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MANUALE DI

DIRITTO PRIVATO
ROMANO
MATTEO MARRONE
Le persone giuridiche

Sommario

1. Il diritto romano e le sue fonti 10


1.1 Diritto 10

2
1.1.1 Diritto romano 11

1.1.2 Ius 11

1.1.3 Diritto privato e diritto pubblico 11


1.2 Periodi della storia del diritto romano 11
1.2.1 L’età arcaica 12

1.2.2 L’età preclassica 13

1.2.3 L’età classica 16

1.2.4 L’età postclassica e giustinianea 17


1.3 Fonti di produzione e fonti di cognizione 17
1.3.1 Le fonti di cognizione. Il Corpus Iuris Civilis. 18

1.3.2 Le fonti di cognizione. Le fonti pregiustinianee. 18

2. Il processo 20
2.1 Processo privato e diritto sostanziale 20
2.2 Le legis actiones 21
2.2.1 La legis actio sacramenti 21

2.2.2 La legis actio per manus iniectionem 22

2.2.3 Le altre legis actiones 23


2.3 Il processo formulare 24
2.3.1 L’abolizione delle legis actiones 24

2.3.2 I caratteri del processo formulare 24

2.3.3 La chiamata in giudizio 24

2.3.4 La fase in iure 25

2.3.5 La fase apud iudicem 25

2.3.6 Le parti ordinarie della formula 26

2.3.7 La praescriptio 27

2.3.8 L’exceptio 27

2.3.9 La classificazione delle azioni. Azioni civili e azioni pretorie 27


Le persone

2.3.10 Actiones in rem e actiones in personam 29

2.3.11 Le azioni arbitrarie. Temperamenti del principio della condanna in ogni caso
pecuniaria 29

2.3.12 Azioni penali e azioni reipersecutorie 30


2

2.3.13 L’actio iudicati 31

2.3.14 Procedure esecutive contro il iudicatus 31

2.3.15 Procedure esecutive in assenza di giudicato 32

2.3.16 Cessio bonorum e distractio bonorum 32

2.3.17 I rimedi pretori 32


2.4 La scomparsa del processo formulare 34
2.5 Le cognitiones extra ordinem 34
2.6 I processi postclassico e giustinianeo 35
3. Gli atti negoziali 36
3.1 Fatti, atti e negozi giuridici 36
3.2 Gli atti illeciti 36
3.3 I negozi giuridici 37
3.3.1 Negozi giuridici. Tipicità 37

3.3.2 Negozi giuridici. Elementi 37

3.3.3 Negozi giuridici. Invalidità ed inefficacia 37

3.3.4 Negozi giuridici. Classificazioni 38


3.4 Forme della manifestazione di volontà 39
3.5 Negozi formali 39
3.5.1 La mancipatio 39

3.5.2 La in iure cessio 40

3.5.3 Cenni sulla stipulatio 41


3.6 Altre forme negoziali 41
3.7 Divergenze tra manifestazione e volontà 42
3.8 L’errore 43
3.9 Il dolo 44
3.10 Il metus 45
3.11 La causa 45
3.11.1 La condictio 46
Le persone giuridiche

3.12 Gli elementi accidentali del negozio giuridico 47


3.12.1 La condizione 47

3.12.2 Il termine 49

3.12.3 Il modus 49

2
3.13 Imputazione degli effetti negoziali 50
3.13.1 La rappresentanza 51

3.13.2 Patti e contratti in favore di terzi 51

3.13.3 Cognitor, procurator ad litem e altri sostituti processuali 51

4. Le persone 53
4.1 Capacità giuridica e capacità di agire 53
4.2 Capacità giuridica. La dottrina dei tre status. 53
4.3 Status libertatis. I liberi. 54
4.3.1 I servi. 54

4.3.2 I liberti. 56

4.3.3 Le personae in causa mancipii. 57

4.3.4 Altre situazioni di dipendenza personale. 57


4.4 Status civitatis. I cives romani. 57
4.5 Status familiae. 58
4.5.1 Gli sponsali. 59

4.5.2 Il matrimonio. 59

4.5.3 La concezione romana del matrimonio. 60

4.5.4 Il divorzio 60

4.5.5 La dote 61

4.5.6 I filii familias 62

4.5.7 Le donne in manu 64

4.5.8 Parentela e affinità 65


4.6 La capitis deminutio 66
4.7 Limitazioni nella capacità giuridica 66
4.7.1 L’infamia 66

4.7.2 Limiti della capacità giuridica delle donne 67


4.8 La capacità d’agire 67
Le persone

4.8.1 L’età 67

4.8.2 Furiosi e prodigi 69

4.8.3 Altri casi di incapacità d’agire 69


4.9 La tutela muliebre 69
2

4.10 Le persone giuridiche 70


4.10.1 Le corporazioni 70

4.10.2 Le fondazioni. L’eredità giacente. 71

5. Le cose 72
5.1 Le res 72
5.1.1 Res corporales e res incorporales 72

5.1.2 Cose in commercio e cose fuori commercio 72

5.1.3 Res mancipi e res nec mancipi 73

5.1.4 Beni mobili e beni immobili 73

5.1.5 Cose fungibili e cose infungibili 73

5.1.6 Genere e specie 73

5.1.7 Cose consumabili e inconsumabili 73

5.1.8 Cose divisibili e cose indivisibili 73

5.1.9 Cose semplici, composte e collettive 74

5.1.10 I frutti 74
5.2 I diritti reali 74

5.3 La proprietà 75
5.3.1 La proprietà e la proprietà del diritto romano 75

5.3.2 Il dominium ex iure Quiritium 75

5.3.3 La difesa della proprietà quiritaria. La rei vindicatio 81

5.3.4 L’azione Publiciana 83

5.3.5 Il confronto tra proprietario quiritario e possessore ad usucapionem 83

5.3.6 La proprietà pretoria 83

5.3.7 La proprietà provinciale 84

5.3.8 La proprietà nel diritto postclassico e giustinianeo 84

5.3.9 Il consortium ‘ercto non cito’ 85

5.3.10 La communio di proprietà 85


Le persone giuridiche

5.4 Le servitù prediali 86


5.5 L’usufrutto 87
5.6 Il quasi usufrutto 88
5.7 L’usus 89

2
5.8 Il diritto di superficie 89
5.9 Gli agri vectigales 89
5.10 L’enfiteusi 90
5.11 Pegno e ipoteca 90
5.12 Il possesso 91
5.12.1 Gli interdetti possessori 92

5.12.2 Possesso e proprietà 92

5.12.3 Possessio ad usucapionem e possessio ad interdicta 92

5.12.4 Corpus possessionis e animus possidendi. Acquisto, conservazione e perdita del


possesso 93

5.12.5 L’oggetto del possesso 93

6. Le obbligazioni 95
6.1 Il concetto di obligatio 95
6.2 Genesi e storia dell’obligatio 95
6.3 Obbligazioni civili e onorarie 97
6.4 Obbligazioni naturali 97
6.5 I possibili contenuti delle prestazioni 98
6.5.1 I requisiti della prestazione 98
6.6 Le obbligazioni indivisibili 100
6.7 Le obbligazioni alternative 100
6.8 Le obbligazioni generiche 101
6.9 La responsabilità contrattuale 101
6.10 La mora 102
6.11 Le fonti delle obbligazioni 103
6.12 Il contratto 104
6.12.1 Il mutuo 105

6.12.2 Il deposito 105

6.12.3 Il comodato 106


Le persone

6.12.4 Il (contratto di) pegno 106

6.12.5 La fiducia 107

6.12.6 I contratti verbali. La stipulatio 107

6.12.7 I contratti letterali 109


2

6.12.8 La compravendita 109

6.12.9 La locazione 111

6.12.10 La società 112

6.12.11 Il mandato 113

6.12.12 I contratti innominati 113


6.13 I patti 114
6.14 Gli atti leciti non contrattuali 115
6.14.1 La negotiorum gestio 115

6.14.2 La tutela, la communio incidens e la coeredità 115

6.14.3 I legati obbligatori e i fedecommessi 116

6.14.4 Il pagamento di indebiti (solutio indebiti) 116

6.14.5 Le altre applicazioni non contrattuali della condictio 116


6.15 I delitti 117
6.15.1 Il furto 117

6.15.2 La rapina (bona vi rapta) 118

6.15.3 Il danneggiamento (damnum iniura datum) 118

6.15.4 L’iniuria 119

6.15.5 Altri illeciti extracontrattuali 120


6.16 Le obbligazioni quasi ex delicto 120
6.17 Estinzione delle obbligazioni 121
6.17.1 L’adempimento (solutio) 121

6.17.2 La remissione del debito 122

6.17.3 La transazione 123

6.17.4 La novazione 123

6.17.5 La compensazione 124

6.17.6 Il concursus causarum 125

6.17.7 Altri fatti giuridici estintivi delle obbligazioni 125


Le persone giuridiche

6.18 La cessione dei crediti 126


6.19 Il trasferimento di debiti 126
6.20 Le obbligazioni parziarie 127
6.21 Le obbligazioni solidali 127

2
6.21.1 Le obbligazioni solidali cumulative 127

6.21.2 Le obbligazioni solidali elettive 127


6.22 Le garanzie personali delle obbligazioni 128
6.22.1 Stipulazioni di garanzia 128

6.22.2 Il mandato di credito 130


6.23 Gli atti in frode dei creditori 130
7. Le donazioni 132
7.1 La donazione: concetto ed evoluzione 132
7.1.1 La lex Cincia 132

7.1.2 La riforma di Costantino e la legislazione di Giustiniano 133


7.2 Le donazioni tra coniugi 133

7.3 La donatio mortis causa 133


8. Le successioni mortis causa 134
8.1 Il fenomeno della successione 134
8.2 La successione universale mortis causa secondo il ius civile. Concetti
e principi fondamentali 134
8.2.1 Capacità di trasmettere e acquistare di ereditando ed eredi 135

8.2.2 Capacitas e legislazione caducaria 136

8.2.3 Indegnità a succedere 136

8.2.4 L’acquisto dell’eredità. Gli eredi necessari 137

8.2.5 L’accettazione dell’eredità 137

8.2.6 La fusione dei patrimoni: rimedi 138

8.2.7 L’hereditas 138

8.2.8 L’hereditatis petitio 139

8.2.9 La coeredità 139


8.3 La successione universale mortis causa secondo il diritto pretorio. La
bonorum possessio 140
8.3.1 La collazione 142
Le persone

8.4 Il fedecommesso universale 143


8.5 La successione universale ab intestato 143
8.5.1 La successione universale ab intestato secondo il diritto pretorio 144

8.5.2 I senatoconsulti Tertulliano e Orfiziano 144


2

8.5.3 La successione intestata in età postclassica e giustinianea 145

8.5.4 L’eredità vacante 145


8.6 Il testamento 145
8.6.1 Il testamento civile 145

8.6.2 Il testamento pretorio 146

8.6.3 Il testamento in età postclassica 146

8.6.4 Il testamento: invalidità e revoca 146

8.6.5 L’istituzione di erede 147

8.6.6 La sostituzione volgare 148

8.6.7 La sostituzione pupillare 148


8.7 La successione contro il testamento. La successione necessaria
formale secondo il ius civile 148
8.7.1 La successione contro il testamento nel diritto pretorio 148

8.7.2 La querela inofficiosi testamenti 149


8.8 I legati 149
8.8.1 I quattruor genera legatarum 149

8.8.2 Il senatoconsulto Neroniano, le riforme postclassiche e l’unificazione dei tipi di


legato 150

8.8.3 I legati e gli onerati 151

8.8.4 I legati: il momento dell’acquisto 151

8.8.5 I legati: invalidità, inefficacia e revoca 151

8.8.6 Limiti alla libertà di disporre mediante legati 152


8.9 Altre possibili disposizioni testamentarie 152
8.10 I fedecommessi 153
8.10.1 I fedecommessi particolari e universali 154
8.11 I codicilli 154
Le persone giuridiche

2
Le persone
2

1. Il diritto romano e le
sue fonti

1.1 Diritto
Il concetto di diritto va analizzato in seguito alle sue due concezioni:

 Concezione normativa: vede il diritto riconoscersi nelle “norme” e rappresentare


il complesso delle norme istituite.

 Concezione istituzionale: il diritto trascende la norma, configurandosi con


l’intera organizzazione sociale, cioè con l’ordinamento giuridico stesso.

Il diritto è:

 Oggettivo o norma agendi: complesso di norme di un ordinamento giuridico.

 Soggettivo o facultas agendi: la pretesa di un soggetto su un altro, regolata dal


diritto oggettivo.

I due concetti sono correlati, in quanto il diritto soggettivo trova, nel diritto oggettivo, il
suo fondamento.

Da notare come nella lingua inglese si adoperi il termine ‘Law’ per il diritto oggettivo e ‘Right’ per il diritto
soggettivo. Nella nostra lingua si adopera in ogni caso la parola ‘diritto’, così come in latino si adoperava
‘ius’.

Nell’ambito del diritto soggettivo è necessario distinguere i termini:

 Potestà: indica il potere che un soggetto esercita su un altro, indipendentemente


dalla volontà di quest’ultimo (ad esempio, la potestà dei genitori sui figli).
Le persone giuridiche

 Facoltà: indica le possibilità riconosciute al titolare di un diritto soggettivo,


comprese nell’ambito di questo.

1.1.1 Doveri giuridici


Al diritto soggettivo fa riscontro in altro o in altri soggetti anche il dovere giuridico e

2
dunque una » posizione giuridica soggettiva passiva. Nell’ambito di questo è necessario
analizzare tre differenti termini:

 Obbligo: il dovere di fare o non fare alcunché in relazione al diritto soggettivo


altrui.

 Soggezione: il dovere di sottostare all’altrui potestà, anche contro la propria


volontà.

 Onere: il sacrificio di un soggetto dettato dal diritto oggettivo che permetta a


questo di beneficiare di un diritto soggettivo e raggiungere per sé un utile o uno
scopo. → es. i documenti richiesti per usufruire dei prodotti di un terreno di
proprietà.

1.1.2 Diritto romano


Con tale termine, si fa riferimento all’insieme legislativo che si sviluppò nella collettività
politica romana e che fu in uso per circa 1300 anni, dalla nascita di Roma nell’VIII sec.
a.C. (754 a.C.) alla morte di Giustiniano (565 d.C.). Proprio durante l’impero
giustinianeo, ebbe vita il corpus iuris civilis, elaborato per lo più tra il 528 e il 534 d.C.

Solo Roma, tra i popoli dell’antichità, ebbe veri giureconsulti: i primi nella storia
dell’umanità, e giureconsulti di altissimo livello. Il diritto romano (privato) fu elevato a
dignità di scienza.

Una qual certa elaborazione scientifica del diritto ebbe luogo anche ad opera della cultura greca, ma con
prospettive soprattutto filosofiche.

Il diritto romano ha goduto di una seconda vita durante le età medievale e moderna,
quindi per secoli e secoli dopo l’estinzione dell’ordinamento che l’aveva espresso. Nel
diritto romano va scorta quanto meno la matrice della maggior parte degli attuali sistemi
privatistici dei paesi dell’Europa continentale, dei paesi dell’America Latina, e di altri
paesi ancora (ad esempio, il Giappone).
Le persone

1.1.3 Ius
Nelle fonti giuridiche romane, ius è spesso adoperato in un’accezione che sembra essere
ora quella di diritto oggettivo (es. ius civile, ius gentium), ora quella di diritto soggettivo
(es. definizione di usufrutto quale ius… utendi fruendi). Ma ricorre anche nel significato
2

di potestà (es. sui iuris, alieni iuris). Certamente antico è l’uso di ius per indicare il luogo
del giudizio, dinanzi ad un magistrato (es. nelle espressioni in ius vocatio, in iure). Assai
tardo, invece, è l’impiego di iura per designare la giurisprudenza classica (in
contrapposizione a leges, con cui si intesero le costituzioni imperiali).

Il significato di ius più largamente testimoniato è quello di situazione giuridica


soggettiva. Ius, quindi, non indicava di per sé un diritto soggettivo, e neanche il
corrispondente obbligo, ma diritto e dovere insieme.

Nelle fonti più antiche con ius si indica la situazione giuridica quale concretamente si
realizzava in dipendenza di determinati atti. Soprattutto nella legge delle XII Tavole, dove
ricorre la frase ‘ita ius esto’ (così sia il diritto): il sostantivo ius faceva qui riferimento alla
situazione giuridica soggettiva che in concreto si determinava per effetto della pronuncia
di certa verba.

1.1.4 Diritto privato e diritto pubblico


Nell’ambito del diritto oggettivo, si fa distinzione, così come nei testi romani, tra:

 Diritto pubblico: dal latino “ius publicum”, che deriva da “populus” e più
anticamente “poplicus”, ossia il diritto del popolo, specificatamente del popolo
romano. Il diritto pubblico è quel diritto che riguarda la collettività unitariamente
considerata e che regola l’organizzazione ed il funzionamento della collettività, in
particolare i rapporti tra questa e i singoli che la compongono.

 Diritto privato: regola i rapporti tra individui in quanto tali e gli interessi
individuali.

1.2 Periodi della storia del diritto romano


La storia del diritto romano è solita essere distinta in quattro periodi: l’età arcaica, l’età
preclassica, l’età classica, l’età postclassica e giustinianea.

Monarchia Repubblica Impero


Le persone giuridiche

Età
Età arcaica Età preclassica Età classica
(finisce con la divisione dell’impero)
postclassica
(impero d’oriente)

1.2.1 L’età arcaica

2
Per età arcaica si intende il periodo che va dalla nascita di Roma (754 a.C.) al III sec.
a.C.: inizialmente essa è una società monarchica, imperniata su rex, Senato e comizi
popolari. Dalla fine del IV sec. a.C. Roma divenne repubblicana, con magistrati, Senato e
comizi popolari. Si trattava inizialmente di una società rurale, di agricoltori e pastori, che,
con il tempo, si era espansa territorialmente e socialmente in tutto il Lazio, divenendo una
vera e propria potenza e sviluppando una società differente da quella primitiva.

Cominciando dall'età più antica (fondazione di Roma, 21 aprile 753 a.C.) sappiamo che le
obiettive difficoltà tecniche di trasmissione di conoscenza delle regole impedivano di
fondare sullo scritto uno dei caratteri delle fonti stesse.

Non esisteva la carta e il papiro era molto costoso, quel che rimaneva nell'antico Lazio era
ben poco come legno e pietra.

Nel legno era difficile scrivere e soprattutto era un combustibile eccellente, per molti
secoli gli incendi erano all'ordine del giorno, ecco perché rimase la pietra (anche lei
fondamentalmente duttile anche se meno del legno). Era difficile scrivere sulle pietre e
servivano determinati tipi di pietre.

Queste difficoltà impedivano la trasmissione della conoscenza delle regole attraverso lo


scritto.

L’età arcaica. I caratteri del ius

Così come la sua società, il diritto romano dell’età arcaica era un diritto » povero di
strutture, » formalistico, la produzione di effetti giuridici era subordinata alla pronunzia
di determinate parole e compimento di certi gesti solenni. Era un diritto inoltre riservato
ai cittadini romani.

L’età arcaica. I mores.

Il diritto veniva istituito principalmente dai mores, ossia dai comportamenti consueti,
dalla consuetudine. I mores maiorum erano infatti i comportamenti adottati dai più antichi
Romani (i maiores), tramandati oralmente di generazione in generazione, di cui spesso si
dimenticava anche l’origine. Continuavano ad essere seguiti proprio perché radicati ormai
nella società.
Le persone

Ulpiano spiega il contenuto delle fonti del diritto dell'età più antica

Mores (fas): "I MORES COSTUTUISCONO IL TACITO CONSENSO DEL POPOLO


INVETERATO ATTRAVERSO UNA LUNGA CONSUETUDINE"

Il nucleo centrale dei mores dipende sempre e comunque dalla volontà dei consociati (qui
2

chiamati popolo). I mores non sono un atto arbitrario, la regola è condivisa tanto nella sua
produzione quanto nella sua osservanza.

Questa regola non scritta si traduce attraverso il TACITO CONSENSO DEL POPOLO
(comunque sia la regola proviene da una condivisione collettiva ma non attraverso un
voto, una forma specifica; ma realizzatosi più volte nel tempo).

Questi sono i principi su cui si tengono i mores:

→ condivisione
→ generale osservanza
→ il tempo
→ la mancanza di una forma espressa

Mores altro non è che la radice della parola MORALE, i mores sono la morale, quindi, la
regola da specifica qual è diventa morale, cioè un gruppo di regole che fanno il sistema e
che devono essere accettate tutte per quello che sono, perché altrimenti questa morale non
c'è.

L’età arcaica. Le leges.

Si ammise che i mores potevano essere derogati o integrati da leggi, le cosidette leges
publicae, “leggi del popolo”. La più famosa di queste fu la » legge delle Dodici Tavole
(lex Duodecim – XII – tabularum), risalente al 451/450 a.C.: si trattava di una » lex data,
ossia di una legge pronunciata da un
Lex data → la legge emanata in modo unilaterale dal
magistrato precedentemente eletto dal
magistrato, senza il concorso cioè del voto di coloro ai
popolo dinanzi a questo. Le prime dieci
quali si riferiva; tra le leges datæ rientravano gli
tavole furono emanate dai decemviri (i
ordinamenti imposti dai magistrati alle colonie, ai
decemviri legibus scribundis), ossia da dieci municipi, alle province.
magistrati appositamente eletti e le ultime
due dai consoli Valerio ed Orazio. Le vicende che portarono alla formazione di questa
legge vanno inquadrate nell’ambito delle lotte tra patrizi e plebei, caratterizzanti i primi
tempi della repubblica. Le tavole di bronzo su cui erano state scritte andarono distrutte
nell’incendio che Roma subì a causa dei Galli nel IV secolo a.C.
Le persone giuridiche

Nell’ambito del diritto privato, maggior valore assunsero le leges rogatae: il magistrato
interrogava il popolo precedentemente riunito per far approvare o meno una disposizione
che, verificata dal Senato con la sua auctoritas, sarebbe poi diventata legge. Esse erano
approvate da patrizi e plebei. Contemporaneamente, però, i concilia plebis emanavano
leggi (plebis scita) che obbligavano solo i plebei. In seguito alla lex Hortensia del 287

2
a.C., anche i patrizi, ormai minoranza, erano tenuti a seguirle. Le fonti legislative
principali rimanevano comunque i mores.

L’età arcaica. I pontefici.

La conoscenza e l’interpretazione delle leggi erano a quel tempo affidate alla classe
sacerdotale dei pontefici, che le amministrava in assoluta segretezza, rendendone al
popolo soltanto il loro significato. La loro interpretazione diede vita a nuovi atti
legislativi, sulla base di quelli già esistenti: questo avvenne sotto le spinte e le nuove
esigenze popolari. Il diritto di questo periodo è conosciuto come ius Quiritium e, dopo,
come ius civile.

L’età arcaica. Il ius Quiritium.

Il suo significato è quello di “diritto dei Quiriti”, il nome con il quale venne riconosciuta
ufficialmente la prima comunità di cittadini romani. Esso era di formazione
consuetudinaria e riguardava per lo più posizioni giuridiche soggettive assolute, come
le posizioni di potere su persone o cose: in quest’ambito nacquero i termini di
“dominium” e “proprietas” (ex iure Quiritium). A questo ius apparteneva anche
l’esercizio di una proprietà su persone libere.

L’età arcaica. Il ius civile.

Esso nacque dallo ius Quiritium, ma si ampliò di nuove prospettive. Riguardava


unicamente i cittadini romani. Le sue fonti erano i mores, le leges e l’interpretazione
pontificale. Riguardava anche posizioni giuridiche a carattere relativo, quelle che più tardi
vennero definite obbligazioni – di crediti e debiti – caratterizzate da un vincolo giuridico
per cui un soggetto – il debitore – era tenuto ad un certo comportamento verso l’altro
soggetto – il creditore – che tale comportamento poteva pretendere.

Esso si caratterizza dunque:

 per essere destinato ai soli cittadini romani.

 per contenere le potestà e i diritti soggettivi, riconosciuti e tutelati: il potere su cose e


persone che il titolare affermava spettargli, che pretendeva competergli, che il
creditore pretendeva gravare sul debitore.
Le persone

1.2.2 L’età preclassica


A metà del III sec. a.C. si apre la fase dell’età preclassica che vede l’apogeo e la crisi
della Repubblica. Durante questa fase, hanno inizio le guerre puniche e l’espansione di
Roma sul Mediterraneo: i popoli conquistati e assoggettati verranno a chiamarsi
2

“provinciae”. I traffici commerciali con altri popoli si intensificano. Tutto questo


determina la crisi della Repubblica.

L’età preclassica. I caratteri del ius.

Vennero emanate nuove posizioni giuridiche soggettive, nuovi illeciti privati e nuovi
negozi giuridici (i comportamenti volontari). In tal modo, il diritto romano perse quella
che era una delle sue arcaiche caratteristiche: la povertà di strutture. Tutto questo
rispondeva anche alle nuove esigenze commerciali: le norme giuridiche romane erano
fruibili anche dai peregrini, dagli stranieri, ai quali veniva riconosciuta la volontà
manifesta e, nell’ambito dei diritti e dei doveri, la bona fides, la buona fede.

L’età preclassica. Le fonti.

Mantennero vigore i mores e le leges, ma di leges rogatae ne furono emanate ancora


tante, relativamente poche però di diritto privato. I pontefici persero il monopolio
sull’interpretazione della legge, lasciando il posto ai pretori e alla giurisprudenza laica,
che divennero vere e proprie fonti di produzione.

L’età preclassica. La giurisprudenza.

Il termine significava letteralmente “scienza del diritto” e corrispondeva pressoché alla


nostra “dottrina”. Con questo termine, tuttavia, non si indicava, come avviene oggi, il
risultato dell’interpretazione del diritto oggettivo quale si desume dalle sentenze degli
organi di giurisdizione. I giuristi venivano anche chiamati “giureconsulti”, in quanto il
loro compito era quello di esprimere pareri riguardo l’interpretazione del diritto.

Diversamente da oggi, i pareri dei giuristi, a seconda di quanto questi venivano rispettati,
potevano costituire vera e propria lex.

I primi giuristi furono appunto i pontefici, i quali persero la loro prerogativa di segretezza
quando il pontefice massimo, Tiberio Coruncanio, cominciò a discutere pubblicamente le
ragioni dei responsi, dopo che Gneo Flavio, scriba di Appio Claudio, aveva reso noti i
formulari di legis actiones e dei negozi. Dapprima i giuristi svolsero attività consultiva,
successivamente insegnamento e composizione di opere giuridiche. Nell’ambito
dell’attività letteraria questi analizzavano e confrontavano casi concreti, trasformando poi
in concetto generale e in norma le varie sue applicazioni. Questi testi divennero a tal
punto importanti che i giudici iniziarono a considerarli legge e ad adottarli nei casi
Le persone giuridiche

concreti. Successivamente si giunse ad elaborare sistemi legislativi e un vocabolario


tecnico ancora oggi in uso.

Tra i più noti giuristi di età preclassica ricordiamo Giunio Bruto, Publio Mucio e Manio
Manilio, di essi si disse che fondarono il ius civile. Ma a proporre una prima trattazione
sistematica del ius civile fu Quinto Mucio Scevola. Nello stesso periodo visse anche

2
Aquilio Gallo, autore di quell’espediente negoziale che va sotto il nome di ‘stipulatio
Aquiliana’. Allo ius civile, si affianca anche il diritto onorario.

L’età preclassica. Il ius civile. I iudicia bonae fidei.

In età preclassica il ius civile subì un notevole incremento, in quanto si vide aggiunta, a
partire dal III sec. a.C., tutela giudiziaria, quindi efficacia giuridica, a nuovi negozi,
fruibili anche dai peregrini, dagli stranieri. Questi negozi davano luoghi ad obblighi
qualificabili in termini di opotere, seppur ex fide bona. Erano negozi costituitivi di
obbligazioni: compravendita, locazione, società, mandato. L’opotere ex fide bona
comportava che un giudice chiamato a decidere su una lite per cui si dava luogo ad un
giudizio di buona fede, dovesse valutare secondo buona fede i doveri del debitore
convenuto. Questo rimandava ai criteri di correttezza nella vita di relazione. Si trattava
di buona fede in senso oggettivo, in quanto oggettivo era il metro che il giudice doveva
utilizzare. Nella forma, il giudice si sostituiva al legislatore, ma di fatto questo seguiva le
opinioni dei giuristi, i quali adeguavano l’applicazione delle norme a nuove realtà anche
spirituali.

L’età preclassica. Il ius gentium.

I negozi di buona fede furono presto riconosciuti in quanto appartenenti allo ius gentium,
ossia al “diritto delle genti”: erano riconosciuti infatti anche ai peregrini, non solo ai
cittadini romani. Il ius gentium in teoria andava a contrapporsi allo ius civile, estendendo
negozi riservati precedentemente ai cittadini romani anche agli stranieri. Di fatto però, il
ius gentium era parte integrante dello ius civile. Pertanto, la giurisprudenza andò via via
ad attribuire istituti dello ius civile allo ius gentium, con l’intento di estenderne la
fruibilità anche allo straniero.

L’età preclassica. Il ius honorarium.

Al ius civile, si affiancò e contrappose, in età preclassica, il diritto onorario, per la


massima parte opera del pretore. Si trattava di uno ius in senso oggettivo. Era il diritto
risultante dall’attività sostanzialmente creativa di alcuni organi giurisdizionali: il pretore
urbano, il pretore peregrino, gli edili curuli e i governatori delle province. Erano
magistrati eletti dal popolo con cadenza annuale:
Le persone

 Pretore urbano: istituito dalle leges Liciniae Sextiae, era un magistrato cum
imperio e aveva il compito di dicere ius.

 Edili curuli: erano magistrati sine imperio, il cui compito era quello di vigilare i
mercati e la relativa giurisdizione, in particolare le controversie riguardanti la
vendita di schiavi e animali.
2

 Pretore peregrino: magistrato istituito nel 242 a.C. per esigenze legate
all’intensificarsi dei commerci, aveva il compito di dicere ius tra cittadini romani
e stranieri e tra stranieri. Aveva pari dignità ed imperium del pretore urbano.

 Governatori della provincia: vennero istituiti in seguito alle guerre puniche,


quando Roma assoggettò i territori ed iniziò ad amministrarli ed organizzarli.

Il ius honorarium fu opera del pretore urbano: il suo editto ne fu la fonte prevalente. Il
pretore urbano emanava un editto avente valore annuale come la sua carica, che non
conteneva ordini nei confronti del cittadino, bensì promesse di strumenti giudiziari e
modelli di provvedimenti che avrebbe emanato. Sebbene ogni pretore dovesse emanare il
suo editto, con il tempo si diede avvio al fenomeno dell’edictum tralaticium, ossia del
riprendere l’editto dell’anno precedente e correggerne le parti inefficaci. Il diritto pretorio
era quello che scaturiva dalle clausole che promettevano strumenti giudiziari al di fuori
dello ius civile, con il compito di agevolarne l’applicazione, colmarne lacune e
correggerlo. L’intento pretorio era perseguire l’aequitas, intesa come giustizia nel caso
concreto. → lo ius civile non era di per sé iniquo, ma iniqua poteva risultarne la sua
applicazione.

1.2.3 L’età classica


Ebbe inizio con la fine della Repubblica e l’avvento dell’impero di Ottaviano Augusto
(27 a.C.). ci si trova in un regime ibrido, non più repubblicano e non ancora monarchico,
dove le istituzioni repubblicane permangono solo formalmente, praticamente sovrastate
dal princeps e dai suoi funzionari. A livello territoriale, Roma continua ad espandersi.

L’età classica. Le fonti.

Nuove fonti si aggiunsero alle precedenti: i senatoconsulti e le costituzioni imperiali. Si


estingue l’attività legislativa del popolo e il pretore perde il ruolo innovatore del ius.

L’età classica. L’editto perpetuo.

Intorno al 130 d.C. il giurista Salvio Giuliano, sotto incarico dell’imperatore Adriano,
stabilì il testo definitivo dell’editto pretorio, l’editto perpetuo. I pretori mantennero, sì, la
Le persone giuridiche

funzione giurisdizionale, ma persero qualunque impulso creativo, dovendo unicamente


riprodurre l’editto perpetuo giulianeo.

L’età classica. La giurisprudenza.

Ancor di più, durante l’età classica, andò ad infittirsi la cerchia dei giuristi e il loro livello

2
scientifico raggiunse il più alto grado. La giurisprudenza venne appunto definita classica,
sia per la purezza delle forme e per la perfezione tecnica, sia perché il metodo utilizzato
dai giuristi divenne modello universale, classico, per l’appunto. In quest’epoca, si fece
ampio lo scontro tra due sectae di giuristi: i sabiniani e i proculiani: il loro diverbio non
prendeva avvio però da differenti posizioni giuridiche o ideologiche. Capostipite dei
sabiniani fu Ateio Capitone, giurista non eccelso. Assai più eminente fu Masurio Sabino,
da cui la scuola prese il nome. Pure sabiniano fu Salvio Giuliano. Capostipite dei
proculiani fu Marco Antistio Labeone, maestro tra i più autorevoli. Ma non da lui prese
nome la scuola, bensì da Proculo, che gli succedette nella guida. Ciò si protrasse per tutto
il I sec. d.C. e per buona parte del secondo ed ebbe fine solo con la pubblicazione
dell’editto perpetuo.

Alcuni dei giuristi più conosciuti vissero durante l’età classica:

 Gaio: visse durante il II sec. Di lui ci è giunta quasi per intero l’opera Istitutiones,
un fortunato e chiarissimo manuale giuridico.

 Pomponio: visse durante il II sec. Fu l’unico tra i giuristi romani a tentare una
sorta di storia del diritto romano, che ci è giunta però irrimediabilmente corrotta.

 Papiniano: visse tra il II e III sec. Fu scrittore conciso e sottile ragionatore,


nonché autore di ampie opere di casistica. Ebbe tragica fine in quanto fu
assassinato dall’imperatore Caracalla per essersi rifiutato di celebrare il fratricidio
da lui compiuto: dimostrò di essere così uomo retto e di alto valore morale.

 Paolo ed Ulpiano: vissero sul finire dell’età classica della giurisprudenza. Furono
autori di opere giuridiche tra le più ampie, vere e proprie enciclopedie giuridiche
nelle quali si riassume e viene portato a conclusione il complesso travaglio di
pensiero delle precedenti generazioni di giuristi.

1.2.4 L’età postclassica e giustinianea


L’attività giurisprudenziale si inaridì quasi improvvisamente durante la prima metà del III
sec. d.C. Con età classica, infatti, si allude al periodo che termina con l’abdicazione di
Diocleziano nel 305 d.C. e si fa riferimento all’età postclassica dall’ascesa al trono di
Costantino fino agli inizi del IV sec. Il principato è un ricordo lontano, sostituito dal
Le persone

dominato, in cui vigeva categorica la volontà dell’imperatore. L’impero è diviso in due


parti: pars Occidentis, con capitale Roma e pars Orientis con capitale Bisanzio, divenuta
Costantinopoli. Nel 476 avvenne la deposizione dell’Occidente di Romolo Augustolo da
parte dell’ostrogoto Odoacre. Sopravviverà solo l’impero romano d’Oriente. L’impero
d’Occidente non verrà mai più ricostruito.
2

Per il diritto, è però un’era di decadenza: l’imperatore ne è l’unica fonte, ma nelle


costituzioni imperiali – ora denominate leges – inizia a registrarsi uno scadimento della
tecnica e della lingua che si protrarrà fino alla fine del V secolo. Lo studio del diritto
continuò però a sopravvivere, portando alla costruzione del Codice Teodosiano, il quale
raccoglieva le costituzioni imperiali da Costantino a Teodosio II, portato a compimento
nel 438. Dal V secolo, gli studi giuridici subirono diverse spinte in Oriente: grazie a
questi Giustiniano poté concepire quella grande compilazione di giurisprudenza classica
(iura) e costituzioni imperiali (leges) che porta il nome di corpus iuris civilis.

Venuti meno verso la fine dell’età classica sia il pretore giusdicente sia il processo
formulare, la conseguenza avrebbe dovuto essere la fusione tra ius civile e ius
honorarium. Ma tale fusione, in effetti, non fu mai proclamata in termini generali. La
contrapposizione tra diritto civile e diritto onorario risulta, nel diritto giustinianeo,
soltanto notevolmente attenuata.

1.3 Fonti di produzione e fonti di


cognizione
L’espressione “fonti del diritto” fa riferimento a:

 Fonti di produzione: ogni atto o fatto da cui scaturisca il diritto, quindi che lo
produca.

 Fonti di cognizione: ogni materiale che ci consenta di conoscere le forme e i


contenuti del diritto.

Tra le fonti abbiamo elencato già i mores, le leges, i plebisciti, la giurisprudenza, l’editto
del pretore, i senatoconsulti e le costituzioni imperiali. Se ne aggiunge però un altro: la
consuetudine.

La consuetudine

Alle leges vennero equiparate le consuetudines, intese quali osservanza generale e


costante da tempo immemorabile di un comportamento da parte di una collettività con la
convinzione della sua necessità, con la convinzione di obbedire ad una norma giuridica.
Le persone giuridiche

Essa non era pertanto fenomeno giuridico diverso dai mores. Pare però che queste fossero
diversamente viste: erano infatti proprie delle popolazioni provinciali, per cui ci si chiese
entro quali limiti potessero conservare il diritto loro precedente dopo l’assoggettamento a
Roma. Se ne concluse che queste potevano essere osservate e considerate leges vincolanti
purché al di fuori della legge romana (praeter legem).

2
1.3.1 Le fonti di cognizione
Il Corpus Iuris Civilis.

La principale fonte di cognizione è il Corpus Iuris Civilis, il quale venne così chiamato in
seguito al XVI secolo e che comprende la iura e le leges. L’opera fu compiuta nel VI sec.
d.C. ad opera di Giustiniano e poi completata con le leges successive al 534. Si compone
di quattro parti distinte che vengono così chiamate: Istitutiones, Digesta (o Pandectae),
Codex e Novellae.

→ Le istitutiones: in quattro libri, sono la parte più breve e semplice, pubblicata nel
533. Hanno forma di discorso diretto che Giustiniano rivolge ai giovani che si
avviano agli studi giuridici. Hanno quindi funzione didattica. Si rifanno
all’omonima opera di Gaio e a qualche costituzione giustinianea.

→ I digesta o pandectae: in 50 libri, sono la componente più estesa e di maggior


pregio. Costituiscono una grande antologia, che raccoglie i brani tratti da opere di
giuristi classici, organizzati per materia. Questi sono stati modificati per forma o
per adattarle alla realtà contemporanea giustinianea.

→ Il codex: ordinato nel 528, esso si doveva alla volontà di Giustiniano di


raccogliere tutte le costituzioni imperiali. Fu pubblicato nel 529. Intanto, però,
Giustiniano aveva emanato altre costituzioni di diritto privato. Un altro Codex fu
così promulgato nel 534, con il nome di Codex repetitiae praelectionis. È diviso in
12 libri, a loro volta divisi in titoli con una rubrica che ne indica il contenuto, al
cui interno si trovano le costituzioni in ordine cronologico.

→ Le novelle: sono le costituzioni di Giustiniano seguenti l’anno 534, raccolte dopo


la morte dell’imperatore.

Le fonti pregiustinianee.

Oltre al Corpus, annotiamo le Istitutiones di Gaio e il Codice Teodosiano:

→ Istitutiones: scoperte nel 1816 nella biblioteca capitolare di Verona, il manoscritto


è rinvenuto quasi per intero ed inalterato. È diviso in quattro libri: il primo
dedicato alle persone, il secondo e il terzo alle cose e il quarto alle azioni.
Le persone

→ Codice teodosiano: non ci è pervenuto direttamente, ma sappiamo che fu


completato nel 438 dall’imperatore Teodosio II. Era diviso in sedici libri e
conteneva, ordinate per materia, le costituzioni imperiali da Costantino allo stesso
Teodosio II.
2
Le persone giuridiche

2
2. Il processo
2.1 Processo privato e diritto sostanziale
Con il termine processo privato intendiamo il complesso delle attività volte, quando
occorre, all’accertamento e alla realizzazione di diritti soggettivi (o posizioni giuridiche
soggettive attive): a darvi impulso è il singolo, soggetto privato, e vi interviene un organo
pubblico, un organo giudiziario.

Le norme processuali sono oggi secondarie e strumentali rispetto a quelle di diritto


sostanziale. Il diritto sostanziale consta di norme primarie, che regolano direttamente i
rapporti tra gli uomini nella vita associata: in esso hanno fondamento i diritti soggettivi e
alla loro realizzazione è volto il processo. A colui che del diritto soggettivo è in tal modo
divenuto titolare ne viene riconosciuta la tutela giudiziaria: può promuovere un giudizio
per far valere le proprie ragioni. Questo potere è detto azione: ad ogni diritto soggettivo
corrisponde pertanto un’azione, il cui riconoscimento è implicito in quello del diritto
soggettivo. È logicamente un prius, mentre l’azione un posterius. L’idea dell’azione viene
dal latino actio, intesa come strumento per l’esercizio del potere di promuovere un
giudizio. In generale, si parlava di actiones al plurale, caratterizzate dalla tipicità, ossia
dal riconoscimento singolo e personale. Era perciò diffuso un elenco di azioni, ognuna a
difesa di un determinato diritto soggettivo e ognuna con una propria struttura. Una
ragione dunque era tutelabile soltanto se vi era un’apposita actio o altro idoneo strumento
processuale. Oggi l’azione presuppone il diritto soggettivo, mentre nel mondo romano il
diritto soggettivo presupponeva l’azione.

