DIRITTO PRIVATO
ROMANO
MATTEO MARRONE
Le persone giuridiche
Sommario
2
1.1.1 Diritto romano 11
1.1.2 Ius 11
2. Il processo 20
2.1 Processo privato e diritto sostanziale 20
2.2 Le legis actiones 21
2.2.1 La legis actio sacramenti 21
2.3.7 La praescriptio 27
2.3.8 L’exceptio 27
2.3.11 Le azioni arbitrarie. Temperamenti del principio della condanna in ogni caso
pecuniaria 29
3.12.2 Il termine 49
3.12.3 Il modus 49
2
3.13 Imputazione degli effetti negoziali 50
3.13.1 La rappresentanza 51
4. Le persone 53
4.1 Capacità giuridica e capacità di agire 53
4.2 Capacità giuridica. La dottrina dei tre status. 53
4.3 Status libertatis. I liberi. 54
4.3.1 I servi. 54
4.3.2 I liberti. 56
4.5.2 Il matrimonio. 59
4.5.4 Il divorzio 60
4.5.5 La dote 61
4.8.1 L’età 67
5. Le cose 72
5.1 Le res 72
5.1.1 Res corporales e res incorporales 72
5.1.10 I frutti 74
5.2 I diritti reali 74
5.3 La proprietà 75
5.3.1 La proprietà e la proprietà del diritto romano 75
2
5.8 Il diritto di superficie 89
5.9 Gli agri vectigales 89
5.10 L’enfiteusi 90
5.11 Pegno e ipoteca 90
5.12 Il possesso 91
5.12.1 Gli interdetti possessori 92
6. Le obbligazioni 95
6.1 Il concetto di obligatio 95
6.2 Genesi e storia dell’obligatio 95
6.3 Obbligazioni civili e onorarie 97
6.4 Obbligazioni naturali 97
6.5 I possibili contenuti delle prestazioni 98
6.5.1 I requisiti della prestazione 98
6.6 Le obbligazioni indivisibili 100
6.7 Le obbligazioni alternative 100
6.8 Le obbligazioni generiche 101
6.9 La responsabilità contrattuale 101
6.10 La mora 102
6.11 Le fonti delle obbligazioni 103
6.12 Il contratto 104
6.12.1 Il mutuo 105
2
6.21.1 Le obbligazioni solidali cumulative 127
2
Le persone
2
1. Il diritto romano e le
sue fonti
1.1 Diritto
Il concetto di diritto va analizzato in seguito alle sue due concezioni:
Il diritto è:
I due concetti sono correlati, in quanto il diritto soggettivo trova, nel diritto oggettivo, il
suo fondamento.
Da notare come nella lingua inglese si adoperi il termine ‘Law’ per il diritto oggettivo e ‘Right’ per il diritto
soggettivo. Nella nostra lingua si adopera in ogni caso la parola ‘diritto’, così come in latino si adoperava
‘ius’.
2
dunque una » posizione giuridica soggettiva passiva. Nell’ambito di questo è necessario
analizzare tre differenti termini:
Solo Roma, tra i popoli dell’antichità, ebbe veri giureconsulti: i primi nella storia
dell’umanità, e giureconsulti di altissimo livello. Il diritto romano (privato) fu elevato a
dignità di scienza.
Una qual certa elaborazione scientifica del diritto ebbe luogo anche ad opera della cultura greca, ma con
prospettive soprattutto filosofiche.
Il diritto romano ha goduto di una seconda vita durante le età medievale e moderna,
quindi per secoli e secoli dopo l’estinzione dell’ordinamento che l’aveva espresso. Nel
diritto romano va scorta quanto meno la matrice della maggior parte degli attuali sistemi
privatistici dei paesi dell’Europa continentale, dei paesi dell’America Latina, e di altri
paesi ancora (ad esempio, il Giappone).
Le persone
1.1.3 Ius
Nelle fonti giuridiche romane, ius è spesso adoperato in un’accezione che sembra essere
ora quella di diritto oggettivo (es. ius civile, ius gentium), ora quella di diritto soggettivo
(es. definizione di usufrutto quale ius… utendi fruendi). Ma ricorre anche nel significato
2
di potestà (es. sui iuris, alieni iuris). Certamente antico è l’uso di ius per indicare il luogo
del giudizio, dinanzi ad un magistrato (es. nelle espressioni in ius vocatio, in iure). Assai
tardo, invece, è l’impiego di iura per designare la giurisprudenza classica (in
contrapposizione a leges, con cui si intesero le costituzioni imperiali).
Nelle fonti più antiche con ius si indica la situazione giuridica quale concretamente si
realizzava in dipendenza di determinati atti. Soprattutto nella legge delle XII Tavole, dove
ricorre la frase ‘ita ius esto’ (così sia il diritto): il sostantivo ius faceva qui riferimento alla
situazione giuridica soggettiva che in concreto si determinava per effetto della pronuncia
di certa verba.
Diritto pubblico: dal latino “ius publicum”, che deriva da “populus” e più
anticamente “poplicus”, ossia il diritto del popolo, specificatamente del popolo
romano. Il diritto pubblico è quel diritto che riguarda la collettività unitariamente
considerata e che regola l’organizzazione ed il funzionamento della collettività, in
particolare i rapporti tra questa e i singoli che la compongono.
Diritto privato: regola i rapporti tra individui in quanto tali e gli interessi
individuali.
Età
Età arcaica Età preclassica Età classica
(finisce con la divisione dell’impero)
postclassica
(impero d’oriente)
2
Per età arcaica si intende il periodo che va dalla nascita di Roma (754 a.C.) al III sec.
a.C.: inizialmente essa è una società monarchica, imperniata su rex, Senato e comizi
popolari. Dalla fine del IV sec. a.C. Roma divenne repubblicana, con magistrati, Senato e
comizi popolari. Si trattava inizialmente di una società rurale, di agricoltori e pastori, che,
con il tempo, si era espansa territorialmente e socialmente in tutto il Lazio, divenendo una
vera e propria potenza e sviluppando una società differente da quella primitiva.
Cominciando dall'età più antica (fondazione di Roma, 21 aprile 753 a.C.) sappiamo che le
obiettive difficoltà tecniche di trasmissione di conoscenza delle regole impedivano di
fondare sullo scritto uno dei caratteri delle fonti stesse.
Non esisteva la carta e il papiro era molto costoso, quel che rimaneva nell'antico Lazio era
ben poco come legno e pietra.
Nel legno era difficile scrivere e soprattutto era un combustibile eccellente, per molti
secoli gli incendi erano all'ordine del giorno, ecco perché rimase la pietra (anche lei
fondamentalmente duttile anche se meno del legno). Era difficile scrivere sulle pietre e
servivano determinati tipi di pietre.
Così come la sua società, il diritto romano dell’età arcaica era un diritto » povero di
strutture, » formalistico, la produzione di effetti giuridici era subordinata alla pronunzia
di determinate parole e compimento di certi gesti solenni. Era un diritto inoltre riservato
ai cittadini romani.
Il diritto veniva istituito principalmente dai mores, ossia dai comportamenti consueti,
dalla consuetudine. I mores maiorum erano infatti i comportamenti adottati dai più antichi
Romani (i maiores), tramandati oralmente di generazione in generazione, di cui spesso si
dimenticava anche l’origine. Continuavano ad essere seguiti proprio perché radicati ormai
nella società.
Le persone
Ulpiano spiega il contenuto delle fonti del diritto dell'età più antica
Il nucleo centrale dei mores dipende sempre e comunque dalla volontà dei consociati (qui
2
chiamati popolo). I mores non sono un atto arbitrario, la regola è condivisa tanto nella sua
produzione quanto nella sua osservanza.
Questa regola non scritta si traduce attraverso il TACITO CONSENSO DEL POPOLO
(comunque sia la regola proviene da una condivisione collettiva ma non attraverso un
voto, una forma specifica; ma realizzatosi più volte nel tempo).
→ condivisione
→ generale osservanza
→ il tempo
→ la mancanza di una forma espressa
Mores altro non è che la radice della parola MORALE, i mores sono la morale, quindi, la
regola da specifica qual è diventa morale, cioè un gruppo di regole che fanno il sistema e
che devono essere accettate tutte per quello che sono, perché altrimenti questa morale non
c'è.
Si ammise che i mores potevano essere derogati o integrati da leggi, le cosidette leges
publicae, “leggi del popolo”. La più famosa di queste fu la » legge delle Dodici Tavole
(lex Duodecim – XII – tabularum), risalente al 451/450 a.C.: si trattava di una » lex data,
ossia di una legge pronunciata da un
Lex data → la legge emanata in modo unilaterale dal
magistrato precedentemente eletto dal
magistrato, senza il concorso cioè del voto di coloro ai
popolo dinanzi a questo. Le prime dieci
quali si riferiva; tra le leges datæ rientravano gli
tavole furono emanate dai decemviri (i
ordinamenti imposti dai magistrati alle colonie, ai
decemviri legibus scribundis), ossia da dieci municipi, alle province.
magistrati appositamente eletti e le ultime
due dai consoli Valerio ed Orazio. Le vicende che portarono alla formazione di questa
legge vanno inquadrate nell’ambito delle lotte tra patrizi e plebei, caratterizzanti i primi
tempi della repubblica. Le tavole di bronzo su cui erano state scritte andarono distrutte
nell’incendio che Roma subì a causa dei Galli nel IV secolo a.C.
Le persone giuridiche
Nell’ambito del diritto privato, maggior valore assunsero le leges rogatae: il magistrato
interrogava il popolo precedentemente riunito per far approvare o meno una disposizione
che, verificata dal Senato con la sua auctoritas, sarebbe poi diventata legge. Esse erano
approvate da patrizi e plebei. Contemporaneamente, però, i concilia plebis emanavano
leggi (plebis scita) che obbligavano solo i plebei. In seguito alla lex Hortensia del 287
2
a.C., anche i patrizi, ormai minoranza, erano tenuti a seguirle. Le fonti legislative
principali rimanevano comunque i mores.
La conoscenza e l’interpretazione delle leggi erano a quel tempo affidate alla classe
sacerdotale dei pontefici, che le amministrava in assoluta segretezza, rendendone al
popolo soltanto il loro significato. La loro interpretazione diede vita a nuovi atti
legislativi, sulla base di quelli già esistenti: questo avvenne sotto le spinte e le nuove
esigenze popolari. Il diritto di questo periodo è conosciuto come ius Quiritium e, dopo,
come ius civile.
Il suo significato è quello di “diritto dei Quiriti”, il nome con il quale venne riconosciuta
ufficialmente la prima comunità di cittadini romani. Esso era di formazione
consuetudinaria e riguardava per lo più posizioni giuridiche soggettive assolute, come
le posizioni di potere su persone o cose: in quest’ambito nacquero i termini di
“dominium” e “proprietas” (ex iure Quiritium). A questo ius apparteneva anche
l’esercizio di una proprietà su persone libere.
Vennero emanate nuove posizioni giuridiche soggettive, nuovi illeciti privati e nuovi
negozi giuridici (i comportamenti volontari). In tal modo, il diritto romano perse quella
che era una delle sue arcaiche caratteristiche: la povertà di strutture. Tutto questo
rispondeva anche alle nuove esigenze commerciali: le norme giuridiche romane erano
fruibili anche dai peregrini, dagli stranieri, ai quali veniva riconosciuta la volontà
manifesta e, nell’ambito dei diritti e dei doveri, la bona fides, la buona fede.
Diversamente da oggi, i pareri dei giuristi, a seconda di quanto questi venivano rispettati,
potevano costituire vera e propria lex.
I primi giuristi furono appunto i pontefici, i quali persero la loro prerogativa di segretezza
quando il pontefice massimo, Tiberio Coruncanio, cominciò a discutere pubblicamente le
ragioni dei responsi, dopo che Gneo Flavio, scriba di Appio Claudio, aveva reso noti i
formulari di legis actiones e dei negozi. Dapprima i giuristi svolsero attività consultiva,
successivamente insegnamento e composizione di opere giuridiche. Nell’ambito
dell’attività letteraria questi analizzavano e confrontavano casi concreti, trasformando poi
in concetto generale e in norma le varie sue applicazioni. Questi testi divennero a tal
punto importanti che i giudici iniziarono a considerarli legge e ad adottarli nei casi
Le persone giuridiche
Tra i più noti giuristi di età preclassica ricordiamo Giunio Bruto, Publio Mucio e Manio
Manilio, di essi si disse che fondarono il ius civile. Ma a proporre una prima trattazione
sistematica del ius civile fu Quinto Mucio Scevola. Nello stesso periodo visse anche
2
Aquilio Gallo, autore di quell’espediente negoziale che va sotto il nome di ‘stipulatio
Aquiliana’. Allo ius civile, si affianca anche il diritto onorario.
In età preclassica il ius civile subì un notevole incremento, in quanto si vide aggiunta, a
partire dal III sec. a.C., tutela giudiziaria, quindi efficacia giuridica, a nuovi negozi,
fruibili anche dai peregrini, dagli stranieri. Questi negozi davano luoghi ad obblighi
qualificabili in termini di opotere, seppur ex fide bona. Erano negozi costituitivi di
obbligazioni: compravendita, locazione, società, mandato. L’opotere ex fide bona
comportava che un giudice chiamato a decidere su una lite per cui si dava luogo ad un
giudizio di buona fede, dovesse valutare secondo buona fede i doveri del debitore
convenuto. Questo rimandava ai criteri di correttezza nella vita di relazione. Si trattava
di buona fede in senso oggettivo, in quanto oggettivo era il metro che il giudice doveva
utilizzare. Nella forma, il giudice si sostituiva al legislatore, ma di fatto questo seguiva le
opinioni dei giuristi, i quali adeguavano l’applicazione delle norme a nuove realtà anche
spirituali.
I negozi di buona fede furono presto riconosciuti in quanto appartenenti allo ius gentium,
ossia al “diritto delle genti”: erano riconosciuti infatti anche ai peregrini, non solo ai
cittadini romani. Il ius gentium in teoria andava a contrapporsi allo ius civile, estendendo
negozi riservati precedentemente ai cittadini romani anche agli stranieri. Di fatto però, il
ius gentium era parte integrante dello ius civile. Pertanto, la giurisprudenza andò via via
ad attribuire istituti dello ius civile allo ius gentium, con l’intento di estenderne la
fruibilità anche allo straniero.
Pretore urbano: istituito dalle leges Liciniae Sextiae, era un magistrato cum
imperio e aveva il compito di dicere ius.
Edili curuli: erano magistrati sine imperio, il cui compito era quello di vigilare i
mercati e la relativa giurisdizione, in particolare le controversie riguardanti la
vendita di schiavi e animali.
2
Pretore peregrino: magistrato istituito nel 242 a.C. per esigenze legate
all’intensificarsi dei commerci, aveva il compito di dicere ius tra cittadini romani
e stranieri e tra stranieri. Aveva pari dignità ed imperium del pretore urbano.
Il ius honorarium fu opera del pretore urbano: il suo editto ne fu la fonte prevalente. Il
pretore urbano emanava un editto avente valore annuale come la sua carica, che non
conteneva ordini nei confronti del cittadino, bensì promesse di strumenti giudiziari e
modelli di provvedimenti che avrebbe emanato. Sebbene ogni pretore dovesse emanare il
suo editto, con il tempo si diede avvio al fenomeno dell’edictum tralaticium, ossia del
riprendere l’editto dell’anno precedente e correggerne le parti inefficaci. Il diritto pretorio
era quello che scaturiva dalle clausole che promettevano strumenti giudiziari al di fuori
dello ius civile, con il compito di agevolarne l’applicazione, colmarne lacune e
correggerlo. L’intento pretorio era perseguire l’aequitas, intesa come giustizia nel caso
concreto. → lo ius civile non era di per sé iniquo, ma iniqua poteva risultarne la sua
applicazione.
Intorno al 130 d.C. il giurista Salvio Giuliano, sotto incarico dell’imperatore Adriano,
stabilì il testo definitivo dell’editto pretorio, l’editto perpetuo. I pretori mantennero, sì, la
Le persone giuridiche
Ancor di più, durante l’età classica, andò ad infittirsi la cerchia dei giuristi e il loro livello
2
scientifico raggiunse il più alto grado. La giurisprudenza venne appunto definita classica,
sia per la purezza delle forme e per la perfezione tecnica, sia perché il metodo utilizzato
dai giuristi divenne modello universale, classico, per l’appunto. In quest’epoca, si fece
ampio lo scontro tra due sectae di giuristi: i sabiniani e i proculiani: il loro diverbio non
prendeva avvio però da differenti posizioni giuridiche o ideologiche. Capostipite dei
sabiniani fu Ateio Capitone, giurista non eccelso. Assai più eminente fu Masurio Sabino,
da cui la scuola prese il nome. Pure sabiniano fu Salvio Giuliano. Capostipite dei
proculiani fu Marco Antistio Labeone, maestro tra i più autorevoli. Ma non da lui prese
nome la scuola, bensì da Proculo, che gli succedette nella guida. Ciò si protrasse per tutto
il I sec. d.C. e per buona parte del secondo ed ebbe fine solo con la pubblicazione
dell’editto perpetuo.
Gaio: visse durante il II sec. Di lui ci è giunta quasi per intero l’opera Istitutiones,
un fortunato e chiarissimo manuale giuridico.
Pomponio: visse durante il II sec. Fu l’unico tra i giuristi romani a tentare una
sorta di storia del diritto romano, che ci è giunta però irrimediabilmente corrotta.
Paolo ed Ulpiano: vissero sul finire dell’età classica della giurisprudenza. Furono
autori di opere giuridiche tra le più ampie, vere e proprie enciclopedie giuridiche
nelle quali si riassume e viene portato a conclusione il complesso travaglio di
pensiero delle precedenti generazioni di giuristi.
Venuti meno verso la fine dell’età classica sia il pretore giusdicente sia il processo
formulare, la conseguenza avrebbe dovuto essere la fusione tra ius civile e ius
honorarium. Ma tale fusione, in effetti, non fu mai proclamata in termini generali. La
contrapposizione tra diritto civile e diritto onorario risulta, nel diritto giustinianeo,
soltanto notevolmente attenuata.
Fonti di produzione: ogni atto o fatto da cui scaturisca il diritto, quindi che lo
produca.
Tra le fonti abbiamo elencato già i mores, le leges, i plebisciti, la giurisprudenza, l’editto
del pretore, i senatoconsulti e le costituzioni imperiali. Se ne aggiunge però un altro: la
consuetudine.
La consuetudine
Essa non era pertanto fenomeno giuridico diverso dai mores. Pare però che queste fossero
diversamente viste: erano infatti proprie delle popolazioni provinciali, per cui ci si chiese
entro quali limiti potessero conservare il diritto loro precedente dopo l’assoggettamento a
Roma. Se ne concluse che queste potevano essere osservate e considerate leges vincolanti
purché al di fuori della legge romana (praeter legem).
2
1.3.1 Le fonti di cognizione
Il Corpus Iuris Civilis.
La principale fonte di cognizione è il Corpus Iuris Civilis, il quale venne così chiamato in
seguito al XVI secolo e che comprende la iura e le leges. L’opera fu compiuta nel VI sec.
d.C. ad opera di Giustiniano e poi completata con le leges successive al 534. Si compone
di quattro parti distinte che vengono così chiamate: Istitutiones, Digesta (o Pandectae),
Codex e Novellae.
→ Le istitutiones: in quattro libri, sono la parte più breve e semplice, pubblicata nel
533. Hanno forma di discorso diretto che Giustiniano rivolge ai giovani che si
avviano agli studi giuridici. Hanno quindi funzione didattica. Si rifanno
all’omonima opera di Gaio e a qualche costituzione giustinianea.
Le fonti pregiustinianee.
2
2. Il processo
2.1 Processo privato e diritto sostanziale
Con il termine processo privato intendiamo il complesso delle attività volte, quando
occorre, all’accertamento e alla realizzazione di diritti soggettivi (o posizioni giuridiche
soggettive attive): a darvi impulso è il singolo, soggetto privato, e vi interviene un organo
pubblico, un organo giudiziario.
Si discorreva poi di diritto onorario, e quindi di processo formulare nel quale il diritto
onorario si realizzava: determinate posizioni giuridiche soggettive acquistavano qui
rilievo giuridico nel momento stesso in cui il pretore proponeva nell’editto lo strumento
giudiziario che le contemplasse e al contempo le tutelasse. Era pertanto l’esistenza del
Le persone
Le più antiche erano le legis actiones, già esperibili in età arcaica. Si trattava di cinque
riti processuali tra loro diversi per origini, natura e struttura e tuttavia con comuni
caratteristiche peculiari: » tre erano dichiarative o di cognizione, volte all’accertamento
di una determinata situazione giuridica, » due erano esecutive, volte alla realizzazione di
posizioni giuridiche certe. Avevano in comune la denominazione, l’essere accessibili solo
a cittadini romani, l’oralità, un rigido formalismo, con pronunzia di determinate parole
(certa verba). La formalità prevedeva quasi in tutti i casi – tranne per quanto riguarda la
legis actio per pignoris capionem – della presenza dei due contendenti e del magistrato,
che dal 367 a.C. venne individuato, con le leges Liciniae Sextiae, nel pretore: il suo
compito era quello di emanare taluni provvedimenti, come l’assegnazione del possesso
provvisorio, la nomina del giudice, l’addictio della persona del debitore. Con ciò, il
magistrato autorizzava la prosecuzione del procedimento e la sua legittimità. I due
contendenti dovevano quindi essere presenti davanti al giudice e per questo motivo si
poteva ricorrere alla in ius vocatio, la chiamata in processo, per cui chi la impugnava
costringeva, anche con la forza in caso di rifiuto, l’altro contendente a presentarsi. Queste
avevano caratteristica strutturale comune, di essere divise in due fasi: la fase » in iure e
quella » apud iudicem, per la quale il pretore nominava un giudice.
→ Nella fase in iure che aveva luogo dinanzi al magistrato e valeva a fissare i
termini giuridici della lite. In fine di questa fase il pretore nominava un giudice (‘iudicem
dabat’). I due contendenti compivano un atto solenne di invocazione di testimoni che
accertassero il rito compiuto: si parlava di litis contestatio, cui era connesso il principio
di preclusione, ossia il divieto di ripetere la lite circa lo stesso rapporto (‘bis de eadem re
ne sit actio’).
actiones, presente solo nella fase in iure dinanzi al magistrato. In questa fase, inoltre, non
era richiesta nemmeno la presenza di entrambi i contendenti, ma, giunto il mezzogiorno,
il giudice avrebbe dovuto dar ragione alla parte presente a sfavore di quella assente (‘post
meridiem litem praesenti addicito’).
Va inoltre osservato che erano poche le pretese azionabili con le legis actiones, le stesse,
2
poche, contemplate nell’antico ius civile.
Non si trattava di azioni esperibili per la tutela di rapporti in buona fede o di rapporti di
diritto pretorio. Le più antiche legis actiones furono la legis actio sacramenti,
dichiarativa, e la legis actio per manus iniectionem, esecutiva.
Roma o ucciso: in caso di più creditori, essi avrebbero potuto dividersi il corpo del
creditore. Nel caso della manus iniectio pura il convenuto poteva sottrarsi e negare il
debito, con la conseguenza di doverne subire condanna al doppio in caso di soccombenza.
La regola si identificò come lis infitiando crescit in duplum: la cosiddetta litiscrescenza,
che sopravvisse in età classica in pochi determinati casi e comportava l’obbligo di pagare
2
il doppio per contestazione infondata. Una lex Vallia generalizzò tale regime, applicabile
contro il iudicatus e contro il debitore principale nei confronti dello sponsor.
→ La legis actio per condictionem: era dichiarativa e fu introdotta da una legge Silia
per crediti aventi oggetto determinate somme di denaro (certa pecunia) e
successivamente anche cose determinate diverse dal denaro (certa res). Dinanzi al
pretore, l’attore con certa verba affermava il proprio credito senza specificarne la
fonte (causa). La necessità di adempiere era affermata dall’attore in termini di
opotere, quindi riferendosi ad un vincolo riconosciuto per ius civile. Se il
convenuto negava, l’attore lo invitava a ripresentarsi di fronte al pretore dopo
trenta giorni per l’assegnazione di un giudice che avrebbe deciso sulla base delle
prove già esistenti.
pretore urbano consentì di litigare per formulas. Ne nacque un tipo di processo che si
realizzava in forza dei poteri del pretore. Si poteva quindi litigare per legis actiones o per
formulas. Nel 242 a.C., a causa del frequente uso di questa modalità, venne istituito anche
il praetor peregrinus, che si occupava dei litigi tra cittadini e stranieri o solo tra stranieri.
2
2
successivo della contesa. Parlando di magistrato, si fa riferimento ai due pretori, urbano e
peregrino, all’edile curule e ai governatori provinciali.
Accadeva più spesso però che si proseguisse e, dopo aver concordato il testo della
formula quale documento scritto con indicato il nome del giudice che avrebbe dovuto
presiedere il processo, e costui, sulla base del dibattito, avrebbe deciso se assolvere o
condannare. Si può affermare quindi che la formula conteneva i termini della controversia
ritenuti determinanti ai fini della decisione.
Una volta che il pretore fosse stato d’accordo sul testo della formula, egli stesso compiva
la datio actionis: ‘iudicium dabat’ dava cioè la formula, e quindi l’azione richiesta,
autorizzando il tal modo il relativo procedimento. L’attore ne recitava il contenuto
(iudicium dictabat) e il convenuto l’accettava (iudicium accipiebat). Si costituiva così
litis contestatio, presupposto indispensabile e atto istitutivo del giudizio. Con essa si
fissavano i termini giuridici della lite in maniera definitiva, senza possibilità di modifica.
Essa aveva effetti esclusori o preclusivi: l’azione non avrebbe potuto essere ripetuta. Ed
inoltre aveva anche un effetto conservativo: la pretesa dell’attore, qualsiasi evento fosse
successivamente accaduto, non poteva essere pregiudicata. La litis contestatio aveva
altresì effetti preclusivi, cioè l’azione non avrebbe potuto essere ripetuta.
Le persone
2.3.5 L’indefensio
Senza litis dunque non poteva aversi sentenza, ma ugualmente senza la presenza e
partecipazione sia dell’attore che del convenuto che doveva accipere iudicium. Se
quest’ultimo non avesse prestato comportamento attivo o non si fosse difeso, non poteva
2
Demonstratio: indicava la causa, la fonte, i fatti che vi avevano dato vita. Non era
sempre presente: in questi casi si avevano formule astratte, in cui la causa non era
2
specificata.
Adiudicatio: stava solo nelle formule delle azioni divisorie e per il regolamento
dei confini e autorizzava il giudice ad aggiudicare ai partecipanti alla comunione o
ai confinanti parti dell’oggetto o del terreno. Aveva efficacia costitutiva.
2.3.8 La praescriptio
Non era propriamente una parte della formula, perché scritta prima che questa iniziasse.
Sappiamo che per l’effetto preclusivo della litis, l’azione non poteva essere ripetuta. Ma
la prestazione era frazionabile e però perseguibile con una sola azione sicché agendo il
creditore per una parte soltanto, rischiava di non poter più esigere il resto. La praescriptio
limitava l’oggetto dell’azione e l’effetto preclusivo a quanto l’attore volesse o potesse
perseguire. Era quindi un rimedio che giovava all’attore.
2.3.9 L’exceptio
Era un rimedio a favore del convenuto. Veniva inserita nella formula, dopo l’intentio e
prima della condemnatio. Era una condizione negativa della condanna: il giudice avrebbe
dovuto condannare in convenuto solo se le circostanze di questa fossero state non vere,
altrimenti assolverlo. veniva inserita nella formula per volere e nell’interesse del
convenuto. Aveva funzione analoga alla denegatio actionis, ma veniva concessa dal
pretore solo quando le circostanze non erano manifeste e necessitavano di accertamento,
se contestate dall’attore. Veniva incorporata nella formula e il giudizio continuava apud
Le persone
iudicem. Non ogni difesa del convenuto era exceptio: qualora egli avesse dichiarato “non
è vero”, avrebbe solo negato l’intentio. Si parlava di exceptio quando, senza di essa, il
giudice non avrebbe potuto tenere conto di circostanze che si desiderava far valere.
Dunque, si chiarisce così la differenza tra ipso iure e ope exceptionis. L’effetto ipso iure
era un effetto automatico di ius civile di cui il giudice poteva e doveva tenere conto pure
2
se non menzionato nella formula. Si parlava di ope exceptionis quando, per farli valere,
era necessaria exceptio. Sotto il profilo sostanziale, essa era rimedio pretorio non di ius
civile, escogitato per correggere le eventuali mancanze di questo. Tuttavia, l’attore poteva
opporsi all’exceptio con replicatio: se questa fosse stata fondata, il giudice non avrebbe
dovuto tenere conto dell’exceptio.
Azioni civili: le azioni fondate sul ius civile, quelle che si risolvevano in
affermazioni.
di spettanza di un ius.
Tra le azioni civili si annoverano i iudicia ex bonae fidei, che vedeva l’opotere ex fide
bona come dovere giuridico di adempiere da parte del debitore. Era riconosciuta anche ai
non cittadini, essendo istituto di ius civile e ius gentium. Si trattava di azioni in personam,
nella cui formula vi era la demonstratio, l’intentio incerta e la condemnatio: nell’intentio
il verbo opotere era seguito da ex fide bona. Il giudice era così invitato a stabilire secondo
criteri di buona fede le obbligazioni. Buona fede significava correttezza nella vita di
relazione: una buona fede oggettiva che consentiva al giudice, in via di interpretazione dei
termini, un’ampiezza di giudizio. Le azioni civili in personam, nelle quali il dovere
giuridico di adempiere da parte del debitore era espresso nell’intentio non con opotere ex
Le persone giuridiche
fide bona, ma con semplice opotere, per contrapporle alle azioni di buona fede si dissero
iudicia stricta, giudizi di stretto diritto.
