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Democratizzare la cura / Curare la democrazia

ISBN: 9788874528738

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il 28 Febbraio 2022 10:06

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Giorgia Serughetti
Democratizzare la cura / Curare la democrazia
ISBN 978-88-7452-873-8
© Giorgia Serughetti
© 2020 nottetempo srl
nottetempo, Foro Buonaparte 46 - 20121 Milano
www.edizioninottetempo.it
nottetempo@edizioninottetempo.it
Mentre scrivo queste pagine, la protesta #BlackLives-Matter, dopo l’ultimo
episodio di brutalità della polizia verso un cittadino afroamericano, George
Floyd, morto soffocato nel violento fermo effettuato da un agente di
Minneapolis, infiamma gli Stati Uniti. “I can’t breathe”, non riesco a
respirare, aveva ripetuto l’uomo. Non riuscire a respirare: questo
denunciano le proteste di minoranze oppresse da secoli di razzismo che
continuano a provocare carcerazioni di massa, abusi, povertà.
Lo slogan I can’t breathe è stampato ed esibito dai manifestanti sulle
mascherine anti-Coronavirus. Perché mentre questo avviene, gli Stati Uniti e
il mondo intero, Italia inclusa, continuano a fare i conti con un virus ad alta
contagiosità e letalità, il Covid-19, che colpisce la respirazione e ha già
causato centinaia di migliaia di morti. Le misure anti-contagio hanno inoltre
fermato gran parte del pianeta, costringendo le persone nelle case, chiudendo
attività economiche, e provocando una crisi occupazionale e sociale dagli
effetti ancora incalcolabili. A farne le spese, saranno in ogni parte del
mondo le persone piú colpite dalle diseguaglianze di genere, classe, razza,
età, abilità.
Se le vite umane, le vite di tutte e tutti, contano, la sfida epocale che le
nostre democrazie hanno di fronte è divenire capaci di rispondere al bisogno
delle persone di respirare: di vivere, innanzitutto, ma anche di condurre una
vita buona. E se vogliamo che il tempo drammatico che stiamo affrontando, a
partire dall’esperienza fisica della malattia, del lutto, della paura, diventi
occasione di conoscenza e capacità di azione trasformativa, occorrerà
costruire un nuovo lessico per la politica.
Io credo che in questo lessico debba trovare uno spazio centrale la parola
“cura”, in un significato esteso e rinnovato. La pandemia di Covid-19 ha
messo a nudo a livello globale un gigantesco, diffuso bisogno di cura. Un
bisogno al quale nessun sistema pubblico, in nessuna parte del mondo, si è
trovato preparato a rispondere. Ora, nella fase drammatica di ricostruzione
dopo-Covid, le sirene del ritorno alla “normalità” rischiano di riproporre o
esasperare i problemi venuti allo scoperto.
Questo quindi mi propongo: indicare una via per ricostruire le nostre
società come società che curano. Voglio sostenere che democratizzare le
attività di cura e l’accesso alla cura rappresenta la condizione essenziale per
realizzare in senso sostanziale, e non solo formale, l’eguale libertà di
cittadine e cittadini. Per questo, come dirò, la cura deve essere posta al
cuore del progetto politico che chiamiamo democrazia.