Si discorreva poi di diritto onorario, e quindi di processo formulare nel quale il diritto
onorario si realizzava: determinate posizioni giuridiche soggettive acquistavano qui
rilievo giuridico nel momento stesso in cui il pretore proponeva nell’editto lo strumento
giudiziario che le contemplasse e al contempo le tutelasse. Era pertanto l’esistenza del
Le persone

mezzo processuale che avrebbe potuto consentire la configurazione di una sottostante


posizione giuridica soggettiva riconosciuta e tutelata.

2.2 Le legis actiones


2

Si distinguevano più tipi di processo: le » legis actiones, il » processo formulare, le »


cognitiones extra ordinem, il » processo postclassico e quello » giustinianeo.

Le più antiche erano le legis actiones, già esperibili in età arcaica. Si trattava di cinque
riti processuali tra loro diversi per origini, natura e struttura e tuttavia con comuni
caratteristiche peculiari: » tre erano dichiarative o di cognizione, volte all’accertamento
di una determinata situazione giuridica, » due erano esecutive, volte alla realizzazione di
posizioni giuridiche certe. Avevano in comune la denominazione, l’essere accessibili solo
a cittadini romani, l’oralità, un rigido formalismo, con pronunzia di determinate parole
(certa verba). La formalità prevedeva quasi in tutti i casi – tranne per quanto riguarda la
legis actio per pignoris capionem – della presenza dei due contendenti e del magistrato,
che dal 367 a.C. venne individuato, con le leges Liciniae Sextiae, nel pretore: il suo
compito era quello di emanare taluni provvedimenti, come l’assegnazione del possesso
provvisorio, la nomina del giudice, l’addictio della persona del debitore. Con ciò, il
magistrato autorizzava la prosecuzione del procedimento e la sua legittimità. I due
contendenti dovevano quindi essere presenti davanti al giudice e per questo motivo si
poteva ricorrere alla in ius vocatio, la chiamata in processo, per cui chi la impugnava
costringeva, anche con la forza in caso di rifiuto, l’altro contendente a presentarsi. Queste
avevano caratteristica strutturale comune, di essere divise in due fasi: la fase » in iure e
quella » apud iudicem, per la quale il pretore nominava un giudice.

→ Nella fase in iure che aveva luogo dinanzi al magistrato e valeva a fissare i
termini giuridici della lite. In fine di questa fase il pretore nominava un giudice (‘iudicem
dabat’). I due contendenti compivano un atto solenne di invocazione di testimoni che
accertassero il rito compiuto: si parlava di litis contestatio, cui era connesso il principio
di preclusione, ossia il divieto di ripetere la lite circa lo stesso rapporto (‘bis de eadem re
ne sit actio’).

→ La fase apud iudicem si svolgeva dinanzi ad un privato cittadino, che svolgeva la


funzione di giudice (iudex) o di arbitro (arbiter, se erano richieste particolari
competenze tecniche). Per le liti di libertà (causae liberales) e in quelle ereditarie erano
chiamati a giudicare organi collegiali pubblici: rispettivamente i decemviri stilitibus
iudicanadis e i centumviri. Il giudice aveva solo il compito di raccogliere le prove ed
emanare la sentenza. Non vi era riscontro di quel formalismo caratteristico delle legis
Le persone giuridiche

actiones, presente solo nella fase in iure dinanzi al magistrato. In questa fase, inoltre, non
era richiesta nemmeno la presenza di entrambi i contendenti, ma, giunto il mezzogiorno,
il giudice avrebbe dovuto dar ragione alla parte presente a sfavore di quella assente (‘post
meridiem litem praesenti addicito’).

Va inoltre osservato che erano poche le pretese azionabili con le legis actiones, le stesse,

2
poche, contemplate nell’antico ius civile.

Non si trattava di azioni esperibili per la tutela di rapporti in buona fede o di rapporti di
diritto pretorio. Le più antiche legis actiones furono la legis actio sacramenti,
dichiarativa, e la legis actio per manus iniectionem, esecutiva.

2.2.1 La legis actio sacramenti


Fu la legis actio dichiarativa di maggiore impiego e quella che sopravvisse più a lungo.
Era qualificata generalis, in quanto utilizzabile per ogni pretesa per la quale non fosse
necessaria un’altra legis. Poteva essere:

 In rem: era impiegata per il riconoscimento e la tutela di posizioni giuridiche


soggettive assolute, per le quali era uso parlare di vindicationes, azioni reali
comunque. Dunque, quando il proprietario diceva che una cosa era sua, un erede
che un’eredità era sua ecc. Una volta presenti ambedue i contendenti dinanzi al
magistrato giusdicente e presente pure la cosa contesa, la parte che aveva preso
l’iniziativa, tenendo in mano una bacchetta (festuca), faceva atto di apprensione
della cosa, affermava solennemente che la cosa gli appartenesse e la toccava con
la bacchetta. L’altro contendente, non volendo prestare acquiescenza, ripeteva la
stessa operazione. Si parlava quindi di vindicatio e controvindicatio. Il pretore poi
ordinava che la cosa fosse deposta e si procedeva al sacramentum, ossia ad un atto
inizialmente solenne, quindi una scommessa di pagare all’erario, in caso di
soccombenza, cinquanta assi se il valore dell’azione era inferiore a mille assi e
cinquecento se superiore. Il pretore dunque emanava un provvedimento (vindicias
dicebat) in forza del quale assegnava il possesso interinale o provvisorio della
cosa controversa a quella delle parti in lite che assicurasse l’intervento di garanti
ritenuti più idonei: si parava di praedes, il quale avrebbe dovuto poi restituire la
cosa all’avversario insieme ai frutti materiali percepiti durante il processo. Nella
fase apud iudicem, entrambe le parti avevano onere della prova, dovevano quindi
dimostrare al giudice che la cosa gli appartenesse e, raccolte le prove, egli avrebbe
deciso quale sacramenta fosse stato iustum e quale iniustum. Il soccombente
pagava all’erario l’importo del sacramentum. Se avesse trionfato il possessore
provvisorio, egli avrebbe mantenuto il possesso della cosa. Altrimenti, l’altro
Le persone

avrebbe potuto pretendere la restituzione e agire contro i praedes che si


rifiutavano o proseguire per via d’autodifesa una volta presa la cosa con l’uso
della forza.

 In personam: si utilizzava per la tutela di posizioni giuridiche soggettive relative,


dunque nel caso di crediti. Il creditore insoddisfatto avrebbe agito contro il proprio
2

debitore affermando l’esistenza del debito. Il debitore poteva ammettere o negare.


In caso d’ammissione, si avrebbe avuto confessio in iure e si interrompeva il rito.
Se negava, si giungeva al sacramentum: vincendo il creditore, egli poteva,
persistendo l’inadempimento, proseguire con legis actio per manus iniectionem.

2.2.2 La legis actio per manus iniectionem


Aveva carattere esecutivo ed era utilizzata per la realizzazione di posizioni giuridiche
soggettive per le quali una legge vi avesse fatto rinvio. Occorreva per esempio per
l’esecuzione di un giudicato: si parla di manus iniectio iudicati, aperta al creditore in
favore del quale fosse stata emessa una sentenza per cui l’avversario fosse stato
riconosciuto debitore di una somma di denaro, non data entro i trenta giorni della
sentenza. Al debitore era parificato il confessus, ossia colui che aveva ammesso in iure il
suo debito. Con questa legis si procedeva pure in difetto di iudicatum, in ipotesi relative a
situazioni riconosciute a priori come certe: per alcune di esse con manus iniectio pro
iudicatio, per altre con manus iniectio pura. » Pro iudicato si dava qualora uno sponsor
avesse prestato garanzia e il debitore non gli avesse restituito quanto dovuto entro sei
mesi, mentre » pura si dava all’erede, che poteva agire direttamente con la legis actio per
manum iniectionem contro il legatario che avesse percepito dall’eredità, a titolo di legato,
più di mille assi.

Si svolgeva dinanzi ad un magistrato, presenti creditore e debitore: ad avere ruolo attivo


inizialmente era solo il creditore, il quale enunciava la fonte del credito, l’importo e
dichiarava di manum inicere. Contemporaneamente afferrava il preteso debitore. Questi
poteva indicare un vindex, il cui intervento lo avrebbe sottratto alla manus iniectio: il
vindex avrebbe potuto negare il debito e così contestare il diritto dell’attore di procedere a
manus iniectio. Si istituiva un'altra legis actio dichiarativa, nella quale il vindex
soccombente, sarebbe stato condannato al pagamento del doppio dell’importo del debito
riconosciuto in effetti esistente. Se non fosse intervenuto nessun vindex, il pretore
pronunciava l’addictio del debitore in favore dell’altra parte, che avrebbe potuto
trascinare con sé l’addictus in catene per sessanta giorni e avrebbe potuto sottoporlo a tre
mercati, le nundinae, consecutivi e qui proclamare pubblicamente il debito, per far sì che
il debitore venisse riscattato. Altrimenti, esso poteva essere venduto come schiavo fuori
Le persone giuridiche

Roma o ucciso: in caso di più creditori, essi avrebbero potuto dividersi il corpo del
creditore. Nel caso della manus iniectio pura il convenuto poteva sottrarsi e negare il
debito, con la conseguenza di doverne subire condanna al doppio in caso di soccombenza.
La regola si identificò come lis infitiando crescit in duplum: la cosiddetta litiscrescenza,
che sopravvisse in età classica in pochi determinati casi e comportava l’obbligo di pagare

2
il doppio per contestazione infondata. Una lex Vallia generalizzò tale regime, applicabile
contro il iudicatus e contro il debitore principale nei confronti dello sponsor.

2.2.3 Le altre legis actiones


→ La legis actio per pignoris capionem: era di età alquanto risalente, ed era
esecutiva. Non richiedeva la presenza né del magistrato né dell’avversario e
poteva svolgersi anche nei dies nefasti. Prevedeva che il creditore pronunciasse
certa verba e prendesse possesso dei beni del debitore come pegno. Le
applicazioni risalivano a mores e leges.

→ La legis actio per iudicis arbitrative postulationem: era azione dichiarativa,


esperibile per crediti nascenti da stipulatio, per la divisione dell’eredità, per la
divisione di beni comuni. Quando si agiva per crediti nascenti da stipulatio, il rito
era simile alla legis actio sacramenti in personam: l’attore doveva far riferimento
alla fonte dei diritti vantati e rivolgersi al pretore, chiedendo con certa verba,
l’assegnazione di un giudice o di un arbitro, che decideva in base a ragioni già
fatte valere.

→ La legis actio per condictionem: era dichiarativa e fu introdotta da una legge Silia
per crediti aventi oggetto determinate somme di denaro (certa pecunia) e
successivamente anche cose determinate diverse dal denaro (certa res). Dinanzi al
pretore, l’attore con certa verba affermava il proprio credito senza specificarne la
fonte (causa). La necessità di adempiere era affermata dall’attore in termini di
opotere, quindi riferendosi ad un vincolo riconosciuto per ius civile. Se il
convenuto negava, l’attore lo invitava a ripresentarsi di fronte al pretore dopo
trenta giorni per l’assegnazione di un giudice che avrebbe deciso sulla base delle
prove già esistenti.

2.3 Il processo formulare


Come sappiamo, si godeva di tutela giuridica solo per ius civile, quindi solo in quanto
cittadini romani. Ma con l’incrementare di rapporti commerciali con stranieri e con la
richiesta di nuove posizioni giuridiche, si istituirono strutture processuali differenti: il
Le persone

pretore urbano consentì di litigare per formulas. Ne nacque un tipo di processo che si
realizzava in forza dei poteri del pretore. Si poteva quindi litigare per legis actiones o per
formulas. Nel 242 a.C., a causa del frequente uso di questa modalità, venne istituito anche
il praetor peregrinus, che si occupava dei litigi tra cittadini e stranieri o solo tra stranieri.
2

2.3.1 L’abolizione delle legis actiones


Esse furono ritenute inadeguate nell’evoluta società romana, a causa del rigido ed
eccessivo formalismo. Pertanto, vennero soppresse tutte entro il 17 a.C. da Augusto, fatta
eccezione per le liti per le quali avrebbero deciso i centumviri e per l’azione di danno
temuto, per la quale però caddero in desuetudine preferendosi il rimedio pretorio della
cautio damni infecti. Il processo formulare andò quindi sostituendo le legis actiones ed
acquistò effetti anche per ius civile, divenendo con la lex Iulia iudiciaria, il processo
privato ordinario, esteso a tutti i territori italici e in parte alle province.

2.3.2 I caratteri del processo formulare


Esso aveva carattere unitario: consisteva in un solo procedimento impiegato per le varie
actiones, la cui formula era però tipica e prevista nell’editto, quindi specifica per ogni
evenienza. Le azioni erano pertanto tipiche, ma il loro numero era molto alto
consentendo, questo processo, la tutela di diverse pretese. Il procedimento, aperto anche
ai non cittadini, era diviso nelle fasi in iure e apud iudicem. La prima fase tuttavia
ammetteva come la seconda la libera espressione delle ragioni delle parti. Inoltre, era
ammessa la forma scritta delle formule e il ruolo del magistrato era molto più attivo e
dinamico rispetto al processo delle legis actiones.

2.3.3 La chiamata in giudizio


Anche nel processo formulare, per assicurarsi la presenza dell’avversario, si ricorreva a in
ius vocatio: era un atto privato, senza partecipazione di organo pubblico, che non
richiedeva più solennità orale, ma soltanto che l’attore specificasse l’azione che intendeva
promuovere. Contro il vocatus che si rifiutava, l’attore non poteva più utilizzare la forza,
ma doveva appellarsi al pretore, che concedeva missio in bona (immissione nel possesso
di tutti i beni) contro il vocatus. A quest’azione si andò sovrapponendo il vadimonium: lo
stesso convenuto, mediante stipulatio, prometteva all’attore di presentarsi di fronte al
magistrato il giorno concordato, sfuggendo così all’obbligo di seguire immediatamente
l’attore.
Le persone giuridiche

2.3.4 La fase in iure


In questa fase, venivano fissati i termini giuridici della lite e si richiedeva la presenza
dell’attore, del convenuto e del magistrato, il quale procedeva con una datio actionis, per
la quale, approvata la formula concordata tra le parti, dava il via al procedimento

2
successivo della contesa. Parlando di magistrato, si fa riferimento ai due pretori, urbano e
peregrino, all’edile curule e ai governatori provinciali.

Dinanzi al pretore, le parti manifestavano le proprie ragioni. L’attore indicava


all’avversario la formula dell’azione che intendeva intraprendere, facendo riferimento
all’albo pretorio (si parla quindi di editio), il quale riproduceva l’editto, in cui erano
contemplati i modelli delle diverse formule.

Si proseguiva con postulatio actionis, rivolta al pretore, mediante la quale l’attore


chiedeva di procedere con l’azione ed esponeva le proprie pretese. Se il convenuto
negava, si dava luogo ad un dibattito con partecipazione attiva del pretore e con obiezioni,
eccezioni e repliche. Il pretore poteva però ritenere infondata la pretesa dell’attore o, pur
fondata, iniqua la prosecuzione del processo: si proseguiva a denegatio actionis, per cui il
pretore metteva fine al processo. La parte attrice non risultava pregiudicata, in quanto la
denegatio non era una sentenza, ma neppure le pretese erano soddisfatte.

Accadeva più spesso però che si proseguisse e, dopo aver concordato il testo della
formula quale documento scritto con indicato il nome del giudice che avrebbe dovuto
presiedere il processo, e costui, sulla base del dibattito, avrebbe deciso se assolvere o
condannare. Si può affermare quindi che la formula conteneva i termini della controversia
ritenuti determinanti ai fini della decisione.

Una volta che il pretore fosse stato d’accordo sul testo della formula, egli stesso compiva
la datio actionis: ‘iudicium dabat’ dava cioè la formula, e quindi l’azione richiesta,
autorizzando il tal modo il relativo procedimento. L’attore ne recitava il contenuto
(iudicium dictabat) e il convenuto l’accettava (iudicium accipiebat). Si costituiva così
litis contestatio, presupposto indispensabile e atto istitutivo del giudizio. Con essa si
fissavano i termini giuridici della lite in maniera definitiva, senza possibilità di modifica.
Essa aveva effetti esclusori o preclusivi: l’azione non avrebbe potuto essere ripetuta. Ed
inoltre aveva anche un effetto conservativo: la pretesa dell’attore, qualsiasi evento fosse
successivamente accaduto, non poteva essere pregiudicata. La litis contestatio aveva
altresì effetti preclusivi, cioè l’azione non avrebbe potuto essere ripetuta.
Le persone

2.3.5 L’indefensio
Senza litis dunque non poteva aversi sentenza, ma ugualmente senza la presenza e
partecipazione sia dell’attore che del convenuto che doveva accipere iudicium. Se
quest’ultimo non avesse prestato comportamento attivo o non si fosse difeso, non poteva
2

aver luogo la sentenza. Per costringere il convenuto a mantenere comportamento attivo, il


pretore dava luogo in caso contrario a sanzioni più gravi in caso di azioni in personam,
meno gravi per azioni reali.

2.3.6 La fase apud iudicem


Con la litis contestatio si concludeva la fase in iure. La successiva fase aveva luogo
dinanzi ad un giudice, che non era un organo pubblico, ma un privato cittadino scelto
direttamente dalle parti, sulla base di speciali liste di nomi compilate con criterio
giuridico, e il suo nome figurava in apertura della formula. Il giudice poteva essere una
persona singola (iudex unus) oppure un organo collegiale giudicante, come i
recuperatores, tre giudici che partecipavano a processi di più elevato spessore sociale. Il
giudice doveva in primo luogo attenersi al principio per cui, assente una parte entro
mezzogiorno del giorno prefissato, vincitore sarebbe stata la parte presente. Altrimenti, si
proseguiva come consueto: le parti esponevano liberamente le proprie ragioni, adducendo
prove date da qualsiasi mezzo di prova, più o meno apprezzate dal giudice, che, vincolato
ai termini della formula, avrebbe condannato o assolto il convenuto. La sentenza
concludeva la fase apud iudicem ed era definitiva, senza possibilità di appello. L’appello
infatti si aveva alla presenza di un organo giudiziario superiore al giudice, ma, essendo
questo arbitro privato, non trovava alcun superiore pubblico. La sentenza di condanna era
espressa in denaro e generava obligatio iudicati: il vincitore avrebbe potuto esercitare
contro il soccombente inadempiente l’actio iudicati.

2.3.7 Le parti ordinarie della formula


La formula si componeva di più parti: seguenti la nomina del giudice, ve ne erano quattro
dette ordinarie:

 Intentio: essa non poteva mancare. Esprimeva la pretesa vantata dall’attore, la


ragione fatta valere. Essa caratterizzava la formula, indicandone la natura e
consentendo, in assenza di demonstratio di stabilire il tipo di azione. Poteva essere
certa o incerta: certa quando la pretesa era determinata, incerta negli altri casi.
Con demonstratio era sempre incerta, in quanto indicava che il convenuto era
tenuto a dare e fare nei confronti dell’attore. Nelle formule con intentio certa
l’attore poteva incorrere in pluris petitio (domanda di qualcosa di più) con la
Le persone giuridiche

conseguenza di perdere la lite. In caso di minoris petitio (richiesta di qualcosa di


meno) l’attore riceveva quanto esplicitato nella formula, con la possibilità di
pretendere il residuo.

 Demonstratio: indicava la causa, la fonte, i fatti che vi avevano dato vita. Non era
sempre presente: in questi casi si avevano formule astratte, in cui la causa non era

2
specificata.

 Condemnatio: si invitava il giudice a condannare il convenuto se persistevano i


termini della formula, diversamente ad assolverlo. Rientrava nelle generalità della
formula ed era diversa dalla sentenza di condanna, pur questa detta condemnatio.
Era però collegate in quanto il giudice poteva esprimere sentenza per i poteri
conferitigli della condemnatio di cui si parla. Stabiliva l’oggetto eventuale della
contesa e i termini della condemnatio formulare stabilivano la condanna
pecuniaria. Essa avrebbe potuto non superare un certo limite e , per questo, si
integrava con la taxatio, in modo che in nessun caso il giudice condannasse il
soccombente entro certi limiti. In forza di taxatio si realizzava il cosiddetto
beneficium competentiae.

 Adiudicatio: stava solo nelle formule delle azioni divisorie e per il regolamento
dei confini e autorizzava il giudice ad aggiudicare ai partecipanti alla comunione o
ai confinanti parti dell’oggetto o del terreno. Aveva efficacia costitutiva.

2.3.8 La praescriptio
Non era propriamente una parte della formula, perché scritta prima che questa iniziasse.
Sappiamo che per l’effetto preclusivo della litis, l’azione non poteva essere ripetuta. Ma
la prestazione era frazionabile e però perseguibile con una sola azione sicché agendo il
creditore per una parte soltanto, rischiava di non poter più esigere il resto. La praescriptio
limitava l’oggetto dell’azione e l’effetto preclusivo a quanto l’attore volesse o potesse
perseguire. Era quindi un rimedio che giovava all’attore.

2.3.9 L’exceptio
Era un rimedio a favore del convenuto. Veniva inserita nella formula, dopo l’intentio e
prima della condemnatio. Era una condizione negativa della condanna: il giudice avrebbe
dovuto condannare in convenuto solo se le circostanze di questa fossero state non vere,
altrimenti assolverlo. veniva inserita nella formula per volere e nell’interesse del
convenuto. Aveva funzione analoga alla denegatio actionis, ma veniva concessa dal
pretore solo quando le circostanze non erano manifeste e necessitavano di accertamento,
se contestate dall’attore. Veniva incorporata nella formula e il giudizio continuava apud
Le persone

iudicem. Non ogni difesa del convenuto era exceptio: qualora egli avesse dichiarato “non
è vero”, avrebbe solo negato l’intentio. Si parlava di exceptio quando, senza di essa, il
giudice non avrebbe potuto tenere conto di circostanze che si desiderava far valere.
Dunque, si chiarisce così la differenza tra ipso iure e ope exceptionis. L’effetto ipso iure
era un effetto automatico di ius civile di cui il giudice poteva e doveva tenere conto pure
2

se non menzionato nella formula. Si parlava di ope exceptionis quando, per farli valere,
era necessaria exceptio. Sotto il profilo sostanziale, essa era rimedio pretorio non di ius
civile, escogitato per correggere le eventuali mancanze di questo. Tuttavia, l’attore poteva
opporsi all’exceptio con replicatio: se questa fosse stata fondata, il giudice non avrebbe
dovuto tenere conto dell’exceptio.

2.4 La classificazione delle azioni


2.4.1 Azioni civili e azioni pretorie
Le azioni erano tipiche, ma tuttavia classificabili in diverse categorie. La prima
distinzione è tra:

 Azioni civili: le azioni fondate sul ius civile, quelle che si risolvevano in
affermazioni.

 di appartenenza ex iure Quiritium.

 di spettanza di un ius.

 di obbligazione a carico del convenuto espressa dal verbo opotere.

 Azioni onorarie o pretorie: trovavano fondamento nelle clausole contenute nello


stesso editto dove il pretore indicava le circostanze in presenza delle quali egli
avrebbe concesso l’azione. Ogni azione pretoria presupponeva una premessa
edittale talché nell’editto la relativa formula compariva dopo di questa.

Tra le azioni civili si annoverano i iudicia ex bonae fidei, che vedeva l’opotere ex fide
bona come dovere giuridico di adempiere da parte del debitore. Era riconosciuta anche ai
non cittadini, essendo istituto di ius civile e ius gentium. Si trattava di azioni in personam,
nella cui formula vi era la demonstratio, l’intentio incerta e la condemnatio: nell’intentio
il verbo opotere era seguito da ex fide bona. Il giudice era così invitato a stabilire secondo
criteri di buona fede le obbligazioni. Buona fede significava correttezza nella vita di
relazione: una buona fede oggettiva che consentiva al giudice, in via di interpretazione dei
termini, un’ampiezza di giudizio. Le azioni civili in personam, nelle quali il dovere
giuridico di adempiere da parte del debitore era espresso nell’intentio non con opotere ex
Le persone giuridiche

fide bona, ma con semplice opotere, per contrapporle alle azioni di buona fede si dissero
iudicia stricta, giudizi di stretto diritto.

Nelle azioni di buona fede rientravano i quattro contratti consensuali (compravendita,


locazione, società e mandato). La giurisprudenza tuttavia si occupò di indicare i riflessi
che un’interpretazione con buona fede poteva avere. Ne emersero principi quasi

2
rivoluzionari rispetto all’antico diritto, come l’invalidità dei negozi estorti con inganno o
minacce, l’aggravamento della posizione del debitore in mora, tenuto a pagare interessi.

Quanto alle azioni pretorie, queste potevano essere utili, con trasposizione di soggetti e in
factum, volti comunque a colmare mancanze del ius civile. In esse era diversa la struttura.
Nell’intentio delle azioni utili era presente riferimento al ius civile, seppur con estensioni
di questo a situazioni da esso non contemplate. Nelle azioni in factum, si prescindeva dal
ius civile, e il giudice si limitava a condannare o assolvere a seconda che tali circostanze
si fossero o meno verificate. Circa le azioni utili, l’estensione della tutela civilistica
avvenne per alcune azioni tra cui la fictio, le actiones ficticiae: nell’intentio il giudice era
tenuto a giudicare sulla base di una finzione giuridica, come se esistesse un elemento, che
in realtà non c’era, imprescindibile secondo il ius civile. Nelle azioni con trasposizione di
soggetti, per dar modo al giudice di condannare il convenuto nonostante il difetto
nell’attore id legittimazione attiva o nel convenuto di legittimazione passiva, si indicava
nell’intentio il nome del soggetto effettivamente legittimato e nella condemnatio il nome
della parte che stava effettivamente n giudizio al posto del legittimato. Si applicava anche
alla presenza di un cognitor, di un procurator ad litem o di un altro sostituto processuale.

2.4.2 Actiones in rem e actiones in personam


La loro distinzione è presupposta nel regime della legis actio sacramenti. Nelle azioni
reali la pretesa dell’attore è erga omnes, il quale è dotato di potere assoluto sulla cosa per
cui si controverte. Nell’intentio figurava il nome dell’attore e quello del convenuto solo
nella condemnatio. Questo perché la persona del convenibile con azioni reale non era
determinata a priori ma al momento dell’azione. L’azione reale segue la cosa. È pertanto
proponibile contro chi possieda il bene che ne è oggetto o contro chi ne abbia qualche tipo
di relazione al momento dell’azione. Nelle azioni in personam, l’attore si afferma
creditore ed assume che l’avversario, suo debitore, è tenuto verso di lui ad un certo
comportamento. Ha carattere relativo e non assoluto, in quanto l’azione è specificata
verso un soggetto determinato: il nome del convenuto figurava già nell’intentio, in quanto
il nome della persona già determinato prima dell’azione. Un esempio di azione di tale tipo
è la condictio o le azioni penali. Esse avevano diverso regime processuale: nell’ambito
dell’indefensio, quando il convenuto si rifiutava di difendersi nelle azioni in personam, il
Le persone

pretore poteva dar corso all’esecuzione in persona o permettere all’avversario di


trascinarlo in giudizio in stato di assoggettamento, oppure dar corso all’esecuzione
patrimoniale e autorizzare l’attore ad immettersi nel possesso di tutti i beni
dell’indefensus. Nelle azioni reali invece il convenuto poteva o meno difendersi, ma, nel
caso della non difesa, il pretore avrebbe dovuto consentire all’avversario l’esercizio del
2

diritto che questi reclamava: si parla di translatio possessionis. Se era assente la difesa e
non si dava avvio alla translatio, si poteva proseguire contro il convenuto con delle
sanzioni. Le azioni avevano anche diverso regime per gli effetti preclusivi della litis: si
trattava del caso di azioni in personam che fossero al contempo iudicia legittima in ius.
Nella litis, l’azione non era ripetibile: tuttavia nel caso di queste azioni alle quali
mancasse una di queste prerogative, si poteva ammettere replicabilità. Ma il convenuto
avrebbe opposto l’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae.

2.4.3 Le azioni arbitrarie. Temperamenti del principio della condanna


in ogni caso pecuniaria
Sono dette arbitrarie le azioni la cui formula conteneva una clausola restitutoria, o
arbitraria, per cui il giudice, verificata l’intentio, prima della condanna, avrebbe dovuto
invitare il convenuto alla restituzione e condannarlo in caso di mancata restituzione. La
condanna doveva sì essere espressa in denaro, ma era soggetta a temperamento: era
vantaggioso per entrambe le parti la restituzione del debito “in natura”. Se il convenuto
non avesse restituito, sarebbe stato lo stesso creditore a stabilire l’importo del debito, di
valore affettivo e quindi superiore al valore oggettivo del bene dovuto. Con la
restituzione, il convenuto veniva assolto. Dunque, tale regime si applicava in tutte le
azioni in cui l’attore avanzava una pretesa che non fosse in denaro. La clausola
restitutoria riguardava azioni reali. Quando questa mancava, il giudice avrebbe dovuto
condannare il convenuto pure se questi dopo la litis avesse soddisfatto le giuste pretese
dell’avversario. Nei giudizi per buona fede, dovendosi applicare appunto tale criterio,
anche in difetto di clausola, se dopo la litis il convenuto avesse adempiuto, il giudice
avrebbe dovuto assolverlo. Ugualmente anche per i giudizi di stretto diritto.

2.4.4 Azioni penali e azioni reipersecutorie


Entrambe facevano capo al diritto privato. Le azioni penali erano in personam: il privato,
vittima di un illecito, perseguiva dall’autore di esso una pena con funzione punitiva,
pecuniaria o corporale, afflitta dalla vittima direttamente. Nel processo formulare la pena
era sempre pecuniaria. L’azione reipersecutoria perseguiva la res, intesa come ogni tipo di
interesse patrimoniale. Aveva funzione risarcitoria. Le azioni reali erano tutte
reipersecutorie, quelle in personam no. Penali erano le azioni che avevano come pena un
Le persone giuridiche

multiplo del valore del bene leso, ma potevano anche essere al simplum. Da un illecito
nasceva però anche l’azione reipersecutoria. Si distinguevano dunque in base al regime
giuridico: le penali erano passivamente intrasmissibili, potevano cioè essere fatte contro
l’autore stesso e non contro i suoi eredi. Le azioni penali si cumulavano: potevano essere
contro più responsabili, ognuno dei quali era obbligato a pagare la pena per intero. Si

2
parlava di obbligazioni solidali cumulative. Nelle azioni reipersecutorie il cumulo era
escluso: se l’attore avesse percepito qualcosa che riguardava altri, doveva con essi
dividerla. Pena e risarcimento non erano incompatibili: si poteva pretendere risarcimento
anche dopo la pena e viceversa, ma il risarcimento avveniva un’unica volta. Da qui la
possibilità di cumulare, se nascenti da stesso illecito, azione penale e reipersecutoria, ma
non due azioni reipersecutorie. L’azione penale poteva essere civile o pretoria: quelle
pretorie erano annali, potevano cioè essere esercitate entro l’anno dalla commissione
dell’illecito. Le azioni penali erano anche nossali, le stesse che si esercitavano per gli
illeciti commessi da soggetti a potestà: ne rispondeva il dominus o il pater, pagando la
pena o dando a nossa il colpevole soggetto a sua potestà, tramite mancipatio. Dagli inizi
del principato, si ebbe un processo di depenalizzazione, che portò all’ammissione di
diversi notevoli temperamenti:

 Circa l’intrasmissibilità passiva, si ammise di poter agire contro gli eredi del
colpevole con azione non penale nei limiti dell’arricchimento, sì che essi rispondano
nella misura in cui abbiano tratto vantaggio dall’illecito.

 Si ammisero deroghe sempre più ampie al principio del cumulo tra azione penale e
reipersecutoria, ammettendo le azioni dette mixtae, penali e reipersecutorie insieme.

 Il criterio di nossalità cadde in disuso durante l’età postclassica per i figli, rimase per
gli schiavi.

In età giustinianea rimarranno poche azioni penali pure.

In età classica, nelle azioni miste, si ammise che nella condemnatio, oltre alla pena
multipla del valore delle azioni penali, una parte di questa, il simplum, dovesse essere
considerato come risarcimento, il resto come pena. Altro fenomeno fu la configurazione
di taluni comportamenti sanzionati da azioni penali private anche quali crimina, come tali
repressi con pena pubblica. Si ebbe sin da età repubblicana e maggiormente in età
classica. Gli ultimi residui di penalità scompariranno in età intermedia, medievale e
moderna e si affermerà il principio per cui gli atti illeciti extracontrattuali venivano
considerati come di diritto pubblico e non privato.
Le persone

2.4.5 L’actio iudicati


Per l’esecuzione della sentenza, si aveva actio iudicati, un’azione in personam che aveva
come presupposti la condanna espressa in denaro con conseguente obligatio iudicati e
l’adempimento entro i trenta giorni. Il convenuto poteva o riconoscere di esserne tenuto,
2

permettendo al pretore di dar via all’esecuzione o negare che vi fosse stata valida
sentenza, che non avesse adempiuto e che i termini per l’adempimento fossero trascorsi.
Si procedeva con azione di accertamento e in caso di contestazione infondata, era
condannato al pagamento del doppio della condanna iniziale. Questa nuova sentenza non
ammetteva actio iudicati e il pretore procedeva all’esecuzione.

2.4.6 Procedure esecutive contro il iudicatus


L’esecuzione poteva essere personale o patrimoniale:

 Personale: era ricalcata sulla legis actio per manus iniectionem, ma con
semplificazioni e temperamenti. Il pretore pronunciava addictio del debitore in
favore del creditore, che poteva tenerlo assoggettato nelle sue prigioni private fin
quando qualcuno non l’avesse riscattato pagando il debito o quando il debitore
stesso non avesse riscattato il debito.

 Patrimoniale: culminava nella bonorum venditio. Si iniziava con la missio in


bona, mediante la quale il pretore immetteva il creditore che di seguito all’actio
iudicati ne avesse fatto istanza nel possesso di tutti quanti i beni del debitore.
Aveva funzione di custodia e conservazione. Si proseguiva con la proscriptio
mediante la quale si dava notizia a tutti i creditori di altri debiti che avessero
voluto intervenire. La procedura era quindi concorsuale. Il debitore, trascorsi
trenta giorni da questa senza aver adempiuto, diveniva infame, con le relative
conseguenze. Intervenuti i creditori e trascorsi i termini della proscriptio, il
pretore nominava un curator bonorum per gestire provvisoriamente i beni del
debitore. I creditori invece nominavano un magister bonorum che preparasse la
vendita all’asta dei beni del debitore: essi sarebbero andati al bonorum emptor,
all’acquirente che avesse offerto di pagare la maggior percentuale del debito.
L’acquirente avrebbe pagato subito la percentuale dovuta e pure, nella stessa,
anche quanto preteso dagli altri creditori. Per gli altri debiti poteva essere
convenuto in giudizio con taxatio alla percentuale offerta. Egli poteva quindi
recuperare i beni del debitore di cui non avesse vantato il possesso e anche
pretendere i crediti che spettavano al debitore stesso. Veniva quindi classificato
come successore universale, subentrando nella situazione giuridica del debitore.
Non era però istituto di diritto civile e dunque l’acquirente non diventava
Le persone giuridiche

proprietario iure civili, ma successore universale iure pretorio, al quale venivano


concesse le azioni spettanti al debitore, adattandole al caso. L’adattamento
avveniva in due modi: attraverso l’actio Serviana, ossia una fictio, un’azione utile
oppure attraverso l’actio Rutiliana, un’azione con trasposizione di soggetti:
nell’intentio di questa appariva il nome del debitore, mentre nella condemnatio

2
quello dell’acquirente.

2.4.7 Procedure esecutive in assenza di giudicato


L’actio iudicati presupponeva generalmente un precedente giudizio. Tuttavia, erano
presenti casi per cui si poteva procedere ad esecuzione a prescindere da una precedente
condanna e a prescindere dal preventivo esercizio dell’actio. Si trattava del caso in cui il
convenuto si rifiutava di difendersi nelle azioni in personam, del caso in cui il vocatus in
ius non si presentasse di fronte all’attore, del caso degli assenti e del caso dei debitori
morti senza eredi.

2.4.8 Cessio bonorum e distractio bonorum


Si trattava di procedure molto severe, ma comunque sottoposte a temperamenti. Una lex
Iulia, di età augustea, stabilì che al debitore la cui insolvenza era imputabile
giuridicamente ma non moralmente, poiché sfortunato, si concesse la cessio bonorum,
ossia la cessione volontaria di tutti i beni al creditore. Si andava incontro a procedura
concorsuale, a vendita all’asta e acquisto dei beni, ma non a prescriptio, infamia ed
esecuzione personale. Queste ultime due si risparmiarono per editto pretorio a taluni
incapaci: il pretore nominava un curator bonorum che avesse venduto singolarmente beni
patrimoniale fin tanto che bastavano a soddisfare il debito. Si parlò di distractio bonorum
ex edicto. Questa pratica venne estesa in età classica da un senatoconsulto a tutti coloro
che avevano rango senatorio.

2.5 I rimedi pretori


Nel processo formulare, il pretore apprestava i suoi rimedi in tre direzioni: adiuvandi vel
supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia. Vi rientravano la denegatio actionis,
l’exeptio, le actiones utiles, le azioni con trasposizioni di soggetti, le actiones in factum,
l’esecuzione patrimoniale e la bonorum possessio.
Le persone

2.5.1 Gli interdicta


Interdicere significava proibire ed interdicta si dissero gli ordini processuali soprattutto
pretori, che vietavano determinati comportamenti. Erano esperibili da un privato contro
un altro privato. Agli inizi si trattava di divieti perentori del magistrato; con
2

l’introduzione del processo formulare, divennero ordini condizionati che potevano essere
o prohibitoria, o restitutoria o exhibitoria. Il pretore, alla presenza delle parti, procedeva
ad un esame sommario delle ragioni degli interessati ed emanava in base ai presupposti
che ne giustificavano l’esistenza. Se l’intimato avesse accettato quei presupposti, avrebbe
obbedito all’ordine del magistrato, concludendo il processo. Contrariamente, si sarebbe
proceduto ad accertamento delle condizioni: se l’esito era contrario all’intimato, contro di
lui si davano all’attore gli strumenti giudiziari per proseguire all’interdictum. Gli
interdetti furono largamente impiegati in materia possessoria, contro turbative di possesso
e spossessamenti. Essi erano tipici, ognuno per un caso diverso, specificato nell’editto
riguardante questi.

2.5.2 La in integrum restitutio


Viene classificata tra i rimedi pretori corrigendi iuris civilis gratia. Comportava il
sostanziale ripristino della situazione giuridica qual era prima dell’evento o dell’atto i cui
effetti giuridici il pretore, per motivi di equità, voleva rimuovere. Era proprio il pretore
stesso inoltre a verificare se sussistessero o meno le ragioni per la concessione della
restitutio. Mai il pretore però poteva rendere nulli effetti già iure civili prodotti. Poteva al
massimo concedere alla persona che a lui si era rivolta strumenti tali da neutralizzare
quegli effetti pur senza formalmente annullarli. I casi in cui si concedeva tale pratica
erano indicati nell’editto.

2.5.3 Le cautiones, o stipulationes praetorie


Erano espedienti pretori cui si ricorreva in determinati casi per i quali mancava un
obbligo giuridicamente sanzionato, che al pretore però sembrava equo o, quando
quest’obbligo esisteva ma se ne desiderava diversa applicazione. In questi casi, il pretore
imponeva alla parte contro cui era sorta l’istanza di obbligarsi ad una certa prestazione
tramite stipulatio, generando così un’obligatio iuris civilis, sanzionata da azione civile. I
mezzi con cui il magistrato perseguiva ciò erano ad esempio denegeatio actionis o missio
in possessionem. Con la stipulatio si perseguivano prestazioni svariate, ma il contenuto
delle cautiones era stabilito da modelli previsti nell’editto pretorio.
Le persone giuridiche

2.5.4 Le missiones in possessionem


Erano disposte dal pretore con decretum, su postulatio dell’interessato e previa cognitio
delle ragioni che spingevano l’interessato all’azione. Dopo, l’istante era autorizzato ad
immettersi in possessione ora di un singolo bene ora di un complesso patrimoniale: nel

2
primo caso si aveva missio in possessionem per il danno temuto, nel secondo missio in
possessionem rei servande causa. Il missus non acquistava il possesso dei beni, ma solo la
detenzione: il possesso si aveva in caso di missio in possessionem ex secundo decreto per
il danno temuto. Esse si concedevano nelle sole ipotesi contemplate dall’editto. La
funzione poteva essere di custodia o conservazione, di pressione al compimento di un atto
o di un comportamento.

2.6 La scomparsa del processo formulare


Il processo formulare andò perdendo uso con l’immissione di cognitiones extra ordinem e
fu definitivamente abolito con la scomparsa della magistratura pretoria dai figli di
Costantino, gli imperatori Costante e Costanzo nel 342. Tuttavia, la tecnica formulare e la
figura pretoria vennero tenute in considerazione anche nel nuovo processo.

