogni scopo ideale e di ogni legge civile: essa
cristallizza e paralizza la vita. In questa situazione la persona diventa
perciò maschera o personaggio: si riduce a recitare una parte portando
agli estremi, in modo paradossale, il comportamento che la società
richiede o a vivere una non-vita ai suoi margini, in una condizione di
estraneità verso gli altri e verso se stesso. Non vive davvero; si guarda
vivere. La riflessione, la fine della immediatezza e della spontaneità vitali,
l’estraneazione sono la sua marca esistenziale.

Il primo romanzo che esprime compiutamente tale visione della vita è Il
fu Mattia Pascal (1904) anche se alcune anticipazioni in tal senso appaiono
già in L’esclusa. Ma solo con Il fu Mattia Pascal si può dire che si apra la
nuova stagione del modernismo europeo.

 Si tratta di un romanzo di formazione alla rovescia: invece di educarsi a


vivere, il protagonista si educa alla non-vita. Alla fine si riduce a un “fu”: si
considera un defunto, raggiungendo così un massimo di estraneità alla
esistenza che ora si limita a guardare dall’esterno con ironia e pietà
insieme.

Sul piano della struttura narrativa la rottura col passato è evidente. La


scrittura umorista privilegia lo squilibrio, la disarmonia, la digressione, il
grottesco, distruggendo le tradizionali gerarchie. Quanto alla struttura,
nel  Fu Mattia Pascal   narrazione e metanarrazione, racconto e riflessione
teorica sul racconto vi si mescolano, ponendo così in discussione la
naturalezza e la verità del procedimento narrativo: d’altronde il narratore
per primo induce il lettore alla diffidenza avvisandolo che narra solo per
«distrazione», grazie alla quale può temporaneamente dimenticarsi che
niente ha senso, né la vita né la scrittura.
Dopo un romanzo storico, I vecchi e i giovani (1913), ambientato all’epoca
dei fasci siciliani e dello scandalo bancario romano del 1893, Pirandello
ritorna alla sua ispirazione più vera, quella umoristica, con Si gira… (1916),
poi ripubblicato col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Vi
compaiono, strettamente intrecciati, i temi dell’estraneità e della
modernità. La civiltà delle macchine, qui rappresentata soprattutto dal
mondo del cinematografo, tende a svuotare l’esistenza, a renderla
sempre più astratta e virtuale. L’estraneità alla vita di Serafino Gubbio,
operatore cinematografico, vi si rivela un formidabile strumento
conoscitivo del «meccanismo della vita» moderna. Anche in questo caso
la storia del protagonista coincide con quella della sua progressiva
estraneità sino alla interruzione totale della comunicazione col mondo
rappresentata dalla sua finale afasia: diventa muto mentre gira la scena
in cui un attore, invece di sparare a una tigre, come previsto dal copione,
indirizza i colpi contro la donna da lui invano amata, finendo sbranato
dalla belva. Nella civiltà delle macchine l’uomo è solo un loro strumento
passivo, diventa una mano che gira una manovella, un ingranaggio del
meccanismo. L’afasia diventa metafora dell’impotenza dell’intellettuale
moderno. Non resta che divenire come una cosa, chiudendosi in una
totale indifferenza, analoga alla realtà di reificazione dei tempi moderni e
da essa prodotta. L’alienazione del soggetto non è che il doppio
dell’alienazione oggettiva.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore è un romanzo-saggio sulla


condizione del moderno. La natura argomentativa e riflessiva del saggio
sta ormai soppiantando quella propriamente narrativa. La scelta del
teatro, che è di questi anni, è anche la conseguenza di questo congedo
dal genere romanzesco, a cui Pirandello tornerà solo più tardi con Uno,
nessuno e centomila(1926).

Nella sua opera teatrale Pirandello sviluppa la teoria della autonomia dei
personaggi dall’autore e accentua l’aspetto dissacrante e autocritico del
lavoro artistico: l’opera diventa beffa e parodia di se stessa, come stava
accadendo nel coevo teatro di avanguardia europeo. La riflessione
sull’autonomia dei personaggi muove dalla teoria verghiana
dell’autonomia dell’opera rispetto al proprio autore. Dall’autonomia
dell’opera a quella dei personaggi il passo è breve. Il personaggio si stacca
dal suo creatore e segue la sua logica, anche a dispetto delle diverse
intenzioni dell’autore.  Il personaggio deve seguire la logica del proprio
carattere, identificarsi nella sua maschera, ridursi a pochi tratti, costanti
ed essenziali. Anzi, proprio tale ideazione del carattere va considerata la
necessaria premessa del dramma o della commedia, esserne la base
preventiva. Capovolgendo gli usi del teatro borghese allora più diffuso,
che muoveva invece dall’ideazione della trama e della vicenda, Pirandello
afferma con forza la priorità logica e cronologica dell’intuizione di un
carattere-maschera centrale, attorno a cui e in dipendenza da cui deve
poi svilupparsi l’opera. È l’invenzione del personaggio a determinare
l’intreccio, e non viceversa.  Data tale fortissima identificazione del
carattere nella maschera, il personaggio che la impersona diventa
indipendente tanto dall’autore quanto dall’attore: esalta quest’ultimo che
dovrà calarsi completamente nella parte ma anche ne riduce la libertà di
alterare o falsificare il testo.

Pirandello diventa grande autore in campo teatrale nella fase cosiddetta


del “teatro del grottesco” nel biennio 1917-1918 in cui opera la sua prima
rivoluzione teatrale, accettando gli schemi del dramma borghese solo per
farli deflagrare dall’interno. II teatro tradizionale diventa così “grottesco”.
In questo periodo tre opere spiccano su tutte: Così è (se vi pare), Il piacere
dell’onestà, Il giuoco delle parti. Il tema tradizionale del triangolo moglie-
marito-amante vi è ripreso e nel contempo rovesciato: la logica delle
convenzioni borghesi viene seguita e portata alle estreme conseguenze
con l’effetto di mostrarne il carattere paradossale, la sostanziale
inconsistenza e insomma l’aspetto ridicolo e, appunto, grottesco. Sta in
questa mescolanza di tragico e di comico l’origine del “grottesco”
pirandelliano.

I personaggi ridotti a maschere irrigidite in pochi tratti ossessivi e capaci


di esprimersi solo attraverso accaniti ragionamenti ad alto tasso di
cerebralità, uno sviluppo della trama che obbedisce come un
meccanismo a orologeria a una tesi preordinata, una dissacrazione dei
fondamenti della vita e del teatro borghesi: all’altezza del 1920-21
Pirandello ha a disposizione quasi tutti gli ingredienti della sua seconda
rivoluzione teatrale. Manca solo la teoria dell’autonomia dei personaggi e
del teatro “senza autore”. È il momento di Sei personaggi in cerca d’
autore e del “teatro nel teatro” (che comprende anche Ciascuno a suo
modo e Questa sera si recita a soggetto, elaborati qualche anno dopo).
L’autore è assente perché non può più essere capace di trovare un
«significato universale» alle vicende che mette in scena (come precisa
Pirandello stesso nella Prefazione del 1925). E di “teatro nel teatro” si
tratta non solo perché sul palcoscenico, durante la recita di un dramma,
viene recitato anche un altro dramma (interno, dunque, al primo), ma
anche perché questo artificio serve in realtà come pretesto per una
discussione sul teatro stesso, cosicché teatro e metateatro, finzione
scenica e dibattito teorico su di essa si mescolano strettamente.

Sei personaggi in cerca d’autore (1921) si articola su piani diversi in confitto


fra loro con l’effetto di una complessiva destrutturazione. Un primo piano
è quello del passato: sei personaggi (una famiglia: il padre, la madre, la
figliastra, la bambina, il giovinetto, e inoltre Madama Pace che dietro
l’apparenza di una sartoria tiene aperto un bordello dove la figliastra
rischia di ricevere il padre, da anni separato dalla moglie) vogliono salire
sul palcoscenico per ricostruire nella sua verità quanto è accaduto e
permettere agli attori e al Capocomico di rappresentarlo. Un secondo
piano è data dalle divergenti interpretazioni che essi ne danno una volta
autorizzati a raccontarlo sulla scena. Un terzo piano è quello
dell’equivalente che ne tenta, al presente, il Capocomico, mettendo in
scena situazioni del tutto divergenti da come i sei personaggi le hanno
vissute e le ricordano. Un quarto piano è quello del rapporto fra i
personaggi e un autore assente e impotente, che non è più in grado di
svolgere la tradizionale funzione di mediatore ideologico e che infatti si
rifiuta di dare unità e significato alla storia di personaggi che pure ha
creato ma che ormai sono autonomi da lui. Insomma il dramma dei sei
personaggi rivela il dramma dell’autore moderno e, più in generale,
dell’impossibilità a trovare un senso alla vita contemporanea.

Subito dopo Sei personaggi esce Enrico IV, l’altro capolavoro di questo


periodo, impostato su un grande tema pirandelliano: quello della follia.
Anche qui una materia sostanzialmente melodrammatica – coi caratteri
vistosi ed eccessivamente patetici della tradizione borghese e romantica –
viene ripresa per essere svuotata e riutilizzata in altra chiave. Addirittura
sembra restaurato lo spazio della tragedia classica (una reggia, un re,
unità di tempo, di spazio e d’azione). Ma la scena è posticcia e il re un
comune borghese che finge di essere Enrico IV, recitando la parte del
pazzo dopo che per alcuni anni lo era stato effettivamente in seguito a
una caduta da cavallo provocata dal rivale d’amore, Belcredi, che così gli
ha sottratto la donna amata. Il drammone giunge a una coerente
conclusione finale quando la spada del presunto Enrico IV trafigge
Belcredi. Ma il canovaccio melodrammatico è un puro pretesto per
mettere in scena il vero dramma: nella vita contemporanea l’unica
paradossale salvezza sta nell’assunzione di una posizione di totale
estraneità, qui appunto figurata dalla follia.

Le successive opere teatrali pirandelliane – se si esclude l’incompiuto I


giganti della montagna - sanno invece di “maniera” (e si parla per esse di
“pirandellismo”, quasi l’autore imitasse ormai sé stesso). I risultati migliori
si danno invece nella novellistica, riunita in Novelle per un anno, a cui
l’autore lavorò tutta la vita sino alla fine.

Nell’opera definitiva che le raccoglie il criterio della riorganizzazione in


una nuova struttura (la cui idea risale al biennio 1922-23) risulta
volutamene sfuggente: le novelle infatti non sono disposte né in senso
cronologico né in senso tematico. Da un lato Pirandello pone ogni cura
nel sottolineare l’esistenza di un nuovo ordine, segnato da leggi
numeriche e norme costanti (una novella al giorno per un anno, quindici
novelle a volume, il titolo del volume corrispondente a quello della
novella iniziale); dall’altro lato quest’ordine appare vuoto: chiude una
molteplicità di frammenti la cui legge, in assenza di un superiore criterio
interpretativo, non può che essere quello del caos e del caso. L’opera nel
suo complesso insomma è un’allegoria della dissipazione e della varietà
della vita, del suo carattere frammentato e insensato, in cui domina
incontrastato il flusso distruttivo del tempo.

Nelle novelle la visione del mondo pirandelliana si articola e si definisce


ulteriormente, L’autore vi porta a fondo la critica al paradigma di verità,
sia esso concepito nei termini del positivismo o in quelli della filosofia
idealistica o religiosa. L’affermazione del carattere relativo di ogni
ideologia e di ogni opinione sfiora qui il nichilismo. E tuttavia molti
racconti sembrano nascere da un bisogno di indagine e di ricerca e
presupporre la funzione dell’interprete e talora addirittura del detective.
Talora la stessa voce narrante conduce un’indagine per opporsi alle
interpretazioni convenzionali o ossificate date dalle autorità (i tribunali,
per esempio) e per proporre diverse letture dei fatti.  Pirandello a
qualcosa sembra insomma credere: che sia possibile, con la forza
dell’argomentazione, usando la ragione come metodo o strumento e non
come ideologia complessiva, giungere a verità relative condivise: verità
che riguardano unicamente il campo sociale della parzialità
intersoggettiva e dunque la realtà dialogica e pragmatica di una
determinata comunità e il confitto delle interpretazioni e delle congetture
che l’attraversa.
La crisi dell’individuo in Svevo
e Pirandello

Date: 11 Ago 2017Author: leonardostuni0 Commenti


Tra i temi prediletti dagli scrittori Italo Svevo e Luigi Pirandello c’è la crisi
dell’individuo, argomento sicuramente emergente all’inizio del Novecento. A questo
proposito, è possibile individuare analogie e differenze nella poetica dei due autori.

Focalizzando l’attenzione sui primi due romanzi sveviani (Una vita e Senilità), e sulla più
celebre opera pirandelliana (Il fu Mattia Pascal), è facilmente riscontrabile la figura
dell’inetto. In comune c’è sicuramente il difficile inserimento del personaggio principale
nell’ambito della società in cui vive. Alfonso Nitti ed Emilio Brentani (protagonisti dei
romanzi) non sono affatto in sintonia con gli ideali tipicamente borghesi, i quali sono legati
alla vita attiva e alla produttività. Mattia Pascal rappresenta il piccolo borghese che vive una
vita grigia e priva di soddisfazioni, e avverte la sua famiglia come una sorta di trappola dalla
quale è quasi impossibile liberarsi; specie nel romanzo pirandelliano c’è un particolare
riferimento all’industria e alla macchina, elogiate agli inizi del Novecento dalla corrente
futurista, che accentuano la crisi esistenziale del protagonista.

