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LA LUNA E MIO PADRE

Era ancora troppo freddo per pensare di salire fino alla cima. Ci fermammo in una piccola rientranza tra i
colli dove la neve non si era ancora posata, protetti dai folti aghi degli abeti. Nessun rumore. Solo qualche
stormo di corvi si alzava gracchiando di tanto in tanto. Nessuno di noi poteva sospettare che quell’anno
sarebbe stato uno dei più freddi del decennio, ma lo scoprimmo ben presto a nostre spese. La luce della
luna ci mostrava i volti dei compagni vicini. La fatica era tanta, ma non era quello che ci spaventava. Era la
cima del Monte Fontana Secca1, il conquistare quella vetta che ci terrorizzava davvero. Da lassù saremmo
stati completamente esposti, facili bersagli per proiettili e bombe. Dovevamo difendere il fronte, così
continuavano a ripeterci i capitani.

Chissà perché eravamo partiti. Era successo nell’estate del 1915. La notizia dello scoppio della guerra ci
aveva sconvolto, ma a dire la verità anche eccitati. Confesso di aver provato un brivido di contentezza a
quella notizia: potevo dimostrare finalmente chi ero. Non sarei rimasto un semplice contadino. Non
qualcuno che sarebbe diventato grande soffrendo sui campi per badare alla propria famiglia, trascinato
verso la vecchiaia da una noiosa routine quotidiana. No, sarei sicuramente diventato qualcuno sul campo di
battaglia, avrei dimostrato a me stesso quanto valevo. Ma non c’erano più queste speranze mentre cercavo
di resistere tra quella neve caduta troppo presto e il silenzio della notte.

Guardai verso la cima del Fontana Secca. In quei luoghi ci andavo diverse volte da ragazzino, passeggiando
con mio padre. Il pretesto era quello di andare a caccia. Lui non era molto bravo con il fucile; diceva che
non era importante sapere come usarlo. Secondo lui i fucili erano solo giocattoli. Era molto più importante
conoscere come maneggiare gli arnesi per i campi. Salivamo per lo più in tarda estate, quando il dovere del
raccolto ci dava tregua e trovavamo una brezza fresca ad accoglierci. Il su e giù dei colli accompagnava il
nostro andare per sentieri, davanti a noi sempre i costoni di roccia che sembravano giganti buoni,
abbracciati gli uni agli altri. Stavamo nelle conche a coccolarci nella frescura. Andavo sempre con mio
padre, quando faceva quelle uscite. I miei fratelli, ne avevo quattro e tutti maschi, non uscivano mai con
noi. Loro dicevano che andavamo a perdere tempo e a dire la verità non avevano tutti i torti: tornavamo
sempre a mani vuote. Avevamo solo qualche margherita profumata da mettere sul tavolo in cucina, come
dono alla mamma. Papà non si arrabbiava se i miei fratelli non venivano. Io ero il più piccolo e mi piaceva
far parte di quei momenti di svago tra i monti. E adesso?

Adesso stavo disteso sulla terra umida, con il respiro affannato, masticando pezzi di carne essiccata e
cercando di scaldare tra le mani la borraccia con un’acqua troppo gelida. Accanto a me stava il fucile.

A volte con mio padre si sparava, anche se solo verso il cielo e senza prendere la mira. Ci piaceva il rumore
che faceva il colpo. Contrastava con l’assoluto silenzio che c’era in quei luoghi. L’eco dello sparo rimbalzava
nei colli, nelle insenature tra le rocce, saliva e scendeva per poi ritornare a noi, come a ringraziarci di essere
stato liberato dalla canna liscia del fucile. Poi dalle fronde degli alberi si alzavano stormi di uccelli spaventati
dal rumore. Mio padre allora rideva di gusto, ma certo non si divertiva a spaventare gli animali! Mentre
rideva guardavo i suoi occhi: brillavano di un’intensa emozione suscitata dalla vista di quelle creature, così
apparentemente indifese, librarsi in aria e diventare padrone del cielo. Era attratto dal volo. Mi confessò
una volta che avrebbe voluto imparare a pilotare un aereo. Non che ne avesse mai visto uno. Abitavamo in
1
Il Monte Fontana Secca (1609 m), facente parte del massiccio del Grappa, è stato protagonista di una delle battaglie della Prima Guerra Mondiale
che vedeva lo scontro tra l’esercito italiano e l’impero austro-ungarico.
zone di montagna e solo vicino alle grandi città iniziavano a vedersi quegli uccelli costruiti con ingegno e
meccanica. Degli aeroplani aveva solo sentito parlare. Alcuni suoi amici li avevano visti e i loro racconti lo
avevano rapito totalmente. Così, probabilmente, si appassionò di qualcosa che poteva soltanto immaginare
e non aveva mai visto. Così facevo io, guardando l’emozione negli occhi di mio padre. Mi appassionavo alle
mie montagne, alle passeggiate nella tarda estate, agli spari che rompevano la quiete della natura e che
subito dopo ripiombava nel suo rumoroso silenzio.

