L'articolo 29 della Costituzione riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e
riconosce altresì il principio di uguaglianza fra coniugi.
L'articolo 30 proclama il principio di uguaglianza tra figli trovando attuazione con la L. 151/75. Era
rimasta comunque qualche residuo di disuguaglianza soprattutto tra figli / figli incestuosi. Quest'ultimi
erano ancora una categoria di figli discriminati anche dopo la legge del 75. Oggi questa aggettivazione è
scomparsa (2012), anche terminologicamente non esiste più figlio legittimo/figlio naturale.
La l. del 75 permetteva ai figli naturali di espungere quelli incestuosi dall'eredità liquidandoli in denaro ->
cancellato dal 2012. La differenza che ancora sussisteva era il legame con la famiglia naturale ovvero il
legame di parentela tra il figlio naturale e i parenti. Questa era la principale differenza e le conseguenze
si potevano apprezzare sia dal punto di vista del rapporto personale sia per quanto dìriguarda i diritti
patrimoniali-successori. Nel 2012 viene eliminata anche questa differenza.
Chi nasce fuori dal matrimonio deve essere riconosciuto dai genitori, se non lo fanno il bambino non è
considerato GIURIDICAMENTE figlio di quei genitori. Mentre chi nasce all'interno del matrimonio viene
giuridicamente considerato figlio in automatico.
La L. del 2012 ha ammesso la riconoscibilità dei figli naturali previa autorizzazione del giudice. Si
introduce un filtro che ha il semplice scopo di agire nell'interesse del minore. Ci sono riconoscimenti che
a volte non rispondono all'interesse del minore.
L'articolo 29 è molto discusso: "famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". L'idea che
emerge è che la famiglia ha un fondamento giuridico dato dal matrimonio. Quando la Cost. entrò in
vigore non c'erano tutte le tipologie di famiglie che invece sono riconosciute oggi (convivenze, unioni
civili per esempio).
Il risultato dello stratificarsi della giurisprudenza sul punto è stato che le convivenze non fondate sul
matrimonio fossero da considerarsi formazioni sociali rilevanti e protette dalla costituzione e che
trovavano riferimento non nell'articolo 29 della Cost. ma nell'articolo 2 che tutela i diritti fondamentali
dell'uomo sia come singolo e sia nell'ambito delle formazioni sociali. C'è un riconoscimento della famiglia
vista come luogo di riconoscimento dei diritti inviolabili. Le convivenze sono quindi meritevoli di tutela
secondo l'articolo 2. In Italia è mancata per tanti anni una legge che disciplinasse le unioni non fondate
sul matrimonio e lasciata, per alcuni versi, a interventi del legislatore (sentenza 88, contratto locazione al
convivente / Legge che ha introdotto l'amministratore di sostegno: riconosce, tra le persone che possono
richiedere l'amministratore di sostegno, anche il convivente equiparandolo al coniuge / Coniuge
superstite di un sinitro può chiedere il risarcimento del danno per interruzione di un legame affettivo
parafamiliare). Sono comunque interventi episodici.
Il problema del riconiscimento delle unioni di persone dello stesso sesso è sorto quando alcune di esse
hanno contratto matrimonio all'estero e hanno richiesto la trascrizine sul registro italiano delle unioni
civili.
All'inizio le prime sentenze sono state negative. La Corte Costituzione ha emanato poi una sentenza nel
2012 che ha ammesso che i rapporti affettivi tra persone dello stesso sesso abbiano rilevanza anche
costituzionale da ricercare nell'articolo 2 -> utilizzato per le famiglie di fatto composte da persone di
sesso diverso.
Questa è il primo passo fatto dalla Corte Costituzionale.
Essa ha poi adottato una politica di autorestrizione: la scelta in materia deve essere rimandata alla legge
e che, dunque, si tratta di una materia troppo sensibile per poter essere trattata in sede giudiziale. La
Corte declina quindi la responsabilità di pronunciarsi su una materia così delicata e rimette al parlamento
il compito di legiferare. Il Parlamento si prende del tempo e solo nel 2016 entra in vigore la L. che per
prima nel nostro ordinamento disciplina formazioni familiari (unioni civili - destinate a persone dello
stesso sesso- e convivenze di fatto) diverse da quelle fondate sul matrimonio. L'unione civile è per certi
versi simile al matrimonio ma le differenze sono comunque vistose come quelle sotto il profilo della
filiazione: no adozione, no fecondazione artificiale. Nelle unioni civili non è previsto il dovere di fedeltà
come nel matrimonio e non viene applicata la separazione. L'idea ispiratrice della L. 2016 è quella di
costruire il regime dell'unione civile sulla base dell'articolo 2 della Cost. e non sul 29.
Il diritto di famiglia ha subìto molte variazioni nel tempo date anche dall'influenza di norme
sovranazionali.
Divorzio, affido, successioni , regimi patrimoniali-> oggi ci sarebbe bisogno di una profonda meditata
opera di armonizzazione di tutti questi regolamenti per dare un quadro coerente alla materia. Il diritto
dell'UE non ha competenze sul diritto di famiglia, invece la corte più attiva è la Corte Europea dei diritti
dell'uomo - sede a Strasburgo - che ha dato impulsi a numerosi cambiamenti del diritto di famiglia e che
deve salvaguardare i diritti dell'uomo decidendo su ricorsi individuali dei cittadini di stati firmatari e che
si lamentano che il loro paese ha violato un loro diritto fondamentale.
Il matrimonio è visto dal cc come ATTO dal punto di vista del diritto statuale. Il matrimonio però non è
solo un atto di diritto statuale ma può essere anche un atto religioso. Si intersecano ordinamenti diversi:
quello giuridico italiano e ordinamenti altri che devono interfacciarsi con l'ordinamento giuridico italiano.
Il matrimonio religioso più diffuso è quello cattolico regolato da un'intesa stipulata tra lo stato italiano e
lo stato vaticano.
Una convenzione che si chiama PATTI LATERANENSI risalenti al periodo fascista e successivamente
revisionata nel 1984. Prima dei patti lateranensi il matrimonio seguiva il principio della separazione dei
poteri: i due nubendi potevano celebrare il matrimonio di fronte al ministro del culto cattolico in chiesa
ma questo matrimonio valeva soltanto per l'ordinamento canonico e non aveva effetti civili. Per avere gli
effetti civili il matrimonio doveva essere celebrato anche dal sindaco o da un suo delegato. I Patti
lateranensi servirono a semplificare la procedura e ad attribuire al matrimonio celebrato dal ministro del
culto cattolico l'efficacia anche per il diritto civile previa trascrizione dell'atto nei registri dell'atto civile a
cura del celebrante. In mancanza della trascrizione il matrimonio ha solo effetti per l'ordinamento
canonico. Durante il matrimonio il celebrante avrà il dovere di ricordare agli sposi l'art. 143 del cc che
prevede reciproci diritti e doveri tra i coniugi e che consistono nella coabitazione, nella fedeltà,
nell'assistenza morale e materiale e nella contribuzione che ognuno è obbligato ad apportare alla
famiglia e in relazione alle sue sostanze e alla sua capacità di lavoro professionale o casalingo. Il
matrimonio religioso cattolico ha questa duplice valenza: una di diritto canonico e una di diritto civile.
Il matrimonio può essere annullato sia per vizi rilevanti secondo il diritto canonico o secondo il diritto
civile.
La procedura di annullamento può essere anche impermeabile. Frequenti sono i casi di annullamento del
matrimonio cattolico secondo il diritto canonico e che avviene ad opera di un tribunale ecclesiastico
(sacra rota). L'annullamento del matrimonio canonico ha bisogno di una sorta di presa d'atto da parte
dell'autorità giurisdizionale italiana per annullare anche il matrimonio civile. L'annullamento rotale non è
l'unica modalità di annullamento. E' possibile infatti ricorrere all'annullamento del matrimonio civile
previa verifica dei vizi.
L'attribuzione dei diritti civili al matrimonio cattolico passa attraverso la predisposizione e la conclusione
di apposite intese e che non esistono per tutte le religioni e, pertanto, in quel caso il matrimonio non ha
effetto civile.
Il matrimonio è un accordo che nasce dalla fusione di due volontà e non ha molto a che fare con il
contratto del diritto privato. E' un atto che ha alcune caratteristiche generali: è un atto solenne - non ha
validità un matrimonio stipulato in forma privata senza la presenza di un pubblico ufficiale -, è un atto
rigido nel suo contenuto - non vi sono termini (dagli anni 70 è inserito il divorzio) ne condizioni -.
E' prevista la promessa di matrimonio (che coincide con le pubblicazioni) ma non è una promessa che
vincola le parti perchè è necessario salvaguardare la libertà matrimoniale (principio fondamentale e
inderogabile dalle parti stesse). Le parti devono essere libere, anche nei confronti di se stessi, di
cambiare idea.
Può essere accompagnata da una sorta di penale in quanto essa ha comunque effetti giuridici -> se sono
stati fatti dei doni a causa della promessa di matrimonio si può chiedere la restituzione; nel caso in cui la
promessa sia fatta in modo solenne o in forma privata o coincidente alle pubblicazioni il promettente,
che senza giusto motivo, rifiuta la celebrazione del matrimonio può avere l'obbligo di risarcire il danno
causato all'altra parte per le spese fatte e contratte a causa di quella promessa.
Il matrimonio è un atto che il codice civile considera come impegantivo: richiede maturità che si presume
raggiunta alla maggiore età. I minori sono perciò esclusi dalla possibilità di contrarre matrimonio salvo
un caso particolare-> minore che ha compiuto 16 anni e che può essere autorizzato a contrarre
matrimonio.
I genitori sono soggetti che possono essere sentiti dal tribunale ma non sono chiamati a prestare il loro
assenso. E' il minore che deve fare istanza al tribunale per chiedere l'autorizzazione. Il tribunale fa un
accertamento (sentendo genitori, tutori, pubblico ministero) seguendo due criteri: verifica della maturità
psico-fisica del minore e gravità/fondatezza dei motivi addotti.
Tra i requisiti per contrarre matrimonio non vi è solo l'età e la diversità di sesso ma anche la capacità di
intendere e di volere. Per meglio dire: non può contrarre matrimonio l'interdetto giudiziale. Non può
contrarre matrimonio quella persona la cui capacità di agire è stata rimossa da un provvedimento
giudiziale di interdizione (interdizione legale: disposta a chi è stato condannato per ergastolo o
reclusione maggiore di 5 anni; interdizione giudiziale: chi è affetto da infermità mentale e incapace di
provvedere ai propri interessi).
Discorso diverso per l'inabilitazione (ha una minore gravità dell'infermità e può quindi agire da solo per
atti di ordinaria amministrazione e assistito da un curatore per atti di straordinaria amministrazione):
l'inabilitato può contrarre matrimonio. Per quanto riguarda l'amministrazione di sostegno non vi è un
divieto a priori ma la lista degli atti che il soggetto può compiere è dettata dal giudice che emette il
provvedimento.
L'interdetto per infermità di mente se contrae matrimonio viene annullato.
La libertà di stato impedisce la celebrazione del matrimonio da chi è vincolato da precedente matrimonio
o unione civile. Dopo la L. 76/2016 è stato novellato l'art. 86 ed è stato aggiunto l'impedimento per chi è
vincolato da unione civile. Questo non impedisce a chi sia coniugato secondo il diritto italiano di
muoversi in un paese dove invece è ammessa la possibilità di contrarre più matrimoni successivi. Quello
che può fare il coniuge italiano è chiedere il divorzio-> esiste un'apposita causa di scioglimento di
matrimonio a causa di matrimonio contratto all'estero. In questo caso si può chiedere lo scioglimento
diretto senza passare per la separazione.
Altri impedimenti sono costituiti dalla possibile esistenza di legami di parentela, legami affettivi e di
adozione.
Gli impedimenti non riguardano solo consanguinei ma riguardano anche affini o adottati (divieto di
sposarsi per gli affini in linea retta - suocero e nuora; genero e suocera - divieto di sposarsi per gli affini in
linea collaterale - cognati). Divieto che si estende anche nel caso in cui il matrimonio che ha creato il
rapporto di affinità sia stato dichiarato nullo o sciolto. Il divieto si estende in linea retta anche in
discendenza.
Alcuni divieti possono essere rimossi previa autorizzazione del giudice (zio-nipote e affini in linea
collaterale in secondo grado). Esiste poi il divieto di delitto: divieto di matrimonio tra due persone di cui
una sia stata condannata per l'omicidio del coniuge dell'altra, consumato o tentato.
Il divieto temporaneo di nuove nozze deriva dall'esigenza di far operare senza inquinamenti la
presunzione di paternità (no nuovo matrimonio prima di 300 giorni per una donna perchè un'eventuale
nascita farebbe venir fuori un errore di presunzione tra i due matrimoni).
Si può autorizzare il matrimonio quando è esclusa la gravidanza.
L'unica condizione di incapacità che impedisce a un nubendo maggiorenne di celebrare matrimonio è
l'interdizione giudiziale. Tuttavia chi ha contratto matrimonio in uno stato di incapacità naturale può
chiederne l'annullamento per qualunque causa transitoria. E' lui che deve chiedere l'annullamento.
L'impugnazione del matrimonio ha un certo limite temporale, così come succede per i vizi del consenso:
un anno dopo che il coniuge capace ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali qualora vi sia stata
coabitazione.
Il matrimonio come atto è un atto di volontà e può essere viziato qualora la volontà non sia stata formata
in modo giusto. I vizi che consentono l'annullamento del matrimonio hanno presupposti molto rigorosi:
la violenza è definita come la minaccia riferita alla persona che presterà poi consenso viziato alla
celebrazione del matrimonio -> una persona quindi costretta a celebrare matrimonio sotto la pressione
di una minaccia.
Diverso è il caso del timore: non perchè si è stati minacciati ma perchè si è stati indotti da un timore
derivato da cause esterne allo sposo. La violenza proviene da qualcun'altro mentre il timore nasce e
resta dentro la persona che contrae matrimonio. Un timore di eccezionale gravità senza che nessuno
rappresenti queste condizioni negative. Il matrimonio può essere poi impugnato per errore: l'errore può
essere un errore sull'identità o sulle qualità personali dell'altro coniuge (l'essenzialità dell'errore si ha
nell'ipotesi in cui il coniuge, se fosse stato consapevole dell'errore non avrebbe contratto matrimonio;
questo non basta! L'errore deve riguardare l'esistenza di una malattia fisica o psichica o deviazione
sessuale, l'esistenza di una sentenza di condanna per delitto non colposo con reclusione non inferiore a 5
anni, dichiarazione di delinquenza abituale o professionale, sentenza di condanna per delitti concernenti
la prostituzione e pena non inferiore a 2 anni, stato di gravidanza causata da persona diversa dal
soggetto caduto in errore - la persona deve disconoscere il bambino nato).
Anche rispetto ai vizi del consenso vi è una scadenza: superato l'anno di coabitazione che decorre dal
momento in cui si è stato scoperto l'errore oppure è cessata violenza e timore, è preclusa l'azione di
annullamento.
Può verificarsi il caso in cui i coniugi contraggano matrimonio accordandosi che esso non produca
doveri/diritti.
E' un matrimonio validamente celebrato ma simulato: le parti sono d'accordo a non renderlo effettivo tra
loro.