René Magritte “La riproduzione vietata”


1937

La differenza tra le due concezioni di inetto sta nel modo in cui i protagonisti affrontano
questa situazione: l’inetto pirandelliano, considerando anche Vitangelo Moscarda in Uno,
nessuno e centomila, tenta in tutti i modi di rovesciare la realtà, in questo caso cercando di
ridurre le sue molteplici identità ad un’unica forma; al contrario l’inetto sveviano, essendo
completamente inadatto alla vita, non è in grado neppure di reagire e per questo accetta
passivamente la sua condizione.
Svevo e Pirandello ricorrono spesso alla focalizzazione interna per mettere in luce la crisi
del protagonista; l’autore agrigentino, talvolta, estende questa crisi ad un rapporto di coppia,
come in Suo marito; in questo modo si sofferma sulla tecnica dell’ umorismo, per indicare
una situazione che apparentemente risulta comica, ma che in realtà genera un’ampia
riflessione. Svevo, addentrandosi in maniera psicoanalitica nel complesso essere umano-
inconscio, dà spazio all’ironia, talvolta pungente nei confronti del personaggio.

Per i protagonisti delle opere pirandelliane e sveviane, è fondamentale, infine, il concetto


di maschera; questa, essendo sinonimo di illusione, è un modo per non guardare in faccia la
realtà; a questo proposito, Emilio Brentani crea di sé un’immagine totalmente falsa, ovvero
quella di un uomo forte e amato dal genere femminile; Mattia Pascal si illude costruendosi
un’identità fittizia, quella di Adriano Meis, ma per la questione della lanterninosofia, cioè
per il crollo delle poche certezze su cui fa affidamento, entrerà in una crisi profonda.

Pirandello: L’Umorismo Il saggio L’umorismo vede la luce nel 1908, in un momento in cui Pirandello è già
piuttosto affermato. L’autore lavorava al testo sin dal 1904, anno in cui viene pubblicato Il fu Mattia Pascal.
E proprio a Mattia Pascal il saggio è dedicato. Si tratta di un’opera in prosa, in forma saggistica – densa di
riferimenti filosofici e letterari, in perfetto stile accademico e con un ampio apparato di note – che l’autore
stesso divide in due parti. Nella prima parte Pirandello analizza il termine anche in relazione alle equivalenti
espressioni nelle altre lingue europee. Ricordiamo che si era laureato a Bonn in filologia romanza,
discutendo una tesi in tedesco su “Suoni e sviluppi di suoni nella parlata di Girgenti”; aveva quindi
approfonditi strumenti per analizzare adeguatamente accezioni e sfere d’uso del termine nelle diverse
lingue. In seguito, dopo una lunga disamina delle differenze tra arte antica e arte moderna, chiarito ciò che
bisogna considerare umoristico e cosa no, Pirandello fa una sorta di storia del genere. Nella seconda parte,
che presenta il sottotitolo “Essenza, caratteri e materia dell’umorismo”, è contenuta l’esplicitazione delle
riflessioni che da anni l’autore va portando avanti su modalità espressive, campi di interesse e finalità della
sua arte. Nel seguente brano, l’autore più che definire l’umorismo, stabilisce cosa esso non è e cosa
generalmente (almeno per il “gran numero”) si è soliti ritenere che esso sia: definizioni di genere che
l’autore non approva. “Vogliamo solo notare fin da principio che vi è una babilonica confusione
nell’interpretazione della voce umorismo. Per il gran numero, scrittore umoristico è lo scrittore che fa
ridere: il comico, il burlesco, il satirico, il grottesco, il triviale: - la caricatura, la farsa, l’epigramma, il
calembour si battezzano per umorismo: come da un pezzo si costuma di chiamare romantico tutto ciò che
vi è di più arcadico e sentimentale, di più falso e barocco. […] 2 È pur vero però che a una parola si può per
comune accordo alterare il significato. Tante parole che noi adoperiamo adesso in un senso, ne avevano un
altro in antico. E se alla parola umorismo, come abbiamo veduto, s’è già veramente alterato il senso, non ci
sarebbe in fondo nulla di male se - per determinare, per significare senza equivoco la cosa - venisse
adoperata un’altra parola”. Dopo queste riflessioni iniziali, Pirandello entra nel merito della dissertazione,
nelle Questioni preliminari, di cui questo è l’incipit: “Prima di entrare a parlar dell’essenza, dei caratteri e
della materia dell’umorismo. Dobbiamo sgomberarci il terreno di altre questioni preliminari: 1. se
l’umorismo sia fenomeno letterario esclusivamente moderno, 2. se esotico per noi, 3. se specialmente
nordico”. Dopo la lunga riflessione sulle differenze tra arte antica e arte moderna, Pirandello si addentra,
con l’aiuto di Taine, nell’analisi delle diverse tipologie di umorismo, concludendo che: “Il Taine riesce a
coglier bene la differenza generale tra la plaisanterie inglese e la francese, o meglio, il diverso umore dei
due popoli. Ogni popolo ha il suo, con caratteri di distinzione sommaria. Ma, al solito, non bisogna andare
tropp’oltre, non bisogna cioè prender questa distinzione sommaria come solido fondamento nel trattare
d’un’espressione d’arte specialissima come la nostra”. Insomma, l’umorismo riprende e ripropone le
caratteristiche intrinseche di ogni singola cultura, diversificandosi sulla base delle tradizioni e dei caratteri
specifici di ciascuna. Per quello che riguarda la letteratura italiana, Pirandello cita Dante, Pulci, Ariosto, e
l’autore romanesco Pascarella; oltre a Manzoni. I primi come autori che fanno uso d’ironia, l’ultimo come
esempio di serietà e mancanza di umorismo. L’autore conclude le precedenti riflessioni in questi termini:
“Non è mia intenzione tracciare, neppure per sommi capi, la storia dell’umorismo presso le genti latine e
segnatamente in Italia. Ho voluto soltanto, in questa prima parte del mio lavoro, oppormi a quanti han
voluto sostenere che esso sia un fenomeno esclusivamente moderno e quasi una prerogativa delle genti
anglo-germaniche, in base a certi preconcetti, a certe divisioni e considerazioni, arbitrarie le une, sommarie
le altre, come mi sembra di aver dimostrato”. Pirandello dà finalmente una sorta di definizione di
umorismo, scandendo nello stesso momento la distinzione tra comico e umoristico. Si tratta della
famosissima immagine della signora imbellettata: “Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera
umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del
sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza,
spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro
sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.
3 Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta
goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il
contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e
superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del
contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova
forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché
pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé
l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto
la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più
addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario.
Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico”. Fondamentale, quindi, la differenza tra comico e
umoristico, il cui tratto distintivo è del tutto soggettivo, “sentimentale” per dirla con Pirandello, ma
razionale al contempo, derivante dalla “riflessione”. Proprio questo ricorso alla razionalità aveva indotto
Croce a polemizzare con l’autore siciliano: eccessi razionalistici, in lui, che non potevano di certo essere
apprezzati dal teorico dell’Estetica, che aveva fondato proprio sull’intervento o meno della ragione la vena
della vera poesia. Già i suoi primi romanzi, L’esclusa, Il turno, il già citato Il fu Mattia Pascal presentano
esempi vari e diversi di poetica umoristica. L’idea dell’assoluto relativismo dei punti di vista sulla realtà
produce nella società umana, chiusa in una serie di norme come in una gabbia, la molteplicità delle forme,
che rende l’uomo insicuro di tutto, perfino della sua identità. Questa insicurezza è vista, tramite lo sguardo
dell’autore, con sarcasmo, ironia, ma in fondo con profonda pietà umana. Anche quando si ferma
all’assurdo e all’inspiegabile, Pirandello sembra farsi carico della sofferenza dei suoi personaggi che,
guardando la realtà altra che si sono creati, di quella sofferenza si disfano, lasciandola sulle spalle
dell’autore e del lettore.

SVEVO E PIRANDELLO:
LA PERSONALITÀ, LA
CULTURA, LA SCRITTURA

1. LA PERSONALITÀ  
Tratti comuni
 Provincialità: decentramento
(letteratura non come dovere),
strabismo.
 Lontani dal condizionamento della
tradizione.
 Entrambi conoscono il tedesco e la cultura
mitteleuropea (Italo-Svevo; università di
Bonn).
 Iniziale fedeltà alle tematiche
naturalistiche; poi si rompe la catena
deterministica perché si accorgono dello
“strappo del cielo di carta del teatrino
della vita” (Pirandello). Sono dotati di una
“doppia vista”: precarietà, angoscia,
indeterminazione, oltranza (Serafino
Gubbio: “c'è un oltre in tutte le cose!”).
 Iniziale incomprensione da parte del
pubblico: “scrivono male” è l’accusa più
frequente (ma chi ha qualcosa di nuovo da
dire bada più al contenuto che alla forma).
 Base dialettale: triestino e siciliano.
 
Tratti tipici: Svevo
 Tipica famiglia borghese, formazione
tedesca.
 Rivolta contro il padre (cfr. Leopardi,
Kafka), in nome dell’antiborghesismo.
 Madre dolce, come la moglie Livia
Veneziani (4.10.1895: muore la madre e i
due si fidanzano).
 
Tratti tipici: Pirandello
 Sottomissione al padre: moglie scelta dal
padre (rigorosamente vergine): Antonietta
Portulano.
 Differenze culturale e di sensibilità con la
moglie, incapace di amarlo: amava senza
essere amato.
 Tema della gelosia.
 Sessuofobia: sublimazione del sesso
(scapoli, vedovi, mal sposati compaiono
spesso nelle sue opere).
 Oscillazione tra sadomasochismo distruttivo
e rigorismo morale
 Scrittura come fuga dalla vita (cfr. sotto) .
 
 
2. LA CULTURA
 ripudio del causalismo deterministico;
 decentramento della coscienza;
 umorismo (Pirandello) e ironia (Svevo);
Nella diade voluntas-noluntas di Schopenhauer,
Svevo trova lo strumento concettuale per il suo
antirazionalismo: noluntas  ascesi  inettitudine.
Per Svevo l’inetto è colui che soffre di solitudine,
che è incapace di godere (perché tra il desiderio e
l’ottenimento c’è di mezzo il pensiero), ma è
anche colui che interrompe il determinismo;
l’inetto è un pessimista ottimista. L’inetto è
inadatto non alla vita in assoluto, ma alla vita così
com’è; accorgendosi della propria inettitudine,
l’uomo è veramente tale: la malattia (= accorgersi
di essere uomini) è un modo per ritardare
l’entropia e la morte. In sintonia con Darwin, Svevo
riconosce nell’uomo il prodotto più fragile
dell’evoluzione, ma anche il più dotato perché
quella malattia che è l’intelligenza gli consente di
evitare il determinismo biologico. L’intelligenza
non è più attività indagatrice del reale, ma
intuizione creatrice. L’alternativa è tra l’essere
felici e stupidi oppure intelligenti e infelici.
Ironia: è l’equivalente, sul piano espressivo, della
consapevolezza della differenza tra ragione e
intelligenza: si pensa di vivere e invece si è vissuti,
di parlare e invece si è parlati, di scegliere e
invece si è scelti. L’ironia nasce dal contrasto tra
conscio e inconscio; è prendere atto che le cose
stanno così; è la consapevolezza degli infiniti
risvolti problematici delle cose.
Umorismo: vedere la vita con occhi nuovi genera
umorismo; mentre il comico è il capovolgimento
inaspettato di una situazione (esterno),
l’umorismo è il sentimento del contrario (interno).
Il comico sta all’umorismo come il caso sta alla
consapevolezza: se in un primo tempo lo scacco al
determinismo viene da un evento casuale, in
seguito esso è affidato alla coscienza dei
personaggi.
 
