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L’APPLICAZIONE DEI PRINCIPI ERGONOMICI

NELLA REALTA’ AZIENDALE

Anno XI – n. 4

Settembre 2004
Questo testo è stato realizzato con lo scopo di divulgare i vantaggi
derivanti da una corretta progettazione ergonomica e di mostrare che
essa non è uno spreco di mezzi, ma può essere portatrice di notevoli
benefici dal punto di vista umano ed economico.

L’opera si avvale, in parte, del materiale presentato nei due


seminari tenutisi presso l’Unione degli Industriali della Provincia di
Bergamo tra il Novembre e Dicembre 2003 ed è destinata a tutti
coloro che si occupano di progettazione, costruzione, acquisto e
installazione di impianti, macchinari e attrezzature di lavoro, nonché
dell’organizzazione dei posti di lavoro.

I contenuti di questo “Quaderno” sono stati elaborati in collaborazione


con

e con il contributo della Prof.ssa Lina Bonapace, del Dott. Giorgio


Buratti e del Dott. Luca Dellera.
INDICE

1 ERGONOMIA 1
• Definizione e scopi dell’ergonomia 1
• I vantaggi di una progettazione ergonomica 1
• Quanto costa l’ergonomia? 2
• Quando si applica l’ergonomia? 3
• L’ergonomia: atto volontario oppure obbligo? 4

2 IL SISTEMA UOMO-LAVORO 7
• L’uomo 8
• Antropometria 10
• Fisiologia 17

3 IL POSTO DI LAVORO 23
• Stare seduti o in piedi? 24
• Libertà di movimento e distanza di sicurezza 29
• Posture forzate 31
• Sollevamento di carichi pesanti 33
• Suggerimenti posture carichi 34
• Sorveglianza e manutenzione di impianti 36

4 L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO 37


• Procedimenti e attrezzature di lavoro 37
• Pianificazione e istruzioni di lavoro 42
• Regolamentazione dell’orario di lavoro e delle pause 42
• Margine d’azione e potere decisionale 45

5 IL CONTENUTO DEL LAVORO 47


• Mancanza di stimoli sul lavoro e monotonia 47
• Eccesso di lavoro e /o di responsabilità 48
6 L’AMBIENTE DI LAVORO 49
• Clima 50
• Illuminazione nell’ambiente 54
• Abbagliamento 63
• Rumore 67
• Altri fattori 69

Bibliografia 73
1 ERGONOMIA

Definizione e scopi dell’Ergonomia


La parola “Ergonomia” deriva dal greco “Ergon” (lavoro) e
“Nomos” (legge), ed è ormai universalmente usata per definire la
disciplina che, ispirandosi a diverse conoscenze scientifiche, ha come
oggetto l’attività umana in relazione alle condizioni ambientali,
strumentali e organizzative in cui si svolge.

Il fine è l’adattamento di tali condizioni alle esigenze dell’uomo,


in rapporto alle sue caratteristiche e alle sue attività. Nata per studiare
e far rispettare nella progettazione una serie di norme che tutelino la
vita del lavoratore e accrescano l’efficienza e l’affidabilità dei sistemi
uomo-macchina, l’ergonomia ha allargato il proprio campo di
applicazione in funzione dei cambiamenti che sono sopravvenuti nella
domanda di salute e di benessere. L’obiettivo attuale è quello di
contribuire alla progettazione di oggetti, macchine, servizi, ambienti
di vita e di lavoro, perché rispettino i limiti dell’uomo e ne potenzino
le capacità operative.

Appare evidente che l’Ergonomia non riguarda quindi soltanto


l’adattamento delle attrezzature di lavoro alle caratteristiche
antropometriche ed anatomiche dell’individuo, ma si occupa anche
dell’organizzazione «a misura d’uomo» del lavoro, del suo contenuto
e dell’ambiente in cui si svolge.

I vantaggi di una progettazione ergonomica


Una cattiva organizzazione del posto di lavoro può arrecare danni
fisici al lavoratore.

Questo problema riguarda tutti i settori e i posti di lavoro, sia che


si tratti di un’attività svolta presso una macchina, in ufficio, alla
catena di montaggio, dietro il banco di un negozio o in un magazzino.
Eventuali danni fisici si ripercuotono sul rendimento del
lavoratore, il quale può restare lontano dal suo impiego per tempi
sensibilmente rilevanti.

In casi estremi un’organizzazione sbagliata della postazione e


dell’attività lavorativa può condurre all’inabilità e all’invalidità.
Questo va a scapito non solo della singola impresa, ma dell’economia
dell’intero paese: il costo economico dovuto agli infortuni e alle
patologie determinate dal posto di lavoro pesa, per l’Italia, come il
3.2% del Prodotto Interno Lordo, a fronte di uno 0.6% in Francia e di
1.1% per il Regno Unito.

L’Ergonomia non mira soltanto ad evitare danni fisici e


sovraccarichi ai lavoratori; un ambiente di lavoro progettato
ergonomicamente contribuisce a ridurre notevolmente il rischio di
infortunio. Solo tenendo conto delle regole ergonomiche è possibile
trovare una soluzione globale ai problemi legati alla sicurezza sul
lavoro.

Quanto costa l’ergonomia?


Se i principi dell’ergonomia vengono applicati già al momento
della progettazione e dell’installazione dei posti di lavoro, o nella fase
di progettazione e sviluppo di macchine o utensili, è possibile evitare
eventuali costi aggiuntivi o per lo meno contenerli.

Se invece si è costretti ad intervenire a posteriori per migliorare


l’ergonomia del posto e delle attrezzature di lavoro, si dovranno
mettere in conto costi maggiori. Tuttavia, anche se ciò dovesse
accadere, in molti casi gli investimenti richiesti vengono ammortizzati
in breve tempo. Un ambiente di lavoro ergonomicamente corretto
comporta, infatti, risparmi considerevoli in quanto si riducono i giorni
di assenza per malattia e il numero di infortuni.

Un lavoratore sano e motivato inoltre garantisce un rendimento


maggiore.
Quando si applica l’ergonomia?
Appare evidente che le capacità, le caratteristiche e le esigenze
dei lavoratori devono essere tenute in debita considerazione al
momento di progettare l’ambiente di lavoro.

I progettisti non devono però limitarsi ai problemi tecnici e


pensare soltanto se il futuro posto di lavoro sarà manuale,
semiautomatizzato o completamente automatizzato, i principi
ergonomici non devono mai essere persi di vista.

Se l’ambiente di lavoro è stato previsto per un’attività manuale,


in primo piano ci sarà la disposizione ergonomica dei comandi, in
caso di impianti completamente automatizzati si dovrà dare priorità al
controllo dei processi lavorativi e alla rapidità nei tempi di
manutenzione. A cosa serve risparmiare decimi di secondo nella fase
di produzione, quando la manutenzione di un impianto difficilmente
accessibile rischia di bloccare a lungo e sistematicamente il ciclo di
produzione?

Se un sistema è concepito in modo poco redditizio dal punto di


vista economico o non è abbastanza efficiente, un attento esame della
sua criticità può rilevare carenze preesistenti e indicare le soluzioni da
adottare.

Chiaramente ogni intervento di progettazione o ri-progettazione


ottiene risultati più o meno validi a seconda delle cause o della
concatenazione di fattori che determinano il sistema, tuttavia si
possono definire vari livelli di priorità corrispondenti all’ottenimento
di benefici.

I principi dell’ergonomia sono fondamentali nella progettazione,


organizzazione e installazione di:
• nuove attrezzature di lavoro,
• nuovi metodi di lavoro,
• nuovi impianti di produzione,
• nuovi posti di lavoro.

I principi dell’ergonomia sono fortemente consigliati quando:


• bisogna aumentare la sicurezza sul lavoro,
• le ore di assenza per malattia sono numerose,
• si vuole motivare maggiormente i lavoratori,
• si vuole migliorare il benessere dei lavoratori.
La valutazione ergonomica dell’ambiente di lavoro può rivelarsi
utile, se i problemi sono legati a:
• elevati costi di produzione,
• elevati costi di manutenzione e riparazione,
• scarsa qualità del prodotto finito,
• mancata affidabilità degli impianti di produzione (guasti molto
frequenti),
• mancato rispetto delle scadenze,
• insoddisfazione dei clienti,
• elevata fluttuazione.
La cosa più importante è considerare le mansioni da svolgere non
solo in termini di profitto facile e di confort per i lavoratori; in linea di
massima bisognerebbe sempre applicare il seguente principio:

Il risultato degli sforzi deve consentire all’individuo di esprimere


al meglio le proprie capacità e competenze nel lavoro e di ottenere
risultati apprezzabili in termini di rendimento, soddisfazione,
sicurezza e tutela della salute sul lavoro

L’ergonomia: atto volontario oppure obbligo?


Progettare e concepire in modo ergonomico attrezzature e posti di
lavoro non è, come spesso si crede, un atto volontario o un favore nei
confronti dei lavoratori, ma un obbligo.

L’articolo 3, comma 1, lettera f) del D.Lgs 626/94 introduce


l’obbligo del “rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei
posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei
metodi di lavoro e produzione, anche per attenuare il lavoro monotono
e quello ripetitivo”.
Si tratta di una delle maggiori innovazioni introdotte dal D.Lgs
626/94 poiché in precedenza, fermo restando l’obbligo di non causare
danni ai lavoratori, non vi erano vincoli legislativi specifici relativi a
principi di carattere ergonomico.

Non è questo comunque il solo passaggio all’interno del D.Lgs


626/94 in cui è esplicitamente richiamato il rispetto dei principi
ergonomici; questo riferimento è infatti presente in quasi tutti gli altri
titoli ed in particolare nel:
• III attrezzature di lavoro,
• IV dispositivi di protezione individuale,
• V movimentazione manuale dei carichi,
• VI videoterminali.
Si rammentano inoltre i precisi obblighi previsti al riguardo e per
i diversi soggetti coinvolti dal recepimento della "Direttiva macchine":
DPR 24 luglio 1996 n. 459 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 6
settembre 1996). In particolare, l'acquirente od utilizzatore di una
macchina, oltre a verificare l'osservanza formale dei requisiti di legge
e l'eventuale presenza di palesi carenze, deve installare ed utilizzare la
macchina secondo le istruzioni del costruttore e valutare i rischi della
stessa macchina inserita nel contesto lavorativo specifico.

Diventa quindi essenziale, al fine del concreto rispetto degli


obblighi previsti in materia di ergonomia, il riferimento a standard
nazionali ed internazionali capaci di fungere da un lato da guida
applicativa per il datori di lavoro e progettisti.

Esistono numerosi strumenti per progettare e disporre l’assetto di


macchine, impianti, apparecchiature e posti di lavoro. La
presentazione di questi esula lo scopo di questo scritto tuttavia si
sottolinea come molte informazioni e suggerimenti utili si possono
trovare nella norma UNI EN 614-1 «Sicurezza del macchinario.
Principi ergonomici di progettazione. Terminologia e principi
generali.»

In questo documento potete trovare anche una serie di rimandi ad


ulteriori norme sull’ergonomia.
Le norme non possono essere messe sullo stesso piano delle
ordinanze e delle leggi, tuttavia sono uno strumento utile per rispettare
i principi fissati dalla legge.

Se i costruttori e i progettisti si attengono a quanto riportato nelle


norme, si può ritenere che in linea di massima anche i requisiti di
legge siano soddisfatti.
2 IL SISTEMA UOMO-LAVORO

Benessere sul Buon risultato


lavoro d’esercizio

Figura 1 - La ruota dell’ergonomia


La funzione dell’ergonomia può essere rappresentata in modo
schematico con una ruota suddivisa in tre parti: centro, sfera operativa,
sfera delle reazioni (fig.1).

Al centro troviamo l’uomo e la mansione che deve svolgere. Da


un lato, il lavoro deve essere adattato alle capacità e alle caratteristiche
del singolo individuo, dall’altro, anche l’individuo ha la possibilità di
adeguarsi alle sue mansioni. Per questo motivo ritroviamo l’uomo
anche nella sfera operativa, ossia nel settore riservato all’ergonomia,
accanto ad altri fattori quali il posto di lavoro, l’organizzazione,
l’ambiente e il contenuto del lavoro.