Questa situazione rende il matrimonio impugnabile a causa della simulazione ma vi è una preclusione
temporale -> un anno dalla celebrazione del matrimonio, ovvero nel caso in cui i contraenti abbiamo
convissuto come coniugi dopo la celebrazione. Il matrimonio viene annullato.
Ci sono effetti che rimangono nonostante la nullità del matrimonio come lo status di figlio.
L'impugnazione del matrimonio per il vincolo di precedente matrimonio (divieto di bigamia) può
avvenire in qualunque tempo. Per quanto riguarda il matrimonio contratto da minore, se il minore
contrae matrimonio senza l'autorizzazione del giudice esso può essere impugnato dai coniugi stessi - non
oltre un anno dal compimento della maggiore età-, dai genitori e dal pubblico ministero nonchè da tutti
coloro che hanno un interesse legittimo.
L'art. 143 cc elenca diritti e doveri dei coniugi, specificando che essi sono tenuti - reciprocamente -
aldovere di coabitazione, collaborazione, contribuzione ai bisogni della famiglia e fedeltà.
Si parla di coniugi perchè la norma, dopo il 75, è formulata in ossequio al principio di eguaglianza tra
coniugi.
Per contribuzione ai bisogni della famiglia (compiti di accudimento e cura che costituiscono un tipico
contenuto del lavoro domestico, la cui valenza economica è minima rispetto al valore non patrimoniale
che essi hanno rispetto al soddisfacimento dei bisogni della famiglia) si intende anche il lavoro casalingo:
il lavoro professionale extradomestico e il lavoro domestico, pur avendo valore economico diverso sul
mercato, vengono posti sullo stesso piano. E' questa la logica che ispira il regime della comunione legale:
uguali e pari titolarità di diritti su beni acquistati durante il matrimonio sulla base del presupporto che vi
sia una eguale contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia.
L'art. 143 tratta di diritti e doveri non propriamente patrimoniali ed economici.
Questi doveri sono definiti inderogabili: connotano il matrimonio nella sua essenza, lo caratterizzano in
modo talmente alla radice che non è ammessa una deroga - non viene consentito ai coniugi di
concordare di non essere tenuti al rispetto di uno di questi doveri -. Sono doveri che rispondono ad
un'idea diffusa del matrimonio, condotte che si considerano spontaneamente attuate da chi decide di
sposarsi.
Quando uno dei due coniugi non adempie a uno di questi doveri (relazione sentimentale extraconiugale,
allontanamento da casa, non assistenza al coniuge in momenti di bisogno, rifiuto di contribuzione), che
succede?
Per lungo tempo si è ritenuto che le uniche conseguenze fossero dettate dal diritto di famiglia.
Oggi rispetto alla violazione dell'obbligo di coabitazione l'art. 146 prevede che chi si allontana, senza
giustificato motivo, perde il diritto all'assistenza morale e materiale. Le violazione dei doveri coniugali si
apprezzano poi al momento della crisi coniugale. La violazione dei doveri coniugali può dare luogo a una
pronuncia di separazione con addebito (dopo il 75). Nel 75 la separazione diventa consensuale o
giudiziale. Quest'ultima non è piu separazione per colpa ma può essere genericamente fondata
sull'intollerabilità della convivenza o avere una pronuncia aggiuntiva di addebito che implica,
effettivamente, un'accertamento della violazione di un dovere coniugale. Quali sono gli effetti
dell'addebito? Il coniuge a cui è addebitata la separazione perde il diritto al mantenimento e perde i
diritti successori.
A partire dagli anni 2000 il cambiamento c'è stato sotto due profili: il primo ha preso corpo in un dlgs che
ha introdotto gli ordini di protezione contro gli abusi familiari (che ledono l'integrità fisica e/o psichica di
una persona, 2001) consistenti in provvedimenti che riguardano chiunque conviva (sia coniugi,
conviventi di fatto, conviventi non legate da rapporti di parentela) per prevenire o cessare questi
comportamenti; il secondo ha preso corpo da un'evoluzione della giurisprudenza consolidato nel corso
degli anni e che ammette la possibilità di chiedere/ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale
subìto a causa della violazione di un dovere familiare e che ha comportato la lesione di un diritto della
persona. L'art. 2059 cc prevede che il risarcimento del danno morale sia ammissibile solo nei casi previsti
dalla legge e dunque ci vorrebbe, secondo il cc, una norma di legge che riconosce espressamente il
danno non patrimoniale. Il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali ha comportato una enorme
limitazione dei danni risarcibili non patrimoniali -> questo principio della tipicità è stato superato. Si è
arrivati ad alcune sentenze dell'11/11/2008 che fissano tutte che l'art. 2059, per essere conforme all'art.
2 della costituzione, deve essere interpretato nel senso che: i danni non patrimoniali, dice l'art. 2059
riformulato dalla corte di cassazione, è risarcibile nei casi previsti dalla legge ordinaria e nei casi di
violazione di diritti inviolabili.
La violazione di uno dei doveri coniugali può comportare un risarcimento di danni non patrimoniali? Sì,
purchè sia dimostrata la lesione di un diritto inviolabile dell'uomo (es. la prova che l'infedeltà ha
provocato una lesione di un diritto inviolabile come la salute psichica).
La violazione dei doveri possono dare luogo ad addebito o risarcimento del danno.
Quali sono i requisiti per richiedere una separazione per addebito e in quali condizioni è possibile
chiedere un risarcimento del danno? Addebito-> sentenza 2014-> la corte di cassazione tiene in
considerazione la prova della violazione dei doveri e il necessario nesso di causalità fra violazione del
dovere e insorgenza della crisi coniugale. La corte di cassazione afferma un principio consolidato ovvero
che per l'addebito non basta allegare la violazione di un dovere ma il giudice deve accertare i fatti storici
in cui si sarebbero manifestate le violazioni contestate e valutare la rilevanze dei fatti storici accertati al
fine del sorgere della crisi -> es. se la crisi coniugale è sorta prima che un coniuge intrattenesse una
relazione extraconiugale non c'è addebito nonostante la violazione del dovere di fedeltà. Contano anche
le modalità e la frequenza con cui la violazione dell'obbligo è avvenuta.
La cassazione ribadisce che l'addebito implica sempre un giudizio di imputabilità al coniuge del
comportamento contrario ai doveri del matrimonio, comportamento che deve avere un carattere
volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri del matrimonio e che sia ricollegabile
l'irreversibile crisi del rapporto.
L'addebito richiede sia la capacità di intendere e di volere sia l'idoneità causale della violazione a rendere
intollerabile la convivenza. Può essere richiesta qualora vi sia un depauperamento del patrimonio
familiare che abbia portato l'intollerabile la convivenza.
Danno intrafamiliare-> l'illecito cosidetto "intrafamiliare" è l'illecito commesso da un membro della
famiglia nei confronti di un altro membro (diverso l'illecito che danneggia un membro della famiglia
posto in essere da un terzo: danno da perdita del rapporto affettivo coniugale/parentale dovuto
dall'uccisione del marito della moglie da un terzo o dovuto dall'uccisione del figlio da un terzo). E' un
danno che ha trovato conferma nelle sentenze del 2008: esse intervengono rispetto ad un'evoluzione
della giurisprudenza che va verso un atteggiamento di apertura verso danni non patrimoniali perpetrati
all'interno della famiglia. Quello che chiedono in più è che accanto alla violazione del dovere familiare o
coniugale si accompagni la prova della violazione di un diritto inviolabile.
I regimi patrimoniali della famiglia sono articolati in un regime legale e in una serie di regimi
convenzionali.
La loro funzione è quella di delineare regole e criteri deputati alla regolazione di acquisti e
all'amministrazione dei beni acquistati durante il matrimonio. Hanno quindi lo scopo di porre regole
generali e astratte destinate ad applicarsi durante il matrimonio a tutti gli acquisti posti in essere dai
singoli coniugi.
Il cc sceglie un regime patrimoniale legale che si applica qualora le parti non dispongano diversamente.
Il regime patrimoniale legale, a partire dal 75, è la comunione perchè costituisce espressione di due
principi fondamentali applicati al matrimonio: il principio di solidarietà/idea di comunità e il principio di
uguaglianza (sostanziale, che non è proporzionale al contributo economico che ciascun coniuge ha dato
per l'acquisto del bene). La comunione è legale in quanto in regime viene applicato in automatico se le
parti non si sono accordate in altro senso. Ma legale non vuol dire inderogabile. Non si applica quindi in
modo imperativo nei confronti dei coniugi. E' un regime che le parti scelgono implicitamente, ma esse
restano comunque libere di scegliere altro come la separazione dei beni - sottoscritta durante l'atto del
matrimonio.
I regimi patrimoniali, oltre alla separazione, sono la comunione convenzionale e il fondo patrimoniale.
Quest'ultimi esigono scelte più articolate da parte dei coniugi e non si può fare semplicemente
esprimendo un'opzione. E' necessaria un'apposita convenzione redatta da un notaio prima/dopo il
matrimonio.
Comunione legale: art. 177 cc, la comunione non include l'universalità dei beni dei coniugi.
E' una comunione degli acquisti compiuti dopo la celebrazione del matrimonio da uno o entrambi i
coniugi perciò non include beni di cui i coniugi erano titolari prima del matrimonio.
Se un bene acquistato dai due coniugi insieme questo acquisto, anche se i coniugi non sono in
comunione, diventa comune. La comunione è un tipo particolare di comunione, un tipo che ha caretteri
peculiari che la contraddistinguono rispetto alla comunione ordinaria. L'effetto più sorprendente della
comunione legale si coglie quando un solo coniuge, andando dal notaio per acquistare un bene
immobile, realizzerà l'acquisto a favore di entrambi - anche se l'altro coniuge non è parte dell'atto e non
viene menzionato; nella nota di trascrizione verrà specificato che il coniuge X è in comunione legale.
Qualora il bene immobile venga venduto, essendo un atto di straordinaria amministrazione, il consenso
deve essere dato da entrambi i coniugi-> altrimenti atto nullo!
Per gli atti compiti senza il necessario consenso, può essere chiesto l'annullamento entro un anno dalla
data in cui il coniuge X ha avuto conoscenza dell'atto e in ogni caso entro un anno dalla data di
trascrizione.
Gli acquisti di beni mobili e immobili cadono in comunione così come le azioni e le aziende (insieme di
beni materiali e non materiali, strumentali all'esercizio di un'attività di impresa).
L'azienda cade in comunione quando viene costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi.
Gli utili e gli incrementi dell'azienda cadono in comunione qualora l'azienda sia stata costituita prima del
matrimonio ma dopo di esso venga gestita da entrambi i coniugi. Ci sono poi beni che cadono in
comunione soltanto in via residuale: frutti di beni personali (frutto naturale o civile - gli interessi che
maturano rispetto al denaro, canone di locazione di un immobile) di ciascun coniuge percepiti e non
consumati allo scioglimento della comunione e i proventi dell'attività separata (stipendi) di ciascuno dei
due coniugi non consumati all'atto dello scioglimento della comunione-> si tratta della comunione "de
residuo", "residuale", "differita": questi beni non cadono in comunione durante la vita della comunione
restando quindi di titolarità esclusiva dei singoli coniugi, ma dal momento in cui la comunione si scioglie
questi beni - se non sono stati consumati - vengono computati nella comunione che si crea dopo lo
scioglimento della comunione legale. Rientrano qui anche i beni o proventi non spesi: anche i risparmi
vanno a confluire nei beni della comunione che si crea dopo lo sciogliemento.
Ci sono beni che, nonostante vengano acquistati dopo il matrimonio, non cadono in comunione (art.
179): beni conseguiti a titolo di successione di donazione in quanto non costituiscono il frutto di
contribuzione di entrambi ai bisogni della famiglia (a meno che il donatore o chi redige il testamento
non abbia espressamente destinato questi beni a favore della famiglia), beni di uso strettamente
personali (a meno che non si tratti di capi/gioielli particolarmente costosi che costituiscono oggetto di
investimento), beni legati all'esercizio professione (poltro del dentista), pensione di invalidità, beni
acquisiti con il denaro che proviene dall'alienazione di un bene personale dichiarandolo espressamente
all'atto dell'acquisto.
L'amministrazione dei beni della comunione è retta dal principio della parità tra i coniugi: se si tratta di
atti di ordinaria amministrazione il consenso può essere dato da uno solo dei due coniugi ma quando si
tratta di atti di straordinaria amministrazione il consenso di entrambi i coniugi è richiesto.
Quando è richiesto un atto di straordinaria amministrazione per far fronte ai bisogni della famiglia o
dell'azienda facente parte della comunione e un coniuge si rifiuta di dare il consenso, questo può venire
meno previa richiesta al giudice.
I beni della comunione rappresentano una specie di garanzia patrimoniale rivolta ai bisogni della
famiglia: rispondono per le spese di mantenimento della famiglia, istruzione dei figli e ogni altra spesa
sostenuta per i bisogni della famiglia anche separatamente da ciascuno dei coniugi. Se un coniuge
separatamente contrae un debito che riguarda per es. spese mediche a favore di uno dei figli, di queste
spese risponde la comunione perchè contratte per rispondere a bisogni familiari. I beni della comunione
inoltre rispondono di tutti i pesi e oneri gravanti su di essi al momento dell'acquisto, di tutti i carichi
dell'amministrazione e di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi. I beni della
comunione non rispondono delle obbligazioni contratte da uno dei due coniugi prima del matrimonio.
Per quanto riguarda obbligazioni contratte separatamente dai coniugi, per soddisfare un bisogno
personale e non familiare, i beni della comunione possono essere aggrediti nei limiti della quota del
coniuge debitori - non integralmente- e solamente in via sussidiaria qualora in beni personali non siano
sufficienti a soddisfare il debito.
Quando i creditori non riescono a rispondere al debito contratto dai coniugi aggredendo i beni della
comunione, in via sussidiaria possono aggredire quelli personali nella misura della metà del credito.
La comunione si scioglie se i coniugi si separano ma ci sono anche cause di cessazione che prescindono
dalla crisi coniugale: quando i coniugi passano ad un altro regime patrimoniale; quando vi è una cattiva
amministrazione dei beni della comunione o inabilitazione e interdizione di uno dei coniugi è possibile
richiedere la separazione giudiziale dei beni, ottenuta non consensualmente ma in via giudiziale.
I regimi legali (i coniugi possono asoggetarsi ad un regime patrimoniale diverso, per es. quello previsto in
un altro ordinamento-> è importante che non si vìoli l'ordine pubblico o che non si dia vita a regimi
vietati come la dote) alternativi alla comunione/separazione dei beni sono la comunione convenzinale e
il fondo patrimoniale.
Se scelto un regime diverso dalla comunione è necessario fare un atto alla presenza di due testimoni.
Il fondo patrimoniale non è un regime alternativo ma un regime parziale perchè può riguardare solo
alcuni beni specifici - mobili, mobili registrati o titoli di credito. Con il fondo patrimoniale io destino
alcuni beni per rispondere ai bisogni della famiglia. Il fondo patrimoniale deve essere annotato a margine
dell'atto di matrimonio e trascritto. I beni destinati al fondo possono essere beni personali, beni che
rientrano nella comunione o beni di un terzo. L'effetto è quello di prendere quei beni separati dal
patrimonio dei coniugi: i creditori dei coniugi non possono aggredire quei beni quando essi sapevano che
il debito era stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Una volta costituito il fondo, gli
atti di disposizione dei beni del fondo richiedono il consenso di entrambi i coniugi e se vi sono figli minori
è necessaria anche l'autorizzazione giudiziale per casi di necessità evidente.La cessazione del fondo si ha
con annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e se vi sono figli minori
esso dura fino al compimento del 18 anni.