3. LA DIADE “SCRITTURA-VITA”
Se Pirandello si salvava dalla vita nella
scrittura, Svevo si salvava dalla scrittura nella
vita. Bisogna porre nel dovuto risalto il caso
singolarissimo di Svevo che si trovò, per un verso
“obbligato” a scrivere da una vocazione
irresistibile, e, per un altro, impossibilitato ad
esercitare con un minimo di agio la sua
“professione” dall’assoluta mancanza di ascolto da
parte del grande pubblico e della critica; fallito
completamente come scrittore, si “convertì” a
quell’esistenza la cui impraticabilità era stata tema
dei suoi interessi di scrittore. In questo senso, il
matrimonio fu il fatto decisivo della sua vita: oltre
al respiro esistenziale che gli offrì, gli aprì anche la
possibilità di diventare un attivo uomo d’affari
(perché più si agisce, meno si pensa: si veda
Leopardi); egli visse da buon borghese e, invece
della penna, impugnò l’archetto del violino (ma la
musica non è forse un sostituto della letteratura? In
entrambe di tratta di soddisfare un’esigenza
estetica). Mentre Pirandello non ha difficoltà a
pubblicare e a trovare un suo pubblico (inoltre
svolgeva una professione affine alla sua attività di
scrittore), Svevo, nella Trieste commerciale e
senza tradizioni, e con un tipo di letteratura dai
contenuti così nuovi, non riuscì a farsi prendere sul
serio come scrittore e dovette scegliere
l’azione”: struggle for life vs letteratura (come in
Kafka, del resto)[1].
Ma, al di là delle opposte contingenze, i due
scrittori offrono un caso parallelo di profonda crisi
del rapporto scrittura-vita, nel senso che entrambi
hanno avvertito l’impossibilità di conciliare
l’esercizio dello scrivere con il “mestiere di vivere”
(come siamo lontani da Manzoni!): la loro
intuizione di fondo è quella dell’impossibilità di
“vivere così”, di adeguarsi cioè alle strutture
esistenziali e sociali della vita. A Pirandello la vita
appare come “un’enorme pupazzata” o “un cieco,
immenso labirinto”, e a Svevo come “una grande
nullità e vanità di sé”: scrivere diventa, allora,
l’unica alternativa a questo accorgersi del non-
senso dell’esistenza, cioè un vero e proprio modo
di sopravvivenza. Non si metterà mai
sufficientemente in risalto come la vita (con quella
sua imprescindibile contingenza che è la morte) sia
l’unico tema di tutta l’opera dei due scrittori, la
cui ricerca artistica è unicamente ricerca
esistenziale (è sempre una questione di stile, come
già in Leopardi); il fatto stesso dell’accorgersi
di ex-sistere (si vive solo guardandosi vivere!)
rende immediatamente inabili, “inetti”, a
sistemarsi tranquillamente nel flusso della vita e ad
accettare tranquillamente il ruolo che ad ognuno è
assegnato dalle esigenze del vivere associato.
Scrivere, perciò, significa non-vivere: o nelle
forme dell’analisi della propria inettitudine (Svevo)
[2] o in quelle della sceneggiatura di tutti i modi
inautentici, paradossali, tragici, grotteschi della
vita (Pirandello). E’ naturale quindi che
l’estraniamento mediante il quale ci si sottrae al
flusso dell’esistenza consegni al problema della
morte: i due scrittori convergono anche su questo
tema e la loro intuizione del non-senso del vivere
fa tutt’uno con la scoperta che l’unico senso del
vivere è la morte. Scrivere, allora, diventa, oltre
che lo smascheramento dell’assurdo esistenziale,
epifania del dover morire e difesa contro di
esso[3]. Svevo è ossessionato dal pensiero della
vecchiaia e il tema della vecchiaia si incrocia con
quello della malattia, in una continua
auscultazione del funzionamento del proprio
organismo[4]. E’ evidente che il sentirsi vivere (ex-
sistere), provocato dal collocarsi come osservatore
sulle sponde della vita (ci si guarda passare il fiume
della nostra esistenza, sempre uguale e sempre
diversa, in un eracliteo panta rei), fa tutt’uno col
sentirsi morire. Tutta l’ultima parte della vita di
Svevo, circondato dal finalmente raggiunto
successo (europeo prima che italiano), è
caratterizzata dalla lucida coscienza della propria
vecchiaia e dall’adeguamento dell’esistenza alle
esigenze dell’”uomo vecchio”, in una
concentrazione narcisistica su se stesso.
Alla “concentrazione” di Svevo si contrappone
la “dispersione” di Pirandello: lascia la moglie, i
figli sono adulti, il successo è su scala mondiale, si
dedica solo al teatro, viaggia, abbandona la casa in
cui è sempre vissuto. In pratica, l’ultimo Pirandello
è colui che fugge di fronte alla paura delle “forme”
e di quella “forma” per eccellenza che è la morte;
la dispersione è un tentativo estremo di aderire
alla vita come eterno fluire e mutare, e di entrare,
al di là dei limiti cronologici, nei ritmi informali
della durata (si vedano le disposizioni per la sua
morte[5]).
  Tutto il grande viaggio di Mattia è stato
inutile, perché egli non ha trovato il proprio io, e
dannoso, perché ha perso anche il proprio nome. Il
viaggio è concluso così come Mattia ha concluso la
propria esistenza: si è nella misura in cui si ha un
nome, e si ha un nome perché ci viene dato.
Chiamarsi è una funzione della socialità, essere per
gli altri e perciò l'essere dipende dagli altri e
consiste tutto in un rapporto.
Mattia comincia a scrivere nel momento in cui è
diventato un FU: la sua scrittura non sorga dalla
necessità di dire qualcosa, ma dalla condizione del
non esserci: scrivere è il tentativo di dimostrare
soprattutto a se stesso di essere ancora in qualche
modo vivo. Ora che ha perso il suo nome, ha perso
anche l'unica certezza e non gli resta altro che
scrivere. Nella sua biblioteca egli comincia a
scrivere perché ha smesso di vivere e può
continuare a vivere solo nella scrittura. Essere fuori
dalla vita per smarrimento dell'identità comporta
almeno il vantaggio di poter scrivere e leggere
“senza obblighi e senza scrupoli”. Questi sono i
vantaggi dell'umorismo.

STORIA DELL'ARTE
Le quattro avanguardie
che hanno segnato il
Novecento

Quattro delle più famose avanguardie artistiche che hanno


influenzato il secolo scorso. di  Michelangelo Greco   - 31.01.2017

Col termine avanguardie cerchiamo di raggruppare tutti quei movimenti


che, dall’inizio del Novecento, hanno cercato di andare
oltrel’accademismo, di destabilizzare la tradizione e lo spettatore, abituato
ad un’opera molto spesso chiara ed inequivocabile. Molti movimenti si sono
susseguiti nel corso di questo secolo, alcuni di lunga durata ed altri più
brevi, ma tutti hanno lasciato un segno tangibile nella storia dell’arte,
diventando modello per gli artisti delle generazioni successive. In questo
articolo tratteremo le correnti che più di tutte hanno influenzato un’epoca,
analizzando le opere (a volte poco conosciute) di artisti famosissimi.
“La danza” di H. Matisse (fonte: restaurars.altervista.org)

L’Espressionismo può essere considerato come la prima avanguardia e


sicuramente si tratta di una delle più influenti. Nasce
nel 1905contemporaneamente in due paesi, Francia e Germania,
rispettivamente con i gruppi Fauves (“Le Belve”) e Die Brucke (“Il Ponte”).
I due movimenti hanno caratteristiche simili, ma gli intenti sono diversi:
i Fauves, con le loro campiture piatte e i colori sgargianti volevano
contrastare l’eccessivo decorativismo dell’Art Nouveau; i componenti
di Die Brucke invece, intensificavano il carattere violento della pittura
riscontrabile nei colori forti utilizzati, andando contro l’Impressionismo e
le sensazioni che un paesaggio poteva far scaturire nell’animo dell’artista.
In breve, con l’Espressionismo non troviamo più un “moto” dall’esterno
verso l’interno (paesaggio→artista), ma è quest’ultimo che esterna
attraverso la pittura le sue emozioni, belle o brutte che siano. L’opera che
riflette meglio l’angoscia dei pittori è “Pubertà” di Munch, nella quale
troviamo una giovane, che ha ricevuto la rivelazione della vita. Coprendosi
le parti intime, possiamo intuire che la bambina si stia rendendo conto della
sua trasformazione in donna, portandole paure ed insicurezze, impersonate
dall’inquietante ombra nera informe alle sue spalle.
“Pubertà” di E. Munch (fonte: it.wahooart.com)

Siamo intorno al 1919/1920 quando Piet Mondrian inizia a realizzare le


sue “Composizioni”: le celebri e semplici griglie, con due o tre colori
primari e grandi rettangoli bianchi. Apparentemente un’opera elementare,
ma nessuno mai è riuscito ad imitarne la grandezza. Il movimento fondato
dall’artista e da un suo collega, Theo van Doesburg, prende il nome di De
Stijl, meglio conosciuto come Neoplasticismo. Mondrian inizia il suo
processo di estrema riduzione con un serie di dipinti di alberi. Inizialmente
realistici, col tempo questi soggetti sono diventati sempre più astratti, ridotti
ai minimi termini, fino ad arrivare a linee orizzontali e verticali e colori
primari. Perché questa scelta? L’intento era di allontanarsi
dalla materia, dalla prospettiva e da tutte le altre “illusioni” dei secoli
precedenti per arrivare ad una nuova Plasticità.
“Composizione con rosso, giallo, blu e nero” di P. Mondrian (fonte: poeisrafel.blogspot.com)

Nel 1924 André Breton pubblica il manifesto del Surrealismo, un


movimento che da lì a pochi anni si diffonderà capillarmente in Europa e
negli Stati Uniti. Questi artisti erano attratti dall’inconscio,  angolo della
mente umana dove tutti i pensieri diventano immagini. E quale mezzo
migliore se non l’arte per esprimere questo inconscio. Le opere surrealiste
infatti sono destabilizzanti, irrazionali, surreali appunto. Orologi sciolti,
elefanti con lunghissime gambe, paesaggi completamente irreali sembrano
tutti frutto di un sogno: la componente onirica è molto importante per
questi artisti perché riflette un’azione automatica del corpo, involontaria,
dove si producono le immagini più bizzarre, ma spesso cariche di
significato.
“La persistenza della memoria” di S. Dalì (fonte: cultura.biografieonline.it)

Ultima, ma estremamente importante è l’arte Concettuale. C’è chi pone


come padre di questa corrente Marcel Duchamp, eclettico artista francese
che per tutta la sua vita cercò di trasformare
l’arte cosiddetta retinica, in arte mentale, o concettuale appunto. L’opera
simbolo di questo passaggio è “Etant donnes” del 1966. L’opera, è
composta da un vecchio portone di legno di un fienile, attraverso la cui
fessura è possibile osservare l’opera vera e propria: dall’altra parte infatti
vediamo il corpo nudo di donna steso in un paesaggio montuoso, con in
mano una lampada e sullo sfondo una cascata. Molti hanno cercato di
trovare un senso a quest’opera: c’è chi parla di una trasposizione di vecchie
opere di Duchamp, chi invece lascia libera interpretazione allo spettatore.
“Etant donnes” di M. Duchamp (fonte: 1.bp.blogspot.com)

LE AVANGUARDIE
Dall’inizio del 1900 il concetto estetico cambia e questa rivoluzione viene portata
avanti da una serie di correnti artistiche definite Avanguardie. Nel 1900 nascono
l’Espressionismo, il Cubismo, il Futurismo e l’Astrattismo, nel 1914 nasce il Gruppo
Dada e nel 1924 il Surrealismo.
Le avanguardie sono associazioni culturali, che raccolgono letterati, musicisti ed
artisti, alla base di ognuna delle quali vi è uno scritto teorico, definito manifesto,
delineato da un intellettuale. Vi sono poi due o tre pittori che lo affiancano e,
insieme a questi, tutti coloro che vogliono partecipare. Ad ogni associato viene
chiesto di condividere il manifesto e di versare una quota associativa.
Il motivo della nascita delle avanguardie sta nella crisi della società nei primi anni del
XX secolo e nella nascita della consapevolezza che chiunque può dare un contributo
attivo per migliorare la società. Il motto preso come riferimento da tutte le
avanguardie è quello che propone Nietzsche, ovvero distruggere per ricostruire.
Il compito che l’arte assume con le avanguardie non è quello di mandare un
messaggio estetico, ma quello di far nascere nuove idee nell’osservatore. L’arte
diventa quindi il mezzo di produzione di un pensiero nuovo che permetta di agire
sulla società. Cambia l’idea di estetica, che ora si basa sui contenuti, e l’artista
diventa colui che esprime un pensiero nuovo interpretando la realtà, non
considerando più i criteri di bellezza estetica.
Il linguaggio si rifà alla moda delle maschere africane, divenendo primitivo e
violento; queste maschere sono deformate nella forma e nel colore e l’utilizzo di
colori violenti da parte degli artisti è volto a colpire nell’ intimo le emozioni
dell’osservatore. Il linguaggio è coerente con il contenuto e l’artista che lo propone
è il vero protagonista dell’arte, e diventa quindi una figura importante.

ESPRESSIONISMO:
L’ espressionismo è la prima avanguardia che nasce, e si sviluppa in due correnti,
una tedesca e una francese. La corrente tedesca prende il nome di “Die Brucke”,
titolo che è un omaggio alla filosofia di Nietzsche per il concetto di ponte che il
superuomo deve costruire per andare oltre la civiltà moderna.
DIE BRÜCKE (ESPRESSIONISMO TEDESCO):
 Ogni avanguardia ha un teorico, un manifesto e degli artisti, ovvero un gruppo
di promotori che sono i primi a fondarla. Il teorico della corrente tedesca è
Eric Heckel, mentre gli esponenti principali sono Kirchner, Nodle e Munch. Il
manifesto è datato 1906 e proclama la libertà d’azione, la volontà di
rappresentare l’impulso creativo e sottolinea l’importanza di un movimento
giovane e che combatte il vecchio, il quale arresta la creatività.
 Il linguaggio è aggressivo e propone la deformazione di forme e colore. Il
colore è fondamentale ed è simbolo dell’interiorità e non di ciò che si vede da
fuori (come lo era per Van Gogh) ed è l’elemento pittorico che si coglie per
primo. La forma non è ripresa dalla realtà, ma esprime la crudeltà e la
violenza dell’ uomo.
 L’arte diventa mezzo di denuncia sociale.

KIRCHNER
 Combatte nella prima guerra mondiale.
 I colori sono forti e violenti.
 Cinque donne sulla strada: In quest’opera è evidente la deformazione della
figura umana, i volti stessi sembrano delle maschere. Il corpo dei soggetti è
inesistente e le figure sono alte e filiformi. Non vi è modellazione plastica e le
linee sono appuntite e taglienti e insieme al tratto incisorio non
ammorbidiscono il disegno. L’espressività è trasmessa attraverso l’uso del
colore: sono utilizzate soprattutto tonalità fredde e vi è un forte contrasto
chiaroscurale tra colori complementari. La presenza del motivo della
prostitute è un richiamo alla condizione che gli artisti denunciano, ma vi è un’
evidente ambiguità se si considera che le donne indossano abiti borghesi.
 Autoritratto in divisa: L’opera nasce dopo l’esperienza al fronte che ha
profondamente segnato l’artista, il quale si descrive soprattutto nei colori. La
rappresentazione della mano mutilata simboleggia una mutilazione interiore,
mentre la descrizione degli occhi vuoti indica una mancanza di identità e un
vuoto interiore lasciati dalla guerra. Questo modo di rappresentare gli uomini
di razza ariana viene condannato dal nazismo e l’arte di Kirchner viene
definita “degenerata”.

NODLE
 Sceglie il tema della maschera e rappresenta i volti come queste.
 Fa molti viaggi e tratta spesso anche il tema dei paesaggi.
 Il suo linguaggio si basa sull’utilizzo dei colori forti, poiché pone la violenza del
colore contro quella della società, e sull’essenzialità formale che non consente
di godere della bellezza ma la mette in discussione.