Tutti i fattori che rientrano nella sfera operativa influiscono su


quelli della sfera delle reazioni. Una sfera delle reazioni equilibrata e
forte è la premessa fondamentale per il benessere sul posto di lavoro e
per ottenere buoni risultati economici. La sfera operativa può essere
paragonata alla pellicola di lubrificante sulla superficie di un
cuscinetto: la minima rottura di questa pellicola in un punto qualsiasi
causa attrito e calore. Senza un ulteriore apporto di lubrificante il
cuscinetto è destinato a danneggiarsi. La stessa cosa avviene nel
mondo del lavoro. L’ergonomia serve a lubrificare il cuscinetto e a far
girare la ruota in avanti senza grosse perdite per attrito.

Di seguito verranno trattati i cinque settori della sfera operativa


col fine di fornire una serie di spunti utili affinché il lettore sia in
grado di valutare attentamente il posto di lavoro tenendo conto di tutti
gli aspetti.

L’uomo
Distinguiamo tra caratteristiche prestabilite, non modificabili o
solo difficilmente modificabili quali:
• sesso,
• età,
• caratteristiche antropometriche,
• costituzione,
• aspetto fisico e funzione dell’organismo (fisiologia) e
caratteristiche più o meno modificabili quali:
• grado di istruzione,
• abilità,
• esperienza,
• condizioni psico-fisiche.

Uomo
Uomo

Possiede caratteristiche Possiede caratteristiche


prefissate quali: modificabili quali:
• sesso a) Grado di formazione
• età b) Abilità
• caratteri antropometrici c) Esperienza
• costituzione d) Condizioni psico-fisiche
• fisiologia
Influenzabili con:
• allenamento/esercizio
• formazione
• istruzione
• introduzione nella
• mansione lavorativa

Figura 2 - Caratteristiche proprie dell’uomo


Le caratteristiche prestabilite si collocano al centro della ruota
dell’ergonomia e quelle modificabili nella sfera operativa.

Un elemento molto importante delle caratteristiche fisse non


modificabili è l’antropometria, essa svolge un ruolo di primo piano
nella fabbricazione di macchine, attrezzi, utensili, mezzi di trasporto e
arredi per ufficio nonché nell’architettura dei posti di lavoro in
generale.

Antropometria

L’antropometria è la scienza che tratta in modo specifico i


caratteri misurabili del corpo umano, ossia le misure e le
caratteristiche fisico-dimensionali, attraverso la raccolta e
l’elaborazione statistica dei dati rilevabili sugli individui all’interno
dei diversi gruppi di popolazione.

I dati riguardano le misure relative ai principali parametri fisici


dell’uomo (altezze, larghezze, circonferenze, distanze di presa e di
raggiungibilità ecc.) rilevate su un campione di individui selezionato
in modo da rappresentare la variabilità con la quale tali misure si
presentano all’interno di una data popolazione.

L’elaborazione statistica dei dati antropometrici permette di


individuare i valori minimi e massimi di tali misure all’interno della
popolazione considerata (ad esempio la statura minima e massima
rilevata nella popolazione italiana di età compresa tra i 19 e i 65 anni),
il loro valore medio, la frequenza con la quale si presentano e così via.

Le dimensioni corporee variano in ogni individuo nel corso della


vita in funzione:
• dell’età,
• dello stato di salute,
• del tipo di attività svolta,
• delle condizioni ambientali,
• del tipo di alimentazione ecc.
In modo altrettanto variabile si presenta la distribuzione statistica
dei dati antropometrici rilevati all’interno di ciascuna popolazione,
con differenze più o meno marcate in base all’età, al sesso, alla
provenienza geografica ecc.

L’utilizzazione dei dati antropometrici, che si presenta come un


processo apparentemente semplice basato sulla individuazione dei dati
utili al progetto e sulla loro traduzione in parametri progettuali, pone
al contrario alcuni problemi relativi alla corretta selezione e
interpretazione dei dati disponibili ed alla loro utilizzazione in
funzione del problema progettuale. Una particolare attenzione richiede
la scelta dei dati antropometrici in funzione dello specifico problema
progettuale.

La quantità dei dati antropometrici e l’estrema variabilità con la


quale le misurazioni relative ai parametri antropometrici si presentano
all’interno di uno stesso gruppo di popolazione richiedono infatti di
individuare quali sono i dati effettivamente utili al progetto e qual è il
gruppo di popolazione al quale il progetto si rivolge.

Il progetto di una porta o di un passaggio richiederà


l’utilizzazione dei dati relativi all’altezza e all’ingombro della figura
umana e il riferimento alle dimensioni delle persone di statura e
ingombro più elevati. Il progetto di una maniglia richiederà
l’utilizzazione dei dati relativi alle dimensioni e alla capacità di presa
della mano e il riferimento alle dimensioni e alle capacità di
movimento più limitate (ad esempio: dimensioni della mano dei
bambini e ridotta capacità di presa, derivante da patologie articolari o
dalla semplice necessità di indossare dei guanti).

In tutti i casi l’utilizzazione dei dati antropometrici richiede sia la


corretta impostazione del problema progettuale, sia la successiva
selezione ed elaborazione dei dati disponibili.

I dati antropometrici, in particolare quelli destinati all’uso dei


progettisti e riportati in tabelle e/o schemi grafici, sono tratti da
rilevazioni effettivamente realizzate su campioni rappresentativi di
gruppi di popolazione individuati sulla base di specifiche
caratteristiche (generalmente l’appartenenza geografica,
l’appartenenza generazionale ecc.), oppure adattati, attraverso
opportuni coefficienti di incremento o di riduzione, a partire dai dati
relativi a gruppi di popolazione diversi, operando “aggiustamenti” sui
dati disponibili.

Nel caso della popolazione femminile e della popolazione


anziana, per le quali non sono disponibili rilevazioni sufficientemente
estese e sistematiche, i dati sono ottenuti applicando un coefficiente di
riduzione ai dati della popolazione maschile.

L’adattamento dei dati rappresenta inoltre un’operazione quasi


sempre necessaria tenendo conto del fatto che le misurazioni si
riferiscono generalmente alle dimensioni e alla capacità di movimento
di persone spogliate, o che indossano un abbigliamento minimo, a
capo scoperto e a piedi nudi. L’ingombro degli abiti deve, al contrario,
essere considerato come un fattore di variabilità sia per le dimensioni
del corpo umano (ad esempio per l’ampiezza delle spalle, che varia in
base al tipo di indumenti utilizzati, e per la statura, poiché tutti noi
utilizziamo quasi sempre le scarpe e queste possono incrementare
anche notevolmente la nostra altezza), sia per la capacità di
movimento poiché l’estensione e l’agilità possono essere diminuite, ad
esempio, dalla necessità di indossare particolari indumenti da lavoro o
più semplicemente dagli abiti invernali o da un paio di scarpe con i
tacchi alti, così come il movimento delle mani e delle dita può essere
limitato dall’uso di un paio di guanti.

I dati antropometrici rilevati all’interno di una data popolazione si


presentano con valori variabili che possono essere riportati su un
grafico attraverso una serie di istogrammi ricavabili riportando in
ascissa i valori della statura e in ordinata la loro frequenza. Unendo la
sommità degli istogrammi con una linea continua, si ottiene un
modello di distribuzione del carattere: nell’esempio riportato in fig. 3
(statura dei soggetti maschi) si ottiene una distribuzione normale ossia
una curva con andamento simmetrico rispetto al valore centrale.
Figura 3 - Curva percentili: i dati qui riportati si riferiscono
alla popolazione adulta in Gran Bretagna e sono tratti da
Pheasant S., op. cit. 1997

La parte più alta della curva esprime sia il valore medio del
carattere considerato, sia il valore più frequentemente rilevato
all’interno della popolazione considerata (la moda), ed infine il valore
al di sotto o al sopra del quale si trova il 50% dei soggetti (mediana).

Le misure rilevate possono essere suddivise in 100 parti


percentuali cui corrispondono 99 medie (definite percentili) che
indicano quale percentuale di popolazione ha un valore del parametro
uguale o inferiore quello preso in considerazione.

ll 5° percentile della statura in altezza indica, ad esempio, che il


95% della popolazione ha una statura superiore e che soltanto il 5% ha
una statura inferiore a quel determinato valore. Viceversa il 90°
percentile indica che il 10% della popolazione ha una statura superiore
e il 90% ha una statura inferiore.

Il grafico che rappresenta la frequenza dei dati relativi alla


maggior parte delle dimensioni umane rilevabili all’interno di una
popolazione con una normale distribuzione assume un andamento
normale o gaussiano, analogo a quello riportato nello schema.

Nella parte centrale della curva è concentrato il maggior numero


dei dati rilevati; nelle due parti estreme della curva è, invece,
concentrato un minore numero di misurazione, che corrispondono
quindi a minori percentuali di popolazione.

L’osservazione della frequenza con la quale si presentano i dati


relativi alle dimensioni del corpo umano, e la stessa definizione di
percentile come percentuale dei dati inferiori e superiori a una
determinata misura rilevata all’interno di una data popolazione,
rendono evidente l’inutilità di riferirsi alle dimensioni medie della
popolazione.

Per ciascun carattere considerato, le dimensioni medie


rappresentano infatti la misura corrispondente al 50° percentile ossia
la misura rispetto alla quale il 50% della popolazione ha dimensioni
inferiori e il 50% ha misure superiori.

Progettare in base alle dimensioni corrispondenti al


50°percentile significa quindi escludere la maggior parte degli utenti
(ossia il 50% con dimensioni inferiori e il 50% con dimensioni
superiori). Anche considerando che la maggiore frequenza di
misurazioni è rilevabile nella parte centrale della curva e che, con
qualche approssimazione, circa la metà della popolazione presenta
misure vicine a quelle corrispondenti al 50° percentile (ad esempio nel
caso riportato ,la statura del 50° percentile corrisponde a 175 cm e
circa la metà dei dati - dal 25° al 75° percentile - riportano stature
comprese tra i 170 e i 178 cm), progettare in base alla statura media
significa tenere conto approssimativamente del 50% degli utenti
escludendo l’altro 50%. Si deve inoltre considerare che i percentili
antropometrici si riferiscono ad una sola dimensione del corpo umano
(ad esempio la statura o la lunghezza delle gambe) e che le
rappresentazioni grafiche dell’uomo o della donna appartenenti ad un
determinato percentile costituiscono delle astrazioni che non trovano
corrispondenza negli uomini e nelle donne realmente esistenti. Non
esistono infatti casi di persone per le quali la totalità delle dimensioni
corporee sia riferibile ad un solo percentile ma, per ciascuno di noi,
sono al contrario le singole dimensioni del corpo a corrispondere a un
determinato percentile : un individuo che appartiene al 50° percentile
per la statura può corrispondere al 40° per quanto riguarda l’altezza
del ginocchio, al 60° per la lunghezza della mano ecc. L’utilizzazione
dei dati antropometrici non può, e non deve, quindi avvenire in modo
meccanico, ma richiede la selezione e l’interpretazione dei dati in
funzione dello specifico problema progettuale. Utilizzati
correttamente, i dati resi disponibili dall’antropometria costituiscono
una risorsa progettuale attraverso la quale è possibile definire i
requisiti dimensionali del progetto e valutare, in base a riferimenti
certi, la percentuale di utenti che potranno utilizzare comodamente e
senza sforzo l’ambiente o il prodotto progettato (ad esempio l’altezza
di uno scaffale, definita in base alla statura della persona di sesso
femminile appartenente al 5° percentile, consente di calcolare che il
95% delle persone - che hanno statura superiore - potrà utilizzare
comodamente quello scaffale) ossia di rispondere alle esigenze del
massimo numero possibile di utenti.
Caratteri antropometrici del corpo Percentile
umano (uomo) in piedi 5. 50. 95.
a) altezza in posizione eretta 165,2 175,3 186,7
b) altezza alla spalla 137,3 146,5 156,2
c) altezza del cavallo 75,5 82,7 90,1
d) elongazione in senso orizzontale fino
67,6 72,3 76,7
all’asse di presa della mano
e) altezza al piano dei ginocchi 152,8 163,4 174,6
f) elongazione in senso verticale di
ambedue le braccia fino all’asse di 194,8 208,3 224,8
presa delle mani
g) larghezza del bacino, in piedi 31,3 33,6 35,5
h) altezza dell’asse di presa della mano 74,3 78,6 84,3
* non disponibili parametri
antropometrici significativi

Caratteri antropometrici del corpo Percentile


umano (donna) in piedi 5. 50. 95.
a) altezza in posizione eretta 156,7 166,0 175,4
b) altezza alla spalla 127,4 135,5 144,1
c) altezza del cavallo ***
d) elongazione in senso orizzontale fino
*
all’asse di presa della mano
e) altezza al piano dei ginocchi 144,8 154,2 164,0
f) elongazione in senso verticale di
ambedue le braccia fino all’asse di *
presa delle mani
g) larghezza del bacino, in piedi 31,0 34,1 40,6
h) altezza dell’asse di presa della mano *
* non disponibili parametri
antropometrici significativi

Tabella 1 - Caratteri antropometrici di una persona in piedi (secondo


DIN 33402).
Vedi anche «Anthropometric requirements for the design
of workstation at machinery» (prEN ISO 14738).
Fisiologia
Di analoga importanza è la fisiologia umana (muscolatura,
scheletro, apparato locomotore, consumo energetico, bioritmo), questi
aspetti sono di grande importanza per costruttori, architetti, designer e
ingegneri. Fattori come rendimento, affaticamento e logorio
dipendono essenzialmente dal modo in cui i mezzi e i procedimenti di
lavoro sono adattati ai caratteri antropometrici e fisiologici.