Il peso dei corpi

Il tempo della pandemia è stato un tempo di sovversione delle priorità a


livello pubblico e privato, un tempo di prevalenza del collettivo
sull’individuale, e del materiale sull’immateriale. Nel lungo lockdown a cui
ci hanno costretto le misure di prevenzione del contagio, gran parte della
popolazione ha sperimentato l’assenza di fisicità e contatti, e la migrazione
di molte attività su piattaforme digitali. Eppure, l’epidemia ha avuto anche
l’effetto opposto di trascinare i corpi reali, in carne e ossa, fuori dal cono
d’ombra a cui parevano destinati dai processi socioeconomici di
smaterializzazione in corso negli ultimi decenni.
Fenomeni come l’informatizzazione, la finanziarizzazione, il trionfo della
produzione immateriale hanno fortemente ridotto, nella percezione pubblica,
il peso dei corpi al lavoro, mentre i lavori e le attività relative al corpo, alla
cura, al sostentamento e all’educazione sono andati sempre piú incontro al
deprezzamento sociale e alla marginalizzazione culturale. Questo, anche
senza considerare il lavoro riproduttivo non retribuito, che non ha mai
goduto della necessaria considerazione. Nel generale sovvertimento delle
priorità causato dall’emergenza sanitaria, è invece divenuto chiaro che senza
corpi in salute e al lavoro, in casa o negli ospedali, in fabbrica o nei campi,
negli esercizi commerciali o nella ristorazione, nei teatri o nelle tipografie,
anche le produzioni immateriali perdono quasi ogni valore.
Ciò che è accaduto è che in ogni paese in cui la principale misura anti-
epidemica disposta è stata quella del distanziamento fisico, in cui gran parte
della popolazione è stata colpita da un divieto quasi assoluto di movimento,
le attività piú svalutate e malpagate, quelle che tengono letteralmente in vita
le persone – non solo elargendo cure dirette, ma anche, per esempio,
producendo beni di prima necessità, o recapitando il necessario a domicilio
– sono diventate la principale protezione contro la morte. “Essenziali”, sono
state definite: la dicitura forse piú idonea a ribaltare la visione di lavoratrici
e lavoratori come “risorse”, tra le altre, funzionali alla produzione di
profitto. Senza queste donne e questi uomini non c’è produzione né ci sono
servizi, non c’è sopravvivenza della società umana.
Può davvero il dopo-Covid tornare a ignorare i corpi nella loro pesante e
vulnerabile fisicità? Può chiudere gli occhi di fronte alle condizioni
disumane in cui lavora chi ha permesso ai raccolti agricoli di arrivare nelle
case? Può accettare il supersfruttamento che subiscono categorie come i
lavoratori della logistica e delle piattaforme? Può continuare a negare pieni
diritti alle lavoratrici domestiche e alle assistenti familiari – spesso
migranti, spesso irregolari, quasi sempre sottopagate – che suppliscono
incessantemente alle carenze del sistema di welfare per minori e anziani?
Certo che può, direte. Del resto, nel corso dell’epidemia le categorie qui
elencate sono state raramente ricordate nel discorso pubblico. Molte
lavoratrici e molti lavoratori hanno operato nelle peggiori condizioni, con
orari impossibili e senza adeguati dispositivi di protezione individuale.
Molti sono rimasti esclusi per “dimenticanza” da misure emergenziali come i
divieti di licenziamento e le indennità economiche. Molti non potranno
accedere alla regolarizzazione per stranieri senza permesso di soggiorno.
Non è quindi ragionevole guardare al prossimo futuro con un facile
ottimismo.
Ci sono del resto altri aspetti emersi nella crisi che hanno a che fare con i
corpi e i loro bisogni di cura, e che rischiano di essere rapidamente occultati
da un discorso politico ansioso di celebrare la ripartenza. Penso agli effetti
del costante de-finanziamento del sistema sanitario nazionale, che si sono
palesati nell’incapacità di risposta all’epidemia; allo smantellamento dei
presidi di salute territoriale; ai rischi evidenti che derivano dal crescente
sbilanciamento tra pubblico e privato, quando una crisi sanitaria richiede il
dispiegamento di tutte le strutture, risorse e attrezzature di cui dispone lo
Stato.
Un altro aspetto che la crisi ha evidenziato, e che il ritorno alla
“normalità” rischia di far dimenticare, è il ruolo di primo piano svolto dalle
donne in questa fase storica. In un contesto in cui l’equilibrio tra i generi, nel
lavoro domestico e di cura, appare ancora lontano, le donne hanno svolto e
continuano a svolgere gran parte del lavoro di riproduzione sociale: per ogni
bambina o bambino che non va a scuola, per ogni familiare malato, per la
conduzione della casa, per le necessità di alimentazione, vestiario, pulizia.
Un carico, quello domestico, che per molte donne si aggiunge alle ore di
smart working, nonché alle occupazioni extra-domestiche. Le donne, per
esempio, costituiscono i due terzi del personale del servizio sanitario
nazionale. Non per caso è stata un’infermiera sfinita a fine turno una delle
immagini simbolo della lotta contro il virus in Italia. Quando le donne
lavorano fuori casa, sono spesso altre donne, per lo piú migranti, a svolgerne
i compiti domestici e di cura.

I nodi al pettine

La crisi pandemica ha funzionato come un pettine che porta tutti i nodi in


evidenza. Ha portato a galla la divisione sessuale del lavoro in tutti gli
ambiti e l’intersezione tra le diseguaglianze di genere e quelle di classe, di
nazionalità, di status migratorio. Ha rivelato la dipendenza del lavoro
produttivo da quello riproduttivo, della vita pubblica dall’organizzazione del
privato, e di tutti gli aspetti della vita sia singola che associata dall’esistenza
di persone e servizi capaci di erogare la cura necessaria non solo per
sconfiggere la malattia ma anche per sopravvivere e, ancor piú, per condurre
una vita dignitosa.
Siamo dunque di fronte a una grande opportunità per il pensiero e per la
politica: fare tesoro di questi elementi di consapevolezza per spingere la
ricerca di soluzioni al di là del momento emergenziale, verso la costruzione
di una società nuova – ripartendo dai corpi fragili che siamo, dal nostro
bisogno di cura e dall’idea di giustizia che deve regolare la possibilità di
tutte e tutti di curare ed essere curati. Ma è proprio contro un simile
cambiamento che oggi sembrano remare le forze in campo.
Come ha scritto Ida Dominijanni,
[…] l’emergenza essendo stata sanitaria, la fragilità numero uno essendo stata quella del sistema
sanitario, la risorsa numero uno essendo stata quella cura del vivente (negli ospedali, nelle case,
nell’insegnamento a distanza, ma anche nei campi, nei supermercati, nelle consegne a domicilio)
che ci ha mantenuti sani e salvi, sarebbe stato ragionevole “ripartire” appunto da qui: ricostruire
un sistema sanitario nazionale universalistico, reinventare il welfare, mettere al mondo quella
“società della cura” che scardina il primato della produzione sulla riproduzione e archivia l’etica
della prestazione e della concorrenza. Invece no1.
Invece nella “ripartenza”, la questione della riproduzione sociale è stata
separata dal tema della produzione, messa da parte per un secondo momento,
come se potesse esserci una vita produttiva senza lavoro riproduttivo e come
se, ancora e per sempre, quello di curare i viventi potesse essere trattato
come un compito che spetta per “natura” alla famiglia e, al suo interno, alle
donne. Se la crisi, nella prima fase, aveva offuscato il confine tra pubblico e
privato, se aveva fatto traballare gerarchie consolidate come quelle tra città
e campagna o tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, se aveva portato in
primo piano ciò che il corso ordinario della società relega sullo sfondo, il
ritorno alla “normalità” avviene invece sotto il segno della rimozione delle
contraddizioni, del ripristino dell’ordine che fonda la società di diseguali.
Che fare per contrastare questa tendenza? Se il mondo si affretta a tornare
“come prima”, consapevoli come siamo che questo significherà “peggio di
prima”, ciò che dobbiamo fare è mantenere aperta la faglia della crisi
pandemica, illuminare le contraddizioni che ha fatto emergere e offrire
visioni alternative capaci di produrre cambiamento.