2
rivoluzionari rispetto all’antico diritto, come l’invalidità dei negozi estorti con inganno o
minacce, l’aggravamento della posizione del debitore in mora, tenuto a pagare interessi.
Quanto alle azioni pretorie, queste potevano essere utili, con trasposizione di soggetti e in
factum, volti comunque a colmare mancanze del ius civile. In esse era diversa la struttura.
Nell’intentio delle azioni utili era presente riferimento al ius civile, seppur con estensioni
di questo a situazioni da esso non contemplate. Nelle azioni in factum, si prescindeva dal
ius civile, e il giudice si limitava a condannare o assolvere a seconda che tali circostanze
si fossero o meno verificate. Circa le azioni utili, l’estensione della tutela civilistica
avvenne per alcune azioni tra cui la fictio, le actiones ficticiae: nell’intentio il giudice era
tenuto a giudicare sulla base di una finzione giuridica, come se esistesse un elemento, che
in realtà non c’era, imprescindibile secondo il ius civile. Nelle azioni con trasposizione di
soggetti, per dar modo al giudice di condannare il convenuto nonostante il difetto
nell’attore id legittimazione attiva o nel convenuto di legittimazione passiva, si indicava
nell’intentio il nome del soggetto effettivamente legittimato e nella condemnatio il nome
della parte che stava effettivamente n giudizio al posto del legittimato. Si applicava anche
alla presenza di un cognitor, di un procurator ad litem o di un altro sostituto processuale.
diritto che questi reclamava: si parla di translatio possessionis. Se era assente la difesa e
non si dava avvio alla translatio, si poteva proseguire contro il convenuto con delle
sanzioni. Le azioni avevano anche diverso regime per gli effetti preclusivi della litis: si
trattava del caso di azioni in personam che fossero al contempo iudicia legittima in ius.
Nella litis, l’azione non era ripetibile: tuttavia nel caso di queste azioni alle quali
mancasse una di queste prerogative, si poteva ammettere replicabilità. Ma il convenuto
avrebbe opposto l’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae.
multiplo del valore del bene leso, ma potevano anche essere al simplum. Da un illecito
nasceva però anche l’azione reipersecutoria. Si distinguevano dunque in base al regime
giuridico: le penali erano passivamente intrasmissibili, potevano cioè essere fatte contro
l’autore stesso e non contro i suoi eredi. Le azioni penali si cumulavano: potevano essere
contro più responsabili, ognuno dei quali era obbligato a pagare la pena per intero. Si
2
parlava di obbligazioni solidali cumulative. Nelle azioni reipersecutorie il cumulo era
escluso: se l’attore avesse percepito qualcosa che riguardava altri, doveva con essi
dividerla. Pena e risarcimento non erano incompatibili: si poteva pretendere risarcimento
anche dopo la pena e viceversa, ma il risarcimento avveniva un’unica volta. Da qui la
possibilità di cumulare, se nascenti da stesso illecito, azione penale e reipersecutoria, ma
non due azioni reipersecutorie. L’azione penale poteva essere civile o pretoria: quelle
pretorie erano annali, potevano cioè essere esercitate entro l’anno dalla commissione
dell’illecito. Le azioni penali erano anche nossali, le stesse che si esercitavano per gli
illeciti commessi da soggetti a potestà: ne rispondeva il dominus o il pater, pagando la
pena o dando a nossa il colpevole soggetto a sua potestà, tramite mancipatio. Dagli inizi
del principato, si ebbe un processo di depenalizzazione, che portò all’ammissione di
diversi notevoli temperamenti:
Circa l’intrasmissibilità passiva, si ammise di poter agire contro gli eredi del
colpevole con azione non penale nei limiti dell’arricchimento, sì che essi rispondano
nella misura in cui abbiano tratto vantaggio dall’illecito.
Si ammisero deroghe sempre più ampie al principio del cumulo tra azione penale e
reipersecutoria, ammettendo le azioni dette mixtae, penali e reipersecutorie insieme.
Il criterio di nossalità cadde in disuso durante l’età postclassica per i figli, rimase per
gli schiavi.
In età classica, nelle azioni miste, si ammise che nella condemnatio, oltre alla pena
multipla del valore delle azioni penali, una parte di questa, il simplum, dovesse essere
considerato come risarcimento, il resto come pena. Altro fenomeno fu la configurazione
di taluni comportamenti sanzionati da azioni penali private anche quali crimina, come tali
repressi con pena pubblica. Si ebbe sin da età repubblicana e maggiormente in età
classica. Gli ultimi residui di penalità scompariranno in età intermedia, medievale e
moderna e si affermerà il principio per cui gli atti illeciti extracontrattuali venivano
considerati come di diritto pubblico e non privato.
Le persone
permettendo al pretore di dar via all’esecuzione o negare che vi fosse stata valida
sentenza, che non avesse adempiuto e che i termini per l’adempimento fossero trascorsi.
Si procedeva con azione di accertamento e in caso di contestazione infondata, era
condannato al pagamento del doppio della condanna iniziale. Questa nuova sentenza non
ammetteva actio iudicati e il pretore procedeva all’esecuzione.
Personale: era ricalcata sulla legis actio per manus iniectionem, ma con
semplificazioni e temperamenti. Il pretore pronunciava addictio del debitore in
favore del creditore, che poteva tenerlo assoggettato nelle sue prigioni private fin
quando qualcuno non l’avesse riscattato pagando il debito o quando il debitore
stesso non avesse riscattato il debito.
2
quello dell’acquirente.
l’introduzione del processo formulare, divennero ordini condizionati che potevano essere
o prohibitoria, o restitutoria o exhibitoria. Il pretore, alla presenza delle parti, procedeva
ad un esame sommario delle ragioni degli interessati ed emanava in base ai presupposti
che ne giustificavano l’esistenza. Se l’intimato avesse accettato quei presupposti, avrebbe
obbedito all’ordine del magistrato, concludendo il processo. Contrariamente, si sarebbe
proceduto ad accertamento delle condizioni: se l’esito era contrario all’intimato, contro di
lui si davano all’attore gli strumenti giudiziari per proseguire all’interdictum. Gli
interdetti furono largamente impiegati in materia possessoria, contro turbative di possesso
e spossessamenti. Essi erano tipici, ognuno per un caso diverso, specificato nell’editto
riguardante questi.
2
primo caso si aveva missio in possessionem per il danno temuto, nel secondo missio in
possessionem rei servande causa. Il missus non acquistava il possesso dei beni, ma solo la
detenzione: il possesso si aveva in caso di missio in possessionem ex secundo decreto per
il danno temuto. Esse si concedevano nelle sole ipotesi contemplate dall’editto. La
funzione poteva essere di custodia o conservazione, di pressione al compimento di un atto
o di un comportamento.
contestatio e gli effetti avevano luogo in momenti differenti: quelli conservativi nel
momento iniziale e quelli preclusivi nella sentenza. Tuttavia, si avevano anche effetti
pregiudiziali positivi, per cui, se la questione già decisa fosse stata sottoposta ad un altro
giudice, questo avrebbe dovuto consultarsi con il precedente. Era assente ogni formalità,
per cui l’attore esponeva le proprie ragioni e il convenuto si difendeva nella praescriptio.
2
La sentenza poteva non essere espressa in denaro: lo stesso giudice avrebbe potuto dar via
all’esecuzione. Se invece era pecuniaria, si dava avvio alla procedura esecutiva. Si poteva
evitare esecuzione personale e bonorum venditio ricorrendo al pignoramento e alla
successiva vendita di quanti beni fossero sufficienti a soddisfare le ragioni dell’altra parte.
Ciò ebbe ripercussioni sul processo postclassico e giustinianeo e su quello moderno.
2
3. Gli atti negoziali
testamento prima della morte del testatore). Si distinguono più specie di invalidità: si dà
rilievo sotto questo aspetto ai concetti di nullità e di annullabilità. Si dice nullo il
negozio che, per difetto di uno dei suoi elementi essenziali o per altro grave motivo, non
produce i suoi effetti, nasce “morto”. Qualunque interessato potrà, senza limiti di tempo,
far valere la nullità. Una eventuale sentenza di nullità sarà meramente dichiarativa, di
2
semplice accertamento. Si dice annullabile il negozio che presenta vizi meno gravi, nasce
“vivo”, ma ammalato. Potrà quindi essere impugnato nei termini stabiliti sì da provocarne
l’annullamento, con una pronunzia costitutiva che muta la situazione giuridica
preesistente: con l’annullamento il negozio cessa di produrre effetto, diventa inefficace. Il
concetto di nullità è nelle fonti romane, quello di annullabilità no, ma deriva da esse:
consegue fondamentalmente allo sviluppo di negozi iure civili validi, con effetti però
neutralizzabili iure praetorio. Al negozio nullo romano non vengono riconosciuti gli
effetti propri. Nullità ed invalidità coincidono: ogni invalidità non può che essere nullità.
Il negozio nullo è trattato ipso iure, come se non esistesse. Le ipotesi di negozi iure civili
validi ed efficaci, i cui effetti potevano però venire neutralizzati, generalmente per ragioni
di equità, con rimedi pretori erano diversi. Gli effetti già prodotti restavano, solo che in
pratica se ne impediva la realizzazione, oppure venivano semplicemente ignorati. Si
parlerà pertanto di negozi iure civili validi ma invalidi iure praetorio. Tante volte la
nullità era conseguente al fatto che il negozio era stato compiuto in violazione di un
precetto giuridico. Non sempre però la violazione di una norma comportava nullità. Per
questo venivano classificate leges perfectae, leges minus quam perfectae e leges
imperfectae.
→ Negozi formali e non formali: si dicono formali i negozi nei quali la volontà deve
essere manifestata in forma determinata, nei quali quindi la forma prescritta è
elemento essenziali. Non formali sono quei negozi nei quali la volontà può essere
manifestata liberamente in qualsiasi forma si voglia.
Le persone
→ Negozi causali e negozi astratti: si dicono causali i negozi nei quali la causa
determina la struttura del negozio, ne è quindi elemento costitutivo ed essenziale.
Astratti invece sono negozi nei quali la causa non emerge dalla struttura del
negozio sicché gli effetti negoziali si producono indipendentemente da essa.
la volontà è di una sola parte, bilaterale quando vi sono due parti e plurilaterali
quando viene da tre o più parti. → le parti: si dicono parti tutti i centri di interesse
di un negozio. La parte può coincidere con la persona singola o con più persone,
condividenti lo stesso interesse.
→ Negozi a titolo oneroso e a titolo gratuito: nei primi ciascuna parte consegue un
vantaggio dietro corrispettivo, nei secondi un vantaggio senza corrispettivo. Negli
ultimi rientrano gli atti di liberalità: negozi giuridici che danno luogo ad
un’attribuzione definitiva nei confronti di coloro che ne traggono vantaggio.
→ Negozi inter vivos e mortis causa: quelli inter vivos producono effetti in vita del
soggetto o dei soggetti che nel negozio sono partecipi, quelli mortis causa
producono effetti alla morte del soggetto che ne è l’autore
→ Negozi dispositivi o atti di disposizione: atti di forza dei quali taluno aliena,
estingue o comprime un diritto proprio. Sono dispositivi tutti i negozi con effetti
reali, ma vi rientrano pure la rinunzia ad un credito o l’affrancazione di un servo,
ecc.
mentre per altri effetti è necessario che sia in forme determinate. Si distingue perciò tra
negozi formali e non formali.
2
I negozi del più antico ius civile. Le formalità prescritte erano formalmente orali,
richiedendosi l’uso di certa verba o anche il compimento di gesti predeterminati, la
presenza di certe cose, la presenza e talora anche la partecipazione di persone estranee
agli effetti dell’atto. La forma era rigorosamente imposta, lo schema dell’atto rigidamente
predeterminato. Esprimevano di per sé in modo stilizzato i contenuti dei negozi che con
esse si realizzavano. La mancata puntuale adozione delle forme prescritte era in ogni caso
motivo di nullità.
3.4.1 La mancipatio
Trova fondamento negli antichi mores ed è un istituto del ius Quiritium, quindi del ius
civile, fruibile soltanto da cittadino romano. Era uno dei gesta per aes et libram, uno degli
atti cioè che si compivano con rame o bronzo e una bilancia. Erano caratterizzati da una
parte che conseguiva vantaggio dietro pronuncia di determinate parole, dall’impiego di
una bilancia e del metallo – prima rame e poi bronzo – che veniva pesato, dalla presenza
come testimoni di cinque cittadini romani maschi e puberi e da quella di un altro
cittadino, il libripens, che reggeva la bilancia e provvedeva alla pesatura del metallo. Le
parti erano il mancipante, o mancipio dans, e il mancipio accipiens. La mancipatio
comportava l’acquisto di un potere su persone o cose in favore del mancipio accipiens e
la perdita di un potere sulla stessa del mancipio dans. Era impiegata al trasferimento della
proprietà di res mancipii, quindi schiavi, donne in manus, filii familias altrui e anche
testamento. Alla mancipatio di uno schiavo si procedeva così: presenti il mancipante, lo
schiavo, cinque cittadini romani puberi e il libripens con la bilancia, il mancipio
accipiens teneva lo schiavo e pronunciava determinate parole. Contestualmente il
mancipio accipiens poneva sulla bilancia il metallo che il libripens provvedeva a pesare e
che l’accipiens consegnava successivamente al mancipio dans. Ma la mancipatio
trasferiva anche possesso? Bisogna distinguere in questo caso tra mancipatio di beni
mobili e di beni immobili. Nei beni mobili si aveva trasferimento e di proprietà e di
possesso. Non diversi erano gli effetti della mancipatio di un fondo, che doveva avvenire
sul fondo stesso con un gesto che segnava il compimento del passaggio di possesso. In età
classica, per la mancipatio di immobili non fu più necessario recarsi nei luoghi, ma si
aveva il trasferimento solo della proprietà. Poi il mancipio dans doveva compiere gesto di
trasferimento di possesso. Si trattava sostanzialmente di una vendita, e, per tale motivo,
Le persone
quando a Roma venne introdotta la moneta coniata, non si usava più pesarla sulla bilancia
ma la pesatura era solo simbolica: si percuoteva con il raudusculum – pezzetto di metallo
grezzo e poi moneta – cui seguiva la consegna di questo.
2
più diffuse furono le cautiones o stipulationes pretoriae. L’uso di tale istituto non venne
mai meno nel diritto romano.
3.6.1 L’errore
La divergenza tra il dichiarato e il voluto poteva essere inconsapevole, in conseguenza di
errore, potendo taluno, per inconsapevole deviazione del vero, per errore appunto,
attribuire alla propria manifestazione di volontà un significato diverso da quello che
obbiettivamente ha. Nei negozi bilaterali l’errore può aversi anche per il fatto che una
parte attribuisce alla manifestazione di volontà dall’altra parte un valore diverso da quello
che obbiettivo, o comunque diverso da quello che costei vi ha dato. Si avrà allora il
dissenso. L’errore può derivare da una svista, da una cattiva conoscenza della lingua o da
ignoranza del comune modo di esprimersi e di comportarsi, da un fraintendimento. Sarà
allora errore ostativo, o errore nella dichiarazione, che si distingue dall’errore-vizio, che
Le persone giuridiche
di per sé non esclude la volontà. è l’errore che incide sul processo formativo di essa, per
cui taluno, convinto di circostanze non vere, e in dipendenza di ciò compie il negozio,
magari diversamente da come avrebbe voluto. La volontà esiste, ma è viziata. I Romani
non distinsero questi due tipi di errori, ma li trattarono unitariamente. Quando riguardava
le parti dei negozi formali solenni, l’errore era irrilevante e il negozio ugualmente valido.
2
Molti di quei negozi formali constavano, oltre che di parti fisse, di parti bianche che si
necessitava compilare. A tali parti variabili si riconobbe che l’errore potesse portare a
nullità. Non ogni errore comportava nullità: la regola dell’“errantis nulla voluntas” (“non
vi è volontà in chi sbaglia”) non aveva portata generale. Una delle direttive di massima
era l’errore di diritto (error o ingorantia iuris), che dipendeva dall’ignoranza o
fraintendimento di norme e istituti giuridici ed era irrilevante in quanto le parti avevano
l’onere di conoscere la materia trattata. Vi era poi l’errore su elementi di fatto (error o
ignorantia facti) che fu ritenuto rilevante con nullità del negozio se scusabile ed
essenziale. L’errore scusabile era quello non grossolano. Si distinsero poi:
Error in persona: rilevante nelle disposizioni mortis causa e rilevante nelle inter
vivos solo se la fiducia fosse stato elemento essenziale.
Error in corpore: sempre rilevante, circa l’identità fisica dell’oggetto del negozio.
L’errore può cadere sui motivi, sulle circostanze di fatto, cioè credute esigenti e per cui
taluno è indotto a compiere un negozio. Si tratta in ogni caso di errore-vizio. I moderni
parlarono di error in causa, i Romani di falsa causa e la regola era l’irrilevanza.
3.6.2 Il dolo
Tra i vizi della volontà si annoverano dolo e violenza. La parola dolo assume diverse
sfumature: dolo quale criterio di responsabilità esprime l’idea della volontà di un
comportamento e delle relative conseguenze per altri pregiudizievoli. Esso si contrappone
alla colpa e, fuori dal campo delle responsabilità, dolo assume il significato di
comportamento iniquo. Ciò che interessa è però il dolo negoziale, inteso come
macchinazione volta a trarre in inganno altra persona sì che questa compia un negozio per
lei pregiudizievole che diversamente non avrebbe voluto, e quindi non avrebbe compiuto,
Le persone
oppure avrebbe compiuto a condizioni diverse. Si tratta di una specie di errore, quando
l’errore non è imputabile all’autore del negozio, ma è indotto dall’altrui macchinazione.
L’errore inoltre non sempre era rilevante, il dolo fu sempre rilevante. Si distinse tra dolus
malus e dolus bonus: il dolus bonus comprende le usuali furberie tollerate dal costume
che si adoperavano nel trattare i propri affari ed era rilevante solo ai fini di escluderne la
2
comportamenti iniqui al di fuori del dolo negoziale, purché non rientranti in alcun illecito.
Altra azione di cui si ha testimonianza scarsa è l’in integrum restitutio propter dolum.
3.6.3 Il metus
Altro vizio della volontà è il metus, ossia il timore generato dall’altrui violenza (vis). La
2
vis di cui si parla però non è violenza fisica, cioè vis absoluta o vis corpore illata, bensì la
minaccia di provocare un male se il minacciato non compia un certo negozio, cioè
violenza morale, vis compulsiva o vis animo illata, per la quale una parte si vedeva
costretta a compiere un negozio pregiudizievole, in cui il pregiudizio sarebbe stato minore
di quello che arrecava la minaccia. Doveva però essere una minaccia seria e grave, tale da
spaventare non un vanus homo ma un homo constantissimus. Il negozio compiuto per
metus era iure civili valido ed efficace, ma il convenuto, con azione ex fide bona, avrebbe
potuto chiedere l’assoluzione dal negozio o, in caso avesse adempiuto, il risarcimento.
Nel I sec. a.C. il pretore introdusse l’exceptio quod metus causa, o exceptio metus, per la
quale la persona vittima di minaccia avrebbe potuto chiedere l’assoluzione si trattava di
azioni di stretto diritto, di diritto reale o, comunque, non di buona fede. Poteva essere
volta anche ad una persona diversa dal colpevole di metus ed aveva perciò valore
assoluto: era exceptio in rem scripta. Pure pretoria era l’actio quod metus causa, che
avveniva dopo aver concluso il negozio ed aver ad esso adempiuto e prevedeva il
pagamento del quadruplo del valore del pregiudizio. Era azione arbitraria e di valore
assoluto, in rem scripta. Vi era poi l’in integrum restitutio propter metus che tendeva a
neutralizzare effetti che iure civili si erano già prodotti.
3.7 La causa
Chiunque compia un negozio è sicuramente spinto da motivi propri, personali che sono
motivi soggettivi: di solito l’ordinamento giuridico non li prende in considerazione e, veri
o falsi che siano, sono irrilevanti dal punto di vista del diritto. Ogni negozio comunque è
dal suo autore compiuto per una causa, ossia la ragion d’essere oggettiva del negozio, la
più immediata, quella che si vuole produrre con gli effetti di quella contrattazione: in
definitiva, è elemento oggettivo alla base del negozio giuridico. La causa negoziale sarà
in ogni caso lo scambio di cosa contro prezzo nella compravendita oppure un prestito di
consumo nel mutuo. Nel caso di negozi bilaterali, la causa è comune alle parti. La causa
era elemento strutturale, costitutivo ed essenziale del negozio causale. In essi il difetto di
causa, ossia la sua mancanza, determinava la nullità del negozio: quel negozio non veniva
giuridicamente ad esistenza. Ai negozi causali si contrapponevano quelli astratti, dove la
causa era assente ma comunque negozio lecito, che poteva essere utilizzato per cause
Le persone
diverse, esterne dal negozio stesso. Tra questi i più erano i negozi formale dello ius civile,
come la mancipatio, la stipulatio o la traditio, che restavano comunque iure civili validi
ed efficaci pur senza causa. Da età preclassica, si poteva ricorrere però alla conditio e alla
exceptio, la prima che prevedeva la restituzione o ripetizione di quanto già prestato, la
seconda la neutralizzazione degli effetti prodotti dal negozio astratto.
2
3.8 La conditio
La conditio fu la versione formulare della legis actio per conditionem: si perseguivano
crediti per cui l’attore poteva sussistere a carico dell’altra parte un obbligo di dare
espresso col verbo oportere. Un dare che poteva avere per oggetto una certa pecunia o
una certa res. Si parla di actio certae pecuniae e actio certae rei. Era un’azione civile in
personam e di stretto diritto. L’attore non indicava la fonte del credito affermato, che si
ritrovava nella condictio. Mancava la demonstratio, e questa mancanza fece sì che la
condictio fosse applicata a una pluralità di fattispecie eterogenee. Se ne specificò il campo
di applicazione: la condictio presuppone una datio, come trasferimento di proprietà.
Pertanto, si presupponeva che l’attore avesse traferito in precedenza una proprietà di una
res e doveva sussistere al contempo una ragione valida per cui il convenuto non avesse
potuto trattenere la proprietà e avesse dovuto restituirla, o la stessa cosa o un’equivalente.
Ebbe carattere eccezionale la condictio ex causa furtiva che non presupponeva una
tecnica datio e di fronte alla quale il convenuto non sarebbe stato tenuto a una datio in
senso tecnico. Si distinsero applicazioni contrattuali ed extracontrattuali: nelle prime la
datio era compiuta con l’intesa che sarebbe stata restituita, mentre nelle seconde si
parlava di dationes per causa inesistente o venuta a mancare. Si contemplò anche il caso
di cause future poi venute a mancare, come la dote data prima del matrimonio se questo
non fosse più avvenuto o le donazioni mortis causa se il donante fosse sopravvissuto o
ancora il compenso per una mancata prestazione. Chi aveva ricevuto sarebbe stato tenuto
alla restituzione in forza di conditio. Alla causa mancante venne integrata la causa illecita
o turpe.
con la sua natura. Si parla di elementi accidentali del negozio giuridico, espressamente
inclusi dalle parti: condizione, termine e modus (ad onere).
3.9.1 La condizione
Per condizione si intende sia l’evento futuro e oggettivamente incerto dal quale si fanno
2
dipendere gli effetti del negozio sia la clausola, aggiunta dopo, che contempla l’evento. Si
distinguono in sospensive e risolutive: le prime sospendono gli effetti del negozio, fino a
quando e se l’evento si verificherà, mentre le seconde risolvono gli effetti, che cesseranno
di valere sempre se e quando l’evento si verificherà. I Romani parlarono di conditionalis
riferendosi ai negozi soggetti a condizioni, e di puri riferendosi a negozi privi di
condizioni. Non tutti i negozi giuridici ammettevano la condizione: non poteva essere
presente negli actus legittimi, pena l’invalidità dell’atto. Erano actus legitimi la
mancipatio, la in iure cessio, l’acceptilatio, la manumissio vindicta. Infatti, erano atti che
comprendevano la pronuncia di certa verba, logicamente incompatibili con le condizioni
sospensive, in quanto avrebbe significato contraddizione della stessa affermazione. Gli
effetti di taluni atti erano poi di per sé subordinati al verificarsi di certi eventi: specificare
la condizione sarebbe stato superfluo. Neppure erano condizioni in sé le conditiones in
praesens vel in praeteritum conlatae, che facevano dipendere gli effetti del negozio da
eventi attuali o passati, dunque non futuri né incerti. Sarebbe stato efficace dunque il
negozio con condizione verificabile subito, mentre inefficace se non era verificabile.
→ Condizioni illecite: nell’ambito dei negozi inter vivos bisogna distinguere tra
negozi che davano luogo a giudizi di buona fede e stipulatio. Nel primo caso
l’aggiunta di condizione illecita dava origine a nullità e così anche nella stipulatio,
dapprima invalidità iure pretorio e poi nullità ipso iure. Analoga evoluzione per i
negozi mortis causa. Sappiamo di un intervento pretorio volto a far sì che della
condizione illecita non si tenesse conto. Con Augusto fu direttamente ritenuta
come non apposta perché giudicata illecita la condizione che subordinava
l’acquisto al fatto che il destinatario della disposizione testamentaria non
contraesse matrimonio. Fu esteso poi ad ogni altro caso di condizione illecita
aggiunta ad una disposizione testamentaria.
Le persone
negozio con condizione potestativa è nullo quando questo dipendeva dalla volontà
della parte che vi aveva interesse, in quanto si riteneva che il negozio non fosse
realmente voluto.
2
3.9.2 Il termine
Anche il termine viene considerato elemento accidentale del negozio, dunque una
clausola che le parti nei concreti casi di specie, potevano volere o non. Riguardava eventi
futuri, ma certi. Era dunque una clausola che prevedeva un avvenimento futuro certo dal
quale si facevano dipendere gli effetti del negozio. Nelle fonti romane viene indicato con
il termine dies, trattandosi o di una data del calendario o di un evento basato sul ‘se’, che
poteva dunque verificarsi in maniera imprevedibile (morte). Il termine poteva essere
iniziale o finale: nel primo il termine impediva di produrre effetti fin quando non si
sarebbe verificato l’evento indicato, mentre nel secondo si producevano immediatamente
gli effetti, che cessavano al momento della scadenza indicata dal termine. Alcuni negozi
non ammettevano il termine, causa la nullità dell’atto o la non apposizione di questo e la
validità del negozio. La traditio e la stipulatio non tolleravano termini finali, che
venivano considerati come non apposti. Tuttavia, il pretore concesse l’exceptio pacti
conventi (o doli) contro lo stipulante che avesse agito dopo la scadenza del termine. Se
invece, nella certezza che l’evento si sarebbe verificato, il debitore avesse adempiuto
prima della scadenza non avrebbe potuto pretendere la restituzione di quanto prestato.
Scaduto il termine iniziale, il negozio cominciava a produrre i suoi effetti
automaticamente con decorrenza nel momento della scadenza. Con il termine finale, gli
effetti cessavano alla scadenza, con decorrenza della scadenza stessa e ipso iure.
3.9.3 Il modus
Elemento accidentale è anche il modus, od onere. Consiste nell’imposizione al
destinatario di un atto di liberalità di adottare un comportamento determinato. Essendo
comportamento volontario, il modus è spesso accostato alla condizione potestativa, ma
differisce da questa in quanto il negozio modale è immediatamente efficace, a prescindere
dall’adempimento al modus. Solo che il beneficiario sarà costretto ad attenersi a questo.
Si suole dire che la condizione subordina ma non ordina, mentre il modus ordina ma non
subordina. Si parla di modus nelle fonti romane quando ci si riferisce a legati,
fedecommessi, istituzione di erede e donazione. Il più antico giurista a parlare di modus
fu Trebazio, di età repubblicana, il quale suggerì che prima di dare esecuzione ad un
legato modale su facesse obbligo al legatario di prestare una stipulatio o cautio con cui
Le persone
chiama ciò rappresentanza organica. Si parla di ciò anche in caso di negozi di acquisto
conclusi da soggetti alieni iuris sia in nome proprio sia in nome dell’avente potestà. Gli
atti sono validi d efficaci solo che ad acquistare è l’avente potestà, il pater familias,
poiché i soggetti alieni iuris erano considerati parte dell’organizzazione della famiglia.
Poteva accadere che gli effetti principali del negozio si imputassero direttamente agli
2
autori del negozio e a terzi nel caso della responsabilità adiettizia per cui, se in
determinate circostanze ad assumere obbligazione atto lecito fosse stata una persona
soggetta a potestà, ne sarebbe stato vincolato anche l’avente potestà.
3.10.1 La rappresentanza
Si poteva anche concludere un negozio per conto dei terzi ma in nome proprio, con effetti
pertanto imputabili al dichiarante, salvo poi che questo dovesse effettuare il trasferimento
della proprietà al terzo, che ne assumeva però gli obblighi contratti dal dichiarante. Si
parlò di rappresentanza indiretta. I Romani furono dapprima contrari. L’ammisero in
pochi casi, del curator furiosi e del possesso nel trasferimento della proprietà. Fu
riconosciuta sin da età arcaica al curator furiosi e prodigi, al tutor impuberis, al
procurator omnium bonorum, una figura amministrativa nota da età preclassica in quanto
ingaggiata dal pater per l’amministrazione del patrimonio e che sceglieva dapprima tra i
suoi liberti, poi tra i fidati. Nell’età classica si riconobbe al procurator nominato di volta
in volta e successivamente ad ogni persona libera.