FAUVES (ESPRESSIONISMO FRANCESE):


 Accentuazione del colore.
 Il tema principale è l’uomo.
 La forma è stilizzata, semplificata e bidimensionale, e viene considerata come
una semplice superficie colorata.

MATISSE
 Grande amico di Picasso, vive a lungo e ottiene grande successo in vita. Ha
una formazione con partenza divisionista
 Afferma di voler fare dei quadri che offrono un attimo di serenità per i
lavoratori e dà quindi sempre una visione pessimista e negativa della vita.
 Il linguaggio è espressivo per i colori e per la grossa linea nera utilizzata per i
contorni delle figure. Non utilizza sfumature e sviluppa una piatta stesura dei
colori così da marcare la mancanza della volontà di creare spazialità (tratto
tipico di tutto l’espressionismo)
 Utilizza una linea morbida e spesso aggiunge elementi decorativi che
anticipano l’arte liberty
 La danza: sono rappresentate cinque donne nude che danzano in cerchio
tenendosi per mano. I colori fondamentali sono tre: il blu e il verde per la
natura, il Giallo per il corpo umano; i colori creano un forte contrasto caldo-
freddo e rappresentano uno spazio della natura simbolico e assoluto (così
come era quello di Gauguin). Il nudo è sinonimo di libertà e il girotondo creato
da donne nude esprime la volontà e il piacere di chi vive all’ aria aperta, come
i popoli primitivi. E’ evidente una voglia di libertà di cui la società non
consente l’espressione.
 Armonia in rosso (tavola imbandita): rappresentazione di un interno di una
sala da pranzo, con una cameriera che sta ordinando della frutta su un vassoio
e che può apparire una metafora del pittore che sta ordinando gli oggetti da
ritrarre. Appare il tema della finestra, tipico elemento iconografico dell’arte
rinascimentale, anche se il paesaggio è privo di prospettiva e appare come se
fosse in cornice. La prospettiva è quasi assente e il piano pittorico perde
volume e assume bidimensionalità, anche se lo spazio realista non scompare
del tutto, sebbene il rosso della tovaglia si espanda nella parete di fondo
riducendo i piani prospettici ad un unico spazio. Il rosso è il colore dominante
ed appare come opprimente e in contrasto con il verde della natura. Il
linguaggio è essenziale in quanto si vuole sottolineare il contenuto dell’opera,
ovvero la volontà di ritorno alla natura. La donna è inespressiva ma appare
armonica e dolce nei gesti. È forte il motivo decorativo blu applicato nella
tovaglia e nella tappezzeria.

MUNCH :
 Non è un espressionista, ma affianca gli espressionisti della fine dell’ 800. E’
Norvegese ma studia e vive a Berlino, compiendo anche un viaggio a Parigi. Ha
una vita drammatica e perdendo la madre e la sorella afferma che il male e la
morte sono entrati nella sua casa. Si trascina questa sofferenza durante tutta
la vita e giungerà alla follia, ma come Van Gogh troverà nella pittura un modo
per scaricare l’ansia, motivo per cui la sua pittura appare come il suo diario
illustrato.
 I temi frequenti sono l’autoritratto (i tratti espressivi che parlano prima di
ansia e negatività e poi di rassegnazione sottolineano lo sviluppo della sua
personalità) e la bambina malata (che riconduce ad una situazione familiare o
a situazioni simili da lui direttamente vissute). Altri due temi sono l’amore, che
appare come insoddisfazione, ricerca e drammaticità e la morte,
inevitabilmente connessa all’amore stesso. Tema fondamentale è anche
quello della donna.
 La bambina malata: Il volto della bambina è pallido, ma pare che sia lei a
consolare la madre che è disperata. Le figure appaiono appiattite e si rifanno
alla sintesi tipica di Toulouse Lautrec. Il linguaggio è simbolista e si nota, ad
esempio, nella ripresa del colore dei capelli della bambina nella colorazione
del bicchiere.
 Madonna: Tema tipico della donna, che nonostante rappresenti la fertilità
appare quasi una Madonna. La presenza di un feto nel riquadro in basso,
indica che la sessualità è secondo Munch legata alla maternità.
 L’urlo: Rappresenta un uomo su un ponte con le mani premute sulle orecchie
nell’atto di urlare. Sullo sfondo si scorgono delle persone e delle barche; l’
opera appare come un racconto autobiografico in quanto egli racconta che
durante una passeggiata con degli amici all’improvviso il paesaggio gli appare
cambiato e sente dentro di sé un dolore fortissimo. Guardando i suoi amici si
accorge che si erano allontanati e che non si erano accorti di nulla, fatto che
gli provoca un sentimento di solitudine. Il corpo è ridotto al minimo e appare
quasi la rappresentazione del feto del dipinto Madonna. Il personaggio è
completamente deformato e si nota l’ accostamento di tratti crudi e duri tipici
dell’espressionismo tedesco con i tratti più morbidi di quello francese. I colori
hanno un forte valore espressivo ma viene abbandonata la stesura piatta di
Matisse per avvicinarsi al simbolismo tipico di Gauguin. C’è un forte
accostamento di colori caldi e freddi che crea angoscia e turbamento.
Nell’utilizzo dei colori e delle forme si nota un tipico tratto espressionista in
quanto viene dipinto ciò che l’artista sente e non ciò che vede.

CUBISMO
 Un precursore del cubismo fu Cèzanne, soprattutto con l’opera Monte Sainte-
Victoire, ma i fondatori furono Ricasso e Braque, che dettero il via a questo
movimento artistico nel 1907.
 Il cubista afferma di dipingere ciò che sa e non ciò che vede da un'unica
prospettiva. Un oggetto visto da una sola direzione non permette di essere
conosciuto interamente, per cui i cubisti mettono sulla tela tutte le
angolazioni di un oggetto o di una persona osservata. Questo principio è in
linea con le ideologie fondamentali di tutte le avanguardie, secondo cui si
deve frantumare per poi ricostruire. L’oggetto viene quindi scomposto e
ricomposto secondo schemi geometrici. L’esatta idea di una persona non si
può avere con il semplice ritratto.
 Vi sono tre tipi di cubismo: il primo periodo del cubismo viene definito
analitico e consiste nella suddivisione di tutto l’oggetto secondo modelli
geometrici. Presentava però dei problemi perché gli osservatori non capivano
quale fosse il soggetto dell’opera, per cui i cubisti cominciarono ad utilizzare
sottotitoli per spiegare le loro opere. Il secondo stadio del cubismo viene
definito sintetico e consiste in una minore suddivisione degli oggetti e
nell’utilizzo del collage per migliorare la visione. A partire da questo momento
il cubismo comincia ad avere successo (si parla degli anni 1912/1913) e si
sviluppa un terzo tipo di cubismo, definito orfico. Questo appare come un
miscuglio di espressionismo e cubismo, in quanto la figura è meno scomposta
ma vi è più eccentricità e vivacità cromatica.

PICASSO
 Nasce a Malaga ed è figlio di un famoso disegnatore. Durante la sua vita ha
un’alta produzione ed assorbe il linguaggio di tutte le avanguardie,
fondandone poi una. È stato surrealista e neoclassicista, ma ha sempre
mantenuto un’uniformità di stile. È stato un grande amico di Matisse e ha
vissuto intensamente la sua vita, condividendola con diverse donne, la
relazione con le quali è, però, sempre sfociata nella separazione. Conosce
Toulouse-Lautrec a Montmartre e riceve una forte spinta espressionista, per
cui userà il colore come forte elemento espressivo nel suo linguaggio. In
questo periodo condivide una casa con un pittore spagnolo ed il suicidio di
questo porterà grandi cambiamenti nella sua arte.
 Il tema principale che tratta è quello dell’uomo, e per questo viene definito il
Michelangelo del XX secolo.
 Conoscendo Toulouse-Lautrec incomincia il suo periodo blu, quindi dipinge
utilizzando questo colore poiché afferma che è il colore che meglio esprimeva
le sue sensazioni nel momento in cui vide l’amico morto. Durante questo
periodo utilizza forme sintetiche e sviluppa una ricerca della sintesi formale
piatta ed essenziale, ma non sviluppa un linguaggio post impressionista se non
nel tema. L’espressività delle sue opere è sostenuta soprattutto dal colore. Di
questo periodo fa parte La vita.
 Nel 1903 comincia il periodo rosa, quando ha la prima delusione d’amore e
cerca una soluzione formale nella rappresentazione di uomini poveri (segue i
circhi). La figura umana rappresentata si avvicina a quella di Matisse, ma
Picasso non stravolge completamente il corpo se non nelle proporzioni, per
cui appare più simile alla realtà. Fanno parte di questo periodo Madre con
bambino malato, Madre e figlio e Ritratto di Gertrude Stein.
 Un viaggio in Italia, dove rimane affascinato dall’arte di Raffaello, dà spunto
per il successivo periodo neoclassico, che lo porterà ad abbandonare il
cubismo. Torna all’espressività delle figure monumentali che appaiono a volte
quasi scolpite nella pietra, come nell’opera Tre donne alla fontana.
 Les demoiselles d’Avignon: I colori sono molto espressivi e forti; Picasso gioca
con i tre fondamentali, rosso blu e giallo, che appaiono però piatti e fanno sì
che il volume appaia solo nella forma. Quindi pur essendo piatte nella stesura
cromatica, le figure appaiono plastiche, a differenza di quelle di Matisse. Le
linee sono spezzate e fanno sì che le figure sembrino statue rappresentanti la
monumentalità che si trova nel periodo classico. Come i soggetti, lo stesso
spazio è frantumato e appare non unitario sia per la linea di definizione sia
per il colore. Per la rappresentazione dei volti delle donne studia le maschere
africane e addirittura uno dei soggetti viene rappresentato con il volto di una
maschera. Inserisce la natura morta. In quest’opera si nota lo studio della
linea di contorno e delle forme geometriche che compongono il corpo.
 Guernica: quest’opera fu richiesta per rappresentare a Parigi il padiglione
spagnolo e si rifà ad un episodio della guerra civile a cui Picasso si opponeva.
In quest’opera viene riassunto il percorso artistico di Picasso, la cui
caratteristica è l’eclettismo. Nella composizione, infatti, si notano tratti classici
per quanto riguarda il rapporto tra lo spazio dedicato ai due colori, ma la
scomposizione delle figure è tipicamente cubista, così com’è espressionista
l’uso dei due colori che simboleggiano la guerra. Le figure appaiono piatte e la
composizione è ricca di simboli (il toro, il cavallo e la lampada).
FUTURISMO
 Il Futurismo nasce in Italia con il manifesto del 1909 di Martinetti, ma si
ramifica presto anche in Russia. Nel manifesto c’è un invito a seguire la
modernità, per cui il Futurismo si presenta come l’unica avanguardia positiva
e che sottolinea l’importanza dello sviluppo.
 Vengono eliminati lo spazio e il tempo assoluto
 Il cinema è la novità artistica di questi anni
 Si cerca di rappresentare il movimento, che, soprattutto per Boccioni, è quello
che rimane impresso nella memoria dell’artista, per cui la sua
rappresentazione riguarda una dimensione mnemonica e interiorizzata del
movimento.

BOCCIONI
 I due temi fondamentali sono quello della donna e quello del cavallo
 I colori che usa sono forti, accesi e dai toni provocatori simili a quelli
dell’espressionismo
 La sua partenza è divisionista, così come quella della maggioranza degli artisti
Futuristi. Si nota questo in particolare nell’opera Tre donne, dove la
scomposizione della luce è tipicamente divisionista.
 La città che sale: i colori in quest’opera sono accesi e ricchi di personalità. Il
motivo del cavallo è preponderante, così come il tema del movimento, che
viene qui scomposto creando difficoltà nella lettura delle immagini, che sono
indefinite. Si nota una fusione tra ricerca dinamica, tipica del Futurismo, e
tratti espressionisti, soprattutto nell’uso dei colori.
 Materia: quest’opera rappresenta la madre di Boccioni con le mani, che sono
il centro focale dell’immagine, che appaiono ingrandite. Le braccia disegnano
un cerchio che si conclude nel volto, il quale risulta scomposto
cubisticamente. La zona superiore della tela è dominata dal paesaggio urbano,
mentre ai lati della figura si trovano un cavallo e un uomo. Quest’opera
rappresenta la tipica volontà di esprimere l’emancipazione femminile, in
quanto la donna è sì la regina del focolare ma si apre anche al mondo esterno
(è infatti seduta su un balcone o comunque vicino ad una finestra da cui si
intravede il paesaggio). I colori sono pastosi, forti e brillanti e la colorazione
delle mani richiama quella del viso, mentre il resto del corpo è scuro. Nella
creazione di Materia si nota il preponderante modello di Cèzanne, soprattutto
se si considera Madame Cèzanne nella poltrona rossa, dove il soggetto ha lo
stesso impianto, con la stessa circolarità delle braccia. Vi è anche l’influenza di
Picasso: considerando l’opera Ritratto di Daniel-Henry Kahnweiler, si notano
molte somiglianze, in particolare un’analoga impostazione delle mani (oltre
che, ovviamente, i tratti cubisti nella scomposizione del volto). Sempre le
mani, ed in particolare l’effetto di distorsione di queste, sembrano avere un
precedente iconografico nell’Autoritratto allo specchio di Parmigianino. Alle
fonti artistiche si affianca poi l’esperienza quotidiana della realtà urbana,
testimoniata dalla presenza dell’inferriata e delle ciminiere.

BALLA
 Si occupa soprattutto del concetto di movimento, affermando che noi
percepiamo il movimento come lineare grazie alla velocità con cui si
susseguono i fotogrammi di una pellicola. Ricrea l’effetto dei fotogrammi in
Dinamismo di un cane al guinzaglio.
 Crea opere in cui scompone il movimento e somma queste scomposizioni a
linee (definite linee mandamentali) che indicano il percorso della vista
dell’artista.
 Ha anche lui una partenza divisionista, come si nota nell’opera Elisa ai
giardini.