La comunione convenzionale non è un vero regime alternativo alla comunione legale. Si chiama
convenzionale solo perchè i coniugi, attraverso una convenzione, decidono di derogare ad alcuni profili di
disciplina della comunione. Laddove è consentito, i coniugi potrebbero decidere di ampliare l'oggetto
della comunione inserendo nella comunione convenzionale categorie di beni tipicamente esclusi (es.
beni acquistati prima del matrimonio). La comunione convenzionale non può includere beni
strettamente personali, beni legati all'esercizio della professione e il risarcimento del danno e le
pensione di invalidità. I coniugi non possono modificare la regola della parità delle quote. Inoltre non è
possibile escludere dalla comunione beni tipicamente inclusi e non possono derogare le norme della
comunione legale relative all'amministrazione dei beni della comunione.
La crisi coniugale prevede la separazione e il divorzio. Nella maggior parte delle volte esse vanno in
sequenza ma entrambe hanno una loro autonomia specifica. La separazione è quell'istituto che consente
ai coniugi di sospendere gli effetti del matrimonio. I possibili eventi successivi alla separazione formale
sono o la riconciliazione tra i coniugi o il divorzio. La riconciliazione è un esito possibile quando i coniugi
decidono di riprendere la vita insieme. E' un fatto che richiede un accordo tra i coniugi, anche non
formale.
Questi due esiti non sono necessari: i coniugi possono decidere di vivere separati senza riconciliarsi o
senza chiedere il divorzio. La separazione è quindi un istituto con una sua autonomia, anche se nella
maggior parte dei casi essa costituisce il momento preliminare allo scioglimento e alla cessazione degli
effetti civili del matrimonio.
Anche il divorzio può avere una sua autonomia e consiste nello scioglimento del vincolo matrimoniale a
causa del venir meno della comunione spirituale e materiale dei coniugi.
Il divorzio non ha luogo per problemi che attengono a un vizio dell'atto. Il divorzio si connette a eventi
successivi a circostanze che sopravvengono alla celebrazione del matrimonio e che fanno riferimento alla
rottura del rapporto coniugale. Tra le cause del divorzio troviamo la separazione legale ma anche altre
cause come la non consumazione del matrimonio, il cambiamento di sesso, l'avere contratto all'estero un
nuovo matrimonio che esonerano il passaggio per la separazione andando direttamente al divorzio.
La separazione per avere effetti civili deve essere legale. A partire dal 75, si arriva alla separazione in due
modi: attraverso una separazione consensuale ovvero attraverso un accordo tra i coniugi - accordo
contenente la volontà e le condizioni per la separazione, accordo che per essere valido e produrre effetti
deve essere omologato dal giudice - il tribunale fa una verifica sull'accordo ed emette il decreto di
omologazione -; attraverso la separazione giudiziale ovvero attraverso un contenzioso tra i coniugi che
avviene con una domanda (domanda che prima del 75 presupponeva la colpa di uno dei due coniugi,
dopo il 75 si basa sul fatto che la separazione non è consensuale) da parte di uno dei due coniugi - nella
domanda, il coniuge che vuole ottenere la separazione deve addurre l'intollerabilità oggettiva della
convivenza come causa della separazione indipendentemente dalla violazione di obblighi coniugali; il
coniuge può chiedere anche un'addebito che implica l'accertamente di una violazione di un dovere
coniugale o genitoriale e la prova del nesso di causalità fra questa violazione e la crisi coniugale. La
giurisprudenza, per l'addebito, richiede che la persona sia capace di rendersi conto della contrarietà ai
doveri matrimoniali del comportamento che ha assunto.
Accanto a queste due modalità classiche di separazione, un intervento normativo del 2014 ha aggiunto la
negoziazione assistita. Si tratta di una modalità che ha introdotto un ulteriore modalità consesuale per
arrivare alla separazione e al divorzio. Questa modalità consiste non solo nel carattere consensuale della
separazione e del divorzio ma è una modalità paragiudiziale: non richiede, ai fini dell'efficacia del
prodursi degli effetti giuridici, l'intervento del giudice (necessario invece nella separazione consensuale e
nel divorzio chiesto attraverso domanda congiunta). La negoziazione assistita presuppone che le parti
siano assistiti da un avvocato per parte, i quali facilitano la conclusione di un accordo di separazione o di
divorzio.
Si arriva quindi a un accordo non sulla base della semplice iniziativa delle parti ma sulla base di un input
degli avvocati oppure se le parti sono già d'accordo ma hanno bisogno dell'assistenza di un avvocato. Gli
avvocati quindi hanno un duplice ruolo: per un verso incentivano la risoluzione consensuale
dell'eventuale conflitto coniugale scoraggiando le parti a dar vita ad un procedimento contenzioso, per
un altro verso svolgono una funzione di garanzia affinchè questo accordo sia equo.
Quando si raggiunge l'accordo a seguito della convenzione, esso produce tutti gli effetti della separazione
consensuale omologata, della separazione giudiziale o della sentenza di divorzio. Questo accordo deve
però essere trasmesso entro 10 giorni all'ufficiale dello stato civile del comune in cui il matrimonio si è
iscritto.
Nel caso in cui NON vi siano figli minori o maggiorenni non autosufficienti o portatori di handicap, gravi
o incapaci, l'accordo è trasmesso al procuratore della repubblica presso il tribunale competente che ha il
compito di verificarne la regolarità e si esprime, in caso di valutazione positiva, per un semplice nulla
osta.
Si tratta dell'intervento del solo procuratore della repubblica e non di un giudice, che svolge una funzione
di rappresentante dell'interesse pubblico ma nella specie si limita a fare un controllo della regolarità
formale dell'accordo. Quando invece sono presenti figli minori, figli incapaci e non autosufficienti o
portatori di handicap gravi, il procedimento di negoziazione assistita può comunque essere utilizzato ma
l'accordo dovrà essere trasmesso al procuratore della repubblica il quale sarà chiamato a emettere un
provvedimento di autorizzazione, una volta fatta la verifica che l'accordo risponde all'interesse dei figli.
Nel caso in cui l'autorizzazione venga negata, il procuratore deve trasmettere entro 5 giorni l'accordo al
presidente del tribunale che fissa la comparizione delle parti.
Il divorzio è regolato dalla L. 898/1970. In questa sede viene disciplinato anche il procedimento: dal 70
all'87 era solo contenzioso anche il presenza di accordo delle parti, a partire dall'87 viene ridotto a 3 anni
il periodo minimo di separazione necessario per ottenere il divorzio e al contempo introduce - accanto al
contenzioso - una modalità consensuale - ovvero la possibilità che i coniugi, d'accordo circa le condizioni
di divorzio, potessero presentare insieme la domanda congiunta di divorzio. Questa domanda congiunta
è un procedimento in camera di consiglio, senza udienza pubblica, e pertanto si esaurisce in un tempo
breve.
Nel 2014, con l'introduzione della negoziazione assistita si assiste anche per il divorzio a una terza
modalità di cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio, la cui caratteristica consiste nel
fatto di essere un procedimento stragiudiziale.
Un ulteriore modalità, ancor più semplificata, di giungere alla separazione o al divorzio presuppone che
non ci siano figli minori oppure maggiorenni incapaci etc. e consiste nella conclusione di un accordo di
separazione personale, o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel comune di residenza di uno di
loro o nel comune in cui è trascritto l'atto del matrimonio senza necessariamente l'assistenza di avvocati.
L'assistenza degli avvocati è quindi solo facoltativa. L'ufficiale dello stato civile riceve dalle parti,
personalmente, la dichiarazione di volotà di cessazione del matrimonio -> ricezione di una dichiarazione
che le parti rivolgono all'uff. dello stato civile.
E' una modalità che si applica quando la coppia non ha figli o una coppia che ha figli maggiorenni
autosufficienti, capaci etc. Ci sono alcuni limiti: l'accordo non deve contenere parti di trasferimento
patrimoniale e non può essere applicato quando ci sono i requisiti di un diritto di mantenimento.
L'ufficiale riceve le dichiarazione e invita i coniugi a prendersi del tempo, riconvocandoli non prima di
30gg per confermare l'accordo.
Quali sono i presupposti per il divorzio? Si può chiedere divorzio quando viene meno la comunione
spirituale e materiale dei coniugi che trova senso in una delle cause - penali o civili - individuate dall'art.
3 della L. sul divorzio. Le cause penali presuppongono che vi sia stata una sentenza di condanna, passata
in giudicato, che implica quindi una pena detentiva >15 anni oppure che vi sia stata una sentenza di
condanna per il compimento di alcuni delitti che non implicano necessariamente una pena detentiva
lunga, ma sono delitti che giustificano la decisione dell'altro coniuge di non avere più a che fare con il
marito/moglie.
Tra le cause civili più frequenti troviamo la separazione legale che può consistere nella sentenza della
separazione giudiziale o nell'omologazione di quella legale oppure in una negoziazione assistita. Sulla
durata della separazione legale ci sono stati vari interventi-> in origine, la durata della separazione legale
doveva essere 7 anni in caso di sep. giudiziale con colpa o 5 anni in caso di sep. consensuale; nel 1987 si
riduce il periodo minimo della separazione a 3 anni senza distinzione; nel 2015 si è ridotto il tempo a 1
anno o 6 mesi in caso di sep. consensuale o negoziazione assistita.
Altre cause civili sono date dalla mancata consumazione del matrimonio, dallo scioglimento del
matrimonio all'estero o dalla contrazione di un altro matrimonio (sempre all'estero).
Quest'ultima causa è una condizione che è vietata nel nostro paese: il coniuge italiano si ritrova
coniugato con uno che è poligamo e legittimamente, il coniuge italiano, può chiedere immediatamente il
divorzio senza passare dalla separazione.
Infine, un'ultima ipotesi è quando è passata in giudicato una retificazione delle proprie risultanze
anagrafiche riferite al sesso (introdotta nell'82). Se A è sposato con B, B ottiene una sentenza di
retificazione di cambiamento di sesso, il matrimonio si scioglie automaticamente. Dal 2016, con la legge
76 sulle unioni civili, viene stabilito che il matrimonio non si scioglie ma si trasforma in un'unione civile.
Cambia quindi la denominazione del legame. Questo, comunque, non impedisce ad una delle due parti
di chiedere il divorzio.
Con la separazione si sospendono diritti e doveri che derivano dal matrimonio ma i diritti successori
rimangono.
Tuttavia questi ultimi vengono meno se a uno dei due coniugi viene addebitata la separazione.
Dalla separazione può nascere il diritto di mantenimento che grava sul coniuge che ha reditti superiori
rispetto all'altro e che consiste nel dovere di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il
matrimonio.
Gli alimenti possono essere richiesti solo quando la persona in questione verte in uno stato di bisogno
non dovuto a sua colpa e quantitativamente si estrinsecano in un assegno che copre il bisogno. Non è
parametrato sul tenore di vita avuto durante il matrimonio.
Le cose cambiano con il divorzio: il divorzio estingue diritti e doveri del matrimonio e estingue i diritti
successori.
Può far nascere dei diritti economici come l'assegno di divorzio: è un diritto di contenuto patrimoniale
che deriva dallo scioglimento del matrimonio e su cui di recente si è discusso molto. L'assegno di divorzio
deve essere determinato tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del
contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del
patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi in
rapporto alla durata del matrimonio.
Esso può essere disposto dal giudice e consiste in un versamento periodico a favore del coniuge che non
ha mezzi adeguati o non può procurarseli per ragioni oggettive.
L'assegno può essere somministrato anche in un'unica soluzione se c'è l'accordo tra i coniugi e se questo
accordo viene dichiarato equo dal tribunale. Gli alimenti fra coniugi divorziati non esistono.
L'obbligo di correspansione dell'assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a
nuove nozze. In caso di morte dell'ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per
la pensione di reversibilità, in coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o
cessazione del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assehno,
alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia
anteriore alla sentenza. Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di
reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale,
tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno. Se in tale
condizione si trovano più persone il tribunale prevedere a ripartire tra tutti la pensione e gli altri assegni,
nonchè a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove
nozze.
La pronuncia di addebito è sottratta alla disponibilità delle parti in quanto esso viene valutato
autonomamente dal giudice. Quest'ultimo infatti non deve essere vincolato dagli accordi delle parti.
L'addebito richiede non solo la prova del fatto ma anche la prova della causalità che il fatto abbia
scaturito la crisi coniugale.
Il criterio fondamentale per stabilire se l'assegno di divorzio è o meno dovuto è il mantenimento del
tenore di vita (non espressamente enunciato ma desumibile dopo l'interpretazione che è stata data)
avuto durante il matrimonio. Questa idea si fonda sull'interpretazione dell'assegno di divorzio come un
diritto che svolge una funzione essenzialmente assistenziale: la funzione dell'assegno è quella di
ribilanciare, al termine del matrimonio, le condizione economiche dei coniugi. E' necessario verificare,
prima di stabile il sorgere del diritto all'assegno, che esiste una differenza di redditi e condizioni
economiche tra i coniugi.
Per la quantificazione si possono tenere conto di altri elementi oltre il tenore di vita: condizioni dei
coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione
familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi e durata
del matrimonio.
L'idea de tenore di vita goduto durante il matrimonio non è mai stata esplicitata fino in fondo e mai
applicato in modo convincente. La condizione implicita è che il matrimonio ha una duranta non breve.
L'idea è che quando un matrimonio ha avuto una certa durata e ha comportato per i coniugi una certa
organizzazione delle contribuzioni che i due coniugi hanno dato alla vita della famiglia, allora in presenza
di un certo modello familiare è giustificato il riferimento al tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Il matrimonio non è soggetto a termine: i coniugi fanno affidamento sul fatto che la decisione che hanno
preso ha, presumibilmente, la durata di una vita. E' un atto impegnativo e fonte di affidamento, anche se
è possibile scioglierlo. La perequazione finale dopo lo scioglimento del matrimonio ha così senso se
durante la vita coniugale è stata fatta una differenziazione dei ruoli. Questo problema non si pone
quando i coniugi hanno fatto scelte lavorative che non hanno consentito di penalizzare nessuno dei due.
Diverso è il discorso quando i coniugi hanno organizzato la vita familiare in modo che uno dei due si sia
concentrato nel lavoro extradomestico e l'altro in quello domestico.
Se il matrimonio è stato di breve durata tutto questo discorso perde di significato. La durata breve
consente ai due coniugi di riorganizzarsi e trovare una propria collocazione lavorativa, qualora non
l'avessa avuta.
Diverso è il discorso di un matrimonio che comporta scelte di vita che di fatto diventano irreversibili.
Rispetto all'elemento della durata la giurisprudenza non ha mai dato peso consistente a questo
presupposto richiedendo, al fine di esclusione dell'assegno di divorzio, che il matrimonio sia un
matrimonio lampo (durata minima quindi, non breve). Difatti una recente sentenza ha ritenuto legittima
l'assegnazione di un'assegno di divorzio a fronte di un matrimonio di 3 anni senza figli.
Il diritto all'assegno viene perso se in coniuge avente diritto contrae nuovo matrimonio.