Il corpo umano è in grado di muoversi perché possiede un esteso


sistema di muscoli che complessivamente costituiscono circa il 40%
del peso corporeo totale. Ogni muscolo è formato da un gran numero
di fibre muscolari, da centomila a un milione di fibre, che terminano
alle due estremità in tendini. Nei muscoli lunghi più fibre sono talvolta
riunite in fasci. Da entrambe le estremità del muscolo le fibre si
fondono in un unico tendine, resistente e anelastico, che a sua volta è
saldamente fissato all’apparato osseo. La proprietà più importante del
muscolo è la sua capacità di accorciarsi, fenomeno chiamato
contrazione muscolare. Ogni muscolo può contrarsi sino alla metà
della sua lunghezza normale: il lavoro compiuto dal muscolo durante
una contrazione completa è tanto maggiore quanto più grande è la
lunghezza del muscolo stesso.

Ogni fibra muscolare si contrae con una certa forza e la forza


dell’intero muscolo è data dalla somma delle contrazioni di queste
fibre. La forza massima esercitata dal muscolo umano è pari a 3-4 kgf
per cm2 di sezione. Un muscolo che abbia una sezione di 1cm2 può
sostenere quindi un peso di 3-4 kg.

La forza muscolare intrinseca di una persona è primariamente in


relazione alla sezione dei suoi muscoli. A parità di allenamento la
donna, che ha i muscoli di sezione più ridotta, esplica una forza che è
del 30% circa inferiore di quella dell’uomo [Scherrer].

Generalmente si distinguono due tipi di attività muscolare:


• Attività dinamica (ritmica): caratterizzata da un alternarsi di
contrazione e distensione, di tensione e rilassamento della
muscolatura attiva
• Attività statica (posturale): caratterizzata da uno stato prolungato
di contrazione dei muscoli, il che implica di solito uno stato
posturale.
Entrambi questi tipi sono illustrati nella figura: girare la
manovella di una ruota rappresenta un esempio di attività dinamica,
reggere un peso a braccio teso invece rappresenta un esempio di
attività statica.

Riposo Attività dinamica Attività statica

fabbisogno irrorazione fabbisogno irrorazione fabbisogno irrorazione


di sangue sanguinea di sangue sanguinea di sangue sanguinea

Figura 4 - Rielaborato da Grandjean E., pag. 8 Attività statica e


dinamica

In una situazione dinamica, il lavoro si può calcolare come il


prodotto dell’accorciamento del muscolo e della forza sviluppata
(lavoro = peso x altezza a cui è sollevato).

Durante l’attività statica la distensione è impedita, il muscolo


resta in uno stato di forte tensione ed esercita la sua forza per un
periodo prolungato e non viene svolto verso l’esterno nessun lavoro
effettivo. Il muscolo si può paragonare a un elettromagnete sottoposto
a un continuo consumo di energia quando regge un dato peso, anche
se apparentemente non compie alcun lavoro effettivo.

Vi sono differenze fondamentali fra l’attività muscolare statica e


quella dinamica: durante l’attività statica i vasi sanguigni sono
compressi dalla pressione interna del tessuto muscolare, in modo tale
che il sangue non può più fluire nel muscolo, mentre durante l’attività
dinamica, il muscolo agisce da pompa per il sistema circolatorio. La
compressione spinge il sangue fuori dal muscolo e il rilassamento che
segue ne consente una nuova entrata. In questo modo l’apporto di
sangue aumenta di più volte rispetto al normale: il muscolo, infatti,
può ricevere da dieci a venti volte più sangue di quando è a riposo.

Il muscolo che svolge un lavoro dinamico è dunque irrorato dal


sangue, attraverso il quale riceve gli zuccheri altamente energetici e
l’ossigeno, eliminando allo stesso tempo i prodotti di rifiuto.

Il muscolo che svolge un pesante lavoro statico invece non riceve


dal sangue né zucchero né ossigeno e deve contare solo sulle proprie
riserve. Inoltre - e questo è senza dubbio il maggiore svantaggio - non
espelle i rifiuti, avviene anzi l’opposto: i rifiuti si accumulano
producendo un forte dolore, tipico della fatica muscolare.
Figura 5 – 6 Irrorazione sanguigna dei muscoli durante lo sforzo
dinamico e lo sforzo statico. Le curve mostrano la
variazione della tensione muscolare (pressione interna).
Sopra 6: lo sforzo dinamico agisce da pompa e fa fluire
il sangue attraverso il muscolo.
Sotto 6: lo sforzo statico ostruisce il flusso sanguigno.
Rielaborato da Grandjean E., pag 9 e 10
E per questa ragione che non si può protrarre troppo a lungo
un’attività muscolare statica; il dolore ci costringerebbe a desistere.
L’attività dinamica, al contrario, può durare per lunghissimo tempo
senza provocare fatica, purché si scelga il ritmo adatto.

Alla luce di tutto questo appare chiaro che i lavori che richiedono
un notevole impegno muscolare vanno pianificati e suddivisi
correttamente per tutta la loro durata.

Per certi aspetti l’individuo è dotato di un’enorme flessibilità e di


grandi capacità di adattamento.

Non di rado capita che all’inizio di un’attività lavorativa sia in


grado di soddisfare solo in parte a quanto richiesto dalla propria
mansione; esso saprà però adattarsi in breve tempo alle esigenze
specifiche della mansione affidatagli senza andare incontro a stress, a
patto che vengano soddisfatte le premesse fondamentali per svolgere
come si deve l’attività lavorativa e dimostri la capacità, la volontà e le
possibilità di sottoporsi ad un periodo di formazione e istruzione.

Esistono però numerose attività che sul piano fisico, intellettuale


o creativo richiedono determinate qualità, capacità e talenti, che non si
possono influenzare né con la formazione né con l’esercizio. In questi
casi l’unica soluzione è cercare la persona più adatta alla mansione da
svolgere.
3 IL POSTO DI LAVORO

In questo capitolo verranno trattati alcuni aspetti importanti per


l’organizzazione dei posti di lavoro, principalmente per quanto
riguarda la disposizione ottimale di arredi, del lay-out e la scelta di
strumenti di lavoro ergonomici. Essi tendono in generale a migliorare
gli aspetti legati a posture e movimenti incongrui, a compressioni
localizzate di strutture anatomiche degli arti superiori, ad uso di forza
eccessiva.

Posto di
lavoro

Da prendere in considerazione:
• stare in piedi, seduti
• dimensioni
• libertà di movimento
• distanza di sicurezza
• posture forzate
• sollevare trasportare
• angolo visivo
• visualizzazione, dispositivi di
comando, maniglie
• manutenzione

Figura 7 - Criteri per concepire un posto di lavoro a misura d’uomo


Stare seduti o in piedi?
È una domanda fondamentale dal punto di vista ergonomico. Le
attività svolte da seduti riguardano soprattutto gli uffici e i reparti di
montaggio di precisione e di piccoli pezzi; le attività svolte in piedi
sono invece tipiche dell’industria e del settore vendite.

Ideali e da preferire, perché salutari per la circolazione, la


muscolatura e l’apparato locomotore, sono le attività cosiddette
«miste» da svolgere in posizione seduta o in piedi. Da un punto di
vista fisiologico e ortopedico, un posto di lavoro che permetta
all’operatore di stare in piedi o seduto a seconda della necessità è
altamente consigliabile.

La posizione assisa prolungata comporta minori sforzi statici


rispetto a quella in piedi, tuttavia anche da seduti si verificano
fenomeni di affaticamento che normalmente si alleviano alzandosi.
Posizione in piedi e posizione assisa sottopongono a tensione muscoli
diversi, perciò ogni cambio di posizione rilassa alcuni muscoli mentre
ne mette in tensione altri. Si hanno inoltre buoni motivi per ritenere
che il passaggio dalla posizione in piedi a quella seduta (e viceversa)
sia accompagnato da variazioni nell’afflusso di materiale nutritivo nei
dischi intervertebrali, pertanto il cambio di posizione risulta
vantaggioso anche per i dischi intervertebrali.

In linea di massima, dal punto di vista della statura, l’ergonomia


considera una popolazione che va dal 5° percentile delle donne (solo il
5% delle donne sono più basse) sino al 95° percentile degli uomini
(solo il 5% degli uomini sono più grandi).

Per le persone che non rientrano in questo campo bisogna trovare


soluzioni individuali.

Per quanto possibile è bene ricorrere ad attrezzature di lavoro


regolabili in modo da poterle adattare alla corporatura e
all’attività dei lavoratori. Questo è possibile in molti uffici (sedie,
scrivanie, videoterminali regolabili). È indispensabile che gli arredi di
ufficio siano regolati correttamente.
Solo in casi rari gli impianti di produzione e le macchine possono
essere adattati alle caratteristiche antropometriche dei lavoratori.

Le possibilità di regolazione, se esistono, riguardano solitamente


l’altezza della superficie di lavoro, delle sedie e degli impianti di
montaggio o la posizione di apparecchi di controllo, di visualizzazione
e di manovra.

Per questi motivi è indispensabile prendere in considerazione i


fattori ergonomici già in fase di progettazione e dimensionamento
delle linee e degli impianti.
POSTURA MISURA VALORE

Piano di lavoro regolabile A 820 Altezza piano di lavoro


in altezza 495 regolabile

720 Altezza piano di lavoro


non regolabile

B 790 Larghezza posto di


lavoro

C 520 Profondità alle


ginocchia
Piano di lavoro non
regolabile in altezza
D 855 Profondità ai piedi

E 285 Spazio per i movimenti


delle gambe sotto il
sedile

F 535 Altezza del sedile dal


370 piano d’appoggio dei
piedi

G 0 Altezza di un poggia
165 piedi regolabile

Tabella 1 - Posizione assisa: altezza piano di lavoro e spazio per gli


arti inferiori, norma EN ISO 14738
ALTEZZA DEL ALTEZZA DEL
RICHIESTA
POSTURA PUNTO PIANO DI
OPERATIVA
OPERATIVO LAVORO

Lavoro di
precisione PIU’ ALTO DEL PIANO DI
(braccia GOMITO LAVORO ALTO
supportate)

Presenza di
movimenti attivi PIANO AD
ALTEZZA
delle braccia nel ALTEZZA
GOMITO
maneggiare GOMITO
piccoli oggetti

PIANO AL DI
In lavorazione
SOTTO
oggetti VARIABILE IN
DELL’ALTEZZA
ingombranti ma FUNZIONE
DEL GOMITO
non DELLA
COMPATIBIL-
eccessivamente GRANDEZZA
MENTE CON LO
grandi o pesanti DELL’OGGETTO
SPAZIO PER GLI
ARTI INFERIORI

Tabella 2 - Posizione assisa: altezza piano di lavoro e spazio per gli


arti inferiori, norma EN ISO 14738.
POSTURA MISURA VALORE (mm)

ALTEZZA PIANO
A da 1584
ALTA PRECISIONE O Regolabile a 1053
ALTA RICHIESTA
VISIVA

non regolabile compreso tra


1315 e 1554

MEDIA
PRECISIONE O ALTEZZA PIANO
MEDIA RICHIESTA
VISIVA
B da 1225
a 960
Regolabile

non regolabile 1195

ALTEZZA PIANO
MOVIMENTAZIONE C da 1105
OGGETTI PESANTI
E BASSA
Regolabile a 867
RICHIESTA VISIVA
non regolabile 1075
ALTEZZA SPAZIO
PIEDI 226+
D F
PROFONDITÀ
SPAZIO PIEDI 210
E
PIATTAFORMA
REGOLABILE IN
ALTEZZA
QUANDO IL
265
PIANO
0
OPERATIVO NON
SIA REGOLABILE
F

Tabella 3 - Altezza del piano di lavoro per posizioni di lavoro in piedi


e spazio per i piedi, norma EN ISO 14738
Libertà di movimento e distanza di sicurezza
Le macchine e gli apparecchi devono essere concepiti in modo
tale che le operazioni necessarie per azionarli, sorvegliarli e sottoporli
a manutenzione siano facilmente eseguibili. Il posto di lavoro, se
concepito a misura d’uomo, deve offrire sufficiente libertà di
movimento e la necessaria distanza di sicurezza. Un aspetto spesso
trascurato riguarda lo spazio riservato alle gambe sotto le scrivanie, i
nastri continui, presso le macchine di piccole dimensioni.