Alzai lo sguardo al cielo: la luna era ancora lì, magica e misteriosa. Chissà cosa pensava di noi, piccole
formiche impegnate a giocare alla guerra. Forse anche lei si sarebbe fatta una grossa risata al suono dei
primi spari, proprio come faceva mio padre guardando gli uccelli; o forse si sarebbe voltata dall’altra parte?
Sì, doveva essere proprio così. Ci mostrava le spalle per non guardarci negli occhi: ci avrebbe accecato con il
suo giudizio. La luna è femmina si sa, e nessuna donna avrebbe mai approvato quello che noi uomini
avevamo deciso di fare. Così la guardavo cercando conforto e invece trovavo ancora più frustrazione. “La
sconfitta è sempre di chi è pronto per primo a ritenersi vinto” aveva detto Cadorna qualche settimana
prima2. Parole che sembravano lontanissime ora, del tutto fuori dalla realtà. In quello che stavamo vivendo
non c’era nessuna vittoria o sconfitta, solo tanto freddo e sconforto.

Stavo ancora sotto gli abeti aspettando il prossimo ordine del capitano e mi ricordai di quante volte io e mio
padre sedevamo all’ombra del grande melo, sgranocchiando qualcosa. Facevamo merenda con qualche
biscotto e delle croste di polenta portate da casa, una vera delizia. Guardavamo le nuvole cambiare forma
nel cielo. Non credo di aver mai trovato nessun altro, oltre mio padre, dipingere il cielo in maniera così
fantasiosa. Le nuvole diventavano allora vecchie signore che ballavano il tango con elefanti nani, un
campanile di una chiesa si trasformava in serpente che poi divorava il mondo; una bottiglia sputava fuoco e
una piccola goccia di cioccolata cadeva dai denti di un drago. Erano immagini magnifiche e quanti sogni
facevo a occhi aperti all’ombra del melo, protetto dai giganti buoni dei colli rocciosi. Volevo molto bene a
mio padre. La sua grande mano a volte si alzava per fare giochi di ombre. Devo dire che non mi ha mai
picchiato. Solo qualche ceffone intimidatorio, ma questo non lo considero come una violenza. Poi, durante
quelle passeggiate, andavamo a raccogliere le more e questo doveva rimanere segretissimo alla famiglia.
Altrimenti non avremmo potuto abbuffarci a dismisura come facevamo. Diciamo che era il giusto prezzo da
pagare per chi si rifiutava di salire sui monti con noi. Quando rientravamo a casa la sera, colmi di biscotti e
more, la mamma ci osservava con sospetto perché stranamente non avevamo appetito. Non diceva niente,
ma si capiva da come ci guardava che aveva intuito qualcosa. A dire il vero penso che mio padre le dicesse
tutto quello che accadeva sui boschi quando mi portava fuori. Lei reggeva soltanto il gioco con i miei fratelli.
Chissà se ero davvero il figlio preferito di papà. Allora non me lo chiedevo per niente, ma dopo la sua morte
mi posi spesso quella domanda. Non so perché, forse per dare un significato al vuoto che mi lasciò la sua
perdita.

Uno scossone improvviso mi ridestò dal torpore. Uno dei miei compagni mi stava avvisando che dovevamo
ripartire a breve. Non mi ero accorto di essermi assopito. Non sopportavo più la luce lunare e allora avevo
chiuso gli occhi. Così ero caduto in una specie di sonno agitato dai ricordi del passato. Si stava alzando il
vento e il silenzio era rotto dal suo ululare. Non era inquietante; devo dire che mi risollevava. Dava almeno
un senso di realtà a tutta la situazione. Quando ci si trova costretti a mettersi in marcia verso la morte è
naturale iniziare a domandarsi se si lascerà con il cuore leggero la propria vita. Non ci si rifugia nelle
fantasie come si potrebbe pensare, ma si vuole il contatto con la realtà per fare davvero i conti con se
stessi. Per questo il suono del vento mi piaceva. Mi ricordava dove ero e che nonostante tutto ero ancora