Nulla viene detto circa la convivenza di fatto. Inizialmente viene negata rilevanza alla convivenza
instaurata dal coniuge avente diritto all'assegno. Più recentemente, si è cominciato a vedere la
convivenza come un elemento da tenere in considerazione. Nel 2007 l'instaurazione della convivenza
poteva rientrare negli elementi da valutare ai fini della quantificazione dell'assegno. Nel 2015 invece si
ritiene che la convivenza possa costituire causa di estinzione dell'assegno. Dal lato dell'obbligato, qualora
esso si risposi o faccia un figlio, gli obblighi contratti con la nuova famiglia incidono sugli obblighi già
esistenti. L'orientamento formato in tempi recenti è che effetivamente la sopravvenienza di un nuovo
matrimonio e di figli possa comportare una modifica degli assegni precedentemente dovuti, a meno che
tale risultato sia incompatibile con il reddito attuale disponibile.
Il diritto all'assegno di divorzio non può essere considerato come una rendita che esoneri il coniuge da
qualsiasi sforzo di provvedere autonomamente alle proprie esigenze, anche quando il coniuge non si
trovi nella situazione di non poter provvedere a se stesso. L'autoresponsabilità è un criterio che va
declinato in concreto e contribuisce a trovare soluzione nei casi concreti alla luce delle circostanze da
prendere in considerazione: età, livello culturale, presenza o meno di obblighi di accudimento.
L'elemento dell'impossibilità di trovare i mezzi viene preso in considerazione.
Un altro elemento che viene tenuto in considerazione è l'importanza del fatto contributivo: il fatto della
contribuzione che ciascun coniuge ha dato nel creare un patrimonio della famiglia o nel reddito dell'altro
coniuge.
I lasciti successori devono essere presi in considerazione per la quantificazione dell'assegno.
Sentenza 2017 - il giudice di divorzio, per sancire il diritto di un coniuge all'assegno di divorzio, deve
verificare se la domanda fatta soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza dei mezzi adeguati o
impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive). La cassazione dice che prevale non la funziona
assistenziale ma il criterio dell'indipendenza economica. C'è quindi una forte distanza tra questo
principio e quello affermato nel 90 (ancorato alla differenza dei redditi). Una volta verificato che il
coniuge ha redditi adeguati il diritto non sorge.
Se invece il coniuge ha diritto all'assegno, nel quantificarlo il giudice deve guardare al contributo dato da
ciascuno
al patrimonio comune e alla conduzione familiare. Si capisce quindi che la differenza con l'orientamento
tradizionale è notevole: non si guarda al tenore di vita goduto durante il matrimonio ma si fa una
valutazione complessiva dove l'elemento dell'autoresponsabilità è dominante.
· esclusione di ogni possibilità per i membri delle unioni civili di accedere alla filiazione artificiale
e all'adozione;
· disposizioni contenute nel codice civile; il riferimento ai coniugi e al matrimonio esteso alle
unioni civili non si applica sempre;
· differenze tra i requisiti per contrarre matrimonio o unione civile (la maggiore età è
espressamente richiesta per le unioni civili); il lutto vedovile non si può applicare; per quanto
riguarda i vizi del consenso, vi sono piccole differenze con riferimento all'errore poichè si fa
riferimento al fatto di avere nascosto un problema relativo alla salute fisica o psichica mentre si
omette il riferimento alle deviazioni sessuali - non riprodotta nelle unioni civili; tra i diritti e
doveri che discendono dal matrimonio, il dovere non riprodotto è il dovere di fedeltà non
previsto per l'unione civile;
· differenze nella fase della crisi coniugale: nell'unione civile non c'è la separazione e tra le cause
di divorzio non troviamo la causa che si riconnette alla separazione e non troviamo
l'inconsumazione e non troviamo neppure la rettificazione di attribuzione di sesso; quest'ultima
fa sciogliere l'unione civile, se invece intercorre durante il matrimonio non lo fa sciogliere ma lo
fa trasformare in unione civile.
Lo scioglimento dell'unione civile è più snello;
· scelta di un cognome comune previsto per le unioni civili ma non per il matrimonio.
La celebrazione di un'unione civile fa sorgere rapporti di affinità fra il membro dell'unione e i parenti del
proprio partner? Questo rapporto sorge nel matrimonio ma per quanto riguarda le unioni la l. 76 non
richiama queste norme. Questo dovrebbe voler dire, poichè non espressamente richiamate, che il
membro dell'unione non acquisisce alcun legame giuridico con la famiglia del proprio partner. Questa
conclusione suscita parecchi interrogativi. La l. 76/2016 richiama però tra gli impedimenti per contrarre
matrimonio l'art. del cc che riferisce alla parentela, affinità e adozione. La l. 76 richiama la disciplina degli
alimenti, che si applicano anche agli affini.
Si capisce come il mancato richiamo non sia neppure coerente con le altre dispozione espressamente
richiamate. Vengono invece richiamati espressamente i diritti successori. Il membro dell'unione rientra
tra i legittimari al pari del coniuge. Per le convivenze questo interrogativo è escluso perchè non c'è
legame fra le due parti.
I figli nati nell'ambito della convivenza instaurano un rapporto di parentela non solo con i genitori che li
hanno riconosciuti ma anche con le famiglie. Questo non è un effetto della convivenza ma un effetto del
legame di filiazione biologico riconosciuto. C'è stato bisogno di una legge apposita (2012) per stabilire
proprio questo effetto. Ci sono stati vari problemi intorno alla filiazione artificiale e all'adozione.
Ponendo il caso di una coppia omosessuale che per varie ragioni si è trasferita all'estero, nella fattispecie
in un paese che consente l'adozione di minori in stato di abbandono a coppie dello stesso sesso, quando
questa stessa coppia con il minore fa rientro in Italia necessita del riconoscimento di questo atto.
In Italia, per regolamentare gli atti conseguiti all'estero, si fa riferimento al rispetto dell'ordine pubblico
internazionale. Il riconoscimento di questo vincolo è contrario o no all'ordine pubblico internazionale? Il
giudice cosa deve fare? Nel 2017 il tribunale di Firenze si è trovato davanti a questa situazione,
sostenendo che l'ordine pubblico sia male richiamato in procedimenti di questo tipo in quanto l'ordine
pubblico internazionale fa riferimento non genericamente a principi ritenuti fondamentali o identitari di
un ordinamento giuridico, ma deve far riferimento a principi costituzionali riconosciuti anche nelle carte
internazionali. Il Tribunale di Firenze arriva alla conclusione che l'adozione di minori da coppie dello
stesso sesso è si vietata nel nostro ordinamento ma non può dirsi che questo divieto sia posto anche
dall'ordine pubblico internazionale.
E per chi ha fatto ricorso all'estero a un tipo di fecondazione vietata dalla legge italiana? Nel caso delle
coppie omosessuali il riferimento è alla fecondazione eterologa (il problema è posto dal riconoscimento
per il membro della coppia che non ha legami biologici con il figlio) o alla maternità surrogata.
Nel 2017 la Corte di Cassazione, dopo una sentenza, arriva alla conclusione che deve essere accolta la
domanda di rettificazione dell'atto di nascita del minore nato all'estero e figio di due madri coniugate
all'estero, già trascritto in Italia nei registri dello stato civile con riferimento alla sola madre biologica,
non sussistendo contrasto con l'ordine pubblico. Il ragionamento è simile a quello del trib. di Firenze:
l'ordine pubblico deve essere riferito alla costituzione ma anche alla dichiarazione dei diritti dell'uomo
etc. etc.
Nel 2018 è stata posta all'attenzione della Corte di Cassazione un caso per certi versi analogo: il caso
riguarda qui due uomini, cittadini canadesi che hanno giù due figli nati in Canada, i quali chiedono la
trascrizione nei registri di un Comune italiano un provvedimento pronunciato in Ontario, nel quale si
accertava la genitorialità di uno dei due uomini ed ordinava che l'atto di nascita dei suddetti minori fosse
integrato con l'aggiunta di detto nome come loro genitore e secondo padre. In Italia può avere
riconoscimento un provvedimento di questo tipo che ha avuto esito positivo in un altro stato? Si fa
sempre riferimento sempre all'ordine pubblico che fa riferimento non solo ai principi costituzionali ma
anche a principi sovranazionali -> pertanto, l'esito è positivo.
Art. 263 cc è una norma che consente l'impugnazione di un riconoscimento spontaneamente effettuato
da una persona nei confronti di un minore. Questa impugnazione del riconoscimento è possibile o per
difetto di veridicità o per interdizione giudiziale di chi ha effettuato il riconoscimento oppure per violenza
(vizio del consento). L'impugnazione per difetto di veridicità è un'impugnazione che si fonda su un fatto
oggettivo ovvero la comprovata assenza di un legame biologico fra chi ha effettuato il riconoscimento e il
minore.
Nell'ammettere questo, è sempre ammessa l'impugnazione del difetto di veridicità anche quando essa
contrasta con l'interesse del minore? La Corte Costituzionale dubita dell'art. 263.
La verità biologica non deve prevalere sullo status del minore.
Il tema della filiazione è stato profondamente modificato prima dalla riforma del 75 avvenuta con la L.
251 e poi dal dlgs 154/2013, quest'ultimo costituisce attuazione della legge di riforma del 2012.
Quest'ultima ha come obiettivo quello di uniformare definitivamente i vari tipi di filiazione eliminando
disparità di trattamento che ancora esistevano fra figli legittimi e figli naturali.
La legge del 1975 rappresenta la tappa fondamentale nel processo di progressiva parificazione dei figli
nati fuori dal matrimonio e all'interno del matrimonio, realizzando una perfetta parità di questi figli
rispetto ai genitori.
Quello che non viene toccato è il rapporto di questi figli rispetto ai parenti. Questo ulteriore aspetto della
parificazione viene realizzato attraverso la riforma del 2012. La legge del 75 elimina alcuni aggettivi di per
se discriminatori -> "illegittimo", "adulterino", ai quali si sostituisce "figli naturali", "figli legittimi" per
tutti.
La legge più recente elimina tutti i riferimenti, che la l. precedente conteneva, agli aggettivi legittimo e
naturale. Questi ultimini non sono più categorie tenute in considerazione dalla legge, a favore dell'unico
termini "figlio".
E' unificato, sotto la categoria della filiazione, non solo il tema dei diritti e dei doveri nei confronti dei figli
ma è unificato anche il tema dell'affidamento dei figli (prima capitolo della separazione e del divorzio,
ora sotto la filiazione perchè l'affidamento si applica indipendentemente dal rapporto che sussiste tra i
genitori).
Una differenza tra figli nati all'interno del matrimonio e fuori dal matrimonio c'è, ed è una differenza non
eliminabile: questa differenza riguarda il modo con cui i figli acquisiscono lo status di figlio.
Se un figlio nasce da genitori uniti in matrimonio tra loro, questo bambino viene automaticamente
considerato figlio della coppia unita in matrimonio - si applica quindi una presunzione di concepimento
durante il matrimonio e di paternità, con la conseguenza che i due genitori non dovranno effettuare il
riconoscimento. Viceversa, se un bambino nasce da due genitori non uniti in matrimonio tra loro, questo
bambino non potrà diventare giuridicamente figlio di A e B -genitori biologici- finchè A e B non
effettuano spontaneamente un riconoscimento. Se questo riconoscimento non viene effettuato, esso
potrà essere sostituito attraverso una dichiarazione giudiziale di paternità e maternità: ci sarà sempre
bisogno di un atto giudiziale o spontaneo.
E' una differenza ineliminabile in quanto il figlio nato da due persone il cui legame giuridico non è
riconosciuto dalla legge, per essere considerato figlio di quei genitori deve attendere che i due genitori lo
riconoscano.
Il riconoscimento è un atto volontario fatto davanti all'ufficiale dello stato civile con dichiarazione con
carattere di solennità. Se nessuno dei genitori effettua il riconoscimento il bambino entra in stato di
abbandono, se il riconoscimento viene effettuato da un solo genitore l'altro può agire per la
dichiarazione giudiziale di maternità/paternità oppure non agisce-> sarà quindi il figlio a poter esercitare
l'azione per tutta la sua vita.
Se un bambino nasce dentro il matrimonio è logico che si debba presumere che sia figlio dei due coniugi:
presunzione che si può scavalcare attraverso un'apposita azione-> azione di disconoscimento della
paternità o altre azioni di stato. Per rendere uguali le due situazioni il legislatore avrebbe dovuto
richiedere il riconoscimento anche per i figli nati dentro il matrimonio ma diventava impossibile applicare
una presunzione.
Art. 231/232 cc -> il bambino nato durante il matrimonio (senza tener conto delle evidenze biologiche), o
dopo 300 giorni dalla pronuncia di separazione, si presume sia stato concepito all'interno del
matrimonio.
Questa presunzione di concepimento all'interno del matrimonio porta con se la presunzione di paternità:
si presume quindi che il bambino nato sia figlio del marito. Se il figlio nasce dopo 300 giorni è sempre
possibile provare che il bambino è stato concepito durante il matrimonio.
La presunzione di paternità non è invincibile: può essere che il figlio presunto del marito sia figlio
biologico di qualcun altro. Ciò che non è consentito subito è che il padre biologico del bambino, che non
sia il marito della madre, possa riconoscere spontaneamente il bambino quando esso risulta figlio
matrimoniale.
La filiazione si prova con l'atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile. Se manca l'atto di nascita
soccorre il possesso di stato: è una situazione di fatto che risulta da una serie di circostanze che valgono
a dimostrare una relazione di parentela tra una persona e la famiglia a cui dice di appartenere. Il
possesso di stato deve contenere i seguenti fatti: che il genitorre abbia trattato la presona come figlio e
abbia provveduto in questa qualità al mantenimento all'educazione e al collocamento di essa, che la
persona sia stata constantemente considerata come tale nei rapporti sociali, che la persona sia stata
riconosciuta in detta qualità dalla famiglia.
Disconoscimento della paternità: l'azione di disconoscimento della paternità viene profondamente
modificata dal dlgs del 2013-> può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo. Chi
esercita l'azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto
padre-> le prove sono prove tecniche come l'esame del dna. La sola dichiarazione della madre non
esclude la paternità.
L'azione di disconoscimento da parte della madre può essere proposta nel termine di sei mesi dalla
nascita del figlio oppure dal momento in cui è venuta a conoscenza dell'impotenza del marito.
Un termine breve che può essere spostato in avanti se la donna al momento della nascita ignorava che il
marito fosse impotente. Dal momento in cui apprende questa notizia, il termine è sempre di sei mesi.
Il marito ha tempo un anno dalla nascita del bambino oppure un anno dal momento in cui apprende
della sua impotenza/relazione extraconiugale della moglie. Se il marito non si trovava nel luogo in cui è
nato il figlio il giorno della nascita il termine decorre dal giorno del suo ritorno. In ogni caso, se egli prova
di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto
notizia.
Per quanto tardi, padre e madre, possano aver avuto notizia di queste circostanze se queste notizie si
hanno dopo 5 anni dalla nascita del bambino l'azione non può più essere esercitata.
L'azione di disconoscimento può essere proposta dal figlio che ha raggiunto la maggiore età. L'azione è
imprescrittibile. L'azione può essere promossa anche da un curatore speciale nominato dal giudice su
richiesta del figlio minore che ha compito i 14 anni o del pubblico ministero o dell'altro genitore, quando
si tratti di figlio di età inferiore. Il pm o l'altro genitore possono chiedere a un curatore speciale di
promuovere l'azione di disconoscimento della paternità, così come un minore di almeno 14 anni.