Le persone
Erano vietati, pena la nullità, patti e contratti in favore di terzi: le parti non potevano cioè
convenire che dal negozio obbligatorio che andavano a compiere nascessero crediti in
favore di terzi al negozio estranei. Fu ribadito dai giuristi di età repubblicana con riguardo
2
alla stipulatio. La regola aveva una doppia valenza: da una stipulatio non nasceva azione
né a favore dello stipulante né a favore del terzo perché il primo non aveva interesse che
il promittente adempisse a un terzo, il secondo non aveva partecipato alla stipulatio.
Negando che il terzo potesse agire direttamente contro il promittente, al contempo si
negava, in sostanza, che un negozio obbligatorio potesse avere direttamente effetti in capo
a un terzo. A questi furono concesse actiones utiles e in factum in materia di donazioni,
deposito, dote e pegno.
L’una o l’altra parte poteva farsi sostituire fin dall’inizio della lite dalla figura del
cognitor, un sostituto processuale nominato direttamente dalla persona che desiderava
farsi sostituire nel processo, il dominus litis, con pronunzia orale e solenne di fronte
all’avversario. Il cognitor agiva in nomine alieno con l’adozione di una formula di
trasposizione dei soggetti per cui nell’intentio appariva il nome del dominus litis. Il nome
del cognitor compariva solo nella condemnatio sicché la eventuale condanna pronunziata
dal giudice sarebbe stata o a favore del cognitor o contro di lui. Gli effetti preclusivi si
applicavano con effetti conservativi nei confronti del dominus litis. Una sentenza di
condanna era seguita dall’actio iudicati a favore o contro il dominus. Diversa era la
situazione del procurator ad litem, la cui nomina era informale e non davanti
all’avversario. Si aveva trasposizione di soggetti ma la sentenza non avrebbe avuto effetti
sul dominus. L’avversario avrebbe preteso che il procurator prestasse la cautio ratam rem
dominum habiturum, promettendo che il dominus avrebbe ratificato l’iniziativa del
procurator. L’avversario avrebbe preteso dal procurator la cautio iudicatum solvi,
promettendo che la eventuale condanna sarebbe stata comunque adempiuta. In età
classica, il cognitor scomparve, equiparato al procurator. Regime analogo fu applicato
anche ai tutori, quando comparivano in giudizio al posto dei loro amministrati.
Le persone giuridiche
2
4. Le persone
4.1 Capacità giuridica e capacità di agire
Il centro della dottrina giuridica moderna è il diritto delle persone, che comprende
capacità giuridica (o capacità di diritto) e capacità d’agire: con la prima si intende
l’idoneità di essere titolari di diritti ed obblighi o di situazioni giuridiche soggettive,
mentre con la seconda l’idoneità ad operare direttamente nel mondo del diritto. Si tratta di
categorie non romane, ma al loro mondo associabili. Oggi, giuridicamente capaci sono
tutti gli esseri umani, ossia le persone fisiche, ed alcune organizzazioni di persone o enti,
le persone giuridiche. A Roma, tuttavia, non era così. Con il termine persona si
indicavano solamente le nostre persone fisiche, le quali non tutte disponevano di capacità
giuridica: era propria, ma non necessariamente, delle persone libere mentre era sempre
preclusa agli schiavi. Anche alcune organizzazioni vennero riconosciute, ma non
ampiamente trattate. Oggi, la capacità d’agire presuppone la capacità giuridica, che
riguarda tutte le persone capaci intellettualmente: esclusi sono i minorenni e gli infermi.
Anche a Roma era così, ma la capacità d’agire non presupponeva quella giuridica: un
pater familias le aveva entrambe, mentre un filius familias godeva della capacità d’agire
ma non di quella giuridica. Le sue azioni ricadevano sul padre e, nel caso dei servi, sul
dominus. Presupposto di ogni capacità era comunque l’esistenza.
sui iuris, mentre coloro che non avevano capacità giuridica alieni iuris (personae alieno
iuri subiectae), ossia sottostanti una potestà.
Il possesso di questo stato era il presupposto fondamentale per avere capacità giuridica: lo
avevano i liberi e non lo avevano gli schiavi. Liberi si nasceva da madre libera (ingenui),
mentre si diventava nel caso della liberazione da schiavitù (liberti).
Res
Actiones
4.3.1 I servi
La schiavitù è un antico istituto romano già contemplato nelle XII Tavole. Tuttavia la sua
diffusione su larga scala avvenne in seguito alle azioni militari di espansione: molti
prigionieri di guerra erano infatti destinati a diventare schiavi. Le due fonti di schiavitù
principali erano i prigionieri di guerra (captivi) e i nati schiavi da madre schiava.
La prigionia di guerra era contemplata tanto per gli altri popoli quanto per i Romani. Mal
sopportando tale norma, essi diedero vita allo ius postliminii, che permetteva ad un
romano divenuto schiavo, di tornare libero una volta riuscito a tornare in patria.
Altra fonte di schiavitù poteva essere la vendita del neonato libero, che diveniva schiavo
del compratore. Si dava però ai genitori possibilità di riscatto. Giustiniano limitò la
possibilità di vendere i propri figli ai soli casi di estrema indigenza.
Sebbene i servi fossero annoverati nella categoria delle persone, essi venivano considerati
quali oggetti di proprietà, res mancipii, senza alcun diritto soggettivo o capacità giuridica.
Le unioni tra due servi non erano disciplinate giuridicamente, in quanto non considerati
matrimonii ma contubernium. Era quindi facoltà del dominus quella di separare le
Le persone giuridiche
famiglie servili. Essi erano alieni iuris, in quanto soggetti alla potestà del padrone che
esercitava su di loro anche ius vitae ac necis, ossia diritto di vita e di morte. Con
Giustiniano, venne riconosciuto alla famiglia servile una sorta di rilievo giuridico.
2
condizione.
Il peculio
Tutti gli atti, se compiuti da servi, avrebbero dovuto essere inefficaci dal punto di vista
giuridico del diritto: il servo non disponeva di nulla e non poteva assumere obbligazioni,
in quanto non giuridicamente capace. Tuttavia, prassi comune era quella di concedere al
servo (e ai filii familias) un peculio: dapprima un gruzzoletto di denaro, fino a servi e ad
immobili. Il proprietario del peculio rimaneva però il dominus, che poteva revocarlo in
qualunque momento (ademptio peculii). Il servo poteva quindi amministrare il peculio ed
entrare in affari con terzi, adempiendo agli obblighi assunti con atto lecito ed il dominus
non poteva assolutamente richiedere al terzo quanto dovuto dal servo. Le obbligazioni
che assumevano i servi erano però obligationes naturales, che non potevano dar luogo ad
azioni processuali verso i servi. Il terzo, pur non potendo pretendere l’adempimento delle
obbligazioni né dal servo né dal dominus, poteva trattenere quanto ricevuto in
adempimento (soluti retentio).
Le azioni adiettizie
Con la crescita dell’economia, gli schiavi divennero figure centrali nella gestione degli
affari del dominus: bisognava però che i terzi potessero ben credere che i servi avrebbero
certamente adempiuto alle loro obbligazioni. Pertanto, necessitavano di strumenti
giuridici che garantissero loro l’adempimento. A partire dal II sec. a.C., il pretore attribuì
ai terzi – i “creditori naturali” – il diritto di eseguire alcune actiones verso il dominus, le
cosiddette actiones adiecticiae qualitatis, ossia le azioni adiettizie. Tra queste vi sono:
actio quod iussu, actio exercitoria, actio insitoria, actio de peculio et de in rem verso e
l’actio tributoria. Nell’intentio si indicava quale debitore il servo, mentre la condemnatio
riguardava il dominus.
Le persone
→ Actio quod iussu, presupponeva che il servo avesse assunto impegni nei confronti
dei terzi dietro autorizzazione (iussum) del dominus, da quest’ultimo rivolta al
terzo e assumendosene tutti i rischi.
→ Actio de peculio et de in rem versa, aveva due taxationes nella formula. Una era
de peculio, presupponeva che il servo avesse un peculio e la responsabilità del
dominus per i debiti contratti dal servo non andava oltre il valore del peculio.
L’altra era de in rem verso e presupponeva un arricchimento del dominus, il quale,
mancando o risultando insufficiente il peculio, rispondeva dei debiti del servo nei
limiti di quanto si fosse avvantaggiato in dipendenza dell’obbligazione naturale
assunta dal servo.
Si doveva procedere in ogni caso con la stima del peculio, che si calcolava al netto
dei debiti (naturali) che il servo avesse verso il proprio padrone.
Le liti di libertà
affidata ai decemviri. Nel processo formulare la formula era ricalcata su quella della rei
vindicatio e a decidere erano i recuperatores.
Rilevante è il fatto che la persona il cui status era in discussione non era soggetto della
lite, ma oggetto: essa infatti era rappresentata da un testimone, che recitava la parte o ne
era interessato direttamente, l’adsertor in libertatem. Questo perché, da un lato il servo
2
non aveva capacità giuridica e dall’altro perché la sentenza era ignota fino alla fine,
quindi non si sapeva se il libero lo fosse realmente. Tale figura fu abolita da Giustiniano,
talché lo schiavo poté partecipare in prima persona al processo.
4.3.2 I liberti
Gli schiavi liberati acquistavano la libertà e la cittadinanza romana. Divenivano sui iuris,
quindi giuridicamente capaci, tuttavia non godevano della stessa considerazione dei liberi,
né sul piano privato, né su quello pubblico: sul piano privato, essi erano considerati come
“liberti”, mentre i nati per nascita come “ingenui”, mentre sul piano pubblico erano
esclusi da determinate attività lavorative e da cariche pubbliche. In seguito alla
manomissione, il dominus diveniva patrono e poteva esercitare sul liberto lo ius
patronatus, il diritto di patronato, che gli permetteva di esigere dallo schiavo una serie di
operae domestiche e artigianali. Lo schiavo faceva al dominus un giuramento di
adempimento alle operae richieste e, in seguito alla manomissione, tale giuramento
doveva essere ripetuto o tramite promessa o tramite stipulatio. Il patrono godeva inoltre
del diritto di successione sui beni del servo oltre che anche il diritto di tutela sui membri
puberi o impuberi della sua famiglia. Entrambi potevano vicendevolmente pretendere
comunque in caso di indigenza il pagamento di alimenti.
Le persone giuridiche
2
trattava di una situazione derivante dalla vendita del figlio, entrata in disuso in età
postclassica. Si continuò ad adoperare la pratica ai fini dell’adoptio e dell’emancipatio. In
questi due casi, lo status di personae in causa mancipii aveva breve durata, il tempo di
passaggio da una famiglia all’altra o per l’acquisizione dello status di sui iuris. Queste
persone, libere e cittadine, a differenza degli schiavi, potevano contrarre matrimonio ed
avere figli legittimi ma, come gli schiavi, non avevano capacità giuridica e non godevano
di diritti soggettivi, essendo alieni iuris, soggetti a potestà (mancipium). Alla morte della
persona che esercitava il mancipium, questo passava per mortis causa al suo erede.
Questo soggetto poteva essere liberato tramite manumissio. Il manumissor diveniva
patrono.
legittimo (iustae nuptiae) e il nato da madre romana all’interno di nozze non legittime. Si
poteva divenire cittadini romani in più casi:
Gli alleati italici per effetto della costitutio Antoniniana (di Antonino Caracalla) del
2
212 d.C.
Quelli che, liberamente o per sfuggire alla pena di morte, sceglievano l’esilio.
→ I latini: erano una categoria privilegiata di peregrini. Primi fra tutti i Latini priscii,
abitanti delle città laziali vincolate a Roma da alleanza e formalmente sovrane. A parte lo
ius migrandi – che consentiva di divenire cives romani a tutti coloro si fossero trasferiti
nella città di Roma – i Latini conservavano le proprie istituzioni di diritto pubblico e
privato. Godevano del ius commercii e del ius connubii e potevano essere destinatari di
testamento del cittadino romano. Ai priscii furono assimilati coloro che si stabilivano
nelle colonie fondate da Roma, i Latini Coloniarii. Gli schiavi liberati nelle forme
pretorie e i minori di trent’anni manomessi senza le garanzie stabilite dalla legge Aelia
Sentia divenivano Latini iunianii.
→ I peregrini dediticii: il gradino più basso della categoria dei peregrini è quello dei
peregrini dediticii, membri delle collettività straniere che si erano arrese a Roma senza un
accordo e all’interno delle quali il vincitore aveva abrogato l’ordinamento nazionale.
Partecipavano solo allo ius gentium e non al diritto privato. Le diverse categorie di
peregrini vennero a mano a mano assimilate ai cives, in seguito alla “guerra sociale” e alla
costituzione e per effetto della costituzione di Caracalla.
Le persone giuridiche
2
iuris. Ai sui iuris si contrapponevano gli alieni iuris, soggetti ad altrui potestà, che poteva
essere dominium, mancipium, patria potestas e manus. Gli alieni iuris della familia
giuridicamente intesa erano i filii familias e le donne in manu. La familia proprio iure
dicta era quella composta da una sola persona sui iuris, che, se maschio, esercitava
potestas sui filii e sulla moglie. La familia è un’istituzione arcaica, contenuta già nello ius
Quiritium. Ad avere capacità giuridica erano i sui iuris. Potevano essere maschi o
femmine, indipendentemente dall’età. I maschi sui iuris sono chiamati nelle fonti
giuridiche pater familias, indipendentemente dall’avere dei figli. Solo i pater familias
potevano avere filii sotto la propria potestà. Le donne mai: pur essendo sui iuris queste
erano membri di una famiglia che comprendeva solo la loro figura (familiae suae et caput
et finis), in quanto incapaci di esercitare patria potestas.
4.5.2 Il matrimonio
Il matrimonio giuridicamente riconosciuto era quello legittimo (iustae nuptiae), il
connubium, che necessitava il consenso dei due sposi che fossero già in età pubere. Il
connubium era l’attitudine a vivere in matrimonio legittimo con l’altro coniuge. Si
trattava di una capacità civile, che aveva effetti non per sé ma in relazione al coniuge.
Esso sussisteva tra cittadini romani. Il divieto di connubium fra plebei e patrizi fu abolito
con la lex Canuleia del 445 a.C. Il divieto di matrimonio tra parenti era vietato in linea
retta senza limiti di grado, in linea collaterale inizialmente fino al sesto grado, poi al
quarto e infine al terzo. I matrimoni tra affini erano proibiti in linea retta e in linea
Le persone
collaterale fino al secondo grado. Una situazione di impedimento era quella del lutto
vedovile: il connubium era infatti vietato solo fino allo scadere del tempus lugendi (tempo
di pianto), che era di dieci mesi dalla morte del marito. La violazione di questo era
punibile inizialmente solo sul piano sacrale. Successivamente, invece, subentrò con editto
pretorio l’infamia, che obbligava la vedova a diverse sanzioni: la rinuncia ai lasciti del
2
Solo i figli nati da nozze legittime erano ritenuti legittimi e cadevano sotto la patria
potestas.
Tra coniugi vi era il dovere di fedeltà: in caso di infedeltà si era sottoposti a sanzioni
patrimoniali, come la restituzione della dote dopo la separazione. In caso di adulterio
femminile, la donna poteva anche essere uccisa dal marito.
Era esclusa l’azione penale per furto. Se la donna avesse sottratto al marito beni
patrimoniali in vista del divorzio, egli poteva agire con l’actio rerum amotarum,
reipersecutoria e non infamante.
Le persone giuridiche
Contro l’actio rei uxoriae per la restituzione della dote, al marito si concedeva il
beneficium competentiae.
4.5.4 Il divorzio
Le cause dello scioglimento del matrimonio dipendevano dalla sua struttura ed erano con
2
essa coerenti. Oltre che per morte, il matrimonio si sarebbe sciolto se in uno o entrambi i
coniugi, fosse venuta meno l’affectio maritalis: Si parla in questo caso di divortium (da
divertere = allontanarsi). Nel caso di divorzio unilaterale si parla di ripudium. Per il
divorzio non era richiesta alcuna formalità: l’eccezione era costituita dal matrimonio cum
manu, poiché, affinché la donna fosse liberata dalla manus, occorreva ricorrere a negozi
formali. Comunque, il divorzio comportava lo scioglimento del matrimonio qualunque ne
fosse la causa: il coniuge che però vi avesse dato motivo sarebbe stato sanzionato.
Dapprima la sanzione avveniva con nota censoria, poi con l’aggravamento della posizione
del colpevole nell’actio rei uxorie, quindi nella restituzione della dote. Con il subentro del
Cristianesimo, il matrimonio iniziò dalla religione ad essere considerato indissolubile: il
diritto romano però, pur ostacolandolo, non lo abolì. Il ripudio fu invece ritenuto lecito
soltanto entro certi casi tassativi, cosiddetti di divortium bona gratia, in presenza di validi
motivi e non imputabili a nessuno dei due coniugi. Il divorzio fu consentito in altre ipotesi
tassative, che comportassero grave comportamento del coniuge. Altrimenti, il ripudio
sarebbe stato sine causa: il matrimonio si scioglieva ugualmente, ma il coniuge sarebbe
stato soggetto a gravi sanzioni. La volontà di divorziare doveva essere manifestata per
iscritto e notificata dall’altro coniuge attraverso libellus repudii, oppure attraverso
testimoni. Diversamente, il matrimonio sarebbe rimasto valido.
4.5.5 La dote
La dote (dos) è un istituto del diritto romano arcaico, che consisteva in uno o più cose o
diritti che la moglie, il pater familias o un terzo incaricato, conferivano al marito. Era
detta profeticia se fatta dal pater, adventicia negli altri casi. La funzione della dote va
posta in funzione del matrimonio cum manu, per far sì che la donna, che usciva dalla
famiglia originaria e entrava in quella del marito, godesse di un compenso pari alle
aspettative ereditarie da lei perse. Per i giuristi classici, la dote era un contributo ad
sustinenda onera matrimonii (per sostenere le spese matrimoniali): alla fine del
matrimonio, la dote doveva essere restituita alla moglie, affinché questa potesse esser
mantenuta in quanto vedova o divorziata. La dote poteva essere concessa in tre forme:
La dote poteva essere costituita sia prima del matrimonio o in previsione di questo, sia
durante il matrimonio. Se costituita prima, dotis dictio e promissio dotis si trovavano in
condizione sospensoria ed avrebbero avuto effetti dopo il compimento del matrimonio,
pena il rifiuto ipso iure. La dotis datio produceva immediatamente effetto, ma il marito, a
causa di mancato matrimonio, per condictio, doveva restituire quanto dato in dote.
Sebbene il marito fosse, a livello giuridico, titolare dei beni dotali, essi, sul piano sociale,
erano considerati di proprietà della moglie: a lei infatti dovevano essere restituiti i beni
allo scioglimento del matrimonio e non a caso si parlava di res uxorie, “cose di lei”.
Inoltre, subentrò una legge per cui il marito non poteva alienare beni immobili dotali, se
non con il consenso della moglie. Pertanto, la dote godeva di carattere ibrido, in quanto il
marito ne era titolare, ma la moglie proprietaria. L’obbligo del marito, sancito da actio rei
uxorie, poteva essere assunto al momento della stipulatio e, in questi casi, ci si appellava
ad actio ex stipulatu. La rei uxorie prescindeva da ogni precedente stipulatio ed era
un’azione in personam e in ius. Richiedeva un matrimonio sine manu e lo scioglimento di
questo per poter agire. Era un’zione a carico della moglie o del di lei pater familias ed era
intrasmissibile, ossia non ne potevano beneficiare i loro eredi. In caso di scioglimento per
morte della moglie, la dote rimaneva al marito. Nell’ambito dell’actio rei uxorie, il marito
poteva godere di beneficium competentiae, ossia, in caso di denaro o beni fungibili,
avrebbe potuto restituire la dote a rate (eccetto se colpevole di adulterio). In particolari
circostanze avrebbe potuto trattenere parte della dote, le cosiddette retentiones.
Giustiniano abolì il rei uxorie, sostituendolo con un’actio ex stipulatu che prescindeva da
una precedente stipulazione ed abolì il complesso sistema delle retentiones.
2
filius familias, passando da essere sui iuris ad alieni iuris, e sottostante la potestà
dell’adrogante, al di sotto di cui cadevano anche le persone che prima erano
soggette alla potestà dell’adrogato. Erano dell’adrogante anche i beni e i diritti
soggettivi, ma non i debiti che venivano estinti.
→ Adoptio: l’adoptio riguardava gli alieni iuris e attraverso questa, egli passava
dalla famiglia d’origine a quella adottante, eludendo la potestas del padre e
passando sotto la potestas dell’adottante. La perdita della potestas avveniva
quando il padre mancipava per tre volte il figlio all’adottante: egli, acquistandolo
in causa mancipii, dopo la prima e la seconda volta, lo manometteva. Con la terza
mancipatio, il padre perdeva la potestas sicché l’adottante lo riempancipava.
Questa volta il padre naturale acquistava l’adottando non più come filius ma come
persona in causa mancipii. A quel punto il magistrato interrogava i tre soggetti
circa la loro volontà: quando il pater familias naturale taceva, l’adozione era
avvenuta. Giustiniano semplificò la procedura, che dispose di dichiarazioni di
volontà del padre naturale e di quello adottivo.
La patria potestas implicava la soggezione dei figli, sui quali il padre esercitava un potere
assoluto e illimitato, che si manifestava nel ius vitae ac necis (diritto di vita e di morte):
godevano di una situazione alla stregua degli schiavi. Successivamente, questo atto venne
regolato da sanzioni sacrali contro l’abuso di tale diritto, poi ancora intervenne il censore
e successivamente sanzioni criminali alla stregua di un’uccisione di un uomo libero. A
quanto scrive Costantino, l’istituto andò lentamente scomparendo già alla fine dell’età
classica.
Dapprima, la posizione giuridica dei figli era pari a quella degli schiavi: privi di capacità
giuridica, essi acquistavano per il pater familias, che, in caso di illecito, poteva essere
soggetto ad azioni nossali. Disponevano di un peculio, con cui conducevano negozi,
Le persone
trasferendo la proprietà al padre. Con questi atti, contraevano obbligazioni naturali, che
acquistavano rilevanza giuridica sul padre. La condizione andò con il tempo
modificandosi: la vittima dell’illecito, ad esempio, fu autorizzata ad agire direttamente sul
figlio e non sul padre. Assai più antico è poi il riconoscimento della capacità dei figli di
assumere con atto lecito delle obbligazioni civili: a) venne riconosciuto solo ai figli
2
maschi. b) contro i figli, i terzi potevano procedere con l’azione di cognizione per
l’accertamento e con sentenza, ma non potevano agire esecutivamente. L’esecuzione
poteva verificarsi solo quando il figlio smetteva di essere filius familias e diveniva pater
familias. Pertanto, venne applicato un regime di responsabilità cosiddetta adiettizia e
dell’azione tributaria: i figli potevano stare in giudizio, inizialmente nomine alieno,
successivamente in nome proprio. Con il tempo, si finì per affermare che i figli avessero
beni propri. Augusto concesse infatti ai figli militari (milites) di poter disporre
validamente per testamento dei provenienti dal servizio militari e dei beni con tali
provenienti acquistati. Si parlò pertanto di peculio castrense, di cui il figlio poteva
disporre sia mortis causa, sia con atti inter vivos, sia a titolo oneroso, sia a titolo gratuito:
il padre non avrebbe potuto avocarlo a sé. Il regime del peculio castrense fu esteso poi ai
beni e alle proprietà acquistate con il ricavo di attività civili, forensi e del sacerdozio. Si
parlò di peculio quasi castrense. Erano di proprietà dei figli anche i beni dotali
provenienti dalla madre (bona materna) o dei beni provenienti da lato materno ma non
direttamente dalla madre (bona materni generis). Era proprietario dei beni acquisiti con il
matrimonio e, con Giustiniano, dei beni acquistati non provenienti dal padre. Vennero
definiti come bona adventicia (o peculium adventitium). L’amministrazione e il
godimento spettava comunque a quest’ultimo. Si parlò dunque di usufrutto.
La posizione di figlio poteva mutare per cause diverse. Essi potevano essere mancipati dal
padre per divenire personae in causa mancipii. Nel caso dell’adoptio, il figlio cadeva
sotto la potestà del pater familias adottivo. La figlia poteva cadere sotto la manus del
marito. I figli potevano uscire dalla famiglia anche per perdita della libertà o della
cittadinanza. Cessata la patria potestà, il figlio diveniva sui iuris. La patria potestà si
estingueva generalmente con la morte del padre e non dipendeva quindi dall’età. Cessata
questa, i maschi divenivano a loro volta pater familias. alla morte del padre, era
equiparata la perdita della libertà e della cittadinanza, istituto di ius civile. Non poteva
quindi essere esercitata da un non cives né tantomeno da un servo. Poteva accadere che un
filius uscisse dalla potestà paterna, ancora vivo il padre. il procedimento escogitato era
l’emancipatio, che funzionava con procedimento simile all’adoptio: tre mancipationes
successive a persona di fiducia, la prima e la seconda, da manumissio. Il figlio veniva
riemancipato dal padre, che lo manometteva. Con ciò, egli diveniva sui iuris. Cessava di
Le persone giuridiche
2
della conventio in manum. Essa poteva avvenire nell’ambito del matrimonio o
indipendentemente da questo. Nel caso del matrimonio, riguardava o le donne sui iuris o
le filiae familias. Le prime passavano da condizione di sui iuris ad alieni iuris, sotto la
potestà del marito o eventualmente del suocero, uscendo dalla famiglia di origine. La
conventio poteva avvenire tramite confarreatio, coemptio e usus.
→ Usus: consisteva nel fatto in sé della convivenza coniugale protratta per più di un
anno, alla quale la donna poteva sottrarsi passando tre notti consecutive lontana
dall’abitazione coniugale.
→ Coemptio: era una mancipatio adattata al fine dell’acquisto della manus: oggetto
ne era la donna, acquirente il marito. Scomparve in età postclassica.
La donna era considerata alla stregua di una figlia per il marito, di una nipote per il
suocero, di una sorella per i suoi figli. Pertanto, l’estinzione della patria potestas era
simile a quella che avveniva per una figlia di famiglia. Tuttavia, si presentava un altro
rito: la diffareatio. Era uguale e contraria alla confarreatio e si estinse, come questo,
durate l’età classica.
dei cittadini romani, poteva perdersi nel caso in cui uno avesse perso la libertà e dunque
la cittadinanza. Diversa dall’agnatio era la cognatio, che invece implicava un vincolo di
sangue, sia in linea maschile che femminile. Venne maggiormente considerata quando il
pretore tenne conto di essa nel suo sistema di successione ab intestato e contro il
testamento. Nel diritto giustinianeo, alla cognatio furono riconosciuti gli stessi diritti
2
La capitis deminutio poteva dunque avere anche effetti giuridici dannosi: il testamento
sarebbe stato considerato invalido qualora il testatore avesse subito una di queste
condanne.
2
Il principio per cui alle persone libere, cittadine e sui iuris si riconosceva capacità
giuridica non ebbe valore assoluto: molte categorie (liberti, coloni, ecc.) furono infatti
soggette a diverse limitazioni giuridiche.
4.7.1 L’infamia
Le persone che erano responsabili di comportamenti riprovevoli, per l’esercizio di
determinate attività o per la condanna subita in certi giudizi, andavano incontro a
disistima sociale, che veniva definita infamia o ignominia – pertanto, si parlava di
infames o ignominiosae. Si trattava di persone dedite a mestieri turpi, che avessero subito
particolari condanne per crimina o actiones famosae o debitori che persistessero
nell’adempimento nonostante la proscriptio. Essi andavano incontro a diverse incapacità
di diritto pubblico (rivestire determinate cariche) e l’editto pretorio vietò loro di postulare
pro aliis (di proporre cioè istante giudiziarie nell’interesse altrui) e di porsi in giudizio sia
personalmente che come garanti per terzi. A carico delle donne di cattiva reputazione era
la negazione della capacitas di acquistare eredità e legati.
così considerati, ma a loro (figli di famiglia, schiavi, donne in manu e personae in causa
mancipii) erano riconosciute alcune azioni negoziali con trasferimento di proprietà al
padre/dominus.
4.8.1 L’età
2
Per il riconoscimento della capacità d’agire, uno dei requisiti fondamentali era l’età. In
base all’età, i giovani romani si dividevano in impuberi e puberi: gli impuberi erano
coloro che ancora non avevano capacità di generare, al contrario dei puberi. L’età pubere
venne fissata per le femmine all’età di dodici anni, mentre per i maschi il discorso si fece
complesso: i sabiniani sostenevano che dovessero essere singolarmente valutati in base
alle loro caratteristiche fisiche, mentre i proculiani ritenevano puberi i ragazzi che
avevano compiuto i quattordici anni. I proculiani vinsero. Gli impuberi si dividevano in
infantes ed infantia maiores: gli infantes erano coloro che non avevano capacità
d’eloquio, fino ai sette anni. Gli infantia maiores erano gli impuberi che avessero
superato l’infanzia. Ora, ai puberi era riconosciuta piena capacità d’agire. Agli infantes
nessuna capacità e agli infantia maiores limitate capacità, che comprendevano solo
negozi giuridici che comportavano acquisto di un diritto, non atti dispositivi o assunzione
di obbligazioni. Il problema sorgeva quando però ci si trovava di fronte ad un impubere
sui iuris: in questo caso veniva nominato un tutore per tutela impuberum e l’impubere era
detto pupillo.