DADAISMO
 Nasce a Zurigo durante la Prima Guerra Mondiale, ma a differenza delle altre
avanguardie, si crea quando è ormai pesante il senso della disfatta.
 Il teorico del gruppo è Tzara, un poeta rumeno, ed i maggiori esponenti sono
Arp e Duchamp.
 Il nome deriva da una parola nata per caso, Dada, inteso come gioco, scherzo.
L’arte è il gioco che vuole dissacrare il passato ed il simbolo del movimento è
l’opera della Gioconda con i baffi.
 Cambia il concetto dell’artista, che non è colui che sa creare, ma che sa vedere
in modo diverso ciò che gli altri vedono quotidianamente. Ad esempio l’opera
Fontana è composta semplicemente da un orinatoio rovesciato. Si pone in
risalto la capacità di saper cogliere la novità nell’esistenza, togliendo ad ogni
oggetto la sua funzionalità per elevarlo ad oggetto artistico. L’artista è colui
che usa l’arte come mezzo per invitare a riflettere e l’arte appare come un
messaggio che va interpretato. Non ha quindi bisogno di comporre niente di
nuovo, ma basta che guardi la realtà e la legga in modo differente per creare
un’opera
 L’interesse si sposta dall’opera all’artista e al suo rapporto con l’osservatore e
crolla quindi il valore dell’opera d’arte, insieme a tutti i riferimenti del
passato.
DUCHAMP
 È un grande artista soprattutto perché anticipa l’arte e l’estetica
contemporanea in un periodo in cui erano ancora forti i richiami al figurativo.
 Interpreta perfettamente il ruolo dell’artista dada.
 Sono famose le sue opere ready made
 È il primo a creare delle installazioni, ovvero dei pensieri tradotti in forma
 Ruota di bicicletta: l’opera consiste nell’assemblaggio di una ruota di
bicicletta e di uno sgabello, che in questo insieme perdono ciascuno la sua
funzionalità. L’opera appare come una provocazione e come un avvio alla
ricerca, in quanto non vuole esprimere un messaggio dell’artista ma vuole
invitare l’osservatore a pensare. L’opera d’arte è quindi un mezzo per la
comunicazione, che non è più monodirezionale.

ASTRATTISMO (1911)
 Interpreta l’arte come il concretizzarsi di un’emozione dell’artista, che riesce a
trasmettere sensazioni all’osservatore. Nell’arte è quindi molto importante la
forte componente spirituale.
 Rielabora quindi una visione del mondo secondo cui il realismo ostacola il
processo di trasmissione dei sentimenti, poiché l’osservatore è distratto, in
quanto la sua attenzione si concentra sui particolari e non riesce a recepire il
messaggio dell’artista. Solo con il linguaggio puro dell’arte (forme e colori) si
possono suscitare sensazioni nell’osservatore.
 Associa l’arte alla musica, paragonando l’artista al musicista: le opere di
Kandinskij, infatti, prendono nomi che di solito si associano alle composizioni
musicali (le prime vengono chiamate “improvvisazioni”, le ultime
“composizioni”)
 Secondo Kandinskij bisogna ricercare i contrasti, le forme contrapposte, i vari
punti di vista, per creare sensazioni che invitano alla riflessione interiore
attraverso l’uso di colori forti e accostamenti insoliti.

KANDINSKIJ
 Nasce a Mosca nel 1886 ed ha una vita molto sofferta per ragioni personali e
politiche. Da bambino soffre per il divorzio dei genitori e, affidato alla zia, si
rifugia nelle favole russe, motivo per cui il mondo fiabesco verrà riportati nella
sua pittura. Abbandona gli studi scientifici per sviluppare il suo talento
artistico. Durante una mostra a Mosca conosce la pittura degli impressionisti,
molto diversa dalle classiche icone russe, piatte e stilizzate. Colpito da questa
mostra, comincia a sviluppare il pensiero secondo cui non sia necessario
rappresentare qualcosa di reale per trasmettere emozioni. Per ragioni sociali
si allontana dalla Russia, poiché il regime staliniano concepiva l’arte solo al
servizio del popolo e, quindi, l’artista doveva essere al servizio della causa
rivoluzionaria. A Monaco incontra Marc e fonda il “Cavaliere Azzurro” (Der
blaue Reiter), movimento che anticipa l’astrattismo. Qualche anno dopo, si
avvicina alla pittura astratta, che ritiene l’unica via per comunicare emozioni.
Comincia a creare le prime opere astratte, definite improvvisazioni, poiché
usa l’acquarello, tecnica che richiede molta velocità nella stesura. Nel 1922 è
chiamato alla Bauhaus per insegnare composizione. La sua pittura si fa
sempre meno spontanea e più calcolata e comincia a creare le prime
composizioni, principalmente con la tecnica dell’olio su tela. Con il periodo
nazista, la Bauhaus chiude e Kandinskij si trasferisce a Parigi dove, sotto
l’influenza di Matisse, crea composizioni sempre più curate, in cui guarderà
sempre meno all’aspetto emotivo e creerà complessità cromatiche che
richiedono maggior cura.
 Der Blaue Reiter: Nel periodo in cui si stava sviluppando l’espressionismo,
Kandinskij rimane colpito dai colori, che ritiene siano il mezzo più forte per
trasmettere le emozioni. Questo nuovo movimento artistico riprende l’azzurro
come colore dominante e la figura del cavaliere come richiamo al fiabesco.
 Fa degli studi sulla forma e sul colore, associando ad ogni forma un colore
diverso: il cerchio, che rappresenta l’infinito, viene associato al blu, il
quadrato, rappresentante della staticità, al rosso (ovvero il colore più
“terreno”), mentre il triangolo viene associato al giallo, a rappresentare
l’intuizione.
 Primo acquarello astratto: opera stesa quando Kandinskij faceva ancora parte
del Cavaliere Azzurro, nel 1910. Sembra quasi uno scarabocchio infantile,
l’immagine è pura, caratterizzata da diverse macchie colorate, le forme sono
guizzanti ed è evidente il contrasto dei colori caldi (rosso) e freddi (blu). È data
molta importanza alla velocità e al movimento.
 Punte nell’arco: l’opera appare più calcolata (fa giá parte delle composizioni)
ed è un olio su tela. La forma preponderante è il triangolo, ma vi sono anche
cerchi (il più grande ed evidente è associato al blu) e quadrati.

MARC
 Il sogno: uso del colore arbitrario (come aveva fatto Gauguin), immagine
completamente inventata senza richiami al tema della denuncia sociale,
ritorno al primitivo per quanto riguarda la forma, principalmente stilizzata. Il
tema è fiabesco e riprende la connessione tra l’uomo e l’animale, ma si nota
un ritorno al primitivo nella presenza del nudo.
SURREALISMO (1924)
 Ultima avanguardia, vede pubblicati due manifesti a Parigi. Il primo è del
1924, il secondo del 1929. il teorico è un poeta, Andrè Bretón, letterato
interessato alla psicanalisi di Freud, che inserirà nelle sue opere. Freud non
si interessò mai alla sua arte, in quanto aveva una diversa concezione dei
problemi mentali: per il filosofo erano malattie per cui bisognava cercare
una cura, mentre per il poeta erano caratteristica degli spiriti liberi, che
come tali non erano pazzi.
 Bretón è alla continua ricerca della libertà, tema fondamentale della
corrente surrealista. In quella società opprimente che crea problemi
all’uomo, lo spirito libero deve avere la possibilità di esprimersi e di far
uscire tutto quello che ha dentro, per cui la psicanalisi è vista come un atto
di liberazione. La voglia di libertà non consiste nella possibilità di
rappresentare la realtà, bensì ciò che si pensa e si sogna.
 La dimensione onirica caratterizza il Surrealismo, secondo cui esprimendo
nella dimensione pittorica quello che si ha dentro, che si sogna, ci si può
liberare.
 L’automatismo, ovvero l’atto di dipingere senza pensare, è necessario per
esprimere il sogno e la voglia di libertà. La ragione viene messa da parte e
l’artista deve avere uno spirito irrazionale che dipinge immediatamente ciò
che ha sognato, ciò che è parte del suo subconscio.
 Nel 1929, quando si avvicina al socialismo marxista, Bretón propone il
secondo manifesto surrealista, mostrando anche una visione sociale, che
peró non diverrá tema delle opere. Impone di aderire al movimento
comunista e fornisce forti indizi teorici, senza soffermarsi sulle regole
figurative.
 Quasi tutti i dadaisti hanno aderito al Surrealismo, probabilmente perché si
riconoscevano nella ricerca della libertà, che anche loro portavano avanti
per mezzo della libertà espressiva, e nell’importanza data all’irrazionalità.
 Ha una durata superiore a quella delle altre correnti avanguardiste (dura,
infatti, per circa vent’anni).
 La prima mostra si tiene a Parigi nel 1925 e vi partecipano Arp, Ernst, Miró,
Klee, Picasso, De Chirico e Duchamp.
 Il pittore non deve curarsi di quello che fa, rappresenta fedelmente il
sogno fatto e poi lo cura nei colori.
 All’interno del Surrealismo si riconoscono due anime: quella figurativa (di
Ernst, Magritte e Dalí) e quella non figurativa (di Miró).
 Due pratiche sono comuni tra i surrealisti: il frottage, inventata da Ernst,
che consiste nel sovrapporre il foglio ad un oggetto e far rilevare la
superficie, e la serie dei “cadaveri squisiti”, secondo cui il foglio veniva
fatto passare di mano per più artisti che disegnavano varie forme e, alla
fine, ottenevano l’opera.
 Come i dadaisti, lavorano molto anche nel campo della scultura
(soprattutto Dalí) e creano una serie di oggetti che corrispondono ai ready-
made dadaisti. Sostanzialmente, consistono nella voglia di dissacrare l’arte
e di sottolineare l’irriverenza nei confronti dei temi proposti.

L’AUTORITRATTO TRA IL XVII E IL XX SECOLO


Nel corso del XVII secolo, invece, l’autoritratto rivede l’affermarsi della propria introspezione
psicologica (il Bernini nel 1623 si ritrarrà con una espressione corrucciata e con un taglio insolito,
all’altezza delle spalle), la nascita e lo sviluppo dell’autoritratto di gruppo, il riaffermarsi
dell’autoritratto allegorico oltreché la riaffermazione dell’autoraffigurazione in chiave professionale
(Velásquez si ritrarrà in Las Meninas nel 1656 in una scenografia nobile, singolare e prodigiosamente
elaborata).

Tra gli autoritrattisti di gruppo merita di essere citato Pieter Paul Rubens (I quattro filosofi, 1611-
1612), considerato il principale esponente di questo filone.

Al pari di Dürer il Seicento vede la figura di Rembrandt, che si dedicò all’autoraffigurazione con
particolare costanza e dedizione, lasciando quarantasei opere, che condensano tutti i filoni tipici della
produzione seicentesca: le sue creazioni possono essere considerate il percorso della sua vita tanto sono
intrise di sensazioni, emozioni, pensieri. La terza fase della sua vita, quella segnata dalla morte della
moglie e successivamente del figlio, vede la manifestazione del dolore e della sofferenza emotiva nella
produzione artistica operata attraverso il disfacimento della pennellata, l’eliminazione della luminosità e
il venir meno di quella squillante precisione che caratterizzò la sua produzione giovanile.

Le ricerche di Rembrandt chiusero idealmente questo lungo periodo di sperimentazione intorno al


genere autoritrattistico che interessò i secoli XV, XVI e XVII.

Il XVIII secolo vide il ritorno dell’autoraffigurazione dell’artista come tale, così come fu per Perugino,
Pinturicchio e gli altri grandi artisti del Quattrocento: quello che ora interessa è raccontare se stessi
attraverso la propria immagine. È questo il secolo dell’Illuminismo dove la ragione ed il pensiero umano
la fanno da padrone, così come la necessaria riaffermazione del proprio io artista e studioso
(vedi Autoritratto col cane  di William Hogarth del 1745).

Il XIX secolo, invece, guardò alla riscoperta della introspezione psicologica oltre che alla
rappresentazione di sé: Courbet, per esempio, ricercò sempre la propria rivendicazione sociale, basti
pensare a L’Atelier (1854-1855), opera che rappresenta simbolicamente la storia della propria carriera di
pittore. Anche Corot, Pissarro e Monet prestarono sempre attenzione all’immagine che volevano dare di

sé e del proprio ruolo nella società.

Sul finire del secolo, col progredire degli studi di Sigmund Freud, l’introspezione psicologica si fece
sempre più profonda e drammatica: a cambiare è anche la dimensione sociale in cui gli artisti si
trovarono a vivere, non più professionisti dalla notevole caratura culturale e dal grande riconoscimento
sociale ed economico, bensì, sempre più spesso, personalità isolate in un mondo borghese da loro
giudicato ipocrita e conformista. Esempio lampante fu la produzione artistica di Vincent Van Gogh,
che fece un racconto autobiografico attraverso la rappresentazione della propria immagine. Di certo non
meno importanti furono anche Gauguin e Munch, ossessionato alla propria immagine il primo,
attento all’inconscio il secondo (l’Urlo  ne è un chiaro e forte esempio).

Il Novecento vide un graduale abbandono dell’autoritratto: sebbene la sensibilità espressionista diede


vita a raffigurazioni in cui il tormento interiore, l’alienazione sociale e il racconto della tragedia bellica
sono le vere protagoniste (ancora in linea con il secolo precedente) e il futurismo, surrealismo e Nuova
Oggettività continuino ad avvalersi in parte di questo genere, è con l’avvento dell’astrattismo che (salvo
il periodo del “ritorno all’ordine” e una nuova rinascita con la Pop Art) inizia a cessare la sua funzione
che lo aveva visto nascere, crescere e svilupparsi. Eccezioni sono le opere di Frida Kahlo, Andy
Warhol e Bacon, che non mi è possibile qui approfondire.