Se il presunto padre o madre titolari dell'azione di disconoscimento di paternità sono morti senza averla
promossa, ma prima che sia decorso il termine previsto, sono ammessi ad esercitarla in loro vece gli
ascendenti e discendenti-> il nuovo termine decorre dalla morte del presunto padre/madre, o dalla
nascita del figlio se si tratta di figlio postumo o dal raggiungimento della maggiore età da parte dei
discendenti.
Se il figlio titolare dell'azione di disconoscimento di paternità è morto senza averla promossa, possono
esercitarla in sua vece il coniuge o i discendenti nel termine di un anno dalla morte del figlio o dal
raggiungimento della maggior età dei discendenti.
Il reclamo dello stato di figlio o la contestazione dello stato di figlio matrimoniale vogliono arrivare a due
risultati opposi: il primo vuole arrivare all'ottenimento dello status di figlio mentre il secondo invece
vuole arrivare a contestare lo status di figlio matrimoniale (per ragioni diverse dal disconoscimento della
paternità).
Anche disconoscimento della paternità è una contestazione dello stato di figlio ma è una contestazione
riferita allo stato di paternità. Il reclamo e la contestazione fanno riferimento a circostanze nelle quali un
bambino risulta avere uno stato che non corrisponde a verità: non perchè il padre sia un altro, ma
perchè nessuno dei due è genitore. Si verifica in situazioni di supposizione di parto o sostituzione di
neonato.
Il figlio può quindi reclamare uno stato diverso. L'azione di reclamo può essere fatto anche da chi è nato
nel matrimonio ma fu iscritto come figlio di ignoti, salvo che sia intervenuta una sentenza di adozione.
Questa situazione si verifica quando il figlio è effettivamente figlio matrimoniale ma viene registrato
come figlio di ignoti-> figlio reclama stato diverso da quello attribuito nell'atto di nascita.
Quando mancano l'atto di nascita e il possesso di stato, la prova di filiazione può darsi in giudizio con
ogni mezzo.
L'azione di contestazione dello stato di figlio spetta a chi dall'atto di nascita del figlio risulti suo genitore e
a chiunque vi abbia interesse. L'azione è imprescrittibile. Il reclamo invece spetta al figlio ed è rispetto al
figlio imprescrittibile.
Il riconoscimento è un atto formale che può essere fatto contestualmente alla nascita del figlio e quindi
contenuto nell'atto di nascita o in seguito con atto pubblico ufficiale. L'ultimo momento utile per il
riconoscimento è il testamento. Oltre che un atto formale, esso è un atto irrevocabile. Si può solo
impugnare il riconoscimento. Altra caratteristica del riconoscimento è che esso è un atto personalissimo.
Richiede l'età minima di 16 anni. Il figlio nato fuori dal matrimonio può essere riconosciuto dalla madre e
dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del concepimento.
Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente.
Se il genitore che effettua il riconoscimento per secondo aspetta che il figlio abbia compiuto 14 anni può
trovare un ostacolo costituito dal consenso del figlio: il figlio 14enne può rifiutare il consenso di essere
riconosciuto dal genitore che aspetta così tanto tempo prima di riconoscere il figlio.
Se il riconoscimento avviene in modo tardivo ma prima dei 14 anni, l'altro ostacolo è il diniego dell'altro
genitore il quale viene chiamato per prestare il suo consenso. Il rifiuto non può essere immotivato: deve
rispondere all'interesse del figlio. Il genitore che si trova di fronte al rifiuto dell'altro ricorre al giudice
competente e fissa un termine per la notifica di ricorso all'altro genitore-> quest'ultimo può opporsi
oppure no, se non si oppone entro 30 giorni decide il giudice che tiene conto del consenso non elargito.
Se il genitore fa opposizione il giudice, assunte tutte le info, dispone l'audizione del figlio che ha
compiuto 12 anni o del figlio di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali
provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione savo che l'opposizione non sia
palesemente fondata. Il genitore che per primo effetua il riconoscimento non ha un puro potere di veto
ma ha il potere di far presente le sue ragioni per il negato consenso, tenendo conto dell'interesse del
minore.
Riconoscimento dei figli incestuosi-> punto su cui è intervenuto il legislatore nel 2012, punto che segna
una differenza tra la disciplina oggi vigente modificata dlgs 154/2016 e la disciplima pre vigente.
La categoria dei figli incestuosi include i figli nati tra persone con vincolo di parentela in linea retta
all'infinito o collaterale in secondo grado o vincolo di affinità in linea retta. Questa categoria di figli era
ritenuta non riconoscibile nella disciplina pre vigente salvo la buona fede di uno o di entrambi i genitori.
Questa regola è stata ribaltata dalla riforma del 2012 che ha invece introdotto il principio generale di
riconoscibilità anche per questi figli previa autorizzazione del giudice - tenuto conto l'interesse del figlio e
al fine di evitare su di esso qualsiasi pregiudizio.
Impossibilità di riconoscere un figlio che ha già un suo status-> figlio matrimoniale non può essere
oggetto di riconoscimento. E' possibile il riconoscimento del figlio pre morto? E' possibile in favore dei
discendenti.
L'art. 258 cc è modificato in una parte-> la riforma prevede che il riconoscimento ha effetto anche sui
parenti del genitore che lo ha effettuato. Naturalmente il riconoscimento di un genitore vale solo per se
stesso e per i propri parenti, non di certo per l'altro. La legge di riforma modifica anche la questione del
cognome del figlio nato fuori dal matrimonio. Anche in questo caso si ravvisa una sostanziale diversità
tra chi nasce all'interno del matrimonio e chi nasce fuori dal matrimonio. La ovvia diversità risiede nel
fatto che il figlio nato fuori dal matrimonio può benissimo essere riconosciuto da un solo genitore o da
entrambi in tempi diversi e questo cambia le regole di attribuzione del cognome: il figlio assume il
cognome di chi per primo lo ha riconosciuto ma se il riconoscimento viene effettuato
contemporaneamente da entrambi il figlio assume il cognome del padre. Se la filiazione nei confronti del
padre viene riconosciuta successivamente al riconoscimento della madre, il figlio può -non è detto che lo
farà- assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della
madre-> lo deciderà il giudice, previo ascolto del figlio minore 12enne o età inferiore ove capace di
discernimento. Diverso è il caso del bambino figlio di ignoti a cui viene attribuito un cognome
dall'ufficiale dello stato civile e solo successivamente c'è un riconoscimento-> in questo caso si applicano
le regole prima viste.
Quando a un figlio è già stato attribuito un cognome dall'ufficiale dello stato civile poi questo sia
riconosciuto dai genitori potrebbe mantenere il cognome attribuitogli inizialmente se oramai questo
cognome è identificativo della sua identità.
Si tratta qui di una diversità tra gli sposi che non risponde al principio di eguaglianza tra coniugi.
Hanno sicuramente prevalso ragioni di uniformità di trattamento tra figli nati all'interno del matrimonio
e nati fuori anzichè immaginare una riforma che riguardasse entrambi. La ragione costituzionale della
prevalenza del patronimico è oscura. Chi ha effettuato il riconoscimento non può cambiare idea ma può
soltanto impugnare, cioè agire in giudizio, per annullare il riconoscimento in presenza di 3 circostanze:
ovvero difetto di veridicità, violenza, interdizione giudiziale. L'impugnazione per difetto di veridicità è
quella che corrisponde, rispetto al figlio non matrimoniale, al disconoscimento di paternità che si applica
al figlio matrimoniale: in entrambi i casi le azioni sono fondate sulla sostanziale non corrispondenza tra
verità anagrafica e verità biologica. Chi può chiedere l'impugnazione per veridicità? Chi ha effettuato il
riconoscimento ma anche il figlio riconosciuto e chiunque vi abbia interesse. Questo rappresenta una
differenza rispetto al disconoscimento che vede come legittimati attivi soltanto i genitori e il figlio. I
termini entro i quali questa azione può essere esercitata è diversa: per il figlio non ha termine, per gli
altri il termine è stato apliato con la recente riforma. L'azione di impugnazione da parte dell'autore del
riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell'annotazione del
riconoscimento sull'atto di nascita. Se l'autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria
impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello
stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato
l'impotenza del presunto padre. L'azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni
dall'annotazione del riconoscimento. Potrebbero esserci altri soggetti interessati ad impugnare il
riconoscimento per difetto di veridicità, si pensi agli altri discendenti dell'autore del riconoscimento.
L'azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni
che decorrono dal giorno dall'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita.
Per quanto riguarda gli altri due casi di impugnazione, la violenza è il classico vizio del consenso che
richiede un riconoscimento della minaccia tale da fare impressione ed è impugnabile entro un anno dal
momento in cui la violenza è cessata; l'interdizione giudiziale è l'ipotesi in cui il riconoscimento venga
effettuato da un soggetto giudicato interdetto giudizialmente. L'azione può essere trasmessa ai
discendenti, ascendenti ed eredi nel caso in cui l'autore del riconoscimento sia morto senza averla
proposta.
Quando il riconoscimento spontaneo manca, esiste la possibilità di ottenere il riconoscimento in via
giudiziale attaverso la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità. Anche questa azione ha subito
negli anni successive modifiche e attualmente la disiplina è snella: consiste nel fatto che il genitore che
ha effettuato il riconoscimento o il figlio maggiorenne possano agire in giudizio per ottenere una
sentenza che dichiari il rapporto di filiazione tra il figlio e soggetto B che non ha spontaneamente
riconosciuto il figlio.
Un tempo questa azione era guardata con sfavore: si doveva infatti passare per un giudizio preventivo
allo scopo di selezionare ed eliminare le azioni che sin dall'inizio non avessero speranza di andare avanti
perchè fondate su prove non sufficienti. Questo filtro era già stato eliminato dalla Corte costituzionale
prima della legge 2012 (che ha riformato definitivamente questa azione). Si tratta quindi di una azione
che ora può essere esercitata con ogni mezzo di prova (non basta la sola dichiarazione dell'altro
genitore), sostanzialmente delle prove tecniche.
Il riufiuto di sottoporsi alle prove tecniche fa presumere la veridicità della dichiarazione.
Non si può esercitare questa azione verso un bambino che ha già lo status di figlio-> prima rimuovere lo
status e poi proseguire con questa azione. Il figlio può decidere di sfruttare questa azione senza limiti di
tempo.
Può essere esercitata anche dai discendenti del figlio entro due anni dalla sua morte.
La legge del 2012 elimina il procedimento della legittimazione, secondo la quale il figlio naturale
diventava legittimo.
Il titolo nono del primo libro del codice civile raccoglie i principi generali che la riforma, attuata con l.
219/2012, contiene. In particolare è da sottolineare il fatto che è una disciplina unica per tutti i tipi di
filiazione: l'art. 315 esordisce, infatti, dicendo che tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico.
La riforma sulla responsabilità genitoriale (cambiamento terminologico da potestà a responsabilità
genitoriale sottolineando il momento della responsabilità del dovere rispetto al momento del potere-> si
accentua la finalità dell'essere genitori, finalità rivolta all'interesse del minore) ha ripetuto che i figli
hanno il diritto ad essere mantenuti, educati ed istruiti ma ha aggiunto un ulteriore diritto che è quello
all'assistenza morale. Diritto che prima non era esplicitamente contemplato. Perchè si è ritenuto di
sancirlo esplicitamente? E' un diritto a non solo essere mantenuto, educato ed istruito ma il dovere
all'assistenza morale fa riferimento al diritto ad essere curato, amato. L'assistenza morale poteva
ritenersi implicita ma il fatto che sia stata esplicitamente sancita vuol dire che questo tipo di capacità dei
genitori acquista anche rilievo giuridico: è uno dei profili in base ai quali viene valutata la capacità
genitoriale e quindi possono, in caso di mancanza totale di questa capacità, attivarsi strumenti di
intervento di sostegno, attenzione e educazione alla genitorialità. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia
e di mantenere rapporti significativi con i parenti: principio che fino al momento della riforma era
esplicitato nell'adozione (diritto del figlio ad essere cresciuto nella famiglia di origine così che l'adozione
è da vedersi come una sorta di estrema ratio, rimedio per le situazione nella quali il diritto del bambino a
crescere nella propria famiglia di origine non possa essergli riconosciuto in quanto la famiglia di origine è
inidonea).
Il rapporto significativo era stato introdotto in modo esplicito dalla legge del 2006 che introdusse
l'affidamento condiviso: con questa legge si introdusse per la prima volta il diritto del minore a
conservare rapporti significativi con entrambi i rami genitoriali.
Viene poi affermato il diritto del minore all'ascolto: ad essere ascoltato in ogni procedimento che lo
riguarda a 12 anni sempre, ma anche in età inferiore se capace di discernimento. Rispetto all'ascolto del
minore vi è un'apposita norma successiva, ovvero art. 366-bis, che da alcune direttive sull'ascolto del
minore ma in realtà non risolve tutti i problemi che l'ascolto del minore comporta. Questa norma dice
che l'ascolto del minore è la regola generale tanto che se il guidice decide di non ascoltare il minore,
deve motivare questa scelta.
La motivazione deve consistere sul perchè l'ascolto sarebbe pregiudizievole o superfluo. Per quanto
riguarda la modalità dell'ascolto, essa può essere svolta dal giudice, anche avvalendosi di esperti o altri
ausiliari. Sono ammessi a partecipare all'ascolto i genitori, i difensori delle parti, il curatore speciale del
minore previa autorizzazione del giudice, al quale possono proporre argomenti e temi di
approfondimento prima dell'inizio dell'adempimento. Prima di procedere all'ascolto il giudice informa il
minore della natura del procedimento e degli effetti dell'ascolto e redige il verbale. Sono direttive molto
elastico e lasciano grande potere all'autorità giudiziaria.
Quali sono i doveri del figlio: dovere di rispettare i genitori, contribuire - a seconda delle sue capacità - al
mantenimento della famiglia finchè vive con essa. Gli è fatto divieto di abbondonare la casa del genitore
fino alla maggiore età o all'emancipazione. Qualora il minore se ne allontani senza permesso, i genitori
possono richiamarlo ricorrendo, se necessario, al giudice tutelare.
Un aspetto della responsabilità genitoriale è quello del potere in materia di amministrazione dei beni del
figlio: richiede la regola del consenso di entrambi per questioni di straordinaria amministrazione ovvero
del consenso disgiunto per il consenso in questioni di ordinaria amministrazione.
In generale i genitori esercitano insieme i doveri che caratterizzano il loro rapporto con il figlio. Cosa
succede quando i genitori sono in contrasto tra loro su questioni particolarmente importante? Si può
fare ricorso all'attività giudiziaria: sentiti i genitori, disposto l'ascolto del figlio minore è il giudice ad
indiciare i provvedimenti che ritiene più idonei. Si tratta di una norma che non ha avuto applicazione
significativa.
Un'altra norma su cui soffermarsi è quella che riguarda gli ascendenti: questi sono, dalla riforma, stati
espressamente considerati come titolari di diritti in particolare il diritto a mantenere rapporti significativi
con i nipoti minorenni. E' un diritto corredato di mezzi di tutela: il nonno può ricorrere al giudice affinchè
siano adottati i provvedimenti più idonei nell'interesse del minore. Quindi esiste un mezzo di tutela
anche del diritto dei nonni. Sono soggetti che possono essere contemplati, in caso di inadempimento dei
genitori, di fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinchè possano adempiere i loro doveri nei
confronti dei figli.