2.7 Le cognitiones extra ordinem


Risale ad Augusto il riconoscimento di valore giuridico dei fedecommessi alla
competenza dei consoli. Fu questo il primo caso di cognitio extra ordinem, per cui si fece
ricorso ad un processo né per legis, né per formulas. Riguardava materie non trattabili dal
processo ordinario e materie con concorso tra nuovo processo e quello ordinario. Gli
organi competenti erano nelle province i governatori, a Roma sia i magistrati dell’ordine
costituzionale repubblicano sia funzionari direttamente nominati e dipendenti dal
principe. Anche quest’ultimo poteva intervenire nei giudizi privati, decidendo sia in
prima istanza, sia in grado di appello. Prese corpo la prassi di avere appello nelle sentenze
extra ordinem. Altri giudici furono il senato, il praefectus pretorio e, per delega
imperiale, il prefectus urbi. Si parla di cognitiones al plurale in quanto ne esistevano più
tipi, ma se ne fa riferimento al singolare in quanto aventi principi e orientamenti comuni.
Nella chiamata in giudizio, interveniva un organo pubblico: il convenuto, non
presentandosi in udienza, era contumace, ossia non obbediente. Il giudice avrebbe dovuto
comunque tener conto delle sue ragioni e, se giusto, dar ragione all’attore. Il processo non
era diviso nelle due fasi in iure e apud iudicem e la decisione della lite era affidata ad un
organo pubblico e non privato, il quale poteva anche emanare la sentenza. Non vi era litis
Le persone

contestatio e gli effetti avevano luogo in momenti differenti: quelli conservativi nel
momento iniziale e quelli preclusivi nella sentenza. Tuttavia, si avevano anche effetti
pregiudiziali positivi, per cui, se la questione già decisa fosse stata sottoposta ad un altro
giudice, questo avrebbe dovuto consultarsi con il precedente. Era assente ogni formalità,
per cui l’attore esponeva le proprie ragioni e il convenuto si difendeva nella praescriptio.
2

La sentenza poteva non essere espressa in denaro: lo stesso giudice avrebbe potuto dar via
all’esecuzione. Se invece era pecuniaria, si dava avvio alla procedura esecutiva. Si poteva
evitare esecuzione personale e bonorum venditio ricorrendo al pignoramento e alla
successiva vendita di quanti beni fossero sufficienti a soddisfare le ragioni dell’altra parte.
Ciò ebbe ripercussioni sul processo postclassico e giustinianeo e su quello moderno.

2.8 I processi postclassico e giustinianeo


Con gli inizi dell’età postclassica il processo si unificò. Gli organi giudiziari approvati
furono quelli relativi al territorio, al cui vertice stava l’imperatore, che decideva in ultima
sentenza. La procedura si irrigidì: la tendenza del legislatore fu di non lasciare spazio ai
poteri discrezionali del giudice. Le parti potevano esprimere le loro difese in fasi diverse,
in quanto il punto da decidere era decisamente più complesso, scomparse del tutto le
formule prefissate. Si ammise inoltre forma scritta e spese giudiziarie per le parti. La
legislazione imperiale impedì le carceri private ma l’esecuzione personale per debiti non
scomparve. Se il debitore non era del tutto privo di mezzi, contro di lui potevano essere
avviate procedure patrimoniali. In caso di concorso tra creditori, con Giustiniano almeno,
il criterio adottato fu quello della bonorum venditio. Strumenti e principi formulari
vennero modificati ed adattati: l’exceptio poté essere utilizzata per ridurre la condanna,
gli effetti ipso iure e ope exceptionis divennero effetti verificabili di ufficio, direttamente
dal giudice, non vi fu più distinzione tra azioni civili e azioni pretorie, mentre rimase
quella tra azioni di stretto diritto e di buona fede. A quest’ultime vennero assimilate
quelle arbitrarie e alle actiones i procedimenti relativi ad interdicta, in integrum
restitutiones e cautiones. La tipicità delle actiones sussistette, ma comunque perse valore
con l’incremento del carattere generale assunto da alcune azioni. Venute meno le formule,
le differenze tra singole azioni si avviavano a scomparire. Elaborazioni e costituzioni di
diritto privato divennero materia di diritto sostanziale, indipendente da quella processuale.
Si considerò il diritto soggettivo indipendente dall’actio corrispondente. Processo e diritto
sostanziale acquistarono reciproca autonomia e si posero le premesse per farne oggetto di
separate discipline.
Le persone giuridiche

2
3. Gli atti negoziali

3.1 Fatti, atti e negozi giuridici


Tra le categorie concettuali della dottrina moderna ritroviamo quella di fatto giuridico,
ossia qualsiasi evento, non importa se volontario o no, che incide sulla realtà giuridica
dando luogo ora alla nascita di situazioni giuridiche nuove ora a modificazione o
estinzione di situazioni giuridiche esistenti: ogni evento produttivo di effetti giuridici. Si
distinguono in fatti volontari, ossia dipendenti dalle azioni umane volontarie e
giuridicamente considerate in quanto tali, e fatti involontari, quei fatti naturali che si
verificano indipendentemente dalla volontà dell’uomo (es. calamità naturali) o che
comunque vengono in considerazione nel mondo giuridico a prescindere dalla circostanza
se siano stati determinati o non da azioni umane volontarie. Quelli volontari sono
comunemente detti atti giuridici, leciti o illeciti, i primi giuridicamente consentiti, i
secondi no. Di quelli leciti la categoria più importante è quella dei negozi giuridici, ossia
manifestazioni di volontà da parte di privati dirette al conseguimento, che l’ordinamento
giuridico garantisce, di risultati pratici giuridicamente definibili in termini di acquisto,
perdita o modificazioni di situazioni giuridiche soggettive. Si tratta di categorie
giuridicamente estranee al diritto romano, espresse ed elaborate dalla dottrina moderna,
soprattutto dalla Pandettistica, sebbene siano comunque concetti latenti ed impliciti nelle
fonti giustinianee.

3.2 Gli atti illeciti


Sono fatti giuridici volontari vietati dall’ordinamento giuridico. Se ne parla nell’ambito
delle obbligazioni, dicendo che gli effetti giuridici collegati al compimento di un atto
Le persone

illecito sono l’applicazione di una sanzione a carico dell’autore. L’atto in sé è voluto, le


conseguenze no.
2

3.3 I negozi giuridici


Sono fatti giuridici volontari, ma sono atti leciti: gli effetti che vi sono collegati sono
voluti dall’autore o dagli autori dell’atto.

3.3.1 Negozi giuridici. Tipicità


Pur essendo assente, nelle fonti romane, l’idea di negozio giuridico, sono molti gli atti, i
comportamenti volontari, individuati e circoscritti che bene rientrano nella categoria del
negozio giuridico. Non si riconoscevano però tutti gli effetti giuridici ad ogni atto lecito
corrispondente a quello schema: vigeva il principio di tipicità. Effetti giuridici si
riconoscevano per diritto romano solo a determinati negozi giuridici, a determinati tipi
negoziali, singolarmente individuati e in numero definito, ognuno con struttura e regimi
propri.

3.3.2 Negozi giuridici. Elementi

Nella struttura dei negozi giuridici, si distinguono elementi essenziali, naturali e


accidentali. Quelli essenziali sono gli elementi strutturali del negozio giuridico. Uno di
questi è la » volontà, la quale deve fare capo a soggetti che siano al contempo capaci di
agire e legittimati a compiere il negozio. La » legittimazione negoziale è l’idoneità a
porre in essere un negozio in relazione agli effetti che esso in concreto è destinato a
produrre. Certi elementi del negozio sono essenziali solo in determinati tipi di negozi.
Sono detti elementi naturali quegli elementi conseguenti automaticamente al negozio-
tipo pur nel silenzio delle parti, le quali potranno con patto contrario espressamente
eluderli. Si dicono accidentali quelle clausole non essenziali, che non sono proprie di
singoli tipi di negozio ma possono, se vogliono, essere inserite dalle parti. Elementi
accidentali sono la condizione, il termine e il modus.

3.3.3 Negozi giuridici. Invalidità ed inefficacia


Si dice invalido il negozio che presenta un difetto intrinseco in alcuno dei suoi elementi.
Si dice inefficace il negozio che non produce effetti propri. Il negozio invalido è anche
inefficace. Non è vero il contrario: il negozio inefficace può essere valido. Vi sono infatti
dei negozi senza difetti intrinseci e quindi validi che ancora non producono effetti (es: il
Le persone giuridiche

testamento prima della morte del testatore). Si distinguono più specie di invalidità: si dà
rilievo sotto questo aspetto ai concetti di nullità e di annullabilità. Si dice nullo il
negozio che, per difetto di uno dei suoi elementi essenziali o per altro grave motivo, non
produce i suoi effetti, nasce “morto”. Qualunque interessato potrà, senza limiti di tempo,
far valere la nullità. Una eventuale sentenza di nullità sarà meramente dichiarativa, di

2
semplice accertamento. Si dice annullabile il negozio che presenta vizi meno gravi, nasce
“vivo”, ma ammalato. Potrà quindi essere impugnato nei termini stabiliti sì da provocarne
l’annullamento, con una pronunzia costitutiva che muta la situazione giuridica
preesistente: con l’annullamento il negozio cessa di produrre effetto, diventa inefficace. Il
concetto di nullità è nelle fonti romane, quello di annullabilità no, ma deriva da esse:
consegue fondamentalmente allo sviluppo di negozi iure civili validi, con effetti però
neutralizzabili iure praetorio. Al negozio nullo romano non vengono riconosciuti gli
effetti propri. Nullità ed invalidità coincidono: ogni invalidità non può che essere nullità.
Il negozio nullo è trattato ipso iure, come se non esistesse. Le ipotesi di negozi iure civili
validi ed efficaci, i cui effetti potevano però venire neutralizzati, generalmente per ragioni
di equità, con rimedi pretori erano diversi. Gli effetti già prodotti restavano, solo che in
pratica se ne impediva la realizzazione, oppure venivano semplicemente ignorati. Si
parlerà pertanto di negozi iure civili validi ma invalidi iure praetorio. Tante volte la
nullità era conseguente al fatto che il negozio era stato compiuto in violazione di un
precetto giuridico. Non sempre però la violazione di una norma comportava nullità. Per
questo venivano classificate leges perfectae, leges minus quam perfectae e leges
imperfectae.

 Le prime stabilivano un divieto e insieme la nullità dell’atto compiuto nonostante il


divieto.

 Le seconde stabilivano un divieto e una sanzione contro i trasgressori, senza sancire al


contempo la nullità dell’atto compiuto in difformità.

 Le terze stabilivano un divieto senza stabilire né nullità dell’atto contrario né sanzioni


a carico dei trasgressori.

3.3.4 Negozi giuridici. Classificazioni


Dei negozi giuridici si sono individuate delle fondamentali classificazioni:

→ Negozi formali e non formali: si dicono formali i negozi nei quali la volontà deve
essere manifestata in forma determinata, nei quali quindi la forma prescritta è
elemento essenziali. Non formali sono quei negozi nei quali la volontà può essere
manifestata liberamente in qualsiasi forma si voglia.
Le persone

→ Negozi causali e negozi astratti: si dicono causali i negozi nei quali la causa
determina la struttura del negozio, ne è quindi elemento costitutivo ed essenziale.
Astratti invece sono negozi nei quali la causa non emerge dalla struttura del
negozio sicché gli effetti negoziali si producono indipendentemente da essa.

→ Negozi unilaterali, bilaterali e plurilaterali: si dice unilaterale il negozio in cui


2

la volontà è di una sola parte, bilaterale quando vi sono due parti e plurilaterali
quando viene da tre o più parti. → le parti: si dicono parti tutti i centri di interesse
di un negozio. La parte può coincidere con la persona singola o con più persone,
condividenti lo stesso interesse.

→ Negozi a titolo oneroso e a titolo gratuito: nei primi ciascuna parte consegue un
vantaggio dietro corrispettivo, nei secondi un vantaggio senza corrispettivo. Negli
ultimi rientrano gli atti di liberalità: negozi giuridici che danno luogo ad
un’attribuzione definitiva nei confronti di coloro che ne traggono vantaggio.

→ Negozi inter vivos e mortis causa: quelli inter vivos producono effetti in vita del
soggetto o dei soggetti che nel negozio sono partecipi, quelli mortis causa
producono effetti alla morte del soggetto che ne è l’autore

→ Negozi ad effetti reali ed effetti obbligatori: i primi riguardano il trasferimento


della proprietà, la costituzione od estinzione dei diritti reali limitati. Gli altri idonei
alla nascita o estinzione di obbligazioni. Nel diritto romano, i negozi con effetti
reali erano differenti dagli effetti obbligatori. Di effetti reali erano produttivi la
mancipatio, in iure cessio e traditio.

→ Negozi dispositivi o atti di disposizione: atti di forza dei quali taluno aliena,
estingue o comprime un diritto proprio. Sono dispositivi tutti i negozi con effetti
reali, ma vi rientrano pure la rinunzia ad un credito o l’affrancazione di un servo,
ecc.

→ Negozi fiduciari: eccedono, negli effetti, lo scopo che si intende raggiungere ma


in cui al contempo le parti stringono un’alleanza che consentirà di realizzare
esattamente lo scopo. Tra gli esempi troviamo la mancipatio, l’adoptio,
l’emancipatio, contratto di fiducia.

3.3.5 Forme della manifestazione di volontà


Ogni negozio giuridico comporta una manifestazione di volontà necessaria.
L’ordinamento giuridico riconosce talvolta effetti dalla volontà comunque manifestata,
Le persone giuridiche

mentre per altri effetti è necessario che sia in forme determinate. Si distingue perciò tra
negozi formali e non formali.

3.4 Negozi formali

2
I negozi del più antico ius civile. Le formalità prescritte erano formalmente orali,
richiedendosi l’uso di certa verba o anche il compimento di gesti predeterminati, la
presenza di certe cose, la presenza e talora anche la partecipazione di persone estranee
agli effetti dell’atto. La forma era rigorosamente imposta, lo schema dell’atto rigidamente
predeterminato. Esprimevano di per sé in modo stilizzato i contenuti dei negozi che con
esse si realizzavano. La mancata puntuale adozione delle forme prescritte era in ogni caso
motivo di nullità.

3.4.1 La mancipatio
Trova fondamento negli antichi mores ed è un istituto del ius Quiritium, quindi del ius
civile, fruibile soltanto da cittadino romano. Era uno dei gesta per aes et libram, uno degli
atti cioè che si compivano con rame o bronzo e una bilancia. Erano caratterizzati da una
parte che conseguiva vantaggio dietro pronuncia di determinate parole, dall’impiego di
una bilancia e del metallo – prima rame e poi bronzo – che veniva pesato, dalla presenza
come testimoni di cinque cittadini romani maschi e puberi e da quella di un altro
cittadino, il libripens, che reggeva la bilancia e provvedeva alla pesatura del metallo. Le
parti erano il mancipante, o mancipio dans, e il mancipio accipiens. La mancipatio
comportava l’acquisto di un potere su persone o cose in favore del mancipio accipiens e
la perdita di un potere sulla stessa del mancipio dans. Era impiegata al trasferimento della
proprietà di res mancipii, quindi schiavi, donne in manus, filii familias altrui e anche
testamento. Alla mancipatio di uno schiavo si procedeva così: presenti il mancipante, lo
schiavo, cinque cittadini romani puberi e il libripens con la bilancia, il mancipio
accipiens teneva lo schiavo e pronunciava determinate parole. Contestualmente il
mancipio accipiens poneva sulla bilancia il metallo che il libripens provvedeva a pesare e
che l’accipiens consegnava successivamente al mancipio dans. Ma la mancipatio
trasferiva anche possesso? Bisogna distinguere in questo caso tra mancipatio di beni
mobili e di beni immobili. Nei beni mobili si aveva trasferimento e di proprietà e di
possesso. Non diversi erano gli effetti della mancipatio di un fondo, che doveva avvenire
sul fondo stesso con un gesto che segnava il compimento del passaggio di possesso. In età
classica, per la mancipatio di immobili non fu più necessario recarsi nei luoghi, ma si
aveva il trasferimento solo della proprietà. Poi il mancipio dans doveva compiere gesto di
trasferimento di possesso. Si trattava sostanzialmente di una vendita, e, per tale motivo,
Le persone

quando a Roma venne introdotta la moneta coniata, non si usava più pesarla sulla bilancia
ma la pesatura era solo simbolica: si percuoteva con il raudusculum – pezzetto di metallo
grezzo e poi moneta – cui seguiva la consegna di questo.

Imaginaria venditio → Con il riconoscimento in età preclassica di contratto


consensuale di compravendita con effetti soltanto obbligatori, la mancipatio perdette la
2

funzione di vendita. Fu definita “imaginaria venditio” per significare che si trattava di un


istituto che di vendita aveva solamente l’imago, ossia l’apparenza. Essa mantenne i suoi
effetti reali, ma non più in quanto vendita: quando questa c’era, figurava come un negozio
diverso che si perfezionava con il solo consenso. Divenne un negozio astratto, che poteva
esistere per cause diverse dalla vendita, come la donazione, la dote, ecc. Poteva essere
integrata da leges mancipii o leges mancipio dictae. Erano leges privatae, manifestazioni
di volontà espresse oralmente dal mancipio dans e a volte dal mancipio accipiens secondo
l’impiego di parole e schemi prestabiliti, volti a limitare o integrare gli effetti tipici della
mancipatio. Essa sopravvisse fino all’età classica, cadde in decadenza nel Basso Impero e
scomparve del tutto con Giustiniano.

3.4.2 La in iure cessio


Altro negozio formale più recente della mancipatio ma antecedente le XII Tavole. Era
istituto di ius civile, che veniva impiegato per il trasferimento di dominium di res mancipi
e nec mancipi, per la costituzione e la rinunzia di servitù prediali ed usufrutto, per
l’acquisto della patria potestas e a determinate condizioni, per la cessione dell’eredità.
Aveva forma rigorosamente imposta: avveniva in iure, di fronte ad un magistrato avente
iuris dictio e dal 367 a.C. di fronte al pretore. Le parti erano il cedente e il cessionario.
Per la cessione dello schiavo erano presenti schiavo e cedente e il cessionario, tenendo lo
schiavo, pronunciava la formula vindicatoria. Il magistrato interrogava il cedente e, alla
luce del suo silenzio, pronunziava l’addictio verso il cessionario. Era quindi un finto
processo, un legis actio. Era però un vero negozio giuridico, astratto, in quanto non vi
emergeva alcuna causa. Impiegava inoltre passaggio di proprietà e di possesso nel caso di
beni mobili. Scomparve in età postclassica.

3.4.3 Cenni sulla stipulatio


Negozio formale era anche la stipulatio, un negozio bilaterale (contratto) con effetti
obbligatori. Le parti erano lo stipulante (stipulator) e il promettente (promissor). Si
compiva in forza di un’interrogazione e di una congrua risposta: lo stipulante domandava
al promittente se volesse assumere l’impegno a tenere un certo comportamento; risposta
congrua era il pronunciare in prima persona il verbo pronunciato in seconda persona dallo
Le persone giuridiche

stipulante. Nasceva così un’obbligazione da parte del promittente, divenuto debitore,


verso lo stipulante, ora creditore. La più diffusa forma di stipulatio era la sponsio, rilevata
ai soli cives, che prevedeva l’utilizzo del verbo spondere. La forma era agile ed era un
negozio astratto che poteva essere utilizzato per le più diverse cause, se si volesse
raggiungere lo scopo di rendere taluno obbligato ad un certo impegno. Le forme concrete

2
più diffuse furono le cautiones o stipulationes pretoriae. L’uso di tale istituto non venne
mai meno nel diritto romano.

3.5 Altre forme negoziali


Nei negozi di cui si è parlato ora ricorreva solenne oralità. Alcuni negozi però
necessitavano di scriptura, ossia di forma scritta che era produttiva di effetti giuridici e
fonte di obbligazione. A volte, la scrittura rappresentava soltanto l’involucro con il quale
si dava atto della volontà che col negozio si manifestavano. Negozio non formale era la
traditio, un negozio bilaterale di età arcaica che comportava il trasferimento di proprietà.
Era anche idoneo al passaggio di proprietà. La traditio si compiva alla consegna, sia pure
informale o informalmente concordata, della cosa che si intendeva trasferire. Non bastava
il trasferimento, ma occorreva la consegna. Veri e propri negozi non formali furono i
contratti consensuali (compravendita, locazione, società e mandato) e i patti. La volontà
doveva essere espressamente manifesta, non importava come: oralmente o per iscritto,
direttamente o tramite intermediario o epistola, tra persone presenti o lontane,
espressamente o tacitamente.

3.6 Divergenze tra manifestazione e


volontà
Poteva accadere che taluno manifestasse una volontà che non aveva e che pertanto si
determinasse divergenza tra volontà e manifestazione, tra il voluto e il dichiarato. Al
riguardo, bisognava distinguere tra negozi solenni e altri negozi. Nei primi il compimento
delle formalità richieste era considerato necessario e sufficiente per la validità dell’atto, di
cui si compivano i suoi propri effetti. Al contrario, nei contratti consensuali e negli altri
negozi non formali e non solenni, la mancanza di volontà comportava la nullità e quindi
l’improduttività degli effetti giuridici. In età postclassica, la regola circa la volontà
assunse carattere generale e, pertanto, non valgono i principi di qui elencati:

 Dichiarazioni ioci causa e simili: nessun problema sussisteva per le dichiarazioni


fatte per scherzo (ioci causa) o in sede di rappresentazione teatrale o come
Le persone

esempio per l’ammaestramento (demostrandi causa) non potevano essere prese


sul serio, neppure se compiute nel totale rispetto delle modalità dei negozi formali.

 Riserva mentale: accade quando qualcuno consapevolmente e senza averlo


concordato con altri, fa dichiarazione di volontà. In questo caso, il negozio è
valido per due motivi: sia perché non è pensabile frustrare l’affidamento di
2

destinatari di una manifestazione di volontà apparentemente del tutto regolare, sia


perché non merita tutela colui che consapevolmente abbia provocato tale
affidamento.

 Simulazione: tale caso è più complesso e riguarda i negozi bilaterali, con


consapevolezza della divergenza. La consapevolezza di non volere ciò che si
dichiara di volere è comune alle parti del negozio, e l’intento è di non volere il
negozio dichiarato, che diviene negozio simulato tra le parti concordato, ma un
accordo simulatorio occulto. La simulazione è assoluta o relativa: » assoluta
quando le parti non vogliono completamente il negozio dichiarato e » relativa
quando invece esse vogliono concludere il negozio diversamente da quanto
dichiarato. I negozi solenni rimangono validi pure se simulati, mentre gli altri
negozi prevedono la nullità del negozio simulato, in quanto necessaria la volontà.
L’accordo simulatorio è in sostanza un patto. Quando ai patti il pretore decise di
dare valenza giuridica, una parte poteva opporre l’exceptio pacti conventi
all’azione dell’altra parte che avesse preteso adempimento al negozio simulato.
Era invalido iure pretorio in forza di exceptio. L’eventuale negozio dissimulato era
valido se sussistevano i requisiti di forma e sostanza. → es. se fosse stata simulata
tra i due coniugi una vendita mentre in effetti si intendeva una donazione, era
invalida la vendita in quanto negozio simulato, e invalida la donazione, in quanto
non permessa ai coniugi.

3.6.1 L’errore
La divergenza tra il dichiarato e il voluto poteva essere inconsapevole, in conseguenza di
errore, potendo taluno, per inconsapevole deviazione del vero, per errore appunto,
attribuire alla propria manifestazione di volontà un significato diverso da quello che
obbiettivamente ha. Nei negozi bilaterali l’errore può aversi anche per il fatto che una
parte attribuisce alla manifestazione di volontà dall’altra parte un valore diverso da quello
che obbiettivo, o comunque diverso da quello che costei vi ha dato. Si avrà allora il
dissenso. L’errore può derivare da una svista, da una cattiva conoscenza della lingua o da
ignoranza del comune modo di esprimersi e di comportarsi, da un fraintendimento. Sarà
allora errore ostativo, o errore nella dichiarazione, che si distingue dall’errore-vizio, che
Le persone giuridiche

di per sé non esclude la volontà. è l’errore che incide sul processo formativo di essa, per
cui taluno, convinto di circostanze non vere, e in dipendenza di ciò compie il negozio,
magari diversamente da come avrebbe voluto. La volontà esiste, ma è viziata. I Romani
non distinsero questi due tipi di errori, ma li trattarono unitariamente. Quando riguardava
le parti dei negozi formali solenni, l’errore era irrilevante e il negozio ugualmente valido.

2
Molti di quei negozi formali constavano, oltre che di parti fisse, di parti bianche che si
necessitava compilare. A tali parti variabili si riconobbe che l’errore potesse portare a
nullità. Non ogni errore comportava nullità: la regola dell’“errantis nulla voluntas” (“non
vi è volontà in chi sbaglia”) non aveva portata generale. Una delle direttive di massima
era l’errore di diritto (error o ingorantia iuris), che dipendeva dall’ignoranza o
fraintendimento di norme e istituti giuridici ed era irrilevante in quanto le parti avevano
l’onere di conoscere la materia trattata. Vi era poi l’errore su elementi di fatto (error o
ignorantia facti) che fu ritenuto rilevante con nullità del negozio se scusabile ed
essenziale. L’errore scusabile era quello non grossolano. Si distinsero poi:

 Error in negotio: sull’identità del negozio da compiere, essenziale e rilevante.

 Error in persona: rilevante nelle disposizioni mortis causa e rilevante nelle inter
vivos solo se la fiducia fosse stato elemento essenziale.

 Error in corpore: sempre rilevante, circa l’identità fisica dell’oggetto del negozio.

 Error in substantia o in materia: composizione materiale dell’oggetto in causa,


essenziale e rilevante.

 Error in qualitate: alla qualità solamente, non rilevante.

 Error in quantitate: riguardava la quantità e non sempre era rilevante.

L’errore può cadere sui motivi, sulle circostanze di fatto, cioè credute esigenti e per cui
taluno è indotto a compiere un negozio. Si tratta in ogni caso di errore-vizio. I moderni
parlarono di error in causa, i Romani di falsa causa e la regola era l’irrilevanza.

3.6.2 Il dolo
Tra i vizi della volontà si annoverano dolo e violenza. La parola dolo assume diverse
sfumature: dolo quale criterio di responsabilità esprime l’idea della volontà di un
comportamento e delle relative conseguenze per altri pregiudizievoli. Esso si contrappone
alla colpa e, fuori dal campo delle responsabilità, dolo assume il significato di
comportamento iniquo. Ciò che interessa è però il dolo negoziale, inteso come
macchinazione volta a trarre in inganno altra persona sì che questa compia un negozio per
lei pregiudizievole che diversamente non avrebbe voluto, e quindi non avrebbe compiuto,
Le persone

oppure avrebbe compiuto a condizioni diverse. Si tratta di una specie di errore, quando
l’errore non è imputabile all’autore del negozio, ma è indotto dall’altrui macchinazione.
L’errore inoltre non sempre era rilevante, il dolo fu sempre rilevante. Si distinse tra dolus
malus e dolus bonus: il dolus bonus comprende le usuali furberie tollerate dal costume
che si adoperavano nel trattare i propri affari ed era rilevante solo ai fini di escluderne la
2

rilevanza. Il dolus malus è invece la vera e propria macchinazione. Il punto di partenza


del dolo è la sua irrilevanza. Per il ius civile il negozio viziato da dolo era dapprima
valido ed efficace. Successivamente, subì un’importante deroga: nei negozi che davano
luogo a giudizi di buona fede, escludendosi dolo e buona fede a vicenda, ed essendo
chiamato il giudice a decidere secondo buona fede, se l’impegno assunto dal convenuto
era conseguenza del dolo dell’attore, il giudice avrebbe dovuto concludere che il
convenuto non era obbligato a nulla e dunque assolto. Se poi la vittima, inconsapevole del
dolo, avesse adempiuto al negozio prima ancora di essere chiamato in giudizio, essa
avrebbe potuto con azione di buona fede agire contro l’altro contraente e chiedere il
ristoro del pregiudizio subito. Attorno alla prima metà del I sec. a.C., il pretore introdusse
la clausola che prometteva l’exceptio doli mali, o exceptio doli. Essa, superflua a fronte
dei iudicia bonae fidei, veniva in causa quando i negozi davano origine ad azioni non di
buona fede, in quanto la vittima poteva essere chiamata in giudizio per l’adempimento.
Poteva quindi appellarsi all’exceptio e, accertato il dolo, poteva essere assolta e annullare
gli effetti iure praetorio. Il campo di applicazione di questa norma è molto ampio, in
quanto prevedeva anche che fosse iniquo che l’attore conseguisse quanto spettatogli per
iure civili. Si considerava non solo il dolo commesso dall’attore prima del giudizio, ma
anche quello che commetteva nel momento stesso in cui agiva: si parlò di dolo preterito,
passato, e di dolo presente (exceptio doli praeteriti ed exceptio doli praesentis o
generalis). Quello preterito era il raggiro perpetrato prima del giudizio, contestualmente
al compimento del negozio per cui si agiva e quindi dolo negoziale. Quello presente
veniva annoverato solo come comportamento iniquo al momento dell’azione e non era
inganno. Ma cosa fare quando la vittima era inconsapevole del dolo e avesse dato
esecuzione al negozio? Il pretore cercò di garantire il diritto di promuovere un giudizio
contro il violento: venne introdotto dal giurista Aquilio Gallo l’actio de dolo, un’azione
penale al simplum, che prevedeva la restituzione materiale pari al danno arrecato. Era
azione sussidiaria, applicabile solo in assenza di altra norma ed arbitraria per cui il
convenuto avrebbe evitato l’azione se prima del giudizio avesse restituito quanto dovuto
alla vittima. Era penale e anche nossale e poteva essere esercitata sull’autore del dolo e
non sugli eredi. Si trattava di azione pretoria, quindi applicabile soltanto nell’anno del
pretore da cui era stata emanata. Dapprima era il vero e proprio inganno pregiudizievole
per colui che l’avesse subito. Si ebbe poi un allargamento di tale concetto a tutti i
Le persone giuridiche

comportamenti iniqui al di fuori del dolo negoziale, purché non rientranti in alcun illecito.
Altra azione di cui si ha testimonianza scarsa è l’in integrum restitutio propter dolum.

3.6.3 Il metus
Altro vizio della volontà è il metus, ossia il timore generato dall’altrui violenza (vis). La

2
vis di cui si parla però non è violenza fisica, cioè vis absoluta o vis corpore illata, bensì la
minaccia di provocare un male se il minacciato non compia un certo negozio, cioè
violenza morale, vis compulsiva o vis animo illata, per la quale una parte si vedeva
costretta a compiere un negozio pregiudizievole, in cui il pregiudizio sarebbe stato minore
di quello che arrecava la minaccia. Doveva però essere una minaccia seria e grave, tale da
spaventare non un vanus homo ma un homo constantissimus. Il negozio compiuto per
metus era iure civili valido ed efficace, ma il convenuto, con azione ex fide bona, avrebbe
potuto chiedere l’assoluzione dal negozio o, in caso avesse adempiuto, il risarcimento.
Nel I sec. a.C. il pretore introdusse l’exceptio quod metus causa, o exceptio metus, per la
quale la persona vittima di minaccia avrebbe potuto chiedere l’assoluzione si trattava di
azioni di stretto diritto, di diritto reale o, comunque, non di buona fede. Poteva essere
volta anche ad una persona diversa dal colpevole di metus ed aveva perciò valore
assoluto: era exceptio in rem scripta. Pure pretoria era l’actio quod metus causa, che
avveniva dopo aver concluso il negozio ed aver ad esso adempiuto e prevedeva il
pagamento del quadruplo del valore del pregiudizio. Era azione arbitraria e di valore
assoluto, in rem scripta. Vi era poi l’in integrum restitutio propter metus che tendeva a
neutralizzare effetti che iure civili si erano già prodotti.

3.7 La causa
Chiunque compia un negozio è sicuramente spinto da motivi propri, personali che sono
motivi soggettivi: di solito l’ordinamento giuridico non li prende in considerazione e, veri
o falsi che siano, sono irrilevanti dal punto di vista del diritto. Ogni negozio comunque è
dal suo autore compiuto per una causa, ossia la ragion d’essere oggettiva del negozio, la
più immediata, quella che si vuole produrre con gli effetti di quella contrattazione: in
definitiva, è elemento oggettivo alla base del negozio giuridico. La causa negoziale sarà
in ogni caso lo scambio di cosa contro prezzo nella compravendita oppure un prestito di
consumo nel mutuo. Nel caso di negozi bilaterali, la causa è comune alle parti. La causa
era elemento strutturale, costitutivo ed essenziale del negozio causale. In essi il difetto di
causa, ossia la sua mancanza, determinava la nullità del negozio: quel negozio non veniva
giuridicamente ad esistenza. Ai negozi causali si contrapponevano quelli astratti, dove la
causa era assente ma comunque negozio lecito, che poteva essere utilizzato per cause
Le persone

diverse, esterne dal negozio stesso. Tra questi i più erano i negozi formale dello ius civile,
come la mancipatio, la stipulatio o la traditio, che restavano comunque iure civili validi
ed efficaci pur senza causa. Da età preclassica, si poteva ricorrere però alla conditio e alla
exceptio, la prima che prevedeva la restituzione o ripetizione di quanto già prestato, la
seconda la neutralizzazione degli effetti prodotti dal negozio astratto.
2

3.8 La conditio
La conditio fu la versione formulare della legis actio per conditionem: si perseguivano
crediti per cui l’attore poteva sussistere a carico dell’altra parte un obbligo di dare
espresso col verbo oportere. Un dare che poteva avere per oggetto una certa pecunia o
una certa res. Si parla di actio certae pecuniae e actio certae rei. Era un’azione civile in
personam e di stretto diritto. L’attore non indicava la fonte del credito affermato, che si
ritrovava nella condictio. Mancava la demonstratio, e questa mancanza fece sì che la
condictio fosse applicata a una pluralità di fattispecie eterogenee. Se ne specificò il campo
di applicazione: la condictio presuppone una datio, come trasferimento di proprietà.
Pertanto, si presupponeva che l’attore avesse traferito in precedenza una proprietà di una
res e doveva sussistere al contempo una ragione valida per cui il convenuto non avesse
potuto trattenere la proprietà e avesse dovuto restituirla, o la stessa cosa o un’equivalente.
Ebbe carattere eccezionale la condictio ex causa furtiva che non presupponeva una
tecnica datio e di fronte alla quale il convenuto non sarebbe stato tenuto a una datio in
senso tecnico. Si distinsero applicazioni contrattuali ed extracontrattuali: nelle prime la
datio era compiuta con l’intesa che sarebbe stata restituita, mentre nelle seconde si
parlava di dationes per causa inesistente o venuta a mancare. Si contemplò anche il caso
di cause future poi venute a mancare, come la dote data prima del matrimonio se questo
non fosse più avvenuto o le donazioni mortis causa se il donante fosse sopravvissuto o
ancora il compenso per una mancata prestazione. Chi aveva ricevuto sarebbe stato tenuto
alla restituzione in forza di conditio. Alla causa mancante venne integrata la causa illecita
o turpe.

3.9 Gli elementi accidentali del negozio


giuridico
Il fatto che i negozi fossero tipici non era di ostacolo all’aggiunta di ulteriori clausole che
andassero a modificare gli effetti giuridici del negozio o ad integrarli, compatibilmente
Le persone giuridiche

con la sua natura. Si parla di elementi accidentali del negozio giuridico, espressamente
inclusi dalle parti: condizione, termine e modus (ad onere).

3.9.1 La condizione
Per condizione si intende sia l’evento futuro e oggettivamente incerto dal quale si fanno

2
dipendere gli effetti del negozio sia la clausola, aggiunta dopo, che contempla l’evento. Si
distinguono in sospensive e risolutive: le prime sospendono gli effetti del negozio, fino a
quando e se l’evento si verificherà, mentre le seconde risolvono gli effetti, che cesseranno
di valere sempre se e quando l’evento si verificherà. I Romani parlarono di conditionalis
riferendosi ai negozi soggetti a condizioni, e di puri riferendosi a negozi privi di
condizioni. Non tutti i negozi giuridici ammettevano la condizione: non poteva essere
presente negli actus legittimi, pena l’invalidità dell’atto. Erano actus legitimi la
mancipatio, la in iure cessio, l’acceptilatio, la manumissio vindicta. Infatti, erano atti che
comprendevano la pronuncia di certa verba, logicamente incompatibili con le condizioni
sospensive, in quanto avrebbe significato contraddizione della stessa affermazione. Gli
effetti di taluni atti erano poi di per sé subordinati al verificarsi di certi eventi: specificare
la condizione sarebbe stato superfluo. Neppure erano condizioni in sé le conditiones in
praesens vel in praeteritum conlatae, che facevano dipendere gli effetti del negozio da
eventi attuali o passati, dunque non futuri né incerti. Sarebbe stato efficace dunque il
negozio con condizione verificabile subito, mentre inefficace se non era verificabile.

Si distinguono in quest’ambito diversi tipi di condizione:

→ Condizioni impossibili: l’evento dedotto in condizione materialmente o


giuridicamente impossibile causava l’invalidità del negozio negli atti inter vivos.
In quelli mortis causa, la scuola sabiniana sostenne che la condizione doveva
essere considerata come non apposta.

→ Condizioni illecite: nell’ambito dei negozi inter vivos bisogna distinguere tra
negozi che davano luogo a giudizi di buona fede e stipulatio. Nel primo caso
l’aggiunta di condizione illecita dava origine a nullità e così anche nella stipulatio,
dapprima invalidità iure pretorio e poi nullità ipso iure. Analoga evoluzione per i
negozi mortis causa. Sappiamo di un intervento pretorio volto a far sì che della
condizione illecita non si tenesse conto. Con Augusto fu direttamente ritenuta
come non apposta perché giudicata illecita la condizione che subordinava
l’acquisto al fatto che il destinatario della disposizione testamentaria non
contraesse matrimonio. Fu esteso poi ad ogni altro caso di condizione illecita
aggiunta ad una disposizione testamentaria.
Le persone

→ Condizioni positive e negative: le prime subordinano gli effetti al verificarsi


dell’evento, le seconde al non verificarsi di questo.

→ Condizioni potestative, casuali e miste: per condizioni potestative si intende


quelle il cui avveramento dipende dalla volontà della persona interessata, casuali
volontà del caso o di terzi e miste volontà della persona e del caso o terzo. Il
2

negozio con condizione potestativa è nullo quando questo dipendeva dalla volontà
della parte che vi aveva interesse, in quanto si riteneva che il negozio non fosse
realmente voluto.

→ Condizioni potestative negative: l’avveramento poteva essere rimesso alla


circostanza che la persona che dal negozio trarrebbe vantaggio non adotti in futuro
un determinato comportamento. Se la condizione aveva un termine, nessun
problema. Il problema sorgeva quando non si aveva un termine e bisognava
attendere la morte dell’interessato per l’attuazione degli effetti giuridici. Riguardo
la materia dei legati si parla di cautio Muciana: si dava esecuzione al legato previa
prestazione del legatario di una stipulatio, con cui prometteva all’erede che gli
avrebbe restituito quanto ottenuto a titolo di legato se la condizione fosse mancata.
Fu estesa anche a disposizioni testamentarie.

→ Condicio pendet, deficit, exstitit: pendet quando non si è verificata la condizione


ed è incerto che si verifichi. Il negozio, in sé valido, non produceva effetti e non si
sapeva se li avrebbe prodotti. Il debitore avrebbe potuto chiedere la restituzione.
Deficit quando la condizione veniva a mancare. Il negozio risultava senza effetti.
Exstitit quando la condizione è verificata e produce i suoi effetti. Saranno anche
retroattivi in età successiva. Poteva accadere che la parte che aveva interessi
contrari al negozio, impedisse deliberatamente l’avverarsi della condizione: la
condizione si considerava verificata però e si parlava di adempimento fittizio della
condizione.

→ Condizioni risolutive: erano rare ed eccezionali, ammesse solo in costituzione di


usufrutto con deductio o legato per vindicationem e pochi altri casi. La regola era
di non ammettere condizioni risolutive, in quanto era inaccettabile che gli effetti
cessassero per il manifestarsi di eventi decisi dalle parti. In materia di
trasferimento della proprietà, si ammise che poteva essere trasmessa e acquistata
per effetto di atti appositi o per successione ereditaria, per forza di usucapione o di
alcuno dei modi di acquisto originari. Non si concepì trasferimento di proprietà
temporaneo. Inaccettabile era tale condizione nei negozi quali l’istituzione di un
erede o liberazione dei servi e al pari era nell’adrogatio: non era ammesso che
cessasse lo status familias attuale e si ricostituisse il precedente. In caso di
Le persone giuridiche

stipulatio, la condizione era ritenuta non apposta e il negozio valido. Il pretore


concedeva però l’exceptio pacti conventi contro l’azione dello stipulante esercitata
dopo l’avveramento della condizione, con la conseguenza di dare ad essa efficacia
iure praetorio. Si trattava di un patto risolutivo, con condizione sospensiva,
applicato poi pure ad altri negozi.