La tutela degli impuberi era un istituto di ius civile nel senso stretto del termine. Essa
poteva essere legitima, testamentaria e dativa:
La tutela dativa invece riguardava la lex Atilia del 210 a.C. e prevedeva che un
pretore, sotto consiglio della madre, di un amico di famiglia o di un terzo, nominasse
il tutore dell’impubere.
La funzione del tutore era potestativa e protettiva insieme: oltre a garantire la sicurezza
dell’impubere, aveva il diritto di amministrare le azioni e le res patrimoniali per la
Le persone giuridiche
salvaguardia del patrimonio familiare. Sino all’età classica era un istituto accessibile solo
ai cittadini maschi. dall’età postclassica, si vide l’accesso anche delle madri vedove, a
patto che non si fossero risposate.
Prerogativa peculiare del tutore era l’auctoritas, che gli permetteva di gestire a pieno i
beni patrimoniali dell’impubere e di intervenire negli atti negoziale, ribadendo
2
ufficialmente la volontà dell’infantia maior a suo carico. Essi potevano acquistare e
trasferire negli interessi del pupillo, ma gli fu vietato di alienare fondi rustici e suburbani
e successivamente qualunque cosa non fosse bene di scarsissimo valore. Il tutore agiva
come rappresentante diretto. Per altri negozi, che implicavano effetti obbligatori, il tutore
si faceva personalmente carico di questi, salvo poi il trasferimento degli effetti
all’impubere, una volta cessata la tutela, al raggiungimento dell’età pubere. Il tutore
poteva essere chiamato a render conto delle proprie azioni tramite un’azione penale del
pupillo contro di questo, il quale era obbligato al risarcimento del doppio dei danni che
avesse arrecato dolosamente a danno del patrimonio pupillare. Successiva è l’actio
tutelae, un’azione reipersecutoria e infamante che obbligava il tutore al trasferimento di
diritti ed effetti che aveva assunto a nome dell’impubere. Vi era poi però anche un’actio
tutelae contraria, che prevedeva che il tutore potesse citare in giudizio un pupillo per il
risarcimento delle spese contingenti la gestione tutelare.
I minori di 25 anni
Si è ricordato che col raggiungimento della pubertà, i maschi acquistavano piena capacità
di agire. Tuttavia, si trattava di una regola in vigore in una società arcaica, dove i beni
erano principalmente rurali e gli istituti giuridici scarsi ed inefficaci. Pertanto, col
crescere dei commerci, si avvertì sempre di più il pericolo connesso al commercio di un
minore di venticinque anni, che fosse comunque ancora inesperto in materia. A favore
degli adolescenti subentrò la lex Laetoria del 200 a.C,: essa istituì un’azione popolare
contro chiunque avesse raggirato durante la negoziazione un minore di 25 anni. Cadde in
disuso in età postclassica. Tuttavia, il pretore decise di istituire altre due tutele verso gli
adolescenti: una prima che avvenisse l’esecuzione della negoziazione ed una dopo
l’avvenuta negoziazione, che permettevano al giovane di vanificare effetti contraibili e
già contratti. Per questo, venne affiancato all’adolescente un curatore, che non era
requisito fondamentale ma garanzia per un terzo nella contrattazione col minore, in
quanto questo non avrebbe potuto appellarsi agli strumenti pretori. Il curatore ovviamente
non avrebbe potuto amministrare direttamente il patrimonio del minore, ma comunque era
una figura di rappresentanza indiretta. Da età classica, si concesse – prima dall’imperatore
e poi dal magistrato – la venia aetatis, così che il minore avrebbe amministrato
Le persone
cui la capacità era totalmente negata, mentre i prodigi erano coloro che non dimostravano
attitudine per gli affari e tendenza allo sperpero, cui era negata solo in parte la capacità
d’agire. Certo, non potevano compiere atti di alienazione, dispositivi o assumere
obbligazioni. Essi erano soggetti a cura: si parlò di curator furiosi e curator prodigi. La
cura spettava all’agnatus proximus (cura legitima) o, in caso di sua assenza, ad un
curatore scelto dal magistrato (cura honoraria). I compiti del curator furiosi erano quello
di badare alla persona e amministrare il patrimonio, mentre il prodigi solo di
amministrare il patrimonio. Al curator furiosi era attribuito anche il compito di alienare le
proprietà del furioso, ma il prodigo neppure poteva compiere azione sotto supervisione
del curatore.
2
organizzazione interna, cui possano far capo diritti e doveri che non siano al contempo
diritti e doveri delle persone fisiche che le compongono. Vi è la possibilità di rapporti
giuridici tra ciascun associato e la corporazione, avendo questa e ognuno dei suoi
componenti soggettività giuridiche diverse. Per fondazione si intende un complesso
patrimoniale volto a uno scopo considerato esso stesso titolare dei beni che lo
compongono, e comunque delle situazioni giuridiche soggettive che a quel complesso
patrimoniale si collegano sì che i relativi rapporti giuridici non facciano capo che alla
fondazione stessa.
4.10.1 Le corporazioni
Le piae causae
Un altro spunto si trovò nelle costituzioni imperiali del Basso Impero. Già in età classica
era usuale disporre dei legati in favore di civitates con l’onere di devolverne il reddito in
favore della cittadinanza o di certi strati di essa, i più umili. In età postclassica, si diffuse
la pratica di disporre lasciti o donazioni in favore di corporazioni religiose vincolandone
il reddito a scopi di culto o di beneficienza: si parlò di piae causae.
Le persone giuridiche
2
5. Le cose
5.1 Le res
Il termine ‘res’ assumeva nel mondo romano significati molteplici, come oggetto, entità
materiale, porzione limitata del mondo esterno, secondo i comuni criteri sociali ed
economici di valutazione. Nel diritto moderno si parla di ‘beni’, e vi rientrano animali,
terreni ed edifici. Nel mondo romano vi rientravano anche gli schiavi.
Res
Cose in
Cose fuori commercio
2
commercio
Res publicae Res humani
Res divini iuris (se destinate
all'uso pubblico) iuris
Res
Res mancipi (per trasferirle era necessaria la mancipatio o in iure Res nec
cessio) mancipi
Tutto il resto
Fondi su Animali da Servitù
Schiavi (bastava la
suolo italico tiro e da soma rustiche
traditio)
Si dissero res mancipi i fondi sul suolo italico (sia terreni sia edifici), gli schiavi, gli
animali da tiro e da soma e le servitù rustiche. Tutte le altre si dissero nec mancipi. Le
prime erano le cose più preziose per la società romana arcaica, a tal punto che per esse si
richiedeva trasferimento di proprietà con la mancipatio o con la in iure cessio. Per le nec
mancipi bastava la traditio. Si ebbe tale distinzione sino all’età classica, perdette valore
durante l’età postclassica con l’indebolimento della mancipatio, la scomparsa della in
iure cessio e la sempre maggior rilevanza della distinzione tra beni mobili ed immobili.
Scomparve del tutto con Giustiniano.
Le persone giuridiche
2
ebbe alcun rilievo nel trasferimento di proprietà, mentre lo ebbe per l’usucapione e la
difesa del possesso. Fu in età postclassica che tale classificazione iniziò a ratificare per il
passaggio di proprietà, con l’obbligatorietà di scrittura per le donazioni e per le vendite di
immobili.
→ Genere e specie
Si dicono consumabili le cose che consentono un solo utilizzo, il quale le rende poi
inesistenti, mentre inconsumabili quelle che permettono uso continuato.
Si dicono divisibili o viceversa a seconda che siano o non divisibili senza perire o senza
pregiudizio economico.
Le cose semplici sono quelle che costituiscono un’unità naturale, quelle composte le cose
costitute da più cose semplici assemblate artificialmente ma riconoscibili individualmente
e collettive con riguardo a più cose semplici non congiunte tra loro ma considerate
unitariamente.
Le persone
5.1.6 I frutti
Furono ritenuti frutti quelli naturali, cioè prodotti di piante ed animali, che valevano
giuridicamente come tali una volta separati dalla fonte: prima erano considerati frutti
pendenti, ossia partes della fonte. Si discusse se fossero frutti i parti della schiava, ma la
2
risposta fu negativa. Erano frutti le attività lavorative dei servi e, alla loro stregua, i frutti
civili, ossia il corrispettivo che si otteneva concedendo una cosa in godimento.
5.3 La proprietà
La proprietà è un diritto soggettivo reale per cui al proprietario, che è titolare, si
riconosce sulla cosa che ne è oggetto una signoria generale. Non è possibile determinare
in astratto le facoltà del proprietario, ma, in generale, riguardano il godimento e la
2
disponibilità pieni ed esclusivi della cosa. Tali facoltà possono subire limitazioni: quelle
da parte dell’ordinamento giuridico sono dette limitazioni legali, ma possono sussistere
anche limitazioni volontarie, potendo le facoltà di godimento essere compresse dal
proprietario con la reazione di diritti reali limitati, alla cui estinzione, le facoltà di
godimento del proprietario tornando ad essere estese. Si parla di elasticità. Il diritto di
proprietà è dunque un diritto soggettivo di natura reale, che ha come oggetto signoria
generale su una cosa. Un diritto che può essere acquistato ma non esercitato e tuttavia,
pur non esercitandolo, non può essere perso: la perdita si ha solo in determinati casi. Si
parla di diritto imprescrittibile. Il proprietario è anche possessore, ma può non esserlo e
tuttavia restare proprietario, godendo del diritto al possesso, che non pregiudica
comunque l’estinzione del diritto.
Le comunità preciviche non riconoscevano la proprietà privata dei beni immobili: le terre
appartenevano alla collettività, costituendo ager publicus, ed erano adibite al pascolo. Più
in là, fu concesso che fossero lasciate al godimento esclusivo di privati per estensioni
talora notevoli, dapprima in forza di provvedimenti a carattere generale e comunque
2
Il potere assoluto e illimitato che garantiva il diritto di proprietà era uno ius utendi et
abutendi re sua, ossia il diritto di usare ed abusare della cosa propria. Il diritto romano
non conobbe un divieto generale dei cosiddetti atti emulativi: a Roma si diceva che
l’esercitare un proprio diritto non andasse a ledere nessuno. Il carattere assoluto emerse
anche nel III sec. d.C., quando la proprietà immobiliare fu esente da tributi. Le imposte
furono inserite solo da Diocleziano nel 292. Il dominio quiritario sugli immobili si
estendeva inoltre illimitatamente sia in altezza che in profondità. Si deve notare ancora
che il rito della limitatio consentiva ai proprietari libero accesso ai propri fondi e riduceva
pertanto possibili interferenze tra vicini: ciò valeva anche per gli edifici, in cui il limes era
chiamato ambitus. Tuttavia, iniziò a diffondersi anche l’assegnazione senza limitatio, per
cui si dava il caso di fondi confinanti: gli agri arcifinii. Si garantiva però ai proprietari un
accesso indipendente, visto anche che il diritto romano non obbligava un proprietario a
permettere il passaggio sul suo fondo del proprietario del fondo adiacente per l’accesso.
Limitazioni legali
2
Usucapio
Una prima distinzione è tra modi di acquisto iuris civilis, esclusivi dei cittadini romani, e
modi di acquisto iuris gentium, estesi anche agli stranieri. Nella prima categoria rientrano
la mancipatio, la in iure cessio, la usucapio, mentre nella seconda l’occupazione,
l’accessione, la specificazione, la traditio.
Altra distinzione è tra i modi d’acquisto a titolo originario e quelli a titolo derivativo. I
primi prescindono da qualsiasi tipo di rapporto con il precedente proprietario: possono
avere ad oggetto una res nullius, una cosa di nessuno, o una cosa d’altri, basta che
l’acquisto abbia luogo indipendentemente da ogni relazione col precedente proprietario. I
secondi sono quei modi in cui l’acquisto dipende dalla trasmissione che ne fa il titolare,
talché esiste una evidente connessione tra il diritto di chi trasmette (auctor o dante causa)
e quello di chi acquista (avente causa). Nei due casi sono diversi gli stessi presupposti
dell’effetto acquisitivo e diversi sono i contenuti e l’ampiezza del diritto acquistato: negli
originari rilevano solo l’acquisto e le modalità d’attuazione, nei derivativi la proprietà
viene acquistata così com’è presso colui che l’ha trasmessa: uno non può trasmettere più
di quanto possieda (Nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet), oppure il
trasferimento avviene con i conseguenti diritti reali limitativi o con gli schiavi.
Altri modi d’acquisto sono i modi costitutivi o derivativo-costitutivi, per cui taluno
diviene titolare di un diritto soggettivo che si costituisce ex novo, e quindi in precedenza
autonomamente inesistente sotto il profilo giuridico. È il caso dell’usufrutto: il
proprietario non è usufruttuario della cosa propria, e pertanto l’usufruttuario acquista un
diritto nuovo che ha però la sua radice nella proprietà piena del costituente. L’usucapione
non è propriamente classificabile tra i modi d’acquisto elencati.
Sono tutti a titolo particolare, in cui cioè il bene è direttamente individuato. Esistono poi
modi a titolo universale, che sono quelli in cui l’acquisto di beni o diritti consegue
Le persone
L’occupazione
È un modo d’acquisto originario dello ius gentium: consiste nella presa di possesso di
2
cose che non appartenevano a nessuno (res nullius) come gli animali allo stato selvatico,
le cose trovate sulla riva del mare, le cose sottratte al nemico ecc. L’azione aveva valore
anche per le res derelictae, le cose abbandonate, solo se res nec mancipi: se res mancipi il
proprietario manteneva il dominio finché un eventuale occupante ne fosse divenuto egli
stesso proprietario per usucapione. Si parla poi di tesoro, consistente in denaro e preziosi
rimasti sepolti da tempo immemorabile: inizialmente si riteneva che questo fosse di
proprietà di chi possedeva il fondo dove era stato rinvenuto, successivamente l’imperatore
Adriano stabilì che metà spettava al proprietario del fondo e metà a chi l’avesse
rinvenuto.
L’accessione
Si intende una varietà di fenomeni per cui una cosa corporale subisce un arricchimento,
un incremento, un completamento, per l’aggiunta di un’altra cosa che non appartiene allo
stesso proprietario. La cosa che subisce incremento è detta principale e l’altra aggiuntiva,
a vantaggio del proprietario della cosa principale. È a titolo originario e non prevede il
consenso del proprietario della cosa accessoria. Un caso è quello dell’unione di cose di
qualità diverse, in modo tale che la principale permetta la funzione del tutto. Si dice
unione organica quando infatti si ha compenetrazione di corpi, come nel caso della
semina, della tintura o della ferruminatio, unione di due oggetti metallici. Sono
considerati tali anche gli incrementi fluviali: l’alveo abbandonato per cui proprietari di
fondi rivieraschi non limitati estendevano il dominio sino alla linea mediana del fiume o
l’insula in flumine nata che cadeva in proprietà dei fondi non limitati opposti, con confine
segnato dalla linea mediana del fiume. Altra significativa ipotesi è quella della
inaedificatio, consistente nella costruzione di un edificio con materiale appartenente a
persona diversa dal proprietario del suolo. Il dominio quiritario, ora, si estendeva senza
limiti in profondità ed in altezza, per cui il proprietario del suolo diveniva
automaticamente proprietario dell’edificio, ma non dei materiali con cui esso era stato
fatto. Essi non perdevano con l’utilizzo le connotazioni originarie, sicché demolito
l’edificio, potevano essere rimpiegati. Poteva accadere che taluno costruisse su terreno
proprio con materiale altrui: era proprietario dell’edificio ma non dei materiali, su cui si
esercitava la proprietà quiescente dell’altra parte: essa avrebbe dovuto attendere la
demolizione dell’edificio per tornare in possesso dei materiali, ma non poteva
pretenderla. Finché durava la costruzione, il proprietario del suolo non avrebbe potuto
Le persone giuridiche
2
suolo, quindi se in buona fede.
La specificazione
È un modo d’acquisto a titolo originario che prevede la trasformazione di una cosa altrui
sino a farne un’altra cosa, che nel comune apprezzamento appare nuova. Per i proculiani,
la specificazione comportava l’acquisto della res nova, per i sabiniani che il proprietario
della materia ne avrebbe mantenuto il dominio dopo la specificazione. In età classica
emerse una tesi intermedia, che riguardava la reversibilità o meno della materia di
specificazione: se questa fosse stata reversibile, la proprietà restava al dominus della
materia, se non lo fosse stata, lo specificatore l’avrebbe acquistata come res nova.
Esse avevano struttura poco o niente adeguata per atti traslativi perché era solo chi
acquistava che in queste aveva ruolo attivo. Per la in iure cessio, basti dire che il suo
carattere processuale venne adattato a funzioni negoziali. Per la mancipatio, si deve
invece far capo alle procedure che il rito stesso implicava, rimanendo queste tali anche
dopo il suo superamento. L’idea di proprietà come diritto soggettivo che di per sé
prescinde dal possesso, si affermò il principio per cui l’acquisto del mancipio accipiens o
del cessionario di quel potere fu detto dominium quando subordinato all’esistenza dello
stesso potere rispettivamente nel mancipante e nel cedente. Queste trasferivano la
proprietà civile sulle res mancipi, ma il possesso solo nei beni mobili. Per gli immobili si
necessitava la traditio.
La traditio
Era un negozio bilaterale che si compiva con la consegna di una cosa, negozio iuris
gentium, poteva avere ad oggetto sia mobili che immobili e trasferiva comunque il
possesso. Quando ne erano oggetto res nec mancipi, la traditio trasferiva anche la
proprietà: aveva quindi effetti reali. A compierla doveva essere il proprietario, per il
semplice principio logico che taluno non poteva trasmettere più di quanto realmente
avesse. La consegna materiale poteva però mancare: bastava che il tradens facesse
conseguire all’accipiens la disponibilità della cosa come nella traditio symbolica e la
traditio longa manu. Mancava ancor più consegna materiale nella traditio brevi manu,
che si realizzava quando l’acquirente teneva già la cosa che l’alienante gli trasmetteva.
Le persone
Inverso è il caso del costituto possessorio: l’alienante trattiene presso di sé la cosa che
vende, talché al compratore che consente non viene fatta materiale consegna. La cosa si
intende tuttavia tradita. Non ogni consegna era traditio vera e propria ma solo quella per
cui la persona che riceveva acquistava il possesso, in cui la consegna della cosa venduta
vi era dal venditore al compratore. Non era traditio la consegna della cosa a scopo di
2
custodia, per cui l’acquirente aveva soltanto la detenzione della proprietà. Con la traditio
di res nec mancipi il proprietario trasferiva sia proprietà che possesso, secondo la
concorde volontà del venditore e del compratore. Il possesso che si acquisiva era uti
dominus, quale proprietario. Doveva ovviamente esservi una iusta causa traditionis, ossia
una ragione per la quale si procedeva a traditio e che giustificava l’acquisto. Potevano
essere molteplici, ma sempre in numero determinato: causa vendendi, causa donandi,
causa solvendi ecc. L’esistenza di una causa era indice della volontà delle parti di voler
effettivamente concludere il negozio. Si discusse a lungo se tale causa dovesse essere
direttamente esplicitata o bastava che le parti la credessero esistente: non fu mai presente
una risposta univoca, ma si propendeva per la seconda ipotesi. Pertanto, la traditio venne
considerata negozio astratto. Quando la proprietà passava, nonostante mancasse una
giusta causa effettiva, il tradens avrebbe potuto pretendere la restituzione mediante
condictio.
Era un atto mortis causa: un modo di acquisto derivativo a titolo particolare attraverso
disposizione testamentaria, con il quale il testatore attribuiva con le parole “do lego” una
cosa propria ad un terzo, detto legatario. Morto il testatore, il legatario acquisiva proprietà
civile su quella cosa. Effetti soltanto obbligatori aveva il legato per damnationem. Al
legato per vindicationem i proculiani equipararono il legato per praeceptionem.
L’adiudicatio
Era la pronunzia del giudice che traeva fondamento dalle formule dei giudizi divisori o
dell’azione per il regolamento dei confini. Il giudice dei giudizi divisori assegnava a
ciascuna parte una o più res tra quelle comuni oggetto della divisione: i comproprietari o
coeredi smettevano di essere tali, divenendo proprietari di una cosa in particolare. Era un
modo d’acquisto della proprietà. Nell’adiudicatio nell’actio finium regundorum i confini
che il giudice stabiliva venivano fissati in maniera incontrovertibile.
La litis aestimatio
L’eventuale condanna pronunziata dal giudice del processo formulare non poteva che
essere espressa in denaro: il possessore, con la rivendica del proprietario, soccombendo,
poteva anziché restituire il bene, subire condanna pecuniaria pari (litis aestimatio) al
Le persone giuridiche
valore della cosa rivendicata. Se la cosa era res nec mancipi, manteneva sia il possesso
che la proprietà ex iure Quiritium, se era res mancipi acquistava proprietà pretoria e aveva
un possesso valido ai fini dell’usucapione.
L’usucapione
2
Conosciuto oggi come prescrizione acquisitiva, ricordato nelle XII Tavole, consisteva
nell’acquisto della proprietà ex iure Quiritium, riservato solo ai cittadini romani. I
requisiti per questo furono: res habilis, titulus, fides, possessio, tempus.
Res habilis: le cose suscettibili all’usucapione dovevano essere res habilis, ossia
idonee ad essere usucapite. Ne erano escluse le res furtivae, cioè cose rubate e le
res vi possessae, prese quindi con la violenza. Non potevano essere usucapite
neppure da un terzo in buona fede, finché non fossero tornate in mano al legittimo
proprietario.
Tempus: l’usucapione era determinato dal decesso di un anno per le cose mobili e
da due anni per quelle immobili, tempo continuo e non interrotto. Per questo, alla
morte del possessore, il tempo non si interrompeva e proseguiva nelle mani
dell’erede come era stato lasciato dal possessore. Si parlò di successio
possessionis, cui si integrò l’accessio possessionis, per cui ugualmente accadeva
tra venditore e compratore.
Titulus / iusta causa: si necessitava di una ragione oggettiva che stesse alla base
dell’acquisto del possesso. Il titolo di tale pratica era pro emptore: il compratore
cui il venditore avesse trasmesso il possesso della cosa venduta ma non la
proprietà, o perché il venditore non ne era proprietario o perché, in caso di res
mancipi, avesse fatto traditio. Acquistavano possessio cum iusta causa il donatario
di una donazione reale (pro donato), il marito cui fosse stata costituita dote
mediante datio (pro dote) e il creditore cui fosse stata fatta solutio in
adempimento di un obbligazione di dare (pro soluto). Sussisteva anche il titolo
pro legato, trattante un legatario per vindicationem cui fosse stata legata una cosa
da un testatore non proprietario e pro derelicto, l’inventore di una res mancipi
derelicta. Usucapione vi era anche per missio in possessionem ex secundo decreto
per il danno temuto, il bonorum emptor per bonorum venditio e il bonorum
possessor per i beni ereditari, anche l’attore di un giudizio nossale per il servo
dato a nosso da non proprietario.
Le persone
Fides: verso la fine dell’età repubblicana, si richiese anche buona fede, ossia la
convinzione del possessore di non recare ad altri col proprio possesso ingiusti
pregiudizi. Essa doveva sussistere al tempo dell’acquisto del possesso: venuta
meno dopo, l’usucapione si verificava ugualmente.
Casi speciali erano poi l’usureceptio e l’usucapio pro herede: con quest’ultima, la
2
persona che avesse preso possesso di una sola cosa ereditaria, purché appartenente ad
eredità giacente, trascorso un anno avrebbe acquistato l’eredità nel suo complesso pure in
difetto di titolo e anche se in mala fede. Ciò nasceva dall’esigenza che un’eredità non
restasse a lungo deserta. In mancanza di eredi, non vi sarebbe stato nessuno che pagasse i
creditori ereditari e provvedesse ai sacra. In età preclassica, l’effetto acquisitivo fu
limitato alle singole cose ereditarie possedute. Con un senatoconsulto voluto da Adriano,
all’erede che avesse acquistato eredità successivamente si concesse una hereditatis petitio
ficticia contro il possessore in mala fede che avesse usucapito pro herede singoli beni, sì
che il giudice giudicasse come se l’usucapione non fosse mi avvenuto.
accadere che il convenuto possessore, prima della lite, avesse erogato delle spese sulla
cosa. Il convenuto, purché in buona fede, avrebbe potuto opporre l’exceptio doli,
reputandosi iniquo il comportamento dell’attore che insistesse nell’azione senza prima
aver rimborsato almeno talune spese. Con la conseguenza che, verificata l’exceptio, il
convenuto sarebbe stato assolto. Avrebbe in tal modo trattenuto la cosa. Si riconosceva
2
quindi lo ius retentionis: doveva trattarsi di spese necessarie, ossia senza le quali la cosa
sarebbe deperita o deteriorata e le spese utili, destinate al miglioramento della cosa. Non
si poteva pretendere il rimborso delle spese voluttuarie, ossia volte all’abbellimento della
cosa: il convenuto poteva tuttavia portare via gli oggetti delle spese voluttuarie, purché
non acquistati in possesso per accessione del dominus e non arrecanti danni alla cosa
stessa. Nessun rimborso era previsto per il convenuto in mala fede. La rivendica doveva
essere diretta contro il possessore, passivamente legittimato. Inoltre, il convenuto, per
essere assolto, avrebbe dovuto restituire anche i frutti percepiti dopo la litis contestatio e
risarcire i danni che la cosa, dopo la litis, avesse subito per suo dolo o colpa. Per lo stesso
motivo, poiché la rivendica non interrompeva il tempo dell’usufrutto in favore del
convenuto, si stabilì che il possessore che avesse usucapito prima della lite dovesse
ritrasferire all’attore la proprietà, e compiere l’idoneo atto traslativo. Il convenuto
soccombente, se non avesse restituito la cosa indicata, sarebbe stato condannato a pagarne
il valore.
La rivendica non era l’unico mezzo, seppur il più diffuso, a difesa della proprietà. Al
dominus spettavano anche le azioni negatorie di servitù e di usufrutto, di ius civile e di
natura reale, con clausola restitutoria, che garantivano al proprietario possessore azione
contro quanti esercitavano illegittimamente sul bene servitù e usufrutto. Vi era poi l’actio
aquae pluviae arcendae, che si davano al proprietario contro quello del fondo vicino,
qualora questo avesse deviato il corso delle acque piovane a vantaggio del suo fondo.
Essa prevedeva che o il convenuto o lo stesso attore ripristinassero il corso. Seguivano le
legis actiones in due casi: uno di questi era circa il danno temuto, ossia un danno non
ancora verificato che si temeva fortemente accadesse. Era a tutela del proprietario che
manifestava pericolo verso il suo fondo: ad esempio, quando l’edificio si un fondo
minacciava di crollare su un altro fondo, causando danno. Essa entrò in desuetudine
quando subentrò la cautio damni infecti, una stipulatio pretoria che prometteva il
risarcimento del danno. Contro colui che negava questo diritto, si emanava la missio in
possessionem, concedendo al missus libero accesso al fondo vicino: dunque, non il
possesso, ma la detenzione, al fine di sorvegliare e prevenire e inoltre di spingere l’altro
proprietario a prestare la cautio. Se ancora si fosse rifiutato, la detenzione diveniva
possesso ai fini dell’usucapione con una seconda missio, la missio in possessionem ex
Le persone
secundo decreto. L’interessato poteva anche far ricorso all’operis novi nuntiatio, quando
erano in corso opere di costruzione o demolizione che potevano ledere al suo fondo. Si
trattava di un’azione che si compiva prima che l’opera fosse terminata e che intimavano
al costruttore di sospendere l’esecuzione. Se questo si fosse rifiutato, il pretore, senza
alcun indagine, avrebbe emesso l’interdictum demolitorium, intimando il costruttore a
2
demolire quanto avesse costruito dopo la nuntiatio. Gli effetti sospensivi cessavano dopo
un anno, in seguito al quale si poteva proibire l’opera tramite vindicatio servitutis, nel
caso di opera che impedisse l’esercizio di servitù. Poi, con l’interdictum quod vi aut clam
si poteva ottenere la rimozione della costruzione attuata con la forza sul fondo dello
stesso attore. Poteva verificarsi, che in seguito a calamità naturali o altro, non si
riconoscessero più i confini di fondi rustici e sorgesse controversia. Il giudice allora, con
l’actio finium regundorum e tramite adiudicatio ristabiliva il confine con efficacia
costitutiva, essendo questa un modo d’acquisto della proprietà.
2
fronte a terzi e soccombeva di fronte al proprietario civile, o di tutela giudiziaria assoluta,
trionfando anche di fronte al proprietario civile. In questi ultimi casi il proprietario civile
viene qualificato come nudum ius Quiritium e il possessore teneva la cosa in bonis. I
classici parlarono di duplex dominium, configurando come dominium anche la posizione
del possessore che avesse la cosa in bonis. Si parlò di proprietà pretoria o proprietà
bonitaria.