Chi se ne cura?

Ci sono tanti modi di guardare alla crisi che stiamo attraversando, al di là


degli aspetti strettamente sanitari. Abbiamo letto studi che collegano
l’epidemia all’emergenza ecologica, alla distruzione degli ecosistemi che
induce contatti inediti tra gli esseri umani e altri animali, ai cambiamenti
climatici.
Abbiamo poi davanti agli occhi la prospettiva di una recessione globale
che colpirà l’economia reale, impattando sul lavoro, sulle imprese, sul
sistema pubblico. Una rete di tremila intellettuali, tra cui Thomas Piketty,
Chantal Mouffe, Claus Offe, Nancy Fraser, Axel Honneth, Nadia Urbinati,
Saskia Sassen, ha lanciato l’appello Democratizing Work, per chiedere la
partecipazione di lavoratori e lavoratrici alle decisioni economiche e la “de-
mercificazione del lavoro”.
Un’altra angolazione possibile da cui leggere la crisi e le sue
conseguenze è quella del deficit democratico: problema, anch’esso, non
nuovo, si è manifestato con particolare urgenza in una circostanza che ha
visto i governi decretare lo “stato d’emergenza” e operare attraverso un forte
accentramento delle decisioni. In diversi paesi del mondo, il virus ha offerto
l’occasione per torsioni “illiberali” o decisamente autoritarie.
Ambiente, lavoro, democrazia sono lenti piú che appropriate per
comprendere gli eventi in corso e le prospettive che si vanno aprendo. Vorrei
però sostenere la necessità di impiegarne una diversa, e capace di
comprenderle tutte. Intendo proporre di leggere la crisi generata dal Covid-
19 come, primariamente, una crisi della cura; piú precisamente, come
un’accelerazione e un’enfatizzazione, su scala globale, di quella care crisis
di cui la letteratura sociologica e filosofica parla da piú di un decennio per
indicare gli squilibri generati dal capitalismo finanziario e le ricadute sulle
vite delle persone. Ciò che è in crisi, da ben prima dell’arrivo del
Coronavirus, è la capacità dei singoli e delle comunità di generare e
crescere figli, di curare le persone disabili e anziane, di proteggere la salute
propria e dei propri cari, di alimentare i legami personali e sociali, di
partecipare alla vita della propria comunità. La crisi si manifesta nella
mancanza di tempo per questa attività, nel ricorso al mercato per le
prestazioni essenziali laddove lo Stato non garantisce un accesso universale
alle cure o ai servizi, nel ritrarsi delle persone nel privato, nell’abbandono
dello spazio pubblico. E produce sentimenti di privazione, paura,
risentimento: quelle reazioni individuali e collettive che sono cosí spesso
indicate come radici del neo-populismo.
Tutte le società capitalistiche, sostiene Nancy Fraser, covano in sé una
tendenza critica, una contraddizione che riguarda il rapporto tra produzione e
riproduzione2. Nel XIX secolo, il capitalismo liberale risolse la
contraddizione inventando la famiglia nel suo significato moderno, come
ambito privato e separato, vocato alla riproduzione sociale. Nel XX secolo,
il capitalismo organizzato dallo Stato investí la famiglia, ancora intesa come
dominio femminile, di un nuovo sostegno pubblico, nelle forme del welfare
state. Tra la fine del secolo scorso e il nuovo secolo, il capitalismo
finanziario, mentre ha smantellato i sistemi di protezione sociale e
privatizzato molti servizi essenziali, ha promosso il modello del
breadwinner universale, cioè l’ingresso in massa delle donne nel mercato
del lavoro e lo standard del doppio reddito familiare a sostituire quello del
salario del capofamiglia. E questo ha intensificato le contraddizioni tra le
esigenze della produzione e della riproduzione.
Chi cura chi, nella società neoliberale? E chi se ne cura, di questo
problema? La soluzione alla mancanza cronica di tempo, risorse e capacità
per le attività che riguardano la vita, la salute, l’educazione, le relazioni è
oggi largamente affidata alle “scelte” individuali e familiari. In Italia questo
significa spesso la rinuncia delle donne al lavoro fuori casa, quando mettono
al mondo dei figli, con il conseguente aumento della povertà infantile e della
dipendenza femminile. Chi se lo può permettere può invece avvalersi di
figure sostitutive messe a disposizione dal mercato. In particolare, un
mercato che impiega lavoratrici migranti attraverso “catene globali della
cura”, che però, lungi dal colmare il vuoto di cura esistente, lo incrementa:
chi si cura dei figli o dei genitori anziani di donne che lasciano paesi piú
poveri per svolgere lavoro domestico in paesi piú ricchi?
Scrive Brunella Casalini:
[…] la mercificazione della cura ha portato all’impoverimento delle famiglie sul piano delle
risorse relazionali ed economiche, alla loro disperazione e solitudine, all’incertezza dell’assistenza
e, non di rado, a situazioni lavorative inaccettabili dal punto di vista dei diritti di coloro che
lavorano nel mercato del lavoro di cura3.