2
Questa frase compare in un articolo del Generale dell’esercito italiano Luigi Cadorna, pubblicato il 26 ottobre 1917 e fatto arrivare alle truppe sul
fronte per incitare alla resistenza dopo la drammatica sconfitta di Caporetto del 24 ottobre 1917.
vivo. Nessuno ancora dava cenno di voler alzarsi. Le parole del capitano sembravano arrivarci con il vento e
poi sparire. Erano come i fiori del radicchio selvatico.

Li chiamavamo soffioni, poiché bastava soffiarci sopra per vedere i piccoli semini volare via con il vento, in
una danza aerodinamica. Con mio padre andavamo sul ciglio di un burrone per goderci lo spettacolo.
Prendevamo molti ciuffi nella mano, aspettando la giusta folata di vento. Riempivamo i polmoni più che
potevamo e poi via a buttare fuori tutta l’aria in corpo. Davanti a noi si palesava uno spettacolo di puntini
bianchi come piccole fate luccicanti e noi naturalmente ridevamo a crepapelle. In quei momenti mi sentivo
padrone del mondo. Non avevo paura di nulla e dall’alto godevo di una spettacolare vista volando nel vento
come se avessi le ali.

La terra umida e fredda iniziava davvero a infastidirmi e i calzoni di lana non bastavano a proteggermi.
Cominciavo a innervosirmi. Adesso lo sconforto lasciava lo spazio a un accenno di rabbia verso tutto quello
che stavo facendo. La situazione assurda, il capitano che continuava a sbraitare, i miei compagni intorno
che sembravano imbambolati e quel fucile al mio fianco, messo lì senza senso. Mi dissi che mi sarebbe
servita quella rabbia, per affrontare con più coraggio e forza quello che stava per accadere. Non pensai mai
un momento di andarmene per lasciare quell’inferno che si stava profilando. Chi non si sia mai trovato in
queste situazioni tanto estreme quanto terribili non può intendere cosa significhi trovarsi nel mezzo della
tempesta e sentirsi trascinati da una forza che non è la propria, come una valanga che scende inesorabile.
Non ci sono coraggio né onore a trovarsi nel bel mezzo di una battaglia, tutt’altro. Tuttavia non si può
nemmeno tornare indietro o perlomeno allora non mi balenò nemmeno l’idea di farlo.

Da bambino avevo molto coraggio. Quando immaginavo di volare, volteggiavo avanti e indietro muovendo
le braccia come un’aquila. Mio padre mi guardava e vedevo che avrebbe voluto fare anche lui quello che
facevo io, ma non capivo perché non lo facesse. In seguito capii che quando si diventa grandi non sempre ci
si può lasciare andare del tutto, e anche se l’uomo che avevo a fianco era uno spirito libero, c’era un limite
anche per lui.

Mi accorsi di essermi lasciato scappare un sorriso, nel mio presente di allora, scosso dai rumori dei primi
spari di artiglieria. Pensai che fosse una cosa positiva iniziare quello che stavamo facendo con un sorriso, se
non altro mi era di conforto. Ora ero tra i pochi rimasti sotto agli alberi e sapevo che sarei stato costretto ad
alzarmi presto. Lasciai sul terreno le scorte di cibo che mi erano rimaste, certo che non mi sarebbero più
servite, misi lo zaino in spalla e afferrai a malincuore il fucile. Il sorriso che ancora accennavo sparì
all’improvviso. Quando un uomo afferra un fucile, o lo fa per gioco o va a farsi ammazzare. Questa
consapevolezza mi arrivò all’improvviso come un colpo allo stomaco. Caddi indietro di nuovo a terra,
trascinato dal peso dello zaino.