Quiritium e assimilandosi la proprietà pretoria. Non vi fu più inoltre differenza tra fondi
italici e fondi provinciali, entrambi sottoposti ad imposte fondiarie. Circa i modi
d’acquisto, si andò oscurando la distinzione tra negozi astratti di trasferimento e relative
cause esterne, considerando come tali vendita e donazione. Il diritto giustinianeo
ripropose la visione classica, sebbene venne abolita la distinzione tra res mancipi e nec
2
mancipi, venuta meno anche la mancipatio. Rimase la sola traditio, in cui compravendita
e donazione assunsero il ruolo di cause. L’intervento di Costantino istituì una longissimi
temporis praescriptio, quarantennale, opponibile, a prescindere da titolo e buona fede, dal
possessore di un immobile. Giustiano propose la fusione tra usucapio e longi temporis
praescriptio, riferendo la prima ai beni mobili, la seconda agli immobili. Rimasero così i
requisiti per l’usucapione classica, eccetto il termine, che venne fissato a tre anni per i
mobili e a dieci o venti a seconda che i soggetti abitassero nella stessa provincia o in
province diverse. Furono estesi i requisiti anche all’usucapio pro herede. L’azione a
difesa del dominium rimase la rei vindicatio nella sua concezione classica, così come pure
le altre azioni a difesa della proprietà.
Si tratta del fenomeno della comproprietà, per cui più soggetti erano riconosciuti titolari
del diritto di proprietà sullo stesso bene. Era il consortium ‘ercto non cito’, ossia ‘dominio
non diviso’. Si costituiva alla morte del pater tra i suoi eredi o tra estranei per merito di
legis actio. Prevedeva che, pur senza il concorso degli altri eredi, un singolo erede potesse
gestire e fruire del bene e anche alienarlo, producendo effetti però comuni a tutti gli eredi.
Si parlò di proprietà plurima integrale, per cui ogni erede era proprietario per intero. Per
la divisione occorreva tra eredi legittimi l’actio familiae erciscundae, tra estranei, per lex
Licinnia, l’actio communi dividundo. Scomparve prima dell’ultima età repubblicana.
La communio era un altro tipo di comproprietà, che poteva essere volontaria o incidente,
quindi indipendente dalla volontà dei comproprietari. Una differenza era che ciascun
comproprietario possedeva una quota ben precisa del bene, una frazione del diritto di
proprietà: non più era proprietario per intero. Poteva quindi alienare la propria quota,
costituire su di essa usufrutto e pegno, partecipava alle spese in misura corrispondente la
sua quota, ne godeva in misura dei frutti e sempre pro quota rispondeva dei danni causati
a terzi. L’eco del regime del consortium va ritrovato sia nella regola per cui ciascun
comproprietario poteva, senza il consenso dell’altro, gestire la cosa e fruirne, sia nel
principio per cui spettava a ciascuno dei contitolari lo ius prohibendi, il diritto di veto.
L’idea della proprietà plurima integrale affiora in merito allo ius adcrescendi, al diritto di
Le persone giuridiche
accrescimento. Se un socio rinunciava alla sua quota, questa veniva spartita tra gli altri
comproprietari in misura al loro diritto sulla cosa comune. Un comproprietario era quindi
potenzialmente proprietario per intero, onde il suo diritto si espande naturalmente una
volta che non è più compresso da quello degli altri contitolari. Manifestazione dello ius
adcrescendi era il regime della manomissione di un servo da parte di un solo socio. Con
2
questo il servo non avrebbe acquistato la libertà, ma sarebbe servito ad accrescere la
quota degli altri comproprietari. La libertà giungeva quando tutti i comproprietari, anche
in momenti diversi, avessero proceduto alla manomissione. Giustiniano decretò che però
coloro che non volevano rinunciare al servo erano obbligati a vendere la loro quota a
colui che voleva procedere alla manomissione. Rimedio della divisione era l’actio
communi dividundo, che aveva fondamento nella lex Licinnia. Prevedeva processo
formulare con adiudicatio e condemnatio, specie quando ad essere comuni erano beni
indivisibili: si doveva procedere a fornire un equivalente in denaro. Infatti vigeva il dare e
ricevere reciproco tra i comproprietari per spese, frutti e danni relativi alla communio che
si andava a sciogliere. Si può dire che era quindi fonte di obbligazioni. Non poteva
prescindere dalla divisione giudiziale. Nel diritto giustinianeo, però, si utilizzò anche per
ottenere semplicemente il dovuto in relazione alla cosa comune, senza relativa divisione
obbligatoria.
Le servitù sono indivisibili: si costituiscono ed estinguono per intero, mai pro parte. Le
servitù si riconobbero quali entità giuridiche autonome dopo la legge delle XII Tavole,
avvertendo l’esigenza di stabilire dei servizi tra fondi. Non si pervenne mai a una
categoria unitaria di servitù, ma si individuarono singole figure di servitutes, dapprima
chiamate iura e poi res incorporales. Vi erano due servitù di passaggio, iter, passaggio a
2
piedi, e actus, passaggio con carri e animali, e quella di acquedotto. Alcune non erano
rappresentabili come il diritto di pretendere che il vicino non sopraelevasse o di attingere
acqua dal fondo vicino. Si distinse tra servitù rustiche e servitù urbane, le prime con res
mancipi, le seconde nec mancipi. Si definirono servitù soltanto i servizi tra fondi relativi a
fondi italici. L’estensione ai fondi provinciali è di età postclassica. La servitutes fu estesa
anche all’usufrutto e all’uso, servitù personali, ossia con assoggettamento di una res a una
persona nelle servitù personali. Tale concezione fu bandita dal codice napoleonico. Le
servitù si costituivano mediante negozi con effetti reali: per mancipatio le servitù
rustiche, per in iure cessio entrambe. Si utilizzò anche il pactio et stipulatio, un patto
accompagnato da stipulatio, l’uno e l’altro aventi oggetto la servitù. Si era fatto a questo
ricorso per le servitù provinciali, per costruire rapporti di natura analoga tutelati iure
honorario con azioni in factum. Si attribuirono effetti reali sia pure di diritto onorario.
Nel diritto giustinianeo questo divenne il modo generale si costituzione di servitù. Si
costituivano anche mediante exceptio servitutis o deductio servitutis, quando il
proprietario di due fondi, nell’alienarne uno mediante mancipatio, d’accordo con
l’acquirente costituiva tra essi servitù a carico del fondo che alienava e in favore di quello
che tratteneva. Si ammise anche in seno a traditio. Si poteva costituire anche mediante
adiudicatio, rientrando tra i poteri del giudice dei giudizi divisori. Altra costituzione era il
legato per vindicationem, che presupponeva che il legatario fosse proprietario di un fondo
e che l’altro fondo destinato ad essere servente fosse del testatore e da costui si
trasmettesse all’erede o ad altro legatario per vindicationem. Non poteva costituirsi
mediante traditio in quanto si trattava di res incorporales. Non si aveva per usucapione,
seppure una lex Scribonia lo vietò, presupponendo che in origine fosse possibile: ciò
rimase fino ad età classica e subì modifiche con Giustiniano. La servitù poteva
estinguersi: per confusione (quando due fondi appartenevano allo stesso proprietario), per
rinuncia, o remissio servitutis (mediante in iure cessio) e per non usus (mancato esercizio
continuato per due anni). In merito al non usus si distinse tra servitù rustiche e servitù
urbane: in quanto negative queste ultime, l’estinzione sarebbe stata determinata dal
comportamento incompatibile nell’esercizio della servitù del dominus del fondo
dominante. Si parlò di usucapio libertatis: il proprietario del fondo gravato usucapisce
dopo due anni la libertà del fondo liberandolo dalla servitù. Con Giustiniano fu sostituito
dalla longi temporis praescriptio. A difesa della servitù giovava la vindicatio servitutis, la
Le persone giuridiche
cui formula veniva ogni volta adattata in base al tipo di servitù. Venne definita anche
actio confessoria, per distinguerla dall’azione negatoria, che ne era l’opposto. In merito ai
fondi provinciali si parlò di actio in rem in factum, ma quando con Giustiniano vennero
assimilati ai fondi italici, l’azione non verrà più distinta da azione confessoria.
2
5.5 L’usufrutto
È un diritto reale limitato di godimento, ossia un diritto soggettivo reale di usare e
percepire i frutti di una cosa altrui senza alterarne la destinazione economica. Il titolare è
detto usufruttuario, il proprietario della cosa gravata, nudo proprietario. Esso nacque
come diritto autonomo nell’ambito dei matrimoni sine manu, per cui la moglie, non
entrando a far parte della famiglia del marito, avrebbe alla di lui morte lasciato l’eredità
alla sua famiglia d’origine. Per preservare il patrimonio ai figli e garantire alla vedova
esistenza dignitosa, si diede a questa usufrutto di alcuni beni sì che ne godesse in vita e li
trasferisse ai figli post mortem. Fu tutelato da vindicatio nel ius. Fu anche annoverato
come servitus, servitù personale. Oggetto dell’usufrutto potevano essere cose mobili e
immobili, mancipi e nec mancipi, purché inconsumabili e fruttifere, quindi res
corporales. Il titolare poteva anche legare l’usufrutto di tutti i propri beni. L’usufruttuario
poteva usare la cosa gravata e percepirne i frutti, che divenivano suoi dal momento
dell’effettiva percezione. Gli acquisti dello schiavo gravato da usufrutto andavano
all’usufruttuario se dipendevano dall’esborso di questo o dall’attività lavorativa del servo,
altrimenti al nudo proprietario. Egli doveva inoltre a sue spese fare manutenzione della
cosa gravata, affinché non perisse e non si deteriorasse, e non poteva cambiarne la
destinazione. A garanzia dell’adempimento degli obblighi all’usufruttuario si imponeva la
prestazione della cautio fructuaria, una stipulatio pretoria con la quale egli prometteva al
nudo proprietario la restituzione della cosa gravata allo scadere dell’usufrutto e di
utilizzarla secondo criteri di correttezza. L’usufrutto era a carattere personale: era
inalienabile e intrasmissibile agli eredi. Poteva essere ceduto, ma l’usufruttuario rimaneva
tale e si sarebbe estinto con la sua morte. Aveva una durata limitata nel tempo e doveva
estinguersi, se in favore di civitates, non oltre i cento anni dalla sua costituzione. Il primo
modo di costituzione fu il legato per vindicationem, oltre che la in iure cessio sulla base
di vindicatio usus fructus e audicatio e deductio. L’audicatio si aveva con azioni divisorie
se il giudice lo riteneva opportuno e la deductio quando taluno, nell’alienare la cosa
propria con mancipatio e in iure cessio, tratteneva l’usufrutto. Scomparse mancipatio e in
iure cessio, le altre due furono possibili in seno alla traditio. L’usufrutto si poté costituire
con pactio et stipulatio, fino ad età classica, limitatamente ai fondi provinciali e con
effetti iure honorario. Non si costituiva con traditio perché era res incorporales né per
Le persone
cosa, con la trasformazione della sua destinazione economica, con la rinuncia, con la
consolidazione, quando l’usufruttuario acquisiva la proprietà o il proprietario l’usufrutto e
per non usus, di un anno per i mobili e due per gli immobili. Al non usus si affiancò e poi
sostituì la longi temporis praescriptio. A difesa dell’usufruttuario impedito nell’esercizio
vi era la vindicatio usus fructus, un’azione con struttura simile a quella delle
vindicationes di servitù. Regime analogo aveva l’actio in rem che si dava per l’usufrutto
costituito con pactio et stipulatio su fondi provinciali, divenendo con Giustiniano tutt’uno
con l’azione confessoria.
5.7 L’usus
Diritto reale di godimento di cosa altrui era l’usus, che dapprima riguardò solo cose
infruttifere, poi tutte le altre. Il titolare, l’usuario, aveva diritto di utilizzare direttamente e
personalmente la cosa gravata ma non di percepirne i frutti: l’usuario di un animale ne
utilizzava la forza lavoro e non i prodotti, quello di un edificio poteva abitarvi, quello di
un fondo rustico consumarne i frutti per la sussistenza quotidiana e quello di schiavi
utilizzarne le operae. Non era divisibile, in quanto più usuari l’avrebbero utilizzato
unitariamente sull’intero bene. Il regime per il resto era uguale a quello dell’usufrutto.
Venne inquadrato come servitus, tra le servitù personali
Le persone giuridiche
2
credito al godimento dell’edificio già esistente o da lui stesso costruito, perché locazione
e vendita erano produttivi solo di effetti obbligatori: sull’edificio il superficiario non
avrebbe acquistato proprietà né un diritto reale. Il pretore ritenne doveroso assegnare al
superficiario una tutela ulteriore rispetto a quella che gli derivava dai contratti di
locazione e vendita, una tutela di tipo possessorio, con l’interdictum de superficibus
contro turbative al godimento della superficie provenienti anche da terzi e per il recupero
della superficie contro l’autore dello spoglio. In età classica, si intervenne con un’azione
in factum contro chiunque tenesse il godimento della superficie al posto del superficiario.
Pertanto, venne considerato come un diritto reale limitato di godimento di cosa altrui,
ammettendone la trasmissione mortis causa e inter vivos, l’usufrutto e la servitù, l’operis
novi nuntiatio e la cautio damni infecti. Il corrispettivo o canone, generalmente annuale,
cui era tenuto il superficiario era il solarium. In età giustinianea, tale proprietà fu
assimilata all’enfiteusi.
5.10 L’enfiteusi
In età postclassica vennero meno le concessioni degli agri vectigales e si svilupparono
altri tipi di concessioni: il ius perpetuum e il ius enphiteutitcum. L’enfiteusi venne
Le persone
fondiaria, per mancanza verso il concedente e per confusione. Venne considerata come
diritto reale di godimento su cosa altrui, estendendo ad essa il regime classico dell’ager
vectigalis.
Costantino, mentre lo ius vendendi divenne elemento essenziale del pegno, escluso solo
da patto contrario. Circa gli effetti della vendita, bisogna dire che il creditore veniva
autorizzato ad alienare la cosa ma non a manciparla, quindi venderla tramite traditio: in
caso di res mancipi, il compratore ne avrebbe acquistato possesso ad usucapionem e
quindi proprietà pretoria, mentre proprietà quiritaria in caso di res nec mancipi. Nel caso
2
in cui non si trovasse un compratore, il creditore aveva il diritto di acquistare la proprietà
del pegno previa istanza rivolta all’imperatore. La conventio pignoris non trasferiva
immediatamente il possesso e poteva accadere pertanto che la cosa fosse in pegno a più
creditori in tempi e per obbligazioni diversi: si aveva un rango di precedenza tra questi
secondo il criterio prior in tempore potior in iure, ossia precedente nel tempo prevalente
nel diritto. Di rango maggiore non era il creditore col debito più antico, ma quello presso
il quale l’ipoteca fosse stata convenuta prima. Ai creditori di grado inferiore, era concesso
il ius offerendi: offrendo quanto dovuto al creditore di grado superiore, quello di grado
inferiore gli subentrava nel rango. Il pegno si estingueva per adempimento, per perimento
della cosa che ne era oggetto, per confusione, per vendita in esecuzione del ius vendendi e
per inadempimento, fino a Costantino, col patto commissorio. La rinuncia del creditore
avveniva per effetto dell’exceptio pacti conventi, opponibile all’azione Serviana.
Subentrò con Giustiniano la longi temporis praescriptio, come modo di estinzione della
garanzia.
5.12 Il possesso
Nell’ambito delle terre pubbliche, i concessionari erano detti possessores, il loro potere
possessio e l’esercizio di questo possidere. A questi, il pretore riconobbe provvedimenti
utili, gli interdicia, contro molestie e spossessamenti. Vennero estesi a quanti avessero
l’usus di un immobile ai fini dell’usucapione, o lo tenessero come proprio. Si estese anche
ai precaristi, a creditori pignoratizi, a sequestratari e a quanti tenessero bene mobile. Il
regime del possesso andò quindi oltre la sua originaria definizione, per motivi di
opportunità: si doveva assicurare la difesa possessoria e attribuire relativa qualifica a
soggetti che avessero in ordine alla cosa o in forza di posizione indipendente il controllo.
Erano esclusi coloni, inquilini, soggetti a contratto di locazione, depositari, comodatari,
usufruttuari, servi e filii familias: il possesso vero e proprio era tenuto rispettivamente da
locatore, deponente, comodante, nudo proprietario, dominus e pater familias. tali soggetti
vennero definiti detentori: esercitavano il naturalis possidere e avevano naturalis
possessio, un possesso quindi senza gli effetti giuridici propri di questo.
Le persone
I soggetti che tenevano una vera possessio erano tutelati dagli interdicta, volti o alla
conservazione o al recupero del possesso. Quelli volti alla conservazione – la nostra
2
Interdictum unde vi: riguardava le sole cose mobili, si dava entro l’anno a chi
avesse subito spoglio violento del possesso ed era volto al recupero del possesso.
La nostra azione di reintegrazione. Valeva il principio di possessor iustus.
Tra i possessori legittimati all’esercizio degli interdetti a difesa del possesso vi furono
coloro che tenevano la cosa uti dominus, come se fossero proprietari: il possesso, ora, era
uno stato di fatto e prescindeva dunque dal corrispondente stato di diritto. Il possessore
uti dominus era protetto sia che fosse effettivamente proprietario della cosa posseduta, sia
che non lo fosse, e sia contro terzi che contro il proprietario che avesse violato il suo
possesso. La questione andava risolta in sede di rivendica: il dominus non possessore, per
avere il possesso, avrebbe dovuto ricorrere alla rivendica. Se avesse sottratto la cosa vi
aut clam o in via di autodifesa, avrebbe anzitutto dovuto ripristinare lo stato di fatto quo
ante, costrettovi all’occorrenza con taluno degli interdetti a difesa del possesso.
Assolvevano quindi una funzione di mantenimento della pace e dell’ordine sociale.
Le persone giuridiche
Il possesso era uno stato di fatto che dava luogo a un altro effetto di assai rilevante
significato: l’usucapione. Non riguardava tutti i possessori, ma solo quelli uti dominus
con animus domini, gli stessi che, in presenza dei requisiti adatti, col decorso del tempo,
2
se non proprietari, lo sarebbero diventati. Si parla di possessio ad usucapionem, che si
distingue dal possessio ad interdicta. Rispondevano ad esigenze diverse: di mantenimento
dell’ordine sociale uno e di garantire quanti si curano dei loro affari piuttosto che quanti li
trascurano l’altro. Con ciò, i Romani poterono risolvere anche problemi inerenti alla
titolarità del dominium. La cerchia dei possessores poteva essere diversa in base a un
effetto o l’altro: quelli uti domini possedevano sia ad usucapionem che ad interdicta,
mentre gli altri solo ad interdicta. Nel caso di pegno o precario, chi li dava manteneva
possesso ad usucapionem, mentre il creditore o il precarista acquistavano il possesso ad
interdicta. Nel caso di sequestro, il possesso ad usucapionem non spettava a nessuno e
quello ad interdicta al sequestratario. Non si ebbe pertanto concezione unitaria del
possesso: si parlò di possessio civilis, quindi quella ad usucapionem, che si oppone al
possessio naturalis, quello dei detentori.
Il possesso di una cosa composta non comportava il possesso delle parti che la
costituivano, sicché il possessore dell’intero, dopo l’unione, non le avrebbe usucapite. Il
possesso riguardava soltanto res corporales e non res incorporales: per tale motivo, si
2
negò il possesso nei casi di usufrutto e servitù. Il diritto di proprietà, poi, non fu mai
riconosciuto come ius: esso si identificava con la cosa che ne era oggetto e, pertanto, chi
teneva la cosa come propria, possedeva direttamente la cosa stessa. Viceversa, quanti
esercitavano usufrutto e servitù non furono ritenuti proprietari, in quanto lo erano il nudo
proprietario e quello del fondo servente. Negare il possesso significava negare a quanti
esercitassero usufrutto e servitù la difesa interdittale possessoria. Nella prima età classica,
si concessero a questi gli interdetti uti posseditis e unde vi che, per la mancanza di
possesso, non potevano competere loro in via diretta e tutelò con speciali interdicta per
più versi simili all’uti possidetis coloro che esercitavano talune servitù. Non si trattava di
interdetti propriamente possessori, sicché usufrutto e servitù vennero annoverate come
quasi possessio. Tuttavia, più tardi si parlò di possessio iuris, ossia possesso di diritti.
Successivamente, per intervento diretto di Giustiniano, usufrutto e servitù si ammisero
con la difesa possessoria. In età medievale e moderna si arrivò ad avere concezione
unitaria del possesso come esercizio di fatto del diritto di proprietà o di un altro diritto
reale e come somma di corpus e animus.
Le persone giuridiche
2
6. Le obbligazioni
composizione pecuniaria, che l’offeso non poteva rifiutare. La somma di denaro era
chiamata comunque poena ed era un riscatto, in termini attuali, un onere. Non era
un’obbligazione perché la pena non era una prestazione cui l’offensore fosse tenuto. Né
l’offeso poteva pretenderla: egli era solo legittimato a procede all’assoggettamento
qualora non si fosse avuta composizione pecuniaria. Si svilupparono però prima delle
2
→ Nexum: era un atto che si compiva con l’intervento di cinque testimoni cittadini
romani puberi e di un libripens con bilancia. Ci si ricorreva in caso di prestito di
denaro, o comunque di metallo usato come merce di scambio. Avveniva pertanto
una pesatura, effettiva ma più spesso simbolica. Creditore e debitore dovevano
essere presenti: il primo pronunciava parole solenni, con le quali affermava il
potere che si andava a costituire sull’altra parte. Contemporaneamente ne faceva
atto di apprensione. Il debitore, divenuto nexus, pur restando persona libera, era
assoggettato al creditore, il quale lo teneva presso di sé, esercitava materiale
coercizione, punizioni corporali, e lo utilizzava per attività lavorative, fin quando
con il lavoro non avesse estinto il debito, o quando un terzo o lo stesso nexus non
avrebbe pagato il debito. Per liberarlo si ricorreva alla solutio per aes et lobram,
cui il creditore soddisfatto non poteva sottrarsi: così si tutelavano gli abusi contro i
nexi. Era un potere diretto e immediato su una persona, un vincolo attuale,
materiale, non soltanto giuridico, potenziale. Fu abolito dalla lex Poetelia Papiria,
del 326 a.C., successo dei plebei contro i patrizi.
→ Praedes e vades: sono le figure più antiche con funzione di garanti. Ai praedes si
ricorreva nei rapporti tra privati nella legis actio sacramenti in rem per garantire
che la parte cui il pretore avesse assegnato il possesso della cosa controversa in
maniera provvisoria la restituisse con i suoi frutti in caso di soccombenza. Ai
vades si ricorreva invece pure nelle legis actiones per garantire la ricomparsa in
giudizio della parte convenuta quando l’udienza era rinviata ad altro giorno.
Sembra che le formalità fossero verbali secondo lo schema di domanda e risposta
positiva. Ma non da queste due figure il creditore attendeva il comportamento
idoneo al risultato ma dall’avversario in giudizio. Essi erano soltanto garanti di un
fatto di un terzo. Si parla di obbligazioni affermando che di fronte a un creditore
nel quale nasceva un’aspettativa a una prestazione stavano distintamente un
debitore e uno o più responsabili, contro cui il creditore si rivolgeva in caso di
inadempimento. Debito e responsabilità erano quindi in capo a figure differenti.
I procedimenti della sponsio finirono per essere assimilati anche ad altri rapporti di atti
leciti. Ma già in età repubblicana iniziarono ad essere annessi agli atti illeciti, dove la
2
pena pecuniaria poteva essere considerata alla stregua di contenuto della prestazione, alla
quale era tenuto il debitore verso il creditore, il quale poteva da lui pretenderla. Si tratto
però di una pratica adoperata per fenomeni eterogenei. Quanto alla responsabilità, la
soggezione della procedura esecutiva si andò atteggiandosi diversamente: agli inizi, il
responsabile era soggetto ad una sorta di sottomissione al creditore, che col tempo andò
alleggerendosi. Il creditore poteva agire infatti tramite esecuzione patrimoniale,
assoggettando non più la persona quanto il suo patrimonio. All’esecuzione personale si
ricorreva solo nei casi in cui il debitore fosse stato del tutto privo di mezzi.
L’obbligazione divenne quindi un vincolo relativo al patrimonio, un vincolo materiale
come ci fa comprendere la parola da cui il termine obligatio deriva: ligatio.
soluti retentio, per cui il creditore avrebbe potuto trattenere quanto adempiuto
spontaneamente e non sarebbe stata proponibile la condictio indebiti, la prestazione di un
indebito. Altri effetti erano che poteva essere oggetto di novazione, valutabile ai fini della
condensazione, costituibile con essa garanzie reali e personali. Di obbligazioni naturali si
iniziò a discorrere in età classica anche per i debiti da atto lecito assunti da persone
2
diverse dal dominus, come il servo, e per quelli contratti dai pupilli senza auctoritas del
tutore. Si parlò di obbligazioni naturali quando, pur mancando un qualsiasi negozio di per
sé idoneo a produrre obbligazioni, si ritenne l’esistenza di doveri morali degni di esser
considerati. Vi si attribuì solo la soluti retentio: niente azione contro l’obbligato ma solo
esclusione di condictio indebiti se avesse adempiuto spontaneamente. Ancora oggi si
discorre di obbligazioni naturali con riferimento a doveri morali e sociali, con la
conseguenza dell’irripetibilità di quanto spontaneamente prestato.
→ Facere: era ogni comportamento diverso dal dare, che poteva essere un’attività
materiale o un compimento di un negozio giuridico. Vi rientrava anche il non
facere.
→ Preastare: non è chiaro il suo significato, che era però relativo a ogni possibile
prestazione e dal quale derivano i termini giuridici attuali “prestare” e
“prestazione”.
Le persone giuridiche
2
Carattere patrimoniale: la condanna doveva essere suscettibile di essere valutata
in denaro. Il principio non è originario: nella più antica obligatio, il carattere era
personale e non patrimoniale, come dimostra la sponsio per la promessa di
matrimonio, ma con l’introduzione del processo formulare il carattere
patrimoniale fu imprescindibile.
Interesse del creditore: il creditore doveva avere interesse nell’atto che generava
obbligazione. Da qui, il divieto di contratti in favore dei terzi: vi era divieto di
stipulatio in cui il debitore promettesse di compiere una prestazione in favore di
un terzo estraneo al negozio. Si determinava che il terzo non avesse azione per
l’adempimento e che non avesse azione neppure lo stipulante. Ciò fu motivato dai
giuristi con la necessità di un interesse del creditore all’adempimento della
prestazione, interesse non ravvisabile se per conto di un terzo. Si poteva ricorrere
anche a stipulazione penale, con la quale si eludeva il divieto di stipulationes in
favore di terzi perché la prestazione sarebbe stata di pagare allo stipulante
duecento a titolo di pena. Il resto era una condizione.
La promessa del fatto altrui: ciò scaturiva dal fatto che debito e responsabilità
dovevano far capo alla stessa persona. Fu negata efficacia in favore dei terzi e non
si ritenne valida l’assunzione di un impegno che un terzo estraneo al negozio
tenesse un determinato comportamento. La prestazione doveva avere ad oggetto
un comportamento proprio del debitore. Questo principio poteva essere
neutralizzato tramite stipulazione penale, per cui una parte si facesse promettere
dall’altra una somma determinata di denaro se le sue aspettative non fossero state
soddisfatte.
Le persone
Liceità: la prestazione doveva essere lecita, pena la nullità. Non era lecita la
prestazione contraria al diritto oggettivo o al buon costume.
Ab heredis persona obligatio incipere non potest: un’obbligazione non può avere
inizio dalla persona dell’erede. Essa rilevava in tema di stipulatio e di mandato e
comportava la nullità del negozio qualora esso fosse stato strutturato in maniera
che la relativa obligatio nascesse, dal lato attivo o passivo, direttamente in capo
all’erede di una delle parti. Si proposero però accorgimenti che, senza negare ciò,
lo eludevano. Si fece ricorso all’adstipulator e si ritenne valida una stipulatio per
la quale il promettente avrebbe adempiuto in punto di morte. Parimenti si ritenne
valido un mandato post mortem, purché si ravvisasse tale volontà in vita. Quando
Giustiniano abolì l’antica regola, la portata di essa era già stata svuotata di
significato.
stata indivisibile solo se fosse stata indivisibile non tanto la res quanto il diritto che era
oggetto della prestazione: erano indivisibili le obbligazioni di costituire una servitù o un
diritto reale di usus. Le obbligazioni indivisibili dunque non potevano essere adempiute
parzialmente: quando dovute quindi a più persone o da più persone si parla di
obbligazioni solidali elettive.
2
6.7 Le obbligazioni alternative
Ad ogni obbligazione corrispondeva una sola prestazione. Le obbligazioni alternative
erano obbligazioni con due o più prestazioni, in cui il debitore era liberato con
l’adempimento di una. La scelta tra le due poteva essere affidata al debitore stesso,
mentre al creditore spettava solo se così stabilito nell’atto costitutivo dell’obbligazione.
La scelta poteva essere cambiata fino al momento dell’adempimento se spettava al
debitore, contrariamente fino al momento dell’esercizio dell’azione contro il debitore
inadempiente. Con l’impossibilità di una delle prestazioni, l’obbligazione alternativa
cessava solitamente di essere tale, e il debitore era tenuto ad adempiere alla prestazione
rimasta possibile. Faceva eccezione il caso in cui, spettando la scelta al creditore,
l’impossibilità fosse dipesa dal debitore: il creditore avrebbe potuto scegliere tra la
prestazione rimanente possibile e la stima di quella ormai impossibile.
→ Custodia: quando il debitore teneva a proprio vantaggio una cosa altrui, il debitore
rispondeva per custodia, soggetta a un regime molto rigido: egli era considerato
libero solo nel caso in cui la cosa fosse perita o la prestazione diventasse
impossibile per caso fortuito o di forza maggiore, sfuggente quindi al controllo del
debitore. Egli era responsabile anche in caso di furto della cosa.