2
3.9.2 Il termine
Anche il termine viene considerato elemento accidentale del negozio, dunque una
clausola che le parti nei concreti casi di specie, potevano volere o non. Riguardava eventi
futuri, ma certi. Era dunque una clausola che prevedeva un avvenimento futuro certo dal
quale si facevano dipendere gli effetti del negozio. Nelle fonti romane viene indicato con
il termine dies, trattandosi o di una data del calendario o di un evento basato sul ‘se’, che
poteva dunque verificarsi in maniera imprevedibile (morte). Il termine poteva essere
iniziale o finale: nel primo il termine impediva di produrre effetti fin quando non si
sarebbe verificato l’evento indicato, mentre nel secondo si producevano immediatamente
gli effetti, che cessavano al momento della scadenza indicata dal termine. Alcuni negozi
non ammettevano il termine, causa la nullità dell’atto o la non apposizione di questo e la
validità del negozio. La traditio e la stipulatio non tolleravano termini finali, che
venivano considerati come non apposti. Tuttavia, il pretore concesse l’exceptio pacti
conventi (o doli) contro lo stipulante che avesse agito dopo la scadenza del termine. Se
invece, nella certezza che l’evento si sarebbe verificato, il debitore avesse adempiuto
prima della scadenza non avrebbe potuto pretendere la restituzione di quanto prestato.
Scaduto il termine iniziale, il negozio cominciava a produrre i suoi effetti
automaticamente con decorrenza nel momento della scadenza. Con il termine finale, gli
effetti cessavano alla scadenza, con decorrenza della scadenza stessa e ipso iure.

3.9.3 Il modus
Elemento accidentale è anche il modus, od onere. Consiste nell’imposizione al
destinatario di un atto di liberalità di adottare un comportamento determinato. Essendo
comportamento volontario, il modus è spesso accostato alla condizione potestativa, ma
differisce da questa in quanto il negozio modale è immediatamente efficace, a prescindere
dall’adempimento al modus. Solo che il beneficiario sarà costretto ad attenersi a questo.
Si suole dire che la condizione subordina ma non ordina, mentre il modus ordina ma non
subordina. Si parla di modus nelle fonti romane quando ci si riferisce a legati,
fedecommessi, istituzione di erede e donazione. Il più antico giurista a parlare di modus
fu Trebazio, di età repubblicana, il quale suggerì che prima di dare esecuzione ad un
legato modale su facesse obbligo al legatario di prestare una stipulatio o cautio con cui
Le persone

promettere all’erede l’adempimento al modus. Senza aver prima prestato la cautio,


l’erede avrebbe potuto impugnare l’exceptio doli generalis, indiscussa e poi estesa ai
fedecommessi per impulso di Settimio Severo. Il modus poteva anche comportare
prestazioni a favore di terzi talché l’erede avrebbe potuto non avere interessi ad attuare
l’actio. Quanto al modus per istituzione dell’erede, se erano più eredi, ciascuno di loro
2

avrebbe potuto pretendere l’adempimento al modus al momento della divisione


dell’eredità. Non era escluso l’intervento straordinario dell’autorità pubblica per
costringere l’onerato al rispetto della volontà del testatore. Si parla poi di donazione
modale, una donazione reale (in dando) per cui il donante traferiva al donatario la
proprietà del bene che donava. Il trasferimento si compiva con negozi astratti quali la
mancipatio, la in iure cessio, la traditio. In seguito all’atto traslativo della proprietà, si
creava un modus a carico del donatario, tale da apparire anch’esso quale causa dello
stesso atto di trasferimento. Sostanzialmente, si dava origine ad una datio per una causa,
che, se fosse venuta a mancare, avrebbe legittimato il donante all’esercizio della
condictio per la restituzione del donato. Nell’ambito contrattuale al donante si diede
l’actio praescriptis verbis per l’adempimento del modus. Ad avere interesse
all’adempimento poteva essere un terzo, che inizialmente non poteva agire direttamente
contro il donatario, ma con le costituzioni imperiali si diede a questo la possibilità di
beneficiare del modus, contro il donatario, un’actio utilis per l’adempimento.

3.10 Imputazione degli effetti negoziali


Se si prescindeva da effetti riflessi, ossia imputabili a terzi, gli effetti principali del
negozio giuridico venivano solitamente imputati in via diretta ed esclusiva alle parti del
negozio. Non costituisce eccezione alla regola il caso del nuntius (messaggero), che è un
semplice portavoce che riferisce puntualmente quanto è stato invitato a riferire: è quindi
mero strumento materiale, alla stregua di una lettera. Non può essere detto autore del
negozio perché non dichiara una volontà propria, ma di colui che del nuntius si avvale,
che non è terzo, ma parte attiva in quanto autore. Pertanto, gli effetti si applicavano
sull’autore e non sul nuntius. I negozi formali e solenni non potevano avvalersi del
nuntius, in quanto necessitavano la presenza delle parti, a differenza dei contratti
consensuali e dei patti. Altro caso è quello delle persone fisiche che agiscono, e pertanto
concludono negozi quali organi di quelle collettività alle quali viene riconosciuta
soggettività giuridica. Essi vengono chiamati a Roma actores, rappresentanti legali, che
esprimono una volontà propria e gli effetti dell’atto si producono direttamente ed
esclusivamente in capo all’ente. Non agiscono quali soggetti autonomi, ma fanno parte
della relativa organizzazione e sono soggette alle regole di essa. La dottrina moderna
Le persone giuridiche

chiama ciò rappresentanza organica. Si parla di ciò anche in caso di negozi di acquisto
conclusi da soggetti alieni iuris sia in nome proprio sia in nome dell’avente potestà. Gli
atti sono validi d efficaci solo che ad acquistare è l’avente potestà, il pater familias,
poiché i soggetti alieni iuris erano considerati parte dell’organizzazione della famiglia.
Poteva accadere che gli effetti principali del negozio si imputassero direttamente agli

2
autori del negozio e a terzi nel caso della responsabilità adiettizia per cui, se in
determinate circostanze ad assumere obbligazione atto lecito fosse stata una persona
soggetta a potestà, ne sarebbe stato vincolato anche l’avente potestà.

3.10.1 La rappresentanza

Accadeva che effetti negoziali si imputassero, anziché al dichiarante, direttamente ed


esclusivamente ad un terzo, secondo lo schema della rappresentanza: è un concetto non
romano, per cui un soggetto autonomo, giuridicamente capace, detto rappresentante,
conclude un negozio e pertanto esprime la sua volontà in nome e per conto di un altro
soggetto, detto rappresentato, con effetti in via immediata diretta ed esclusiva non in capo
a se stesso ma al rappresentato. Essa è volontaria e legale: volontaria quando la
rappresentanza è conferita dal rappresentato al rap0presentante, legale in altri casi. Non
rientravano quindi il nuntius in quanto questo non esprimeva propria volontà, la
rappresentanza organica perché non concludeva il negozio un soggetto autonomo e la
responsabilità adiettizia perché gli effetti si imputano sia al dichiarante che al terzo. I
romani furono dapprima contrari poiché gli antichi negozi del ius civile non potevano non
esigere la presenza delle parti, sia perché molti atti erano compiuti da servi e figli in capo
al padre.

Si poteva anche concludere un negozio per conto dei terzi ma in nome proprio, con effetti
pertanto imputabili al dichiarante, salvo poi che questo dovesse effettuare il trasferimento
della proprietà al terzo, che ne assumeva però gli obblighi contratti dal dichiarante. Si
parlò di rappresentanza indiretta. I Romani furono dapprima contrari. L’ammisero in
pochi casi, del curator furiosi e del possesso nel trasferimento della proprietà. Fu
riconosciuta sin da età arcaica al curator furiosi e prodigi, al tutor impuberis, al
procurator omnium bonorum, una figura amministrativa nota da età preclassica in quanto
ingaggiata dal pater per l’amministrazione del patrimonio e che sceglieva dapprima tra i
suoi liberti, poi tra i fidati. Nell’età classica si riconobbe al procurator nominato di volta
in volta e successivamente ad ogni persona libera.
Le persone

3.10.2 Patti e contratti in favore di terzi

Erano vietati, pena la nullità, patti e contratti in favore di terzi: le parti non potevano cioè
convenire che dal negozio obbligatorio che andavano a compiere nascessero crediti in
favore di terzi al negozio estranei. Fu ribadito dai giuristi di età repubblicana con riguardo
2

alla stipulatio. La regola aveva una doppia valenza: da una stipulatio non nasceva azione
né a favore dello stipulante né a favore del terzo perché il primo non aveva interesse che
il promittente adempisse a un terzo, il secondo non aveva partecipato alla stipulatio.
Negando che il terzo potesse agire direttamente contro il promittente, al contempo si
negava, in sostanza, che un negozio obbligatorio potesse avere direttamente effetti in capo
a un terzo. A questi furono concesse actiones utiles e in factum in materia di donazioni,
deposito, dote e pegno.

3.10.3 Cognitor, procurator ad litem e altri sostituti processuali

L’una o l’altra parte poteva farsi sostituire fin dall’inizio della lite dalla figura del
cognitor, un sostituto processuale nominato direttamente dalla persona che desiderava
farsi sostituire nel processo, il dominus litis, con pronunzia orale e solenne di fronte
all’avversario. Il cognitor agiva in nomine alieno con l’adozione di una formula di
trasposizione dei soggetti per cui nell’intentio appariva il nome del dominus litis. Il nome
del cognitor compariva solo nella condemnatio sicché la eventuale condanna pronunziata
dal giudice sarebbe stata o a favore del cognitor o contro di lui. Gli effetti preclusivi si
applicavano con effetti conservativi nei confronti del dominus litis. Una sentenza di
condanna era seguita dall’actio iudicati a favore o contro il dominus. Diversa era la
situazione del procurator ad litem, la cui nomina era informale e non davanti
all’avversario. Si aveva trasposizione di soggetti ma la sentenza non avrebbe avuto effetti
sul dominus. L’avversario avrebbe preteso che il procurator prestasse la cautio ratam rem
dominum habiturum, promettendo che il dominus avrebbe ratificato l’iniziativa del
procurator. L’avversario avrebbe preteso dal procurator la cautio iudicatum solvi,
promettendo che la eventuale condanna sarebbe stata comunque adempiuta. In età
classica, il cognitor scomparve, equiparato al procurator. Regime analogo fu applicato
anche ai tutori, quando comparivano in giudizio al posto dei loro amministrati.
Le persone giuridiche

2
4. Le persone
4.1 Capacità giuridica e capacità di agire
Il centro della dottrina giuridica moderna è il diritto delle persone, che comprende
capacità giuridica (o capacità di diritto) e capacità d’agire: con la prima si intende
l’idoneità di essere titolari di diritti ed obblighi o di situazioni giuridiche soggettive,
mentre con la seconda l’idoneità ad operare direttamente nel mondo del diritto. Si tratta di
categorie non romane, ma al loro mondo associabili. Oggi, giuridicamente capaci sono
tutti gli esseri umani, ossia le persone fisiche, ed alcune organizzazioni di persone o enti,
le persone giuridiche. A Roma, tuttavia, non era così. Con il termine persona si
indicavano solamente le nostre persone fisiche, le quali non tutte disponevano di capacità
giuridica: era propria, ma non necessariamente, delle persone libere mentre era sempre
preclusa agli schiavi. Anche alcune organizzazioni vennero riconosciute, ma non
ampiamente trattate. Oggi, la capacità d’agire presuppone la capacità giuridica, che
riguarda tutte le persone capaci intellettualmente: esclusi sono i minorenni e gli infermi.
Anche a Roma era così, ma la capacità d’agire non presupponeva quella giuridica: un
pater familias le aveva entrambe, mentre un filius familias godeva della capacità d’agire
ma non di quella giuridica. Le sue azioni ricadevano sul padre e, nel caso dei servi, sul
dominus. Presupposto di ogni capacità era comunque l’esistenza.

4.2 La dottrina dei tre status


Per comprendere meglio gli aventi capacità giuridica, si fa riferimento alla teoria dei tre
status, ossia la posizione giuridica del soggetto: status libertatis, status civilis e status
familiae. Il primo era quello che riguardava gli uomini liberi, il secondo la comunità
romana e il terzo la famiglia. Ad avere capacità giuridica era l’uomo libero, cittadino
romano e pater familias, o comunque non soggetto ad altrui potestà. Questi erano detti
Le persone

sui iuris, mentre coloro che non avevano capacità giuridica alieni iuris (personae alieno
iuri subiectae), ossia sottostanti una potestà.

4.3 Status libertatis


2

Il possesso di questo stato era il presupposto fondamentale per avere capacità giuridica: lo
avevano i liberi e non lo avevano gli schiavi. Liberi si nasceva da madre libera (ingenui),
mentre si diventava nel caso della liberazione da schiavitù (liberti).

Ingenui (nati liberi)


Liberi
Liberti (diventati
Personae liberi)
Schiavi
IUS

Res

Actiones

4.3.1 I servi
La schiavitù è un antico istituto romano già contemplato nelle XII Tavole. Tuttavia la sua
diffusione su larga scala avvenne in seguito alle azioni militari di espansione: molti
prigionieri di guerra erano infatti destinati a diventare schiavi. Le due fonti di schiavitù
principali erano i prigionieri di guerra (captivi) e i nati schiavi da madre schiava.

La prigionia di guerra era contemplata tanto per gli altri popoli quanto per i Romani. Mal
sopportando tale norma, essi diedero vita allo ius postliminii, che permetteva ad un
romano divenuto schiavo, di tornare libero una volta riuscito a tornare in patria.

Altra fonte di schiavitù poteva essere la vendita del neonato libero, che diveniva schiavo
del compratore. Si dava però ai genitori possibilità di riscatto. Giustiniano limitò la
possibilità di vendere i propri figli ai soli casi di estrema indigenza.

Sebbene i servi fossero annoverati nella categoria delle persone, essi venivano considerati
quali oggetti di proprietà, res mancipii, senza alcun diritto soggettivo o capacità giuridica.
Le unioni tra due servi non erano disciplinate giuridicamente, in quanto non considerati
matrimonii ma contubernium. Era quindi facoltà del dominus quella di separare le
Le persone giuridiche

famiglie servili. Essi erano alieni iuris, in quanto soggetti alla potestà del padrone che
esercitava su di loro anche ius vitae ac necis, ossia diritto di vita e di morte. Con
Giustiniano, venne riconosciuto alla famiglia servile una sorta di rilievo giuridico.

I servi tuttavia godevano di limitata capacità d’agire: potevano fungere da organo di


negozio a nome però del dominus, del quale potevano migliorare ma non peggiorare la

2
condizione.

Responsabilità nossale → Ovviamente gli effetti e le obbligazioni dei negozi


ricadevano sul dominus. Nel caso in cui un servo si macchiava di delicta, la vittima
poteva vendicarsi direttamente, impossessandosene o impartendo una pena corporale,
salvo l’intervento pecuniario del padrone. questa disciplina divenne poi branca del
processo privato, dando luogo al regime delle azioni nossali.

Il peculio

Tutti gli atti, se compiuti da servi, avrebbero dovuto essere inefficaci dal punto di vista
giuridico del diritto: il servo non disponeva di nulla e non poteva assumere obbligazioni,
in quanto non giuridicamente capace. Tuttavia, prassi comune era quella di concedere al
servo (e ai filii familias) un peculio: dapprima un gruzzoletto di denaro, fino a servi e ad
immobili. Il proprietario del peculio rimaneva però il dominus, che poteva revocarlo in
qualunque momento (ademptio peculii). Il servo poteva quindi amministrare il peculio ed
entrare in affari con terzi, adempiendo agli obblighi assunti con atto lecito ed il dominus
non poteva assolutamente richiedere al terzo quanto dovuto dal servo. Le obbligazioni
che assumevano i servi erano però obligationes naturales, che non potevano dar luogo ad
azioni processuali verso i servi. Il terzo, pur non potendo pretendere l’adempimento delle
obbligazioni né dal servo né dal dominus, poteva trattenere quanto ricevuto in
adempimento (soluti retentio).

Le azioni adiettizie

Con la crescita dell’economia, gli schiavi divennero figure centrali nella gestione degli
affari del dominus: bisognava però che i terzi potessero ben credere che i servi avrebbero
certamente adempiuto alle loro obbligazioni. Pertanto, necessitavano di strumenti
giuridici che garantissero loro l’adempimento. A partire dal II sec. a.C., il pretore attribuì
ai terzi – i “creditori naturali” – il diritto di eseguire alcune actiones verso il dominus, le
cosiddette actiones adiecticiae qualitatis, ossia le azioni adiettizie. Tra queste vi sono:
actio quod iussu, actio exercitoria, actio insitoria, actio de peculio et de in rem verso e
l’actio tributoria. Nell’intentio si indicava quale debitore il servo, mentre la condemnatio
riguardava il dominus.
Le persone

→ Actio quod iussu, presupponeva che il servo avesse assunto impegni nei confronti
dei terzi dietro autorizzazione (iussum) del dominus, da quest’ultimo rivolta al
terzo e assumendosene tutti i rischi.

→ Actio excercitoria, presupponeva che il proprietario del servo fosse un exercitor


navis. Costui poteva affidare la gestione della nave a un proprio schiavo
2

preponendolo magister navis. Si dava ai credito l’actio exercitoria per i debiti


contratti dal servo nell’ambito dell’incarico.

→ Actio institoria, concessa ai creditori del servo, per i debiti contratti


nell’espletamento dei compiti a lui affidati, in qualità di institor di un’attività
economica per conto del dominus.

→ Actio de peculio et de in rem versa, aveva due taxationes nella formula. Una era
de peculio, presupponeva che il servo avesse un peculio e la responsabilità del
dominus per i debiti contratti dal servo non andava oltre il valore del peculio.
L’altra era de in rem verso e presupponeva un arricchimento del dominus, il quale,
mancando o risultando insufficiente il peculio, rispondeva dei debiti del servo nei
limiti di quanto si fosse avvantaggiato in dipendenza dell’obbligazione naturale
assunta dal servo.
Si doveva procedere in ogni caso con la stima del peculio, che si calcolava al netto
dei debiti (naturali) che il servo avesse verso il proprio padrone.

→ Actio tributoria, presupponeva anch’essa la concessione di un peculio e che il


servo avesse compiuto negozi e assunto obbligazioni in ordine a beni peculiari
affidatigli dal dominus. Se i terzi creditori avevano fondate ragioni di temere un
dissesto finanziario del servo poteva chiedere al pretore l’actio tributoria, con la
quale il dominus doveva procedere alla ripartizione dell’importo delle merci
peculiari tra i creditori attribuendo agli stessi una quota proporzionale al credito di
ciascuno e partecipando anch’egli alla ripartizione proporzionale sullo stesso
piano dei creditori. A differenza di quando si agiva con l'actio de peculio et de in
rem verso, nella quale l'importo del peculio da dividere tra i creditori era calcolato
al netto dei debiti contratti dal sottoposto con l'avente potestà, si realizzava
una par condicio creditorum con il dominus.

Le liti di libertà

Lo status libertatis poteva essere oggetto di contestazione: si istituiva dunque un processo


di libertà (causa libertatis), che poteva essere nei confronti di un libero che viveva da
servo o viceversa. Il rito adottato fu dapprima la legis actio sacramenti in rem e decisione
Le persone giuridiche

affidata ai decemviri. Nel processo formulare la formula era ricalcata su quella della rei
vindicatio e a decidere erano i recuperatores.

Rilevante è il fatto che la persona il cui status era in discussione non era soggetto della
lite, ma oggetto: essa infatti era rappresentata da un testimone, che recitava la parte o ne
era interessato direttamente, l’adsertor in libertatem. Questo perché, da un lato il servo

2
non aveva capacità giuridica e dall’altro perché la sentenza era ignota fino alla fine,
quindi non si sapeva se il libero lo fosse realmente. Tale figura fu abolita da Giustiniano,
talché lo schiavo poté partecipare in prima persona al processo.

Cessazione dello stato di schiavitù

Lo stato di schiavitù poteva cessare con l’atto di affrancazione della manumissio,


compiuta solo dal dominus. Essa era di tre tipi: manumissio vindicta, manumissio censu
(atti inter vivos) e la manumissio testamento, che avveniva mortis causa. Lo schiavo
affrancato acquistava la libertà e lo status di cittadino romano.

→ Manumissio vindicta: era un istituto particolarmente solenne, dotato di ferree


regole. Si svolgeva alla presenza di un magistrato, in iure, e a quella del dominus e
del servo. In origine si trattava di una finta vindicatio in libertatem: un adsertor in
libertatem dichiarava che il servo fosse uomo libero. Il dominus non si opponeva e
il magistrato dichiarava il servo libero. Più avanti questo si trasformò in una
semplice dichiarazione volontaria del dominus al magistrato.

→ Manumissio censu: essa era la meno diffusa e poteva avvenire durante il


censimento, ogni cinque anni. Il censore iscriveva il servo nella lista dei liberi
cittadini, dietro richiesta del dominus. Successivamente, quando il censo venne
abolito nel Principato, tale pratica iniziò a riguardare altri istituti pubblici e cadde
in disuso in età postclassica.

→ Manumissio testamento: era la più diffusa e si trattava di una manomissione che


avveniva dopo la morte del dominus. Nel testamento, egli deliberava con toni
imperativi la volontà di liberare uno schiavo, che nell’attesa si chiamava
statusliber.

Dall’ultima età repubblicana, si usò affrancare i servi attraverso altre forme di


manumissio non riconosciute dallo ius civile: la manumissio inter amicos, pronunciata dal
dominus alla presenza di una cerchia determinata di amici e la manumissio per epistulam,
con semplice lettera. Dapprima il servo non veniva considerato subito libero, ma doveva
passare per vindicatio in libertatem. Con la lex Iunia Norbana essi vennero paragonati a
Latini coloniarii, ossia liberi ma non cittadini romani (Latini Iuniani). Giustiniano li
Le persone

equiparò a manomessi nelle forme civili. A queste si aggiunse la manumissio


fideicommissaria: una manomissione indiretta che prevedeva che fosse eseguita
dall’erede delegato dal dominus nel testamento. In caso di rifiuto, poi, si sarebbe
proceduto extra ordinem, ossia da parte dell’ordine giudiziario stabilito, che poteva
direttamente dichiarare lo schiavo libero, il quale agiva giuridicamente contro l’erede in
2

prima persona. Altre forme di manomissione furono la manumissio per sacrosanctis


ecclesiis, ossia la volontà del dominus espressa di fronte al raduno di fedeli cristiani
presenziato dal vescovo. Vi era poi la manumissio per mensam, alla presenza di un
banchetto. Altro tipo era lo ius postliminii, che rendeva il romano divenuto schiavo
nuovamente libero, al momento del ritorno in patria. Ultima manumissio era la vendita di
una schiava che diveniva libera, a patto che questa non si sarebbe prostituita.

Tuttavia, con Augusto, il fenomeno della manomissione diveniva ampiamente diffuso, a


tal punto da far pensare che si potesse andare ad intaccare in qualche modo la purezza dei
cittadini nati liberi romani. La situazione fu risolta con due lex: la lex Fufia Caninia e la
lex Aelia Sentia: quest’ultima prevedeva che non potessero essere affrancati schiavi dalla
condotta turpe o in frode ai creditori. Prevedeva inoltre speciali garanzie per le
manomissioni fatte da domini minori di vent’anni o verso schiavi sotto i trenta. Esse
vennero abolite da Giustiniano, eccetto la manomissione in frode ai creditori della legge
Elia Senzia.

4.3.2 I liberti
Gli schiavi liberati acquistavano la libertà e la cittadinanza romana. Divenivano sui iuris,
quindi giuridicamente capaci, tuttavia non godevano della stessa considerazione dei liberi,
né sul piano privato, né su quello pubblico: sul piano privato, essi erano considerati come
“liberti”, mentre i nati per nascita come “ingenui”, mentre sul piano pubblico erano
esclusi da determinate attività lavorative e da cariche pubbliche. In seguito alla
manomissione, il dominus diveniva patrono e poteva esercitare sul liberto lo ius
patronatus, il diritto di patronato, che gli permetteva di esigere dallo schiavo una serie di
operae domestiche e artigianali. Lo schiavo faceva al dominus un giuramento di
adempimento alle operae richieste e, in seguito alla manomissione, tale giuramento
doveva essere ripetuto o tramite promessa o tramite stipulatio. Il patrono godeva inoltre
del diritto di successione sui beni del servo oltre che anche il diritto di tutela sui membri
puberi o impuberi della sua famiglia. Entrambi potevano vicendevolmente pretendere
comunque in caso di indigenza il pagamento di alimenti.
Le persone giuridiche

4.3.3 Le personae in causa mancipii


Si trattava di una condizione ibrida, che vedeva queste persone libere e cittadine, ma
sottostanti alla potestà (mancipium) di un terzo soggetto. Essi erano principalmente filii
familias emancipati che, per effetto della mancipatio, erano caduti sotto mancipium. Si

2
trattava di una situazione derivante dalla vendita del figlio, entrata in disuso in età
postclassica. Si continuò ad adoperare la pratica ai fini dell’adoptio e dell’emancipatio. In
questi due casi, lo status di personae in causa mancipii aveva breve durata, il tempo di
passaggio da una famiglia all’altra o per l’acquisizione dello status di sui iuris. Queste
persone, libere e cittadine, a differenza degli schiavi, potevano contrarre matrimonio ed
avere figli legittimi ma, come gli schiavi, non avevano capacità giuridica e non godevano
di diritti soggettivi, essendo alieni iuris, soggetti a potestà (mancipium). Alla morte della
persona che esercitava il mancipium, questo passava per mortis causa al suo erede.
Questo soggetto poteva essere liberato tramite manumissio. Il manumissor diveniva
patrono.

4.3.4 Altre situazioni di dipendenza personale


Esse erano le posizioni di addicti, ducti e nexi, le quali non comportavano la perdita della
capacità giuridica. Grande rilevanza ebbe invece, durante l’epoca del Basso Impero, il
colonato: i coloni erano persone libere di umile condizione, piccoli affittuari di terre o
liberi lavoratori giornalieri dei campi che dietro compenso si obbligavano a lavoro
subordinato. Queste due situazioni finirono per essere assimilate durante l’età
postclassica, quando la crisi costrinse l’impero a limitarne le condizioni: essi furono
vincolati alla terra che coltivavano e non potevano esserne distaccati neppure dal
proprietario, venivano alienati insieme al fondo. Subirono inoltre gravi limitazioni della
capacità giuridica e d’agire: i loro beni vennero considerati quasi come un peculio servile,
la libertà matrimoniale venne limitata, disapprovato il matrimonio tra sposi di diverso
ceto sociale e si ammise che su questi il proprietario terriero poteva esercitare atti di
coercizione fisica, come il colono fosse sua proprietà.

4.4 Status civitatis


Lo ius civile faceva riferimento ai cittadini romani, ma con il tempo finì per assumere
significato più ampio, mantenne comunque quello che lo identificava col ius proprio dei
cives romani, contrapponendosi allo ius gentium. Il possesso dello status libertatis dava
diritto a capacità di diritto privato. Cittadini romani si poteva nascere o diventare. In caso
di nascita, era cittadino romano il nato da padre romano all’interno di un matrimonio
Le persone

legittimo (iustae nuptiae) e il nato da madre romana all’interno di nozze non legittime. Si
poteva divenire cittadini romani in più casi:

 Gli schiavi affrancati.

 Gli alleati italici per effetto della costitutio Antoniniana (di Antonino Caracalla) del
2

212 d.C.

Perdevano la cittadinanza romana:

 Quelli che venivano ridotti in schiavitù.

 Quelli che si fossero stabiliti in colonie romane di nuova fondazione (Latini


Coloniarii).

 Quelli che, liberamente o per sfuggire alla pena di morte, sceglievano l’esilio.

 Coloro che venivano esiliati tramite deportatio.

→ I peregrini: ai cives romani si contrapponevano i peregrini, ossia stranieri liberi


ma non cives. Essi, in diritto privato, godevano della legislazione del proprio Paese. Gli
erano concessi lo ius commercii e, più raramente, lo ius connubii.

→ I latini: erano una categoria privilegiata di peregrini. Primi fra tutti i Latini priscii,
abitanti delle città laziali vincolate a Roma da alleanza e formalmente sovrane. A parte lo
ius migrandi – che consentiva di divenire cives romani a tutti coloro si fossero trasferiti
nella città di Roma – i Latini conservavano le proprie istituzioni di diritto pubblico e
privato. Godevano del ius commercii e del ius connubii e potevano essere destinatari di
testamento del cittadino romano. Ai priscii furono assimilati coloro che si stabilivano
nelle colonie fondate da Roma, i Latini Coloniarii. Gli schiavi liberati nelle forme
pretorie e i minori di trent’anni manomessi senza le garanzie stabilite dalla legge Aelia
Sentia divenivano Latini iunianii.

→ I peregrini dediticii: il gradino più basso della categoria dei peregrini è quello dei
peregrini dediticii, membri delle collettività straniere che si erano arrese a Roma senza un
accordo e all’interno delle quali il vincitore aveva abrogato l’ordinamento nazionale.
Partecipavano solo allo ius gentium e non al diritto privato. Le diverse categorie di
peregrini vennero a mano a mano assimilate ai cives, in seguito alla “guerra sociale” e alla
costituzione e per effetto della costituzione di Caracalla.
Le persone giuridiche

4.5 Status familiae


La piena capacità giuridica era propria delle persone sui iuris, che erano persone libere,
cittadini romani e non soggetti ad altrui potestà. Non bastavano status libertatis e status
civile, ma occorreva anche disporre di un preciso status familiae: quello appunto di sui

2
iuris. Ai sui iuris si contrapponevano gli alieni iuris, soggetti ad altrui potestà, che poteva
essere dominium, mancipium, patria potestas e manus. Gli alieni iuris della familia
giuridicamente intesa erano i filii familias e le donne in manu. La familia proprio iure
dicta era quella composta da una sola persona sui iuris, che, se maschio, esercitava
potestas sui filii e sulla moglie. La familia è un’istituzione arcaica, contenuta già nello ius
Quiritium. Ad avere capacità giuridica erano i sui iuris. Potevano essere maschi o
femmine, indipendentemente dall’età. I maschi sui iuris sono chiamati nelle fonti
giuridiche pater familias, indipendentemente dall’avere dei figli. Solo i pater familias
potevano avere filii sotto la propria potestà. Le donne mai: pur essendo sui iuris queste
erano membri di una famiglia che comprendeva solo la loro figura (familiae suae et caput
et finis), in quanto incapaci di esercitare patria potestas.

4.5.1 Gli sponsali


Il matrimonio era generalmente preceduto da una promessa di matrimonio, che avveniva
attraverso lo sponsio, in cui il pater familias o la donna stessa, se sui iuris (con
l’auctoritas del tutore), faceva promessa. Si parlò pertanto di sponsalia: nasceva un
vincolo giuridico all’adempimento, rispettivamente tra i due posi o tra i loro pater
familias, se alieni iuris. Dall’età preclassica, questa promessa iniziò a trasformarsi in un
semplice consenso sempre espresso esplicitamente, che non creava obligationes. Dall’età
postclassica, l’inadempimento di tale promessa matrimoniale, costava conseguenze
giuridiche minime, come ad esempio, rotto il fidanzamento, la restituzione dei doni
nuziali.

4.5.2 Il matrimonio
Il matrimonio giuridicamente riconosciuto era quello legittimo (iustae nuptiae), il
connubium, che necessitava il consenso dei due sposi che fossero già in età pubere. Il
connubium era l’attitudine a vivere in matrimonio legittimo con l’altro coniuge. Si
trattava di una capacità civile, che aveva effetti non per sé ma in relazione al coniuge.
Esso sussisteva tra cittadini romani. Il divieto di connubium fra plebei e patrizi fu abolito
con la lex Canuleia del 445 a.C. Il divieto di matrimonio tra parenti era vietato in linea
retta senza limiti di grado, in linea collaterale inizialmente fino al sesto grado, poi al
quarto e infine al terzo. I matrimoni tra affini erano proibiti in linea retta e in linea
Le persone

collaterale fino al secondo grado. Una situazione di impedimento era quella del lutto
vedovile: il connubium era infatti vietato solo fino allo scadere del tempus lugendi (tempo
di pianto), che era di dieci mesi dalla morte del marito. La violazione di questo era
punibile inizialmente solo sul piano sacrale. Successivamente, invece, subentrò con editto
pretorio l’infamia, che obbligava la vedova a diverse sanzioni: la rinuncia ai lasciti del
2

marito e la rinuncia al diritto di ereditare i beni di terzi mortis causa.

4.5.3 La concezione romana del matrimonio.


Per noi, il matrimonio è oggi un negozio giuridico, un atto, che dà luogo ad un vincolo
destinato a durare, fino al sopraggiungere della morte di uno dei due coniugi o alla
separazione. Per i Romani, la concezione era differente: il matrimonio aveva inizio con la
convivenza tra due cittadini romani di sesso diverso in unione monogamica. Al
matrimonio poteva accompagnarsi la conventio in manum, per cui la moglie cadeva sotto
la manus del marito ed era nella sua famiglia incorporata. Essa non doveva avvenire
necessariamente, in quanto non modificava nulla sotto l’aspetto giuridico. Inizialmente, i
matrimoni cum manu erano regola e i sine manu eccezione. Con il passare del tempo
però, il matrimonio cum manu finì per scomparire, definitivamente, in età successiva al
Principato. Il matrimonio non esigeva alcun rito: era sufficiente la volontà dei due sposi
di costruire un’unione stabile basata sull’affectio maritalis. Come poteva però questo
essere provato? Una delle prove era la preesistenza di sponsali, che pur non avendo valore
giuridico, era considerata prova. L’affectio maritalis poi era ritenuta più probabile se la
donna fosse stata ingenua e onesta o tra persone di pari rango e condizione sociale.

Gli effetti del matrimonio erano molteplici:

 Solo i figli nati da nozze legittime erano ritenuti legittimi e cadevano sotto la patria
potestas.

 La donna acquistava dignità sociale al pari di quella del marito.

 Tra coniugi vi era il dovere di fedeltà: in caso di infedeltà si era sottoposti a sanzioni
patrimoniali, come la restituzione della dote dopo la separazione. In caso di adulterio
femminile, la donna poteva anche essere uccisa dal marito.

 Furono proibite le donazioni tra coniugi.

 Implicava precise aspettative successorie.

 Era esclusa l’azione penale per furto. Se la donna avesse sottratto al marito beni
patrimoniali in vista del divorzio, egli poteva agire con l’actio rerum amotarum,
reipersecutoria e non infamante.
Le persone giuridiche

 Contro l’actio rei uxoriae per la restituzione della dote, al marito si concedeva il
beneficium competentiae.

4.5.4 Il divorzio
Le cause dello scioglimento del matrimonio dipendevano dalla sua struttura ed erano con

2
essa coerenti. Oltre che per morte, il matrimonio si sarebbe sciolto se in uno o entrambi i
coniugi, fosse venuta meno l’affectio maritalis: Si parla in questo caso di divortium (da
divertere = allontanarsi). Nel caso di divorzio unilaterale si parla di ripudium. Per il
divorzio non era richiesta alcuna formalità: l’eccezione era costituita dal matrimonio cum
manu, poiché, affinché la donna fosse liberata dalla manus, occorreva ricorrere a negozi
formali. Comunque, il divorzio comportava lo scioglimento del matrimonio qualunque ne
fosse la causa: il coniuge che però vi avesse dato motivo sarebbe stato sanzionato.
Dapprima la sanzione avveniva con nota censoria, poi con l’aggravamento della posizione
del colpevole nell’actio rei uxorie, quindi nella restituzione della dote. Con il subentro del
Cristianesimo, il matrimonio iniziò dalla religione ad essere considerato indissolubile: il
diritto romano però, pur ostacolandolo, non lo abolì. Il ripudio fu invece ritenuto lecito
soltanto entro certi casi tassativi, cosiddetti di divortium bona gratia, in presenza di validi
motivi e non imputabili a nessuno dei due coniugi. Il divorzio fu consentito in altre ipotesi
tassative, che comportassero grave comportamento del coniuge. Altrimenti, il ripudio
sarebbe stato sine causa: il matrimonio si scioglieva ugualmente, ma il coniuge sarebbe
stato soggetto a gravi sanzioni. La volontà di divorziare doveva essere manifestata per
iscritto e notificata dall’altro coniuge attraverso libellus repudii, oppure attraverso
testimoni. Diversamente, il matrimonio sarebbe rimasto valido.

4.5.5 La dote
La dote (dos) è un istituto del diritto romano arcaico, che consisteva in uno o più cose o
diritti che la moglie, il pater familias o un terzo incaricato, conferivano al marito. Era
detta profeticia se fatta dal pater, adventicia negli altri casi. La funzione della dote va
posta in funzione del matrimonio cum manu, per far sì che la donna, che usciva dalla
famiglia originaria e entrava in quella del marito, godesse di un compenso pari alle
aspettative ereditarie da lei perse. Per i giuristi classici, la dote era un contributo ad
sustinenda onera matrimonii (per sostenere le spese matrimoniali): alla fine del
matrimonio, la dote doveva essere restituita alla moglie, affinché questa potesse esser
mantenuta in quanto vedova o divorziata. La dote poteva essere concessa in tre forme:

 Dotis datio: era tecnicamente un trasferimento di proprietà, che produceva quindi


effetti reali. Non era un negozio giuridico.
Le persone

 Promissio dotis: si trattava di una stipulatio, quindi di un contratto tra il marito e


la parte della donna: questo diveniva creditore e non proprietario, per causa delle
obbligazioni generate dal negozio giuridico.

 Dotis dictio: anch’essa forma obbligatoria, consisteva nella pronuncia (della


donna o del pater) di certa verba (“doti stibi erit”). L’effetto era solo obbligatorio:
2

il marito creditore avrebbe avuto in cambio un’actio in personam. Questa forma


scomparve in età postclassica.

La dote poteva essere costituita sia prima del matrimonio o in previsione di questo, sia
durante il matrimonio. Se costituita prima, dotis dictio e promissio dotis si trovavano in
condizione sospensoria ed avrebbero avuto effetti dopo il compimento del matrimonio,
pena il rifiuto ipso iure. La dotis datio produceva immediatamente effetto, ma il marito, a
causa di mancato matrimonio, per condictio, doveva restituire quanto dato in dote.
Sebbene il marito fosse, a livello giuridico, titolare dei beni dotali, essi, sul piano sociale,
erano considerati di proprietà della moglie: a lei infatti dovevano essere restituiti i beni
allo scioglimento del matrimonio e non a caso si parlava di res uxorie, “cose di lei”.
Inoltre, subentrò una legge per cui il marito non poteva alienare beni immobili dotali, se
non con il consenso della moglie. Pertanto, la dote godeva di carattere ibrido, in quanto il
marito ne era titolare, ma la moglie proprietaria. L’obbligo del marito, sancito da actio rei
uxorie, poteva essere assunto al momento della stipulatio e, in questi casi, ci si appellava
ad actio ex stipulatu. La rei uxorie prescindeva da ogni precedente stipulatio ed era
un’azione in personam e in ius. Richiedeva un matrimonio sine manu e lo scioglimento di
questo per poter agire. Era un’zione a carico della moglie o del di lei pater familias ed era
intrasmissibile, ossia non ne potevano beneficiare i loro eredi. In caso di scioglimento per
morte della moglie, la dote rimaneva al marito. Nell’ambito dell’actio rei uxorie, il marito
poteva godere di beneficium competentiae, ossia, in caso di denaro o beni fungibili,
avrebbe potuto restituire la dote a rate (eccetto se colpevole di adulterio). In particolari
circostanze avrebbe potuto trattenere parte della dote, le cosiddette retentiones.
Giustiniano abolì il rei uxorie, sostituendolo con un’actio ex stipulatu che prescindeva da
una precedente stipulazione ed abolì il complesso sistema delle retentiones.

4.5.6 I filii familias


I filii familias, pur essendo liberi e cittadini romani, erano alieni iuris, soggetti a patria
potestas e privi di capacità giuridica. Erano filii familias quelli nati da un matrimonio
legittimo, che erano sotto patria potestas o potestas del più anziano avo maschio della
famiglia, o filii per adozione, che avveniva tramite adrogatio e adoptio.
Le persone giuridiche

→ Adrogatio: si compiva alla presenza dei comitia curiata, ossia assemblee


popolari, articolate in trenta curie: il pontefice, che presiedeva l’assemblea, dopo
le necessarie indagini, interrogava i soggetti interessati circa la volontà di
proseguire e in seguito il popolo che dava il suo assenso. Successivamente, esso
avvenne per assenso dell’imperatore e non più del popolo. L’adrogato diveniva

2
filius familias, passando da essere sui iuris ad alieni iuris, e sottostante la potestà
dell’adrogante, al di sotto di cui cadevano anche le persone che prima erano
soggette alla potestà dell’adrogato. Erano dell’adrogante anche i beni e i diritti
soggettivi, ma non i debiti che venivano estinti.

→ Adoptio: l’adoptio riguardava gli alieni iuris e attraverso questa, egli passava
dalla famiglia d’origine a quella adottante, eludendo la potestas del padre e
passando sotto la potestas dell’adottante. La perdita della potestas avveniva
quando il padre mancipava per tre volte il figlio all’adottante: egli, acquistandolo
in causa mancipii, dopo la prima e la seconda volta, lo manometteva. Con la terza
mancipatio, il padre perdeva la potestas sicché l’adottante lo riempancipava.
Questa volta il padre naturale acquistava l’adottando non più come filius ma come
persona in causa mancipii. A quel punto il magistrato interrogava i tre soggetti
circa la loro volontà: quando il pater familias naturale taceva, l’adozione era
avvenuta. Giustiniano semplificò la procedura, che dispose di dichiarazioni di
volontà del padre naturale e di quello adottivo.