Con questa breve ma assai intensa carrellata sulla storia dell’autoritratto, che non vuole affatto
essere esaustiva ma spunto da cui avviare ricerche ed approfondimenti, ho voluto porre l’accento su
quanto un genere così diffuso abbia prodotto e dato vita a significati talvolta completamente diversi tra
loro, ma spesso ispirati al periodo che li ha prodotti.

La sua importanza nella contemporaneità venne meno perché la condizione umana e sociale non
sentiva più quella forte necessità della propria autoaffermazione, salda dei propri valori e della propria
posizione all’interno dell’Universo.
Oggi, forse, la crisi dei valori sociali e umani e un forte senso di smarrimento hanno riportato in auge la
necessità di una riaffermazione della propria individualità e della propria utilità per l’esistenza: se ci
pensiamo bene i nostri selfie non sono dei contemporanei autoritratti?

FISICA.
La crisi della fisica classica: la Relatività e la fisica quantistica Dalla fisica classica alla fisica moderna “È
proprio tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX secolo che alcune osservazioni sperimentali pongono in
crisi le concezioni classiche del mondo fisico: da un lato il comportamento della luce rispetto a diversi
sistemi di riferimento in moto fra loro, dall'altro i primi indizi sulla struttura granulare dell'energia emessa o
assorbita dai vari corpi sotto forma di radiazione. È nel XX secolo che questi primi quesiti, e molti altri da
essi derivati, trovano la loro risposta, gli uni nella Teoria della Relatività, gli altri nella Teoria Quantistica...”.
Con queste parole il fisico italiano, Edoardo Amaldi, nel 1955 sintetizzava gli eventi straordinari che
rivoluzionarono il pensiero scientifico nel XX secolo, segnando il passaggio dalla fisica classica alla fisica
moderna. Fisica classica Fino al 1900 la fisica classica era stata in grado di spiegare qualsiasi fenomeno
naturale basandosi su principi semplici ma fondamentali. Il più importante, su cui si fondano tutte le teorie
della fisica classica, prevede che lo spazio e il tempo siano entità assolute, ossia le medesime per tutti gli
osservatori. Considerare il tempo assoluto permette di definire una relazione di causalità, cioè di capire con
assoluta precisione come ciò che avviene prima influenzi ciò che accade dopo. Inoltre il tempo è
assolutamente disgiunto dallo spazio. Prima della formulazione della meccanica galileiana, nel XVII secolo,
lo spazio assoluto permetteva di distinguere con precisione un oggetto fermo da uno in movimento e,
inoltre, ogni oggetto possedeva una velocità ben definita. Galileo nel Dialogo sopra i due Massimi Sistemi
del Mondo (1632) introdusse un nuovo concetto di spazio (relatività galileiana), secondo il quale non è
possibile distinguere in nessun modo un oggetto fermo da uno che si muove di moto rettilineo uniforme
(moto rettilineo con velocità costante). Come conseguenza, la velocità non è più assoluta, ma esistono dei
sistemi di riferimento, detti inerziali, per i quali valgono le leggi della meccanica. Crisi della Fisica classica: la
Relatività di Einstein La relatività galileiana entrò in crisi nel XIX secolo a seguito della formulazione delle
quattro equazioni di Maxwell ad opera del fisico e matematico scozzese James Clerk Maxwell. Le equazioni
dimostrarono chiaramente come i fenomeni dell'elettricità, del magnetismo e la luce che, fin ad allora,
venivano trattati separatamente, fossero la manifestazione di un'unica grandezza: il campo
elettromagnetico. Dall'analisi delle equazioni, Maxwell potè evincere un risultato fondamentale: la luce si
muove a una velocità fissa, indicata con la lettera c. Il risultato era importantissimo e, soprattutto, in
contrasto con quanto prescritto dalla relatività galileiana. Si affermava che la velocità della luce è assoluta.
Per lungo tempo si cercò di salvare il principio galileiano, cercando di dimostrare che esisteva un particolare
sistema di riferimento inerziale, per il quale valevano le equazioni di Maxwell. Insomma un modo per
salvare capre e cavoli! Einstein risolse la disputa nella Teoria della Relatività Ristretta formulata nel 1905,
nella quale si afferma definitivamente che il tempo e lo spazio non sono assoluti e sono intrinsecamente
legati a formare uno spazio-tempo a quattro dimensioni. Einstein sostituì le trasformazioni di Galileo, le
equazioni che permettevano di calcolare lo spazio, il tempo e la velocità a seconda dell'osservatore, con le
trasformazioni di Lorentz. Einstein stabilì definitivamente che la velocità della luce nel vuoto è la stessa per
tutti gli osservatori, indipendentemente se essi siano fermi o in moto rispetto alla sorgente.

PDF SULLA FISICA MODERNA!


INGLESE.
James Joyce - Life and thought

He was born in Dublin in 1882. He studied French, Italian and German and English
litterature. He took ispiration from Dante, D'Annunzio and Ibsen. He thinks about
himself like an European man, and goes against Yeats, saing that to increase Ireland's
awareness is necessary to offer a realistic portait of it's situation.
He left Ireland to go to Italy because he feared that he is not immune from the soul of
paralysis of his country. The years in Italy were difficult because of his daughter's
schizophrenia and his financial problems.
In that period he wrote "Dubliners" and after he moved to Zurich. Dubliners and "The
Portate" helped him to became a famous writer. In 1917 he wrote "Ulysses". In 1923
he began to work on Finnegans Wake. 
Dublin is the place where he set all his works, infact Joyce's mission is to give to his
home-town literary importance. He want to give a realistic vision of the life of ordinary
people.
He made a rebellion against church. His hostility is the revolt of artist heretic against
official doctrine and against the provincial church which had the possession of Irish
minds. 
Joyce was a modernist writer, he use a new way of writing. The facts became confuses
and they were explored by different point of view. The reality for Joyce stood in what
all the subjective descriptions have in common.
Joyce's stories open in medias res, with the analysis of a particular moment. Time is
not percieved as objective but as subjective, leading to psycological change. The
description of Dublin infact, is not derived by external reality, but from character
toughts.
Joyce belived in the impersonality of the artist like Eliot, Baudelaire, Flaubert. Infact
the artist aim is to give a true image of reality and to do this necessary to isolate the
artist from society.
His style is charaterized by the exploration of characters impressions by the use of the
free direct speech and Epiphany, by interior monologue.
Interior monologue is a tecnique in which the language breaks down into a succession
of words without puntuation or grammar connetions, in which the action takes places
in the characters mind.
Joyce uses also the technique of the extreme interior monologue. The narration take
place inside the mind of the charater while he is dreaming. The words and the free
associations are fused to create new expression.

PAROLE CHIAVE: 
Paralisys: is the result of external forces and moral linked to religion and culture.
Joyce's characters accept their condition and their are not able to escape.
Escape: is the opposite of paralisys. It is originated from an impulse that is caused by a
sense of enclosure.

Dubliners

(a collection of short stories)


The stories are arranged in four groups, dealing with childhood, adolescence, maturity and
public life.
The last one, The Dead, represents a kind of epilogue, where the author suggests the
necessity for the artist to leave Ireland to escape paralysis.

Plots

The stories deal with meaningful moments of the life of ordinary characters.

Characters

They are common people who share the inability to have successful human relationships and
to change their life.

Narrator

Third person unobtrusive and impersonal.


Setting

Dublin: the description of the town and of internal settings is even over-realistic in its
abundance of details, but these details are often symbolical.

Themes

•Paralysis: the characters are psychologically paralyzed, due to external forces, like religion,
politics and culture, or internal ones, like family ties they have not the courage to break or
sexual desires they have not the courage to admit.
•Epiphany: due to a trivial event, the characters suddenly realize something about themselves
they had never realized before.
•Failure of finding a way out of paralysis: even after epiphany takes place, the characters do
not manage to change their life.

Narrative technique and language

Stories are told from the point of view of the characters. Indirect interior monologue is
employed: the author tries to reproduce the train of thoughts of the characters without the
mediation of the narrator. Language is carefully adapted to the characters’ age and social
class (see also: Verga).

Joyce, James - The Dead

Appunto di letteratura inglese sulla vita e le opere di James


Joyce. Analisi, tematiche e breve riassunto di The Dead, facente
parte di Dubliners

 di Langello
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James Joyce was born in Dublin in 1882 into a middle class Catholic family. 
Joyce went to two Jesuit schools, study modern languages at University College where he
graduated.
Finding life in Ireland an obstacle to his own artistic development, he travel in Europe
Joyce was considered one of the prophets of Modernism. He died in 1941.

The relationship between Joyce and Ireland was complex. He seems to have rejected
everything that was Irish, but all of Joyce’s works are centred on Ireland and on Dublin.
His self-imposed exile give him the objectivity he needed to write about Ireland with the
necessary emotional and intellectual detachment. 
The Dead

It is the last and longest story of Dubliners and it is the climax to all the other stories. 
In is set during the Christmas party organized by Morkan sisters: the central character of The
Dead, Gabriel, is the last representative of all failed Dubliners
At the end of this story we can see one of the best examples of what Joyce means by
epiphany: when the song heard by Gretta, Gabriel’s wife, suddenly brings up half-forgotten
memories in her mind.
In the passage we read Gretta reveals to Gabriel that when she heard a song she
remembered a boy she used to know long ago. The revelation is not sudden but gradual. That
boy, Michael Fury died for her love. 
Once his wife is asleep Gabriel reflects on how poor a part he has played in her life, realizes
he has never really know his wife and feels his own pettiness. 
In the end he abandons his jealousy frustrations and regrets and feels elevated to the world
of the spirit, the region of the dead, symbolically represented by the snow that is falling all
over Ireland, uniting the living and the dead.

J.JOYCE’S PARALYSIS AND EPIPHANY


di Rob

Paralysis
The author had an ambivalent attitude towards Dublin that he chose to leave: on the one hand he was disgu
stagnation, on the other hand he admired its dignity, humanity and culture.
Dublin became his own microcosm, the centre of paralysis and was also chosen as  the setting of all his boo
western civilization and modern life.
Paralysis also characterises some of Joyce’s characters   (in “Dubliners”) and it represents the stillness, the mon
 
Epiphany
Joyce gave this definition of epiphany through the words of Stephen Dedalus:
“By an epiphany he meant a sudden spiritual manifestation, whether in the vulgarity of speech or of gestur
believed that it was for the man of letters to record these epiphanies with extreme care, seeing that they th
moments.”
 
Epiphany literally means ‘manifestation’ or showing as in the showing of the Christ child to the Magi. In Joy
simple object or fact, an ordinart situation flash out with meaning and make a person realize his/ her usually mi
STORIA.
Il Primo dopoguerra nel mondo

La Prima Guerra Mondiale aveva prodotto ovunque trasformazioni


enormi, anche per via delle mutate condizioni geopolitiche imposte dai
trattati di pace.

Il dopoguerra dei vinti

I Paesi sconfitti vissero in quel tempo situazioni difficili. L’ex Impero


asburgico affrontò conflitti politici che portarono l’Austria ad un governo
repubblicano, d’ispirazione cristiano-sociale, e l’Ungheria al regime
autoritario dell’ammiraglio Miklòs Horty.

L’Impero ottomano, ridotto ad un’estensione territoriale più che mai


modesta, covava al suo interno profonde spaccature, tra cui si fece largo
la pressante richiesta di democratizzazione del Partito dei Giovani
turchi di Mustafà Kemal. Grazie all’azione di Kemal (poi detto Atatürk,
“padre dei turchi”) la Turchia arrivò alla Repubblica nel 1922.

Ma fu la Germania ad affrontare la situazione tra tutte più difficile.


All’abdicazione del Kaiser era seguita la nascita di una repubblica
estremamente fragile, per via dei rapporti conflittuali che dividevano gli
schieramenti politici del tempo. L’instabilità della nuova istituzione,
detta Repubblica di Weimar (dal nome del luogo ove ne fu redatta la
Costituzione), condusse presto ad una grave crisi economica, che
inabilitò il Paese al pagamento degli ingenti debiti di guerra. L’incapacità
del Governo di risollevare la situazione favorì la crescita di nuovi
movimenti estremisti, inerenti al comunismo o al nazionalismo. Le forze
di quest’ultima fede politica trovarono guida e organizzazione grazie alla
fondazione del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi
(NSDAP) ad opera di Adolf Hitler (1889-1945). Questi tentò
un’insurrezione a Monaco nel 1923, ma fallì e fu incarcerato. Durante la
breve prigionia Hitler raccolse i fondamenti dell’ideologia nazista nel testo
intitolato Mein Kampf (“La mia lotta”). In seguito al suo tentativo
d’insurrezione la Germania ritrovò stabilità politica con il governo
democratico di Gustav Stresemann e si riprese economicamente grazie
agli aiuti offerti dagli Stati Uniti.

Il dopoguerra dei vincitori

Il dopoguerra nei Paesi vincitori del primo conflitto mondiale fu


decisamente migliore.

Francia e Gran Bretagna godevano di condizioni politiche nel complesso


stabili ed erano proiettate verso l’accrescimento del proprio potere.
Nonostante l’istituzione del Commonwealth, una rete di rapporti
privilegiati che univa la Corona inglese ai suoi principali dominions,
iniziavano a manifestarsi le avvisaglie della crisi che avrebbe coinvolto il
sistema coloniale, minato dal sentimento indipendentista dei popoli
controllati.