I nonni hanno quindi anche dei doveri patrimoniali.
Seguono quelle norme che indicano i possibili provvedimenti che il giudice può pronunciare rispetto alla
violazione e trascuratezza dei doveri o abuso dei poteri nei confronti dei figli: in ordine di gravità
troviamo la decadenza dalla responsabilità genitoriale (quando il comportamento del genitore è
particolarmente grave; alla decadenza può accompagnarsi l'allontanamento del figlio dalla residenza o
l'allontanamento del genitore/convivente - quindi anche chi non ha legami di parentela - che maltratta o
abusa il minore; la decadenza non è un provvedimento definitivo: la responsabilità genitoriale può
essere reintegrata quando cessano le ragioni per cui la decadenza è stata pronunciata), allontanamento
senza decadenza di reponsabilità genitoriale, provvedimenti conveniente che rispondono all'interesse
del minore-> temporaneo affidamento del minore a una famiglia o a un single o a una famiglia di fatto o
a una comunità familiare motivato da una temporanea incapacità del genitore di occuparsi del minore
suscettibile a miglioramento e che dunque sia appunto limitata nel tempo; interventi di supporto mirato
a quella famiglia quando è identificata una certa problematica che deve essere superata; anche quando
non è pronunciata la decadenza, incontri protetti tra genitore e figlio.
Il capo secondo di questo titolo contiene le norme in tema di affidamento dei figli in seguito alla
separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio o all'esito
di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio.Il legislatore ha sistemato questa materia sotto
la filiazione sottraendola alla materia della crisi coniugale. Si è reso necessario quindi uniformare tutte
quelle situazioni in cui i genitori di un bambino non vivevano sotto lo stesso tetto. Questa parte della
disciplina, parzialmente modificata dal dlgs 154/2013, nelle sue linee importante è stata introdotta nel
2006 con l'affidamento condiviso. L'art. 337-ter enuncia il diritto del figlio a mantenere un rapporto
equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza
morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun
ramo genitoriale. Questa affermazione diventa, dopo la riforma del 2013, una ripetizione: il diritto a
mantenere rapporti con entrambi i genitori non ha corrispondenza in una norma della costituzione
italiana, anche se si ritene che l'art. 30 cost. lo contenga mente è esplicitamente pronunciato nella carta
dei diritti fondamentali dell'UE.
Vi è un mutamento della disciplina dell'affidamento. Prima del 2006 esisteva come tipo di affidamento
predominante della prasi l'affidamento esclusivo. L'affidamento esclusivo non viene abrogato nel 2006
ma è stato semplicemente postposto all'affidamento condiviso, considerato come modalità che risponde
meglio all'interesse del minore. L'affidamento esclusivo consiste nel fatto che il minore è affidato a un
solo genitore, il quale è titolare esclusivo della responsabilità genitoriale . L'altro resta titolare ma perde
l'esercizio della responsabilità, conserva un diritto di visita nei tempi e nei modi stabiliti dal
provvedimento di separazione o divorzio, conserva il diritto di intervenire nelle decisioni di straordinaria
amministrazione e conserva il diritto di vigilare sull'esercizio della potestà genitoriale dell'altro.
Nell'affidamento esclusivo i due genitori non sono sullo stesso piano nelle decisioni che riguardano il
minore.
Con la riforma della legge sul divorzio, avvenuta nel 1987, sono state introdotte accanto a questa forma
di affidamento due forme ulteriori: l'affidamento congiunto e l'affidamento alternato. Queste due
modalità furono inserite nella l. 898/1970 modificata nell'87. Queste due modalità avevano la
caratteristica di attribuire a entrambi i genitori titolarità ed esercizio della potestà genitoriale ma anche
di, unitamente al binomio
co-titolarità/co-esercizio della responsabilità genitoriale, anche modalità di affidamente che
prevedessero uguali periodi di permanenza del minore presso entrambi i genitori. Dunque, modalità di
affidamento contrapposte a quella esclusiva! Sono modalità che prevedono, come già detto, uguali
periodi di permanenza del minore presso entrambi i genitori o in modo alternato oppure con la forma
congiunta. La forma congiunta prevede che non si definiscano a priori i periodi in cui il figlio sta presso
un genitore o presso l'altro, ma prevede che il figlio viva contemporaneamente con i due genitori. Questa
modalità richiede che sia concretamente attuabile, anche tenendo conto di dati oggettivi. Queste due
modalità, rispetto all'affidamento esclusivo, erano già presenti a partire dall'87 e tuttavia si tratta di
modalità che nella pratica non hanno mai avuto successo particolarmente intenso: non hanno mai avuto
applicazione significativa. Nella pratica è sempre prevalsa la modalità di affidamento esclusivo anche
quando la separazione era consensuale. L'affidamento esclusivo rispondeva anche al sentire sociale.
Comunque è chiaro quindi che in tutte le situazione di persistente conflittualità una modalità alternata o
congiunta è difficilmente pensabile. La modalità congiunta e alternata richiede una pari responsabilità da
parte dei genitori nel prendersi cura dei figli ed evidentemente non ha corrisposto alle esigenze, ai
bisogni delle coppie separate e divorziate. Si è dunque dovuto attendere la L. 54/2006 affinchè venisse
introdotta una modalità condivisa, da non confondere con quella congiunta o alternata. L'affidamento
condiviso consiste nel fatto che la titolarità della responsabilità genitoriale continua a permanere in capo
di entrambi i genitori, i quali continuano ad esercitarla ma la differenza con quello congiunto e alternato
sta nel fatto che l'affidamento condiviso è perfettamente compatibile con la collocazione del minore
prevalente presso un genitore -> da affidatario diventa collocatario. L'affidamento condiviso è dunque
una categoria ampia nella quale può stare o una collocazione del minore prevalente presso uno dei due
genitori (modello più applicato) o una collocazione congiunta o una collocazione alternata. Rimanendo
un figlio prevalentemente presso un genitore, ma restando a capo di entrambi le decisioni di
straordinaria amministrazione non riduce la conflittualità tra i genitori se questa conflittualità c'è.
L'affidamento condiviso è considerato presumibilmente come meglio rispondente all'interesse dei figli e
quindi da valutare prioritariamente rispetto all'affidamento esclusivo.
Possono essere previste modalità di collocazione atipiche, che rispondono alle esigenze e ai bisogni
concreti delle parti: prevedere quindi anche modalità di collocazione più paritarie. Ci possono quindi
essere anche tempi e modalità di presenza intermedi tra l'esclusivo e il condiviso. Ciascun genitore
provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove
necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità.
Nell'affidamento condiviso le decisioni di maggior interesse per i figli relative all'educazione,
all'istruzione, alla salute, scelta della residenza sono assunte di comune accordo tenendo conto delle
capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è
rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può
stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente. Qualora il genitore non si
attenga alle condizioni dettate, il giudice valuterà detto comportamento anche al fine della modifica
delle modalità di affidamento. Si tratta solo di indicazione di massima, ma si tende comunque di avere il
consenso di entrambi soprattutto quando i genitori non vivono insieme.
Affidamento a un solo genitore-> il giudice deve emettere un provvedimento motivato alla luce della
contrarietà all'interesse del minore a un affidamento condiviso. Vi è un dovere di vigilanza, da parte del
genitore non affidatario, su quello affidatario anche se non ha responsabilità genitoriale e rimane il
dovere di dare consenso per le decisioni di maggior interesse. La regola dell'affidamento condiviso dei
figli, in funzione del diritto dei figli al mantenimento della bigenitorialità, è derogabile solo ove la sua
applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore.Il provvedimento relativo all'affidamento e
tutte le indicazioni di modalità e tempi sono presidiate da sanzoni così che se il genitore non si attiene a
queste indicazioni può subire sanzioni pecuniarie.
La legge del 2006 dispone espressamente che anche i figli maggiorenni possano avere diritto al
pagamento di un assegno periodico quando non sono autosufficienti economicamente. Prima del 2006
non c'era un'espressa previsione che lo consentisse in modo chiaro. La legge prevede che l'assegno sia
versato direttamente all'avente diritto salvo diversa determinazione del giudice. Ai figli maggiorenni
portatori di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori.
Per quanto riguarda l'assegnazione della casa familiare (centro della vita privata, familiare; luogo fisico
dove viene collocata l'esistenza dei figli), il suo godimento è attribuito tenendo conto dell'interesse del
figlio, sempre prioritario. Questa disposizione si ha quando tra i coniugi non c'è accordo e hanno figli
minori.
Quando non ci sono figli minori, ma c'è un coniuge economicamente debole non ha luogo un
provvedimento di assegnazione della casa familiare ma, della mancanza di questo provvedimento, si
tiene conto nel determinare l'assegno di divorzio. Quando ci sono figli minori, la casa viene affidata al
genitore presso cui i figli sono collocati indipendentemente dal titolo di proprietà della casa. Il diritto al
godimento della casa familiare viene meno nel caso che l'assegnatario non abiti o cessi di abitare
stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio (la ratio però
dovrebbe essere il godimento dei figli del diritto di assegnazione e non l'aiuto al coniuge più debole
economicamente). Un’altra ipotesi in cui può essere chiesta la revoca è la cessazione della convivenza da
parte della prole con il genitore assegnatario. Ad avviso della Cassazione tuttavia (Sentenza 14348 del
2012) la cessazione della convivenza deve essere definitiva ed “irreversibile”.
Una disposizione dal carattere innovativo è quella che fa riferimento alla possibilità che il giudice, con il
consenso delle parti, rinvii l'adozione del provvedimento di affidamento per consentire ai coniugi di
tentare una mediazione avvalendosi di esperti. Non è però obbligatoria.
Situazione nella quale un minore rifiuti di intrattenere rapporti con l'altro genitore-> quando la legge del
2006 è stata emanata, si chiedeva in quali casi fosse plausibile un affidamento esclusivo. Ne sono emerse
due principalmente: quando i genitori abitano fisicamente molto distanti l'uno dall'altro oppure quando
il minore decide di non avere rapporti con il genitore. In realtà, il primo caso non impedisce il ricorso
all'affidamento condiviso. Il secondo caso invece è più problematico: il semplice rifiuto non basta ma
occorre capire quali sono le ragioni di questo rifiuto. L'atteggiamento più corretto da seguire, una volta
accertato che il genitore rifiutato sia il il genitore che ha violato i doveri parentali o ha assunto
comportamenti tali da pregiudicare l'interesse del figlio, è quello di far seguire la situazione familiare e
provare ad avvicinare il figlio al genitore con incontri monitorati - in casi più gravi - anche eventualmente
dei servizi sociali, al fine di educare il figlio e l'altro genitore a un atteggiamento di maggiore
collaborazione nell'interesse del minore.
In generale, la riforma del 2006 aveva introdotto dei criteri più precisi per l'eventuale obbligo di
mantenimento del figlio da parte del genitore presso il quale non è collocato abitualmente. Il principio
generale è che ciascuno dei due genitori deve provvedere al mantenimento del figlio in modo
proporzionale al proprio reddito tuttavia è possibile prevedere un versamento periodico di denaro da
parte di un genitore a favore dell'altro - anche se l'altro non è un ex coniuge, quindi anche quando fra i
due non ci sia stato matrimonio ma solo la circostanza di avere un figlio insieme - al fine di realizzare il
principio di proporzionalità.
L'assegno viene stabilito sulla base di alcune circostaze:
1) le attuali esigenze del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori (non sempre c'è la
convivenza);
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore (se i tempi sono identici e i due genitori hanno redditi
equivalenti si ricorre alla mancata nascita dell'obbligo di versare denaro nelle mani dell'altro coniuge per
mantenere il figlio; il problema sorge quando i tempi di permanenza sono diversi e vi è una differente
retribuzione);
4) le risorse economiche di entrambi i genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
La corresponsione dell'assegno da parte di un genitori nei confronti dell'altro è una prassi frequente.
Si tratta di un diritto di credito sempre soggetto a revisione: al mutamento di circostanze rilevanti
l'assegno può essere revisionato. Il mantenimento del figlio non è collegato alla minore età del figlio, ma
è collegata alla sua condizione di mancata autosufficienza: esso quindi continua anche quando il figlio
raggiunge la maggiore età.
L'assegno versato al figlio maggiorenne è diverso da quello versato al figlio minorenne.
Questa differenza sta nella possibilità del solo figlio maggiorenne di ottenere nelle proprie mani
l'assegno a lui destinato: l'assegno viene quindi versato nelle mani dell'avente diritto, nell'ipotesi in cui le
circostanze lo permettano. Per quanto riguarda i figli portatori di handicap sono soggetti allo stesso
regime previsto per i minorenni. Un primo grosso problema che si pone nella pratica è il dubbio
riguardante le spese straordinarie di mantenimento. Le spese straordinarie sono quelle spese che il
genitore debitore deve versare fuori dalla quantum dell'assegno di mantenimento in quanto vengono
calcolate fuori da esso. Che cosa si include nelle spese straordinarie? La Cassazione dice che per spese
straordinarie devono intendersi quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro
imponderabilità esulano dall'ordinario regime di vita dei figli.
Un ulteriore decisione della Corte di Cassazione ha riguardato l'obbligo di mantenimento del figlio
maggiorenne, in particolare della sua durata e in presenza di quale condizione esso può venire meno.
L'obbligo non cessa con la maggiore età ma perdura, immutato, finchè il genitore interessato alla
declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza
economica, o che il mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di
inerzia o di rifiuto ingiustificato, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, al percorso
scolastico, universitario, post-universitario del soggetto e della situazione attuale del mercato del lavoro,
con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione o
specializzazione.
La disciplina dell'assegnazione della casa familiare è identica in tutte le situazione: non coppia, coppia
convivenze, coniugata, separata, divorziata. La casa familiare deve essere assegnata tenendo conto
dell'interesse dei figli: questa regola conferma un orientamento già emerso in passato secondo il quale
l'assegnazione ha come obiettivo quello di mantenere la casa, intesa come centro della vita privata,
come ideale punto di riferimento degli interessi. Nell'ipotesi di coppia senza figli, all'assegnazione di casa
familiare non si fa luogo: il coniuge più debole ha se mai diritto all'assegno di divorzio o, in caso di
separazione, all'assegno di mantenimento.
Il diritto all'assegnazione non è qualunque diritto personale: è un diritto personale che insiste
sull'immobile e può essere opponibile a terzi. Questo significa che chiunque acquisisca diritto sul bene,
acquisterà un bene gravato dal diritto all'assegnazione: se il proprietario dell'immobile assegnato all'altro
genitore decide di venderlo, questa vendita non sradica il diritto degli assegnatari cosicchè chi acquista il
bene lo acquista gravato dal diritto all'assegnazione.
Ordine di protezione sugli abusi familiari - L. 154/2001 che modifica e introduce nel codice civile una
disciplina che mira ad arricchire e in qualche caso introdurre ex novo delle misure di tutela dei membri
della famiglia nei confronti di condotte definibili come abusi. Si parla di abuso familiare quando la
condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'intergrità fisica, morale o alla
libertà dell'altro coniuge o convivente.