Da età postclassica fu riconosciuta anche la legittimazione per successivo matrimonio: un


figlio nato da matrimonio illegittimo poteva essere considerato legittimo solo dal
momento in cui i genitori avrebbero contratto iustae nuptiae.

I filii familias. Posizione personale.

La patria potestas implicava la soggezione dei figli, sui quali il padre esercitava un potere
assoluto e illimitato, che si manifestava nel ius vitae ac necis (diritto di vita e di morte):
godevano di una situazione alla stregua degli schiavi. Successivamente, questo atto venne
regolato da sanzioni sacrali contro l’abuso di tale diritto, poi ancora intervenne il censore
e successivamente sanzioni criminali alla stregua di un’uccisione di un uomo libero. A
quanto scrive Costantino, l’istituto andò lentamente scomparendo già alla fine dell’età
classica.

I filii familias. Rapporti patrimonali.

Dapprima, la posizione giuridica dei figli era pari a quella degli schiavi: privi di capacità
giuridica, essi acquistavano per il pater familias, che, in caso di illecito, poteva essere
soggetto ad azioni nossali. Disponevano di un peculio, con cui conducevano negozi,
Le persone

trasferendo la proprietà al padre. Con questi atti, contraevano obbligazioni naturali, che
acquistavano rilevanza giuridica sul padre. La condizione andò con il tempo
modificandosi: la vittima dell’illecito, ad esempio, fu autorizzata ad agire direttamente sul
figlio e non sul padre. Assai più antico è poi il riconoscimento della capacità dei figli di
assumere con atto lecito delle obbligazioni civili: a) venne riconosciuto solo ai figli
2

maschi. b) contro i figli, i terzi potevano procedere con l’azione di cognizione per
l’accertamento e con sentenza, ma non potevano agire esecutivamente. L’esecuzione
poteva verificarsi solo quando il figlio smetteva di essere filius familias e diveniva pater
familias. Pertanto, venne applicato un regime di responsabilità cosiddetta adiettizia e
dell’azione tributaria: i figli potevano stare in giudizio, inizialmente nomine alieno,
successivamente in nome proprio. Con il tempo, si finì per affermare che i figli avessero
beni propri. Augusto concesse infatti ai figli militari (milites) di poter disporre
validamente per testamento dei provenienti dal servizio militari e dei beni con tali
provenienti acquistati. Si parlò pertanto di peculio castrense, di cui il figlio poteva
disporre sia mortis causa, sia con atti inter vivos, sia a titolo oneroso, sia a titolo gratuito:
il padre non avrebbe potuto avocarlo a sé. Il regime del peculio castrense fu esteso poi ai
beni e alle proprietà acquistate con il ricavo di attività civili, forensi e del sacerdozio. Si
parlò di peculio quasi castrense. Erano di proprietà dei figli anche i beni dotali
provenienti dalla madre (bona materna) o dei beni provenienti da lato materno ma non
direttamente dalla madre (bona materni generis). Era proprietario dei beni acquisiti con il
matrimonio e, con Giustiniano, dei beni acquistati non provenienti dal padre. Vennero
definiti come bona adventicia (o peculium adventitium). L’amministrazione e il
godimento spettava comunque a quest’ultimo. Si parlò dunque di usufrutto.

Cessazione dello status di filius familias

La posizione di figlio poteva mutare per cause diverse. Essi potevano essere mancipati dal
padre per divenire personae in causa mancipii. Nel caso dell’adoptio, il figlio cadeva
sotto la potestà del pater familias adottivo. La figlia poteva cadere sotto la manus del
marito. I figli potevano uscire dalla famiglia anche per perdita della libertà o della
cittadinanza. Cessata la patria potestà, il figlio diveniva sui iuris. La patria potestà si
estingueva generalmente con la morte del padre e non dipendeva quindi dall’età. Cessata
questa, i maschi divenivano a loro volta pater familias. alla morte del padre, era
equiparata la perdita della libertà e della cittadinanza, istituto di ius civile. Non poteva
quindi essere esercitata da un non cives né tantomeno da un servo. Poteva accadere che un
filius uscisse dalla potestà paterna, ancora vivo il padre. il procedimento escogitato era
l’emancipatio, che funzionava con procedimento simile all’adoptio: tre mancipationes
successive a persona di fiducia, la prima e la seconda, da manumissio. Il figlio veniva
riemancipato dal padre, che lo manometteva. Con ciò, egli diveniva sui iuris. Cessava di
Le persone giuridiche

appartenere alla famiglia, rompendo qualsiasi parentela di agnatio. In età postclassica,


l’emancipatio divenne una semplice dichiarazione del padre all’autorità competente.

4.5.7 Le donne in manu


Persone libere e soggette a potestà, quindi alieni iuris, erano le donne in manu, per effetto

2
della conventio in manum. Essa poteva avvenire nell’ambito del matrimonio o
indipendentemente da questo. Nel caso del matrimonio, riguardava o le donne sui iuris o
le filiae familias. Le prime passavano da condizione di sui iuris ad alieni iuris, sotto la
potestà del marito o eventualmente del suocero, uscendo dalla famiglia di origine. La
conventio poteva avvenire tramite confarreatio, coemptio e usus.

→ Usus: consisteva nel fatto in sé della convivenza coniugale protratta per più di un
anno, alla quale la donna poteva sottrarsi passando tre notti consecutive lontana
dall’abitazione coniugale.

→ Confarreatio: era un antico rito religioso solenne. Esigeva la pronuncia di


determinate parole alla presenza di dieci testimoni da parte degli sposi e di alte
cariche religiose. Si compiva un sacrificio a Giove: lo spezzare del pane di farro.

→ Coemptio: era una mancipatio adattata al fine dell’acquisto della manus: oggetto
ne era la donna, acquirente il marito. Scomparve in età postclassica.

La donna era considerata alla stregua di una figlia per il marito, di una nipote per il
suocero, di una sorella per i suoi figli. Pertanto, l’estinzione della patria potestas era
simile a quella che avveniva per una figlia di famiglia. Tuttavia, si presentava un altro
rito: la diffareatio. Era uguale e contraria alla confarreatio e si estinse, come questo,
durate l’età classica.

4.5.8 Parentela e affinità


La famiglia alla quale si è fatto fin ora riferimento è la familia proprio iure dicta,
composta da una sola persona sui iuris (pater familias se maschio) e, eventualmente, dai
figli e dalle mogli in manu. Il vincolo tra più componenti della stessa famiglia era detto
agnatio, un vincolo di parentela “civile”, che prescindeva dal vincolo di sangue. Con la
morte del pater familias, la famiglia si spezzava in tante famiglie quanti erano i figli.
L’agnatio non si estingueva. Era un tipo di parentela, però, unicamente in linea maschile.
Riguardo gli agnati appartenenti a famiglie diverse, si parla di familia communi iure,
composta da persone che sarebbero state sotto la potestà dello stesso pater familias. Il
vincolo di agnatio si estingueva per effetto di emancipatio, adoptio, coemptio di una
figlia femmina, conventio in manum o diffareatio. Poiché era una condizione esclusiva
Le persone

dei cittadini romani, poteva perdersi nel caso in cui uno avesse perso la libertà e dunque
la cittadinanza. Diversa dall’agnatio era la cognatio, che invece implicava un vincolo di
sangue, sia in linea maschile che femminile. Venne maggiormente considerata quando il
pretore tenne conto di essa nel suo sistema di successione ab intestato e contro il
testamento. Nel diritto giustinianeo, alla cognatio furono riconosciuti gli stessi diritti
2

giuridici dell’agnatio. La parentela poteva essere in linea retta o in linea collaterale.


Erano parenti in linea retta gli ascendenti e i discendenti tra loro (genitori e figli, nonni e
nipoti), mentre in linea collaterale quanti avessero un ascendente in comune (fratelli).
Assumeva poi valore il grado: in linea retta si contano le generazioni cosicché genitori e
figli sono parenti di primo grado, nonni e nipoti di secondo grado. Ciò accadeva anche in
linea collaterale: si risaliva all’ascendente comune (stipite) e si discendeva al parente in
relazione al quale si voleva stabilire il grado (fratelli parenti di secondo grado). L’affinità
(adfinitas) è il legame che unisce un coniuge con i parenti dell’altro coniuge, sempre in
linea retta o collaterale. In entrambi i casi si tiene conto del rapporto in linea retta e
collaterale del coniuge cui appartengono in parenti e si istaura in tal modo la parentela
dell’altro coniuge: linea retta e di primo grado suoceri e nuore o generi, linea collaterale
di secondo grado coniuge con i fratelli e sorelle dell’altro coniuge. Successivamente, si
cominciò a parlare anche di pretese alimentari, mezzi di sostentamento cioè, che a partire
dall’età classica si andarono stabilendo: prima non vi si pensava in quanto le strutte
familiari erano molto rigide. Quando ai figli iniziarono a riconoscersi capacità giuridiche
e al vincolo di sangue conseguenze giuridiche, emerse l’idea di sanzionare pretese
giuridiche tra parenti, ad opera di senatoconsulti e costituzioni imperiali. La sanzione
avveniva extra ordinem e si prevedeva un reciproco dovere alimentare tra genitori e figli
o con parenti in linea retta, con semplice cognatio, senza pretesa di patria potestà. Questo
nacque anche tra padroni e liberti.

4.6 La capitis deminutio


La capitis deminutio può essere definita un mutamento di status per cui si spezzavano i
legami di agnatio. Si distingue tra capitis deminutio maxima, media e minima:

 Quella maxima prevedeva la perdita dello status libertatis.

 Quella media la perdita dello status civitatis.

 Quella minima la perdita di un particolare status familiaris e di conseguenza dei


legami di agnatio.
Le persone giuridiche

La capitis deminutio poteva dunque avere anche effetti giuridici dannosi: il testamento
sarebbe stato considerato invalido qualora il testatore avesse subito una di queste
condanne.

4.7 Limitazioni nella capacità giuridica

2
Il principio per cui alle persone libere, cittadine e sui iuris si riconosceva capacità
giuridica non ebbe valore assoluto: molte categorie (liberti, coloni, ecc.) furono infatti
soggette a diverse limitazioni giuridiche.

4.7.1 L’infamia
Le persone che erano responsabili di comportamenti riprovevoli, per l’esercizio di
determinate attività o per la condanna subita in certi giudizi, andavano incontro a
disistima sociale, che veniva definita infamia o ignominia – pertanto, si parlava di
infames o ignominiosae. Si trattava di persone dedite a mestieri turpi, che avessero subito
particolari condanne per crimina o actiones famosae o debitori che persistessero
nell’adempimento nonostante la proscriptio. Essi andavano incontro a diverse incapacità
di diritto pubblico (rivestire determinate cariche) e l’editto pretorio vietò loro di postulare
pro aliis (di proporre cioè istante giudiziarie nell’interesse altrui) e di porsi in giudizio sia
personalmente che come garanti per terzi. A carico delle donne di cattiva reputazione era
la negazione della capacitas di acquistare eredità e legati.

4.7.2 Limiti della capacità giuridica delle donne


È dato riscontrare diversi limiti riguardo la capacità giuridica e la capacità d’agire delle
donne. Per diritto pubblico, esse non avevano tale capacità. Nell’ambito del diritto
privato, la maggiore limitazione della capacità giuridica delle donne era la patria potestas
e l’impronta certamente maschile che la famiglia adottava, anche a livello di parentela. Le
donne infatti non avevano alcun tipo di potestà, né possibilità di arrogare o adottare, né
avere tutela di qualcuno, né rappresentare terzi in giudizio. Questo limite venne posto dal
senatoconsulto Velleiano e attuato dal pretore.

4.8 La capacità d’agire


Per capacità d’agire si intende la possibilità di operare direttamente nell’ambito del diritto
e, quindi, a compiere personalmente atti giuridici. Riguardava le persone fisiche, ed era
posseduta da coloro che erano in grado di intendere e di volere. Gli alieni iuris non erano
Le persone

così considerati, ma a loro (figli di famiglia, schiavi, donne in manu e personae in causa
mancipii) erano riconosciute alcune azioni negoziali con trasferimento di proprietà al
padre/dominus.

4.8.1 L’età
2

Per il riconoscimento della capacità d’agire, uno dei requisiti fondamentali era l’età. In
base all’età, i giovani romani si dividevano in impuberi e puberi: gli impuberi erano
coloro che ancora non avevano capacità di generare, al contrario dei puberi. L’età pubere
venne fissata per le femmine all’età di dodici anni, mentre per i maschi il discorso si fece
complesso: i sabiniani sostenevano che dovessero essere singolarmente valutati in base
alle loro caratteristiche fisiche, mentre i proculiani ritenevano puberi i ragazzi che
avevano compiuto i quattordici anni. I proculiani vinsero. Gli impuberi si dividevano in
infantes ed infantia maiores: gli infantes erano coloro che non avevano capacità
d’eloquio, fino ai sette anni. Gli infantia maiores erano gli impuberi che avessero
superato l’infanzia. Ora, ai puberi era riconosciuta piena capacità d’agire. Agli infantes
nessuna capacità e agli infantia maiores limitate capacità, che comprendevano solo
negozi giuridici che comportavano acquisto di un diritto, non atti dispositivi o assunzione
di obbligazioni. Il problema sorgeva quando però ci si trovava di fronte ad un impubere
sui iuris: in questo caso veniva nominato un tutore per tutela impuberum e l’impubere era
detto pupillo.

La tutela degli impuberi

La tutela degli impuberi era un istituto di ius civile nel senso stretto del termine. Essa
poteva essere legitima, testamentaria e dativa:

 La tutela legittima era quella che considerava l’agnatus proximus dell’impubere,


ossia il parente di grado più vicino (fratello) o, nel caso del libero e dell’emancipato,
il patrono o il parens manumissor. Questo ovviamente se non vi era tutela
testamentaria.

 La tutela testamentaria prevedeva la precisa dichiarazione del padre nel testamento


di voler affidare a quella determinata persona la tutela del figlio.

 La tutela dativa invece riguardava la lex Atilia del 210 a.C. e prevedeva che un
pretore, sotto consiglio della madre, di un amico di famiglia o di un terzo, nominasse
il tutore dell’impubere.

La funzione del tutore era potestativa e protettiva insieme: oltre a garantire la sicurezza
dell’impubere, aveva il diritto di amministrare le azioni e le res patrimoniali per la
Le persone giuridiche

salvaguardia del patrimonio familiare. Sino all’età classica era un istituto accessibile solo
ai cittadini maschi. dall’età postclassica, si vide l’accesso anche delle madri vedove, a
patto che non si fossero risposate.

Prerogativa peculiare del tutore era l’auctoritas, che gli permetteva di gestire a pieno i
beni patrimoniali dell’impubere e di intervenire negli atti negoziale, ribadendo

2
ufficialmente la volontà dell’infantia maior a suo carico. Essi potevano acquistare e
trasferire negli interessi del pupillo, ma gli fu vietato di alienare fondi rustici e suburbani
e successivamente qualunque cosa non fosse bene di scarsissimo valore. Il tutore agiva
come rappresentante diretto. Per altri negozi, che implicavano effetti obbligatori, il tutore
si faceva personalmente carico di questi, salvo poi il trasferimento degli effetti
all’impubere, una volta cessata la tutela, al raggiungimento dell’età pubere. Il tutore
poteva essere chiamato a render conto delle proprie azioni tramite un’azione penale del
pupillo contro di questo, il quale era obbligato al risarcimento del doppio dei danni che
avesse arrecato dolosamente a danno del patrimonio pupillare. Successiva è l’actio
tutelae, un’azione reipersecutoria e infamante che obbligava il tutore al trasferimento di
diritti ed effetti che aveva assunto a nome dell’impubere. Vi era poi però anche un’actio
tutelae contraria, che prevedeva che il tutore potesse citare in giudizio un pupillo per il
risarcimento delle spese contingenti la gestione tutelare.

I minori di 25 anni

Si è ricordato che col raggiungimento della pubertà, i maschi acquistavano piena capacità
di agire. Tuttavia, si trattava di una regola in vigore in una società arcaica, dove i beni
erano principalmente rurali e gli istituti giuridici scarsi ed inefficaci. Pertanto, col
crescere dei commerci, si avvertì sempre di più il pericolo connesso al commercio di un
minore di venticinque anni, che fosse comunque ancora inesperto in materia. A favore
degli adolescenti subentrò la lex Laetoria del 200 a.C,: essa istituì un’azione popolare
contro chiunque avesse raggirato durante la negoziazione un minore di 25 anni. Cadde in
disuso in età postclassica. Tuttavia, il pretore decise di istituire altre due tutele verso gli
adolescenti: una prima che avvenisse l’esecuzione della negoziazione ed una dopo
l’avvenuta negoziazione, che permettevano al giovane di vanificare effetti contraibili e
già contratti. Per questo, venne affiancato all’adolescente un curatore, che non era
requisito fondamentale ma garanzia per un terzo nella contrattazione col minore, in
quanto questo non avrebbe potuto appellarsi agli strumenti pretori. Il curatore ovviamente
non avrebbe potuto amministrare direttamente il patrimonio del minore, ma comunque era
una figura di rappresentanza indiretta. Da età classica, si concesse – prima dall’imperatore
e poi dal magistrato – la venia aetatis, così che il minore avrebbe amministrato
Le persone

liberamente il patrimonio e condotto liberamente i propri affari, ma non avrebbe potuto


appellarsi ai rimedi pretori.

4.8.2 Furiosi e prodigi


La capacità d’agire era negata ai furiosi e ai prodigi: i furiosi erano gli infermi di mente,
2

cui la capacità era totalmente negata, mentre i prodigi erano coloro che non dimostravano
attitudine per gli affari e tendenza allo sperpero, cui era negata solo in parte la capacità
d’agire. Certo, non potevano compiere atti di alienazione, dispositivi o assumere
obbligazioni. Essi erano soggetti a cura: si parlò di curator furiosi e curator prodigi. La
cura spettava all’agnatus proximus (cura legitima) o, in caso di sua assenza, ad un
curatore scelto dal magistrato (cura honoraria). I compiti del curator furiosi erano quello
di badare alla persona e amministrare il patrimonio, mentre il prodigi solo di
amministrare il patrimonio. Al curator furiosi era attribuito anche il compito di alienare le
proprietà del furioso, ma il prodigo neppure poteva compiere azione sotto supervisione
del curatore.

4.8.3 Altri casi di incapacità d’agire


Sordi, muti ed altri soggetti affetti da patologie invalidanti erano di per sé capaci d’agire,
ma impediti all’atto pratico. Vi si affiancava pertanto un curatore speciale, che li
coadiuvasse nella gestione degli affari.

4.9 La tutela muliebre


Le donne subirono gravi limitazioni nella loro capacità d’agire e capacità giuridica. Con il
tempo, la capacità d’agire subì però un progresso evolutivo che si concluse con la parità
di trattamento dei due sessi. Il punto di partenza fu la soggezione cui erano destinate le
donne puberi e quelle sui iuris, ossia la tutela muliebre. Il tutore poteva essere nominato
in maniera legittima (il proximus agnatus), in maniera testamentaria (il padre lo nominava
nel testamento) o in maniera dativa (su decisione del magistrato). A ciò si aggiunse il
tutor optivus, ossia un tutore che la donna avrebbe potuto scegliere per sé. Il tutore non
gestiva il patrimonio, ma soltanto aiutava la donna nella gestione di questo e interveniva
direttamente per portare a termine le azioni negoziali proibite alla donna, esercitando
l’auctoritas. Già dall’ultima età repubblicana, questo istituto scomparve. In età augustea,
venne emanata la lex Iulia et Papia Poppaea che riconobbe alle donne libere con tre figli
e alle liberte con quattro figli piena capacità d’agire senza tutela.
Le persone giuridiche

4.10 Le persone giuridiche


Capacità giuridica può essere riconosciuta anche ad entità diverse, che prendono il nome
di persone giuridiche. queste sono le corporazioni, a base personale, e le fondazioni, a
base patrimoniale. Per corporazione si intende un’aggregazione di persone con propria

2
organizzazione interna, cui possano far capo diritti e doveri che non siano al contempo
diritti e doveri delle persone fisiche che le compongono. Vi è la possibilità di rapporti
giuridici tra ciascun associato e la corporazione, avendo questa e ognuno dei suoi
componenti soggettività giuridiche diverse. Per fondazione si intende un complesso
patrimoniale volto a uno scopo considerato esso stesso titolare dei beni che lo
compongono, e comunque delle situazioni giuridiche soggettive che a quel complesso
patrimoniale si collegano sì che i relativi rapporti giuridici non facciano capo che alla
fondazione stessa.

4.10.1 Le corporazioni

Fenomeni di soggettivizzazione giuridica sostanzialmente corrispondenti a quelle che


oggi per noi sono corporazioni, erano il populus Romanus, le civitates e i collegia (o
sodalites). Per populus romanus si intendeva la collettività dei cittadini romani
politicamente organizzati. Ovviamente, quel che riguardava il popolo apparteneva al
pubblico e non al diritto privato e pertanto era regolato diversamente dai rapporti tra
privati. La capacità giuridica che sostanzialmente si riconobbe a civitates e collegia fu
invece di diritto privato. Quello di civitates fu un termine generale per designare
municipia e colonie, agglomerati urbani fuori della città di Roma e con autonomia
amministrativa. I municipia erano composti da cittadini romani, le colonie da Latini
coloniarii. I collegia erano associazioni di minore importanza e portata. Potevano avere
scopi di culto, ma poteva trattarsi pure di corporazioni di artigiani o commercianti o di
congregazioni di povera gente, col fine di provvedere ai riti funebri e al seppellimento dei
propri membri. Furono detti anche sodalites, corpora e universitates. A norma, era
lasciata agli associati la possibilità di emanare un proprio statuto (lex collegii) col solo
limite che non fosse in contrasto con leggi. Al tempo di Augusto vennero aboliti i collegi
esistenti non antichi, dovendo prima della formazione essere approvati dal Senato o
dall’imperatore. La composizione dei collegia era solitamente numerosa e non potevano,
per principio, avere numero inferiore a tre persone. ad essi si riconobbe capacità giuridica
nel diritto privato (solo in merito a rapporti patrimoniali). Si ammise che i loro
rappresentanti potessero compiere compravendite, locazioni e mutui e pure
mancipationes e stipulationes. Si consentì loro di stare in giudizio tramite actores.
Potevano acquistare per mezzo dei propri schiavi, oltre che mortis causa in forza di
Le persone

testamento. Potevano avere beni in possesso e in proprietà, le civitates anche in usufrutto.


A entrambi potevano far capo crediti e debiti.

4.10.2 Le fondazioni. L’eredità giacente

L’idea di fondazione è da ritrovarsi in quella di hereditas iacens, di eredità giacente, con


2

la cui espressione si intendeva il complesso ereditario nell’intervallo tra la morte


dell’ereditando e l’accettazione da parte dell’erede, o di taluno degli eredi volontari. Si
affermò che l’eredità giacente non appartenesse a nessuno. Pertanto, quando le cose
ereditarie venivano sottratte, essendo sine domino, non poteva il fatto essere indicato
come furto, in quanto nel furto bisognava individuare la persona del derubato. Per altre
questioni, si concesse l’opportunità che ciò che il servus hereditarius avesse acquistato
durante la giacenza dell’eredità spettasse agli eredi. Con l’actio legis Aquiliae, si regolò il
danneggiamento delle cose ereditarie nel periodo della giacenza. Per finzione giuridica, si
affermò che l’eredità avrebbe fatto le veci della persona del defunto.

Le piae causae

Un altro spunto si trovò nelle costituzioni imperiali del Basso Impero. Già in età classica
era usuale disporre dei legati in favore di civitates con l’onere di devolverne il reddito in
favore della cittadinanza o di certi strati di essa, i più umili. In età postclassica, si diffuse
la pratica di disporre lasciti o donazioni in favore di corporazioni religiose vincolandone
il reddito a scopi di culto o di beneficienza: si parlò di piae causae.
Le persone giuridiche

2
5. Le cose
5.1 Le res
Il termine ‘res’ assumeva nel mondo romano significati molteplici, come oggetto, entità
materiale, porzione limitata del mondo esterno, secondo i comuni criteri sociali ed
economici di valutazione. Nel diritto moderno si parla di ‘beni’, e vi rientrano animali,
terreni ed edifici. Nel mondo romano vi rientravano anche gli schiavi.

5.1.1 Res corporales e res incorporales


I Romani parlarono di res corporales definendole come res quae tangi possunt, cose che
possono essere toccate. A queste si contrapposero le res incorporales, res quae tangi non
possunt, cose che non possono essere toccate, oltre che l’eredità, l’usufrutto, le
obbligazioni, le servitù prediali. Le identificarono con alcuni iura, ossia con alcuni diritti
soggettivi o posizioni giuridiche soggettive, pure se tali diritti potevano avere, anzi
normalmente avevano, ad oggetto cose corporali, non cose che potevano esserne oggetto.
Tra queste non si annovera il diritto di proprietà, poiché questo veniva identificato, ancora
in età classica, con l’oggetto stesso della proprietà, considerandosi res corporalis.
Le persone

5.1.2 Cose in commercio e cose fuori commercio

Res

Cose in
Cose fuori commercio
2

commercio
Res publicae Res humani
Res divini iuris (se destinate
all'uso pubblico) iuris

Res religiosae Res sacrae Res sanctae Res privatae

Le prime erano oggetto di proprietà privata e comunque si rapporti giuridici patrimoniali,


le altre no. Erano fuori commercio le res divini iuris (di diritto divino), cui rientravano le
res sacrae (altari, templi, santuari), le res religiosae (i luoghi di sepoltura) e le res
sanctae (le mura della città). A queste si contrapponevano le res humani iuris (di diritto
umano), che potevano essere pubbliche o private: le res publicae erano fuori commercio
se destinate all’uso pubblico, mentre nel commercio se dalla loro vendita il popolo
romano ne ricavava un compenso o un’utilità. Le res privatae erano invece in commercio.

5.1.3 Res mancipi e res nec mancipi

Res

Res mancipi (per trasferirle era necessaria la mancipatio o in iure Res nec
cessio) mancipi

Tutto il resto
Fondi su Animali da Servitù
Schiavi (bastava la
suolo italico tiro e da soma rustiche
traditio)

Si dissero res mancipi i fondi sul suolo italico (sia terreni sia edifici), gli schiavi, gli
animali da tiro e da soma e le servitù rustiche. Tutte le altre si dissero nec mancipi. Le
prime erano le cose più preziose per la società romana arcaica, a tal punto che per esse si
richiedeva trasferimento di proprietà con la mancipatio o con la in iure cessio. Per le nec
mancipi bastava la traditio. Si ebbe tale distinzione sino all’età classica, perdette valore
durante l’età postclassica con l’indebolimento della mancipatio, la scomparsa della in
iure cessio e la sempre maggior rilevanza della distinzione tra beni mobili ed immobili.
Scomparve del tutto con Giustiniano.
Le persone giuridiche

5.1.4 Beni mobili e beni immobili


Per beni immobili si intendeva il suolo insieme a ciò che vi inerisce stabilmente, per beni
mobili invece gli animali, gli oggetti inanimati trasportabili o comunque amovibili e
anche gli schiavi, solo nel diritto romano. Tale distinzione, sino a tutta l’età classica, non

2
ebbe alcun rilievo nel trasferimento di proprietà, mentre lo ebbe per l’usucapione e la
difesa del possesso. Fu in età postclassica che tale classificazione iniziò a ratificare per il
passaggio di proprietà, con l’obbligatorietà di scrittura per le donazioni e per le vendite di
immobili.

5.1.5 Ulteriori distinzioni


→ Fungibili e infungibili

Le prime corrispondevano alle cose che rilevavano in rapporto al peso (frumento), al


numero (monete) e alla misura (stoffa), insomma cose per le quali era possibile trovare un
tantundem, un equivalente corrispondente per peso, misura e numero. Le cose infungibili
erano quelle che avevano considerazione in sé stesse, nella loro individualità.

→ Genere e specie

Le prime si associano generalmente alle cose fungibili, le seconde a quelle infungibili. Le


cose di genere sono quelle che appartengono ad una determinata categoria, quelle di
specie cose perfettamente individuate.

→ Cose consumabili e inconsumabili

Si dicono consumabili le cose che consentono un solo utilizzo, il quale le rende poi
inesistenti, mentre inconsumabili quelle che permettono uso continuato.

→ Cose divisibili e cose indivisibili

Si dicono divisibili o viceversa a seconda che siano o non divisibili senza perire o senza
pregiudizio economico.

→ Cose semplici, composte e collettive

Le cose semplici sono quelle che costituiscono un’unità naturale, quelle composte le cose
costitute da più cose semplici assemblate artificialmente ma riconoscibili individualmente
e collettive con riguardo a più cose semplici non congiunte tra loro ma considerate
unitariamente.
Le persone

5.1.6 I frutti
Furono ritenuti frutti quelli naturali, cioè prodotti di piante ed animali, che valevano
giuridicamente come tali una volta separati dalla fonte: prima erano considerati frutti
pendenti, ossia partes della fonte. Si discusse se fossero frutti i parti della schiava, ma la
2

risposta fu negativa. Erano frutti le attività lavorative dei servi e, alla loro stregua, i frutti
civili, ossia il corrispettivo che si otteneva concedendo una cosa in godimento.

5.2 I diritti reali


Si dicono reali i diritti soggettivi su una cosa, a carattere assoluto e opponibili a tutti i
membri della collettività. Tutti i consociati erano potenzialmente e in egual misura
obbligati a tenere un comportamento negativo, ad astenersi cioè da azioni in contrasto con
quel diritto. Nel diritto di credito però, un diritto patrimoniale relativo a due parti, era
possibile che una parte fosse obbligata all’adempimento di un comportamento positivo.
Dunque i diritti patrimoniali si distinguevano in diritti di credito e diritti reali. Il diritto
reale per eccellenza era quello di proprietà, un potere assoluto ed illimitato al godimento e
alla disposizione di un bene che ne è oggetto. Sulla stessa cosa potevano gravare o
coesistere altri diritti reali: i diritti reali limitati o diritti su cosa altrui, diritti reali di
godimento e diritti reali di garanzia: i primi attribuivano su cosa altrui facoltà di
godimento limitate, mentre di garanzia conferivano al titolare del diritto di soddisfare un
proprio credito rivalendosi su una cosa altrui in caso di inadempimento. Il carattere reale
del diritto di proprietà era subito evidente, mentre quello del diritto reale limitato lo era in
relazione alla possibile opponibilità a tutti i membri della collettività (opponibilità a
terzi): il proprietario poteva perseguire la cosa propria presso chiunque ne avesse
possesso, ma quest’ultimo poteva far valere il diritto reale limitato su chiunque ne avesse
proprietà, sia nel momento in cui il diritto era stato costituito, sia sui futuri proprietari. Si
tratta di una classificazione di età medievale e moderna che ben si adatta al diritto
romano: questo aveva distinto a tal proposito diverse posizioni giuridiche sottostanti le
azioni reali (dominium, servitus, usus fructus). I diritti reali erano tipici, tutelati e
riconosciuti e sottratti alla creazione di nuovi nell’autonomia negoziale per non nuocere
alla libera circolazione di beni con l’imposizione di troppi vincoli quali il moltiplicarsi dei
diritti reali limitati avrebbe comportato.
Le persone giuridiche

5.3 La proprietà
La proprietà è un diritto soggettivo reale per cui al proprietario, che è titolare, si
riconosce sulla cosa che ne è oggetto una signoria generale. Non è possibile determinare
in astratto le facoltà del proprietario, ma, in generale, riguardano il godimento e la

2
disponibilità pieni ed esclusivi della cosa. Tali facoltà possono subire limitazioni: quelle
da parte dell’ordinamento giuridico sono dette limitazioni legali, ma possono sussistere
anche limitazioni volontarie, potendo le facoltà di godimento essere compresse dal
proprietario con la reazione di diritti reali limitati, alla cui estinzione, le facoltà di
godimento del proprietario tornando ad essere estese. Si parla di elasticità. Il diritto di
proprietà è dunque un diritto soggettivo di natura reale, che ha come oggetto signoria
generale su una cosa. Un diritto che può essere acquistato ma non esercitato e tuttavia,
pur non esercitandolo, non può essere perso: la perdita si ha solo in determinati casi. Si
parla di diritto imprescrittibile. Il proprietario è anche possessore, ma può non esserlo e
tuttavia restare proprietario, godendo del diritto al possesso, che non pregiudica
comunque l’estinzione del diritto.

5.3.1 La proprietà e la proprietà del diritto romano


Già in tarda età arcaica cominciò ad emergere l’idea di possesso, quell’idea che avrebbe
portato conseguentemente al concetto di proprietà. Essa poteva essere legittimamente
acquistata e riconosciuta dal ius più antico con l’espressione ex iure Quiritium. Nella
tarda età repubblicana apparvero altre espressioni come dominium ex iure Quiritium. I
concetti di proprietas e proprietarius erano invece di età classica e tuttavia non
comportarono l’abbandono dei vecchi termini. Il dominium ex iure Quiritium era istituto
del ius civile e da esso tutelato e riconosciuto. Si parla pertanto di dominio quiritario,
proprietà quiritaria e proprietà civile, distinguendola dalla proprietà pretoria, proprietà
peregrina e proprietà provinciale.

5.3.2 Il dominium ex iure Quiritium


Tale denominazione non è originaria: si passò dall’appartenenza, al dominium, alla
proprietas. Esso era comunque istituto del ius civile in senso stretto e dunque fruibile dai
soli cittadini romani. Ne erano oggetto res corporales, sia mancipi sia nec mancipi, sia
mobili sia immobili: gli immobili però solo se res mancipi e quindi solo se siti sul suolo
italico.
Le persone

Le origini della proprietà privata immobiliare a Roma

Le comunità preciviche non riconoscevano la proprietà privata dei beni immobili: le terre
appartenevano alla collettività, costituendo ager publicus, ed erano adibite al pascolo. Più
in là, fu concesso che fossero lasciate al godimento esclusivo di privati per estensioni
talora notevoli, dapprima in forza di provvedimenti a carattere generale e comunque
2

revocabili che ne consentivano l’occupazione nei limiti delle possibilità di sfruttamento


dell’occupante (ager occupatorius), più tardi in forza di concessioni individuali pur
sempre revocabili. Solo successivamente si parlerà di assegnazioni a carattere definitivo
ex iure Quiritium. Le concessioni avvenivano mediante limitatio, un rito dalla
connotazione sacrale cui partecipavano un magistrato e un agrimensore (gromanticus: si
tracciavano sul suolo parallele e perpendicolari che incrociandosi stabilivano confini tra
gli appezzamenti). Doveva però esserci tra un terreno ed un altro uno spazio di non meno
di cinque piedi (ogni piede 30 cm) chiamato limes o inter limitare, non acquistabile per
usucapione.

La rappresentazione del dominium ex iure Quiritium come potere assoluto e


illimitato

Il potere assoluto e illimitato che garantiva il diritto di proprietà era uno ius utendi et
abutendi re sua, ossia il diritto di usare ed abusare della cosa propria. Il diritto romano
non conobbe un divieto generale dei cosiddetti atti emulativi: a Roma si diceva che
l’esercitare un proprio diritto non andasse a ledere nessuno. Il carattere assoluto emerse
anche nel III sec. d.C., quando la proprietà immobiliare fu esente da tributi. Le imposte
furono inserite solo da Diocleziano nel 292. Il dominio quiritario sugli immobili si
estendeva inoltre illimitatamente sia in altezza che in profondità. Si deve notare ancora
che il rito della limitatio consentiva ai proprietari libero accesso ai propri fondi e riduceva
pertanto possibili interferenze tra vicini: ciò valeva anche per gli edifici, in cui il limes era
chiamato ambitus. Tuttavia, iniziò a diffondersi anche l’assegnazione senza limitatio, per
cui si dava il caso di fondi confinanti: gli agri arcifinii. Si garantiva però ai proprietari un
accesso indipendente, visto anche che il diritto romano non obbligava un proprietario a
permettere il passaggio sul suo fondo del proprietario del fondo adiacente per l’accesso.

Limitazioni legali

Potevano comunque insorgere reciproche interferenze, ma alcune dovevano essere per


ordinamento giuridico tollerate: le emissioni di fumo, acqua, e simili dall’immobile del
vicino al proprio purché dipendenti dal corretto uso del fondo, o i rami di alberi del vicino
sporgenti sul proprio fondo purché ad un’altezza superiore a 15 piedi.
Le persone giuridiche

5.3.3 I modi di acquisto

Modi di Iuris civilis Mancipatio


acquisto
In iure cessio

2
Usucapio

Iuris gentium Occupazione


Accessione
Specificazione
Traditio

Una prima distinzione è tra modi di acquisto iuris civilis, esclusivi dei cittadini romani, e
modi di acquisto iuris gentium, estesi anche agli stranieri. Nella prima categoria rientrano
la mancipatio, la in iure cessio, la usucapio, mentre nella seconda l’occupazione,
l’accessione, la specificazione, la traditio.

Altra distinzione è tra i modi d’acquisto a titolo originario e quelli a titolo derivativo. I
primi prescindono da qualsiasi tipo di rapporto con il precedente proprietario: possono
avere ad oggetto una res nullius, una cosa di nessuno, o una cosa d’altri, basta che
l’acquisto abbia luogo indipendentemente da ogni relazione col precedente proprietario. I
secondi sono quei modi in cui l’acquisto dipende dalla trasmissione che ne fa il titolare,
talché esiste una evidente connessione tra il diritto di chi trasmette (auctor o dante causa)
e quello di chi acquista (avente causa). Nei due casi sono diversi gli stessi presupposti
dell’effetto acquisitivo e diversi sono i contenuti e l’ampiezza del diritto acquistato: negli
originari rilevano solo l’acquisto e le modalità d’attuazione, nei derivativi la proprietà
viene acquistata così com’è presso colui che l’ha trasmessa: uno non può trasmettere più
di quanto possieda (Nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet), oppure il
trasferimento avviene con i conseguenti diritti reali limitativi o con gli schiavi.

Altri modi d’acquisto sono i modi costitutivi o derivativo-costitutivi, per cui taluno
diviene titolare di un diritto soggettivo che si costituisce ex novo, e quindi in precedenza
autonomamente inesistente sotto il profilo giuridico. È il caso dell’usufrutto: il
proprietario non è usufruttuario della cosa propria, e pertanto l’usufruttuario acquista un
diritto nuovo che ha però la sua radice nella proprietà piena del costituente. L’usucapione
non è propriamente classificabile tra i modi d’acquisto elencati.

Sono tutti a titolo particolare, in cui cioè il bene è direttamente individuato. Esistono poi
modi a titolo universale, che sono quelli in cui l’acquisto di beni o diritti consegue
Le persone

all’acquisto di complessi patrimoniali dalle componenti di per sé non necessariamente


definite, talune delle quali potrebbero non essere note all’acquirente.

L’occupazione

È un modo d’acquisto originario dello ius gentium: consiste nella presa di possesso di
2

cose che non appartenevano a nessuno (res nullius) come gli animali allo stato selvatico,
le cose trovate sulla riva del mare, le cose sottratte al nemico ecc. L’azione aveva valore
anche per le res derelictae, le cose abbandonate, solo se res nec mancipi: se res mancipi il
proprietario manteneva il dominio finché un eventuale occupante ne fosse divenuto egli
stesso proprietario per usucapione. Si parla poi di tesoro, consistente in denaro e preziosi
rimasti sepolti da tempo immemorabile: inizialmente si riteneva che questo fosse di
proprietà di chi possedeva il fondo dove era stato rinvenuto, successivamente l’imperatore
Adriano stabilì che metà spettava al proprietario del fondo e metà a chi l’avesse
rinvenuto.

L’accessione

Si intende una varietà di fenomeni per cui una cosa corporale subisce un arricchimento,
un incremento, un completamento, per l’aggiunta di un’altra cosa che non appartiene allo
stesso proprietario. La cosa che subisce incremento è detta principale e l’altra aggiuntiva,
a vantaggio del proprietario della cosa principale. È a titolo originario e non prevede il
consenso del proprietario della cosa accessoria. Un caso è quello dell’unione di cose di
qualità diverse, in modo tale che la principale permetta la funzione del tutto. Si dice
unione organica quando infatti si ha compenetrazione di corpi, come nel caso della
semina, della tintura o della ferruminatio, unione di due oggetti metallici. Sono
considerati tali anche gli incrementi fluviali: l’alveo abbandonato per cui proprietari di
fondi rivieraschi non limitati estendevano il dominio sino alla linea mediana del fiume o
l’insula in flumine nata che cadeva in proprietà dei fondi non limitati opposti, con confine
segnato dalla linea mediana del fiume. Altra significativa ipotesi è quella della
inaedificatio, consistente nella costruzione di un edificio con materiale appartenente a
persona diversa dal proprietario del suolo. Il dominio quiritario, ora, si estendeva senza
limiti in profondità ed in altezza, per cui il proprietario del suolo diveniva
automaticamente proprietario dell’edificio, ma non dei materiali con cui esso era stato
fatto. Essi non perdevano con l’utilizzo le connotazioni originarie, sicché demolito
l’edificio, potevano essere rimpiegati. Poteva accadere che taluno costruisse su terreno
proprio con materiale altrui: era proprietario dell’edificio ma non dei materiali, su cui si
esercitava la proprietà quiescente dell’altra parte: essa avrebbe dovuto attendere la
demolizione dell’edificio per tornare in possesso dei materiali, ma non poteva
pretenderla. Finché durava la costruzione, il proprietario del suolo non avrebbe potuto
Le persone giuridiche

usucapire i materiali e, avvenuta la demolizione, il proprietario dei materiali poteva


pretenderne la restituzione per rei vindicatio. Durante l’unione, al proprietario dei
materiali si dava l’actio de tigno iuncto, penale e in duplum. Accadeva che taluno
costruisse con materiali propri sul suolo altrui: al costruttore non spettava l’actio e il
proprietario dei materiali manteneva proprietà quiescente solo se ignaro dell’alienità del

2
suolo, quindi se in buona fede.