Con lo scoppio della pandemia, l’insufficienza di tutti i sistemi di cura


iscritti nella logica neoliberale è balzata agli occhi. Sistemi sanitari
improntati a modelli efficientisti, imprenditoriali, si sono rivelati inadeguati
a rispondere ai bisogni di salute della popolazione. Sistemi di protezione
sociale troppo esili hanno lasciato scoperte intere categorie di lavoratrici e
lavoratori. Le residenze per anziani, divenute luoghi di infezione e morte,
hanno reso evidente la necessità di ridiscutere questo modello di assistenza.
Le case, pensate come unico spazio di cura alternativo al ricovero
ospedaliero, sono divenute altrettanti focolai di contagio. Infine, l’attenzione
tardiva che è stata rivolta alle lavoratrici domestiche e della cura
dall’insieme di misure messe in campo per affrontare la crisi mostra quanto
profonda sia la rimozione da parte della politica del rapporto di dipendenza
che il sistema economico ha nei loro confronti. Se accanto a questa mancanza
mettiamo la reticenza verso le necessità di regolarizzazione di donne e
uomini migranti in altri settori essenziali, come quello agricolo, si
comprende come il deficit di cura si innesti in un sistema di profonde
diseguaglianze di diritti, protezione, rispetto tra diverse categorie sociali.

La forza dell’evento
Nella crisi pandemica, e in particolare durante i mesi del lockdown, è però
successo anche qualcos’altro. Se, come sostiene Joan Tronto, la cura non è
piú “di casa” nelle nostre società, si può dire che in questi mesi sia tornata
“a casa”4. Nessuno ha potuto chiamarsi interamente fuori da una situazione
che ha richiesto a tutti di assumersi una responsabilità, per se stessi e per le
persone con cui si condivide un’abitazione, un condominio, un quartiere, una
città. La cura si è affacciata alla coscienza come problema collettivo, non
piú questione residuale e pratica invisibile e svalutata – come problema che
riguarda ogni essere umano, per quanto adulto e privo di patologie
invalidanti, e non solo categorie di soggetti “dipendenti” o “fragili”.
Nella pandemia siamo tutte e tutti vulnerabili, perché in relazione con gli
altri e dipendenti dagli altri. E siamo tutte e tutti responsabili. Responsabili
per gli altri. Ma questo apprendimento apre a una possibile consapevolezza
che va al di là della situazione eccezionale che stiamo vivendo.
“Pensare la responsabilità (responsabilità per)”, scrive Elena Pulcini,
richiede
[…] di pensare un soggetto in grado di correggere le patologie prometeiche e narcisistiche in
quanto consapevole della propria vulnerabilità e dipendenza; capace di farsi carico dell’altro
proprio in quanto è egli stesso esposto all’altro ed è incapace di dare pienamente e sovranamente
conto di sé: un soggetto che si riconosce come parte di una rete di vincoli e di reciproche
connessioni che lo costituiscono, appunto, come soggetto in relazione5.