Nozione di abuso molto ampia: sul piano soggettivo, il soggetto che può perpetrare l'abuso è non solo il
coniuge ma anche un convivente (convivente di fatto ma anche un altra persona che convive per le
ragioni più varie - quindi anche un parente); sul piano oggettivo, l'abuso si realizza in presenza di un
grave pregiudizio all'intergrità fisica, morale o alla libertà dell'altro coniuge o convivente -> un abuso
familiare può ricorrere in presenza di condotte che arrecano un danno alla salute, all'integrità fisica della
persona (si può discutere se il singolo episodio di violenza fisica sia in se in grado di far scattare misure di
protezioni: se si tratta di un episodio insignificante no, ma se l'episodio è già di per se grave è possibile
chiedere l'attivazione di ordini di protezione); condotte che vìolino la libertà sessuale dell'altra persona ,
condotte tradotte nel divieto all'altra persona di muoversi, condotte che impediscono la libertà religiosa
(inclusa nel concetto di libertà); per integrità morale si fa riferimento a vessazioni di carattere
psicologico, atteggiamenti persecutori (stalking-> figura di illecito con proprie caratteristiche).
E' possibile, in presenza di queste situazioni, chiedere uno dei provvedimenti previsti su istanza di parte.
Gli ordini di protezione vengono introdotti per eliminare l'onere della vittima di dover denunciare: si è
scelta una strada che eventualmente sia parallela o comunque non coincidente con quella di diritto
penale-> gli ordini di protezione sono infatti inseriti nel codice civile.
Quali sono i possibili contenuti degli ordini di protezione? Il decreto può consistere nell'ordine della
cessazione della condotta pregiudizievole unito all'ordine di allontanamento, dalla casa familiare, del
coniuge/convivente che ha compiuto l'abuso a cui può unirsi eventualmente la prescrizione di non
avvicinarsi a luoghi abitualmente frequentati dalla vittima. Il giudice può disporre, altresì, ove occorra
l'intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle
associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri
soggetti vittime di abusi e maltrattamenti; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone
conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati,
fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata
direttamente all'avente diritto dal datore di lavoro dell'obbligato, detraendola dalla retribuzione allo
stesso spettante. Quest'ultima disposizione interviene per alleviare la difficoltà in cui eventualmente può
venirsi a trovare la vittima che, se non coniugata, non può contare sul dovere della contribuzione.
Con il medesimo decreto il giudice stabilisce la durata dell'ordine di protezione, che decorre dal giorno
dell'avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore a un anno ma può essere
prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
Si tratta quindi di provvedimenti innovativi perchè prima del 2001 non esistevano, nei rapporti familiare,
misure di tutela di questo tipo: l'idea dominante era quella per cui nei rapporti fra coniugi, se sono poste
in essere delle condotte - a parte casi di rilevanza penale - abusive queste potevano giustificare
l'allontanamento del coniuge vittima dalla casa familiare ed eventualmente giustificare la richiesta di
separazione e la richiesta di cessazione dei legami matrimoniali; nei rapporti dei conviventi, in quanto
privi di diritti e doveri reciproci, se sono presenti abusi era solamente previsto l'allontanamento della
vittima dalla casa.
Dal 2001 viene allontanato chi perpetra gli abusi + ordini che prevedono la necessità della persona che
abusa di non avvicinarsi ai luoghi frequentati abitualmente dalla vittima e dai minori.
Lo stesso valeva per i minori: i minori prima del 2001 erano tutelati nei confronti dei genitori (che
potevano quindi incorrere in una decadenza della potestà genitoriale) ma il minore non era tutelato nei
confronti di conviventi. Questi atteggiamenti sono fondati sull'idea che il diritto non entra in merito dei
rapporti familiari.
Idea che nel tempo è andata sfumando fino ad essere elimanata.
La legge del 2001 non viene però di fatto attuata in tempo, oppure non viene attuata anche quando
sussitano tutti i presupposti per applicarla, o ancora viene attuata ma non rispettata.
Il vantaggio del percorso degli ordini di protezione rispetto al percorso penalistico è dato da una
procedura più snella e veloce e dalla possibilità che il ricorrente richieda protezione anche per un singolo
episodio, senza dover provare la reiterazione delle condotte.
Adozione-> l'adozione dei maggiorenni è un istituto disciplinato dal codice civile e diretto a finalità di
carattere patrimoniale-> interesse protetto è quello dell'adottante a costituirsi un erede, nell'ipotesi in
cui non ce l'abbia.
L'adozione di minori di età trova la sua fonte nella L. 184/1983, legge che rivoluzione l'approccio al tema
dell'adozione. La legge si fonda su una serie di principi. Intanto si fonda sull'idea che l'adozione sia
l'estrema ratio e che, finchè sia possibile, debba essere tutelato il diritto del minore a vivere nella
famiglia di origine.
Il provvedimento di adozione non può mai essere motivato alla luce della mancanza di mezzi economici
necessari per sosterene il figlio da parte dei genitori, piuttosto scatta l'obbligo dello stato di aiutare la
famiglia.
Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno
e aiuto, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di
assicurargli il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno-> a
situazione inidonee quindi provvede l'istituto dell'affidamento il quale è stato profondamente mutato
con una L. del 2015.
L'adozione è quindi un provvedimento che non ha ritorno, salvo la revoca del provvedimento stesso.
E' questa la ragione per cui l'adozione prevede una situazione di abbandono morale e materiale del
minore tendenzialmente definitiva, non temporanea.
Per le situazione temporanee infatti provvede l'affidamento che è un istituto diretto a supportare le
famiglie che si trovino in situazioni di difficoltà temporanea.
Quando un'idoneità è temporanea o può invece giustificare un'adozione? La linea di discrimine non è
facile da tracciare ed è per questo che l'autorità giudiziaria, e tutto il personale che supporta la sua
decisione, è chiamato a fare una valutazione prospettica. Bisogna capire quante probabilità ci sono che la
famiglia riesca a superare il problema e quante, invece, che non lo superi e basarsi sempre sull'interesse
del minore.
Una pratica usata inizialmente seguiva una linea per cui tutte le volte che la possibilità di recupero delle
capacità genitoriale non era escludibile fin dall'inizio si faceva ricorso all'affidamento con scarsissimi
risultati e con reiterati ricorsi all'affidamento che contrastavano sia con l'interesse del minore che con
l'interesse delle famiglie affidatarie. Il legislatore è quindi intervenuto nel 2013 con una modifica dell'art.
8 della legge sull'adozione, il quale fornisce delle linee guida per aiutare il giudice a decretare lo stato di
abbandono del minore.
La modifica richiede al giudice una valutazione prospettica che impone di valutare non solo le esistenti
ma le probabilità future di recuperare le capacità genitoriali. Viene poi fatta una modifica all'istiuto
dell'affidamento rendendo più solida la situazione della famiglia affidataria prevedendo, per esempio,
che la famiglia affidataria debba avere la priorità tra le famiglie adottanti.
Il principio ispiratore della legge 184 è quello dell'ispiratio naturae: il legislatore nell'83 si è mosso nel
senso di costruire l'adozione sulla base dell'imitazione della natura per cui nella selezione delle famiglie
adottanti si è previsto che le famiglie adottanti possano essere soltanto famiglie coniugate, famiglie che
hanno quindi contratto matrimonio e nel 2016 si è escluso che siano legittimate ad adottare coppie
legate da un'unione civile; anche i limiti di età posti rispecchiano la biologia: la differenza minima è 18
anni, quella massima 45 - estensibile sulla base di un dlgs del 2001 perchè nell'83 erano 45 fissi; il
principio porta a escludere coppie dello stesso sesso e persone singole ma dall'altro lato a questa rigidità
la legge deroga in casi particolari.
Altro aspetto da tenere in considerazione è la recisione di ogni rapporto con la famiglia di orgine da parte
dell'adottato, il quale entra a far parte della famiglia adottiva a tutti gli effetti come figlio matrimoniale:
principio giustificato da un lato di inserire l'adottato nella famiglia nuova nel modo meno discriminatorio
possibile, dall'altro lato dall'esigenza di soddisfare il bisogno della famiglia adottiva di non veder turbato
il rapporto instaurato con il bambino dall'invadenza della famiglia di origine.
La l. dell'83 prevedeva un "segreto" sulla famiglia di origine. Anche questo caposaldo si è un pochino
attenuato prevedendo un diritto del minore a consocere le proprie origini-> il principio della segretezza è
stato capovolto nel principio della conoscenza delle origini da parte dell'adottato. Vi è un vero e proprio
dovere genitoriale di informare il minore circa le sue origini: i genitori possono solo scegliere i tempi e
modi di adempimento.
Una volta che il figlio adottivo abbia compiuto 18 anni può risalire alle sue origini se allega che esistano
gravi motivi (es. salute), dopo i 25 anni ha accesso libero ai dati anagrafici dei genitori a patto che la
madre non abbia dichiarato di non voler essere nominata nell'atto di nascita. Rispetto a quest'ultimo
diritto-> tener meglio conto dell'interesse del figlio adottivo a conoscere la madre anche in questo caso
senza però negare il diritto della madre di rimanere anonima.
Art. 1 della l. 184/1983 enuncia il diritto del minore di crescere ed essere educato nell'àmbito della
propria famiglia. Il corollario di questo principio è che le condizioni di indigenza dei genitori o del
genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del
minore alla propria famiglia.
A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.
Gli istituti che la legge propone sono applicabili a tutti quei casi in cui la famiglia non è in grado di
provvedere alla crescita e all'educazione del minore.
Il primo istituto che troviamo è l'affidamento, disposto per le situazioni nelle quali la famiglia di origine
sia temporaneamente inidonea a prendersi cura del minore, nonostante gli interventi di aiuto.
L'affidamento è stato modificato da una legge del 2015.
Il minore è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di
assicurargli il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.
Vi sono anche pronunce inclini a disporre l'affidamento temporaneo del minore a coppie dello stesso
sesso.
Ove non sia possibile l'affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l'inserimento del minore
in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato, che abbia
sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di
provenienza.
L'art. 2 sembra quindi produrre una gerarchia, ricorrendo a questi ultimi due istituti qualora non sia
possibile l'affidamento a una famiglia o a una persona singola.
I legali rappresentanti delle comunità di tipo familiare e degli istituti di assistenza pubblici o privati
esercitano i poteri tutelari sul minore affidato fino a quando non si provveda alla nomina di un tutore in
tutti i casi nei quali l'esercizio della potestà dei genitori o della tutela sia impedito. L'esercizio dei poteri
tutelari è soltanto temporaneo, fino alla nomina del tutore.
La legge del 2015 modifica tutti gli articoli a seguire->
L'affidamento familiare è disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai genitori o
dal genitore esercente la potestà, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici e
anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento. Ove manchi
l'assenso dei genitori esercenti la potestà o del tutore, provvede il tribunale per i minorenni.
All'affidamento quindi si può procedere anche senza il consenso dei genitori, tramite provvedimento del
tribunale dei minorenni. Nel provvedimento devono essere indicati le motivazioni di esso, nonché i
tempi e i modi dell'esercizio dei poteri riconosciuti all'affidatario, e le modalità attraverso le quali i
genitori e gli altri componenti il nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il minore. Deve altresì
essere indicato il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza,
nonché la vigilanza durante l'affidamento con l'obbligo di tenere costantemente informati il giudice
tutelare o il tribunale per i minorenni. Il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del
programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l'affidamento, deve riferire senza indugio al giudice
tutelare o al tribunale per i minorenni del luogo in cui il minore si trova, ogni evento di particolare
rilevanza ed è tenuto a presentare una relazione semestrale sull'andamento del programma di
assistenza, sulla sua presumibile ulteriore durata e sull'evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo
familiare di provenienza. Nel provvedimento deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile durata
dell'affidamento che deve essere rapportabile al complesso di interventi volti al recupero della famiglia
d'origine. Tale periodo non può superare la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile, dal tribunale
per i minorenni, qualora la sospensione dell'affidamento rechi pregiudizio al minore.
L'affidamento familiare cessa con provvedimento della stessa autorità che lo ha disposto, valutato
l'interesse del minore, quando sia venuta meno la situazione di difficoltà temporanea della famiglia
d'origine che lo ha determinato, ovvero nel caso in cui la prosecuzione di esso rechi pregiudizio al
minore.
La legge del 2015 introduce dei nuovi articoli: nello specifico, il comma 5-bis, prevede che, qualora il
minore sia dichiarato adottabile e qualora la famiglia affidataria chieda di poter adottare il minore, il
tribunale per i minorenni nel decidere sull'adozione, dovrà considerare i legami affettivi ed il rapporto
consolidato tra il minore e la famiglia affidataria (questa norma colma una lacuma della precedente
disciplina la quale ometteva di disciplinare ogni collegamento tra affidamento e adozione).
La famiglia affidataria ha una prelazione nella scelta degli adottanti: è importante però che sussistano i
requisiti richiesti agli adottanti. Si deve quindi trattare di una famiglia coniugata da almeno 3 anni o
convinvente dallo stesso periodo di tempo purchè poi si sia sposata, deve essere una famiglia i cui
componenti non abbiano una differenza di età inferiore ai 18 anni e non superiore ai 45 - salvo possibili
deroghe - con l'adottato e la cui idoneità affettiva sia stata accertata. Se il minore viene dato in
affidamento a una coppia di conviventi o a una persona singola essi non avranno mai la possibilità di
adottare il minore-> ciò richiede maggior attenzione nello scegliere gli affidatari.
A norma del comma 5-ter, è sancita una tutela alle relazioni socio-affettive consolidatesi durante
l'affidamento anche quando, dopo un periodo di affidamento, il minore torni nella famiglia di origine o
venga affidato oppure adottato da altra famiglia.
Come si valuta quanto risponda all'interesse del minore mantenere un rapporto affettivo con la famiglia
affidataria o risponda all'interesse del minore essere adottato dalla famiglia affidataria?
Di importanza sono le valutazioni documentate dei servizi sociali, ascoltato il minore che ha compiuto gli
anni dodici o anche di età inferiore se capace di discernimento.
Il giudice tutelare, trascorso il periodo di durata previsto, sentiti il servizio sociale locale interessato ed il
minore che ha compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua
capacità di discernimento, richiede, se necessario, al competente tribunale per i minorenni l’adozione di
ulteriori provvedimenti nell’interesse del minore.
L’affidatario deve accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo mantenimento e alla sua
educazione e istruzione, tenendo conto delle indicazioni dei genitori non decaduti dalla potestà
genitoriale, o del tutore, ed osservando le prescrizioni stabilite dall’autorità affidante. L'affidatario è
quello che intrattiene rapporti con la scuola del minore e con le autorità sanitarie. L’affidatario deve
essere sentito nei procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al
minore affidato-> disposizione nuova che dà voce alla famiglia affidataria nei procedimenti che
coinvolgono il minore-> le famiglie affidatarie devono essere convocate a pena di nullità del
procedimento-> in questa sede possono presentare memorie scritte non nel loro interesse ma
nell'interesse del minore.
Il servizio sociale svolge opera di sostegno educativo e psicologico, agevola i rapporti con la famiglia di
provenienza ed il rientro nella stessa del minore secondo le modalità più idonee, avvalendosi anche delle
competenze professionali delle altre strutture del territorio e dell’opera delle associazioni familiari
eventualmente indicate dagli affidatari.
I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono in uno stato di abbadono da persone unite
al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo anche
maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di
madre.