La specificazione

È un modo d’acquisto a titolo originario che prevede la trasformazione di una cosa altrui
sino a farne un’altra cosa, che nel comune apprezzamento appare nuova. Per i proculiani,
la specificazione comportava l’acquisto della res nova, per i sabiniani che il proprietario
della materia ne avrebbe mantenuto il dominio dopo la specificazione. In età classica
emerse una tesi intermedia, che riguardava la reversibilità o meno della materia di
specificazione: se questa fosse stata reversibile, la proprietà restava al dominus della
materia, se non lo fosse stata, lo specificatore l’avrebbe acquistata come res nova.

La mancipatio e la in iure cessio

Esse avevano struttura poco o niente adeguata per atti traslativi perché era solo chi
acquistava che in queste aveva ruolo attivo. Per la in iure cessio, basti dire che il suo
carattere processuale venne adattato a funzioni negoziali. Per la mancipatio, si deve
invece far capo alle procedure che il rito stesso implicava, rimanendo queste tali anche
dopo il suo superamento. L’idea di proprietà come diritto soggettivo che di per sé
prescinde dal possesso, si affermò il principio per cui l’acquisto del mancipio accipiens o
del cessionario di quel potere fu detto dominium quando subordinato all’esistenza dello
stesso potere rispettivamente nel mancipante e nel cedente. Queste trasferivano la
proprietà civile sulle res mancipi, ma il possesso solo nei beni mobili. Per gli immobili si
necessitava la traditio.

La traditio

Era un negozio bilaterale che si compiva con la consegna di una cosa, negozio iuris
gentium, poteva avere ad oggetto sia mobili che immobili e trasferiva comunque il
possesso. Quando ne erano oggetto res nec mancipi, la traditio trasferiva anche la
proprietà: aveva quindi effetti reali. A compierla doveva essere il proprietario, per il
semplice principio logico che taluno non poteva trasmettere più di quanto realmente
avesse. La consegna materiale poteva però mancare: bastava che il tradens facesse
conseguire all’accipiens la disponibilità della cosa come nella traditio symbolica e la
traditio longa manu. Mancava ancor più consegna materiale nella traditio brevi manu,
che si realizzava quando l’acquirente teneva già la cosa che l’alienante gli trasmetteva.
Le persone

Inverso è il caso del costituto possessorio: l’alienante trattiene presso di sé la cosa che
vende, talché al compratore che consente non viene fatta materiale consegna. La cosa si
intende tuttavia tradita. Non ogni consegna era traditio vera e propria ma solo quella per
cui la persona che riceveva acquistava il possesso, in cui la consegna della cosa venduta
vi era dal venditore al compratore. Non era traditio la consegna della cosa a scopo di
2

custodia, per cui l’acquirente aveva soltanto la detenzione della proprietà. Con la traditio
di res nec mancipi il proprietario trasferiva sia proprietà che possesso, secondo la
concorde volontà del venditore e del compratore. Il possesso che si acquisiva era uti
dominus, quale proprietario. Doveva ovviamente esservi una iusta causa traditionis, ossia
una ragione per la quale si procedeva a traditio e che giustificava l’acquisto. Potevano
essere molteplici, ma sempre in numero determinato: causa vendendi, causa donandi,
causa solvendi ecc. L’esistenza di una causa era indice della volontà delle parti di voler
effettivamente concludere il negozio. Si discusse a lungo se tale causa dovesse essere
direttamente esplicitata o bastava che le parti la credessero esistente: non fu mai presente
una risposta univoca, ma si propendeva per la seconda ipotesi. Pertanto, la traditio venne
considerata negozio astratto. Quando la proprietà passava, nonostante mancasse una
giusta causa effettiva, il tradens avrebbe potuto pretendere la restituzione mediante
condictio.

Il legato per vindicationem

Era un atto mortis causa: un modo di acquisto derivativo a titolo particolare attraverso
disposizione testamentaria, con il quale il testatore attribuiva con le parole “do lego” una
cosa propria ad un terzo, detto legatario. Morto il testatore, il legatario acquisiva proprietà
civile su quella cosa. Effetti soltanto obbligatori aveva il legato per damnationem. Al
legato per vindicationem i proculiani equipararono il legato per praeceptionem.

L’adiudicatio

Era la pronunzia del giudice che traeva fondamento dalle formule dei giudizi divisori o
dell’azione per il regolamento dei confini. Il giudice dei giudizi divisori assegnava a
ciascuna parte una o più res tra quelle comuni oggetto della divisione: i comproprietari o
coeredi smettevano di essere tali, divenendo proprietari di una cosa in particolare. Era un
modo d’acquisto della proprietà. Nell’adiudicatio nell’actio finium regundorum i confini
che il giudice stabiliva venivano fissati in maniera incontrovertibile.

La litis aestimatio

L’eventuale condanna pronunziata dal giudice del processo formulare non poteva che
essere espressa in denaro: il possessore, con la rivendica del proprietario, soccombendo,
poteva anziché restituire il bene, subire condanna pecuniaria pari (litis aestimatio) al
Le persone giuridiche

valore della cosa rivendicata. Se la cosa era res nec mancipi, manteneva sia il possesso
che la proprietà ex iure Quiritium, se era res mancipi acquistava proprietà pretoria e aveva
un possesso valido ai fini dell’usucapione.

L’usucapione

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Conosciuto oggi come prescrizione acquisitiva, ricordato nelle XII Tavole, consisteva
nell’acquisto della proprietà ex iure Quiritium, riservato solo ai cittadini romani. I
requisiti per questo furono: res habilis, titulus, fides, possessio, tempus.

 Res habilis: le cose suscettibili all’usucapione dovevano essere res habilis, ossia
idonee ad essere usucapite. Ne erano escluse le res furtivae, cioè cose rubate e le
res vi possessae, prese quindi con la violenza. Non potevano essere usucapite
neppure da un terzo in buona fede, finché non fossero tornate in mano al legittimo
proprietario.

 Possessio: non ogni possesso conduceva all’usucapione, ma quello soltanto di chi


teneva la cosa come propria. Sino a tutta l’età classica, non erano usucapibili le
res incorporales, in quanto non soggette al possesso.

 Tempus: l’usucapione era determinato dal decesso di un anno per le cose mobili e
da due anni per quelle immobili, tempo continuo e non interrotto. Per questo, alla
morte del possessore, il tempo non si interrompeva e proseguiva nelle mani
dell’erede come era stato lasciato dal possessore. Si parlò di successio
possessionis, cui si integrò l’accessio possessionis, per cui ugualmente accadeva
tra venditore e compratore.

 Titulus / iusta causa: si necessitava di una ragione oggettiva che stesse alla base
dell’acquisto del possesso. Il titolo di tale pratica era pro emptore: il compratore
cui il venditore avesse trasmesso il possesso della cosa venduta ma non la
proprietà, o perché il venditore non ne era proprietario o perché, in caso di res
mancipi, avesse fatto traditio. Acquistavano possessio cum iusta causa il donatario
di una donazione reale (pro donato), il marito cui fosse stata costituita dote
mediante datio (pro dote) e il creditore cui fosse stata fatta solutio in
adempimento di un obbligazione di dare (pro soluto). Sussisteva anche il titolo
pro legato, trattante un legatario per vindicationem cui fosse stata legata una cosa
da un testatore non proprietario e pro derelicto, l’inventore di una res mancipi
derelicta. Usucapione vi era anche per missio in possessionem ex secundo decreto
per il danno temuto, il bonorum emptor per bonorum venditio e il bonorum
possessor per i beni ereditari, anche l’attore di un giudizio nossale per il servo
dato a nosso da non proprietario.
Le persone

 Fides: verso la fine dell’età repubblicana, si richiese anche buona fede, ossia la
convinzione del possessore di non recare ad altri col proprio possesso ingiusti
pregiudizi. Essa doveva sussistere al tempo dell’acquisto del possesso: venuta
meno dopo, l’usucapione si verificava ugualmente.

Casi speciali erano poi l’usureceptio e l’usucapio pro herede: con quest’ultima, la
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persona che avesse preso possesso di una sola cosa ereditaria, purché appartenente ad
eredità giacente, trascorso un anno avrebbe acquistato l’eredità nel suo complesso pure in
difetto di titolo e anche se in mala fede. Ciò nasceva dall’esigenza che un’eredità non
restasse a lungo deserta. In mancanza di eredi, non vi sarebbe stato nessuno che pagasse i
creditori ereditari e provvedesse ai sacra. In età preclassica, l’effetto acquisitivo fu
limitato alle singole cose ereditarie possedute. Con un senatoconsulto voluto da Adriano,
all’erede che avesse acquistato eredità successivamente si concesse una hereditatis petitio
ficticia contro il possessore in mala fede che avesse usucapito pro herede singoli beni, sì
che il giudice giudicasse come se l’usucapione non fosse mi avvenuto.

5.3.4 La difesa della proprietà quiritaria. La rei vindicatio


A difesa del dominium era la rei vindicatio, o rivendica. Era il prototipo delle azioni reali
e spettava al proprietario non possessore contro il possessore non proprietario e tendeva a
far conseguire al proprietario il possesso. Si agiva dapprima con la legis actio sacramenti
in rem, che aveva struttura bilaterale: il pretore provvedeva ad attribuire all’una o all’altra
parte durante il processo il possesso della cosa controversa, e su ognuna delle parti
gravava l’onere di fornire prova di appartenenza a sé del bene rivendicato. Diverso era il
processo formulare: il giudice verificava innanzitutto che la cosa controversa
appartenesse al proprietario ex iure Quiritium. Se non gli risultava, assolveva il
convenuto, pure se, risultando appartenente, il convenuto ottemperava all’invito di
restituire quanto controverso. Il giudice condannava il convenuto se, invitato a restituire,
non avesse adempiuto. La condanna era espressa in denaro e commisurata al valore della
cosa al tempo della sentenza, valore che determinava lo stesso proprietario mediante
giuramento. Il convenuto possessore avrebbe mantenuto il possesso della cosa durante il
giudizio. A venire in considerazione era solo l’appartenenza della cosa al proprietario. Se
non fosse stata provata, il convenuto sarebbe stato assolto e avrebbe mantenuto il
possesso. Egli godeva del commodum possessionis. L’onere della prova poteva risultare
particolarmente gravoso in quanto si doveva provare non solo di aver acquistato in forza
di adeguato negozio traslativo di proprietà, ma anche di avere acquistato dal proprietario.
E quindi che il dante causa avesse a sua volta acquistato la proprietà regolarmente.
Bastava che l’attore avesse posseduto la cosa o che taluno dei danti causa l’avesse
posseduta in buona fede o con iusta causa per il tempo necessario per usucapirla. Poteva
Le persone giuridiche

accadere che il convenuto possessore, prima della lite, avesse erogato delle spese sulla
cosa. Il convenuto, purché in buona fede, avrebbe potuto opporre l’exceptio doli,
reputandosi iniquo il comportamento dell’attore che insistesse nell’azione senza prima
aver rimborsato almeno talune spese. Con la conseguenza che, verificata l’exceptio, il
convenuto sarebbe stato assolto. Avrebbe in tal modo trattenuto la cosa. Si riconosceva

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quindi lo ius retentionis: doveva trattarsi di spese necessarie, ossia senza le quali la cosa
sarebbe deperita o deteriorata e le spese utili, destinate al miglioramento della cosa. Non
si poteva pretendere il rimborso delle spese voluttuarie, ossia volte all’abbellimento della
cosa: il convenuto poteva tuttavia portare via gli oggetti delle spese voluttuarie, purché
non acquistati in possesso per accessione del dominus e non arrecanti danni alla cosa
stessa. Nessun rimborso era previsto per il convenuto in mala fede. La rivendica doveva
essere diretta contro il possessore, passivamente legittimato. Inoltre, il convenuto, per
essere assolto, avrebbe dovuto restituire anche i frutti percepiti dopo la litis contestatio e
risarcire i danni che la cosa, dopo la litis, avesse subito per suo dolo o colpa. Per lo stesso
motivo, poiché la rivendica non interrompeva il tempo dell’usufrutto in favore del
convenuto, si stabilì che il possessore che avesse usucapito prima della lite dovesse
ritrasferire all’attore la proprietà, e compiere l’idoneo atto traslativo. Il convenuto
soccombente, se non avesse restituito la cosa indicata, sarebbe stato condannato a pagarne
il valore.

Le altre azioni e strumenti giudiziari a difesa della proprietà civile

La rivendica non era l’unico mezzo, seppur il più diffuso, a difesa della proprietà. Al
dominus spettavano anche le azioni negatorie di servitù e di usufrutto, di ius civile e di
natura reale, con clausola restitutoria, che garantivano al proprietario possessore azione
contro quanti esercitavano illegittimamente sul bene servitù e usufrutto. Vi era poi l’actio
aquae pluviae arcendae, che si davano al proprietario contro quello del fondo vicino,
qualora questo avesse deviato il corso delle acque piovane a vantaggio del suo fondo.
Essa prevedeva che o il convenuto o lo stesso attore ripristinassero il corso. Seguivano le
legis actiones in due casi: uno di questi era circa il danno temuto, ossia un danno non
ancora verificato che si temeva fortemente accadesse. Era a tutela del proprietario che
manifestava pericolo verso il suo fondo: ad esempio, quando l’edificio si un fondo
minacciava di crollare su un altro fondo, causando danno. Essa entrò in desuetudine
quando subentrò la cautio damni infecti, una stipulatio pretoria che prometteva il
risarcimento del danno. Contro colui che negava questo diritto, si emanava la missio in
possessionem, concedendo al missus libero accesso al fondo vicino: dunque, non il
possesso, ma la detenzione, al fine di sorvegliare e prevenire e inoltre di spingere l’altro
proprietario a prestare la cautio. Se ancora si fosse rifiutato, la detenzione diveniva
possesso ai fini dell’usucapione con una seconda missio, la missio in possessionem ex
Le persone

secundo decreto. L’interessato poteva anche far ricorso all’operis novi nuntiatio, quando
erano in corso opere di costruzione o demolizione che potevano ledere al suo fondo. Si
trattava di un’azione che si compiva prima che l’opera fosse terminata e che intimavano
al costruttore di sospendere l’esecuzione. Se questo si fosse rifiutato, il pretore, senza
alcun indagine, avrebbe emesso l’interdictum demolitorium, intimando il costruttore a
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demolire quanto avesse costruito dopo la nuntiatio. Gli effetti sospensivi cessavano dopo
un anno, in seguito al quale si poteva proibire l’opera tramite vindicatio servitutis, nel
caso di opera che impedisse l’esercizio di servitù. Poi, con l’interdictum quod vi aut clam
si poteva ottenere la rimozione della costruzione attuata con la forza sul fondo dello
stesso attore. Poteva verificarsi, che in seguito a calamità naturali o altro, non si
riconoscessero più i confini di fondi rustici e sorgesse controversia. Il giudice allora, con
l’actio finium regundorum e tramite adiudicatio ristabiliva il confine con efficacia
costitutiva, essendo questa un modo d’acquisto della proprietà.

5.3.5 L’azione Publiciana


Dall’ultima età repubblicana, fu data speciale tutela a quanti, possessori in buona fede e
cum iusta causa, avessero perso il possesso di una cosa suscettibile di essere usucapita
prima dello scadere del termine. Per il recupero del possesso, fu indetta l’azione
Publiciana, dal nome del pretore Publicio che la emanò: era una cosa in rem e con
clausola arbitraria che legittimava passivamente il possessore attuale. Era attivamente
legittimato non l’attuale proprietario ma chi avesse in precedenza posseduto la cosa in
maniera utile ai fini di usucapione. Era diversa dalla rivendica nell’intenzione: bisognava
accertare se l’attore, prima di perdere il possesso, aveva posseduto la cosa in buona fede e
cum iusta causa e, in caso positivo, fingere trascorso il termine dell’usucapione. Era
quindi un’actio fictitia.

5.3.6 Il confronto tra proprietario quiritario e possessore ad


usucapionem
Poteva tra questi sorgere conflitto, che avrebbe dovuto vedere il prevalere del primo sul
secondo. Se questi avesse fatto rivendica della cosa presso il possessore ad usucapionem,
il convenuto, non avrebbe potuto che soccombere. Avrebbe potuto sì opporre l’azione
Publiciana ma il proprietario avrebbe opposto l’exceptio iusti dominii, e per essa, l’azione
Publiciana respinta. Era chiaramente soluzione giusta al fronte del possessore ad
usucapionem che avesse acquistato da un terzo non proprietario la cosa, non però in altri
casi. Ipotesi emblematica è infatti quella del venditore di res mancipi che non ne avesse
fatto al compratore mancipatio o in iure cessio, ma solo traditio. Pertanto, il pretore,
contro la rivendica del dominus alienante, concesse al compratore l’exceptio rei venditae
Le persone giuridiche

ac traditae, concedendo a colui che utilizzasse azione Publiciana di neutralizzare


l’exceptio iusti dominii del proprietario venditore con la replicatio doli.

5.3.7 La proprietà pretoria


Il possessore ad usucapionem godeva o di tutela giudiziaria relativa, per cui trionfava di

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fronte a terzi e soccombeva di fronte al proprietario civile, o di tutela giudiziaria assoluta,
trionfando anche di fronte al proprietario civile. In questi ultimi casi il proprietario civile
viene qualificato come nudum ius Quiritium e il possessore teneva la cosa in bonis. I
classici parlarono di duplex dominium, configurando come dominium anche la posizione
del possessore che avesse la cosa in bonis. Si parlò di proprietà pretoria o proprietà
bonitaria.

5.3.8 La proprietà provinciale


Le terre dei paesi assoggettati dai Romani e organizzati in province furono lasciati
all’autonomia dei privati che le tenevano già, ma gravati da imposta (stipendium o
tributum). Il dominium risiedeva nel popolo romano per le province senatorie e
nell’imperatore per le province imperiali. Si trattava di proprietà vera e propria in quanto
aveva modalità e contenuti analoghi alla proprietà ex iure Quiritium: era trasmissibile
mortis causa e acquistabile con atti inter vivos e godeva di un’actio in rem simile alla rei
vindicatio. Per i modi d’acquisto godeva di traditio essendo res nec mancipi, ma non si
acquistava per usucapione. Nell’ambito della cognitio extra ordinem delle province era
prassi che il possessore di un fondo a lungo termine, convenuto con chi ne reclamava
restituzione, avrebbe potuto opporre la praescriptio longi temporis, strumento di difesa
con cui non si recuperava il possesso e non era modo d’acquisto della proprietà. Nel 199
d.C. si estesero a queste i requisiti dell’usucapione, ad eccezione del tempus, che era di
dieci anni inter praesentes (nella stessa città) e vent’anni inter absentes (diverse città).
L’esercizio dell’azione reale interrompeva il decorso della praescriptio, a differenza
dell’usucapione.

5.3.9 La proprietà nel diritto postclassico e giustinianeo


Sin dalla prima età postclassica si ebbe la volgarizzazione dei concetti giuridici
riguardanti soprattutto i diritti reali: venuto meno il pretore e le relative formule, la
visione della proprietà si appiattì e non si ebbe grande differenza tra rei vindicatio e altre
azioni reale dalle funzioni analoghe. Nella legislazione del Basso Impero alla concezione
di proprietà si andò assimilando superficie, enfiteusi e concessioni di fondi pubblici,
senza distinzione netta tra proprietà e possesso. Giustiniano tornò alla visione classica: la
proprietà si concepì però come istituto unitario, venendo meno quello dell’ex iure
Le persone

Quiritium e assimilandosi la proprietà pretoria. Non vi fu più inoltre differenza tra fondi
italici e fondi provinciali, entrambi sottoposti ad imposte fondiarie. Circa i modi
d’acquisto, si andò oscurando la distinzione tra negozi astratti di trasferimento e relative
cause esterne, considerando come tali vendita e donazione. Il diritto giustinianeo
ripropose la visione classica, sebbene venne abolita la distinzione tra res mancipi e nec
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mancipi, venuta meno anche la mancipatio. Rimase la sola traditio, in cui compravendita
e donazione assunsero il ruolo di cause. L’intervento di Costantino istituì una longissimi
temporis praescriptio, quarantennale, opponibile, a prescindere da titolo e buona fede, dal
possessore di un immobile. Giustiano propose la fusione tra usucapio e longi temporis
praescriptio, riferendo la prima ai beni mobili, la seconda agli immobili. Rimasero così i
requisiti per l’usucapione classica, eccetto il termine, che venne fissato a tre anni per i
mobili e a dieci o venti a seconda che i soggetti abitassero nella stessa provincia o in
province diverse. Furono estesi i requisiti anche all’usucapio pro herede. L’azione a
difesa del dominium rimase la rei vindicatio nella sua concezione classica, così come pure
le altre azioni a difesa della proprietà.

5.3.10 Il consortium ‘ercto non cito’

Si tratta del fenomeno della comproprietà, per cui più soggetti erano riconosciuti titolari
del diritto di proprietà sullo stesso bene. Era il consortium ‘ercto non cito’, ossia ‘dominio
non diviso’. Si costituiva alla morte del pater tra i suoi eredi o tra estranei per merito di
legis actio. Prevedeva che, pur senza il concorso degli altri eredi, un singolo erede potesse
gestire e fruire del bene e anche alienarlo, producendo effetti però comuni a tutti gli eredi.
Si parlò di proprietà plurima integrale, per cui ogni erede era proprietario per intero. Per
la divisione occorreva tra eredi legittimi l’actio familiae erciscundae, tra estranei, per lex
Licinnia, l’actio communi dividundo. Scomparve prima dell’ultima età repubblicana.

5.3.11 La communio di proprietà

La communio era un altro tipo di comproprietà, che poteva essere volontaria o incidente,
quindi indipendente dalla volontà dei comproprietari. Una differenza era che ciascun
comproprietario possedeva una quota ben precisa del bene, una frazione del diritto di
proprietà: non più era proprietario per intero. Poteva quindi alienare la propria quota,
costituire su di essa usufrutto e pegno, partecipava alle spese in misura corrispondente la
sua quota, ne godeva in misura dei frutti e sempre pro quota rispondeva dei danni causati
a terzi. L’eco del regime del consortium va ritrovato sia nella regola per cui ciascun
comproprietario poteva, senza il consenso dell’altro, gestire la cosa e fruirne, sia nel
principio per cui spettava a ciascuno dei contitolari lo ius prohibendi, il diritto di veto.
L’idea della proprietà plurima integrale affiora in merito allo ius adcrescendi, al diritto di
Le persone giuridiche

accrescimento. Se un socio rinunciava alla sua quota, questa veniva spartita tra gli altri
comproprietari in misura al loro diritto sulla cosa comune. Un comproprietario era quindi
potenzialmente proprietario per intero, onde il suo diritto si espande naturalmente una
volta che non è più compresso da quello degli altri contitolari. Manifestazione dello ius
adcrescendi era il regime della manomissione di un servo da parte di un solo socio. Con

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questo il servo non avrebbe acquistato la libertà, ma sarebbe servito ad accrescere la
quota degli altri comproprietari. La libertà giungeva quando tutti i comproprietari, anche
in momenti diversi, avessero proceduto alla manomissione. Giustiniano decretò che però
coloro che non volevano rinunciare al servo erano obbligati a vendere la loro quota a
colui che voleva procedere alla manomissione. Rimedio della divisione era l’actio
communi dividundo, che aveva fondamento nella lex Licinnia. Prevedeva processo
formulare con adiudicatio e condemnatio, specie quando ad essere comuni erano beni
indivisibili: si doveva procedere a fornire un equivalente in denaro. Infatti vigeva il dare e
ricevere reciproco tra i comproprietari per spese, frutti e danni relativi alla communio che
si andava a sciogliere. Si può dire che era quindi fonte di obbligazioni. Non poteva
prescindere dalla divisione giudiziale. Nel diritto giustinianeo, però, si utilizzò anche per
ottenere semplicemente il dovuto in relazione alla cosa comune, senza relativa divisione
obbligatoria.

5.4 Le servitù prediali


Tra gli altri diritti soggettivi di natura reale, i cosiddetti diritti reali limitati su cosa altrui,
rientra la servitù prediale. È un diritto soggettivo di natura reale, per cui il proprietario di
un fondo può pretendere dal proprietario di un fondo vicino un determinato
comportamento di tolleranza o omissione. Riguardano solo beni immobili: fondi rustici e
urbani. Spettano al proprietario in quanto tale di un fondo e ad essere obbligato è quello
di un fondo vicino. Si dicono quindi fondo dominante e fondo servente. Non è alienabile
separatamente dai fondi: alienato o l’uno o l’altro, la servitù passa necessariamente in
capo al nuovo acquirente o a suo carico. Si tratta di doppia realità. I due fondi devono
appartenere quindi a due proprietari diversi. La servitù deve essere utile al fondo
dominante, non utile al suo proprietario ma oggettivamente al campo. Si necessita che i
due fondi siano quindi contigui o vicini. Il proprietario del fondo servente è tenuto a pati
(sopportare) oppure a non facere, mai ad un comportamento positivo (facere). Le servitù
si distinguono in positiva e negativa: positiva è quella per il cui esercizio il proprietario
dominante deve tenere comportamento attivo, il proprietario servente un comportamento
negativo, mentre negative sono le servitù il cui esercizio non comporta alcuna attività che
il dominus del fondo dominante esercita, per cui il fondo servente è tenuto a non facere.
Le persone

Le servitù sono indivisibili: si costituiscono ed estinguono per intero, mai pro parte. Le
servitù si riconobbero quali entità giuridiche autonome dopo la legge delle XII Tavole,
avvertendo l’esigenza di stabilire dei servizi tra fondi. Non si pervenne mai a una
categoria unitaria di servitù, ma si individuarono singole figure di servitutes, dapprima
chiamate iura e poi res incorporales. Vi erano due servitù di passaggio, iter, passaggio a
2

piedi, e actus, passaggio con carri e animali, e quella di acquedotto. Alcune non erano
rappresentabili come il diritto di pretendere che il vicino non sopraelevasse o di attingere
acqua dal fondo vicino. Si distinse tra servitù rustiche e servitù urbane, le prime con res
mancipi, le seconde nec mancipi. Si definirono servitù soltanto i servizi tra fondi relativi a
fondi italici. L’estensione ai fondi provinciali è di età postclassica. La servitutes fu estesa
anche all’usufrutto e all’uso, servitù personali, ossia con assoggettamento di una res a una
persona nelle servitù personali. Tale concezione fu bandita dal codice napoleonico. Le
servitù si costituivano mediante negozi con effetti reali: per mancipatio le servitù
rustiche, per in iure cessio entrambe. Si utilizzò anche il pactio et stipulatio, un patto
accompagnato da stipulatio, l’uno e l’altro aventi oggetto la servitù. Si era fatto a questo
ricorso per le servitù provinciali, per costruire rapporti di natura analoga tutelati iure
honorario con azioni in factum. Si attribuirono effetti reali sia pure di diritto onorario.
Nel diritto giustinianeo questo divenne il modo generale si costituzione di servitù. Si
costituivano anche mediante exceptio servitutis o deductio servitutis, quando il
proprietario di due fondi, nell’alienarne uno mediante mancipatio, d’accordo con
l’acquirente costituiva tra essi servitù a carico del fondo che alienava e in favore di quello
che tratteneva. Si ammise anche in seno a traditio. Si poteva costituire anche mediante
adiudicatio, rientrando tra i poteri del giudice dei giudizi divisori. Altra costituzione era il
legato per vindicationem, che presupponeva che il legatario fosse proprietario di un fondo
e che l’altro fondo destinato ad essere servente fosse del testatore e da costui si
trasmettesse all’erede o ad altro legatario per vindicationem. Non poteva costituirsi
mediante traditio in quanto si trattava di res incorporales. Non si aveva per usucapione,
seppure una lex Scribonia lo vietò, presupponendo che in origine fosse possibile: ciò
rimase fino ad età classica e subì modifiche con Giustiniano. La servitù poteva
estinguersi: per confusione (quando due fondi appartenevano allo stesso proprietario), per
rinuncia, o remissio servitutis (mediante in iure cessio) e per non usus (mancato esercizio
continuato per due anni). In merito al non usus si distinse tra servitù rustiche e servitù
urbane: in quanto negative queste ultime, l’estinzione sarebbe stata determinata dal
comportamento incompatibile nell’esercizio della servitù del dominus del fondo
dominante. Si parlò di usucapio libertatis: il proprietario del fondo gravato usucapisce
dopo due anni la libertà del fondo liberandolo dalla servitù. Con Giustiniano fu sostituito
dalla longi temporis praescriptio. A difesa della servitù giovava la vindicatio servitutis, la
Le persone giuridiche

cui formula veniva ogni volta adattata in base al tipo di servitù. Venne definita anche
actio confessoria, per distinguerla dall’azione negatoria, che ne era l’opposto. In merito ai
fondi provinciali si parlò di actio in rem in factum, ma quando con Giustiniano vennero
assimilati ai fondi italici, l’azione non verrà più distinta da azione confessoria.

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5.5 L’usufrutto
È un diritto reale limitato di godimento, ossia un diritto soggettivo reale di usare e
percepire i frutti di una cosa altrui senza alterarne la destinazione economica. Il titolare è
detto usufruttuario, il proprietario della cosa gravata, nudo proprietario. Esso nacque
come diritto autonomo nell’ambito dei matrimoni sine manu, per cui la moglie, non
entrando a far parte della famiglia del marito, avrebbe alla di lui morte lasciato l’eredità
alla sua famiglia d’origine. Per preservare il patrimonio ai figli e garantire alla vedova
esistenza dignitosa, si diede a questa usufrutto di alcuni beni sì che ne godesse in vita e li
trasferisse ai figli post mortem. Fu tutelato da vindicatio nel ius. Fu anche annoverato
come servitus, servitù personale. Oggetto dell’usufrutto potevano essere cose mobili e
immobili, mancipi e nec mancipi, purché inconsumabili e fruttifere, quindi res
corporales. Il titolare poteva anche legare l’usufrutto di tutti i propri beni. L’usufruttuario
poteva usare la cosa gravata e percepirne i frutti, che divenivano suoi dal momento
dell’effettiva percezione. Gli acquisti dello schiavo gravato da usufrutto andavano
all’usufruttuario se dipendevano dall’esborso di questo o dall’attività lavorativa del servo,
altrimenti al nudo proprietario. Egli doveva inoltre a sue spese fare manutenzione della
cosa gravata, affinché non perisse e non si deteriorasse, e non poteva cambiarne la
destinazione. A garanzia dell’adempimento degli obblighi all’usufruttuario si imponeva la
prestazione della cautio fructuaria, una stipulatio pretoria con la quale egli prometteva al
nudo proprietario la restituzione della cosa gravata allo scadere dell’usufrutto e di
utilizzarla secondo criteri di correttezza. L’usufrutto era a carattere personale: era
inalienabile e intrasmissibile agli eredi. Poteva essere ceduto, ma l’usufruttuario rimaneva
tale e si sarebbe estinto con la sua morte. Aveva una durata limitata nel tempo e doveva
estinguersi, se in favore di civitates, non oltre i cento anni dalla sua costituzione. Il primo
modo di costituzione fu il legato per vindicationem, oltre che la in iure cessio sulla base
di vindicatio usus fructus e audicatio e deductio. L’audicatio si aveva con azioni divisorie
se il giudice lo riteneva opportuno e la deductio quando taluno, nell’alienare la cosa
propria con mancipatio e in iure cessio, tratteneva l’usufrutto. Scomparse mancipatio e in
iure cessio, le altre due furono possibili in seno alla traditio. L’usufrutto si poté costituire
con pactio et stipulatio, fino ad età classica, limitatamente ai fondi provinciali e con
effetti iure honorario. Non si costituiva con traditio perché era res incorporales né per
Le persone

usucapione. Giustiniano estese all’usufrutto la longi temporis praescriptio con effetti


acquisitivi. L’usufrutto si estingueva alla morte dell’usufruttuario. A questa era equiparata
la capitis deminutio, anche minima fino a età classica e solo maxima e media nel diritto
giustinianeo. Poteva estinguersi anche prima della morte con l’avveramento della
condizione risolutiva o la scadenza del termine finale se pervenuto, con il perimento della
2

cosa, con la trasformazione della sua destinazione economica, con la rinuncia, con la
consolidazione, quando l’usufruttuario acquisiva la proprietà o il proprietario l’usufrutto e
per non usus, di un anno per i mobili e due per gli immobili. Al non usus si affiancò e poi
sostituì la longi temporis praescriptio. A difesa dell’usufruttuario impedito nell’esercizio
vi era la vindicatio usus fructus, un’azione con struttura simile a quella delle
vindicationes di servitù. Regime analogo aveva l’actio in rem che si dava per l’usufrutto
costituito con pactio et stipulatio su fondi provinciali, divenendo con Giustiniano tutt’uno
con l’azione confessoria.

5.6 Il quasi usufrutto


Con riguardo al legato di usufrutto di tutti i beni del testatore, un senatoconsulto stabilì
quali possibili oggetti di usufrutto tutte le cose che a quel patrimonio appartenessero,
anche denaro e cose consumabili, con la sola condizione che il legato doveva far obbligo
di restituire tutto al termine dell’usufrutto, anche le cose consumabili secondo
equivalente. Sulle cose consumabili acquistava proprietà con obbligo di restituirle. Venne
chiamato quasi usufrutto.

5.7 L’usus
Diritto reale di godimento di cosa altrui era l’usus, che dapprima riguardò solo cose
infruttifere, poi tutte le altre. Il titolare, l’usuario, aveva diritto di utilizzare direttamente e
personalmente la cosa gravata ma non di percepirne i frutti: l’usuario di un animale ne
utilizzava la forza lavoro e non i prodotti, quello di un edificio poteva abitarvi, quello di
un fondo rustico consumarne i frutti per la sussistenza quotidiana e quello di schiavi
utilizzarne le operae. Non era divisibile, in quanto più usuari l’avrebbero utilizzato
unitariamente sull’intero bene. Il regime per il resto era uguale a quello dell’usufrutto.
Venne inquadrato come servitus, tra le servitù personali
Le persone giuridiche

5.8 Il diritto di superficie


Il proprietario del terreno non poteva non essere al contempo proprietario della superficie:
esemplare era il caso di costruzione su suolo altrui (inaedificatio). Nulla impediva di dare
in locazione o vendere la superficie, attraverso contratti che costituivano solo un diritto di

2
credito al godimento dell’edificio già esistente o da lui stesso costruito, perché locazione
e vendita erano produttivi solo di effetti obbligatori: sull’edificio il superficiario non
avrebbe acquistato proprietà né un diritto reale. Il pretore ritenne doveroso assegnare al
superficiario una tutela ulteriore rispetto a quella che gli derivava dai contratti di
locazione e vendita, una tutela di tipo possessorio, con l’interdictum de superficibus
contro turbative al godimento della superficie provenienti anche da terzi e per il recupero
della superficie contro l’autore dello spoglio. In età classica, si intervenne con un’azione
in factum contro chiunque tenesse il godimento della superficie al posto del superficiario.
Pertanto, venne considerato come un diritto reale limitato di godimento di cosa altrui,
ammettendone la trasmissione mortis causa e inter vivos, l’usufrutto e la servitù, l’operis
novi nuntiatio e la cautio damni infecti. Il corrispettivo o canone, generalmente annuale,
cui era tenuto il superficiario era il solarium. In età giustinianea, tale proprietà fu
assimilata all’enfiteusi.

5.9 Gli agri vectigales


Le terre pubbliche che venivano date in concessione a privati erano chiamate agri
vectigales, dal nome del vectigal, il compenso che il concessionario era tenuto a pagare.
Egli era chiamato possessor e tutelato con interdicia contro turbative e spossessamenti.
Le concessioni erano soggette a termine, revocabili per mancato pagamento, qualificate
come locazioni, sebbene nel caso di concessioni perpetue si parlò di vendita. Nel I sec.
a.C. il pretore concesse una tutela mediante azione reale per il recupero del possesso. Si
qualificò come ius, trasmissibile mortis causa e inter vivos e sul quale si potevano
costituire diritti reali limitati in favore dei terzi. Al concessionario si concedettero anche
azioni proprie del dominus. Si configurò il ius in agro vectigali, un diritto reale di
godimento su cosa altrui, sempre revocabile per mancato pagamento.

5.10 L’enfiteusi
In età postclassica vennero meno le concessioni degli agri vectigales e si svilupparono
altri tipi di concessioni: il ius perpetuum e il ius enphiteutitcum. L’enfiteusi venne
Le persone

considerata un tertium genus rispetto a vendita e locazione e si estese alle terre in


proprietà privata. Riformata da Giustiniano, si stabilì che l’enfiteuta, tenuto al
miglioramento del fondo e obbligato al pagamento del canone, potesse alienarlo,
preferendo però il concedente, al quale comunque spettava il 2% della vendita o del
valore del fondo. Si estingueva per mancato pagamento del canone o dell’imposta
2

fondiaria, per mancanza verso il concedente e per confusione. Venne considerata come
diritto reale di godimento su cosa altrui, estendendo ad essa il regime classico dell’ager
vectigalis.

5.11 Pegno e ipoteca


Sono considerati diritti reali di garanzia, che davano al creditore il diritto di rivalersi su
una cosa altrui in caso di inadempimento. Si distingue tra datio pignoris e conventio
pignoris. La datio pignoris era il pegno manuale, ossia la consegna di una cosa al
creditore in modo che la tenesse fino a che il debito non sarebbe stato estinto. Non
comportava però trasferimento di proprietà. La conventio pignoris era un patto tra
creditore e debitore, con cui non vi era passaggio di proprietà, ma di possesso, dal
debitore al creditore, finché non avesse estinto il debito. Era un possesso ai fini della
tutela con gli interdetti possessori. Nel I sec. a.C. si concesse l’interdictum Salvianum,
contro il conduttore di fondi rustici che non avesse pagato la mercede convenuta.
Conferiva il possesso degli invecta et illata, attrezzi da lavoro e altro, che convenivano in
pegno come garanzia del pagamento futuro. Si concesse anche l’interdictum de migrando,
a favore del conduttore di immobili urbani ostacolato dal locatore che gli impedisse di
portare via dall’alloggio le cose ivi immesse: prevedeva il corretto pagamento del canone
e che le cose non fossero in pegno. Al creditore pignoratizio si diede inoltre l’actio
Serviana, in factum e di natura reale, esperibile contro il possessore attuale della cosa,
non importa se debitore o terzo, diretta al conseguimento del possesso. Venne detta anche
vindicatio pignoris. Il pegno è dunque diritto reale di garanzia. Il pegno venne inoltre
considerato come istituto unitario e spesso indicato con il termine greco hypotheca. Era
validamente costituito da chi avesse la cosa in bonis, sia dal proprietario quiritario sia da
quello pretorio. Il possesso acquistato dal creditore era utile alla difesa possessoria
interdittale ma non ne consentiva il godimento né l’uso: sarebbe stato accusato di furto.
Per quanto concerne i frutti, avrebbe potuto percepirli. Dall’ultima età repubblicana si
ritennero validi ed efficaci il patto commissorio, per cui, inadempiente il debitore, il
creditore acquistava la proprietà della cosa pignorata e il patto che permetteva al creditore
di vendere secondo ius vendendi la cosa pignorata, soddisfarsi col ricavato e restituire al
debitore quanto avesse ricavato in più del debito. Il patto commissorio fu abolito da
Le persone giuridiche

Costantino, mentre lo ius vendendi divenne elemento essenziale del pegno, escluso solo
da patto contrario. Circa gli effetti della vendita, bisogna dire che il creditore veniva
autorizzato ad alienare la cosa ma non a manciparla, quindi venderla tramite traditio: in
caso di res mancipi, il compratore ne avrebbe acquistato possesso ad usucapionem e
quindi proprietà pretoria, mentre proprietà quiritaria in caso di res nec mancipi. Nel caso

2
in cui non si trovasse un compratore, il creditore aveva il diritto di acquistare la proprietà
del pegno previa istanza rivolta all’imperatore. La conventio pignoris non trasferiva
immediatamente il possesso e poteva accadere pertanto che la cosa fosse in pegno a più
creditori in tempi e per obbligazioni diversi: si aveva un rango di precedenza tra questi
secondo il criterio prior in tempore potior in iure, ossia precedente nel tempo prevalente
nel diritto. Di rango maggiore non era il creditore col debito più antico, ma quello presso
il quale l’ipoteca fosse stata convenuta prima. Ai creditori di grado inferiore, era concesso
il ius offerendi: offrendo quanto dovuto al creditore di grado superiore, quello di grado
inferiore gli subentrava nel rango. Il pegno si estingueva per adempimento, per perimento
della cosa che ne era oggetto, per confusione, per vendita in esecuzione del ius vendendi e
per inadempimento, fino a Costantino, col patto commissorio. La rinuncia del creditore
avveniva per effetto dell’exceptio pacti conventi, opponibile all’azione Serviana.
Subentrò con Giustiniano la longi temporis praescriptio, come modo di estinzione della
garanzia.