Come per salvarmi da quello che stavo sentendo, fui riportato ancora nel passato. Lo zaino che ci
portavamo appresso quando uscivamo per le gite sulle colline era quasi vuoto. Dovevamo lasciare spazio
per riportare della cacciagione, magari qualche quaglia o fagiano. Anche se mio padre non avrebbe mai
sparato a un essere vivente con le ali, dovevamo reggere il gioco in famiglia. Succedeva a volte che, mentre
camminavamo godendoci il sole, papà decidesse di fermarsi. Osservava il posto che aveva scelto: se c’erano
i sassi giusti per sedersi e un po’ di ombra allora poteva andare bene. Penso che più che il posto, fosse
importante il momento. Era una cosa che sentiva solo lui. Comunque fosse ci sedavamo sul sasso preferito
mettendoci comodi. Papà prendeva lo zaino ed estraeva un quaderno. Era un piccolo quadernetto, rilegato
con molta cura da fili di spago. Non aveva una copertina particolare, mi sembra di ricordare fosse di un
rosso porpora un po’ sbiadito. Aspettavo con gioia quel momento, anche se non osavo mai chiedergli nulla
a riguardo prima che lo decidesse lui perché avrei rovinato il rituale. Apriva il quaderno con molta cura,
come per ricordarmi che stavamo facendo una cosa importante e poi iniziava a leggere. Io chiudevo gli
occhi. Mi sembrava giusto così. Viaggiavamo con l’immaginazione seguendo il ritmo dei racconti. E allora le
casere dei colli sul Monte Fontana diventavano castelli fortificati, e le pecore al pascolo erano cavalieri
pronti alla battaglia per difendere le loro principesse. Poi c’era il vecchio faggio al centro della piana che
diventava uno stregone a cui chiedere consiglio e il vento portava la voce di antichi riti magici. Andavo
lontano con la fantasia, ma restavo lì nei luoghi che frequentavo. Prendevo sempre spunto da quello che
conoscevo per viaggiare con l’immaginazione. Mentre i racconti prendevano forma, diventavo l’eroe che
doveva compiere le varie peripezie per raggiungere il suo scopo. Passavamo così quasi un’ora prima che il
sole, che iniziava a calare, ci ricordasse che era tempo di tornare verso casa. Allora mio padre mi guardava
con una serietà esagerata, come a celebrare la chiusura di quel momento.

Mi resi conto di essere ancora disteso sulla terra bagnata quando la luce della luna tornò a spuntare dietro
ad alcuni nuvoloni. Stavo facendo anch’io una battaglia per il mio Regno, proprio come i cavalieri che
immaginavo da bambino? Forse la luna avrebbe potuto darmi una risposta, adesso che stavo arrivando alla
conclusione del mio viaggio. La guardai ancora come pregando di darmi una spiegazione. Sentivo un certo
calore nel cuore adesso. La preghiera che stavo facendo non era nulla di preparato o qualcosa che avessi
mai fatto. Chiesi che la mia anima potesse rimanere in quei luoghi con il ricordo dei giochi infantili e con
tutte le speranze di un tempo e per un attimo mi sembrò si essere ascoltato. Tutti gli sbagli che stavamo
compiendo io e i miei compagni, partiti per qualcosa che non sapevamo, potevano essere perdonati. Mi
tirai nuovamente in piedi, questa volta le gambe erano ben più salde. Presi di nuovo il fucile e mi misi di
nuovo in marcia. Dovevamo fare ancora diverse centinaia di metri per arrivare alla cima. Era un succedersi
di obiettivi, uno dietro l’altro. Una volta arrivati in cima avremmo dovuto difendere la linea fino alla fine;
almeno così ci spronava a fare il comandante. 3 Non so dove trovai la forza di continuare, ma mi piace
pensare fosse proprio grazie al momento di raccoglimento fatto prima di salire. La luna era per me
diventata una compagna fedele, pronta a giudicarmi con la sua luce implacabile, ma anche a rincuorarmi
ora che sentivo di averne bisogno. Chissà cosa avrebbe pensato mio padre vedendomi lì, timoroso,
infreddolito e tuttavia convinto a continuare.

Mi tornarono alla mente le aquile facilmente avvistabili da quei monti. Volteggiavano per diversi minuti
trasportate dalle correnti, scrutando ogni angolo a terra in cerca di cibo. Noi le guardavamo sempre con
ammirazione. Com’erano talmente in alto, tanto presto scendevano in picchiata quando vedevano qualcosa
muoversi. Una volta, una di loro cercò di attaccare un agnellino che si era allontanato dal gregge.
Fortunatamente il cane dei pastori riuscì a fare il suo compito di guardiano, intimorendo il rapace che tornò
presto a riprendere quota per poi sparire in altre vallate. Mio padre in quell’occasione mi spiegò che i cani
dei pastori, anche se sembrano sempre assonnati, quasi stanchi, sono in realtà costantemente in allerta,
pronti a proteggere il loro gregge.