Minori stranieri non accompagnati-> per evitare l'esito dell'accoglimento/affidamento a un istituto si
prova a favorire l'inserimento in famiglie e si prevede espressamente l'obbligo degli enti locali di
promuovere la sensibilizzazione e la formazione di affidatari per favorire l'affidamento familiari di minori
non accompagnati in via preferenziale rispetto al ricovero in una struttura di accoglienza. E' un obbligo a
cui non corrisponde un finanziamento.
Il principio fondamentale dell'adozione è in principio dell'aspiratio naturae e i requisiti che si richiedono
agli adottanti rispecchiano esattamente questo principio->
1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve
sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di
fatto.
2. I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori
che intendano adottare.
3. L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età
dell’adottando.
4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i
coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo
di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della
convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto.
5. I limiti di cui al comma 3 possono essere derogati, qualora il tribunale per i minorenni accerti
che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore.
6. Non è preclusa l’adozione quando il limite massimo di età degli adottanti sia superato da uno
solo di essi in misura non superiore a dieci anni, ovvero quando essi siano genitori di figli naturali
o adottivi dei quali almeno uno sia in età minore, ovvero quando l’adozione riguardi un fratello o
una sorella del minore già dagli stessi adottato.
7. Ai medesimi coniugi sono consentite più adozioni anche con atti successivi e costituisce criterio
preferenziale ai fini dell’adozione l’avere già adottato un fratello dell’adottando o il fare richiesta
di adottare più fratelli, ovvero la disponibilità dichiarata all’adozione di minori che si trovino in
condizioni espresse dalla 104/1992.
8. Nel caso di adozione dei minori di età superiore a dodici anni o con handicap accertato ai sensi
dell’articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, lo Stato, le regioni e gli enti locali possono
intervenire, nell’ambito delle proprie competenze e nei limiti delle disponibilità finanziarie dei
rispettivi bilanci, con specifiche misure di carattere economico, eventualmente anche mediante
misure di sostegno alla formazione e all’inserimento sociale, fino all’età di diciotto anni degli
adottati».
La legge sull'adozione è stata una delle prime leggi a prevedere un ruolo attivo del minore nel
procedimento che lo riguarda-> il minore deve prestare il suo consenso dall'età di 14 anni e deve essere
ascoltato una volta compiuti 12 anni o, ove possibile, anche prima.
Sono dichiarati in stato di adottabilità dal tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano, i
minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da
parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a
causa di forza maggiore di carattere transitorio. Il procedimento di adozione si impone ai genitori e ai
parenti tuttavia esso dà loro la di dimostrare che veramente tengono al minore e che sono affidabili nella
loro manifestazione di interesse verso il minore. L'incapacità di prendersi cura del minore dovuta a forza
maggiore non può essere considerata sussistente quando ai genitori sia stato offerto un aiuto per
superare la situazione difficile e loro l'abbiano rifiutato senza motivo-> si procede quindi all'adozione.
Quando un procedimento di adozione inizia perchè c'è una segnalazione -> vi sono soggetti obbligati a
fare questa segnalazione: pubblici ufficiali, incaricati di un pubblico servizio, istituti di assistenza pubblici
o privati, comunità familiari sono obbligati a trasmettere periodicamente l'elenco dei minori collocati
presso di loro con indicazione delle loro situazioni psico-fisiche e i rapporti con la famiglia in modo che si
possa valutare se chiedere al tribunale la loro adottabilità. Il procuratore della repubblica trasmette gli
atti al tribunale per i minorenni con relazione ogni sei mesi ed effettua o dispone ispezione negli istituti
di assistenza pubblici o privati.
Chiunque accolga presso di se un minore per un periodo stabile superiore a 6 mesi e non essendo
parente entro il quarto grado, è obbligato a dare segnalazione al procuratore della repubblica. Nello
stesso termine - 6 mesi - è obbligato a fare segnalazione il genitore che affidi il minore a chi non sia
parente entro il quarto grado.
Nel caso in cui non risulti l'esistenza di genitori naturali che abbiano riconosciuto il minore o la cui
paternità o maternità sia stata dichiarata giudizialmente, il Tribunale per i minorenni, senza eseguire
ulteriori accertamenti, provvede immediatamente alla dichiarazione dello stato di adottabilità a meno
che non vi sia richiesta di sospensione della procedura da parte di chi, affermando di essere uno dei
genitori naturali, chiede termine per provvedere al riconoscimento.
A conclusione delle indagini e degli accertamenti previsti - tenendo presente l'esistenza di un rapporto
tra minore e genitori - ove risulti la situazione di abbandono, lo stato di adottabilità del minore è
dichiarato dal Tribunale per i minorenni quando: 1) i genitori e i parenti convocati ai sensi degli articoli 12
e 13 non si sono presentati senza giustificato motivo; 2) l'audizione dei medesimi ha dimostrato il
persistere della mancanza di assistenza morale e materiale e la non disponibilità ad ovviarvi; 3) le
prescrizioni impartite ai sensi dell'art.12 -idonee a garantire l’assistenza morale, il mantenimento,
l'istruzione e l'educazione del minore- sono rimaste inadempiute per responsabilità dei genitori. Qualora
i genitori si mostrino determinati nell'ovviare alle loro mancanze, il giudice deve impartire istruzioni che i
genitori dovranno seguire. E' il tribunale a stabilire periodici accertamenti che dovranno essere eseguiti
dai servizi locali per appurare che le prescrizioni siano state seguite; 4) è provata l'irrecuperabilità delle
capacità genitoriali dei genitori in tempi ragionevoli - norma introdotta dal decreto del 2013-> il TM
attraverso tutti i soggetti professionalmente competenti che seguono la situazione del minore sono
chiamati a effettuare al momento della dichiarazione dello stato di adottabilità, una valutazione
prospettiva-> sono chiamati a valutare se i genitori e le loro capacità genitoriali sono irrecuperabili in
tempo ragionevole-> ciò che si deve accertare non è l'attuale e assoluta irrecuperabilità delle capacità
genitoriali ma se le capacità sono recuperabili in tempo ragionevole cosicchè se sono recuperabili ma
non in tempo ragionevole si deve procedere a dichiarare l'adottabilità. Norma appositamente introdotta
per frenare la prassi di dare il minore in affidamento anche quando le capacità genitoriali non erano
palesemente recuperabili.
Lo stato di abbandono non dipende quindi da condizioni di indigenza economica. Lo stato di abbandono
potrebbe sussistere anche quando i genitori manifestino la loro volontà di tenere il minore, tanto è vero
che lo stato di abbandono può sussistere anche quando il genitore non sia in grado di manifestare la
volontà di tenere o non tenere il minore perchè, per esempio, affetto da una patologia che gli impedisce
di manifestare una volontà consapevole. Lo stato di abbandono implica una verifica della idoneità
oggettiva dei genitori a prendersi cura del minore e implica la verifica della ricorrenza dell'assistenza
morale e materiale al minore.
L'adozione in casi particolari è disciplinata dall'art. 44 della l. 184/83 ed è una forma di adozione che
permette elasticità nei casi in cui non sono previsti i requisiti richiesti agli adottanti e nei casi in cui non
sussistano le motivazioni per dichiarare lo stato di adottabilità.
Le motivazioni sono 4: 1) minori orfani di entrambi i genitori che hanno parenti entro il sesto grado o che
hanno un rapporto stabile/duraturo preesistente (anche maturato nell'ambito di un prolungato periodo
di affidamento)-> questa situazione intende evitare che con l'adozione il minore sia sottratto o
all'ambiente familiare o sia allontanato da persone con cui ha rapporto stabile capaci di prendersi cura di
lui-> step child adoption-> fa riferimento alla possibilità che il coniuge di uno dei genitori possa adottarne
il figlio anche adottivo-> questa ipotesi è prevista solo per il coniuge anche se la giurisprudenza tende a
darne un'interpretazione più estensiva-> non richiamato fra le norme applicabile all'unione civile; 2) dal
coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge (l'altro genitore deve prestare
il consenso qualora sia titolare della responsabilità genitoriale e qualora il minore sia in affidamento
condiviso); 3) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall'articolo 3, comma 1, della legge 5
febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre-> fa riferimento al minore portatore di handicap;
4) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo-> può fare riferimento a varie
situazioni: vi è la situazione del minore che in astratto si trova nella condizione di poter essera adottato
con formula piena (si trova in stato di abbandono) ma è un minore rispetto al quale è stata verificata
l'impossibilità di un affidamento preadottivo o perchè è un minore che nessuno vuole in affidamento
preadottivo oppure è un minore difficile, rispetto al quale sono stati tentati più affidamenti preadottivi
tutti falliti-> minori che si trovano in stato di abbandono e che dunque possano essere dichiarati in stato
di adottabilità ma che, per situazioni contingenti, è stata constata un impossibilità di un affidamento
preadottivo; vi è poi la situazione di minori che non si trovano in stato di abbandono ma che neppure
sono al 100% curati dai loro genitori. Questa lettera dell'art. 44 è stata introdotta per far fronte al primo
gruppo di situazioni mentre il secondo gruppo di casi fa riferimento a situazioni di limbo che fanno più
discutere: casi di minori che per varie ragioni si ritrovano a non essere adottati perchè hanno dei genitori
che in qualche modo sono presenti ancorchè non siano idonei a offrire al minore un buon ambiente
familiare.
Nella prassi accade che i TM assumano un atteggiamento restrittivo nel dichiarare lo stato di abbandono
del minore e che quindi siano pronti a farlo solo nelle situazioni più gravi laddove le situazioni di
incertezza sono lasciate a istituti temporanei come l'affidamento familiare.
La conseguenza di questo tipo di prassi è che i minori si trovino in una situazione temporanea che tende
a diventare di fatto definitiva senza però sia mai stato reciso il legame con le famiglie di origine-> è a
questo tipo di situazioni che fa riferimento l'art. 44 e in particolare la norma aggiunta (la lettera d).
Un'altra deroga importante riguarda la condizione dell'adottante-> l'adozione nei casi particolare è
consentita anche a chi non è coniugato; se l'adottante è persona coniugata e non separata, l'adozione
può essere tuttavia disposta solo a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi.
Un'altra deroga riguarda la differenza di età tra minore e adottante-> l'età dell'adottante deve superare
di almeno 18 anni quella del minore nei casi 1 e 4; il requisito dell'età minima non è richiesta nei casi 2 e
3.
Per l'adozione è necessario l'assenso dei genitori e del coniuge dell'adottando-> i genitori non vengono
in gioco nei casi 1, ma vengono in gioco in tutti gli altri casi. Quando è negato l'assenso previsto dal
primo comma, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell'adottante, può, ove ritenga il rifiuto
ingiustificato o contrario all'interesse dell'adottando, pronunziare ugualmente l'adozione, salvo che
l'assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la capacità genitoriale o dal coniuge, se convivente,
dell'adottando. Parimenti il tribunale può pronunciare l'adozione quando è impossibile ottenere
l'assenso per incapacità o irreperibilità delle persone chiamate ad esprimerlo-> il rifiuto da parte del
genitore che esercita la capacità genitoriale sul minore è un ostacolo per l'adozione-> quando era diffuso
l'affidamento esclusivo, il genitore non affidatario aveva scarsi poteri-> oggi, con la diffusione dell'affido
condiviso, il genitore non collocatario ha un potere di veto.
Se il minore è adottato da due coniugi, o dal coniuge di uno dei genitori, la potestà sull'adottato ed il
relativo esercizio spettano ad entrambi-> la responsabilità genitoriale e il suo esercizio spettano ai
coniugi adottanti.
L'adottante ha tutti i doveri connessi alla responsabilità genitoriale.
Il minore che viene adottato in casi particolare fa comunque riferimento all'adottante per l'esercizio della
responsabilità genitoriale. LA DIFFERENZA TRA ADOZIONE PIENA E ADOZIONE IN CASI PARTICOLARI E'
CHE IN QUEST'ULTIMA IL MINORE NON RECIDE IL LEGAME CON LA FAMIGLIA DI ORIGINE, COSICCHè I
GENITORI - SE VIVI - POTRANNO MANTENERE UN RAPPORTO AFFETTIVO CON IL MINORE - sono
riconosciuti come genitori nei rapporti affettivi ma non hanno la responsabilità genitoriale.
L'adozione in casi particolari può costituire la base per il modello delle adozioni miti.
Il minore adottato ha lo stesso status di figlio-> il problema si pone alla filiazione in casi particolari che ai
sensi della l. 184 instaura un legame tra il minore in casi particolari e gli adottanti ma non tra il minore e
le famiglie degli adottanti stessi. Con la modifica del 2012 all'art. 74 cc si deve ritenere incluso nel
concetto di parentela anche il legame che si instaura attraverso l'adozione in casi particolari.
L'Adozione Mite è stata teorizzata da una sentenza del TM di Bari-> il concetto cardine è il cd
SEMIABBANDONO: situazione nella quale la famiglia del minore è insufficiente rispetto ai bisogni del
minore stesso, ma al contempo svolge un ruolo attivo e positivo tanto da rendere inopportuna la
completa recisione del legame
Altra caratteristica del semiabbandono è la definitività di questa situazione: si fa una valutazione di
impossibilità di miglioramento della situazione-> la situazione è ormai stabile-> non vi è alcuna
ragionevole possibilità di prevedere un miglioramento delle capacità della famiglia, tale da renderla
idonea a svolgere il suo compito educativo in modo sufficienti, magari con aiuto esterno, curato dai
servizi sociali.
Si arriva a una situazione di questo tipo attraverso tre fasi: la prima tesa a verificare se ci sono le
condizioni per il rientro del minore nella sua famiglia - verifica del semiabbandono o, per meglio dire,
delle condizioni che consentono di recuperare il semiabbandono -; la seconda è diretta a verificare se è
possibile procedere all'adozione piena; la terza strada si parla di un'adozione mite.
Interpretazione estensiva dell'adozione in casi particolare ai sensi della lettera d) dell'art. 44 della l.
184/83-> l'impossibilità di affidamento adottivo non sarebbe da restringersi all'ipotesi nella quale il
minore in stato di adottabilità non sia in concreto adottabile a causa di una impossibilità di fatto
dell'affidamento preadottivo, ma vada ampliata ai casi in cui vi è una impossibilità anche giuridica
dell'affidamento preadottivo-> determinata dalla circostanza che il minore non sia effettivamente in
stato di abbandono.
Rispetto al modello dell'adozione mite-> il minore non è tecnicamente in stato di abbandono in quanto
ha una famiglia biologica che, pur non essendo in grado di prendersi cura di lui, tuttavia presenti per lui
una figura positiva cosicchè recidere il legame con la famiglia di origine rapresenterebbe un pregiudizio.
La figura dell'adozione mite da un lato e l'ipotesi di un'interpretazione estensiva della lettera d) hanno
avuto un'evoluzione successiva. In particolare occorre citare la sentenza della corte europea dei diritti
dell'uomo del 21/01/2014 riguardante il caso Zhou. La CEDU ha osservato che le autorità nazionali non
hanno fatto abbastanza per favorire la relazione madre-bambino. La CEDU afferma che c'è stata una
violazione dell'art. 8. Caso concluso con la condanna dell'Italia e disponendo un risarcimento del danno
alla madre-> nessuna reazione da parte del legislatore italiano per colmare questo vuoto
nell'applicazione della disciplina sull'adozione.
La giurisprudenza italiana continua la sua attività nella tolleranza del legislatore-> la giurisprudenza
interna ha adottato quella interpretazione estensiva della lettera d) dell'art. 44.