Questa prospettiva, che proviene da decenni di teoria politica e sociale


femminista, mette in gioco, come è chiaro, il modello antropologico su cui si
fondano le forme della convivenza sociale. Contro il “mito dell’autonomia”
di matrice liberale6, reinterpretato dal neoliberalismo come “capitale
umano” in competizione con altri7, l’enfasi posta sulla vulnerabilità come
condizione endemica e universale induce un completo rovesciamento dello
sguardo sulla politica, rispetto a una tradizione che ha espulso il corpo (e le
donne, insieme ad altri soggetti inferiorizzati) dalla polis. Induce, cioè, a
riconcepire i compiti della collettività verso i suoi membri partendo dalla
corporeità, dai bisogni, dai rapporti di dipendenza dell’essere umano con gli
altri e con l’ambiente naturale e sociale, dalle infrastrutture sociali
necessarie alla vita.
Anni fa, Judith Butler, una tra le autrici che piú hanno esplorato la
categoria di vulnerabilità, invitava a leggere l’11 settembre dell’attacco alle
Torri Gemelle come un evento che aveva portato un’intera collettività a fare
esperienza della perdita e del lutto, e dell’interconnessione delle vite e dei
destini8. Oggi, un virus che colpisce l’intero pianeta, causando morte,
dolore, povertà in ogni angolo del globo sembra possedere in misura anche
maggiore quella che Pulcini chiama “la forza dell’evento”9, la forza di
incidere una ferita (persino salutare) nel narcisismo e nell’illimitatezza
dell’Io contemporaneo, riconducendolo alla percezione del limite, della
fragilità, della precarietà.
Ecco allora il guadagno, per cosí dire, della crisi: un guadagno di
consapevolezza, rispetto alla nostra vulnerabilità all’altro, rispetto alla
nostra responsabilità per l’altro e, spingendo il ragionamento ancora oltre,
rispetto all’inevitabile, e necessaria, contaminazione con l’altro.
“Contaminazione” è una parola difficile da usare in senso figurato,
quando la realtà ne dispiega i pericoli in senso molto letterale. Per Elena
Pulcini, se la scoperta della vulnerabilità serve a correggere l’assenza di
paura, questa seconda categoria ci occorre invece come un antidoto
all’“eccesso di paura”10, alle reazioni di chiusura verso l’altro, ai neo-
tribalismi che proliferano nell’età globale, alle reazioni endogamiche e
aggressive di fronte ai pericoli planetari. Ha senso oggi parlare del bisogno
di contaminazione, quando un virus ad alta contagiosità ci costringe a misure
inedite di distanziamento? Ha senso, se avvertiamo il rischio che
l’esperienza della pandemia conduca, anziché a un rafforzamento del
sentimento di interconnessione delle vite e di responsabilità comune per gli
altri e per il mondo, a un nuovo eccesso di paura, a una reazione immunitaria
dei singoli e delle comunità.
Roberto Esposito, celebre per i suoi lavori sul concetto di “immunità”
come contrario di “comunità”, è intervenuto nel dibattito sulla crisi
ricordando che esiste un punto limite oltre il quale il bisogno di ogni corpo
individuale o corpo sociale di sviluppare una reazione immunitaria può
produrre guasti irreparabili. “La chiusura è necessaria”, scrive, “ma fino al
punto in cui la negazione non prevalga sulla protezione, minando lo stesso
corpo che dovrebbe difendere”11.
Il tema dunque non è mettere in discussione la concretezza del pericolo,
ma mettere in guardia contro esiti capaci di minare il senso di relazionalità
di cui le nostre vite sono intessute. Solo se la tentazione immunitaria non
prevarrà sulla forza dell’evento pandemico, se la forza che questo ha avuto
nello svelare agli esseri umani la loro condizione vulnerabile saprà durare e
tradursi in politica trasformativa, potremo mettere al centro la cura come
capacità di preoccuparsi degli altri, ma anche di occuparsi attivamente di
loro.

La manutenzione del vivente

Abbiamo parlato fin qui di cura senza soffermarci sul significato di una
parola che in italiano è gravata da non poche ambivalenze. Quando si parla
di lavoro di cura si intende normalmente, in senso stretto, il lavoro che
risponde ai bisogni delle persone non autosufficienti: bambini, anziani,
disabili, malati. Spesso, inoltre, la parola cura rimanda all’idea
dell’accudimento, innanzitutto materno. Tanto che proporre la cura come
categoria per ripensare la politica porta con sé un rischio non banale di
fraintendimento: si sta forse facendo appello a un modello di Stato che si
comporti verso i cittadini come una madre verso i suoi figli?
In inglese la parola care contiene i significati di cui stiamo parlando –
quelli che rimandano alle cure prestate dal sistema sanitario, dai servizi
sociali o dalle famiglie – ma si presta a una pluralità di altre traduzioni
possibili, che includono l’attenzione e la preoccupazione per gli altri, e
l’avere qualcosa a cuore, tenere a qualcosa o qualcuno. Questa maggiore
ampiezza semantica – che induce alcune autrici a non tradurre la parola in
italiano, per non rischiare la sua riduzione al solo significato medico e
sociale – è ben espressa da Joan Tronto, studiosa di riferimento per la teoria
politica della cura.
Quali attività comprende il care? Di chi e che cosa dobbiamo prenderci
cura? “Nel senso piú generale”, scrive Tronto,
[…] la cura è un’attività della specie che comprende tutto ciò che facciamo per mantenere,
perpetuare e riparare il nostro mondo in modo da poterci vivere al meglio. Questo mondo include
il nostro corpo, il nostro io e il nostro ambiente, che cerchiamo di intrecciare in una rete
complessa e vitale12.