Lo spazio di movimento è lo spazio necessario al corpo umano


per svolgere agevolmente i movimenti richiesti da una determinata
attività. Per definirlo si devono quindi prendere in esame l’ingombro
corporeo e l’involucro occupato dal movimento delle singole parti del
corpo.

La raggiungibilità dinamica rappresenta l’insieme delle distanze


raggiungibili dal corpo umano attraverso i movimenti e può essere
descritta attraverso le coordinate dimensionali dell’involucro del posto
di lavoro, ossia dello spazio occupato dalla persona durante i
movimenti necessari a svolgere una determinata attività.

Le zone di normale raggiungibilità sono le zone raggiungibili


comodamente, ossia attraverso movimenti che non comportano sforzo.
Anche in questo caso il raggio di azione delle braccia definisce le zone
raggiungibili attraverso il movimento.

Le zone di raggiungibilità (e le zone di normale raggiungibilità)


sono rappresentate graficamente dagli archi descritti dalla mano
attraverso il movimento delle braccia e si riferiscono alle dimensioni
minime e massime di tali archi, ossia alla dimensione relativa alla
donna del 5° percentile e all’uomo del 95°

Come riportato nella figura i dati relativi alle dimensioni del


corpo ed alle zone di raggiungibilità consentono inoltre di definire le
distanze e gli spazi necessari a impedire l’accesso alle fonti di
pericolo.
VALORE
POSTURA MISURA
(mm)
A1 505 AREA DI
LAVORO
NORMALE:
ALTEZZA
A2 730 AREA DI
LAVORO
MASSIMA:
ALTEZZA

B1 480 AREA DI
LAVORO
NORMALE:
LARGHEZZA
B2 1300 AREA DI
LAVORO
MASSIMA:
LARGHEZZA
C1 170 AREA DI
290 LAVORO
NORMALE:
PROFONDITA'
C2 425 AREA DI
LAVORO
MASSIMA:
PROFONDITA'

Tabella 4 - Aree operative limite per gli arti superiori, Norma EN


ISO 14738
Posture forzate
Occorre evitare il più possibile di assumere posture forzate. Se si
lavora a lungo alla stessa postazione, l’arredo dell’ufficio o la
configurazione della zona di lavoro deve consentire di cambiare
spesso posizione. Inoltre, è raccomandabile alternare la posizione
seduta con quella in piedi. Gli esercizi di stretching o di ginnastica
svolti occasionalmente durante l’orario di lavoro dovrebbero non solo
essere tollerati, ma anche incentivati.

Il principio fondamentale è rivolto ad evitare movimenti o


posizioni protratte che costringono le articolazioni ad operare oltre il
50% della loro massima ampiezza di escursione. Bisogna in questo
caso consentire il mantenimento di una postura o un movimento
articolare al di sotto del 50% della massima possibilità di escursione
per ciascuna articolazione.

Per prelevare il pezzo, il braccio Per azionare la leva, il braccio


esegue una abduzione di 60°-70°: esegue una flessione superiore a
quindi supera il 50% del range di 80°
escursione massimo consigliato
(45°) La leva va abbassata o meglio va
I punti di presa vanno avvicinati sostituita con pulsanti
Per depositare il pezzo lavorato, Le braccia sono mantenute
il braccio viene esteso di più di sollevate a più di 45° per almeno
20°, il punto di deposito degli 2/3 del ciclo.
oggetti va spostato al fianco E’ necessario creare degli appoggi
dell’operatore per gli avambracci

Figura 8 - Principali raccomandazioni per la riprogettazione di posti


di lavoro: come evitare posture e movimenti incongrui
per l’articolazione scapolo omerale (spalla) (Eastman
Kodak C., 1983, Putz Anderson 1988), rielaborato da
Occhipinti e Colombini.

IN GENERALE
• NON SUPERARE IL 50% DEL RANGE DI MOVIMENTO
ARTICOLARE PER TEMPI SIGNIFICATIVI (1/3 DEL CICLO)
• NON MANTENERE GLI ARTI SOLLEVATI (NON
APPOGGIATI A 45° E OLTRE PER TEMPI PROLUNGATI
(2/3 DEL CICLO)
• NON RIPETERE LO STESSO IDENTICO GESTO
LAVORATIVO PER TEMPI PROLUNGATI (2/3 DEL CICLO)
Sollevamento di carichi pesanti
L’uomo non è adatto al sollevamento e al trasporto di carichi
pesanti: stime approssimate dicono che almeno tre milioni di
lavoratori, nel nostro Paese, svolgono abitualmente attività lavorative
comportanti la movimentazione manuale di carichi. Fra questi
lavoratori, i disturbi e le malattie acute e croniche della schiena sono
diffusi più che in altre collettività di lavoro.

Il problema è stato già ampiamente trattato nella sua specificità in


altre sedi, in questo scritto si ricorda che l’Unione Europea ha
emanato, nel 1990, una specifica direttiva (n. 269/90) che è stata
recepita in Italia all’interno del D. Lgs. 626/94 (Titolo V): tali norme
prevedono un’articolata serie di azioni preventive tese a contrastare gli
effetti negativi per la salute derivanti da attività abituali di
movimentazione manuale di carichi.

Tra queste azioni, preminenti sono quelle strutturali, rivolte a


meccanizzare o ad ”ausiliare” le attività finora svolte ricorrendo alla
sola forza manuale.

Non sempre è possibile meccanizzare tutti i processi di lavoro: ne


deriva che grande importanza riveste la formazione e l’informazione
dei lavoratori circa i rischi connessi alla movimentazione di carichi.

In tale decreto vengono forniti gli elementi di rischio nel


sollevamento manuale di un carico:
• Le caratteristiche del carico (troppo pesante, troppo ingombrante,
instabile, ecc.).
• Le posizioni di sollevamento (schiena flessa, torsioni del tronco,
distanza eccessiva del carico dal tronco, dislocazione eccessiva,
ecc.)
• Lo sforzo fisico eccessivo (dovuto ad alte frequenze e tempi
prolungati di sollevamento)
• Caratteristiche dell’ambiente (presenza di scale, pavimenti
scivolosi, microclima sfavorevole, ecc.)
Suggerimenti posture carichi
Purtroppo non esistono limiti universalmente validi per i pesi e
per il sollevamento carichi, come richiesto dall’industria, dal
commercio e dall’artigianato, e non possono esistere perché ogni
operazione di sollevamento e trasporto è unica nel suo genere per una
serie di fattori quali caratteristiche del carico, ossia forma, stabilità,
afferrabilità, e della situazione, ossia lunghezza e caratteristiche del
tragitto, distanza, frequenza di sollevamento, ausili e clima.

Alcune regole generali per evitare danni alla schiena durante la


movimentazione di carichi. I consigli qui forniti riguardano oggetti di
peso superiore ai 3 kg: al di sotto di questo valore il rischio per la
schiena è generalmente trascurabile.

Figura 9 - E’ preferibile spostare oggetti nella zona compresa tra


l’altezza delle spalle e l’altezza delle nocche (mani a
pugno lungo i fianchi). Si eviterà in tal modo di
assumere posizioni pericolose per la schiena.
Rielaborato da Occhipinti e Colombini.
SI
NO

Figura 10 - Se si devono spostare oggetti avvicinare l’oggetto al


corpo. Evitare di ruotare solo il tronco ma girare tutto
il corpo, usando le gambe.

SI NO

Figura 11 - Quando devono essere utilizzati scatoloni-cassoni di


grosse dimensioni, è necessario :
• che siano dotati di una ribaltina, se profondi 50
cm.;
• che siano dotati di due ribaltine, se profondi 80-100
cm: in questo caso, se il carico è poco stabile, è
utile aggiungere una parete divisoria;
• che durante il riempimento siano posti su un
supporto regolabile in altezza.
Rielaborato da Occhipinti e Colombini.
Sorveglianza e manutenzione di impianti
La produttività di un impianto dipende non solo da un
funzionamento semplice e chiaro, ma anche dalle operazioni di
controllo e manutenzione. Per controllo si intende la corretta
riproduzione del funzionamento (display), la funzionalità dei comandi
(dispositivi di comando, manopole) e la loro chiara integrazione nel
sistema in funzione delle esigenze dell'operatore.

La manutenzione influisce enormemente sul funzionamento di un


impianto. È quindi importante che gli impianti siano facilmente
accessibili in caso di manutenzione e venga previsto sufficiente spazio
operativo per il personale. Determinante è anche la possibilità di avere
direttamente sul posto ausili per il sollevamento di carichi, mezzi di
trasporto, attrezzi, apparecchi di controllo e pezzi di ricambio.
4 L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

L’organizzazione del lavoro, se adattata alla situazione e


all’individuo, esercita una notevole influenza sul clima di lavoro
nell’azienda, sul rendimento dei lavoratori e sulla redditività del
processo lavorativo.

Organizzazione
del lavoro

Appartengono all’organizzazione del


lavoro:
- procedimenti e attrezzature di
lavoro
- pianificazione e istruzioni di lavoro
- orario di lavoro e
regolamentazione delle pause
- valutazione e retribuzione
- margine di azione e decisionale

Figura 12 - Criteri per una concezione a misura d’uomo


dell’organizzazione del lavoro

Procedimenti e attrezzature di lavoro

La scelta di procedimenti e mezzi di lavoro adeguati è la premessa


fondamentale per una produzione redditizia. Questi fattori influiscono
notevolmente anche sul grado e sulla rapidità di affaticamento I lavori
che richiedono ripetuti sforzi muscolari devono essere il più possibile
meccanizzati e automatizzati. Svolgere pesanti lavori fisici per lunghi
periodi causa affaticamento, difficoltà di concentrazione e calo del
rendimento, con effetti negativi su altri fattori (redditività, qualità,
sicurezza e salute).

L’utilizzabilità e la sicurezza degli utensili manuali, così come la


loro efficacia ed efficienza, dipendono sia dalla compatibilità delle
loro dimensioni e del loro peso con le caratteristiche fisiche degli
utilizzatori, sia dalle posizioni e dai movimenti della mano e del polso
richiesti dal loro impiego.

Si deve tenere conto che, in generale:


• è preferibile una posizione neutra del polso, ossia una posizione
della mano allineata con l’asse longitudinale dell’avambraccio;

INCLINAZIONE ERRATE DEL POLSO

POSIZIONE NEUTRA DEL POLSO

Figura 13 - Posizione del polso. Da Occhipinti e Colombini, op. cit.,


1996, e Grandjean E., 1983

• la massima forza di presa si può esercitare con tutta la mano


(presa di forza con l’opposizione del pollice a tutte le altre dita)
mentre i vari tipi di presa di precisione (pinch, grip) comportano
una notevole diminuzione della forza esercitabile;
• sono sconsigliati movimenti che richiedono deviazioni estreme
del polso o deviazioni, anche non estreme, che debbano essere
ripetute per tempi significativi.