5.12 Il possesso
Nell’ambito delle terre pubbliche, i concessionari erano detti possessores, il loro potere
possessio e l’esercizio di questo possidere. A questi, il pretore riconobbe provvedimenti
utili, gli interdicia, contro molestie e spossessamenti. Vennero estesi a quanti avessero
l’usus di un immobile ai fini dell’usucapione, o lo tenessero come proprio. Si estese anche
ai precaristi, a creditori pignoratizi, a sequestratari e a quanti tenessero bene mobile. Il
regime del possesso andò quindi oltre la sua originaria definizione, per motivi di
opportunità: si doveva assicurare la difesa possessoria e attribuire relativa qualifica a
soggetti che avessero in ordine alla cosa o in forza di posizione indipendente il controllo.
Erano esclusi coloni, inquilini, soggetti a contratto di locazione, depositari, comodatari,
usufruttuari, servi e filii familias: il possesso vero e proprio era tenuto rispettivamente da
locatore, deponente, comodante, nudo proprietario, dominus e pater familias. tali soggetti
vennero definiti detentori: esercitavano il naturalis possidere e avevano naturalis
possessio, un possesso quindi senza gli effetti giuridici propri di questo.
Le persone

5.12.1 Gli interdetti possessori

I soggetti che tenevano una vera possessio erano tutelati dagli interdicta, volti o alla
conservazione o al recupero del possesso. Quelli volti alla conservazione – la nostra
2

azione di manutenzione – erano proibitori.

 Interdictum uti possidetis: riguardava gli immobili, e faceva cessare turbative e


molestie, se esperita entro l’anno dal giorno del loro inizio. Godeva di exceptio
vitiosae possessionis, per cui tra i due litiganti prevaleva chi aveva iusta possessio,
ossia possedeva senza vizi l’immobile, dunque in modo non violento, non
clandestino, non precario. Chi aveva possesso con violenza, clandestino o precario
godeva di difesa possessoria non però nei confronti di chi aveva spossessato e del
concedente. Il concedente, con atto di autotutela, poteva riprendere il possesso
della cosa data in precario togliendola al precarista, se necessario anche con la
forza. E così analogamente gli altri.

 Interdictum unde vi: riguardava le sole cose mobili, si dava entro l’anno a chi
avesse subito spoglio violento del possesso ed era volto al recupero del possesso.
La nostra azione di reintegrazione. Valeva il principio di possessor iustus.

 Interdictum de vi armata: era senza limiti di tempo e spettava alla vittima di


spoglio violento da parte di banda armata. Non valeva il principio del possessor
iustus, pertanto poteva prevalere anche il possessor iniustus. Giustiano soppresse
nell’unde vi l’exceptio vitiosae possessionis, con l’intento di assimilarlo al de vi
armata.

5.12.2 Possesso e proprietà

Tra i possessori legittimati all’esercizio degli interdetti a difesa del possesso vi furono
coloro che tenevano la cosa uti dominus, come se fossero proprietari: il possesso, ora, era
uno stato di fatto e prescindeva dunque dal corrispondente stato di diritto. Il possessore
uti dominus era protetto sia che fosse effettivamente proprietario della cosa posseduta, sia
che non lo fosse, e sia contro terzi che contro il proprietario che avesse violato il suo
possesso. La questione andava risolta in sede di rivendica: il dominus non possessore, per
avere il possesso, avrebbe dovuto ricorrere alla rivendica. Se avesse sottratto la cosa vi
aut clam o in via di autodifesa, avrebbe anzitutto dovuto ripristinare lo stato di fatto quo
ante, costrettovi all’occorrenza con taluno degli interdetti a difesa del possesso.
Assolvevano quindi una funzione di mantenimento della pace e dell’ordine sociale.
Le persone giuridiche

5.12.3 Possessio ad usucapionem e possessio ad interdicta

Il possesso era uno stato di fatto che dava luogo a un altro effetto di assai rilevante
significato: l’usucapione. Non riguardava tutti i possessori, ma solo quelli uti dominus
con animus domini, gli stessi che, in presenza dei requisiti adatti, col decorso del tempo,

2
se non proprietari, lo sarebbero diventati. Si parla di possessio ad usucapionem, che si
distingue dal possessio ad interdicta. Rispondevano ad esigenze diverse: di mantenimento
dell’ordine sociale uno e di garantire quanti si curano dei loro affari piuttosto che quanti li
trascurano l’altro. Con ciò, i Romani poterono risolvere anche problemi inerenti alla
titolarità del dominium. La cerchia dei possessores poteva essere diversa in base a un
effetto o l’altro: quelli uti domini possedevano sia ad usucapionem che ad interdicta,
mentre gli altri solo ad interdicta. Nel caso di pegno o precario, chi li dava manteneva
possesso ad usucapionem, mentre il creditore o il precarista acquistavano il possesso ad
interdicta. Nel caso di sequestro, il possesso ad usucapionem non spettava a nessuno e
quello ad interdicta al sequestratario. Non si ebbe pertanto concezione unitaria del
possesso: si parlò di possessio civilis, quindi quella ad usucapionem, che si oppone al
possessio naturalis, quello dei detentori.

5.12.4 Corpus possessionis e animus possidendi. Acquisto, conservazione


e perdita del possesso
Si riconobbe che chi avesse la possibilità di disporre della cosa, non potesse prescindere
dall’intenzione di tenere la stessa cosa per sé. Si individuò nel possesso un corpus
possessionis e un’animus possidendi: il corpus possessionis venne riconosciuto a quanti
avessero un contatto materiale con la cosa ma anche a quanti ne avessero la disponibilità.
L’animus possidendi non fu inteso in sé come animus domini (intenzione di tenere la cosa
come proprietario), ma come intenzione di tenere la cosa per sé, nel proprio interesse in
maniera indipendente: fu proprio di coloro che tenevano la cosa come proprietari, ma
anche di creditori pignoratizi, sequestratari, precaristi e possessori di terre pubbliche.
Altro significato si ebbe in materia d’acquisto, conservazione e perdita del possesso:
questo si acquistava dal momento in cui taluno, con l’intenzione di tenerla per sé, aveva
possibilità di possedere la cosa, si conservava finché questa possibilità perdurava senza
smettere l’animus e si perdeva alla perdita di uno dei due componenti del possesso. A
Roma vigeva il principio per cui non aveva effetto l’inversione del possesso senza
intervento di un’altra persona o senza manifestarsi esterno. Chi aveva iniziato a tenere
una cosa in forza di un titolo, di una causa, non poteva pretendere di possederla ad altro
titolo per aver mutato il proprio animus.
Le persone

5.12.5 L’oggetto del possesso

Il possesso di una cosa composta non comportava il possesso delle parti che la
costituivano, sicché il possessore dell’intero, dopo l’unione, non le avrebbe usucapite. Il
possesso riguardava soltanto res corporales e non res incorporales: per tale motivo, si
2

negò il possesso nei casi di usufrutto e servitù. Il diritto di proprietà, poi, non fu mai
riconosciuto come ius: esso si identificava con la cosa che ne era oggetto e, pertanto, chi
teneva la cosa come propria, possedeva direttamente la cosa stessa. Viceversa, quanti
esercitavano usufrutto e servitù non furono ritenuti proprietari, in quanto lo erano il nudo
proprietario e quello del fondo servente. Negare il possesso significava negare a quanti
esercitassero usufrutto e servitù la difesa interdittale possessoria. Nella prima età classica,
si concessero a questi gli interdetti uti posseditis e unde vi che, per la mancanza di
possesso, non potevano competere loro in via diretta e tutelò con speciali interdicta per
più versi simili all’uti possidetis coloro che esercitavano talune servitù. Non si trattava di
interdetti propriamente possessori, sicché usufrutto e servitù vennero annoverate come
quasi possessio. Tuttavia, più tardi si parlò di possessio iuris, ossia possesso di diritti.
Successivamente, per intervento diretto di Giustiniano, usufrutto e servitù si ammisero
con la difesa possessoria. In età medievale e moderna si arrivò ad avere concezione
unitaria del possesso come esercizio di fatto del diritto di proprietà o di un altro diritto
reale e come somma di corpus e animus.
Le persone giuridiche

2
6. Le obbligazioni

6.1 Il concetto di obligatio


Per obbligazione si intende il vincolo giuridico (non materiale) per cui un soggetto, detto
debitore, è tenuto a un determinato comportamento nei confronti di un altro soggetto,
detto creditore. Tale comportamento è la prestazione che consiste in un comportamento
determinato che può essere un comportamento positivo: il debitore deve fare qualcosa,
talché la realizzazione del credito esige la collaborazione del debitore. Può darsi il caso di
più debitori o più creditori, a patto che essi siano persone determinate, esattamente
individuate: l’azione che si persegue è infatti in personam. Il diritto di credito inoltre è un
diritto relativo in quanto esercitabile appunto su una o più parti determinate. Il debitore
inadempiente, se l’inadempimento è imputabile a lui, incorre nella responsabilità, ossia
nella posizione di dover rendere conto ed essere eventualmente esposto a sanzione. Tale
concetto fu originariamente sviluppato in età arcaica e si consolidò definitivamente nei
primi tempi del principato.

6.2 Genesi e storia dell’obligatio


Nacque a Roma nell’ambito degli atti leciti, ma trovò iniziale sviluppo di base con gli atti
illeciti. L’unico tipo di reazione pensato e ammesso era quello della vendetta: l’offensore
doveva essere punito. La pena era corporale, nei casi più gravi implicava l’uccisione, ed
era per mano del pater familias della famiglia dell’offeso. Si aveva quindi
impossessamento immediato dell’offensore. Non v’è traccia di prestazione, ma l’azione
dell’offensore dava sicuramente luogo ad una mera responsabilità. È facile supporre che
l’offeso potesse rinunziare alla vendetta, nel caso in cui l’offensore offrisse di pagare una
Le persone

composizione pecuniaria, che l’offeso non poteva rifiutare. La somma di denaro era
chiamata comunque poena ed era un riscatto, in termini attuali, un onere. Non era
un’obbligazione perché la pena non era una prestazione cui l’offensore fosse tenuto. Né
l’offeso poteva pretenderla: egli era solo legittimato a procede all’assoggettamento
qualora non si fosse avuta composizione pecuniaria. Si svilupparono però prima delle
2

figure diverse, non propriamente di obbligazioni:

→ Nexum: era un atto che si compiva con l’intervento di cinque testimoni cittadini
romani puberi e di un libripens con bilancia. Ci si ricorreva in caso di prestito di
denaro, o comunque di metallo usato come merce di scambio. Avveniva pertanto
una pesatura, effettiva ma più spesso simbolica. Creditore e debitore dovevano
essere presenti: il primo pronunciava parole solenni, con le quali affermava il
potere che si andava a costituire sull’altra parte. Contemporaneamente ne faceva
atto di apprensione. Il debitore, divenuto nexus, pur restando persona libera, era
assoggettato al creditore, il quale lo teneva presso di sé, esercitava materiale
coercizione, punizioni corporali, e lo utilizzava per attività lavorative, fin quando
con il lavoro non avesse estinto il debito, o quando un terzo o lo stesso nexus non
avrebbe pagato il debito. Per liberarlo si ricorreva alla solutio per aes et lobram,
cui il creditore soddisfatto non poteva sottrarsi: così si tutelavano gli abusi contro i
nexi. Era un potere diretto e immediato su una persona, un vincolo attuale,
materiale, non soltanto giuridico, potenziale. Fu abolito dalla lex Poetelia Papiria,
del 326 a.C., successo dei plebei contro i patrizi.

→ Praedes e vades: sono le figure più antiche con funzione di garanti. Ai praedes si
ricorreva nei rapporti tra privati nella legis actio sacramenti in rem per garantire
che la parte cui il pretore avesse assegnato il possesso della cosa controversa in
maniera provvisoria la restituisse con i suoi frutti in caso di soccombenza. Ai
vades si ricorreva invece pure nelle legis actiones per garantire la ricomparsa in
giudizio della parte convenuta quando l’udienza era rinviata ad altro giorno.
Sembra che le formalità fossero verbali secondo lo schema di domanda e risposta
positiva. Ma non da queste due figure il creditore attendeva il comportamento
idoneo al risultato ma dall’avversario in giudizio. Essi erano soltanto garanti di un
fatto di un terzo. Si parla di obbligazioni affermando che di fronte a un creditore
nel quale nasceva un’aspettativa a una prestazione stavano distintamente un
debitore e uno o più responsabili, contro cui il creditore si rivolgeva in caso di
inadempimento. Debito e responsabilità erano quindi in capo a figure differenti.

→ La sponsio: era il negozio più antico dalla struttura uguale a quella


dell’obbligazione classica. Giuridicamente rilevante e tutelata dalle XII Tavole, a
Le persone giuridiche

questa partecipavano un interrogante e un promittente, il quale restava vincolato


alla promessa quale prestazione futura e ne era responsabile in caso di
inadempimento.

I procedimenti della sponsio finirono per essere assimilati anche ad altri rapporti di atti
leciti. Ma già in età repubblicana iniziarono ad essere annessi agli atti illeciti, dove la

2
pena pecuniaria poteva essere considerata alla stregua di contenuto della prestazione, alla
quale era tenuto il debitore verso il creditore, il quale poteva da lui pretenderla. Si tratto
però di una pratica adoperata per fenomeni eterogenei. Quanto alla responsabilità, la
soggezione della procedura esecutiva si andò atteggiandosi diversamente: agli inizi, il
responsabile era soggetto ad una sorta di sottomissione al creditore, che col tempo andò
alleggerendosi. Il creditore poteva agire infatti tramite esecuzione patrimoniale,
assoggettando non più la persona quanto il suo patrimonio. All’esecuzione personale si
ricorreva solo nei casi in cui il debitore fosse stato del tutto privo di mezzi.
L’obbligazione divenne quindi un vincolo relativo al patrimonio, un vincolo materiale
come ci fa comprendere la parola da cui il termine obligatio deriva: ligatio.

6.3 Obbligazioni civili e onorarie


Per indicare il vincolo giuridico nascente dalla sponsio, si parlò di opotere, ossia della
necessità per l’obbligato di adempiere alla prestazione. A differenza che per i diritti reali,
il punto di vista non era quello del creditore, bensì del debitore gravato da un obbligo nei
confronti del creditore. L’opotere non era qualificato come ex iure Quiritium, ma quello
delle azioni in personam dava certamente origine all’esistenza di un vincolo di ius civile.
Da età preclassica, il pretore concesse azioni in factum che si basavano su circostanze di
fatto: non v’era intentio che esprimesse un opotere. la parte obbligata era tenuta in virtù di
un’azione: non si parlò di obligatio, ma solo di actione teneri. In età classica la
terminologia fu estesa anche ai rapporti di diritto onorario.

6.4 Obbligazioni naturali


A ogni obligatio corrispondeva un’azione in personam. Tuttavia si parlò di obligationes
anche in relazione a rapporti non sanzionati da actiones: si trattava di obligationes
naturales, tali più in punto di fatto che in punto di diritto. Le altre obbligazioni vere e
proprie furono dette civili, non in relazione al ius civile, ma perché sanzionate da
actiones. Il difetto d’azione – per cui il debitore non avrebbe potuto essere costretto
all’adempimento – era il non effetto dell’obbligazione naturale. l’effetto primo era la
Le persone

soluti retentio, per cui il creditore avrebbe potuto trattenere quanto adempiuto
spontaneamente e non sarebbe stata proponibile la condictio indebiti, la prestazione di un
indebito. Altri effetti erano che poteva essere oggetto di novazione, valutabile ai fini della
condensazione, costituibile con essa garanzie reali e personali. Di obbligazioni naturali si
iniziò a discorrere in età classica anche per i debiti da atto lecito assunti da persone
2

diverse dal dominus, come il servo, e per quelli contratti dai pupilli senza auctoritas del
tutore. Si parlò di obbligazioni naturali quando, pur mancando un qualsiasi negozio di per
sé idoneo a produrre obbligazioni, si ritenne l’esistenza di doveri morali degni di esser
considerati. Vi si attribuì solo la soluti retentio: niente azione contro l’obbligato ma solo
esclusione di condictio indebiti se avesse adempiuto spontaneamente. Ancora oggi si
discorre di obbligazioni naturali con riferimento a doveri morali e sociali, con la
conseguenza dell’irripetibilità di quanto spontaneamente prestato.

6.5 I possibili contenuti delle prestazioni


Il punto di vista dei Romani riguardava principalmente il processo e non il diritto
sostanziale. Pertanto, quando si andarono configurando i contenuti delle prestazioni si
fece riferimento alle formule delle azioni in personam in ius, che prevedevano un dare
opotere, un dare facere opotere, un praestare opotere e un dare facere praestare opotere.
Pertanto, i contenuti furono:

→ Dare: in accezione tecnica, venne inteso come un trasferire la proprietà o un altro


diritto reale. Non bastava dunque dare rem, ma bisognava che se ne facesse
mancipatio, in iure cessio o traditio, con l’acquisto da parte del creditore della
proprietà o di un altro diritto reale. Non bastava l’atto ma si necessitava
dell’effetto. Inadempiente sarebbe stato il debitore che compiva l’atto senza essere
proprietario della cosa. Il creditore acquistava anche il possesso.

→ Facere: era ogni comportamento diverso dal dare, che poteva essere un’attività
materiale o un compimento di un negozio giuridico. Vi rientrava anche il non
facere.

→ Preastare: non è chiaro il suo significato, che era però relativo a ogni possibile
prestazione e dal quale derivano i termini giuridici attuali “prestare” e
“prestazione”.
Le persone giuridiche

6.5.1 I requisiti della prestazione


La prestazione doveva avere carattere patrimoniale, il creditore doveva avervi interesse, il
debitore non poteva essere tenuto per il fatto altrui, la prestazione doveva essere possibile,
lecita, determinata e determinabile. I requisiti erano quindi:

2
 Carattere patrimoniale: la condanna doveva essere suscettibile di essere valutata
in denaro. Il principio non è originario: nella più antica obligatio, il carattere era
personale e non patrimoniale, come dimostra la sponsio per la promessa di
matrimonio, ma con l’introduzione del processo formulare il carattere
patrimoniale fu imprescindibile.

 Stipulazioni penali: una parte prometteva all’altra tramite stipulatio di adempiere


ad una determinata prestazione entro i termini dalle parti concordati. In tal modo,
si aggirava il principio per cui la prestazione doveva essere suscettibile di
valutazione pecuniaria. In tal modo, si premeva sul debitore affinché compisse il
comportamento dovuto al creditore. Era una pena convenzionalmente stabilita,
ossia concordata preventivamente dalle parti e trovava la sua fonte nella stipulatio.
Il regime giuridico seguiva le regole proprie dell’obbligazione per atti leciti ed era
perseguibile con l’actio ex stipulatu, reipersecutoria.

 Interesse del creditore: il creditore doveva avere interesse nell’atto che generava
obbligazione. Da qui, il divieto di contratti in favore dei terzi: vi era divieto di
stipulatio in cui il debitore promettesse di compiere una prestazione in favore di
un terzo estraneo al negozio. Si determinava che il terzo non avesse azione per
l’adempimento e che non avesse azione neppure lo stipulante. Ciò fu motivato dai
giuristi con la necessità di un interesse del creditore all’adempimento della
prestazione, interesse non ravvisabile se per conto di un terzo. Si poteva ricorrere
anche a stipulazione penale, con la quale si eludeva il divieto di stipulationes in
favore di terzi perché la prestazione sarebbe stata di pagare allo stipulante
duecento a titolo di pena. Il resto era una condizione.

 La promessa del fatto altrui: ciò scaturiva dal fatto che debito e responsabilità
dovevano far capo alla stessa persona. Fu negata efficacia in favore dei terzi e non
si ritenne valida l’assunzione di un impegno che un terzo estraneo al negozio
tenesse un determinato comportamento. La prestazione doveva avere ad oggetto
un comportamento proprio del debitore. Questo principio poteva essere
neutralizzato tramite stipulazione penale, per cui una parte si facesse promettere
dall’altra una somma determinata di denaro se le sue aspettative non fossero state
soddisfatte.
Le persone

 Possibilità: la prestazione doveva essere possibile, pena la nullità del negozio.


L’impossibilità era iniziale, già verificata al tempo in cui si compiva il negozio.
La prestazione poteva essere impossibile materialmente o giuridicamente. Si
ritenne giuridicamente impossibile la prestazione di trasferire al creditore la
proprietà di una cosa non sua. La prestazione non era oggettivamente impossibile,
2

in quanto il debitore avrebbe potuto acquistare la proprietà e trasferirla. Se ciò non


fosse stato possibile, egli sarebbe rimasto obbligato. Dunque si faceva riferimento
all’impossibilità assoluta, non relativa.

 Liceità: la prestazione doveva essere lecita, pena la nullità. Non era lecita la
prestazione contraria al diritto oggettivo o al buon costume.

 Determinabilità: la prestazione doveva essere determinabile o determinata.


Poteva essere determinabile anche con rinvio a elementi esterni rispetto al negozio
che si compiva. Determinabile era la prestazione la cui precisazione fosse affidata
ad alcuna delle parti o a un terzo: la parte o il terzo avrebbe dovuto procedere con
arbitratus (o arbitrum) boni viri, col criterio cioè dell’uomo onesto, con senso di
giustizia e di equità e secondo i comuni metri di valutazione.

 Ab heredis persona obligatio incipere non potest: un’obbligazione non può avere
inizio dalla persona dell’erede. Essa rilevava in tema di stipulatio e di mandato e
comportava la nullità del negozio qualora esso fosse stato strutturato in maniera
che la relativa obligatio nascesse, dal lato attivo o passivo, direttamente in capo
all’erede di una delle parti. Si proposero però accorgimenti che, senza negare ciò,
lo eludevano. Si fece ricorso all’adstipulator e si ritenne valida una stipulatio per
la quale il promettente avrebbe adempiuto in punto di morte. Parimenti si ritenne
valido un mandato post mortem, purché si ravvisasse tale volontà in vita. Quando
Giustiniano abolì l’antica regola, la portata di essa era già stata svuotata di
significato.

6.6 Le obbligazioni indivisibili


La prestazione poteva essere frazionata in più prestazioni omogenee, come non esserlo:
nel primo caso si parla di obbligazioni divisibili e nel secondo di obbligazioni indivisibili.
Erano di regola divisibili le obbligazioni di dare, indivisibili quelle di facere. Erano
divisibili non solo quando vi era ad oggetto denaro o altre cose fungibili, ma anche
quando aveva ad oggetto una cosa individuata nella specie, persino se di per sé
indivisibile, poiché dare poteva intendersi nel senso di trasferire la proprietà, che poteva
realizzarsi mediante l’alienazione di una quota indivisa. L’obbligazione di dare sarebbe
Le persone giuridiche

stata indivisibile solo se fosse stata indivisibile non tanto la res quanto il diritto che era
oggetto della prestazione: erano indivisibili le obbligazioni di costituire una servitù o un
diritto reale di usus. Le obbligazioni indivisibili dunque non potevano essere adempiute
parzialmente: quando dovute quindi a più persone o da più persone si parla di
obbligazioni solidali elettive.

2
6.7 Le obbligazioni alternative
Ad ogni obbligazione corrispondeva una sola prestazione. Le obbligazioni alternative
erano obbligazioni con due o più prestazioni, in cui il debitore era liberato con
l’adempimento di una. La scelta tra le due poteva essere affidata al debitore stesso,
mentre al creditore spettava solo se così stabilito nell’atto costitutivo dell’obbligazione.
La scelta poteva essere cambiata fino al momento dell’adempimento se spettava al
debitore, contrariamente fino al momento dell’esercizio dell’azione contro il debitore
inadempiente. Con l’impossibilità di una delle prestazioni, l’obbligazione alternativa
cessava solitamente di essere tale, e il debitore era tenuto ad adempiere alla prestazione
rimasta possibile. Faceva eccezione il caso in cui, spettando la scelta al creditore,
l’impossibilità fosse dipesa dal debitore: il creditore avrebbe potuto scegliere tra la
prestazione rimanente possibile e la stima di quella ormai impossibile.

6.8 Le obbligazioni generiche


L’oggetto dell’obbligazione poteva risiedere in cose individuabili per l’appartenenza ad
un genus, a una categoria, sia cose determinate: nel primo caso si parla di obbligazioni
generiche, nel secondo di specifiche. Generiche erano le obbligazioni in cui la prestazione
avesse avuto ad oggetto cose fungibili. Poteva nascere sia da stipulatio che da legato per
damnationem. Era necessario, pena la nullità, che l’oggetto dell’obbligazione fosse
rigorosamente determinato. Il genus poteva essere più o meno ampio, più o meno
limitato. Quanto alla res, sui cui esercitare la scelta, non vi furono limitazioni
inizialmente: se la scelta spettava al debitore, tra cose di diverso genus, egli poteva
scegliere le peggiori, se eccezionalmente spettava al creditore le cose migliori. Sorse più
tardi il principio per cui andavano scelte cose di medio valore. Caratteristica di queste
obbligazioni era che la prestazione non poteva divenire impossibile, in quanto il genus
non poteva perire. Questo era vero per un genus più ampio, non per quello alquanto
limitato.
Le persone

6.9 La responsabilità contrattuale


Il creditore che non adempie la prestazione viene considerato, se a lui imputabile
l’inadempimento, soggetto a responsabilità contrattuale.
2

→ Factum debitoris: nelle obbligazioni di dare cose determinate, sanzionate da


azioni di stretto diritto, il debitore rispondeva di responsabilità se l’impossibilità
della prestazione dipendeva da un suo comportamento attivo e cosciente (factum
debitoris), non importa se voluto o non.

→ Custodia: quando il debitore teneva a proprio vantaggio una cosa altrui, il debitore
rispondeva per custodia, soggetta a un regime molto rigido: egli era considerato
libero solo nel caso in cui la cosa fosse perita o la prestazione diventasse
impossibile per caso fortuito o di forza maggiore, sfuggente quindi al controllo del
debitore. Egli era responsabile anche in caso di furto della cosa.

→ Il dolo: il depositario, in tal caso, rispondeva non per custodia, ma per dolo, in
quanto la detenzione era a vantaggio del deponente, non del depositario.
Rispondeva ai criteri della relativa actio in factum. Il dolo non era l’inganno e
neppure un comportamento iniquo, ma la volontarietà del comportamento e la
volontarietà dell’evento dannoso. Commetteva dolo il depositario che
volontariamente avesse provocato perimento della cosa depositata.

→ Il dolo e la colpa: nell’ambito dei iudicia bonae fidei, la discrezionalità del


giudice permetteva di adattare la responsabilità al caso specifico. Comparve
dunque il regime della colpa, intesa come comportamento negligente e
imprudente. La culpa aveva diverse gradazioni: poteva essere culpa lata, la più
grave, nella quale incorreva il debitore che non intendeva ciò che tutti
intendevano, e aveva effetti uguali al dolo. A questa veniva contrapposta la culpa
levis, che consisteva nel non adoperare la diligenza propria dell’uomo medio. Era
anche detta culpa in abstracto, contrapposta alla culpa in concreto, quella di chi
non cura le cose altrui come fossero proprie. Al regime della colpa si assimilarono
i criteri del factum debitoris e della custodia. Dunque si fondò tutto su dolo e
colpa, facendo riferimento al regime del diritto moderno.

→ Esonero, limitazione e aggravamento della responsabilità: ai criteri di


imputazione dell’inadempimento si poteva, nelle obbligazioni contrattuali,
derogare con patto contrario, ossia ad esempio limitare al dolo la responsabilità
del comodatario (responsabile per custodia). Sarebbe stato nullo il patto che
esonerasse il debitore anche per dolo.
Le persone giuridiche

→ Il periculum: il rischio dipendente da un evento pregiudizievole per taluno e non


imputabile a nessuno è detto periculum. Nel caso di perimento della res, la regola
era che esso fosse a carico del proprietario. Mentre, nel caso di rapporti
obbligatori, il periculum era solitamente a carico del creditore, non importa se
proprietario o non della cosa. Nei contratti bilaterali, estinta l’obbligazione di una

2
parte per impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore
della stessa, l’altra parte era comunque dovuta alla prestazione.

→ La perpetuatio obligationis: contro il debitore cui fosse imputabile l’impossibilità


sopravvenuta, si esercitava l’azione propria dei rapporti tra le parti, la perpetuatio
obligationis, che affermava che, divenuta impossibile la prestazione per causa
imputabile al debitore, l’obbligazione si sarebbe perpetuata. L’azione era la stessa
sia che la prestazione fosse ancora possibile sia che non lo fosse più, poiché la
condanna era sempre pecuniaria.

6.10 La mora
Il ritardo colpevole nell’adempimento di una prestazione si identificava come mora.
Poteva essere imputabile al debitore (mora solvendi) o al creditore (mora accipiendi). Il
debitore cadeva in mora quando, consapevolmente e senza giustificazione, non adempiva
al proprio debito. Dunque si invitava, di prassi, il debitore ad adempiere nell’interpellatio,
che successivamente divenne regola giuridica. Era superflua in due casi:

 Obbligazioni con termini iniziali previsti dal negozio dell’obbligazione.

 Obbligazioni nascenti da furto.

Il debitore in mora era comunque ritenuto responsabile per l’impossibilità sopravvenuta


della prestazione, indipendentemente dalla causa: il periculum sarebbe stato comunque a
suo carico. Si procedeva a perpetuatio obligationis: se il debitore fosse stato in mora,
divenuta impossibile la prestazione, l’obbligazione si sarebbe perpetuata. Poteva ritenersi
libero il debitore che avesse provato che, avvenuta la prestazione, la cosa sarebbe perita
comunque. Si affermò anche il principio per cui il debitore moroso deve corrispondere al
creditore anche i frutti della cosa dovuta al momento della caduta in mora; nel caso di
debiti pecuniari, gli interessi cosiddetti morosi. Le conseguenze della mora venivano
meno quando il debitore si fosse offerto di adempiere alla prestazione. Cadeva in mora il
creditore che rifiutava di accettare la prestazione offerta dal debitore. Sopraggiunta
l’impossibilità, il debitore era responsabile unicamente per dolo. Si applicò alle
obbligazioni generiche e a quelle pecuniarie. Se il debitore offriva di pagare specificando
Le persone

le cose offerte e il creditore non accettava, nel caso in cui le cose fossero perite per cause
indipendenti dal dolo del debitore, questi era liberato. Nei giudizi di stretto diritto, tramite
exceptio. Per le obbligazioni pecuniarie, se il debitore avesse depositato la pecunia in
maniera riconoscibile in luogo pubblico, sarebbe cessato il corso di eventuali interessi.
Successivamente con Diocleziano, il debitore sarebbe stato liberato. Questa mora cessava
2

una volta che il debitore concretamente manifestava disponibilità ad accettare la


prestazione.

6.11 Le fonti delle obbligazioni


Sono quei fatti giuridici cui si riconosce l’efficacia di generare appunto obbligazioni, che
nel linguaggio latino vennero chiamate causae. Le obbligazioni erano tipiche, così come
tipiche erano le azioni che le sanzionavano. Le obbligazioni furono fatte derivare o da
contratto o da delitto: per contratto si intendeva l’atto lecito con effetti obbligatori e per
delitto l’atto illecito sanzionato da azioni penali. Tuttavia, i contratti non erano gli atti
leciti obbligatori ma soltanto i negozi giuridici almeno bilaterali nei quali era dato
ravvisare tra le parti un accordo volto a far nascere obbligazioni concordate dalle parti
stesse. Questa nozione venne sviluppata da Gaio, il quale si accorse però che questa fonte
così intesa mancava di una delle caratteristiche del contratto: la conventio, ossia
l’accordo. Dunque Gaio propose successivamente una tripartizione delle fonti:
contractus, delicta (anzi, maleficia) e variae causarum figurae, tra cui la solutio indebiti e
altri atti leciti con effetti obbligatori non classificabili tra i contratti per difetto d’accordo,
ossia il negotiorum gestio, tutela e legato e pure certi atti illeciti sanzionati da azioni
penali ma non gravi da esser considerati delitti. Così successivamente Giustiniano
propose una quadripartizione che aggiungeva a contratto e delitto le obbligazioni quasi ex
contractu, relative agli atti leciti obbligatori non contrattuali per difetto di consenso e le
obbligazioni quasi ex maleficio, relative agli atti illeciti meno gravi già sanzionati dal
pretore con azioni penali.

6.12 Il contratto
Un contratto è un negozio giuridico almeno bilaterale con effetti obbligatori, produttivo
dell’obbligazione, o delle obbligazioni concordemente volute dalle parti. I contratti erano
tipici, come tipiche erano le obbligazioni e le azioni che le sanzionavano. Esistevano
correttivi come nel caso della stipulatio in cui la tipicità risiedeva nella forma e non nel
Le persone giuridiche

contenuto. Da età postclassica, la tipicità subì ulteriori temperamenti, soprattutto in


seguito alla riforma della stipulatio voluta dall’imperatore Leone. Gli effetti del contratto
erano soltanto obbligatori. Effetti reali si riconoscevano ad altri negozi bilaterali come
mancipatio, in iure cessio, traditio.

Le categorie del contratto erano:

2
→ Contratto unilaterale e bilaterale: nel momento formativo dell’atto dovevano
essere presenti due o più parti. Dal punto di vista degli effetti, il contratto poteva
essere unilaterale o bilaterale: unilaterale nel caso in cui l’obbligazione sorgeva in
capo ad una sola parte, mentre bilaterale quando sorgevano obbligazioni a capo di
entrambe le parti. Intermedi erano i contratti bilaterali imperfetti, nei quali
l’obbligazione era in capo ad una sola parte, ma eventualmente anche all’altra. I
contratti di compravendita e di locazione erano poi esplicati con un binomio:
emptio venditio e locatio conductio. Trattandosi di contratti sanzionabili da azioni
di buona fede, sorse il principio dell’interdipendenza delle prestazioni, talché una
parte non avrebbe potuto pretendere una prestazione se non avesse adempiuto alla
sua o fosse pronta ad adempiervi. Si parla nella dottrina moderna di contratti
sinallagmatici e nel nostro codice civile di contratti a prestazioni corrispettive. Un
caso a sé è quello delle società, un negozio e contratto bilaterale o anche
plurilaterale. Nella compravendita e nella locazione le prestazioni erano
strutturalmente diverse, mentre nella societas erano tutte volte al medesimo scopo.
Si distingue poi tra contratti reali, verbali, letterali e consensuali.

→ Contratti consensuali: nei consensuali, l’obbligazione si contrae in virtù del solo


consenso, che non è solo necessario, ma sufficiente. Si annoverano tra questi
compravendita, locazione, società e mandato, sanzionati da azioni di buona fede.
Finché non avesse avuto luogo l’esecuzione, essi si scioglievano per mutuo
dissenso.

→ Contratti reali: nei contratti reali, l’obbligazione si contrae in virtù della


consegna, produttiva degli effetti obbligatori. Il consenso non mancava ma si
esprimeva con la consegna stessa. La consegna poteva essere una traditio, come
nel mutuo (passava la proprietà) e nel pegno (passava il possesso). Nel deposito e
nel comodato si passava la sola detenzione. Tra questi rientra anche la fiducia,
dove la consegna poteva mancare e passava comunque la proprietà. Tra questi
anche i contratti innominati.
Le persone

→ Contratti verbali e letterali: quello verbale per eccellenza fu la stipulatio,


letterali i nomina transscripticia, dove nei primi l’obbligazione nasceva mediante la
pronuncia di certa verba, mentre nella seconda per iscritto, tramite scriptura.

6.12.1 Il mutuo
2

Era un contratto reale unilaterale, per cui una parte, detta mutuante, consegna all’altra,
detta mutuatario, una somma di denaro o altre cose fungibili con l’impegno del
mutuatario di restituire al mutuante altrettanto dello stesso genere. Era un negozio
causale, che realizzava prestito di consumo. Con la consegna si acquistava la proprietà del
denaro o delle altre cose che gli venivano consegnate: si trattava quindi di una datio. Ne
nasceva un’obbligazione a carico del mutuatario di restituire l’equivalente di quanto
ricevuto con un’altra datio. Il rischio era quindi a suo carico. Per la restituzione di
proseguiva con la condictio, l’azione per la restituzione del dato, che aveva sia
applicazioni contrattuali, come nel caso del mutuo, sia extracontrattuale. Quando questa
aveva ad oggetto una somma di denaro era actio certae creditae pecuniae, se l’oggetto
era diverso, condictio certae rei. La condictio era azione di stretto diritto, in personam e
in ius, senza demonstratio e con un dare opotere nell’intentio. Quanto agli effetti, era di
ius civile, ma successivamente anche iuris gentium, estesa ai peregrini. Non era previsto
pagamento di interessi, onde la gratuità del contratto. Poteva esserci eventuale pattuizione
di interessi, tutelati da exceptio e attinti da distinta stipulatio. Nell’età repubblicana, si
stabilì un limite massimo agli interessi, pena la nullità, che inizialmente fu pari a un
dodicesimo del capital per ogni mese, poi si ridusse al 12% e con Giustiniano al 6%. Era
vietato l’anatocismo, ossia il fenomeno per cui interessi non pagati generavano altri
interessi. Tipo particolare di mutuo era il fenus nauticum o pecunia traiecticia, un prestito
marittimo d’età repubblicana applicato in varie città greche, basato su una somma di
denaro ai fini del commercio d’oltre mare. Aveva generalmente interessi altissimi, pure
oltre il limite legale per il principio del res perit domino: se il denaro o la merce con esso
acquistata periva in mare, il rischio del perimento era a carico del mutuante e il debitore
era liberato.

6.12.2 Il deposito

Era contratto reale, ma bilaterale imperfetto: una parte, detta deponente, consegnava
all’altra, depositario, una cosa mobile, affinché il depositario la custodisse gratuitamente e
la restituisse a semplice richiesta. Dunque se ne acquistava la detenzione, senza
possibilità di usarla: si sarebbe commesso nel caso furtum usus. Per il perimento o il
deterioramento della cosa, il depositario era responsabile per dolo, nel diritto giustinianeo
per culpa lata. Il deponente era però tenuto a rimborsare le spese attuate dal depositario
Le persone giuridiche

per il mantenimento della cosa o rimborsargli il danno da essa procurato. Nulla era
dovuto al depositario per la custodia: il contratto aveva carattere gratuito. Tra la fine
dell’età repubblicana e l’inizio di quella classica, la tutela giudiziaria fu doppia, pretoria e
civile: al deponente si diede un’actio depositi in factum e un’actio depositi in ius ex fide
bona, azioni dirette, mentre al depositario un’actio depositi contraria. L’azione diretta era

2
infamante verso colui contro il quale era esercitata. Tipo speciale di deposito era il
sequestro: avveniva quando vi era controversia tra due parti sulla proprietà di una cosa e
le parti preferivano affidarla ad un terzo, il sequestratario, affinché la custodisse e
restituisse alla parte risultante proprietaria. Differiva dal vero deposito perché la
restituzione era ad una sola delle due parti e dopo che si fosse verificata la condizione
positiva. Il sequestratario acquistava possessio ad interdicta. Contro di lui si attuava
l’actio sequestrataria in factum, mentre a suo favore per spese e danni la stessa tutela data
al depositario. Deposito era anche l’affidamento di denaro contante, che poteva essere
utilizzato dall’accipiente, divenuto proprietario, come proprio. A richiesta, doveva
esserne restituito l’equivalente. Si parlò di deposito irregolare, il nostro attuale deposito
bancario. Questo, a differenza del mutuo, poteva riscontrare efficacia di patti aggiuntivi,
come gli interessi.

6.12.3 Il comodato

Era un contratto reale e bilaterale imperfetto in cui una parte, il comodante, consegnava
all’altra parte, il comodatario, una cosa mobile, con l’impegno che la restituisse. Il
comodatario acquistava nulla di più che la detenzione della cosa ricevuta. Il comodato era
prestito d’uso gratuito nell’interesse del comodatario: poteva usare la cosa comodata e
non doveva per questo alcun compenso. Il comodatario, se la cosa fosse perita o
deteriorata, rispondeva per custodia. Al comodatario erano dovuti rimborso per eventuali
spese o danni. Anche il comodato ebbe tutela pretoria e civilistica, con azione diretta in
favore del comodante e contraria per il comodatario. L’azione contraria era in factum, le
azioni dirette una in factum e l’altra in ius ex fide bona.