→ Il dolo: il depositario, in tal caso, rispondeva non per custodia, ma per dolo, in
quanto la detenzione era a vantaggio del deponente, non del depositario.
Rispondeva ai criteri della relativa actio in factum. Il dolo non era l’inganno e
neppure un comportamento iniquo, ma la volontarietà del comportamento e la
volontarietà dell’evento dannoso. Commetteva dolo il depositario che
volontariamente avesse provocato perimento della cosa depositata.
2
parte per impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore
della stessa, l’altra parte era comunque dovuta alla prestazione.
6.10 La mora
Il ritardo colpevole nell’adempimento di una prestazione si identificava come mora.
Poteva essere imputabile al debitore (mora solvendi) o al creditore (mora accipiendi). Il
debitore cadeva in mora quando, consapevolmente e senza giustificazione, non adempiva
al proprio debito. Dunque si invitava, di prassi, il debitore ad adempiere nell’interpellatio,
che successivamente divenne regola giuridica. Era superflua in due casi:
le cose offerte e il creditore non accettava, nel caso in cui le cose fossero perite per cause
indipendenti dal dolo del debitore, questi era liberato. Nei giudizi di stretto diritto, tramite
exceptio. Per le obbligazioni pecuniarie, se il debitore avesse depositato la pecunia in
maniera riconoscibile in luogo pubblico, sarebbe cessato il corso di eventuali interessi.
Successivamente con Diocleziano, il debitore sarebbe stato liberato. Questa mora cessava
2
6.12 Il contratto
Un contratto è un negozio giuridico almeno bilaterale con effetti obbligatori, produttivo
dell’obbligazione, o delle obbligazioni concordemente volute dalle parti. I contratti erano
tipici, come tipiche erano le obbligazioni e le azioni che le sanzionavano. Esistevano
correttivi come nel caso della stipulatio in cui la tipicità risiedeva nella forma e non nel
Le persone giuridiche
2
→ Contratto unilaterale e bilaterale: nel momento formativo dell’atto dovevano
essere presenti due o più parti. Dal punto di vista degli effetti, il contratto poteva
essere unilaterale o bilaterale: unilaterale nel caso in cui l’obbligazione sorgeva in
capo ad una sola parte, mentre bilaterale quando sorgevano obbligazioni a capo di
entrambe le parti. Intermedi erano i contratti bilaterali imperfetti, nei quali
l’obbligazione era in capo ad una sola parte, ma eventualmente anche all’altra. I
contratti di compravendita e di locazione erano poi esplicati con un binomio:
emptio venditio e locatio conductio. Trattandosi di contratti sanzionabili da azioni
di buona fede, sorse il principio dell’interdipendenza delle prestazioni, talché una
parte non avrebbe potuto pretendere una prestazione se non avesse adempiuto alla
sua o fosse pronta ad adempiervi. Si parla nella dottrina moderna di contratti
sinallagmatici e nel nostro codice civile di contratti a prestazioni corrispettive. Un
caso a sé è quello delle società, un negozio e contratto bilaterale o anche
plurilaterale. Nella compravendita e nella locazione le prestazioni erano
strutturalmente diverse, mentre nella societas erano tutte volte al medesimo scopo.
Si distingue poi tra contratti reali, verbali, letterali e consensuali.
6.12.1 Il mutuo
2
Era un contratto reale unilaterale, per cui una parte, detta mutuante, consegna all’altra,
detta mutuatario, una somma di denaro o altre cose fungibili con l’impegno del
mutuatario di restituire al mutuante altrettanto dello stesso genere. Era un negozio
causale, che realizzava prestito di consumo. Con la consegna si acquistava la proprietà del
denaro o delle altre cose che gli venivano consegnate: si trattava quindi di una datio. Ne
nasceva un’obbligazione a carico del mutuatario di restituire l’equivalente di quanto
ricevuto con un’altra datio. Il rischio era quindi a suo carico. Per la restituzione di
proseguiva con la condictio, l’azione per la restituzione del dato, che aveva sia
applicazioni contrattuali, come nel caso del mutuo, sia extracontrattuale. Quando questa
aveva ad oggetto una somma di denaro era actio certae creditae pecuniae, se l’oggetto
era diverso, condictio certae rei. La condictio era azione di stretto diritto, in personam e
in ius, senza demonstratio e con un dare opotere nell’intentio. Quanto agli effetti, era di
ius civile, ma successivamente anche iuris gentium, estesa ai peregrini. Non era previsto
pagamento di interessi, onde la gratuità del contratto. Poteva esserci eventuale pattuizione
di interessi, tutelati da exceptio e attinti da distinta stipulatio. Nell’età repubblicana, si
stabilì un limite massimo agli interessi, pena la nullità, che inizialmente fu pari a un
dodicesimo del capital per ogni mese, poi si ridusse al 12% e con Giustiniano al 6%. Era
vietato l’anatocismo, ossia il fenomeno per cui interessi non pagati generavano altri
interessi. Tipo particolare di mutuo era il fenus nauticum o pecunia traiecticia, un prestito
marittimo d’età repubblicana applicato in varie città greche, basato su una somma di
denaro ai fini del commercio d’oltre mare. Aveva generalmente interessi altissimi, pure
oltre il limite legale per il principio del res perit domino: se il denaro o la merce con esso
acquistata periva in mare, il rischio del perimento era a carico del mutuante e il debitore
era liberato.
6.12.2 Il deposito
Era contratto reale, ma bilaterale imperfetto: una parte, detta deponente, consegnava
all’altra, depositario, una cosa mobile, affinché il depositario la custodisse gratuitamente e
la restituisse a semplice richiesta. Dunque se ne acquistava la detenzione, senza
possibilità di usarla: si sarebbe commesso nel caso furtum usus. Per il perimento o il
deterioramento della cosa, il depositario era responsabile per dolo, nel diritto giustinianeo
per culpa lata. Il deponente era però tenuto a rimborsare le spese attuate dal depositario
Le persone giuridiche
per il mantenimento della cosa o rimborsargli il danno da essa procurato. Nulla era
dovuto al depositario per la custodia: il contratto aveva carattere gratuito. Tra la fine
dell’età repubblicana e l’inizio di quella classica, la tutela giudiziaria fu doppia, pretoria e
civile: al deponente si diede un’actio depositi in factum e un’actio depositi in ius ex fide
bona, azioni dirette, mentre al depositario un’actio depositi contraria. L’azione diretta era
2
infamante verso colui contro il quale era esercitata. Tipo speciale di deposito era il
sequestro: avveniva quando vi era controversia tra due parti sulla proprietà di una cosa e
le parti preferivano affidarla ad un terzo, il sequestratario, affinché la custodisse e
restituisse alla parte risultante proprietaria. Differiva dal vero deposito perché la
restituzione era ad una sola delle due parti e dopo che si fosse verificata la condizione
positiva. Il sequestratario acquistava possessio ad interdicta. Contro di lui si attuava
l’actio sequestrataria in factum, mentre a suo favore per spese e danni la stessa tutela data
al depositario. Deposito era anche l’affidamento di denaro contante, che poteva essere
utilizzato dall’accipiente, divenuto proprietario, come proprio. A richiesta, doveva
esserne restituito l’equivalente. Si parlò di deposito irregolare, il nostro attuale deposito
bancario. Questo, a differenza del mutuo, poteva riscontrare efficacia di patti aggiuntivi,
come gli interessi.
6.12.3 Il comodato
Era un contratto reale e bilaterale imperfetto in cui una parte, il comodante, consegnava
all’altra parte, il comodatario, una cosa mobile, con l’impegno che la restituisse. Il
comodatario acquistava nulla di più che la detenzione della cosa ricevuta. Il comodato era
prestito d’uso gratuito nell’interesse del comodatario: poteva usare la cosa comodata e
non doveva per questo alcun compenso. Il comodatario, se la cosa fosse perita o
deteriorata, rispondeva per custodia. Al comodatario erano dovuti rimborso per eventuali
spese o danni. Anche il comodato ebbe tutela pretoria e civilistica, con azione diretta in
favore del comodante e contraria per il comodatario. L’azione contraria era in factum, le
azioni dirette una in factum e l’altra in ius ex fide bona.
Il pegno rientra nell’ambito dei contratti solo nel caso di datio pignoris. Infatti esso è il
rapporto obbligatorio che si istituisce tra chi dà la cosa in pegno, il debitore, e chi la
riceve, il creditore. Se l’oppignorante è debitore, si avrà inversione di ruoli: il debitore,
estinto il debito, diverrà creditore in quanto potrà pretendere la restituzione della cosa e il
creditore diverrà debitore, in quanto obbligato alla restituzione. Era un contratto reale e
bilaterale imperfetto, per cui taluno, l’oppignorante, consegnava a garanzia di un debito,
una cosa con l’intesa che, estinto il proprio debito, il creditore l’avrebbe restituita. Il
Le persone
contraria, pure questa in factum e in personam, data al creditore per il rimborso di spese o
danni. L’azione in personam nel diritto giustinianeo rientrava tra i giudizi di buona fede.
6.12.5 La fiducia
Prima che tutti questi negozi fossero istituiti, vigeva la fiducia: una parte, il fiduciante,
trasferiva all’altra, il fiduciario, la proprietà di una cosa generalmente res mancipi,
mediante mancipatio o in iure cessio, col patto che, verificate certe condizioni, la cosa
sarebbe stata restituita. Era pactum fiduciae, un negozio fiduciario. Poteva essere cum
creditore o cum amico: nel primo caso, il passaggio di proprietà era a garanzia di un
credito del fiduciario sicché dopo l’avvenuta estinzione del debito, si sarebbe dovuta
ritrasferire la proprietà, mentre nel secondo caso, la causa poteva essere custodia, prestito
d’uso e il fiduciante avrebbe restituito a semplice richiesta. Nella fiducia cum creditore, il
fiduciario poteva trattenere il possesso: avrebbe riacquistato la proprietà mediante
usureceptio, col decorso di un anno da giusta causa. Si evitava tale pratica con locazione
o precario. Estinto il debito, tale istituto non valeva più. Al fiduciante non possessore
bastava inizialmente fare affidamento al vincolo fiduciario, in quanto per i Romani tradire
la fides era comportamento assai grave. Successivamente, gli venne concessa un’actio
fiduciae per il riacquisto di proprietà e possesso. L’azione era in personam,
reipersecutoria e infamante e la formula si rifaceva a criteri di lealtà e correttezza, alla
stregua di un giudizio di buona fede. Il grado di responsabilità era quello relativo alla
culpa. Il fiduciario avrebbe potuto far valere l’exceptio doli e relativa retentio per
contropretese di spese e danni. Avrebbe potuto esercitare actio fiduciaria contraria, detta
directa. Quando alla fiducia cum creditore, la funzione di garanzia era data dal fatto
stesso del trasferimento della proprietà. Si diffuse però la prassi che al creditore spettasse
ius distrahendi o ius vendendi, per cui, inadempiente il debitore, egli avrebbe potuto
vendere la cosa per soddisfare il credito. Anche dopo il riconoscimento degli altri negozi,
la fiducia ebbe larga diffusione, sparendo in età postclassica. Comunque, non venne mai
annoverata tra i contratti.
Essa ebbe un ruolo di massimo rilievo nel diritto romano privato. Aveva struttura
essenziale, fatta di interrogazione e congrua risposta. Aveva carattere astratto ed era per
Le persone giuridiche
questo applicata nei più svariati campi, anche perché la tipicità faceva capo alla forma e
non ai contenuti. Era comunque un contratto in cui il consenso doveva essere espresso
verbis, mediante l’utilizzo di uno schema che prevedeva interrogazione dello stipulante e
congrua risposta, con lo stesso verbo della domanda, del promittente, in capo al quale
ricadeva la prestazione promessa. Era un contratto astratto e unilaterale, che produceva
2
obbligazione solo in capo al promittente: necessitava dunque la contemporanea presenza
delle due parti. La risposta si esigeva entro un tempo relativamente breve: si parlava di
unus actus. Dapprima si producevano effetti solo in seguito alle formalità verbali, mentre,
durante l’età classica, la nullità vi era anche per difetto di consenso. Il prototipo fu la
sponsio, la più antica fonte di obligatio. Era di ius civile, accessibile ai soli cives con
effetti di ius civile. Con l’utilizzo di altri verbi diversi da spondere (promittere, dare) la
sua fruibilità era possibile anche ai cittadini stranieri. Il promittente doveva quindi
adempiere allo stipulante. L’interrogazione poteva essere formulata in modo che l’altro
adempisse o allo stipulante o a un terzo, l’adiectus solutionis causa (aggiunto ai fini
dell’adempimento): quest’ultimo non era creditore, e non poteva quindi procedere con
azione contro il debitore inadempiente, ma solo esigere la prestazione. Diversa era la
figura dell’adstipulator, un secondo stipulante che, incaricato dal primo, poteva esigere
stessa prestazione del primo stipulante. Si avevano quindi due stipulationes, con stesso
oggetto e due diversi creditori, legittimati ad agire ex stipulatu. Per il fenomeno della
solidarietà elettiva, il promittente era liberato con l’adempimento di una prestazione. Si
adottava tale figura per eludere la regola per cui era impossibile adempiere dopo la morte
dello stipulante verso i suoi eredi. Così dunque l’adstipulator riversava agli eredi quanto
percepito dal promittente. Questo scomparve in età postclassica, con il venire meno di
tale regola. Allo stesso modo, al promittente poteva affiancarsi uno o più adpromissores,
che promettevano la stessa prestazione al medesimo stipulante. Nascevano così più
stipulationes, con stesso oggetto, più debitori e con funzioni di garanzia. L’azione
intrapresa dallo stipulante contro il debitore inadempiente era l’actio ex stipulatu, che
aveva formule diverse a seconda che fosse di dare o di facere: nel primo caso l’azione era
con intentio certa e la formula era come quella della condictio, nel secondo caso l’azione
era con demonstratio e intentio incerta. Le formalità della stipulatio erano verbali ma fin
da ultima età repubblicana, si ammise che potevano affiancarsi documenti scritti
(instrumenta) con solo valore probatorio, ossia per facilitare la prova che sia le formalità
orali, sia i contenuti erano avvenuti. Ma, in età postclassica, si riconobbe validità al
documento in sé, purché avvenute le formalità. Nel 472, l’imperatore Leone ammise che
la stipulatio poteva essere formulata tramite verba che non rientrassero nello schema
tradizionale e poi, Giustiniano confermò il suo inquadramento nei contratti verbali,
Le persone
ritenendo valido il documento e le formalità orali, salvo prova che le parti non si
trovavano nella stessa città il giorno della redazione di quel documento.
Si annoverano tra i contratti verbali ed erano uno loquente, ossia le parole erano
2
6.12.8 La compravendita
civile. Il consenso doveva essere manifestato (anche tacitamente, per conto di un terzo o
per lettera). Fu solo per esigenze probatorie he si cominciò a redigere per iscritto
attraverso un documento l’attestamento del patto concluso e delle sue condizioni. Tale
documento ebbe così ampia diffusione che, nell’ambito della vendita di immobili si
ritenne necessario. Al consenso manifestato per iscritto si diede efficacia traslativa di
2
dominio. Giustiniano restituì alla vendita efficacia solo obbligatoria, mentre lasciò alle
parti la possibilità di scegliere forma scritta o orale. Non era raro che si fissasse una
caparra, una somma di denaro che in età classica poteva essere versata contestualmente
alla conclusione dell’accordo, col solo valore di confermare il consenso prestato. Nella
vendita in scriptis del diritto giustinianeo la caparra aveva anche funzione penitenziale:
versata prima della redazione del documento, in caso di recessione di una delle parti, si
era obbligati a perderla o restituirla in quota doppia rispettivamente. L’oggetto della
vendita era detto merx: più spesso si trattava di cose corporali ma poteva prevedere anche
eredità, superficie, agri vectigales, enfiteusi, servitù, usufrutto e crediti. Era ammessa
anche la vendita di cose future, che poteva essere emptio rei speratae o emptio spei: nella
prima la vendita era soggetta alla condizione sospensiva che le cose vendute venissero a
esistenza e il prezzo era concordato dopo in base alla quantità, mentre nella seconda il
compratore pagava un prezzo stabilito forfetariamente, il venditore non avrebbe potuto
esigere di più. Il prezzo era in denaro contante, in quanto solo così sarebbe stato possibile
distinguere il prezzo dalla merce e di conseguenza il venditore dal compratore, in quanto
questi avevano obbligazioni diverse, prestazioni diverse e responsabilità diverse. La
misura del prezzo era liberamente concordata dalle parti ma doveva corrispondere al
valore della merce. Diocleziano stabilì che se il prezzo era inferiore alla metà del valore,
il venditore poteva pretendere la restituzione della cosa e la restituzione di essa dietro
rimborso del prezzo pagato, oppure il compratore avrebbe potuto evitarlo pagando la
differenza. Il compratore era tenuto a pagare il prezzo, facendo traditio delle monete,
affinché il venditore ne acquistasse la proprietà. Doveva anche gli interessi nel caso in cui
avesse ritardato. Contro il compratore inadempiente, il venditore esercitava l’actio venditi
di buona fede. Il venditore era obbligato ad assicurare il godimento della cosa al
compratore. Nel caso di cose corporali, non era obbligato a trasferire la proprietà ma a
farne traditio, una traditio libera da persone o cose. Contro il venditore inadempiente si
dava l’actio empti, di buona fede. Se la merce non consegnata contestualmente alla
vendita periva, la responsabilità per custodia era del creditore così come il rischio. Il
compratore sarebbe comunque stato obbligato al pagamento del prezzo. Il venditore che
avesse venduto cosa non propria non incorreva in responsabilità, purché avesse dato al
compratore il pacifico godimento della cosa. Responsabilità poteva derivare
dall’evizione, ossia il fatto per cui un terzo rivendicasse con successo la cosa, presso il
Le persone
venditore. Questo era chiamato a rispondere direttamente con l’actio empti. Con il tempo,
questa pratica finì per essere elemento naturare del contratto consensuale, da esso
derivante ed esclusa solo da patto contrario. Altra materia era quella dei vizi occulti, ossia
vizi o difetti materiali della cosa (anche morali, nel caso dello schiavo) che non erano
visibili al compratore all’atto della vendita: la responsabilità del venditore inizialmente
non discendeva dal contratto consensuale. Il venditore che prometteva certe qualità della
cosa o l’assenza di certi vizi poteva essere convenibile dal compratore con actio ex
stipulatu, verificato il contrario di quanto dichiarato dal venditore. Ebbero ruolo rilevante
gli edili curuli, magistrati con giurisdizione nel mondo del mercato. Nel loro editto fecero
in modo che i vizi e i difetti nella vendita degli schiavi e degli animali dovessero sempre
essere dichiarati e diedero al compratore l’actio redhibitoria o l’actio quanti minoris, o
aestimatoria: la prima utile entro sei mesi, la seconda entro un anno. Con la prima si
sarebbe potuto chiedere indietro il prezzo previa restituzione della merce acquistata, nella
seconda il minor valore della merce venduta. Si parlò di azioni edilizie e diritto edilizio.
Tale editto fu dichiarato applicabile a qualsiasi tipo di vendita e ne venne ammesso il
ricordo all’actio empti, così che la responsabilità del venditore divenisse elemento
naturale del contratto. Il regime della vendita poteva essere integrato da patti aggiuntivi
come nel caso della compravendita: patto commissorio, l’in diem addictio e il pactum
displicentiae. I primi due a favore del venditore, l’altro del compratore. Si trattava di patti
risolutivi sospensivamente condizionati per cui la vendita era soggetta a condizione
risolutiva. Prevedevano che, al verificarsi di una certa condizione, la vendita dovesse
considerarsi non avvenuta. Nel patto commissorio la condizione era che il compratore
non pagasse entro il termine, nel secondo patto che il venditore trovasse entro il termine
un’offerta migliore e nel terzo che il compratore dichiarasse di non aver trovato la cosa di
suo gradimento. Poiché le azioni nascevano dalla vendita erano di buona fede e se
aggiunti contestualmente al contratto, erano fatti valere con la stessa azione contrattuale.
6.12.9 La locazione
tempo limitato e ad un determinato scopo, una cosa mobile o immobile, con la promessa
del conduttore di restituirla scaduto il termine o raggiunto lo scopo. Le actiones concesse
erano locati (in favore del locatore) e conducti (in favore del conduttore) ed erano di
buona fede. Essa era istituto di ius gentium e di ius civile. Si usa distinguere tra locatio
rei, locatio operis e locatio operarum.
2
→ Locatio rei: simile alla locazione nel nostro codice civile. Poteva avere ad oggetto
cose mobili e immobili: il conduttore di immobili urbani era detto inquilinus,
quello di fondi rustici colonus. Il locatore assumeva l’obbligo di consegnare la
cosa e di assicurarne al conduttore il godimento. Il conduttore era obbligato a
pagare la mercede, mantenere la cosa così come gli era stata data e restituirla alla
scadenza del contratto. Il conduttore assumeva detenzione e rispondeva per
custodia. In caso di mancato godimento per cause di forza maggiori il locatore non
era responsabile ma il conduttore era liberato dal pagare la mercede.
6.12.10 La società
La società era un contratto consensuale bilaterale, eventualmente plurilaterale, in cui due
o più persone, i socii, convenivano di mettere in comune beni e/o attività lavorative al
fine di conseguire un lucro per tutti previa divisione di profitti e perdite. Era
contemporaneamente di ius gentium e di ius civile, sanzionato da actio pro socio, di
buona fede. La responsabilità era differente a seconda dei diversi casi, ma il criterio
generale era quella della culpa in concreto. La più antica fu la societas omnium bonorum,
dove i soci convenivano di mettere in comune tutti i loro beni, presenti e futuri. Altro tipo
era la società consensuale: era un singolo contratto consensuale, che contemplava affectio
societatis, ossia perduranza del consenso. La società veniva meno per reciproco dissenso
o di un solo socio, per esaurimento dello scopo, impossibilità di raggiungerlo, morte e
capitis deminutio anche di uno solo e quando uno era processato per insolvenza. Profitti e
perdite andavano divisi in parti uguali tra i soci, se assenti altre indicazioni nel patto.
Nullo era il patto che limitava la partecipazione di un socio alle perdite soltanto. L’actio
pro socio prevedeva compensazione e pagamento del saldo reciproco di dare e avere tra le
parti. Poiché la società si costituiva sulla fraternitas, dunque, l’azione era infamante, ma
il socio poteva sfuggirvi con il beneficium competentiae, ossia pagando immediatamente
quanto dovuto o quanto nelle sue possibilità economiche. La società non dava origine a
patrimonio autonomo, distinto da quello personale dei soci, né aveva rilevanza esterna
verso terzi. Pertanto, si limitò la responsabilità verso questi facendo svolgere le attività
agli schiavi dotati di peculio. E la responsabilità dei soci non andava oltre il peculio dello
schiavo o comunque oltre l’arricchimento dato dall’attività del servo.
6.12.11 Il mandato
Era contratto consensuale bilaterale imperfetto, per cui una parte conferiva un incarico
all’altra, che si impegnava ad eseguirlo. Le parti erano dette mandante e mandatario. Al
mandatario non spettava alcun compenso, altrimenti si sarebbe parlato di locazione. Il
Le persone giuridiche
mandato poteva essere solo nell’interesse del mandante o di un terzo, non del mandatario.
Contro il mandatario si concedeva actio mandati directa e viceversa contro il mandante
actio mandati contraria. Il mandatario aveva l’obbligo di eseguire fedelmente l’incarico e
trasferire al mandante beni, diritti e crediti acquistati in relazione al mandato espletato,
mentre il mandante aveva l’obbligo di rimborsare eventuali spese e risarcire i danni.
2
Questo perché il mandatario non era rappresentante diretto, ma indiretto. Per
l’inadempimento o la cattiva prestazione si era responsabili per dolo. L’azione di
condanna era infamante, di buona fede e accessibile anche ai peregrini. Il mandato si
estingueva per revoca del mandante, per rinuncia del mandatario, per morte di una delle
due parti prima dell’esecuzione, per reciproco dissenso e ovviamente per espletazione
dell’incarico.
Nella datio ad inspiciendum una parte consegnava all’altra una cosa perché ne
determinasse il valore e poi la restituisse. Nei contratti innominati furono inseriti anche la
transazione e il precario. Il precario consisteva nella cessione di un bene, in origine
immobile, che una parte, il concedente, faceva ad un’altra, il precarista, affinché ne
godesse gratuitamente e lo restituisse a semplice richiesta. Traeva origine delle
2
concessioni di terre che i grandi proprietario erano soliti fare. Il precarista era tutelato
contro terzi con l’interdictum uti possidetis, qualificandosi quale possessore. Contro il
concedente non era tutelato e dunque questo poteva pretendere restituzione con atto di
autodifesa, anche contro la volontà del precarista. Successivamente il pretore concesse a
questo anche l’interdictum quod precario. Il precario continuò ad essere annoverato nel
possesso, rimanendo, per tutta l’età classica, fuori dal contratto. Fu utilizzato anche per
altri scopi, divenendo iuris gentium. In età postclassica, tuttavia, si arrivò a non
distinguere più questo dal comodato. Giustiniano negò al concedente di poter pretendere
restituzione con atto di difesa, ma gli concesse actio praescriptis verbis e lo annoverò tra i
contratti. Venne distinto dal comodato non tanto per struttura e natura, quanto più per
diversità di regime.
6.13 I patti
I patti furono convenzioni, accordi, in qualunque maniera manifesti, che non rientravano
nella categoria dei contratti tipici, ma erano nuda pacta. Non producevano inizialmente
effetti, se non nel caso di iniuria e di furto. Le XII Tavole attribuirono all’accordo tra
offeso e offendente e tra derubato e ladro, l’effetto di estinguere la pena. Importante fu
l’editto pretorio de pactis, dell’ultima età repubblicana, con cui il pretore avrebbe tutelato
i patti, naturalmente quei patti concordati senza dolo, non contrari a leggi e norme. Ebbe
però l’editto efficacia limitata: si concesse di agire per exceptio pacti conventi. I patti non
davano luogo ad obbligazioni. Dunque la parte lesa non avrebbe potuto agire in giudizio,
ma solo appellarsi all’exceptio, verificata l’esistenza del patto. In materia di giudizi di
buona fede, era conforme a buona fede mantenere gli impegni assunti e, pertanto, il
giudice avrebbe potuto tenere conto di questi anche senza l’exceptio. in merito ai patti
aggiunti a contratti dai quali derivano azioni di buona fede, si distinse tra pacta adiecta in
continenti e pacta adiecta ex intervallo, i primi contestuali e gli altri successivi alla
conclusione del contratto. Si poteva quindi esercitare azione di buona fede propria del
contratto cui il patto ineriva. Tali fatti ebbero effetti obbligatori. Erano parte integrante dl
contratto, del quale avrebbero potuto modificare e integrare il contenuto tipico.
Giustiniano diede diretta efficacia obbligatoria al patto extragiudiziario con cui due parti
convenivano di rimettere all’arbitrato di un terzo scelto di comune accordo la decisione di
Le persone giuridiche
una controversia tra loro. Si utilizzava l’espediente delle reciproche stipulationes penali:
ciascuna parte prometteva all’altra una pena pecuniaria se non si fosse adeguata alla
decisione dell’arbitro. Si parlò di compromissum. Giustiniano diede autonoma rilevanza
al patto sottostante le stipulationes penali e concesse al vincitore un’actio in factum per la
realizzazione della decisione. Esso venne annoverato come patto legittimo, in quanto
2
proveniente da costituzione imperiale, sostanzialmente da legge. Ulteriore breccia fu
l’estensione dell’efficacia obbligatoria dei patti aggiunti contestualmente ai contratti,
anche se non di buona fede. Superata in buona sostanza la tipicità contrattuale, ogni
accordo, purché lecito, avrebbe potuto essere detto contratto e avere effetti obbligatori.
Ma il diritto romano non giunse mai a tale conclusione esplicitamente, fino a età
moderna.
Tra questi la più nota fu la gestione di affari altrui, cui si riconobbero effetti obbligatori:
era la gestione di affari altrui senza mandato, intrapresa con la convinzione che si trattasse
di affari altrui e iniziata utilmente, non rilevando se poi era stata utile al gerito o meno. Si
davano alle parti actiones negotiorum gestorum, diretta e contraria, di buona fede, la
prima a favore del gerito e l’altra del gestore. Sul gestore gravava l’obbligazione di
portare a termine l’affare intrapreso e trasferire al gerito beni e diritti che ne avesse
ricavato o che avrebbe dovuto ricavare. Sul gerito gravava l’obbligo di assumere su di sé
le obbligazioni contratte dal gestore per condurre l’affare e rimborsargli eventuali spese e
danni. La responsabilità prima limitata al dolo, fu estesa alla colpa. La necessità di
trasferire diritti e beni derivava dal fatto che non vi fosse rappresentanza diretta, ma
indiretta. Ebbe molteplici applicazioni.
Vi rientrarono anche queste tre categorie, ossia la gestione dell’impubero, della cosa
comune e dell’eredità comune. Nel primo caso, cessata la tutela, il tutore doveva
rispondere della gestione patrimoniale e l’ex pupillo doveva sollevare questo da debiti e
oneri contratti per la gestione e rimborsarne le spese. Le obbligazioni erano sanzionate da
actio tutelae directa e actio tutelae contraria, la prima contro il tutore e la seconda contro
l’ex pupillo, di buona fede. L’azione diretta era infamante e il tutore rispondeva per culpa
Le persone
in concreto. Anche per le altre due categorie, si aveva origine di diritti e doveri reciproci
tra comproprietari e coeredi: ci si ritrovava all’atto della divisione e si esercitavano actio
communi dividundo e actio familiae erciscundae.