Le dimensioni dell’impugnatura a cui ci si può riferire sono:


• lunghezza: per utensili che richiedono un’apprezzabile
applicazione della forza (pinze, cacciaviti ecc.), sono
raccomandate dimensioni di 13 cm (minimo 10), che devono
essere incrementate di 13 mm quando è previsto l’uso di guanti;
per utensili con impugnatura a doppia presa (forbici, pinze ecc.),
la distanza tra il punto di applicazione della forza e il punto di
presa deve essere compresa tra i 6,5 e i 9 cm;
• diametro: per la presa di forza è raccomandato un diametro
compreso tra i 3 e i 5 cm; per la presa di precisione è
raccomandato un diametro di 12 mm (accettabile tra gli 8 e i 16
mm).
Per la presa di forza di utensili come seghe manuali, trapani ecc. è
raccomandata un’inclinazione dell’impugnatura compresa tra 0’ e 15°
rispetto alla linea verticale, che permetta una posizione neutra del
polso.
PRESA DI PRECISIONE PRESA DI FORZA OBLIQUA
(PINCH) (le dita sono arrotondate intorno
alla maniglia eccetto il pollice che
è esteso per stabilizzare la presa)

Figura 14 - Diminuzione della forza di prensione in corrispondenza


di differenti posture del polso e della mano. Da
Occhipinti E., ColombiniD., 1996

Gli utensili manuali devono inoltre:

• garantire l’isolamento elettrico e termico;


• essere privi di parti taglienti, spigoli vivi o parti a rilievo;
• essere rivestiti di materiali impermeabili alle sostanze oleose, ai
solventi e agli agenti chimici;
• impedire l’accumulo di sporcizia sulla loro superficie;
• facilitare la presa con un’adeguata conformazione e texture
dell’impugnatura.
Figura 15 - Conformazione dell’impugnatura. Da Eastman Kodak,
1983

La presa può essere facilitata dalla previsione di elementi di


contrasto al movimento e allo scivolamento delle dita (vedi a e c) e
dalla texture della superficie dell’impugnatura:

• per azioni di rotazione o di torsione sono consigliate scalanature o


rilievi longitudinali (c)
• per azioni di spinta o trazione nella direzione dell’asse
longitudinale dell’utensile sono consigliate scanalature o rilievi
orizzontali (d)
Pianificazione e istruzioni di lavoro
Per lavorare in modo efficiente e sicuro è indispensabile ricevere
istruzioni chiare e precise. Informare i lavoratori sui rischi e pericoli
cui sono esposti sul lavoro, nonché impartire istruzioni per un uso
corretto delle attrezzature di lavoro, sono tanto importanti quanto
fornire istruzioni e spiegazioni per eseguire il lavoro secondo le
esigenze di produzione, qualità e scadenze. In caso di personale neo
assunto, dell’acquisto di nuove macchine o dell’introduzione di nuovi
metodi di lavoro si deve provvedere a fornire istruzioni
particolarmente accurate e precise.

In ogni caso è indispensabile ripeterle periodicamente e


verificarne l’effettiva applicazione.

Regolamentazione dell’orario di lavoro

La flessibilità permette al lavoratore di adattare l’orario di lavoro


alle proprie esigenze. Questa misura non sempre è realizzabile per
motivi organizzativi, tecnici od economici.

Molto importanti sono l’uso redditizio e la vita utile dei mezzi di


produzione: per far sì che una macchina «renda», spesso è necessario
introdurre il lavoro a 2 o a 3 turni.

Sappiamo che dopo settimane di turni notturni è difficile


riadattarsi ai ritmi biologici. Ciò significa che per i turnisti di notte il
sonno diurno non ha lo stesso valore e la stessa intensità del normale
sonno notturno. Nei casi in cui è impossibile rinunciare al lavoro
notturno bisogna evitare di impiegare ininterrottamente per lunghi
periodi le stesse persone: in altre parole i turni di lavoro devono
alternarsi in cicli brevi.

Le pause servono al riposo, alla distensione, al nutrimento e al


recupero delle forze psicofisiche e vanno adattate all’attività svolta. Il
lavoratore deve fare una pausa prima che subentri un calo di
rendimento: l’introduzione di pause aumenta il ritmo di lavoro
compensando così il tempo perduto durante le pause prescritte, e
inoltre fa sì che il numero di pause nascoste o volontarie sia minore. In
lavori affaticanti si notano, in genere verso la fine del turno del
mattino e ancor più verso la sera, una diminuzione del rendimento
orario e un rallentamento del ritmo di lavoro.

Molte indagini hanno dimostrato che se si introducono pause


prescritte la comparsa di sintomi di fatica viene ritardata e la perdita di
produzione dovuta a fatica è minore.

Pausa della prima colazione

Pausa di mezzogiorno

Figura 16 - Effetto di due serie di pause prescritte, di durata diversa,


sulla produzione. La misura della produzione è data dal
numero di scanalature compiute sulla testa delle viti nel
periodo di 15 minuti (Hanhart 1954). Rielaborato da
Grandjean E., 1986

La fig 18 presenta un esempio degli effetti che i vari tipi di pause


hanno sulla produzione.
Come indicano i risultati, il sorgere dei sintomi della fatica
durante un dato periodo di lavoro viene ritardato dall’introduzione di
brevi pause di riposo.

Alla fine del turno, in seguito all’effetto cumulativo di sei pause


brevi, la produzione aumenta (6,45%) e ancor di più (11,10%) se le
pause sono di tre minuti ciascuna. L’aumento della produzione
compensa ampiamente il tempo perduto.

I risultati di questi esempi trovano conferma in tutti i paesi


industrializzati.

Le indagini in questo campo, sebbene non tutte condotte in


termini strettamente scientifici, hanno indicato che in genere le pause
tendono a far aumentare la produzione e non a diminuirla. Dal punto
di vista ergonomico questi effetti sono dovuti al fatto che si evita una
fatica eccessiva o al fatto che i sintomi di fatica vengono
periodicamente eliminati per mezzo di intervalli di riposo.

Per il lavoro pesante si dovrebbero prescrivere delle pause


obbligatorie e distribuirle in modo regolare nel corso delle otto ore
lavorative. Quando le pause sono facoltative, gli operai tendono a
lavorare senza interruzione e a lasciare tutto il tempo di riposo
permesso alla fine, in modo da poter lasciare il lavoro al più presto: un
simile comportamento, specialmente fra gli operai più anziani, causa
un sovraffaticamento.

Sono ancora carenti precisi orientamenti, scientificamente


validati, relativi ai periodi di recupero da attivare laddove si sia in
presenza di azioni dinamiche ripetitive (cioè nella maggioranza dei
contesti lavorativi) Una utile indicazione “empirica” al proposito
proviene dall’esperienza Australiana rivolta alla prevenzione delle
Repetitive Strain Injuries (RSI). Un apposito draft della Health and
Safety Commjssion Australiana (Victorian Occ. HSH, 1988),
stabilisce anzitutto che non possono essere considerati accettabili
periodi di lavoro con movimenti ripetitivi che si prolunghino, senza
periodi di recupero, oltre i 60 minuti. All’interno di questo ambito
viene peraltro fornito un criterio generale per cui il rapporto tra tempo
di lavoro (con movimenti ripetitivi) e tempo di recupero deve risultare
almeno di 5:1 (es.: 4:1 va bene, 6:1 non va bene). Ne deriva che il
rapporto ottimale di distribuzione del lavoro ripetitivo e recupero è di
50 minuti di lavoro ripetitivo è 10 minuti di recupero. Ciò non vuol
dire necessariamente che l’operatore è inattivo, ma che le lavorazioni
o movimentazioni a cui è sottoposto non coinvolgono uno o più
gruppi mio-tendinei altrimenti coinvolti nello svolgimento di
precedenti azioni lavorative.

Margine d’azione e potere decisionale


Per fare in modo che la creatività e la responsabilità del singolo
non siano ostacolate da un’eccessiva organizzazione, occorre
eliminare tutto ciò che non è assolutamente indispensabile e aprire la
strada alle capacità decisionali del singolo. L’individuo deve poter
gestire autonomamente il proprio lavoro in base ai mezzi di cui
dispone e in funzione delle proprie capacità, sempre che ciò non
influisca negativamente su altri fattori quali la produzione, la qualità o
le scadenze.

In molti casi raggruppare i lavori di pianificazione, esecuzione e


controllo ha effetti positivi sulla produzione. Lo svolgimento di
diverse attività con rotazione periodica all’interno di un gruppo
conferisce al lavoro un valore aggiunto e favorisce il senso di
solidarietà e collaborazione.
5 IL CONTENUTO DEL LAVORO

Un lavoro può avere un grado di contenuto troppo basso o troppo


alto ed essere così la causa di mancanza di stimoli sul lavoro o di un
eccesso di lavoro e/o di responsabilità in termini qualitativi e
quantitativi.

Contenuto
del lavoro

Da evitare:
- Mancanza di stimoli e
monotonia
- eccesso di lavoro e/o di
responsabilità

Figura 17 - Criteri per un contenuto del lavoro a misura d’uomo

Mancanza di stimoli sul lavoro e monotonia

La mancanza di stimoli sul lavoro è motivo di insoddisfazione e


di demotivazione.

Questo fenomeno si riscontra soprattutto nei lavori monotoni,


poveri di stimoli e poco impegnativi. Lavori del genere sono spesso
frutto di una ripartizione estrema delle mansioni (taylorismo), ossia di
una tendenza che porta a frazionare attività complesse in tante piccole
operazioni (ad es. il lavoro a catena).
La monotonia porta ad una rapida frustrazione e ad un calo
dell’attenzione. Entrambi questi fattori incidono negativamente sulla
sicurezza e sul rendimento del lavoratore.

La mancanza di stimoli e la monotonia sul lavoro si possono


evitare favorendo:
• l’intercambiabilità delle mansioni (rotazione)
• l’ampliamento delle mansioni («job enlargement»)
La situazione ideale vuole l’individuo in condizione di poter
sfruttare il più possibile le sue capacità e il suo talento nell’esercizio
della mansione.

Eccesso di lavoro e/o di responsabilità

I limiti che segnano il passaggio dalla mancanza di stimoli sul


lavoro, al lavoro ideale fino allo stress e all’eccesso di responsabilità
variano molto da individuo a individuo.

Quello che per una persona è un arricchimento per la propria vita,


per un’altra può essere sinonimo di forte stress.

Accanto ai fattori di stress professionale bisogna considerare


anche quelli legati alla sfera privata (famiglia, vita sociale, sport,
traffico stradale, ecc.). Tutti i fattori di stress presi insieme non
devono superare i limiti dello stress cosiddetto nocivo e questi limiti
variano da individuo ad individuo.

Si dice che lo stress professionale diventa nocivo quando si


richiede al lavoratore prestazioni superiori alle proprie capacità.

Questa situazione è caratterizzata da sintomi quali paura, rabbia,


stanchezza, spossatezza, svogliatezza, cefalea e mal di schiena.
Sostenere periodicamente un colloquio con i collaboratori serve, tra le
altre cose, a scoprire e risolvere eventuali discrepanze tra esigenze
lavorative e abilità personali.
6 L’AMBIENTE DI LAVORO

L’ambiente di lavoro influisce notevolmente sulle condizioni di


lavoro ed è un fattore determinante per il benessere, la stanchezza, la
sicurezza sul lavoro, la soddisfazione, la salute e non da ultimo per il
rendimento.

Ambiente
di lavoro

Figura 18 - Ambiente di lavoro

L’ambiente lavorativo si compone di:

• condizioni che possono essere considerate i presupposti essenziali


per lo svolgimento del lavoro
• condizioni createsi e modificatesi durante lo svolgimento del
lavoro
• condizioni associate a fattori esterni, ossia determinate da posti di
lavoro vicini.
Presupposti fondamentali
Tra i presupposti fondamentali va considerato il clima adattato
all’attività da svolgere e l’illuminazione corretta.