Nell’adottare questa prospettiva13, mi piacerebbe invitare a pensare la


cura non come una serie o un insieme di prestazioni specialistiche, settoriali
e segmentate, ma come un sistema complesso di attività di manutenzione del
vivente. Nel senso qui proposto, possiamo comprendere nella cura tanto il
lavoro domestico quanto quello educativo, tanto i servizi sanitari quanto le
azioni di tutela dell’ambiente. E pensare queste attività non solo nelle forme
oggi codificate, riconosciute, e piú o meno retribuite, ma in tutte le forme che
le persone e le collettività sono capaci di mettere in campo.
Quali sono gli elementi essenziali che forme di cura cosí diverse hanno in
comune? Innanzitutto, il fatto di rispondere a bisogni: bisogni che riguardano
la vita, la sua continuazione e pienezza, lo sviluppo delle capacità umane.
Naturalmente, su quali siano i bisogni in ogni società c’è conflitto. Piú
precisamente, in ogni società c’è conflitto: sull’individuazione dei bisogni
che richiedono attenzione e soddisfazione; sull’interpretazione di questi
bisogni; sulle modalità migliori per soddisfarli14. Nei fatti, bisogni che oggi
consideriamo fondamentali, come quello dei minori a ricevere un’istruzione
di qualità, o quello degli anziani a essere curati e non lasciati morire, in un
passato non troppo lontano non erano riconosciuti o erano riconosciuti solo a
una parte limitata della popolazione. Per quanto riguarda il chi e come deve
rispondere a questi bisogni, si è passati negli ultimi secoli da una visione
che relega i bisogni vitali nella sfera domestica, affidandoli alla competenza
femminile-materna, a una che assegna allo Stato un compito attivo nella loro
definizione e presa in carico, a una infine che – senza superare interamente
l’ideologia delle “sfere separate”, basata sulle dicotomie privato/ pubblico e
femminile/maschile – individua nel mercato il luogo di incontro tra i bisogni
e la loro soddisfazione. Ciò, come abbiamo visto, ha provocato il deficit di
cura che la crisi pandemica ha enfatizzato oltre misura.
Un altro aspetto che unisce le tante e diverse forme di cura possibili è il
carattere relazionale di ogni risposta ai bisogni. La relazione di cura non
comincia nel momento in cui eroghiamo una cura, ma molto prima, quando
prendiamo a cuore qualcosa, quando dichiariamo “mi importa”, “I care”.
Questa dichiarazione è la premessa necessaria per ogni assunzione di
responsabilità per.
C’è poi un ultimo aspetto, piú problematico, che caratterizza la cura: il
fatto che la relazione che istituisce si basa sulla posizione diseguale di chi
cura e chi è curato. Questa condizione sembra porre quest’ambito di attività
in contraddizione con il principio di eguaglianza che è alla base della
politica democratica, offrendo un argomento forte per la sua esclusione dalla
polis come dominio di cittadini liberi ed eguali.
Ma è davvero cosí? La posizione diseguale tra chi cura e chi è curato fa
di questo insieme di attività un dominio esterno ed estraneo a quello della
politica, come pensavano gli antichi ateniesi che affidavano le necessità
della vita agli esclusi dalla polis: le donne e gli schiavi? E inoltre, la cura è
davvero definita da relazioni di diseguaglianza ineliminabili e irrimediabili?
La risposta è no. Intanto, ci sono diseguaglianze che non sono intrinseche
alla cura, ma determinate dal sistema di gerarchie e discriminazioni sociali
in cui questa si inserisce. Ci sono per esempio diseguaglianze nell’accesso
alle cure, che sono il prodotto di sistemi discriminatori di distribuzione di
risorse e opportunità. E ci sono diseguaglianze tra gli attori coinvolti che
sono spesso imputabili a un differenziale di potere sociale.
Queste diseguaglianze sono chiaramente materia di interesse e di
deliberazione per una politica democratica. Ma anche la posizione
strutturalmente diseguale tra chi cura e chi è curato può essere corretta in
senso egualitario, se inserita in una visione della cura che abbraccia l’intera
vita delle persone e i rapporti tra le generazioni, che fa di ognuno, in
momenti diversi della propria esistenza, un possibile erogatore e un
possibile destinatario delle cure necessarie per il “buon vivere” proprio e
altrui. Se usciamo dalla rappresentazione “piatta” della società propria del
neoliberalismo, che vede gli individui come attori senza storia nel mercato,
che cancella, in una presunta neutralità degli scambi tra pari, tanto le
differenze quando le diseguaglianze, possiamo restituire alle interazioni tra
esseri umani una profondità temporale e una complessità di vincoli e
dipendenze.
Per tutte queste ragioni, dobbiamo pensare a quella di cui stiamo trattando
come a una materia squisitamente politica: un problema di giustizia e un
interrogativo che riguarda da vicino la nostra idea di eguale libertà.
Se per affrontare la crisi che stiamo vivendo crediamo ci sia bisogno di
politica, e siamo disposti a comprendere quella in corso come una “crisi
della cura”, ci troviamo quindi di fronte a un’urgenza ineludibile: ripensare
la cura attraverso le procedure e i principi della democrazia.