Nel Medio Oriente, strappato all’ex Impero ottomano, si verificarono i


primi contrasti. Francia e Gran Bretagna governavano l’area in virtù
di mandati temporanei, assegnati loro al termine della guerra. Di fatto ne
approfittarono per realizzare nuove colonie indipendenti di cui
mantenevano la tutela economica. Così nacquero i regni
d’Iraq, Transgiordania e Arabia Saudita. Tuttavia, la politica europea nel
determinare i territori dei nuovi stati trascurava le ambizioni
nazionalistiche di ebrei e arabi. Tra le due etnie nacquero perciò forti
contrasti, particolarmente legati alla contesa della Palestina, che
portarono a scontri e ad azioni terroristiche.

Anche nell’area indocinese il sistema coloniale vacillava. Gli inglesi, che


controllavano l’India, ne avevano disatteso le aspettative al termine della
Prima Guerra Mondiale, e i movimenti indipendentisti avevano ripreso la
lotta per l’autogoverno. Tali forze, diverse per idee e appartenenza etnico-
religiosa, trovarono una guida comune in Mohandas Karamchand
Gandhi (detto Mahatma, “grande anima”). Questi conduceva una guerra
non violenta per l’indipendenza, le cui armi principali erano il
boicottaggio delle merci inglesi, le manifestazioni pacifiche e la resistenza
passiva. Con Gandhi l’India intraprese un lento cammino verso la
liberazione dal dominio britannico.

Il dopoguerra nel resto del mondo

In tutte le maggiori colonie del mondo (anche francesi) la repressione era


la risposta più diffusa all’azione dei movimenti nazionalisti. Per questo si
tenne a Baku (Azerbaigian) il Primo Congresso dei Popoli Oppressi
dell’Oriente contro l’imperialismo occidentale. L’evento subì l’influenza
del Comintern - l’organizzazione internazionale comunista istituita in
Russia per esportare gli ideali della rivoluzione bolscevica - e di fatto
contribuì a diffonderne il pensiero.

La Cina fu il primo paese in cui il comunismo sovietico ebbe la possibilità


di imporsi.
Al crollo dell’istituzione millenaria del Celeste impero era seguita una
Repubblica, fortemente insidiata dagli interessi egemonici del Giappone.
Il nuovo presidente strinse per questo stretti rapporti con l’Unione
sovietica, e ciò ispirò Mao Zedong (o Tse-Tung) nella fondazione
del Partito Comunista cinese. Inizialmente il partito di Mao appoggiò
l’azione del Governo, ma nel corso dei conflitti contro il Giappone finì per
opporvisi. Le forze repubblicane, infatti, temevano la crescita dei
comunisti e avevano avviato una severa campagna contro di loro. Per
sfuggire alla repressione Mao dovette condurre i suoi nella
cosiddetta Lunga marcia (una fuga di oltre 10.000 km attraverso
l’immenso paese), acquisendo con ciò popolarità e rimandando soltanto
lo scontro finale per il potere.

Gli Stati Uniti e la “Grande depressione” (1929-1932)

Tra tutti i Paesi che avevano preso parte alla Prima Guerra Mondiale
gli Stati Uniti erano il solo ad aver ottenuto vantaggi economici. Furono
determinanti gli investimenti operati dagli americani in Europa per
contribuire al processo di ricostruzione di molti Paesi in crisi. Nel primo
decennio postbellico gli Stati Uniti incrementarono la propria produzione
del 50% e raccolsero grandi profitti.

Tuttavia la situazione mutò quando l’Europa si riprese dal contraccolpo


della guerra. Gli Stati Uniti dovettero chiudere i mercati nel Vecchio
Continente e si ritrovarono con un tasso di produzione di gran lunga
superiore al proprio fabbisogno. L’economia americana subì
un’involuzione tra le più gravi nella storia del mondo occidentale,
denominata “Grande depressione”: i profitti s’interruppero, la Borsa
di Wall Street crollò e le ripercussioni di tali eventi si protrassero a lungo
nei mercati nazionali e internazionali.

Quando, nel 1932, si tennero le elezioni presidenziali, il Governo


repubblicano di H.C. Hoover non aveva saputo affrontare l’emergenza. Fu
eletto presidente il democratico Franklin Delano Roosvelt, che propose
un piano sanatorio chiamato New Deal (“nuovo corso”). Con Roosvelt il
Paese iniziò una graduale ripresa.

Parallelamente, in quegli anni, gli Stati Uniti erano impegnati


nell’estensione del proprio potere economico in America Latina. Già
dopo la guerra gli americani avevano avviato una politica di
penetrazione economica, detta “diplomazia del dollaro”, finalizzata ad
investire sulla notevole quantità di risorse dell’area meridionale del
continente. Mantenevano la propria influenza economica attraverso il
pagamento di ingenti prestiti a sostegno di sistemi politici, spesso
dittatoriali, che s’impegnavano a tutelare i loro interessi.

L'Italia nel dopoguerra

In Italia, il dopoguerra fu caratterizzato da una profonda crisi che ebbe


decisive conseguenze sulla vita futura dello Stato. Nel conflitto il Paese
aveva subito pesanti perdite umane (più di 600.000 morti) e gravi danni
materiali. La situazione dell’economia era allarmante: la lira si era
fortemente svalutata, il costo della vita era aumentato in modo
vertiginoso e l’apparato produttivo non era in grado di assorbire la
manodopera di nuovo a disposizione con il ritorno dei soldati dal fronte.
Vi era poi il grosso problema della riconversione dell’industria bellica
(l’unica che aveva conosciuto vantaggi nel periodo 1915 – 1918) a
produzioni adeguate a tempi di pace. In questa difficile situazione si
inserivano anche forti tensioni di tipo sociale: il periodo 1919 – 1920 (il
cosiddetto biennio rosso) fu infatti caratterizzato da una lunga serie di
agitazioni e scioperi. I lavoratori dell’industria (coordinati dalle
organizzazioni sindacali), che si erano mobilitati chiedendo un
miglioramento globale delle loro condizioni, ottennero importanti
conquiste, come la diminuzione dell’orario settimanale a paghe invariate.
Entrarono in agitazione anche i contadini, che chiedevano le terre
promesse dal governo durante la guerra e che, nel Meridione, usarono
come strumento di lotta l’occupazione delle terre dei latifondi. Il
momento culminante di questo periodo si ebbe però senza dubbio nel
settembre 1920, quando in tutta Italia gli operai misero in atto
l’occupazione delle fabbriche. Era questa la risposta dei sindacati alla
“serrata” imposta dagli industriali di fronte alle rivendicazioni salariali e a
uno sciopero indetto dai lavoratori e, nel suo complesso, un vero e
proprio atto di sfida nei confronti del padronato.
L’agitazione, grazie anche alla posizione tollerante assunta da Giolitti,
ritornato in quel periodo alla guida del governo, si concluse con un lieve
aumento salariale per gli operai ma con una loro sostanziale sconfitta. La
vicenda finì, infatti, per indebolirne il movimento: da un lato perché era
emersa l’impossibilità, da parte dei lavoratori, di dar vita a una rivoluzione
sul modello sovietico; dall’altro perché gli industriali avevano assunto un
atteggiamento di chiusura che col passare del tempo si sarebbe fatto
sempre più rigido. D’altro canto anche i ceti medi (artigiani, commercianti,
impiegati…) mostravano chiari segni di inquietudine: preoccupati dalle
agitazioni dei “rossi”, impoveriti dal crescere dell’inflazione (che ne aveva
eroso i risparmi), costretti, dopo aver occupato posti di rilievo
nell’esercito, al grigiore della vita quotidiana, avevano accumulato una
forte dose di frustrazione e rancore verso lo Stato. Essi divennero
pertanto una facile esca per le proteste dei nazionalisti, rivolte in
particolare contro la cosiddetta vittoria mutilata, cioè i trattati di pace che
avevano negato all’Italia la Dalmazia e Fiume. Queste proteste erano
culminate nell’occupazione della stessa Fiume (settembre 1919) da parte
di volontari guidati da Gabriele d’annunzio, scrittore e uomo politico
nazionalista che si era distinto anche come uno dei maggiori protagonisti
dell’interventismo. Con il Trattato di Rapallo (12 settembre 1920), firmato
da Giolitti con la Iugoslavia, Fiume fu poi dichiarata “città libera”, e
l’esercito italiano allontanò con poca fatica le truppe dannunziane. Si era
trattato tuttavia di un segnale allarmante per il governo, dimostratosi
incapace di rispondere in modo adeguato a un autentico atto di forza
come quello compiuto da D’annunzio.
Nel difficile contesto del dopoguerra italiano anche il sistema politico
mostrò segni di fragilità. Ciò che emerse in modo evidente fu soprattutto
l’inadeguatezza della vecchia classe dirigente di stampo liberale ad
affrontare la nuova situazione, determinata dalla progressiva crescita dei
partiti di massa. Fra questi si pose subito in evidenza un nuovo
organismo, il Partito popolare italiano, nato nel 1919 e guidato da don
Luigi Sturzo. I popolari si proponevano come partito di centro, di
ispirazione cattolica, moderato ma con importanti agganci con il
sindacalismo “bianco” diffuso soprattutto nelle campagne. Essi si
ponevano dunque come alternativa agli stessi liberali oltre che,
naturalmente, ai socialisti. Questi ultimi, che pure avevano conosciuto
una forte crescita di consensi, erano indeboliti dal contrasto interno fra la
corrente riformista (moderata) e i massimalisti, che continuavano invece
a sostenere l’obiettivo della rivoluzione. Questo contrasto avrebbe
portato, nel 1921, alla scissione dell’ala di estrema sinistra e alla nascita
del Partito comunista italiano. La più chiara testimonianza dei
cambiamenti in atto nella vita politica italiana fu comunque data dalle
elezioni del 1919, svoltesi secondo il sistema “proporzionale”. I socialisti
ottennero il 32,4% dei voti e i popolari il 20,6% complessivamente più
della metà dei seggi della Camera dei Deputati. Ciò significava una
difficoltà sempre maggior nel creare governi solidi. L’unica coalizione
possibile era infatti quella fra i liberali e i popolari, poiché i socialisti
rifiutavano qualsiasi forma di collaborazione con i partiti “borghesi”. In
queste stesse elezioni comparve per la prima volta un’organizzazione, i
Fasci italiani di combattimento, fondati da Benito Mussolini nell’aprile del
1919, che assunse ben presto caratteristiche fortemente
antidemocratiche.

L DOPOGUERRA IN ITALIA E L’AVVENTO DEL FASCISMO

Crisi economica e sociale


L’Italia era uscita vittoriosa dalla prima guerra mondiale, ma il paese
emergeva dal conflitto abbattuto economicamente e moralmente. Così la
società italiana visse un periodo di forti tensioni sociali e politiche.
Alcuni elementi di questa crisi furono comuni a tutta l’Europa postbellica.
Le industri dovevano riconvertirsi ad una produzione per i tempi di pace,
poiché era stata trasforma-ta in industria bellica, ma il mercato interno
non era in grado di stimolare la crescita dei consumi. Aumentò così la
disoccupazione e successivamente, tra il giugno e luglio del 1919,
l’inflazione, che scatenò molte proteste e una serie di tumulti non sempre
controllati. La guerra aveva causato anche una diminuzione della
produzione agricola ed infine il deficit dello stato salì a dismisura.
Altri elementi della crisi postbellica furono la conflittualità permanente
delle campagne. Nel centro-sud si ebbe nell’autunno del 1919 un assalto
al latifondo che portò all’occupazione delle terre incolte da parte dei
contadini poveri, ex-combattenti a cui era stato promessa la concessione
del suolo nel momento di massimo sforzo bellico. Il movimento da un
lato animò le forze democratiche e radicali, dall’altro il movimento
fascista.
Al centro-nord la struttura economico-produttiva del mondo agricolo era
da tempo incentrata sulla mezzadria e sulla piccola proprietà. Queste
forme di conduzione agricola trovavano la loro rappresentanza sindacale
soprattutto nelle organizzazioni cattoliche, le cosiddette leghe bianche.
Nella bassa Padana prevaleva invece il bracciantato del grande affitto
capitalistico, e dominavano le leghe rosse, organizzazioni sindacali
socialiste. I cattolici avevano come obiettivo quello di dare terra ai
contadini, favorendo la distribuzione dell’azienda a coltivazione diretta,
per i socialisti l’obiettivo era la socializzazione della terra, che i contadini
avrebbero gestito in comune.
Tra il 1919 e 1920, campagne e città furono attraversate da uno scontro
sociale tanto intenso che questo periodo fu chiamato biennio rosso.
Dal 1913 a 1919 vi furono più di un milione di scioperi e quasi 2 milioni
l’anno successivo. Culmine di questa sequenza di scioperi fu l’occupazione
delle fabbriche nel settembre del 1920, promossa dalla Fiom( federazione
degli operai metallurgici). Fu allora che sorsero i Consigli di fabbrica,
organismi interni eletti dai lavoratori e modellati sull’esempio sovietico,
che trovarono ispirazione nel gruppo torinese Ordine Nuovo, periodico
marxista fondato da Gramsci, Tasca, Togliatti. Essi animavano l’ala
rivoluzionaria del Partito socialista.
Al governo vi era Giovanni Giolitti dal giugno del 1920, ed egli operò come
ai tempi dello sciopero del 1904, facendo non intervenire l’esercito. Gli
industriali vedevano con grande preoccupazione il governo piegarsi alle
richieste popolari e temevano che il movimento socialista potesse trovare
uno sbocco rivoluzionario.
Crisi istituzionale: partiti di massa e governabilità
Sotto il profilo politico-istituzionale furono due i fattori che portarono alla
crisi del sistema liberale:
• l’affermazione dei partiti di massa
• l’introduzione del sistema elettorale proporzionale
Agli operai mandati sul fronte erano state fatte larghe promesse. La
piccola e media borghesia aveva visto incrementare il proprio status e
lottava per difendere i propri interessi. Le donne, che avevano sostituito
gli uomini in fabbrica durante la guerra, erano state promosse
socialmente e non accettavano il rientro nelle mura domestiche. Tutto ciò
determinò il declino dei singoli uomini politici e l’affermazione dei
moderni partiti di massa.
Venne poi abbandonato il sistema elettorale maggioritario, sostituito da
un sistema proporzionale, fondato sul voto di lista.
Le elezioni del 16 novembre 1919 si svolsero con il sistema proporzionale.
Trionfarono il Partito Socialista Italiano e il Partito Popolare Italiano,
fondato da Luigi Sturzo nel gennaio 1919. Quest’ultimo difendeva i ceti
deboli e l centro del suo programma vi erano la riforma agraria, la riforma
fiscale e la legislazione sociale.
I partiti emergenti diventavano decisivi per costruire possibili alleanze di
governo, ma i loro pro-grammi erano inconciliabili. Nessun partito
deteneva la maggioranza poiché i socialisti non erano disponibili ad alcun
accordo con altri partiti.
Le vecchie formazioni liberali si trovarono così in mano il governo del
paese. Dimessosi Vittorio Emanuele Orlando, fu presidente del consiglio
Nitti che mantenne il governo fino al giugno 1920 e fu seguito da
Giovanni Giolitti che rimase in carica fino al luglio 1921.