Clima

In generale possiamo affermare che il clima è determinato dalla


temperatura, dalla circolazione dell’aria, dall’umidità e dalla
temperatura superficiale di locali e impianti. Il cosiddetto «clima del
benessere» dipende anche dall’intensità dei movimenti del corpo e
dall’impegno muscolare ed è in funzione di una serie di fattori quali
età, sesso, costituzione, salute, alimentazione e abbigliamento.

Quando la temperatura interna dei locali è confortevole, essa non


si avverte, ma non appena diventa disagevole, la nostra attenzione ne
viene attratta. Il disagio può creare una sensazione di fastidio, ma
quando l’equilibrio termico è turbato in modo eccessivo, si passa ad
una sensazione di sofferenza.

La sensazione di disagio è un mezzo biologico, presente in tutti


gli animali a sangue caldo, che stimola a prendere le necessarie
precauzioni per ristabilire un corretto e equilibrio. L’unica reazione a
disposizione degli animali è quella di cercare un posto più caldo o più
freddo, ma gli uomini possono ricorrere ai vestiti e sono inoltre in
grado modificare l’ambiente con mezzi tecnologici.

Il disagio è causa di cambiamenti funzionali che si riflettono su


tutto il corpo. Il calore eccessivo fa sorgere stanchezza, sonnolenza,
svogliatezza e una maggiore disposizione a fare errori. Il rallentamen-
to dell’attività fa sì che il corpo produca minor calore interno.

Il freddo eccessivo invece è causa di irrequietezza,che a sua volta


riduce l’attenzione e la concentrazione, soprattutto nei lavori mentali.
In questo caso lo stimolo a una maggiore attività fa sì che il corpo
produca più calore interno.

Per il benessere e per il massimo dell’efficienza è dunque


essenziale mantenere negli ambienti una temperatura confortevole. Se
si pone un soggetto in una camera climatica e lo si espone a
temperature diverse, si vede che vi è una fascia in cui gli scambi di
calore del corpo sono in stato di equilibrio.

Questa fascia è detta zona della regolazione vasomotrice perché la


termoregolazione è mantenuta regolando il flusso del sangue in tutte le
parti del corpo.

Se la temperatura supera la zona del benessere, le parti periferiche


del corpo si riscaldano e la traspirazione aumenta. Questa regione di
temperatura è chiamata zona della termoregolazione attraverso
l’evaporazione del sudore. Se la temperatura esterna continua ad
aumentare e supera un certo livello (il limite di tolleranza), il calore
interno registra un aumento brusco e veloce e in poco tempo provoca
la morte per colpo di calore.

Le temperature al di sotto della zona di regolazione vasomotrice


sono caratterizzate da un bilancio termico negativo per il corpo, dal
momento che si disperde più calore di quanto ne venga internamente
prodotto. Questa è la zona del raffreddamento. Dapprima esso è
limitata alle parti periferiche del corpo che, per un certo tempo, sono
in grado di tollerare la mancanza di calore.

Se a vari soggetti si chiede a quale temperatura si sentono


davvero a loro agio, si nota che le variazioni sono minime, tutt’al più
di due o tre gradi; è evidente che le persone si sentono a proprio agio
solo quando il sistema della regolazione vasomotrice non è sottoposto
a uno sforzo eccessivo quando cioè la circolazione del sangue verso la
cute ha valore normale-medio.

Quando invece il bilancio termico è negativo o positivo (ossia


quando nell’organismo si verifica un deficit o un accumulo di calore),
si ha una sensazione di malessere.

Le temperature che danno la sensazione di benessere variano da


persona a persona e dipendono dai vestiti che si indossano e
dall’attività fisica che si compie. L’importanza di altri fattori, come il
cibo, il periodo dell’anno, l’ora del giorno, l’età e il sesso, è
controversa. Risulta abbastanza evidente la difficoltà di definire tale
condizione mediante indicatori numerici o giudizi qualitativi a causa
della complessità dei fenomeni in gioco e dell’imponderabilità di
alcuni fattori, primi fra tutti, come detto precedentemente, quelle di
carattere soggettivo.

A tutt’oggi la più efficace definizione analitica delle condizioni di


comfort termoigrometrico in un ambiente confinato è quella proposta
da Fanger PO. (Fanger, 1970).

Tale modello si basa su considerazioni quantitative legate alle


equazioni di equilibrio termico e sull’elaborazione statistica dei
risultati di una vasta indagine campionaria condotta su individui
sottoposti a condizioni ambientali controllate.

Con suoi studi Fanger evidenziò invece che, in condizioni di


comfort, all’aumentare dell’attività, è tollerato un incremento della
sudorazione ed è inoltre preferita una riduzione della temperatura
della pelle.

I valori assunti dalle variabili fisiologiche non sono allora


indipendenti, ma legati all’attività svolta dall’individuo.

Furono allora ricavate le due seguenti relazioni che definiscono i


valori assunti dalle variabili fisiologiche in condizioni di comfort:

ts= 35.7—0.028 (M —L)

Qev =0.42x~(M—L)—58.15]

Le due equazioni, sostituite nell’equazione di bilancio,


consentono di ottenere l’equazione di benessere, funzione di sole 6
variabili: Metabolismo energetico, Resistenza termica
dell’abbigliamento, Temperatura dell’aria, Umidità dell’aria, Velocità
dell’aria, Temperatura media radiante.

f(M,Icl,ta,Pa,Var,tr) = 0

Le metodologie di valutazione di tali parametri sono contenute


nelle normative: ISO 8996 (1990),ISO 9920 (1995) e ISO 7726 (1998)
L’equazione di benessere consente di valutare la combinazione
delle variabili necessaria per garantire il comfort di un soggetto in un
ambiente confinato. Spesso però le condizioni dell’ambiente non sono
tali da garantire il benessere per cui può essere utile valutare lo
scostamento dalle condizioni ideali.

A tal fine vengono introdotti degli indici che, in funzione delle


variabili da cui dipende il comfort, consentono di valutare la
sensazione termica provata mediamente da un gran numero di
individui sottoposti alla medesima condizione microclimatica.

L’indice maggiormente utilizzato in campo internazionale è il


voto medio previsto (PMV, Predicted Mean Vote), nato dagli studi di
Fanger.

Nonostante l’indice PMV sia il risultato di una media dei voti


espressi da un gran numero di persone poste nelle stesse condizioni,
esso non può rappresentare la variabilità delle preferenze individuali: i
voti individuali espressi dai soggetti risultano infatti dispersi rispetto
al valore medio dato dal PMV.

Per tale motivo, Fanger introdusse l’indice percentuale prevista di


insoddisfatti (PPD, Predicted Percentage of Dissatisfied), intendendo
con soggetto insoddisfatto una persona che, sottoposta ad un
determinato carico termico, esprima una votazione di +3, +2, -2 o -3
della scala di sensazione termica.

La valutazione degli ambienti termici moderati viene attuata per


mezzo della norma ISO 7730, che ha lo scopo di presentare il metodo
di previsione della sensazione termica e del grado si discomfort di
persone esposte a un ambiente termico moderato e di specificare le
condizioni ambientali termicamente accettabili per il benessere
termico.

La condizione di benessere viene valutata utilizzando gli indici


della teoria di Fanger, mentre i requisiti prestazionali per l’ambiente
sono scelti in modo tale da mantenere la percentuale di persone
insoddisfatte al di sotto della soglia del 10%, sia per quanto riguarda il
comfort globale che per le condizioni di discomfort localizzato.
Per la valutazione del comfort globale viene utilizzato l’indice
PMV e da esso il PPD. A tal riguardo, nel testo della norma sono
contenute sia la relazione analitica che consente il calcolo del PMV,
nonché una serie di tabelle per varie attività metaboliche, da cui, in
funzione dell’isolamento termico dell’abbigliamento, della velocità
relativa dell’aria e della temperatura operativa, è possibile ricavare il
valore del PMV. Infine in appendice alla norma è riportato un
programma di calcolo per la valutazione del PMV e del PPD.

Per quanto riguarda i requisiti di benessere si raccomanda di


mantenere la percentuale di insoddisfatti al di sotto del 10%, il che
corrisponde a ritenere accettabili le condizioni nel momento in cui
risulti

-0,5<PMV< +0,5.

Illuminazione nell’ambiente
In questo paragrafo ci si soffermerà sul modo di adattare le luci e
i colori dell’ambiente alle esigenze fisiologiche e psicologiche della
percezione visiva.

Per capire in maniera esaustiva ciò che seguirà è necessario


definire due unità di misura fra le molte impiegate nello studio
dell’illuminazione.

L’illuminamento indica la quantità di luce che colpisce una


superficie e si misura in lux (Ix).

Viene considerato non solo il punto della superficie colpito dal


flusso luminoso, ma anche gli oggetti e le superfici limitrofe
Figura 19 - Illuminamento
L Sorgente luminosa A Superficie illuminata
Luce diretta
………Luce riflessa

L’illuminamento viene misurato con il luxmetro; per sapere


concretamente quali sono i requisiti da rispettare per l’illuminazione si
fa riferimento ai valori minimi validi per l’illuminamento, ossia
l’illuminamento nominale e il fattore di manutenzione.

Con il passare del tempo e l’accumulo di sporcizia le prestazioni


illuminotecniche di un impianto si riducono. Il fattore di
manutenzione indica quando un impianto deve essere sottoposto a
manutenzione, ossia quando le lampade, il soffitto e le pareti devono
essere puliti e le lampadine sostituite. Poiché ai fini della verifica
secondo normativa (UNI 10380/A1 e UNI 10840) è richiesto di
assicurare l’illuminamento durante tutta la vita utile dell’impianto, nel
calcolo del flusso totale si introduce il fattore di manutenzione come
coefficiente correttivo M (i valori indicativi sono contenuti nella
norma stessa).

La normativa prescrive anche, per ogni singolo compito visivo, la


tonalità di luce più adatta. La resa cromatica e la classe di qualità per
la limitazione dell’abbagliamento della sorgente luminosa da
installare. Ad esempio, in ambito residenziale o nelle degenze
ospedaliere è quasi sempre prevista una sorgente luminosa a cui è
associata una tonalità di colore “calda” (W), una resa cromatica 1A. e
una classe di protezione aIl’abbagliamento B. Negli ambienti in cui il
compito visivo è prevalentemente di lettura/scrittura (uffici,
biblioteche, aule universitarie e scolastiche) le prescrizioni prevedono
una tonalità variabile fra calda e neutra (W,I) e una resa cromatica 1B.
Infine, negli ambienti industriali, con le eccezioni dovute alla natura
delIe lavorazioni, la tonalità può variare da calda a fredda (W, I, C) e
la resa fra 2 e 3.

Si ricorda che l’illuminamento non è un parametro che misura la


percezione della luminosità data da un oggetto o da una stanza, ma
indica semplicemente la luce incidente e non il flusso luminoso
riflesso nell’occhio.
IMPIANTI DI ILLUMINAZIONE ARTIFICIALE:
LE RACCOMANDAZIONI
DELLA NORMATIVA ITALIANA
Tipo di locale, compito Illuminamento medio Tonalità di Resa Classe antiabba-
visivo, attività mantenuto, E [lux] colore cromatica, gliamento, G
n
Ra
Zona di traffico e aree generali all’interno di edifici
Aree di circolazione e
100 W 3 E
corridoi
Scale, ascensori 150 W 3 D
Mense 200 W 1B C
Magazzini 100 W 2 D
Uffici
Scrittura, dattilografia,
500 W,I 1B B
elaborazione dati
Disegno tecnico 750 W,I 1B A
Sale conferenze,
500 W,I 1B B
riunioni
Archivi 200 W 1B D
Negozi e locali pubblici
Aree vendita 300 I 1B C
Ristoranti: cucina e
500 W 1B C
sala
Teatri, sale da
300 W,I 1B C
concerto, cinema
Biblioteche, aree di
500 W,I 1B B
lettura
Edifici scolastici
Aule nido e materne e
300 W,I 1B B
scuole
Laboratori
500 W,I 1B B
insegnamento
Palestra, Sala
300 W,I 1B C
Professori
Ingressi, aule comuni e
200 W,I 1B C
aula magna, mensa
Aule educazione
artistica, disegno 750 W,I,C 1B B
tecnico
Ospedali e case di cura
Locali di attesa,
200 W 1B C
corridoi, bagni
Sale visita 300 W 1B B
Sale visita e
1000 W,I 1B B
trattamento
Sale operatorie 100 I,C 1A B

Tabella 5 – Le raccomandazioni della normativa italiana per gli


impianti di illuminazione artificiale
La luminanza è un parametro importante per determinare la
sensazione di luminosità che si riceve da una superficie che emette o
riflette luce. È l’unica grandezza «visibile» dell’illuminotecnica. Le
prestazioni di un impianto di illuminazione possono essere valutate
solo con la luminanza di tutte le superfici che si trovano nel campo
visivo dell’operatore. La luminanza si esprime in candele al metro
quadrato (cd/m2) e può essere misurata con un fotometro.