Una democrazia della cura

Tronto distingue diverse “fasi” della cura che corrispondono ad altrettante


possibilità che sono contenute in questa parola15. La prima fase è caring
about, ovvero il riconoscimento di bisogni che richiedono attenzione. La
seconda è caring for, ovvero l’assunzione di una responsabilità per
rispondere a tali bisogni. La terza fase è quella piú concreta del care-giving,
cioè della cura effettiva erogata a beneficio di chi ne ha bisogno. La quarta è
quella del care-receiving, e riguarda le risposte dei beneficiari alle cure
ricevute.
Queste quattro fasi del care consentono a tutte e tutti di sviluppare
capacità, ci rendono “attenti, responsabili, competenti e reattivi”16. Ma
ancora non basta, afferma l’autrice, perché serve anche una fase ulteriore in
cui sia possibile discutere di chi si prende cura di chi, preoccupandosi di far
rispondere l’analisi dei bisogni, l’individuazione delle responsabilità e la
prestazione di cure ai principi democratici di giustizia, eguaglianza, libertà
per tutte e tutti. Questa fase lei la chiama caring with: la pratica che vede
tutte e tutti, cittadine e cittadini, partecipare a processi democratici di
allocazione delle responsabilità di cura, assicurando che chiunque possa
avere voce in queste decisioni.
A cosa dovrebbe condurre questa eguale partecipazione? Innanzitutto, a
porsi le domande giuste. A chiedersi quali sono i bisogni vitali delle nostre
società, quali sono riconosciuti e quali ignorati. A chiedersi chi è oggi
chiamato a prendersi cura e a quale costo; e chi, invece, agisce come se
fosse esonerato da tali responsabilità. Chi è incluso tra le persone meritevoli
di ricevere cure vitali e chi invece ne è escluso. Poi a chiedersi quale cura è
attualmente erogata, quanto è in grado di soddisfare i bisogni degli individui
e dei gruppi a cui è rivolta. A partire da queste domande, una cittadinanza
attenta e attiva potrebbe concorrere a un ripensamento dei modelli di cura.
Potrebbe dare vita a una “democrazia della cura”, in cui questo aspetto della
vita individuale e collettiva sia valorizzato e non piú relegato
nell’invisibilità, in cui l’attuale diseguaglianza di genere, classe e razza nella
distribuzione dei compiti di cura sia superato, in cui l’opposizione tra lavoro
produttivo e lavoro riproduttivo sia smantellata, in cui l’ordine di genere sia
sovvertito, in cui tutte e tutti possano integrare positivamente le diverse
dimensioni della vita.
L’idea di una “democrazia della cura”, che deve molto all’elaborazione
di Joan Tronto, è stata ripresa di recente in Italia da un movimento di
ricercatrici e attiviste che promuovono i diritti delle lavoratrici domestiche.
Muoversi verso nuove forme di democrazia, scrivono,
[…] significa, tra l’altro, ripensare e rivalutare sia il lavoro, finora largamente misconosciuto,
delle persone che si prendono cura quotidianamente, gratis, dei propri familiari, amici, vicini, sia il
lavoro di chi svolge tali attività professionalmente, in qualità di colf, assistenti familiari (badanti),
babysitter. Questo significa elaborare nuove sinergie, capaci di superare le contrapposizioni tra
pubblico e privato, famiglie e istituzioni in vista di un maggior benessere individuale e collettivo17.

In un senso ancora piú generale, mettere la cura al centro significa


investire nelle linee di difesa e promozione di una vita umana piena, che
includono i servizi per la salute, il sistema educativo, i servizi per l’infanzia
e la vecchiaia, il contrasto alla violenza, ma anche le tutele occupazionali, il
reddito di base, la protezione ambientale.

Curare la democrazia

E arriviamo cosí al punto conclusivo. Se posizioniamo la cura al centro,


come cambia l’idea di uguale libertà che è promessa e impegno di ogni
democrazia?
Proprio sull’idea di libertà è oggi in atto un conflitto. Un conflitto che
viene da lontano, e che oppone, da una parte, una concezione individualista e
competitiva, modellata sulla logica dell’impresa e del mercato, dall’altra
una concezione relazionale, in cui l’altro non è il limite ma la condizione di
possibilità per la realizzazione di sé nella pienezza delle proprie capacità.
Abbiamo visto il mondo industriale contrapporre la libertà d’impresa alla
salute, le ragioni dell’economia a quelle della vita, anche descrivendo
queste alternative come scelte “tragiche”. Qual è il prezzo (economico) che
vale la pena di pagare per la necessità di salvare vite? Questo, per esempio,
il senso di un editoriale dell’Economist18.
Simili posizioni dimenticano però di evidenziare che, se ci siamo trovati
di fronte a scelte “tragiche”, è perché il modello economico dominante negli
ultimi trent’anni ha subordinato le ragioni della vita a quelle dell’economia,
promosso lo sfruttamento della vita a fini economici, favorito l’espansione
del mercato privato a scapito del pubblico anche in settori letteralmente
vitali come la sanità. L’appropriazione economica della vita, in tutti i suoi
aspetti, a fini di profitto, ha ridotto gravemente proprio le linee di difesa
della vita umana. E la crisi generata dal Covid-19 ha esposto questo
meccanismo nei suoi aspetti effettivamente piú tragici.
Abbiamo visto, inoltre, movimenti di destra ed estrema destra, dagli Stati
Uniti all’Europa, scendere in piazza per negare l’esistenza della pandemia e
rigettare le misure anti-contagio come un’indebita intromissione dello Stato
nelle libertà individuali. Contrapponendo a una rappresentazione
femminilizzata dello Stato-checura un immaginario machista, centrato
sull’individuo padrone di sé e senza paura, questi movimenti uniscono la
domanda di libertà dallo Stato a una precisa visione della responsabilità. In
questa visione, il cittadino (maschio, adulto, bianco, proprietario) ha la
responsabilità di provvedere economicamente per sé e per la propria
famiglia, mentre la richiesta di impegnarsi attivamente nella cura e
l’assunzione di una piú ampia responsabilità per gli altri e il proprio mondo
risulta incomprensibile e inaccettabile.
La responsabilità intesa soltanto come imputabilità delle proprie scelte,
tipica dell’ideologia neoliberale, non solo fa di ogni risultato raggiunto un
merito personale, indifferente alle condizioni che l’hanno reso possibile, ma
anche di ogni fallimento una colpa personale19. E se ognuno è responsabile
per sé, chi necessita dell’aiuto altrui per vivere una vita degna è un cittadino
a metà, una persona che possiede solo imperfettamente le doti di autonomia e
razionalità che danno titolo a partecipare attivamente alla vita pubblica. Chi
si affida alla pubblica assistenza, poi, è per definizione un incapace, che
come tale deve essere guidato in modo paternalista.
In questo senso, l’idea di responsabilità individuale mina alla base la
cittadinanza democratica. In piú, il fatto che i fallimenti economici, sociali,
familiari ricadano interamente sugli individui indebolisce il legame sociale e
la partecipazione politica, mentre alimenta quella rabbia e quel risentimento
che oggi mettono a rischio le democrazie.
Di fronte a un quadro simile, la politica della cura indica una via d’uscita,
perché rovescia l’antropologia neoliberale invitando a porre la corporeità, i
bisogni, la vulnerabilità dell’essere umano al centro delle attenzioni
condivise, oltre che perché colloca la cura – la manutenzione e
perpetuazione del mondo da cui dipende la nostra vita – nel posto centrale
oggi occupato dall’impresa e dal mercato, quale oggetto di preoccupazione
democratica.
In questa prospettiva, il conflitto tra protezione e libertà appare come un
falso conflitto, che può essere risolto ripensando la libertà non come
responsabilità individuale ed emancipazione dagli oneri delle relazioni e
della cura, ma precisamente come crescita di sé e del proprio mondo
attraverso le relazioni e la cura condivisa.
Se le ragioni dell’economia oggi appaiono incompatibili con quelle della
vita, significa che il capitalismo cosí come attualmente lo conosciamo non è
compatibile con la democrazia, posto che intendiamo questa come un sistema
di governo capace di tenere in considerazione i bisogni e gli interessi del piú
ampio numero di persone, e tra questi, in primis, la vita stessa.
Le democrazie europee sono nate per superare la mostruosità di governi
totalitari che hanno decretato la “superfluità” della vita umana20. E se ancora
crediamo che nessun essere umano debba essere trattato come superfluo, che
ogni vita conti, non c’è nessuna scelta “tragica” da compiere tra la difesa
della vita e il suo disprezzo, né tra la sua difesa e il suo sfruttamento.
Bisogna allora diffidare di chi traveste da scelte tragiche ma necessarie la
fretta di tornare al “come prima”. Bisogna impegnarsi invece affinché il
“dopo” posizioni la cura al cuore della politica: per un’esigenza di giustizia,
per curare la nostra democrazia.
E possiamo essere persino piú visionari di cosí e ambire a che questa
prospettiva informi anche gli sforzi di democratizzazione della politica
globale. Come ha scritto Paul Preciado, “abbiamo bisogno di un parlamento
di corpi planetari, un parlamento non definito in termini di politiche
d’identità o di nazionalità, un parlamento di corpi (vulnerabili) che vivono
sul pianeta Terra”21. Non gli sforzi immunitari, ma la capacità di dare a ogni
vita il suo valore può condurci oltre la crisi, verso un pianeta della cura.
Note