I fasci italiani di combattimento.


Nell’autunno del 1920 il riflusso del movimento operaio si accompagnò a
una controffensiva della classe imprenditoriale che voleva porre fino al
lungo periodo di instabilità sociale. Lo stesso avvenne nelle campagne
dove i proprietari agrari intendevano arginare le invasioni di terre
Il movimento dei Fasci italiani di combattimento nacque il 23 marzo 1919
a Milano, fondato da Benito Mussolini, che pensava di tradurre in
movimento politico l’esperienza interventista. Da principio il movimento
fu composto in prevalenza da ex-combattenti e basò il suo consenso sul
risentimento di questi per il difficile reinserimento nella vita civile e sul
diffuso disagio dei ceti medi, che non trovavano nelle forze presenti in
Parlamento rappresentanti adeguati.
Il programma dei Fasci era un programma eterogeneo, che mirava
all’interclassismo teso a drenare l’insoddisfazione sociale e trasformala in
voto.
I fasci italiani di combattimento parteciparono con scarsissimo successo
alle elezioni del 1919. Mussolini decise dunque di orientare la propria
formazione politica a destra, in senso antisocialista e antipopolare. Operò
sul piano legale della politica parlamentare e su quello illegale della
violenza extraparlamentare, sfruttando le debolezze di un sistema e si un
ceto politico in crisi profonda. I fasci italiani di combattimento si
organizzarono secondo una struttura paramilitare, sotto la guida di capi
chiamati ras. Praticarono la strada dell’azione violenta contro sinistra e
opposizioni. Si salda-rono l’ambizione politica di Mussolini e la paura
rivoluzionaria della borghesia urbana e dei proprietari rurali che trovò
sfogo e protezione presso le camicie nere. E i Fasci nel 1920 tornarono ala
ribalta.
Si consolidò presto anche la pratica dello squadrismo: gruppi di fascisti
armati che compivano spedizioni punitive nelle città. Questi gruppi
trovarono appoggio nella magistratura e nelle forze dell’ordine e
trovarono sostegno economico negli industriali e proprietari rurali.
Il fascismo acquistò presto una forte connotazione agraria,
conquistandosi l’adesione anche di chi trovava il mercato monopolizzato
dalle leghe socialiste. Ad esse si rispose con l’intimidazione e la violenza.

1921-1922: da Giolitti a Facta


Fu Giovanni Giolitti a cercare di strumentalizzare la violenza fascista, al
fine di indebolire l’opposizione socialista e cattolica. Lo scopo era
garantire la stabilità mancata ai ministeri degli ultimi anni e la
governabilità del paese.
Nelle elezioni del maggio 1921 per la nuova Camera dei deputati, sciolta
in precedenza su iniziativa dello stesso Giolitti nella speranza di ottenere
una maggioranza parlamentare più forte, il blocco nazionale, formato da
liberali e i loro alleati, ebbe 275 seggi (che comprendevano anche i 10 dei
nazionalisti e i 35 fascisti, che erano stati legittimati dalla classe dirigente
al potere). Questo tuttavia non bastò a Giolitti per avere pieno controllo
del Parlamento e così si dimise.
Le elezioni del maggio videro anche l’esordio del Partito comunista
d’Italia(Pcdi), nato dal Psi a seguito della scissione filo bolscevica di
Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga. Dopo il fallimento del’’occupazione
delle fabbriche e fedele alle condizioni dettate da Lenin per l’adesione alla
Terza Internazionale, la sinistra del Psi chiedeva l’espulsione dei riformisti
dal partito, l’assunzione della denominazione «comunista» e la
preparazione allo scontro contro il sistema capitalistico. L’ala comunista si
trovava però in posizione minoritaria, contrastata non solo dai Riformisti
di Filippo Turati ma anche dai massimalisti di Giacinto Menotti Serrati.
Il gruppo di Gramsci e Bordiga decise allora di uscire dal partito.
Conseguenza immediata fu l’indebolimento della sinistra italiana.
Nel frattempo il movimento di Mussolini guadagnava consensi fino a
rivaleggiare apertamente con il Psi, contando per di più un seguito
interclassista in cui prevalevano piccola e media borghesia e le
generazioni più giovani.
A Giolitti, dopo che si fu dimesso, seguì Ivanoe Bonomi, che mediò tra il
Psi, in difficoltà, e il fa-scismo in crescita. Venne così firmato il 3 agosto un
patto di pacificazione tra socialisti, Cgdl e fa-scisti. Il patto mise però
Mussolini in difficoltà presso l’estate intransigente del fascismo
capeggiata da ras come Farinacci e Grandi. Per evitare una spaccatura
interna Mussolini affidò la decisione di applicare il patto ai singoli Fasci
locali e propose ai suoi avversari di archiviare il patto se avessero
riconosciuto il movimento dei Fasci italiani di combattimento in un vero e
proprio partito. Così a Roma nel novembre 1921 i fasci italiani di
combattimento si trasformarono nel Partito nazionale fascista di cui
Mussolini era il leader indiscusso.
Nel febbraio del 1922 cadde anche il governo Bonomi e ad esso subentrò
Luigi Facta. Nell’intento fascista di subentrare al potere la violenza
squadrista aumentò. In tale situazione la proclamazione di uno sciopero
generale legalitario promosso dai socialisti riformisti, conferì al fascismo
una nuova spinta e il ruolo di garante dell’ordine. Lo sciopero fallì e il Psi
si lacerò ulteriormente e così i primi di ottobre del 1922 l’ala riformista
guidata da Turati e Matteotti costituì il Partito socialista unita-rio (Psu).

La marcia su Roma e il «governo autoritario» 


La classe dirigente chiedeva la formazione di un governo autorevole e
Mussolini seppe presentarsi come l’uomo giusto. Sul fine di agosto il Pnf
si dotò di un programma economico-finanziario di impronta liberista. Le
camicie nere vennero presentate come alleati dei militari e l’antica
preferenza repubblicana fu allontanata per evitare ogni dissidio con il re e
i sostenitori della monarchia. 
Mussolini affidò ad un quadrunvirato un’azione di forza dimostrativa.
Essa prevedeva per il 28 ottobre la mobilitazione e l’accentramento verso
Roma di numerose squadre fasciste provenienti da varie parti d’Italia.
Tutto faceva temere un colpo di stato mail vero obiettivo della marcia su
Roma vide infine l’azione risolversi in uno strumento di pressione su
Vittorio Emanuele III, perché desse a Mussolini l’incarico di formare il
governo.
Facta, benché dimissionario, fece affiggere sui muri di Roma la proclama
di stato d’assedio, che conferiva pieni poteri all’esercito. Ma era
necessaria la firma da parte del re.
Vittorio Emanuele III si rifiutò poiché era convinto che non vi fossero
alternative valide all’ipotesi di un nuovo governo guidato da Mussolini.
Mussolini il 30 ottobre lasciò Milano e si recò a Roma dove il re gli conferì
di formare un nuovo governo di coalizione. Della nuova compagine di
governo facevano parte i fascisti ma anche nazionalisti, liberali e popolari.
Vi furono anche dei tecnici: Armando Diaz (alla Guerra), Paolo Thaon de
Revel (alla Marina), Giovanni Gentile all’Istruzione. Quest’ultimo si
iscriveva al Pnf diventando uno dei maggiori ideologi del nascente
regime.
Dopo aver ottenuto la fiducia del parlamento Mussolini poteva affermare
di aver realizzato il proprio obiettivo: la conquista del potere.
Cominciò così quel mutamento delle istituzioni che entro il 1926 avrebbe
trasformato l’Italia in una dittatura. Il governo di Mussolini godeva di
un’ampia maggioranza parlamentare e poteva dedicarsi a ristabilire la
pace sociale e l’autorità dello Stato. Fu approvata una serie di modifiche
legislative che apriva la strada alla monopolizzazione del potere dal parte
del partito di Mussolini.
Nel dicembre del 1922 nacque il Gran Consiglio del fascismo che avrebbe
dovuto stabilire un più stretto nesso operativo tra partito e governo e che
in realtà limitava l’autonomia di quest’ultimo e del Parlamento. Nel
gennaio del 1923 sorse la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale
(Mvsn), destinata ad inquadrare tutte le forze paramilitari che avevano
composto lo squadrismo fascista. Le creazione della Mvsn rappresentava
un passo decisivo verso la legalizzazione dell’esercito privato del partito.
Infine venne affidata a Giacomo Acerbo la riforma del sistema elettorale.
Tale legge prevedeva l’introduzione di un forte premio di maggioranza: la
lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti otteneva i due tersi dei
seggi alla Camera dei Deputati. La legge fu approvata nel novembre 1923.

Dall’assassinio di Matteotti alle «leggi fascistissime»


La campagna elettorale fu segnata da intimidazioni e violenze contro tutti
gli oppositori. Numerosi furono i brogli segnalati nel giorno del voto. Il 6
aprile 1924 il partito di Mussolini ottenne il 65% dei voti e 374 seggi.
Durante la ratifica parlamentare del voto, il segretario del Psu, Giacomo
Matteotti, denunciò con un discorso alla camera il clima di violenza
instaurato dal fascismo prima e durante le elezione e ne contestò l’esito.
Pochi giorni dopo. Il 10 giugno 1924 il parlamentare socialista venne
rapito e assassinato. Dell’omicidio venne accusata una squadra di fascisti
convinti di interpretare la volontà di Mussolini. Il corpo della vittima fu
ritrovato solo il 16 agosto alle porte di Roma, ma già all’indomani del
rapimento il governo fu sottoposto a dure critiche e deplorazioni.
Dopo il rapimento di Matteotti gli alleati isolarono Mussolini le
opposizioni decisero di non rientrare in Parlamento per protesta finché
non fosse stata ripristinata la legalità e sciolta la Milizia e ri-chiamandosi
alla secessione dei plebei sul colle Aventino nell’antica Roma. I mesi
passarono e Vittorio Emanuele III non intervenne e la protesta
istituzionale nei confronti del fascismo di spense.
Intanto nel pese si erano riaccesi gli scontri tra gli squadristi e le superstiti
formazioni antifasciste. Proprio dai ranghi della Milizia venne il sostegno
extraparlamentare che dette a Mussolini la forza di presentarsi alla
Camera alla ripresa dei lavori il 3 gennaio 1925 e assumersi la
responsabilità morale e politica dell’assassinio di Matteotti.
Si trattava di una dichiarazione di guerra alle opposizioni. Nei giorni
successivi al discorso, i circoli e le sedi dei partiti di opposizione furono
attaccati e ogni dissenso represso. Vennero seguite da nuove dimissioni
di liberali e il loro posto fu occupato uomini di sicura fede fascista. Il
lavoro di smantellamento di Stato liberale andò avanti parallelamente al
consolidamento del regini fascista.
Il 2 ottobre del 1925 un accordo fra Confindustria e la Confederazione
fascista delle corporazioni fece divenire il quello fascista l’unico sindacato
autorizzato dagli industriali e la Cgdl venne sciolta.
Il 20 novembre il Senato approvò una legge contro le associazioni segrete
e venne inoltre introdotto in tutti gli uffici il saluto romano fascista.
Il 24 dicembre fu approvata una modifica allo Statuto Albertino in cui il
presidente del consiglio si trasformava i «capo di governo» con capacità di
controllo sui ministri, la cui nomina e revoca restava prerogativa regia, ma
su proposta del capo di governo. Nelle mani di quest’ultimo passava
anche l’iniziativa legislativa; il Parlamento aveva sempre meno compiti.
Entrò poi in vigore la riforma delle amministrazioni locali, che sostituiva il
sindaco con la figura del podestà, la cui nomina proveniva dalle autorità
centrali dello Stato ed infine il 12 ottobre 1926 Mussolini assunse il
comando della Mvsn.
Tra il 1925 e il 1926 vennero orditi quattro attentati alla vita di Mussolini,
tutti falliti e che causarono l’indurimento delle norme di sicurezza
pubblica e della politica giudiziaria. Il consiglio dei mini-stri approvò una
serie di provvedimenti per la sicurezza del regime fascista e per la «difesa
dello Stato». Venne stabilito lo scioglimento di tutti i partiti, associazioni e
organizzazioni in opposizione al fascismo. I passaporti vennero revisionati
e quelli rilasciati di recente annullati. La stampa fu posta sotto controllo
con la chiusura di parecchie testate. Fu istituito il confino di polizia e
introdotta la pena di morte. Fu creata una potente polizia polita
denominata Ovra. Venne istituito il Tribunale speciale per la difesa dello
Stato, con il compito di giudicare i reati di spionaggio. I fuoriusciti del
partito fascista vennero colpiti con al confisca dei beni e la perdita della
nazionalità.
Questi provvedimenti rimasero noto come «leggi fascistissime».

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