Di fondamentale importanza per verificare le condizioni di


comfort visivo è anche la “mappatura” delle luminanze all’interno di
un ambiente.

La distribuzione delle luminanze nello spazio può essere descritta


solo in relazione alla posizione di un osservatore e a una direzione di
osservazione. Infatti la luminanza di un oggetto varia con la direzione
di osservazione e dipende anche dalle proprietà riflettenti o assorbenti
delle superfici (anch’esse direzionali).

L’efficienza visiva (cioè il corretto svolgimento delle funzioni di


sensibilità al contrasto, acuità visiva e velocità di percezione), e, più in
generale, il comfort visivo sono garantiti da un’adeguata gradazione
dei contrasti nel campo visivo (inteso come campo centrale di visione,
sfondo e ambiente).

Il contrasto è definito come il rapporto fra la differenza di


luminanza dei due oggetti e la minore delle due luminanze:

C= Lmax -Lmin
Lmin
L’occhio percepisce la forma degli oggetti se all’interno del
campo visivo esiste un adeguato contrasto luminoso fra due oggetti (o
fra oggetto e sfondo). In altri termini solo se vi è una differenza di
luminanza di almeno l’l% in condizioni di illuminazione naturale e del
10% se l’illuminamento è scarso, l’occhio percepisce chiaramente la
differenza fra due oggetti.

Per esempio, un oggetto, per essere percepito correttamente, deve


avere una luminanza variabile fra 2 e 3 volte quella dello sfondo e fra
5 e 10 volte quella dell’ambiente.

In realtà, l’esperienza ha dimostrato che la percezione


dell’oggetto non dipende solo dal contrasto ma anche da valore
assoluto della luminanza dello sfondo: infatti, se la differenza fra le
luminanze è piccola, l’osservatore non percepisce più l’oggetto
distaccato dallo sfondo. Se invece si riduce eccessivamente la
luminanza dello sfondo, a parità di contrasto, la visione risulterà
difficoltosa per mancanza di illuminamento.

Lampade

Fra i tipi di lampade più comunemente usati i quattro descritti nel


seguito hanno particolari caratteristiche.

Lampade a luce diretta. Esse dirigono il 90% o anche più della luce
sull’oggetto da illuminare sotto forma di cono di luce. Le fonti
luminose di questo tipo producono ombre molto nette con un contrasto
fra luce e ombra di 1:10 o più. Trovano impiego nelle esposizioni,
nelle vetrine dei negozi o nelle sale degli uffici aperte al pubblico. Sul
posto di lavoro l’eccessivo contrasto tende a produrre il fenomeno
dell’abbagliamento relativo. Questo tipo di lampada può essere usata
come fonte di luce sul posto di lavoro solo laddove l’illuminazione
generale è abbastanza buona da ridurre il contrasto.

Lampade a luce parzialmente indiretta. L’uso dei materiali


trasparenti permette a gran parte (circa il 40%) della luce di propagarsi
in tutte le direzioni, mentre la luce restante viene indirizzata
direttamente o indirettamente sul soffitto e sulle pareti. Questo tipo di
illuminazione produce ombre medie, dai margini diffusi ed è indicata
come illuminazione generale in casa, nei negozi, negli uffici ecc. è
adatta per i lavori che non richiedono una grande precisione ed è
indicata per l’illuminazione uniforme di tutta una stanza e degli
oggetti sulle pareti.

Fonti radianti libere. Tipici di questo tipo di illuminazione sono i


globi opalescenti. Essi mandano luce uniformemente in tutte le
direzioni e producono solo ombre leggere o medie. Queste lampade, a
causa della loro alta luminanza, spesso causano abbagliamento e non
dovrebbero essere impiegate nelle stanze di aspetto o di lavoro. Sono
adatte per magazzini, corridoi, entrate, ripostigli, bagni ecc.

Lampade a illuminazione indiretta. Questo tipo di lampada dirige il


90% o anche più della luce verso il soffitto e sulle pareti, da dove
viene poi riflessa nella stanza. In questo sistema il soffitto e le pareti
devono avere un colore chiaro, la luce è diffusa e praticamente non ci
sono ombre. Gli architetti, talvolta, preferiscono questo tipo di
illuminazione per dar risalto ai particolari architettonici e per
conseguire un effetto estetico piacevole. Questa illuminazione non è
adatta per i locali in cui si lavora, a meno che non venga integrata da
lampade poste direttamente sul posto operativo. In questo caso
l’illuminazione indiretta ha il vantaggio di non causare abbagliamento.
E particolarmente adatta per le mostre, le sale di vendita e dovunque
l’occhio è attratto verso le pareti.

I tipi di illuminazione artificiale maggiormente utilizzati sono


sostanzialmente due: lampade a incandescenza e tubi fluorescenti.
Quelle che seguono sono alcune importanti considerazioni di ordine
fisiologico.

La luce delle lampade a incandescenza è abbastanza ricca di


tonalità di rosso e giallo e cambia l’apparente colore degli oggetti,
quindi non è adatta quando è importante riconoscere esattamente un
colore. Producono inoltre calore, e questo è uno svantaggio quando
sono usate direttamente sul posto di lavoro. La lampada può
raggiungere una temperatura esterna di 600C e oltre, e se è vicina alla
testa può causare disagio e mal di testa. D’altra parte la luce calda può
essere piacevole perché è associata con la luce del tramonto e crea una
certa atmosfera di riposo.

La luce dei tubi fluorescenti viene prodotta facendo passare una


scarica elettrica attraverso un gas (di solito argon) o un vapore (di
solito vapore di mercurio). Questo metodo converte l’energia elettrica
in luce in modo molto più efficiente del riscaldamento del filamento.
Le luci fluorescenti perciò hanno un rendimento luminoso tre o
quattro volte maggiore delle lampade a incandescenza. La superficie
interna del tubo, coperta da una sostanza fluorescente, converte i raggi
ultravioletti della scarica in una luce visibile il cui colore può essere
controllato modificando la composizione chimica del rivestimento. È
perciò possibile fabbricare dei tubi fluorescenti che diano una luce dai
toni caldi, come la lampada a incandescenza, o una luce dai toni
bianchi come la luce esterna in una giornata nuvolosa, o dai toni simili
alla luce del giorno.

L’uso di questo tipo di sorgenti richiede più considerazioni di


quanto normalmente non venga fatto:

Vantaggi

• Produzione di luce elevata e lunga durata di esercizio se non sono


accesi e spenti di frequente. In caso contrario la loro durata e
ridotta a poco più di quella delle lampade a incandescenza.
• Basso grado di luminanza e quindi riduzione dei pericoli di
abbagliamento.
• Migliore possibilità di integrare la luce della lampada con quella
naturale evitando così nei locali la differenza fastidiosa fra luce
della lampada e quella esterna. Inoltre sul posto di lavoro non
viene disturbato il riconoscimento dei colori.
Svantaggi

Oscillazione visibile e invisibile dell’intensità. Poiché funzionano


a corrente alternata, i tubi fluorescenti producono un’intensità
luminosa che oscilla alla frequenza di 100 Hz. Questa frequenza è
superiore alla frequenza di fusione della visione, perciò di solito non è
percepibile; diventa però evidente, come effetto stroboscopico, sulle
parti mobili dei macchinari soprattutto se riflettenti.

Questa oscillazione è maggiore nei tubi a luce diurna piuttosto


che in quelli che emettono luce bianca o calda. Quando sono vecchi o
difettosi i tubi presentano un tremolio a una frequenza più bassa che è
percepibile soprattutto alle due estremità.

L’oscillazione, visibile e non visibile, provoca disturbi agli occhi.


Infatti una lunga permanenza sotto le lampade fluorescenti può
provocare cefalee e irritazione agli occhi, con arrossamento e
lacrimazione. l’oscillazione invisibile può fare aumentare i segni
fisiologici della fatica e ridurre in modo evidente la prestazione.

Per evitare l’oscillazione invisibile a 100 Hz e l’effetto


stroboscopico, si può far ricorso a due o più tubi fluorescenti, messi
fuori fase con un dispositivo apposito (apparato binario,
commutazione a 120 gradi o commutazione a tre fasi). In questo modo
si riducono nettamente le oscillazioni dell’intensità della luce; con la
commutazione a tre fasi si raggiungono quasi i valori della lampada a
incandescenza. I locali nei quali ci si sofferma più di qualche minuto
non dovrebbero mai essere illuminati da un solo tubo fluorescente, ma
sempre da due o tre, posti fuori fase.

L’oscillazione invisibile dei tubi fluorescenti è indicata dal


cosiddetto valore di uniformità, che è il rapporto fra la massima e la
minima intensità della luce.

Nei tubi fluorescenti questo valore va da 0,2 a 0,6 (secondo il tipo


di tubo), mentre le lampade a incandescenza spesso presentano dei
valori superiori a 0,9. I tubi fluorescenti che presentano oscillazioni
visibili dovrebbero essere sostituiti immediatamente. I tubi nuovi
vanno provati, e se necessario scartati.

Luce fredda e pallida

Spesso si dice che i tubi fluorescenti danno un atmosfera fredda e


poco accogliente. Ciò vale per i tubi bianchi o a luce del giorno. Più il
grado generale di illuminazione è basso tanto maggiore è l’effetto di
luce pallida e fredda, ma se la luminosità supera i 1000 lx, l’effetto si
avvicina di più a quello della luce del giorno e l’impressione di
freddezza della luce scompare. I tubi a luce del giorno dunque
dovrebbero essere potenti (oltre 800 lx per negozi e sale di vendita,
500 lx o anche pìu per i locali in cui si lavora).

Quando non è necessario far corrispondere la luce interna a quella


del giorno (come nei soggiorni, ristoranti ecc.) i tubi fluorescenti a
tono più caldo sono preferibili, perché non creano un’atmosfera
fredda.
Installando i tubi fluorescenti in modo appropriato, se ne
eviteranno gli svantaggi più evidenti e se ne utilizzeranno i vantaggi.

Abbagliamento

L’abbagliamento si può considerare come un profondo disturbo


dello stato di adattamento della retina, paragonabile alla
sovraesposizione di una pellicola fotografica.

Tutte le forme di abbagliamento, anche un grado abbastanza


debole di abbagliamento relativo, rendono la visione difficile e
sforzano la vista. Una illuminazione che eviti abbagliamento è uno dei
requisiti ergonomici più importanti per la disposizione delle luce al
poste di lavoro

La figura presenta i risultati di una classica ricerca condotta da


Luckiesh e Moss. I soggetti erano stati sottoposti a un test visivo nel
quale una fonte di luce di 100 watt si avvicinava gradualmente all’asse
ottico.

La prestazione visiva mostrava un progressivo peggioramento con


l’aumentare della prossimità della fonte di luce all’asse ottico.

Figura 20 - Effetto di fonti d’abbagliamento sulla prestazione


visiva. I rettangoli ombreggiati indicano la riduzione
della prestazione visiva come percentuale della
prestazione normale, quando non c’è abbagliamento. La
prestazione visiva peggiora più la fonte di luce è vicina
all’asse ottico (Luckiesh e Moss: The Science of
Seeing).
Rielaborato da Grandjean E., op. cit., 1986.

L’esperimento dimostra che l’illuminazione dei locali di lavoro


deve essere disposta con cura. Le luci artificiali dei locali e degli uffici
spesso creano abbagliamenti assoluti e relativi, ma anche i riflessi
sulle superfici lucide possono dare origine agli stessi effetti. Le
condizioni che determinano abbagliamento dipendono anche dalla
grandezza e dalla posizione degli oggetti anche se definire la
gradazione con cui tale fastidio si presenta è assai difficile in quanto
esso dipende anche dal compito visivo che si sta volgendo.