1
Ida Dominijanni, “L’io alterato”, su #ViaDogana3, 25/5/2020:
http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/lio-alterato
2
Nancy Fraser, La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo, trad.
it. di L. Mazzone, Mimesis, Milano 2017.
3
Brunella Casalini, “Care e riproduzione sociale. Il rimosso della politica e dell’economia”, su Bollettino
telematico di filosofia politica, 2016: https://archiviomarini.sp.unipi.it/676/
4
Joan C. Tronto, Caring Democracy: Markets, Equality, and Justice, New York University Press,
New York 2013.
5
Elena Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri,
Torino 2009, p. 251.
6
Martha Fineman, Autonomy Myth: A Theory of Dependency, The New Press, New York 2005.
7
Wendy Brown, Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revolution, Zone Books, Cambridge
MA 2015.
8
Judith Butler, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, a cura di O. Guaraldo, Postmedia
Books, Milano 2013.
9
Elena Pulcini, La cura del mondo, cit., p. 248.
10
Ivi, p. 19.
11
Roberto Esposito, “Che cosa vuole davvero dire la parola ‘immunità’”, in la Repubblica, 24/5/2020.
Di Esposito si veda: Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2015.
12
Joan C. Tronto, Who Cares?: How to Reshape a Democratic Politics, Cornell University Press,
Ithaca NY 2015, p. 3.
13
In un significato simile, sufficientemente ampio da abbracciare l’intera “dimensione del buon vivere”,
la cura è stata pensata in Italia dalle femministe del Gruppo del mercoledí in La cura del vivere,
supplemento a Leggendaria, nº 89, settembre 2011. Si veda anche l’uso della nozione di cura nel senso
piú ampio come chiave di trasformazione dell’economia in Ina Praetorius, L’economia è cura, trad. it.
di A. Maestro, Altreconomia, Milano 2019.
14
Nancy Fraser, “La lotta sui bisogni: traccia per una teoria critica socialista e femminista della cultura
politica del tardo capitalismo”, in Ead., Fortune del femminismo, trad. it. di A. Curcio, Ombre Corte,
Verona 2014.
15
Joan C. Tronto, Caring Democracy, cit.
16
Joan C. Tronto, Who Cares?, cit., p. 8.
17
“Verso una democrazia della cura”, su inGenere, 2/4/2020: http://www.ingenere.it/articoli/verso-una-
democrazia-della-cura
18
“Covid-19 presents stark choices between life, death and the economy”, su The Economist, 2/4/2020:
https://www.economist.com/leaders/2020/04/02/covid-19-presents-stark-choices-between-lifedeath-and-
the-economy
19
Wendy Brown, Undoing the Demos, cit.
20
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2004.
21
Paul B. Preciado, “Le lezioni del virus”, su Internazionale, 9/5/2020:
https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2020/05/09/lezioni-virus

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