I legati per damnationem e quelli sinendi modo davano luogo ad obbligazioni tra l’erede e
il legatario, una volta morto il testamentario. Nel primo caso, il testatore, mediante l’uso
di certa verba, onerava l’erede di svolgere una prestazione in favore del legatario. Nel
secondo caso lo onerava di un non facere, così che il legatario avrebbe potuto svolgere un
tipo di attività, come il prendere una cosa o ereditaria o personale dell’erede. Contro
l’erede inadempiente si dava l’actio ex testamento, in personam e in ius di stretto diritto.
In caso però di contestazione infondata, il legatario era obbligato alla condanna al doppio
per effetto della liticrescenza. Ai legati furono accostati i fedecommessi, disposizioni di
ultima volontà in favore di terzi, sanzionati ad opera di Augusto in sede di cognitio extra
ordinem. Al fedecommissario si dava la petitio fideicommissi. In essa il giudice decideva
secondo criteri di equità ed aveva libera interpretazione. Giustiniano equiparò i
fedecommessi e i legati.
A questo si è già fatto riferimento quando si disse che per questo Gaio ritenne
inesauriente la bipartizione delle fonti delle obbligazioni tra contratti e delitti. La solutio
indebiti come fonte di obbligazione si aveva quando un soggetto compiva una datio –
intesa come trasferimento di proprietà – nell’erronea convinzione di esservi tenuto e
l’altra parte riceveva inconsapevole dell’errore. Si giungeva allora a condictio indebiti per
la restituzione di quanto ricevuto indebitamente: era la medesima cosa se si trattava di
cosa specifica o l’equivalente nel caso di denaro e altre cose fruibili.
La condictio poteva riguardare anche altre applicazioni non contrattuali, sempre nei casi
in cui l’acquirente doveva restituire la cosa ricevuta o l’equivalente. Senza la condictio
infatti egli sarebbe andato incontro ad un arricchimento ingiustificato, non equo, contro il
principio per cui nessuno deve potersi avvantaggiare ingiustificatamente a danno di altri.
Giustiniano fece assumere alle condictiones il carattere di strumenti giuridici contro ogni
ingiustificato arricchimento. I suoi compilatori le tipicizzarono: mentre per i classici la
condictio era una, in età giustinianea nel Corpus iuris, nel Digesto, se ne annoverarono
più tipi, in base ai casi d’applicazione.
Le persone giuridiche
6.15 I delitti
Obbligazioni nascevano anche dai delicta, o maleficia, atti illeciti, comportamenti
volontari riprovati dal diritto. Furono comportamenti determinati che l’ordinamento
riprovava, ognuno con proprie caratteristiche e con proprio regime giuridico, rientranti tra
2
quelli che, per distinguerli dall’inadempimento delle obbligazioni, si è soliti chiamare atti
illeciti extracontrattuali. Il criterio della tipicità dei delitti subì diversi temperamenti, ma
non si giunse mai a una loro categoria unitaria. L’obbligazione era rappresentata dal
vincolo che si instaurava tra offeso e offensore, il quale era dovuto al pagamento di una
pena pecuniaria e poteva essere perseguito con azione penale nel processo privato. Le
azioni penali erano inizialmente in ius, successivamente il pretore concesse anche le
azioni penali in factum per fattispecie diverse da quelle contemplate. L’imputabilità era
data per dolo, quindi se l’offensore avesse fatto ciò con il proposito di provocare
all’offeso il pregiudizio che gliene era derivato. Successivamente, si iniziò a parlare di
colpa per il danneggiamento derivato da negligenza e imprudenza. Furono sanzionati
anche alcuni illeciti pretori da Giustiniano, compresi nelle obligationes quasi ex delicto.
Accanto ai delitti presero posto i crimina, ossia comportamenti più direttamente lesivi
degli interessi della comunità e pertanto più gravemente riprovati, repressi nell’ambito dei
iudicia publica. Tuttavia, con il tempo, si andò verificando un accostamento di illeciti
privati e crimina, tanto che nella compilazione giustinianea pochi rimasero i delitti non
perseguibili come crimina. Precedente era stato il processo di depenalizzazione degli
illeciti privati che avrebbe portato alla successiva depenalizzazione del diritto privato in
età intermedia, medievale e moderna. Nell’ambito del diritto privato, rimase solo il
risarcimento del danno.
6.15.1 Il furto
È il più antico tra i delitti. Si trattava della sottrazione illecita di cosa altrui. Ampliandosi
poi la nozione, vennero così qualificati taluni comportamenti sentiti come illeciti e
tuttavia come tali sanzionati. Si ritenne furto ogni comportamento doloso che, non
integrando gli estremi di altri delitti, provocasse ad altri una perdita, o anche solo uno
svantaggio relativamente a una cosa mobile o immobile. In età repubblicana, la nozione
venne poi ristretta alle cose mobili, senza reversione della cosa. Si richiese a volte che la
contrectatio fosse compiuta contro la volontà del proprietario della cosa per conseguire
un lucro o che comunque se ne avesse l’intenzione. Si parlava di contrectatio fraudolosa.
Si negò che fosse furto la sottrazione di cose ereditarie in merito all’eredità giacente e il
furto tra marito e moglie. È nota la distinzione tra furtum manifestum e nec manifestum.
Per manifesto si intendeva non tanto il furto in cui il ladro era visto rubare, ma quello in
Le persone
cui veniva colto sul fatto dal derubato. Per nec manifestum qualsiasi furto non fosse
manifesto. Colui che aveva compiuto furto manifesto poteva essere fustigato e addictus
dal magistrato al derubato. Se il furto avveniva di notte o il ladro fosse ricorso ad armi, il
derubato, invocata la testimonianza dei vicini, avrebbe potuto uccidere il ladro. Dalla
prima età postclassica, tali misure non furono più applicate e sostituite da actio furti
2
manifesti, penale pretoria, per cui il derubato riceveva il quadruplo del valore della cosa
rubata. Si agiva direttamente sul ladro se questo era sui iuris, sull’avente potestà e in via
nossale se alieni iuris. Per quanto riguarda il nec manifestum, si prevedeva una pena
pecuniaria del doppio del valore della cosa rubata. Non venne mai sostituita ma solo
affiancata dall’actio furti nec manifesti. Legittimato a perseguire tali azioni era chiunque
avesse reale interesse sulla cosa rubata, dunque non solo il proprietario ma anche, per
esempio, il comodatario. Con la penale actio furti concorreva e si cumulava la condictio
ex causa furtiva, esperibile solo dal proprietario in quanto tale. Ora, la condictio
prevedeva una datio come trasferimento della proprietà che non era nel furto avvenuto: si
deve ipotizzare che il significato di datio non fosse quindi originario. Al proprietario si
garantirono queste due tutele per consentirgli maggiore sicurezza. Nel caso il cui il ladro
fosse stato pieno di debiti oltre il suo patrimonio, la rei vindicatio sarebbe stata più
conveniente, contrariamente la condictio più sicura.
Si deve prendere in considerazione la lex Aquilia (de damno) del III sec. a.C., in realtà un
plebiscito. Essa era divisa in tre capitoli:
La pena non era in multiplo ma al simplum. Il valore veniva stabilito a seconda dei capita
della legge:
2
→ per il primo capitolo, essa era nel maggior valore dello schiavo o dell’animale
nell’anno precedente l’uccisione.
→ nel terzo capitolo, nel maggior valore di schiavi, animali o cose nei trenta giorni
precedenti l’uccisione.
Il secondo capitolo cadde in disuso in età preclassica, quando i rapporti tra adstipulator e
stipulante vennero esplicati nel mandato. Il primo e il terzo ebbero notevoli sviluppi.
L’azione concessa era l’actio legis Aquiliae, penale e in ius, per i proprietari, mentre il
pretore concesse anche ai non proprietari (usufruttuari, possessori..) delle azioni utili.
Avevano funzione reipersecutoria. Si adottarono inoltre validi strumenti che non
permettevano la cumulazione di quest’azione con un’altra. Nelle Istituzioni giustinianee
l’azione aquiliana non fu più penale ma reipersecutoria o mista a seconda dei casi. se il
danno fosse stato provocato nel momento di maggior valore della cosa nell’ultimo anno o
mese, sarebbe stata reipersecutoria. Se il valore della cosa fosse invece sceso nell’ultimo
anno o mese, sarebbe stata mista. La valutazione del danno in età classica tuttavia fu
considerata in base all’interesse dell’attore all’integrità fisica di essa. Quando si parla di
danneggiamento, si utilizza la parola iniuria per indicare il danno ingiusto, mentre nella
valutazione soggettiva si parlò anche di culpa, indicando il comportamento negligente,
anche di culpa levissima. Dal punto di vista oggettivo, il danno era corpore corpori
datum, prodotto direttamente dalla forza fisica dell’agente all’integrità fisica della cosa. Il
pretore, per alcune ipotesi di danno e per il danneggiamento senza lesione materiale,
propose azioni utili e in factum. Nella compilazione giustinianea, invece, si propose
un’azione generale. Nell’età intermedia, medievale e moderna, il danneggiamento
divenne illecito civile extracontrattuale, esplicato nell’art.2043 cod.civ., riguardante il
danno alla sfera giuridica della persona e l’obbligazione a risarcire danni. Per indicare il
danno e la responsabilità contrattuale, si parla ancora di danno e responsabilità aquiliane.
6.15.4 L’iniuria
La Legge delle XII Tavole prevedeva pene diverse per determinate offese arrecate
all’integrità fisica o comunque al fisico di un’altra persona. Tali pene erano:
Le persone
Si trattava comunque di pene non lievi. Da un canto, il taglione venne ritenuto una pena
rozza e primitiva e dall’altro invece, le pene pecuniarie furono ritenute irrisorie, in seguito
alla svalutazione della moneta. Per questo, il pretore concesse l’actio iniuriarum
aestimatoria, cui vennero incluse anche le offese morali. L’azione era penale e infamante
e la pena era pecuniaria, nella misura stabilita di volta in volta secondo principi di equità.
A giudicare non era un giudice unico, ma un giudice collegiale, i recuperatores. La
condemnatio aveva formula con taxatio in maniera tale che non si superasse il limite
imposto dalla legge. L’azione era intrasmissibile agli eredi, sia dal lato passivo che attivo:
una volta morto l’offeso, infatti, non poteva più essere esercitata.
Il diritto romano, oltre a quelli specificati conobbe altri delicta, sanzionati da azioni
penali ora civili ora pretore. Un caso particolare è quello dell’actio de pauperie,
contemplata nelle XII Tavole e presente nel Corpus iuris. Si trattava di un’azione che
scaturiva dal danno prodotto da pecudes, quindi danni conseguenti il comportamento
spontaneo e innaturale degli animali. Era esercitata contro il proprietario dell’animale,
che poteva o risarcire il danno o dare a nossa l’animale trasferendone al danneggiato la
proprietà. Poteva essere esercitato da ogni danneggiato che ne avesse interesse, o il
dominus stesso o altre figure come il comodatario. Era un’azione nossale ma non penale,
in quanto implicava il solo risarcimento del danno. Non riguardava atti illeciti di soggetti
a potestà e neanche illeciti volontari, ma solo il comportamento animale. Si trattava di
responsabilità oggettiva, senza colpa, che si addossava al dominus per il semplice fatto di
essere tale.
Iudex qui litem suam fecerit: nel caso in cui il giudice avesse giudicato male, per
imperizia. Si concedeva azione in factum, penale, con pena stabilita secondo criteri di
equità.
Effusum vel deiectum: con lo sviluppo edilizio, si ammise la possibilità di edifici costruiti
su più piani. Dunque, l’azione si concedeva al verificarsi di danni a persone o cose
2
provocati da oggetti lanciati o lasciati cadere dall’alo delle case di abitazione sulla
pubblica via. Contro l’habitator si concedeva azione penale in factum. La determinazione
della pena dipendeva dai diversi casi. per danni a cose era stabilita dal giudice al doppio
del danno, per ferimento di uomo libero stabilita secondo equità e per morte di un uomo
libero fissa (50 aurei nel diritto giustinianeo). Era un’azione popularis, ossia alla quale
era legittimato qualsiasi cittadino.
Positum aut suspensum: azione penale in factum e popularis, con pena fissa (10 aurei nel
diritto giustinianeo), che fu concessa contro l’habitator della casa sul cui tetto o
cornicione fosse stato posato un oggetto che rischiava di cadere. Era un’azione
esercitabile per la sola situazione di pericolo, a prescindere dal verificarsi del danno.
Actiones adversus, nautas, caupones, stabularios: era concessa per i furti, danni a
passeggeri ed avventori che si verificavano sulle navi, nelle locande, nelle stazioni per il
cambio dei cavalli con annesse locande. Si trattava di azioni penali in factum e in duplum
rispettivamente contro gli armatori, gli albergatori e i gestori. Erano a loro imputabili
anche se l’evento era dipendente da familiari, servi, dipendenti, ospiti e altri passeggeri o
avventori. Si trattò di responsabilità oggettiva, senza colpa, spesso coadiuvata dalla culpa
soggettiva, imputandosi a questi una scelta poco ponderata dei loro collaboratori.
prestazione col consenso del creditore. In questo ambito, vi fu discussione tra i proculiani
e i sabiniani: per i primi si risolveva ope exceptionis, per i secondi, vincitori, ipso iure. La
prestazione andava adempiuta nel tempo indicato nell’atto costitutivo, dunque alla
scadenza del termine o al verificarsi della condizione. Se nulla era stabilito, andava
compiuta in un tempo determinato dalle circostanze e dal tipo di prestazione. Se niente
era implicito o esplicito, doveva compiersi immediatamente. Il luogo dell’adempimento
era indicato nell’atto costitutivo, dalle circostanze e dal tipo di prestazione. Se non era
specificato, si compiva nel luogo in cui il debitore poteva esser convenuto in giudizio,
dunque al suo domicilio.
Con il termine remissione, si indica oggi l’atto con cui il creditore rinuncia al proprio
credito. Nel diritto romano, si parla di solutio per aes et libram, acceptilatio e pactum de
non petendo.
L’acceptilatio
2
dall’adempimento. Fu adoperata per la remissione del debito, indipendentemente dalla
causa. Fu considerata imaginaria solutio. Si applicò durante il principato e nel Corpus,
per il largo ricorso alla stipulatio. Era nulla per vizi di forma o perché riferita a
obbligazioni non contratte verbis, era valida come pactum de non petendo.
Si poteva avere remissione del debito anche con semplice patto a non pretendere
l’adempimento della prestazione. Avrebbe avuto l’efficacia propria dei nuda pacta,
estinto ipso iure e per le azioni penali furti e iniurarum.
6.17.3 La transazione
Era una specifica causa dei negozi astratti e un particolare caso di pactum de non petendo.
Presupponeva una lite in corso o incertezza su doveri e diritti reciproci delle parti e
pattuivano queste delle attribuzioni e rinunce. Per le attribuzioni si proseguiva o
immediatamente o ci si impegnava tramite stipulatio. Per le rinunce il pactum
transactionis era sufficiente, in quanto opposto validamente mediante exceptio. acquistò
poi fisionomia autonoma e per l’attuazione si utilizzò l’actio praescriptis verbis: da qui
l’inquadramento nei contratti innominati.
6.17.4 La novazione
nuovo era la causa, ma anche condizioni, termini, garanzie personali. Un caso particolare
di novazione oggettiva è la stipulatio Aquiliana. In un'unica stipulatio si deduceva il
corrispettivo pecuniario – di ogni debito o obbligazione – conosciuto o ignorato da
ambedue le parti – del promittente verso lo stipulante, in modo che il primo fosse tenuto
verso lo stipulante ad una sola prestazione: quella, pecuniaria, ma incerta nel suo
2
ammontare, assunta con la stipulatio, la cui obbligazione avrebbe potuto essere estinta
con acceptilatio. Vi si ricorreva a scopo transattivo e nei rapporti tra amministratori di
complessi patrimoniali.
6.17.5 La compensazione
Per compensazione si intende il fenomeno per cui, se il creditore è debitore del suo
debitore, crediti e debiti reciproci si estinguono nella misura in cui concorrono. Oggi si fa
distinzione tra compensazione legale e compensazione giudiziale: nella prima,
l’estinzione ha luogo automaticamente per il semplice fatto che esistano obbligazioni
reciproche, mentre nella seconda, l’estinzione si verifica per effetto della sentenza di un
giudice, il quale, presi in esame i controcrediti, si dà luogo ad operazione contabile e si
condanna una delle parti al pagamento della differenza tra i crediti (o all’assoluzione se
equivalenti i crediti). Il fenomeno della compensazione legale è estraneo al diritto romano
e dapprima anche la compensazione giudiziale, perché ad ogni obbligazione
Le persone giuridiche
corrispondeva un’azione tipica e, nel processo ordinario, le strutture erano tali da non
consentire che si mescolassero azioni diverse nello stesso processo. Dall’ultima età
repubblicana si diede origine a diverse deroghe. Una delle quali riguardava obbligazioni
perseguibili con azioni di buona fede, perché non si ritenne conforme a buona fede che si
chiedesse l’adempimento di una prestazione se non si era adempiuta la propria.
2
Successivamente si tenne conto dei controcrediti del convenuto così da procedere a
compensazione e condannarlo al pagamento della differenza. Il credito minore si sarebbe
estinto per effetto della sentenza del giudice. Affinché il giudice potesse procedere si
richiedeva che i due crediti fossero ex eadem causa, dipendessero cioè dalla stessa fonte,
dallo stesso rapporto. Non occorreva che i crediti fossero omogenei, poiché, essendo la
condanna espressa in denaro, tutti i crediti venivano ridotti allo stesso comune
denominatore pecuniario: onde la possibilità di compensare, al limite, un credito in
denaro con altro avente oggetto uno schiavo. Altra deroga riguardò gli argentarii, i
banchieri, che disponevano di sicuri strumenti di riscontro contabile e dunque sui quali
gravò l’onore, se erano al contempo debitori e creditori dei propri clienti, di agire contro
di essi cum compensatione: avrebbero dovuto cioè calcolare preliminarmente il saldo per
cui restavano creditori così che nell’intentio dell’azione relativa al credito si inserisse quel
saldo. Col rischio, se veniva indicato un importo maggiore, di perdere la lite per pluris
petitio. Anche in questo caso, il credito si estingueva per effetto della sentenza del
giudice, ma i due crediti dovevano essere omogenei, quindi avere ad oggetto cose
fungibili e potevano non derivare dalla stessa fonte. Anche giudiziale era il tipo di
compensazione che aveva luogo con il bonorum emptor, il quale era obbligato ad agire
cum deductione contro i debitori del fallito se fossero questi stati a loro volta creditori
dello stesso. Al credito si faceva riferimento nella condictio, così che sarebbe stato
compito del giudice l’operazione contabile: in questo modo non v’era pericolo che il
creditore chiedesse più del dovuto e in tal modo il giudice poteva anche procedere a
compensare crediti non omogenei, pur se non derivanti da stessa fonte. In un riscritto,
Marco Aurelio consentì al convenuto di opporre in compensazione, nei giudizi di stretto
diritto e mediante exceptio doli, i propri controcrediti alle pretese creditorie dell’attore.
Nel diritto giustinianeo, il ricorso alla compensazione si generalizzò: essa poteva avere
luogo anche nell’ambito di azioni reale e ipso iure. Con Giustiniano, dunque, si riconobbe
la compensazione legale.
Si fa riferimento all’ipotesi del creditore di una cosa determinata, il quale, dopo che
l’obbligazione è sorta, acquista la stessa cosa ad altro titolo, per altra via. La conseguenza
era che dapprima l’obbligazione si estingueva. Successivamente, si affermò il principio
Le persone
per cui l’obbligazione si estingueva in quanto le due cause – quella in base alla quale la
res era dovuta all’altra in base alla quale essa era acquistata – fossero ambedue lucrative,
senza oneri pecuniari per lo stesso creditore. Si parlò di concursus causarum
lucrativarum.
2
Per confusione.
Per impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore.
In deroga al principio che crediti e debiti si trasmettevano agli eredi,
l’obbligazione si estingueva per morte di una parte nelle seguenti materie: negli
illeciti sanzionati da azioni penali, nelle obbligazioni di garanzia da sponsio e
fidepromissio, nella societas e nella locatio operarum, nel mandato.
I contratti consensuali, finché non avesse avuto luogo l’esecuzione, si
scioglievano per reciproco dissenso, talché si estinguevano le obbligazioni.
Società e mandato anche per motivi diversi e anche se il contratto avesse avuto un
inizio di esecuzione. Si estinguevano allora quelle obbligazioni in funzione della
sua ulteriore attuazione, non le altre.
Con l’adrogatio e la conventio in manum di donne sui iuris si estinguevano i
debiti contratti dall’adrogato e dalla donna.
Con il decorso del tempo: inizialmente crediti e debiti non avevano limiti di
tempo. Tuttavia, Teodosio II istruì una praescriptio triginta annorum, opponibile
ad ogni azione dopo trent’anni di inerzia del titolare, che avrebbe estinto ogni
obbligazione in via d’eccezione.
potevano estinguersi garanzie e interessi. Ciò non era sempre possibile poiché il debitore
avrebbe potuto non essere disponibile, quando invece obbligatoria era la sua presenza.
Allora il cedente avrebbe nominato cognitor o procurator ad litem il cessionario, che
avrebbe potuto agire in giudizio contro il debitore con la stessa azione della quale era
titolare il cedente. Il cessionario avrebbe trattenuto quanto ricavato: sarebbe stato pertanto
2
un cognitor o procurator in rem suam, ossia nel suo interesse. Così, però, il cessionario
era garantito solo a partire dalla litis contestatio poiché solo da quel momento il debitore
sarebbe stato tenuto direttamente verso il cessionario attore. Prima di allora il debitore
avrebbe dovuto adempiere direttamente al cedente con effetto liberatorio, e il cedente
avrebbe potuto far estinguere l’obbligazione e agire egli stesso in giudizio contro il
debitore o revocare unilateralmente la nomina a cognitor o procurator, qualifiche
intrasmissibili agli eredi. Per l’ipotesi di vendita e conseguente cessione di crediti, si
stabilì che al compratore-cessionario si dessero, contro i debitori ereditari, actiones utiles
proprio nomine, in modo che il cessionario potesse agire come per un credito proprio. Si
diedero anche al cessionario di singoli crediti. Si diffuse anche la prassi di notificare con
denuntiatio al debitore, da parte del cessionario, l’avvenuta cessione e, in età classica,
effettuata la denuntiatio, il debitore non poteva più pagare al cedente con efficacia
liberatoria. Risalgono al Basso Impero altri interventi imperiali: si vietò la cessio in
potentiorem, la cessione di debiti al più potente economicamente o socialmente e si vietò
che il cessionario esigesse dal debitore più di quanto speso per l’acquisto del credito.
Quando vi era la presenza di solidarietà elettiva, uno solo dei creditori esigeva per tutti
l’intera prestazione, o uno solo dei debitori l’adempiva per tutti. Una possibile forma era
nella stipulatio, nel caso di più stipulanti e un promittente o viceversa: attiva nel primo
caso, passiva nel secondo. Poteva sorgere anche nell’ambito di altri contratti, sempre che
una delle parti contraenti fosse costituita da più persone, e che vi fosse la volontà dei
contraenti. Il regime poteva non essere così nel caso di obbligazioni indivisibili con
pluralità di creditori o debitori o nel caso del legato per damnationem in cui il testatore
avesse posto a carico di un erede l’obbligo di compiere una determinata prestazione in
favore di uno o dell’altro legatario, o avesse posto alternativamente a carico di più coeredi
l’obbligo di compiere la stessa prestazione a un legatario. Essa si estingueva per tutti,
Le persone giuridiche
2
personam solo tra le parti tra le quali il patto era intervenuto. Quanto alla litis contestatio,
si doveva distinguere tra giudizi di stretto diritto e giudizi di buona fede: nei primi, la litis
promossa da un concreditore o contro un condebitore estingueva l’obbligazione per tutti,
poiché la successiva azione promossa da altro concreditore o contro altro condebitore
sarebbe stata preclusa. Ciò persino se, nella solidarietà passiva, il primo condebitore non
adempisse la prestazione perché non solvibile. Nel secondo caso, si ritenne che finché il
creditore, nella solidarietà passiva, non fosse stato soddisfatto, l’obbligazione a carico dei
condebitori sussisteva. Analogamente per la solidarietà attiva. Giustiniano estese le
soluzioni che i classici avevano limitato ai giudizi di buona fede. In materia di diritto
romano non si conobbero vere e proprie azioni di rivalsa o di regresso. Contro il
concreditore il quale aveva esatto la prestazione gli altri concreditori non avevano azione
di rivalsa per pretendere che il ricavato venisse tra loro spartito. E il condebitore,
adempiuta la prestazione, non aveva azione di regresso contro gli altri obbligati per il
rimborso di quanto speso. Giovavano però le azioni che sanzionavano il loro rapporto
interno, ad esempio l’azione divisoria per i comproprietari. Il rapporto interno poteva
anche far sì che a dover adempiere fosse uno solo dei coobbligati: era il caso del creditore
principale e dell’adstipulator. L’adstipulator che avesse esatto la prestazione avrebbe
rimesso tutto il ricavato al creditore principale, che non avrebbe dovuto nulla a questo. A
situazioni simmetriche e contrarie davano luogo, nella solidarietà passiva, i rapporti tra
garanti e debitore principale, l’unico che avrebbe dovuto sopportare il sacrificio
economico della prestazione.
La più antica, antenata della stipulatio, è la sponsio: si compiva verbis e dava origine ad
obbligazioni contratte verbis. Doveva essere prestata subito dopo la promissio del
Le persone
debitore principale dallo sponsor. Era riservata ai soli cives Romani. L’obbligazione si
estingueva alla morte dello sponsor. Una lex Publilia stabilì contro il debitore che entro
sei mesi non gli avesse rimborsato quanto pagato al creditore, lo sponsor avrebbe potuto
direttamente agire con la legis actio per manus iniectionem pro iudicato. Venuta meno
questa poté agire ex lex Publilia con l’actio depensi: nella misura del simplum qualora il
2
debitore ammettesse il suo debito e nella misura del doppio qualora lo negasse. Più
recente è la fidepromissio, della prima età preclassica, una vera e propria stipulatio. Il
regime giuridico era come quello della sponsio: tuttavia, questa era fruibile sia da cittadini
che da peregrini e ad essa non fu estesa l’azione di regresso della legge Publilia. A queste
stipulazioni di garanzia fecero riferimento alcune leggi repubblicane. Tra queste, la Lex
Furia de sponsu, che stabilì che, trascorsi due anni dall’assunzione della garanzia, i
garanti erano liberati. E che, se più erano i garanti, la prestazione doveva essere divisa tra
loro in parti uguali. Alla fine della repubblica, si diede avvio anche alla fideiussione, una
stipulatio accessibile sia a cittadini che a non cittadini, alla quale non si estesero le leggi
Publilia e Furia e il regime giuridico rimase assai diverso: essa, alla morte del fideiussore,
passava agli eredi, potevano essere garantite anche obbligazioni diverse rispetto a quelle
contratte verbis e si poteva derogare la regola dell’unità di tempo e spazio (poteva essere
prestata a distanza di tempo dopo l’assunzione dell’obbligazione principale e in luogo
diverso). Adriano riconobbe il principio per cui la prestazione fosse divisibile tra più
fideiussori dello stesso credito, purché solvibili. Un tratto comune di queste tre
stipulazioni era che si costituiva tra debitore principale e garanti da una parte e creditore
dall’altra, il regime della solidarietà elettiva passiva, essendo la prima parte tenuta al
pagamento in solidum al creditore. La posizione del garante era diversa da quella del
debitore, in quanto caratteristica della garanzia era l’accessorietà: essa presupponeva
l’esistenza dell’obbligazione principale. Erano nulle le stipulazioni per importi superiori
al debito principale. L’estinzione dell’obbligazione principale comportava l’estinzione
delle garanzie, ma non viceversa: quella principale si estingueva solo se l’estinzione delle
stipulazioni di garanzia investiva l’intero rapporto. Quanto alla litis contestatio, si deve
ricordare che con essa l’obbligazione si estingueva nei confronti sia del debitore che dei
garanti, in quanto l’azione contro i garanti era di stretto diritto. Da qui l’effetto preclusivo
verso tutti i condebitori solidali e l’esigenza che il creditore proponesse l’azione contro il
più solvibile di essi. Circa i rapporti tra debitore principale e garanti, bisogna specificare
che il sacrificio economico spettava soltanto in ultimo al debitore principale, ma che
l’zione di regresso dei garanti contro il debitore si aveva, con l’actio depensi, solo nella
sponsio. Per le altre due stipulazioni si fece riferimento al mandato, concedendo l’actio
mandati contraria. Solo per i debiti pecuniari, al garante pronto a pagare il creditore
cedeva anche l’azione contro il debitore principale, nominandolo cognitor o procurator
Le persone giuridiche
2
cedendarum actionum venne considerato come vero e proprio diritto del garante. Si istituì
il beneficium excessionis, con il quale si riconobbe a ogni garante il diritto di pretendere
che si agisse prima contro il debitore principale, se necessario anche in via esecutiva. I
garanti sarebbero così stati tenuti non oltre la misura di quello che il debitore principale
poteva prestare.