-“Proprio come faccio io con te” – mi disse quella volta. Poi tornò a guardare in alto, come per fare il tifo
all’aquila, augurandole migliore fortuna. Era un uomo molto saggio. Penso fosse l’esperienza e il saper
osservare ciò che la vita quotidianamente gli offriva a renderlo ai miei occhi così sapiente.

Stavo anch’io difendendo il mio gregge in fondo, anche se non c’era nessun cane da guardia ad aiutarmi. Lì,
tra il freddo e la neve e le luci abbaglianti dei primi scontri, dovevamo cavarcela da soli. Nessuna missiva o
proclamo del Re poteva rincuorarci. Un’esplosione e delle urla sul costone di fronte, dove stava risalendo

3
Dopo la disfatta di Caporetto l'esercito italiano si ritira lungo la linea del Piave e poi sul massiccio del Grappa. In particolare dal 15 al 21 novembre
del 1917 la cima del Monte Fontana Secca è sede, come rievoca il racconto, di una battaglia drammatica per arrestare l’avanzata nemica.
un'altra compagnia, mi fece sobbalzare. Le aquile erano arrivate davvero. 4 Ci fu un gran trambusto di
uomini, alcuni miei compagni si appostarono velocemente in una trincea appena più avanti. Io ero come in
preda a una paralisi, sentivo il fischio, terribile e ipnotizzante, delle bombe che scendevano, e poi
l’esplosione devastante a terra. Fortunatamente stava avvenendo tutto a distanza da me per il momento. Io
guardavo la terra e la roccia solida e inamovibile, saltare in aria in mille pezzi. Stavano frantumando le
montagne che erano diventate come d’argilla. Il rumore era assordante come un terremoto venuto dalle
profondità, rabbioso e implacabile. Mi accorsi, tornato in me di soprassalto, che mentre guardavo questo
drammatico spettacolo ero ancora pericolosamente in piedi. Mi guardai intorno in cerca di qualcuno e vidi
che ero rimasto indietro solo io. Ancora più terrorizzato, mi resi conto che tutti gli altri erano avanti distesi
all’interno della trincea. Mi misi a correre senza pensare a nulla, ma solo con la volontà di mettermi al
sicuro. Raggiunsi presto gli altri, e mi buttai spalle al fronte, accovacciato su me stesso. Il cuore batteva
all’impazzata. Pensai al fucile. Lo avevo forse lasciato indietro colto da panico? Dopo un attimo di
smarrimento, mi accorsi di averlo ancora con me, la mano lo stringeva saldamente: era la sua sicurezza. La
notte adesso era più scura illuminata solo dai lampi delle bombe che esplodevano poco più avanti. Cercai la
luna e non la trovai più. Il cielo si stava scurendo con nuvoloni che si muovevano dalla piana di Bassano
verso le cime. Tutto sarebbe finito molto presto, lo sentivo. Rimpiansi il calore del sole e le giornata estive.

La pelle di mio padre era scura, aveva una tonalità quasi mediterranea. D’estate diventava talmente
abbronzato da sembrare un meridionale, e per questo lo chiamavano “il Moretto”. Un giorno mentre
stavamo riposando sui prati vicino ai pascoli, così ben curati e accoglienti, mi disse che anche se a lui non
piaceva essere chiamato così, era fiero della sua carnagione. Mi disse che i più grandi scienziati e filosofi
antichi erano certamente arabi o africani. Lui ammirava le culture di tutti i popoli e sosteneva che infine ciò
che ci rendeva unici era proprio la nostra diversità. Quando il sole picchiava sopra di noi, m’immaginavo
ancora di essere in uno dei racconti del suo quaderno. Ero un cavaliere partito per le grandi crociate a
difendere la terra santa. Tutto era molto leggero e affascinante, quando pensavo a quelle epiche battaglie
antiche, mosse da ideali spirituali. Chissà se era veramente così anche per gli uomini di allora che ne erano
protagonisti. Sotto il sole potevo crederci, vicino alla sicura figura di mio padre. A volte sentivamo dei
rumori provenienti dai versanti, rocce spostate e battere di zoccoli. Allora allungavamo lo sguardo e
potevamo intravedere splendidi esemplari di camosci. Saltavano con disinvoltura da una parte all’altra di
ripidi declivi, su e giù per anfratti erbosi e di nuovo sulla nuda roccia. Le mie montagne erano piene di
animali, la natura era viva e rigogliosa in piena armonia con gli insediamenti dei pastori e di qualche
malgaro. Lasciandomi accarezzare da quelle suggestioni, sdraiato sui prati, con le braccia incrociate dietro
alla nuca, mi pareva che questa pace potesse durare per sempre; allora allungavo le braccia e il corpo, mi
distendevo sull’erba per prendere quanto più spazio possibile. Afferravo con i tenacia ciuffi d’erba come per
rinsaldare il contatto intimo che avevo con quei luoghi che tanto m’ispiravano accompagnando i miei giorni
d’infanzia.