In funzione delle cause del fenomeno è opportuno parlare di due


tipi abbagliamento: diretto ed indiretto (o riflesso).

Il primo è dovuto alla presenza di superfici o oggetti (sorgenti


luminose vetrate, il sole) con luminanza molto elevata, il secondo è
dovuto invece alla riflessione di oggetti posti sul piano di lavoro della
luce proveniente da altri corpi. Per limitare l’abbagliamento di tipo
diretto occorre verificare anche valori assoluti di luminanza delle
sorgenti luminose (artificiali o naturali).

Nel caso di impianti di illuminazione artificiale si fa riferimento


alle cosiddette curve limite di luminanza, riportate nella norma UNI
10380.

Per una buona disposizione delle luci e una loro distribuzione


generale appropriata nei locali di lavoro, si deve tener conto dei
seguenti suggerimenti:
• durante le operazioni di lavoro nessuna fonte di luce dovrebbe
entrare nel campo visivo dei lavoratori;
• tutte le luci dovrebbero essere provviste di schermi
• la direzione orizzontale dello sguardo e quella tra gli occhi e un
corpo luminoso devono formare un angolo maggiore di 30°

Figura 21 -L’angolo fra la direzione orizzontale dello sguardo e la


direzione dell’occhio alla lampada dovrebbe essere
maggiore di 30°. Rielaborato da Grandjean E., op. cit.,
1986

Se non si possono evitare angoli più piccoli, per esempio in saloni


molto grandi, la lampada allora deve avere uno schermo appropriato.
Se l’illuminazione è data da tubi fluorescenti questi dovrebbero essere
disposti trasversalmente rispetto alla direzione dello sguardo;
Figura 22 - Disposizione sfavorevole delle fonti di luce. La luce
riflessa coincide con la direzione dello sguardo
causando abbagliamento diretto. Rielaborato da
Grandjean E., op. cit., 1986

Figura 23 - Disposizione corretta delle fonti di luce. La luce riflessa


delle due lampade poste sul fianco non coincide con la
direzione visiva; si evita così l’abbagliamento dovuto
alle riflessioni.
Rielaborato da Grandjean E., op. cit., 1986
• è meglio usare molte lampade a bassa intensità luminosa invece
che poche ad alta intensità;
• per evitare abbagliamenti dovuti a riflessioni, il posto di lavoro
deve essere situato rispetto alla fonte di illuminazione in modo
che la direzione in cui l’operatore deve normalmente guardare non
coincida con quella della luce riflessa. Le riflessioni con un
contrasto più grande di 1:10 non dovrebbero entrare nel campo
visivo.
Si dovrebbe evitare l’uso di colori e materiali riflettenti su
macchine, apparecchiature, superfici di tavoli, pannelli ecc.

Rumore

Nel campo dell’elettronica, della neurofisiologia, della scienza


della comunicazione, rumore significa segnale che non porta
informazione, la cui intensità, generalmente, varia casualmente nel
tempo.

In questo scritto per rumore si intende un suono indesiderato, ma


che non ha necessariamente qualche caratteristica fisica, che permetta
di distinguerlo dal suono desiderato.

Il danno da rumore ha una notevole rilevanza sociale: molti i


lavoratori interessati appartenenti a molteplici settori, dalle industrie,
soprattutto se meccanizzate a lavoratori di uffici, specie se a spazio
aperto,agli operatori nel settore agricolo e ancora chi lavora su strada.

Per calcolare la dose di rumore e il rischio è necessario misurare il


livello, la frequenza e la durata dell’esposizione.

• Il livello è dato dalla misura dell’ampiezza, espressa in decibel,


delle vibrazioni che raggiungono l’orecchio umano
• La frequenza è la misura delle vibrazioni che giungono
all’apparato uditivo.
• Inoltre il soggetto può essere esposto ad un rumore il cui livello si
mantiene costante per tutto il tempo di esposizione, oppure essere
esposto a rumori discontinui, di intensità e durata variabili.
Il rumore danneggia l’udito in modo progressivo, simmetrico,
bilaterale. Se l’orecchio viene esposto a rumori molto intensi può
generarsi una perdita della capacità uditiva che può essere temporanea
o permanente a seconda dell’intensità e della dose assorbita. All’inizio
la perdita non è evidente, ma progressivamente il soggetto manifesta
difficoltà nel percepire suoni, prevalentemente acuti, per poi accusare
a veri e propri disturbi di ascolto e comunicazione.

Il danno uditivo da rumore è irreversibile e non può essere


recuperato, poiché il rumore distrugge la struttura recettoriale. Il
progredire del danno acustico si arresta solo allontanando l’individuo
dall’ esposizione alla sorgente di rumore.

Gli effetti del rumore sull’uomo non riguardano solo l’apparato


uditivo e la possibilità di comunicazione, ma coinvolgono il sistema
nervoso autonomo, il sistema reticolare e, oltre alla corteccia uditiva,
interessano altre zone corticali

Il sistema nervoso autonomo media le risposte, cardiache, vasali e


viscerali. Il rumore può avere effetti sulle capacità dell’individuo nello
svolgere ma particolare attività, procurando difficoltà di
concentrazione, affaticamento mentale, ansia, stress.

In Italia esiste una specifica legge che stabilisce i limiti massimi


di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell’ambiente
esterno (D.P.C.M 1° Marzo 1991).

Per quanto riguarda la protezione dei lavoratori dai rischi legati


alle emissioni sonore esistono dei parametri specifici (livello sonoro
equivalente) la cui applicazione e spiegazione esula lo scopo di questo
scritto: si tenga presente che a tal fine si suole fare riferimento
all’esposizione quotidiana personale di un lavoratore.

Il D.L. 15 agosto 1998, n. 277 in materia di protezione dei


lavoratori contro i rischi derivanti da esposizioni ad agenti chimici,
fisici e biologici durante il lavoro (in attuazione delle direttiva CEE
86/188 ) prevede in sintesi che:
• il datore di lavoro deve ridurre al minimo, con opportuni
interventi tecnici, organizzativi e procedurali, i rischi derivanti
dall’esposizione al rumore;
• nei luoghi di lavoro in cui la LEPd è superiore a 90 dB(A), oppure
in cui la pressione acustica istantanea è superiore a 140 dB (200
Pa), deve essere esposta una segnaletica appropriata; inoltre tali
luoghi devono essere perimetrati ed eventualmente soggetti a
limitazioni di accesso;
• nelle attività che comportano un valore di LEPd superiore e 80
dB(A), il datore di lavoro è obbligato a informare i lavoratori dei
rischi derivanti all’udito dall’esposizione al rumore e delle misure
adottate per la protezione da tale rischio;
• per le attività in cui la LEPd sia superiore a 85 dB(A), il datore di
lavoro fornisce ai lavoratori adeguati mezzi individuali di
protezione dell’udito, li riforma sul loro corretto utilizzo e sulle
modalità di utilizzazione degli utensili, macchine, apparecchiature
che il rumore ai tini di ridurne il rischio derivante;
• i lavoratori devono essere sottoposti a controllo sanitario, sia
preventivo che periodico anche se con frequenze diverse in
funzione dei LEPd previsti
• il datore di lavoro tiene uno specifico registro dei lavoratori
maggiormente esposti al rischio e comunica tempestivamente al
competente organo di vigilanza le circostanze e le contromisure
relative a eventuali innalzamenti dei livelli di rumore rispetto a
quelli previsti.

Altri fattori
La pulizia e l’ordine nell’ambiente di lavoro si ripercuotono sulla
pulizia e sull’ordine sul posto di lavoro e contribuiscono in modo
determinante alla qualità del lavoro, al rendimento, alla sicurezza e
alla salute.

Non bisogna neppure dimenticare l’importanza dell’aspetto


psicologico e della cultura aziendale. Data la sua complessità, questo
argomento non sarà trattato in questa sede.
Non si dimentichi inoltre che le buone condizioni sul posto di
lavoro possono improvvisamente peggiorare se vengono apportate
delle modifiche all’ambiente di lavoro, ad es. in seguito all’acquisto di
nuove macchine, all’introduzione di nuove procedure, allo
spostamento di macchine o in caso di ristrutturazioni.

Per evitare tutto questo, già nella fase di progettazione dei nuovi
posti di lavoro bisogna tenere conto delle eventuali ripercussioni
sull’ambiente circostante. È più semplice e meno costoso pianificare
correttamente tali modifiche piuttosto che intervenire a posteriori o
rimediare ad una situazione insoddisfacente.

Di seguito si presenta un elenco di fattori ambientali con le


rispettive caratteristiche di valutazione.
x questi fattori devono essere adeguati alla mansione assegnata
# fattori da cui l’uomo deve essere protetto
Fattore ambientale Criteri di valutazione
Clima x Temperatura dell’aria
Circolazione dell’aria
Umidità dell’aria
Temperatura superficiale di pareti, pavimenti,
soffitti e impianti
Luce x Illuminazione naturale (luce diurna)
Livello d’illuminazione
Distribuzione della luminanza
Limitazione dell’abbagliamento
Direzione della luce e ombre
Colore della luce e riproduzione dei colori
Colore x Percezione della distanza
Sensazione di caldo / freddo
Umore
Funzione di sicurezza
Ordine / pulizia x Sensazione personale
Esigenze associate al lavoro
Sicurezza
Rumore (suono). # Frequenza
Livello di pressione sonora
Durata d’esposizione
Decorso nel tempo
Vibrazioni . # Ampiezza delle vibrazioni
(vibrazioni meccaniche) Frequenza delle vibrazioni
Decorso nel tempo (onde periodiche e non
periodiche)
Direzione dell’onda
Durata d’esposizione
Sostanze dannose. # Tipo di sostanza
(polveri, fumo, nebbia, gas, Granulometria
vapori, liquidi, sostanze solide) Effetto specifico delle sostanze nocive
Concentrazione massima sul posto di lavoro
(valori MAC)
Durata d’esposizione
Radiazioni # Ionizzanti
Non ionizzanti
Intensità
Dose
Durata d’esposizione

Tabella 6 – Fattori ambientali e relativi criteri di valutazione


Gli ultimi fattori contrassegnati con un asterisco (.) possono
causare danni alla salute o favorire l’insorgenza di malattie
professionali, se si oltrepassano i valori limite ammessi. Per evitare
tutto ciò, occorre sempre adottare provvedimenti adeguati e mettere a
disposizione tutti gli strumenti necessari. Come prima soluzione
occorre adottare misure di tipo tecnico, che non dipendono da misure
organizzative o dal comportamento umano. Se le misure tecniche
richiedono un eccessivo dispendio di mezzi, è bene allora adottare
misure organizzative o comportamentali.

Oltre ai classici fattori ambientali dell’ergonomia, quando si


concepisce l’ambiente di lavoro bisogna prendere in considerazione
anche i rischi d’infortunio: punti a rischio di caduta e inciampo,
rischio di impigliamento, pericolo di caduta dall’alto, proiezione di
oggetti, ecc.
BIBLIOGRAFIA

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ore, 2003
• Tosi F., Progettazione ergonomica, Il sole 24 ore, 2001
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• Greco A. e Bertazzi P.A. (a cura di), Per una storiografia della
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1997
• L’Ergonomia nella normativa, atti della giornata di studio, Milano,
27 giugno 2002
• Benessere al lavoro ed Ergonomia, Regione Toscana, Giunta
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Taylor & Francis, Londra-Philadelphia, 1997
• Pheasant S., Body Space, Antropometry, Ergonomics and the
Design of Work, Taylor & Francis, Londra, 1997
• Wilson J.R., Corlett E.N., Evaluation of Human Work, Taylor&
Francis, Londra-Philadelphia, 1995
• Corlett E.N., Clark E.S., The Ergonomics of Workplaces and
machines, a design manual, Taylor& Francis, Londra-Philadelphia,
1995
• Bendix T., “Chair and Table adjustmentfor seated Work” in Korlet
N., Wilson J, ManenicaI., The ergonomics of working Postures,
Taylor and Francis, Londra & Philadelphia, 1986.

Il presente testo è stato realizzato anche grazie al materiale


reperito dalla Suva, l’istituto nazionale svizzero di assicurazione
contro gli infortuni, consultabile al sito www.suva.ch/it

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