In integrum restitutio ob fraudem: gli atti del debitore che ne avevano ridotto il
2
Il termine per queste due ultime era di un anno dall’istanza. Requisiti comuni erano:
Eventus damni: aveva carattere oggettivo, ossia doveva essere reale l’effettivo
pregiudizio ai creditori, avendo ridotto il patrimonio del debitore in misura tale
che esso non era più sufficiente per soddisfare i creditori.
I compilatori del Digesto procedettero alla fusione degli ultimi due atti cosicché il diritto
per la revoca degli atti fraudolenti divenne un’azione ordinaria, che, siccome rinvenuta in
uno scritto attribuito a Paolo, venne detta actio Pauliana.
Le persone giuridiche
2
7. Le donazioni
7.1 La donazione: concetto ed evoluzione
La donazione non era dapprima un negozio autonomo ma una possibile causa di negozi
giuridici astratti, i quali potevano in fatti essere compiuti donandi causa, in modo che una
parte effettuasse un’attribuzione patrimoniale in favore di un’altra senza corrispettivo e
pertanto a titolo gratuito. Essa aveva effetti diversi: effetti reali nel trasferimento della
proprietà e nella costituzione o estinzione di altri diritti di godimento, effetti obbligatori
quando il donante con stipulatio prometteva una certa prestazione, effetti estintivi di
obbligazioni quando faceva acceptilatio del proprio credito o rimetteva al debitore il suo
debito. Si distingue quindi rispettivamente tra donazioni in dando, donazioni in
obligando, donazioni in liberando.
legge, dunque la donazione non sarebbe più stata revocabile, in quanto il donatario
avrebbe potuto appellarsi, in seguito ad exceptio, alla replicatio doli. Quelle revocabili si
dissero imperfectae e quelle non revocabili perfectae.
Con la costituzione di Costantino nel 323, la donazione divenne vero e proprio negozio
causale e fu classificata contractus, potendo effettuare questa il trasferimento della
proprietà, dunque dar luogo a effetti reali. Con riguardo agli immobili, però, si
necessitavano alcune formalità: la forma scritta, la consegna della cosa in presenza del
vicinato, la registrazione presso un ufficio pubblico. La donazione fu detta perfecta, non
più revocabile. La lex Cincia perse probabilmente valore. Giustiniano non negò la
costituzione di Costantino, ma tornò ad esigere la traditio per il passaggio della proprietà
e al contempo diede efficacia alle donazioni obbligatorie pure se compiute con semplice
patto.
Perciò, questa si assimilò a buona parte del regime dei legati, giungendo con Giustiniano
alla parificazione.
2
Le persone
2
8. Le successioni mortis
causa
2
proseguiva ad accettazione a volte. Di qui la distinzione tra heredes necessarii e heredes
voluntarii: i primi automaticamente per effetto della delazione, i secondi in forza
d’accettazione. Una volta acquistato il titolo non si perdeva più e non poteva essere
ceduto. A seguito dell’incompatibilità tra successione testamentaria e legittima, si affermò
che queste due non potevano coesistere nella stessa persona. Altro principio era quello
dell’intrasmissibilità della delazione ereditaria: se il chiamato ad eredità moriva prima di
aver accettato, i suoi eredi non avrebbero potuto procedere ad accettazione. La regola subì
in età classica e postclassica temperamenti per ragioni d’equità. Giustiniano introdusse la
transmissio iustinianea riconoscendo agli eredi del chiamato di acquistare in vece sua
l’eredità entro un anno dall’aver avuto notizia della delazione o dal giorno della delazione
se il dante causa non ne aveva avuto notizia. La delazione era intrasmissibile mortis
causa e con atti inter vivos. Ne fu non proprio un’eccezione l’in iure cessio hereditatis,
per cui l’erede ab intestato cedeva l’eredità sì che il cessionario divenisse egli stesso
erede. Non era trasmissione in quanto il cessionario non rispondeva alla chiamata
all’eredità né si trasmetteva una posizione giuridica soggettiva, in quanto l’erede non
aveva ancora acquistato tale titolo. Cadde in desuetudine in età postclassica.
soggetti a patria potestas del testatore sia a servi manomessi per via testamentaria. Gli uni
e gli altri potevano essere validamente istituiti eredi, giuridicamente capaci alla morte
dell’ereditando. Nulla vietava che si istituissero eredi figli e schiavi altrui: questi, con
l’accettazione avrebbero acquistato eredità l’avente potestà. Essi avrebbero per questo
fatto valido atto d’accettazione previa invito dell’avente potestà. Le conseguenze
2
giuridiche dell’incapacità discendevano dai principi. Gli incapaci non erano chiamati
all’eredità. Se un incapace era istituito erede, al suo posto subentrava il substitutus. In
difetto di quello, si accresceva la quota ai coeredi testamentari. Ma se ad essere incapace
era l’unico chiamato all’eredità o tutti quelli chiamati, si apriva la successione legittima.
Quanto al testatore, in difetto di testamenti facto attiva, il testamento era nullo e si
proseguiva a successione legittima.
l’uccisore dell’ereditando.
2
i rei di adulterio e stuprum.
Gli altri chiamati all’eredità erano gli eredi volontari, o heredes extranei. Non divenivano
eredi automaticamente per effetto della chiamata, ma di seguito ad accettazione o
adizione. Prima dell’accettazione l’eredita era considerata giacente ed esposta a usucapio
pro herede.
→ Cretio: era un atto formale, uno degli actus legitimi e si compiva con la pronuncia
di parole determinate, tra cui adeo cernoque, che esprimevano la volontà di
accettare l’eredità. Si faceva necessariamente ricorso a questa se, nella successione
Le persone
→ Pro herede gestio: si compiva in tutti gli altri casi. era un’accettazione tacita
dell’eredità, che consisteva in comportamenti determinati, che manifestavano
senza equivoci la volontà di accettare. Si trattava di atti concludenti, per lo più
2
Era possibile pure che fosse l’erede volontario ad essere obbligato al pagamento di debiti,
ma che fosse insufficiente il suo patrimonio. Il pregiudizio per la fusione dei patrimoni
avrebbe allora riguardato i creditori ereditari. Una volta avviata l’esecuzione per debiti
contro l’erede, il pretore avrebbe concesso un decretum di separatio bonorum: la
Le persone giuridiche
8.2.7 L’hereditas
Era oggetto della successione universale e la qualificarono come universitas, intendendo
2
un complesso unitariamente considerato di corpora e iura (beni e proprietà, crediti e
debiti), possibile oggetto di bonorum venditio e di specifica azione giudiziaria. Era un
dato reale e contemporaneamente una costruzione giuridica, per cui poteva accadere che
il passivo superasse l’attivo. Subiva incrementi e perdite o poteva rimanere uguale a se
stessa. Era inoltre un complesso unitario che, prima dell’accettazione, era suscettibile di
propria autonoma considerazione: si pensi all’eredità giacente, all’in iure cessio
hereditatis e all’usucapio pro herede. Era considerata anche ius (ius successionis o ius
hereditatis) avente ad oggetto la stessa universitas e spettante a quanti ne fossero eredi,
classificata come res incorporales. Comprendeva le situazioni soggettive trasmissibili che
facevano capo al defunto al tempo della morte: non comprendevano l’usufrutto e diritti
affine, né le potestas familiari (estinte alla sua morte) o la tutela e la cura. Invece, si
trasmettevano la potestà sui servi e il mancipium su filii familias altrui. Gli heredes
necessari furono considerati automaticamente possessori delle cose già in possesso del
defunto. Gli eredi volontari diventati possessori con la presa di possesso furono
considerati i continuatori del possesso dell’ereditando e nella sua stessa situazione
possessoria. All’ereditando potevano far capo posizioni soggettive che non si
estinguevano con la morte e che passavano ai familiari stretti, che fossero questi eredi o
non, come i sacra familiaria (i riti inerenti al culto delle divinità domestiche), il ius
sepulcri (il sepolcro) e il patronato (i diritti, le prerogative, le aspettative del patrono
riguardo ai suoi liberti).
ammessa questa contro colui che avesse accettato hereditatem defendere per distogliere
l’attore dal vero legittimato e anche contro chi avesse prima della litis cessato
dolosamente di possedere. Il convenuto con la petizione di eredità, o in buona o in mala
fede, doveva restituire i frutti percepiti dal possesso della cosa ereditata e rispondere del
suo comportamento doloso o colposo, ma anche restituire i frutti percepiti prima della lite
2
sotto il profilo in cui questi accrescono l’eredità, oltre che le cose acquistate con il
patrimonio ereditario e quanto ricavato dalla vendita di queste cose ereditarie, dunque
ogni cosa lo avesse arricchito in relazione al possesso di cose ereditarie. Dunque
l’hereditatis petitio, pur essendo azione reale, comprendeva delle prestazioni personali.
Giustiniano la incluse tra le azioni di buona fede.
8.2.9 La coeredità
In relazione al consortium ercto non cito, si parla di comunione di eredità, o coeredità,
che si stabiliva tra più eredi una volta scomparso il consortium o tra più eredi extranei.
Ogni erede era titolare di una quota ideale con diritti e doveri uguali a quelli del
comproprietario sul bene comune. Ciò emerge nell’ambito dello ius adcrescendi e della
divisione.
quando il testatore aveva istituito congiuntamente più eredi per la stessa quota: per
effetto della coniunctio, la parte del coerede che non acquistava l’eredità si accresceva
in favore degli altri che fossero stati chiamati in eredità.
partecipanti alla divisione con effetto costitutivi di proprietà o altri diritti reali. Al
regolamento dei conti si procedeva per condemnationes, rendendo la divisione fonte di
obbligazioni. Il giudice doveva tenere conto di diversi fattori giuridicamente rilevanti: il
modus del testatore messo a carico di taluno degli eredi, i prelievi spettanti a singoli
coeredi sull’asse ereditario indiviso, la certa res da assegnare, per volontà del testatore,
2
all’erede istituito ex certa re.
concedevano azioni iure civili come quelle degli eredi. La bonorum possessio era spesso
concessa a soggetti che erano anche heredes, e che avrebbero potuto utilizzare
prerogative proprie solo del possessor: la possessio sarebbe stata adiuvandi iuris civilis
gratia. Era possibile che si desse a soggetti i quali non erano eredi o per mancanza di eredi
civili o per preferenza a essi, per colmare lacune del diritto civile o correggerlo. Nel
2
conflitto chi dei due prevaleva? Inizialmente si dava sempre ragione all’erede civile:
tuttavia, tale pratica si ritenne iniqua e dunque la vittoria dipese da caso a caso. Il
possessor avrebbe potuto opporre exceptio doli all’hereditatis petitio dell’erede. La
bonorum possessio poteva essere cum re se a prevalere era il possessor, sine re viceversa.
La tutela giudiziaria per le due figure era pressoché uguale e si ritenne che oggetto della
bonorum possessio era una universitas, un ius, quindi un insieme unitario di posizioni
giuridiche soggettive attive e passive. In materia di successione, il regime dell’eredità si
riconobbe uguale in quanto a capacità, indegnità, comunione, accrescimento e divisione.
Si sottolineò la formale distinzione, ma la sostanziale equiparazione dei due istituti,
osservando che il bonorum possessor succede in luogo all’erede (loco heredis).
Differenze invece si applicarono per delazione e acquisto. Per diritto pretorio, la
delazione era testamentaria e legittima: alla prima apparteneva la bonorum possssio
secundum tabulas, alla seconda sine tabulis e contra tabulas. A norma di un’apposita
clausola edittale, l’edictum successorium, la chiamata dei successibili avveniva per
categorie e aveva durata limitata nel tempo. Era assegnato ad ogni categoria un termine
per essere ammessi. Decorso questo inutilmente, l’istanza sarebbe stata loro preclusa e
sarebbero stati chiamati gli appartenenti alla categoria successiva. Il tempo per l’istanza
era di un anno per i figli e i genitori dell’ereditando, di cento giorni per gli altri chiamati.
Esso decorreva dalla morte dell’ereditando per gli appartenenti alla categoria chiamata
per prima e successivamente dalla scadenza del termine assegnato agli appartenenti alla
categoria precedente. Alla successione pretoria erano chiamati soltanto gli eredi volontari
poiché alla bonorum possessio erano ammessi di seguito ad agnitio bonorum
possessionis. Si iniziava con un’istanza dell’interessato e si concludeva con la
concessione da parte del pretore secondo le previsioni edittali. Nell’età postclassica,
venuta meno la giurisdizione pretoria, si continuò a distinguere tra heredes e bonorum
possessores, anche se, per diritto giustinianeo, vennero quasi del tutto assimilate.
8.3.1 La collazione
Si manifestò nell’ambito della bonorum possessio in due specie:
→ Collatio bonorum: fu proposta dal pretore con riguardo alla bonorum possessio
ab intestato. Alla successione pretoria erano chiamati i liberi, trai quali
rientravano sia i sui sia i figli emancipati, in riguardo ai quali il pretore si occupò
Le persone giuridiche
di determinarne le disparità. Gli acquisti compiuti dai sui in vita del pater
sarebbero andati all’avente potestà, mentre quelli degli emancipati rimanevano
agli emancipati stessi. Morto il padre, quindi, gli acquisti dei sui rientravano nella
massa ereditaria divisi tra sui e emancipati, mentre quelli degli emancipati
sarebbero rimasti agli stessi emancipati. Il pretore addossò ai figli emancipati,
2
pena la negazione dei mezzi giuridici loro spettanti in quanto bonorum
possessores, di procedere a collatio bonorum in modo che del patrimonio
personale si avvantaggiassero in uguale misura anche i sui. L’emancipato doveva
prestare tante cauzioni quanti erano i sui che avevano titolo alla collazione, a
ciascuno promettendo una parte dei propri beni personali, escluso il passivo. Beni
oggetto di questa collazione non sarebbero stati parte della massa ereditaria, ma
ignorati nel giudizio divisorio.
→ Collatio dotis: era anche questa di origine pretoria. Riguardava la figlia cui il
padre avesse concesso una dote e che, sciolto il matrimonio, sarebbe stata di
norma restituita. Essi, provenienti dal patrimonio paterno, avrebbero portato
vantaggio solo alla figlia. Dunque il pretore le diede l’onere alla collatio dotis, se
questa concorreva alla bonorum possessio ab intestato, in modo da garantire
uguaglianza a fratelli e sorelle. Sanzionata come la collatio bonorum, questa si
attuava mediante cauzioni, promettendo la figlia ai fratelli di cedere a ognuno
ugualmente una parte del patrimonio dotale.
Durante il Basso Impero questo regime subì importanti mutazioni: l’onere della
collazione non presuppose più la bonorum possessio e si realizzò con tutti i discendenti
sia in linea paterna che materna, emancipati e non, riguardando sia i beni dotali sia quelli
che il successore avesse avuti in donazione dall’ereditando. Confluì poi in un unico
istituto: la collatio discendentium. Rimase uguale il modo di attuazione tramite cautiones
e il riferimento alla sola successione legittima, che si estese solo con Giustiniano a quella
testamentaria.
accettazione degli eredi volontari, il momento della delazione ricorreva quando si aveva
la certezza che questi non avrebbero accettato. Analogamente nella successione pretoria:
gli eredi ab intestato erano chiamati alla bonorum possessio una volta trascorsi
inutilmente i termini per l’agnitio della bonorum possessio secondo testamento e si dava
possibilità di delazioni successive. In questa successione rientrava quella contro
testamento. Alla successione universale ab intestato erano chiamati gli eredi nel seguente
ordine: i sui, gli agnati, i gentiles. Tra i suoi si faceva rientrare anche i figli in potestate,
sia maschi che femmine, avuti durante iustae nuptiae e adottivi, la moglie in manus del
marito (considerata al pari di una sua sorella) e i nipoti figli del figlio premorto. A questa
categoria appartenevano anche i postumi sui, ossia quanti non ancora nati ma già
concepiti al momento della morte del pater familias. se più erano i sui, a ciascuno
spettava una quota per stirpe, non per capita: ai nipoti ex filio si assegnava globalmente
quanto sarebbe spettato al padre se questo fosse stato ancora in vita. Solo il sesso
maschile poteva avere sui heredes, per le donne dunque si faceva riferimento agli agnati.
Poi erano chiamati alla successione gli agnati, ossia le persone libere discendenti in linea
maschile da uno stesso capostipite comune di sesso maschile, sempre che il vincolo non si
fosse prima spezzato. Gli agnati erano non sui, dunque fratelli e sorelle, ma anche moglie
e figli, se la moglie avesse contratto matrimonio cum manu. Gli agnati di sesso maschile
non avevano limiti di grado, le donne non oltre il secondo grado. Poiché si parla di agnate
prossimo, il parente di grado più vicino escludeva quello più lontano: non si ammetteva
successio graduum. Se più erano gli agnati dello stesso grado, ad entrambi sarebbe
spettata un uguale quota, dunque la successione sarebbe stata per capita. Gli agnati erano
eredi volontari. Successivamente erano chiamati i gentili, ossia coloro che appartenevano
alla stessa gens dell’ereditando. Essi erano eredi volontari. Oltre la successio graduum,
era negata anche la successio ordinum, ossia la successione per classi, in quanto ai gentili
si faceva ricorso solo in mancanza di agnati. In età classica questa è desueta, essendo già
venuta meno l’organizzazione gentilizia. Vigeva poi la regola per cui il patrono
succedeva al proprio liberto se questo non avesse fatto testamento e in mancanza di sui
heredes: il patrono teneva il ruolo che nella successione dei nati liberi avrebbero avuto gli
agnati. Inoltre, il padre partecipava alla successione del figlio manomesso come parens
manumissor (considerato alla stregua di un patrono per il figlio).
Le persone giuridiche
2
manu non vi era successione tra marito e moglie, oltre che, spezzato il vincolo
dell’agnatio, i figli non erano chiamati alla successione del padre o dei fratelli naturali né
questi potevano succedere a fratelli o sorelle emancipati o dati in adozione. A ciò supplì il
sistema pretorio della bonorum possessio sine tabulis, alla quale erano chiamati:
I liberi: erano i sui, i figli emancipati e i figli dati in adozione, ma già sui iuris al
tempo della morte del padre. se premorti o rinunciatari, i loro discendenti. Si
aveva attribuzione per stirpi.
I cognati: erano i parenti di sangue sia in linea maschile che in linea femminile,
non oltre il sesto grado. Il parente più vicino aveva la precedenza su quello più
lontano. Era ammessa successio graduum, e l’attribuzione avveniva per capita.
Ogni soggetto possibile erede, nella successione civile, era presente nella previsione
edittale. Ma, nella successione pretoria, così non avveniva in quanto la cognatio era
ritenuta vincolo di sangue autonomo e così il vincolo coniugale, indipendentemente dalla
manus. In virtù dell’edictum successorium gli appartenenti ad una classe erano chiamati
non solo quando mancavano successibili nella classe precedente ma anche se questi
esistevano e avevano fatto decorrere il termine inutilmente. Questa bonorum possessio
ammise la successio graduum e la successio ordinum. Coloro che avevano fatto scadere il
termine, potevano richiedere la possessio se anche appartenenti alla classe successiva.
8.6 Il testamento
La chiamata all’eredità avveniva in forza di testamento, la cui delazione prevaleva di
norma su quella ab intestato. Il testamento era un atto unilaterale, mortis causa,
personalissimo e revocabile sino all’ultimo istante di vita, con cui il testatore disponeva
delle proprie sostanze per il tempo dopo la propria morte. Il testamento era certamente un
atto complesso, che poteva contenere più negozi, di cui però imprescindibile, pena la
nullità dell’atto, l’istituzione dell’erede. La successione testamentaria non era la più
antica, ma certamente si affermò a Roma sin da età remota, prima ancora delle XII Tavole
e trovò ampia diffusione tra le classi più abbienti. Il testamento era considerato come un
conforto per la morte ed era ritenuta grave sciagura morire senza aver fatto testamento.
Testamentum deriva da testes, testimoni ed infatti formalità richiesta per questo era
proprio la presenza di testimoni.
2
tramite lex mancipi, il compito di distribuire i suoi cespiti ereditari alla sua morte.
accadere che un testamento valido fosse colpito da invalidità dopo il perfezionamento: nel
caso di incapacità del testore o degli eredi istituiti, per sopravvenienza di un figlio e per
revoca.
Revoca: il testamento è atto di ultima volontà, che può quindi essere cambiata
sino all’ultimo istante di vita. Venne definito come un atto revocabile, che, iure
civili, però, era revocato solo per effetto di un nuovo testamento. Nel caso di
quello per aes et libram, si ritenne valido anche se il testore avesse rotto i sigilli e
cancellato integralmente o parzialmente il contenuto, o distrutto il documento.
Infatti sorgevano problemi di prova e non di validità, poiché considerabile la
formalità orale. In materia di diritto pretorio, il discorso è diverso: un nuovo
testamento avrebbe revocato il precedente, ma il pretore, per il fatto che esigeva
documento scritto ritenuto essenziale, se si fossero soltanto rotto i sigilli, avrebbe
negato la possessio secundum tabulas agli eredi istituiti e concesso quella sine
tabulis ai successibili pretori ab intestato. Dunque questi modi di revoca non erano
iure civili e acquisteranno valore generale solo a partire da età postclassica.
valida l’istituzione dell’erede e ritenuta come non aggiunta la cosa. Tuttavia, ulteriori
sviluppi a tutela della volontà del testore, determinarono che la certa cosa dovesse essere
riesumata all’atto della divisione, così che il giudice ne tenesse conto nel procedere alla
distribuzione agli eredi dell’asse ereditario. L’istituzione di erede poteva essere sotto
condizione sospensiva, ma non risolutiva o con termine finale, in quanto incompatibili
2
con il principio di perpetuità del titolo ereditario. Non era neppure ammesso, per motivi di
opportunità, il termine iniziale. Termini e condizioni erano considerati come non apposti.
dell’eredità del liberto morto senza figli e anche in favore del padre per la metà del
patrimonio del figlio emancipato morto nelle stesse circostanze.
8.8 I legati
Il testamento per essere valido doveva contenere una valida istituzione di erede, che era
disposizione a titolo universale. Ma potevano anche esservi a titolo particolare, come i
legati. Mediante i legati, il testatore concedeva, con atto di liberalità, ai legatari singoli
2
beni o singoli diritti, sottraendoli sostanzialmente agli eredi. Fu validato dalla
giurisprudenza pontificale, in età precedente alle XII Tavole.
per damnationem: si disponeva con le parole heres meus damnas esto, indicando
il legatario e l’oggetto della prestazione. Il testatore faceva carico all’erede di
compiere una prestazione di dare o facere in favore della persona indicata, dando
luogo a un’obligatio nella quale l’erede era debitore e il legatario creditore. Aveva
ad oggetto cose del testatore, dell’erede o di terzi.
il legato istituito con formula non adatta alla circostanza, sarebbe stato considerato come
istituito con la giusta formula. Il problema venne ulteriormente superato quando Costanzo
abolì le antiche formule, dando capacità alle varie circostanze di individuare effetti reali o
effetti obbligatori. Giustiniano poi riconobbe gli effetti obbligatori a tutti i legati, con i
quali concorrevano all’occorrenza effetti reali. Si trattava dunque di una doppia tutela, in
quanto maggiore era la garanzia, sia reale con l’actio in rem, sia obbligatoria con l’actio
ex testamento. Più conveniente sarebbe stata l’ultima per due ragioni:
era più leggero l’onere della prova, in quanto bastava dimostrare l’esistenza del
legato, mentre nella rivendica era più difficile provare l’acquisto di proprietà.
nell’azione in persona la cosa veniva valutata dovunque essa stesse e pure se fosse
perita o deteriorata per responsabilità imputabile all’erede o agli eredi. Mentre nella
rivendica la cosa era valutata nel momento stesso, e si era rivolti contro chi la
possedesse allora.
Il ricorso all’azione di rivendica era più conveniente solo quando, essendo la cosa
reperibile e non deteriorata, il debitore – l’erede – non fosse in grado di far fronte ai debiti
con il proprio patrimonio. Con l’azione personale, infatti, il legato avrebbe agito da
creditore e avrebbe dovuto spartire il debito con gli altri creditori, percependo solo una
percentuale. Con l’azione di rivendica invece, agendo da proprietario, avrebbe potuto
ottenere la cosa integralmente.
nel caso degli eredi volntari. Poteva accadere che il legatario morisse dopo il testatore ma
prima dell’adizione dell’erede volontario: inizialmente il legato non avrebbe avuto effetti,
causando incapacità di trasmettere ai suoi eredi quella che era una semplice aspettativa. In
età repubblicana, però, era riconosciuto l’effetto limitato di far acquistare al legatario
diritto al lascito sin dal dies cedens, ossia dal momento stesso della morte del testatore. Il
2
legato sotto condizione sospensiva non avrebbe avuto effetto fino all’avveramento della
condizione. Al dies cedens, si oppose il dies veniens, il momento a partire dal quale
avrebbe avuto effetto il legato. Nel caso dei legati obbligatori, il legatario acquistava
immediatamente il proprio credito. Nel caso dei legati reali, i proculiani sostennero che
doveva essere manifestata dal legatario volontà d’accettazione, mentre i sabiniani
sostennero che l’acquisto avveniva immediatamente ma il legatario avrebbe potuto
rinunciarvi. Prevalsero i sabiniani. Nel caso di più collegatari con effetti reali, si dava
luogo all’accrescimento.
Revoca: il legato poteva essere soggetto a revoca del testatore che avveniva o con
la revoca stessa del testamento o con l’uso, nello stesso testamento e prima del suo
completamento, di espressioni contrarie a quelle adoperate per il legato. Sin dalla
prima età classica, si riconobbe efficacia iure praetorio pure alla revoca del legato
liberamente manifestata dal testatore dopo la perfezione del testamento, anche se
espressa tacitamente. Il legato rimaneva valido iure civili, ma contro il legatario
che avesse agito in giudizio contro la volontà del testatore si sarebbe concesso
all’erede l’exceptio doli.
la lex Voconia: l’importo di ciascun legato non poteva superare quanto rimasto
agli eredi.
Queste leggi non risolsero il problema, in quanto più legati istituiti avrebbero potuto
assorbire tutto.
2
Si emanò dunque la lex Falcidia, la quale tolse valore alle leggi precedenti e determinò
che ai legati non fosse lasciato più dei tre quarti dell’eredità, così che agli eredi rimanesse
almeno un quarto dell’attivo. Se il testatore avesse ecceduto, i legati sarebbero stati ridotti
proporzionalmente in base alla legge Falcidia, la quale rimase in vigore per tutto lo
svolgimento del diritto romano.
8.10 I fedecommessi
L’uso del testatore di raccomandare informalmente all’erede, rimettendosi alla sua fides
per l’adempimento, di compiere una prestazione determinata in favore della persona
indicata traeva origine in età repubblicana dal proposito di aggirare gli ostacoli del legato.
Augusto intervenne, rendendo vincolanti i fedecommessi e legittimando il beneficiato –
fedecommissario – a proporre la petitio fideicommissi secondo il nuovo rito extra
ordinem. Il fedecommesso aveva forma precativa, non imperativa. Per il resto la forma
era libera, e ammetteva l’utilizzo della lingua greca e di altre. Poteva essere disposto sia
nel testamento sia nei codicilli, confermati e non, ma anche oralmente, o con un semplice
cenno di assenso. Così libera era anche la revoca, che avveniva espressa, tacita, mediante
un comportamento incompatibile con la volontà di mantenere il lascito: si disse nuda
voluntate. Il disponente poteva onerare di fedecommesso un erede testamentario, un
Le persone giuridiche
2
adottati criteri assai liberi per la ricerca della effettiva volontà del disponente. Mediante
fedecommesso, con manomissione fedecommissaria, si istituiva la libertà di un servo. Si
trattava di una manomissione indiretta, in quanto non si dava la libertà diretta al servo, ma
comportava l’obbligo dell’onerato di manometterlo. Il servo poteva anche appartenere
all’onerato stesso o a un terzo: in quest’ultimo caso, il terzo avrebbe dovuto acquistare il
servo e manometterlo. Il fedecommesso cadeva se il proprietario del servo non accettava
di venderlo o se chiedeva un prezzo non ragionevole. Il disponente poteva anche
procedere a sostituzione: a un primo fedecommissario se ne sostituiva un altro per
l’ipotesi che il primo non acquistasse il lascito. Nella sostituzione fedecommissaria il
disponente poteva indicare un sostituto che acquistasse non al posto della persona indicata
per prima ma dopo di questa poteva anche disporsi che un sostituto restituisse la cosa ad
un altro sostituto. Un’ipotesi particolare è quella del fedecommesso di famiglia per cui
l’onerato del fedecommesso ed eventualmente il sostituto dopo di lui, tutti appartenenti
alla stessa famiglia del disponente, avrebbero alla loro morte trasmesso il bene acquistato
col fedecommesso ad un altro membro della stessa famiglia. Il senatoconsulto Pegasiano
estese ai fedecommessi i divieti di capere della legge Iulia et Papia e la norma della legge
Falcidia. In età classica, vennero stesi ai fedecommessi altre norme dei legati e viceversa,
per procedere ad un avvicinamento dei due istituti, culminante con l’equiparazione ad
opera di Giustiniano.
8.11 I codicilli
2
In età postclassica, la differenza tra codicilli e testamento andò, in merito alla forma,
sempre più oscurandosi, richiedendosi per i primi anche la presenza di testimoni. In
merito ai contenuti, con l’equiparazione giustinianea di legati e fedecommessi, la
distinzione tra confermati e non confermati perse in gran parte valore, fermo restando
però la regola che negava ai codicilli l’istituzione di erede e la diseredazione.