Le fitte alle mani mi fecero ripiombare ancora nella fredda notte di quel novembre. Erano gelide e mi
accorsi che le dita erano ancora aggrappate al fucile. Ma dov’era finito il sole? Credevo davvero che non
l’avrei più rivisto. Riuscì a controllare un primo disperato singhiozzo che partiva dal petto. Il cuore faceva
male, colmo di lacrime che sarebbero volute sgorgare e bagnarmi completamente il viso. Trattenni tutto il
dolore che avevo dentro perché non potevo permettermi di lasciarmi andare. Decisi che sarebbe stato quel
fucile a sfogarsi per me. Non avrei sparato per la patria, né per uccidere il nemico o per difendere la linea.
Avrei sparato per me stesso, per liberarmi da quel soffocante dolore che non riuscivo più a trattenere.
Quello sì mi faceva male sul serio, non i colpi dell’artiglieria o la deflagrazione degli ordigni: il peso che mi
4
La notte del 21 novembre 1917 gli austriaci sferrano un attacco aereo, bombardando senza sosta il monte Fontana Secca difeso dal battaglione Val
Camonica costretto a una sanguinosa ritirata. La prima linea italiana arretrerà così verso valle.
portavo nel petto era assassino! Mi alzai in piedi per guardare oltre la trincea. Le esplosioni e gli scoppi
aumentavano, ma non m’importava più. Presi le cartucce dal taschino. Mi scapparono tutte dalla mano
tanto stavo tremando. Le raccolsi da terra quante più ne potevo, caricai il fucile e mi appoggiai sulla parete
della trincea. Ripensai a mio padre in quel momento, quando impugnava il suo fucile e tirava colpi nel cielo,
finendo per farsi delle grosse risate. Chissà se anche lui aveva qualche peso nel cuore che sfogava in quel
modo. Chissà se lo conoscevo davvero come credevo. Pensai che avrei voluto conoscere meglio quell’uomo
che mi aveva cresciuto. Rividi i suoi occhi che brillavano nell’aria calda dell’estate. Forse c’era qualche
lacrima mai espressa anche per lui da versare. Con più vigore mi posizionai nel migliore dei modi, mano sul
grilletto e la testa inclinata per prendere la mira. Non vedevo niente, davanti a me avanzava un muro di
fumo impenetrabile agli occhi. Pensai di sparare a casaccio certo che qualcosa avrei beccato. Fu in quel
momento che la luna decise di fare capolino nuovamente tra le nuvole illuminando, per qualche istante, il
versante davanti a me. Eravamo ormai a ridosso della cima del Monte Fontana. Alla fine ce l’avevamo fatta,
ed ero ancora vivo. Vidi alcune sagome nere muoversi tra il fumo dirigersi verso di noi. Indirizzai la canna da
quella parte. In quell’istante il nodo che avevo nel petto esplose in un pianto incontrollabile: la guerra che
c’era fuori stava finalmente scoppiando anche dentro di me. Feci uscire un grido roco e sentii in quel
disperato momento un calore che mi prendeva tutto. Sentii che era l’abbraccio di mio padre, pronto a
sostenermi. Passato e presente si fusero insieme. Il fischio delle bombe diventò l’urlare delle aquile, le grida
dei miei compagni si trasformarono nelle risate tra me e mio padre e la luce della luna diventò un caldo
raggio di sole. Forse qualche senso c’era anche in tutto quell’inferno. Le lacrime che ormai mi bagnavano il
viso sembravano acqua fresca e il cuore che mi batteva in petto pareva l’eco del colpo di un fucile, fatto
partire per gioco diversi anni prima. Il peso nel cuore ora era meno insopportabile. Anche se non capivo
cosa stava succedendo in quegli attimi, che forse durarono il tempo di pochi secondi, sentii qualcosa di
simile a un senso di liberazione. Serrai il dito sul grilletto e sparai il primo colpo.

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