6.12.4 Il (contratto di) pegno

Il pegno rientra nell’ambito dei contratti solo nel caso di datio pignoris. Infatti esso è il
rapporto obbligatorio che si istituisce tra chi dà la cosa in pegno, il debitore, e chi la
riceve, il creditore. Se l’oppignorante è debitore, si avrà inversione di ruoli: il debitore,
estinto il debito, diverrà creditore in quanto potrà pretendere la restituzione della cosa e il
creditore diverrà debitore, in quanto obbligato alla restituzione. Era un contratto reale e
bilaterale imperfetto, per cui taluno, l’oppignorante, consegnava a garanzia di un debito,
una cosa con l’intesa che, estinto il proprio debito, il creditore l’avrebbe restituita. Il
Le persone

creditore acquistava possessio ad interdicta, ma non poteva utilizzarla. In caso di danno,


avrebbe risposto per custodia. A lui sarebbe spettato il rimborso per eventuali spese
necessarie e danni. Già in età repubblicana, si diede voce a questo regime, quando il
pretore promosse nel suo editto un’actio pigneraticia in factum e in personam contro chi
non avesse voluto restituire la cosa. Viene detta actio directa per distinguerla da quella
2

contraria, pure questa in factum e in personam, data al creditore per il rimborso di spese o
danni. L’azione in personam nel diritto giustinianeo rientrava tra i giudizi di buona fede.

6.12.5 La fiducia

Prima che tutti questi negozi fossero istituiti, vigeva la fiducia: una parte, il fiduciante,
trasferiva all’altra, il fiduciario, la proprietà di una cosa generalmente res mancipi,
mediante mancipatio o in iure cessio, col patto che, verificate certe condizioni, la cosa
sarebbe stata restituita. Era pactum fiduciae, un negozio fiduciario. Poteva essere cum
creditore o cum amico: nel primo caso, il passaggio di proprietà era a garanzia di un
credito del fiduciario sicché dopo l’avvenuta estinzione del debito, si sarebbe dovuta
ritrasferire la proprietà, mentre nel secondo caso, la causa poteva essere custodia, prestito
d’uso e il fiduciante avrebbe restituito a semplice richiesta. Nella fiducia cum creditore, il
fiduciario poteva trattenere il possesso: avrebbe riacquistato la proprietà mediante
usureceptio, col decorso di un anno da giusta causa. Si evitava tale pratica con locazione
o precario. Estinto il debito, tale istituto non valeva più. Al fiduciante non possessore
bastava inizialmente fare affidamento al vincolo fiduciario, in quanto per i Romani tradire
la fides era comportamento assai grave. Successivamente, gli venne concessa un’actio
fiduciae per il riacquisto di proprietà e possesso. L’azione era in personam,
reipersecutoria e infamante e la formula si rifaceva a criteri di lealtà e correttezza, alla
stregua di un giudizio di buona fede. Il grado di responsabilità era quello relativo alla
culpa. Il fiduciario avrebbe potuto far valere l’exceptio doli e relativa retentio per
contropretese di spese e danni. Avrebbe potuto esercitare actio fiduciaria contraria, detta
directa. Quando alla fiducia cum creditore, la funzione di garanzia era data dal fatto
stesso del trasferimento della proprietà. Si diffuse però la prassi che al creditore spettasse
ius distrahendi o ius vendendi, per cui, inadempiente il debitore, egli avrebbe potuto
vendere la cosa per soddisfare il credito. Anche dopo il riconoscimento degli altri negozi,
la fiducia ebbe larga diffusione, sparendo in età postclassica. Comunque, non venne mai
annoverata tra i contratti.

6.12.6 I contratti verbali. La stipulatio

Essa ebbe un ruolo di massimo rilievo nel diritto romano privato. Aveva struttura
essenziale, fatta di interrogazione e congrua risposta. Aveva carattere astratto ed era per
Le persone giuridiche

questo applicata nei più svariati campi, anche perché la tipicità faceva capo alla forma e
non ai contenuti. Era comunque un contratto in cui il consenso doveva essere espresso
verbis, mediante l’utilizzo di uno schema che prevedeva interrogazione dello stipulante e
congrua risposta, con lo stesso verbo della domanda, del promittente, in capo al quale
ricadeva la prestazione promessa. Era un contratto astratto e unilaterale, che produceva

2
obbligazione solo in capo al promittente: necessitava dunque la contemporanea presenza
delle due parti. La risposta si esigeva entro un tempo relativamente breve: si parlava di
unus actus. Dapprima si producevano effetti solo in seguito alle formalità verbali, mentre,
durante l’età classica, la nullità vi era anche per difetto di consenso. Il prototipo fu la
sponsio, la più antica fonte di obligatio. Era di ius civile, accessibile ai soli cives con
effetti di ius civile. Con l’utilizzo di altri verbi diversi da spondere (promittere, dare) la
sua fruibilità era possibile anche ai cittadini stranieri. Il promittente doveva quindi
adempiere allo stipulante. L’interrogazione poteva essere formulata in modo che l’altro
adempisse o allo stipulante o a un terzo, l’adiectus solutionis causa (aggiunto ai fini
dell’adempimento): quest’ultimo non era creditore, e non poteva quindi procedere con
azione contro il debitore inadempiente, ma solo esigere la prestazione. Diversa era la
figura dell’adstipulator, un secondo stipulante che, incaricato dal primo, poteva esigere
stessa prestazione del primo stipulante. Si avevano quindi due stipulationes, con stesso
oggetto e due diversi creditori, legittimati ad agire ex stipulatu. Per il fenomeno della
solidarietà elettiva, il promittente era liberato con l’adempimento di una prestazione. Si
adottava tale figura per eludere la regola per cui era impossibile adempiere dopo la morte
dello stipulante verso i suoi eredi. Così dunque l’adstipulator riversava agli eredi quanto
percepito dal promittente. Questo scomparve in età postclassica, con il venire meno di
tale regola. Allo stesso modo, al promittente poteva affiancarsi uno o più adpromissores,
che promettevano la stessa prestazione al medesimo stipulante. Nascevano così più
stipulationes, con stesso oggetto, più debitori e con funzioni di garanzia. L’azione
intrapresa dallo stipulante contro il debitore inadempiente era l’actio ex stipulatu, che
aveva formule diverse a seconda che fosse di dare o di facere: nel primo caso l’azione era
con intentio certa e la formula era come quella della condictio, nel secondo caso l’azione
era con demonstratio e intentio incerta. Le formalità della stipulatio erano verbali ma fin
da ultima età repubblicana, si ammise che potevano affiancarsi documenti scritti
(instrumenta) con solo valore probatorio, ossia per facilitare la prova che sia le formalità
orali, sia i contenuti erano avvenuti. Ma, in età postclassica, si riconobbe validità al
documento in sé, purché avvenute le formalità. Nel 472, l’imperatore Leone ammise che
la stipulatio poteva essere formulata tramite verba che non rientrassero nello schema
tradizionale e poi, Giustiniano confermò il suo inquadramento nei contratti verbali,
Le persone

ritenendo valido il documento e le formalità orali, salvo prova che le parti non si
trovavano nella stessa città il giorno della redazione di quel documento.

Dotis dictio e promissio iurata liberti

Si annoverano tra i contratti verbali ed erano uno loquente, ossia le parole erano
2

pronunciate da uno soltanto, il quale prometteva la prestazione. Questa era la forma. In


sostanza, anche con riguardo agli effetti, si parla di contratti unilaterali. Il consenso però
non poteva comunque mancare. La dotis dictio non trova più riscontro nel diritto
giustinianeo.

6.12.7 I contratti letterali

L’obbligazione nasceva litteris, ossia in virtù di scriptura, che presupponeva però il


consenso. Sino a tutta l’età classica, quella che riguardò i cittadini romani era il nomen
transscripticium: veniva svolto dal pater familias nel codex accepti et expensi (il libro di
contabilità domestica) e poteva essere transscriptio a re in personam e transscriptio a
persona in personam. Nel primo caso, il pater che era creditore di una somma, in accordo
con il debitore, registrava nel codex accepti (delle entrate) quella somma come se fosse
stata restituita e nel codex expensi la stessa somma come se l’avesse data a mutuo allo
stesso debitore. Si estingueva così un credito e nasceva obligatio litteris a carico dello
stesso debitore. Nel secondo caso, il pater, avendone delega dal debitore e con l’intesa di
un terzo, segnava nel codex accepti la somma che quello gli doveva come incassata e nel
codex expensi la somma come se l’avesse data a mutuo a terzo. Sicché si estingueva il
debito e nasceva un’obligatio litteris in capo al terzo. Si trattava di una sorta di
novazione. Non era necessitata la contemporanea presenza di ambedue le parti. A fine
probatorio, le stesse operazioni simmetriche e contrarie erano registrate nel codex del
debitore. L’azione concessa al creditore era una condictio, l’actio certae creditae
pecuniae. Cadde in disuso alla fine III secolo.

6.12.8 La compravendita

Nell’età arcaica, la funzione della compravendita si realizzava, attraverso la mancipatio,


con lo scambio immediato della cosa contro prezzo. A partire dal III sec. a.C., gli effetti
furono soltanto obbligatori, a mero consenso. Dunque la compravendita fu annoverata
come contratto, un contratto consensuale, in cui una parte, il venditore, si obbligava a far
conseguire all’altra, il compratore, il pacifico godimento di una cosa e il compratore si
obbligava a pagare al venditore un corrispettivo in denaro nella misura convenuta. Ad
obbligarsi erano entrambe le parti e il contratto era quindi bilaterale. Era fruibile dai
cittadini romani e dagli stranieri come istituto di ius gentium ma i suoi effetti erano di ius
Le persone giuridiche

civile. Il consenso doveva essere manifestato (anche tacitamente, per conto di un terzo o
per lettera). Fu solo per esigenze probatorie he si cominciò a redigere per iscritto
attraverso un documento l’attestamento del patto concluso e delle sue condizioni. Tale
documento ebbe così ampia diffusione che, nell’ambito della vendita di immobili si
ritenne necessario. Al consenso manifestato per iscritto si diede efficacia traslativa di

2
dominio. Giustiniano restituì alla vendita efficacia solo obbligatoria, mentre lasciò alle
parti la possibilità di scegliere forma scritta o orale. Non era raro che si fissasse una
caparra, una somma di denaro che in età classica poteva essere versata contestualmente
alla conclusione dell’accordo, col solo valore di confermare il consenso prestato. Nella
vendita in scriptis del diritto giustinianeo la caparra aveva anche funzione penitenziale:
versata prima della redazione del documento, in caso di recessione di una delle parti, si
era obbligati a perderla o restituirla in quota doppia rispettivamente. L’oggetto della
vendita era detto merx: più spesso si trattava di cose corporali ma poteva prevedere anche
eredità, superficie, agri vectigales, enfiteusi, servitù, usufrutto e crediti. Era ammessa
anche la vendita di cose future, che poteva essere emptio rei speratae o emptio spei: nella
prima la vendita era soggetta alla condizione sospensiva che le cose vendute venissero a
esistenza e il prezzo era concordato dopo in base alla quantità, mentre nella seconda il
compratore pagava un prezzo stabilito forfetariamente, il venditore non avrebbe potuto
esigere di più. Il prezzo era in denaro contante, in quanto solo così sarebbe stato possibile
distinguere il prezzo dalla merce e di conseguenza il venditore dal compratore, in quanto
questi avevano obbligazioni diverse, prestazioni diverse e responsabilità diverse. La
misura del prezzo era liberamente concordata dalle parti ma doveva corrispondere al
valore della merce. Diocleziano stabilì che se il prezzo era inferiore alla metà del valore,
il venditore poteva pretendere la restituzione della cosa e la restituzione di essa dietro
rimborso del prezzo pagato, oppure il compratore avrebbe potuto evitarlo pagando la
differenza. Il compratore era tenuto a pagare il prezzo, facendo traditio delle monete,
affinché il venditore ne acquistasse la proprietà. Doveva anche gli interessi nel caso in cui
avesse ritardato. Contro il compratore inadempiente, il venditore esercitava l’actio venditi
di buona fede. Il venditore era obbligato ad assicurare il godimento della cosa al
compratore. Nel caso di cose corporali, non era obbligato a trasferire la proprietà ma a
farne traditio, una traditio libera da persone o cose. Contro il venditore inadempiente si
dava l’actio empti, di buona fede. Se la merce non consegnata contestualmente alla
vendita periva, la responsabilità per custodia era del creditore così come il rischio. Il
compratore sarebbe comunque stato obbligato al pagamento del prezzo. Il venditore che
avesse venduto cosa non propria non incorreva in responsabilità, purché avesse dato al
compratore il pacifico godimento della cosa. Responsabilità poteva derivare
dall’evizione, ossia il fatto per cui un terzo rivendicasse con successo la cosa, presso il
Le persone

compratore. Questo accadeva quando della cosa si faceva mancipatio: il venditore


mancipante era quindi tenuto a prestare auctoritas nel giudizio a favore del compratore.
Contro il mancipante inadempiente, che non avesse potuto impedire l’evizione, si dava
l’actio auctoritatis, per il doppio del prezzo. In età classica, anche senza mancipatio,
veniva considerato di buon costume comunque prestare stipulatio duplae da parte del
2

venditore. Questo era chiamato a rispondere direttamente con l’actio empti. Con il tempo,
questa pratica finì per essere elemento naturare del contratto consensuale, da esso
derivante ed esclusa solo da patto contrario. Altra materia era quella dei vizi occulti, ossia
vizi o difetti materiali della cosa (anche morali, nel caso dello schiavo) che non erano
visibili al compratore all’atto della vendita: la responsabilità del venditore inizialmente
non discendeva dal contratto consensuale. Il venditore che prometteva certe qualità della
cosa o l’assenza di certi vizi poteva essere convenibile dal compratore con actio ex
stipulatu, verificato il contrario di quanto dichiarato dal venditore. Ebbero ruolo rilevante
gli edili curuli, magistrati con giurisdizione nel mondo del mercato. Nel loro editto fecero
in modo che i vizi e i difetti nella vendita degli schiavi e degli animali dovessero sempre
essere dichiarati e diedero al compratore l’actio redhibitoria o l’actio quanti minoris, o
aestimatoria: la prima utile entro sei mesi, la seconda entro un anno. Con la prima si
sarebbe potuto chiedere indietro il prezzo previa restituzione della merce acquistata, nella
seconda il minor valore della merce venduta. Si parlò di azioni edilizie e diritto edilizio.
Tale editto fu dichiarato applicabile a qualsiasi tipo di vendita e ne venne ammesso il
ricordo all’actio empti, così che la responsabilità del venditore divenisse elemento
naturale del contratto. Il regime della vendita poteva essere integrato da patti aggiuntivi
come nel caso della compravendita: patto commissorio, l’in diem addictio e il pactum
displicentiae. I primi due a favore del venditore, l’altro del compratore. Si trattava di patti
risolutivi sospensivamente condizionati per cui la vendita era soggetta a condizione
risolutiva. Prevedevano che, al verificarsi di una certa condizione, la vendita dovesse
considerarsi non avvenuta. Nel patto commissorio la condizione era che il compratore
non pagasse entro il termine, nel secondo patto che il venditore trovasse entro il termine
un’offerta migliore e nel terzo che il compratore dichiarasse di non aver trovato la cosa di
suo gradimento. Poiché le azioni nascevano dalla vendita erano di buona fede e se
aggiunti contestualmente al contratto, erano fatti valere con la stessa azione contrattuale.

6.12.9 La locazione

La locatio conductio era un contratto che accomunava più fattispecie differenti.


Unitariamente viene definita come un contratto consensuale e bilaterale, percì cui, con
l’esplicita previsione di un corrispettivo – la mercede – una parte, il locatore, si
impegnava a mettere a disposizione di un’altra parte, il conduttore, per un periodo di
Le persone giuridiche

tempo limitato e ad un determinato scopo, una cosa mobile o immobile, con la promessa
del conduttore di restituirla scaduto il termine o raggiunto lo scopo. Le actiones concesse
erano locati (in favore del locatore) e conducti (in favore del conduttore) ed erano di
buona fede. Essa era istituto di ius gentium e di ius civile. Si usa distinguere tra locatio
rei, locatio operis e locatio operarum.

2
→ Locatio rei: simile alla locazione nel nostro codice civile. Poteva avere ad oggetto
cose mobili e immobili: il conduttore di immobili urbani era detto inquilinus,
quello di fondi rustici colonus. Il locatore assumeva l’obbligo di consegnare la
cosa e di assicurarne al conduttore il godimento. Il conduttore era obbligato a
pagare la mercede, mantenere la cosa così come gli era stata data e restituirla alla
scadenza del contratto. Il conduttore assumeva detenzione e rispondeva per
custodia. In caso di mancato godimento per cause di forza maggiori il locatore non
era responsabile ma il conduttore era liberato dal pagare la mercede.

→ Locatio operis: poteva avere ad oggetto cose mobili e immobili. Il locatore si


obbligava a consegnare una cosa, il conduttore a esercitare autonomamente
nell’interesse del locatore una certa attività relativamente alla stessa cosa così da
raggiungere il risultato convenuto, per poi restituirla al locatore. Vi si fanno
rientrare fattispecie molteplici, anche quella per cui il conduttore assumeva
l’impegno di trasformare la res, impiegando anche materiali proprio, per poi
restituire l’opus concordato al locatore. Va da sé che la mercede era dovuta dal
locatore. Il conduttore acquistava la detenzione e rispondeva per custodia. In caso
di cattiva esecuzione della prestazione, il conduttore rispondeva per imperitia,
equiparata alla culpa. Era invece liberato per impossibilità sopravvenuta della
prestazione dipendente da caso fortuito o forza maggiore. In quel caso il rischio
era del locatore, che avrebbe dovuto pagare ugualmente la mercede. Un regime
speciale di questo riguardava le merci locate trasportate in mare: poteva accadere
che queste dovessero per esigenza essere gettate in mare. Secondo le regole,
avrebbe dovuto rispondere il locatore delle merci gettate. Ma per bona fides, si
elaborò la lex Rhodia de iactu, per cui il rischio si ripartiva tra tutti i locatori delle
merci sulla stessa nave.

→ Locatio operarum: un uomo libero assumeva l’impegno di mettere la propria


attività lavorativa alle dipendenze di un’altra persona dietro pagamento di
mercede. Il locatore era il lavoratore e il datore di lavoro il conduttore, al cui
carico vi era il rischio: doveva la mercede anche se il lavoratore non avesse potuto
adempiere alla prestazione per causa di forza maggiore. Si tratta del moderno
contratto di lavoro subordinato. In età classica avanzata, i liberi lavoratori non
Le persone

erano tali e godevano di scarsa considerazione sociale. Esercitavano le artes


liberales, tra cui prestazioni di avvocati e agrimensori. Non erano subordinati e
l’attività era gratuita, ma frequente era l’offerta di honorarii, ossia di donazioni
che si finì per dare al lavoratore il diritto di chiedere un pagamento.

In età postclassica il campo di applicazione della locazione si restrinse notevolmente, a


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causa dell’intorbidimento della materia e dei mutamenti sociali. La locazione venne


integrata alla terminologia del comodato, del deposito, del mandato e del precario. Ma nel
diritto giustinianeo si tornò fondamentalmente ai vecchi principi.

6.12.10 La società
La società era un contratto consensuale bilaterale, eventualmente plurilaterale, in cui due
o più persone, i socii, convenivano di mettere in comune beni e/o attività lavorative al
fine di conseguire un lucro per tutti previa divisione di profitti e perdite. Era
contemporaneamente di ius gentium e di ius civile, sanzionato da actio pro socio, di
buona fede. La responsabilità era differente a seconda dei diversi casi, ma il criterio
generale era quella della culpa in concreto. La più antica fu la societas omnium bonorum,
dove i soci convenivano di mettere in comune tutti i loro beni, presenti e futuri. Altro tipo
era la società consensuale: era un singolo contratto consensuale, che contemplava affectio
societatis, ossia perduranza del consenso. La società veniva meno per reciproco dissenso
o di un solo socio, per esaurimento dello scopo, impossibilità di raggiungerlo, morte e
capitis deminutio anche di uno solo e quando uno era processato per insolvenza. Profitti e
perdite andavano divisi in parti uguali tra i soci, se assenti altre indicazioni nel patto.
Nullo era il patto che limitava la partecipazione di un socio alle perdite soltanto. L’actio
pro socio prevedeva compensazione e pagamento del saldo reciproco di dare e avere tra le
parti. Poiché la società si costituiva sulla fraternitas, dunque, l’azione era infamante, ma
il socio poteva sfuggirvi con il beneficium competentiae, ossia pagando immediatamente
quanto dovuto o quanto nelle sue possibilità economiche. La società non dava origine a
patrimonio autonomo, distinto da quello personale dei soci, né aveva rilevanza esterna
verso terzi. Pertanto, si limitò la responsabilità verso questi facendo svolgere le attività
agli schiavi dotati di peculio. E la responsabilità dei soci non andava oltre il peculio dello
schiavo o comunque oltre l’arricchimento dato dall’attività del servo.

6.12.11 Il mandato
Era contratto consensuale bilaterale imperfetto, per cui una parte conferiva un incarico
all’altra, che si impegnava ad eseguirlo. Le parti erano dette mandante e mandatario. Al
mandatario non spettava alcun compenso, altrimenti si sarebbe parlato di locazione. Il
Le persone giuridiche

mandato poteva essere solo nell’interesse del mandante o di un terzo, non del mandatario.
Contro il mandatario si concedeva actio mandati directa e viceversa contro il mandante
actio mandati contraria. Il mandatario aveva l’obbligo di eseguire fedelmente l’incarico e
trasferire al mandante beni, diritti e crediti acquistati in relazione al mandato espletato,
mentre il mandante aveva l’obbligo di rimborsare eventuali spese e risarcire i danni.

2
Questo perché il mandatario non era rappresentante diretto, ma indiretto. Per
l’inadempimento o la cattiva prestazione si era responsabili per dolo. L’azione di
condanna era infamante, di buona fede e accessibile anche ai peregrini. Il mandato si
estingueva per revoca del mandante, per rinuncia del mandatario, per morte di una delle
due parti prima dell’esecuzione, per reciproco dissenso e ovviamente per espletazione
dell’incarico.

6.12.12 I contratti innominati


Sebbene i contratti fossero tipici, esistevano forme atipiche alle quali non era possibile
dare un nome, ma che comunque erano negotia, di affari, di convenzioni per cui ciascuna
delle parti veniva onerata o di un dare o di un facere. Si trattava però di un do ut des e di
un facio ut faces, esplicando come da una prestazione data ci si aspettava una
controprestazione. Questo regime fu dapprima regolato dai pretori, con actiones in
factum decretales. Sa età classica avanzata, si diffuse il principio per cui nelle
convenzioni atipiche, la parte che avesse fatto prestazione poteva pretendere dall’altra una
controprestazione tramite un’azione in ius e in personam, che andava ricercando la causa
del contratto. L’azione fu detta praescriptis verbis e il grado di responsabilità fu esteso
alla colpa. Le convenzioni in tal modo protette divennero vere e proprie fonti di
obbligazioni e le stesse convenzioni vennero considerate contractus. Si parlò solo
successivamente di contratti innominati. Era considerati unilaterali e accostati ai contratti
reali. Con Giustiniano, all’actio praescriptis verbis fu esteso il regime dei giudizi di
buona fede e ne fu ampliato il campo di applicazione, considerandola actio generalis.
Tali negozi, anche prima di quest’actio, non rimasero senza tutela, poiché una parte che
effettuava datio, avrebbe potuto esperire condictio extracontrattuale, per ripetere quanto
prestato nel caso in cui la prestazione fosse mancata. Tale regime trovò applicazione
anche dopo lo sviluppo dell’actio e sfociò nell’attuale articolo 1453, su tutti i contratti a
prestazioni corrispettive, che afferma che quando uno dei contraenti non adempie l’altro
può pretenderne la prestazione o la risoluzione del contratto. Tra i contratti do ut des,
viene inserita anche la donazione modale, la permuta, il contratto estimatorio e la datio
ad inspiciendum. La permuta, scambio di cosa contro cosa, viene annoverata come
contratto reale unilaterale. Nel contratto estimatorio, una parte dava all’altra una cosa
stabilendone il valore e l’altra poteva venderla e restituire il ricavato o restituire la cosa.
Le persone

Nella datio ad inspiciendum una parte consegnava all’altra una cosa perché ne
determinasse il valore e poi la restituisse. Nei contratti innominati furono inseriti anche la
transazione e il precario. Il precario consisteva nella cessione di un bene, in origine
immobile, che una parte, il concedente, faceva ad un’altra, il precarista, affinché ne
godesse gratuitamente e lo restituisse a semplice richiesta. Traeva origine delle
2

concessioni di terre che i grandi proprietario erano soliti fare. Il precarista era tutelato
contro terzi con l’interdictum uti possidetis, qualificandosi quale possessore. Contro il
concedente non era tutelato e dunque questo poteva pretendere restituzione con atto di
autodifesa, anche contro la volontà del precarista. Successivamente il pretore concesse a
questo anche l’interdictum quod precario. Il precario continuò ad essere annoverato nel
possesso, rimanendo, per tutta l’età classica, fuori dal contratto. Fu utilizzato anche per
altri scopi, divenendo iuris gentium. In età postclassica, tuttavia, si arrivò a non
distinguere più questo dal comodato. Giustiniano negò al concedente di poter pretendere
restituzione con atto di difesa, ma gli concesse actio praescriptis verbis e lo annoverò tra i
contratti. Venne distinto dal comodato non tanto per struttura e natura, quanto più per
diversità di regime.

6.13 I patti
I patti furono convenzioni, accordi, in qualunque maniera manifesti, che non rientravano
nella categoria dei contratti tipici, ma erano nuda pacta. Non producevano inizialmente
effetti, se non nel caso di iniuria e di furto. Le XII Tavole attribuirono all’accordo tra
offeso e offendente e tra derubato e ladro, l’effetto di estinguere la pena. Importante fu
l’editto pretorio de pactis, dell’ultima età repubblicana, con cui il pretore avrebbe tutelato
i patti, naturalmente quei patti concordati senza dolo, non contrari a leggi e norme. Ebbe
però l’editto efficacia limitata: si concesse di agire per exceptio pacti conventi. I patti non
davano luogo ad obbligazioni. Dunque la parte lesa non avrebbe potuto agire in giudizio,
ma solo appellarsi all’exceptio, verificata l’esistenza del patto. In materia di giudizi di
buona fede, era conforme a buona fede mantenere gli impegni assunti e, pertanto, il
giudice avrebbe potuto tenere conto di questi anche senza l’exceptio. in merito ai patti
aggiunti a contratti dai quali derivano azioni di buona fede, si distinse tra pacta adiecta in
continenti e pacta adiecta ex intervallo, i primi contestuali e gli altri successivi alla
conclusione del contratto. Si poteva quindi esercitare azione di buona fede propria del
contratto cui il patto ineriva. Tali fatti ebbero effetti obbligatori. Erano parte integrante dl
contratto, del quale avrebbero potuto modificare e integrare il contenuto tipico.
Giustiniano diede diretta efficacia obbligatoria al patto extragiudiziario con cui due parti
convenivano di rimettere all’arbitrato di un terzo scelto di comune accordo la decisione di
Le persone giuridiche

una controversia tra loro. Si utilizzava l’espediente delle reciproche stipulationes penali:
ciascuna parte prometteva all’altra una pena pecuniaria se non si fosse adeguata alla
decisione dell’arbitro. Si parlò di compromissum. Giustiniano diede autonoma rilevanza
al patto sottostante le stipulationes penali e concesse al vincitore un’actio in factum per la
realizzazione della decisione. Esso venne annoverato come patto legittimo, in quanto

2
proveniente da costituzione imperiale, sostanzialmente da legge. Ulteriore breccia fu
l’estensione dell’efficacia obbligatoria dei patti aggiunti contestualmente ai contratti,
anche se non di buona fede. Superata in buona sostanza la tipicità contrattuale, ogni
accordo, purché lecito, avrebbe potuto essere detto contratto e avere effetti obbligatori.
Ma il diritto romano non giunse mai a tale conclusione esplicitamente, fino a età
moderna.

6.14 Gli atti leciti non contrattuali


Gaio annoverò nelle Istituzioni gli atti leciti non contrattuali, non convenzionali.

6.14.1 La negotiorum gestio

Tra questi la più nota fu la gestione di affari altrui, cui si riconobbero effetti obbligatori:
era la gestione di affari altrui senza mandato, intrapresa con la convinzione che si trattasse
di affari altrui e iniziata utilmente, non rilevando se poi era stata utile al gerito o meno. Si
davano alle parti actiones negotiorum gestorum, diretta e contraria, di buona fede, la
prima a favore del gerito e l’altra del gestore. Sul gestore gravava l’obbligazione di
portare a termine l’affare intrapreso e trasferire al gerito beni e diritti che ne avesse
ricavato o che avrebbe dovuto ricavare. Sul gerito gravava l’obbligo di assumere su di sé
le obbligazioni contratte dal gestore per condurre l’affare e rimborsargli eventuali spese e
danni. La responsabilità prima limitata al dolo, fu estesa alla colpa. La necessità di
trasferire diritti e beni derivava dal fatto che non vi fosse rappresentanza diretta, ma
indiretta. Ebbe molteplici applicazioni.

6.14.2 La tutela, la communio incidens e la coeredità

Vi rientrarono anche queste tre categorie, ossia la gestione dell’impubero, della cosa
comune e dell’eredità comune. Nel primo caso, cessata la tutela, il tutore doveva
rispondere della gestione patrimoniale e l’ex pupillo doveva sollevare questo da debiti e
oneri contratti per la gestione e rimborsarne le spese. Le obbligazioni erano sanzionate da
actio tutelae directa e actio tutelae contraria, la prima contro il tutore e la seconda contro
l’ex pupillo, di buona fede. L’azione diretta era infamante e il tutore rispondeva per culpa
Le persone

in concreto. Anche per le altre due categorie, si aveva origine di diritti e doveri reciproci
tra comproprietari e coeredi: ci si ritrovava all’atto della divisione e si esercitavano actio
communi dividundo e actio familiae erciscundae.

6.14.3 I legati obbligatori e i fedecommessi


2

I legati per damnationem e quelli sinendi modo davano luogo ad obbligazioni tra l’erede e
il legatario, una volta morto il testamentario. Nel primo caso, il testatore, mediante l’uso
di certa verba, onerava l’erede di svolgere una prestazione in favore del legatario. Nel
secondo caso lo onerava di un non facere, così che il legatario avrebbe potuto svolgere un
tipo di attività, come il prendere una cosa o ereditaria o personale dell’erede. Contro
l’erede inadempiente si dava l’actio ex testamento, in personam e in ius di stretto diritto.
In caso però di contestazione infondata, il legatario era obbligato alla condanna al doppio
per effetto della liticrescenza. Ai legati furono accostati i fedecommessi, disposizioni di
ultima volontà in favore di terzi, sanzionati ad opera di Augusto in sede di cognitio extra
ordinem. Al fedecommissario si dava la petitio fideicommissi. In essa il giudice decideva
secondo criteri di equità ed aveva libera interpretazione. Giustiniano equiparò i
fedecommessi e i legati.

6.14.4 Il pagamento di indebiti (solutio indebiti)

A questo si è già fatto riferimento quando si disse che per questo Gaio ritenne
inesauriente la bipartizione delle fonti delle obbligazioni tra contratti e delitti. La solutio
indebiti come fonte di obbligazione si aveva quando un soggetto compiva una datio –
intesa come trasferimento di proprietà – nell’erronea convinzione di esservi tenuto e
l’altra parte riceveva inconsapevole dell’errore. Si giungeva allora a condictio indebiti per
la restituzione di quanto ricevuto indebitamente: era la medesima cosa se si trattava di
cosa specifica o l’equivalente nel caso di denaro e altre cose fruibili.

6.14.5 Le altre applicazioni non contrattuali della condictio

La condictio poteva riguardare anche altre applicazioni non contrattuali, sempre nei casi
in cui l’acquirente doveva restituire la cosa ricevuta o l’equivalente. Senza la condictio
infatti egli sarebbe andato incontro ad un arricchimento ingiustificato, non equo, contro il
principio per cui nessuno deve potersi avvantaggiare ingiustificatamente a danno di altri.
Giustiniano fece assumere alle condictiones il carattere di strumenti giuridici contro ogni
ingiustificato arricchimento. I suoi compilatori le tipicizzarono: mentre per i classici la
condictio era una, in età giustinianea nel Corpus iuris, nel Digesto, se ne annoverarono
più tipi, in base ai casi d’applicazione.
Le persone giuridiche

6.15 I delitti
Obbligazioni nascevano anche dai delicta, o maleficia, atti illeciti, comportamenti
volontari riprovati dal diritto. Furono comportamenti determinati che l’ordinamento
riprovava, ognuno con proprie caratteristiche e con proprio regime giuridico, rientranti tra

2
quelli che, per distinguerli dall’inadempimento delle obbligazioni, si è soliti chiamare atti
illeciti extracontrattuali. Il criterio della tipicità dei delitti subì diversi temperamenti, ma
non si giunse mai a una loro categoria unitaria. L’obbligazione era rappresentata dal
vincolo che si instaurava tra offeso e offensore, il quale era dovuto al pagamento di una
pena pecuniaria e poteva essere perseguito con azione penale nel processo privato. Le
azioni penali erano inizialmente in ius, successivamente il pretore concesse anche le
azioni penali in factum per fattispecie diverse da quelle contemplate. L’imputabilità era
data per dolo, quindi se l’offensore avesse fatto ciò con il proposito di provocare
all’offeso il pregiudizio che gliene era derivato. Successivamente, si iniziò a parlare di
colpa per il danneggiamento derivato da negligenza e imprudenza. Furono sanzionati
anche alcuni illeciti pretori da Giustiniano, compresi nelle obligationes quasi ex delicto.
Accanto ai delitti presero posto i crimina, ossia comportamenti più direttamente lesivi
degli interessi della comunità e pertanto più gravemente riprovati, repressi nell’ambito dei
iudicia publica. Tuttavia, con il tempo, si andò verificando un accostamento di illeciti
privati e crimina, tanto che nella compilazione giustinianea pochi rimasero i delitti non
perseguibili come crimina. Precedente era stato il processo di depenalizzazione degli
illeciti privati che avrebbe portato alla successiva depenalizzazione del diritto privato in
età intermedia, medievale e moderna. Nell’ambito del diritto privato, rimase solo il
risarcimento del danno.

6.15.1 Il furto

È il più antico tra i delitti. Si trattava della sottrazione illecita di cosa altrui. Ampliandosi
poi la nozione, vennero così qualificati taluni comportamenti sentiti come illeciti e
tuttavia come tali sanzionati. Si ritenne furto ogni comportamento doloso che, non
integrando gli estremi di altri delitti, provocasse ad altri una perdita, o anche solo uno
svantaggio relativamente a una cosa mobile o immobile. In età repubblicana, la nozione
venne poi ristretta alle cose mobili, senza reversione della cosa. Si richiese a volte che la
contrectatio fosse compiuta contro la volontà del proprietario della cosa per conseguire
un lucro o che comunque se ne avesse l’intenzione. Si parlava di contrectatio fraudolosa.
Si negò che fosse furto la sottrazione di cose ereditarie in merito all’eredità giacente e il
furto tra marito e moglie. È nota la distinzione tra furtum manifestum e nec manifestum.
Per manifesto si intendeva non tanto il furto in cui il ladro era visto rubare, ma quello in
Le persone

cui veniva colto sul fatto dal derubato. Per nec manifestum qualsiasi furto non fosse
manifesto. Colui che aveva compiuto furto manifesto poteva essere fustigato e addictus
dal magistrato al derubato. Se il furto avveniva di notte o il ladro fosse ricorso ad armi, il
derubato, invocata la testimonianza dei vicini, avrebbe potuto uccidere il ladro. Dalla
prima età postclassica, tali misure non furono più applicate e sostituite da actio furti
2

manifesti, penale pretoria, per cui il derubato riceveva il quadruplo del valore della cosa
rubata. Si agiva direttamente sul ladro se questo era sui iuris, sull’avente potestà e in via
nossale se alieni iuris. Per quanto riguarda il nec manifestum, si prevedeva una pena
pecuniaria del doppio del valore della cosa rubata. Non venne mai sostituita ma solo
affiancata dall’actio furti nec manifesti. Legittimato a perseguire tali azioni era chiunque
avesse reale interesse sulla cosa rubata, dunque non solo il proprietario ma anche, per
esempio, il comodatario. Con la penale actio furti concorreva e si cumulava la condictio
ex causa furtiva, esperibile solo dal proprietario in quanto tale. Ora, la condictio
prevedeva una datio come trasferimento della proprietà che non era nel furto avvenuto: si
deve ipotizzare che il significato di datio non fosse quindi originario. Al proprietario si
garantirono queste due tutele per consentirgli maggiore sicurezza. Nel caso il cui il ladro
fosse stato pieno di debiti oltre il suo patrimonio, la rei vindicatio sarebbe stata più
conveniente, contrariamente la condictio più sicura.

6.15.2 La rapina (bona vi rapta)

Erano frequenti a Roma scorrerie e rapine e saccheggiamenti da parte di schiavi,


organizzate dai loro padroni. Il pretore Lucullo ritenne necessario inserire nel suo editto
l’actio vi bonorum raptorum, successivamente autonoma, che sanzionava la sottrazione di
cosa altrui commessa con violenza. L’azione era penale e infamante: entro l’anno la pena
era pari al quadruplo del valore della cosa, dopo l’anno al semplice valore. Con
Giustiniano, il valore rimase al quadruplo e l’azione fu mista, penale e reipersecutoria,
con la giustificazione di dover distinguere il simplum corrispondente Il valore della cosa e
il triplo a titolo di pena.

6.15.3 Il danneggiamento (damnum iniura datum)

Si deve prendere in considerazione la lex Aquilia (de damno) del III sec. a.C., in realtà un
plebiscito. Essa era divisa in tre capitoli:

→ il primo riguardava l’uccisione di schiavi e pecudes altrui, intendendosi per


pecudes i quadrupedi da gregge o armento.

→ il secondo capitolo riguardava la frode dell’adstipulator contro lo stipulante,


qualora avesse estinto il credito mediante acceptilatio.
Le persone giuridiche

→ il terzo capitolo riguardava il ferimento degli schiavi e dei pecudes e l’uccisione e


il ferimento di tutti gli animali che non erano pecudes e anche il danneggiamento di cose
inanimate.

La pena non era in multiplo ma al simplum. Il valore veniva stabilito a seconda dei capita
della legge:

2
→ per il primo capitolo, essa era nel maggior valore dello schiavo o dell’animale
nell’anno precedente l’uccisione.

→ per il secondo capitolo, nell’importo del credito estinto.

→ nel terzo capitolo, nel maggior valore di schiavi, animali o cose nei trenta giorni
precedenti l’uccisione.

Il secondo capitolo cadde in disuso in età preclassica, quando i rapporti tra adstipulator e
stipulante vennero esplicati nel mandato. Il primo e il terzo ebbero notevoli sviluppi.
L’azione concessa era l’actio legis Aquiliae, penale e in ius, per i proprietari, mentre il
pretore concesse anche ai non proprietari (usufruttuari, possessori..) delle azioni utili.
Avevano funzione reipersecutoria. Si adottarono inoltre validi strumenti che non
permettevano la cumulazione di quest’azione con un’altra. Nelle Istituzioni giustinianee
l’azione aquiliana non fu più penale ma reipersecutoria o mista a seconda dei casi. se il
danno fosse stato provocato nel momento di maggior valore della cosa nell’ultimo anno o
mese, sarebbe stata reipersecutoria. Se il valore della cosa fosse invece sceso nell’ultimo
anno o mese, sarebbe stata mista. La valutazione del danno in età classica tuttavia fu
considerata in base all’interesse dell’attore all’integrità fisica di essa. Quando si parla di
danneggiamento, si utilizza la parola iniuria per indicare il danno ingiusto, mentre nella
valutazione soggettiva si parlò anche di culpa, indicando il comportamento negligente,
anche di culpa levissima. Dal punto di vista oggettivo, il danno era corpore corpori
datum, prodotto direttamente dalla forza fisica dell’agente all’integrità fisica della cosa. Il
pretore, per alcune ipotesi di danno e per il danneggiamento senza lesione materiale,
propose azioni utili e in factum. Nella compilazione giustinianea, invece, si propose
un’azione generale. Nell’età intermedia, medievale e moderna, il danneggiamento
divenne illecito civile extracontrattuale, esplicato nell’art.2043 cod.civ., riguardante il
danno alla sfera giuridica della persona e l’obbligazione a risarcire danni. Per indicare il
danno e la responsabilità contrattuale, si parla ancora di danno e responsabilità aquiliane.

6.15.4 L’iniuria

La Legge delle XII Tavole prevedeva pene diverse per determinate offese arrecate
all’integrità fisica o comunque al fisico di un’altra persona. Tali pene erano:
Le persone

→ membrum ruptum: lesione fisica con perdita definitiva della funzionalità di un


organo, punita con la legge del taglione, al quale l’offensore poteva sottrarsi concordando
con la vittima una composizione pecuniaria.

→ os fractum: frattura di un osso che non comportava perdita della funzionalità


dell’organo. Prevedeva una pena di 300 assi se la vittima era un libero, di 150 se schiavo.
2

→ lesioni e violenze fisiche minori: pena di 25 assi.

Si trattava comunque di pene non lievi. Da un canto, il taglione venne ritenuto una pena
rozza e primitiva e dall’altro invece, le pene pecuniarie furono ritenute irrisorie, in seguito
alla svalutazione della moneta. Per questo, il pretore concesse l’actio iniuriarum
aestimatoria, cui vennero incluse anche le offese morali. L’azione era penale e infamante
e la pena era pecuniaria, nella misura stabilita di volta in volta secondo principi di equità.
A giudicare non era un giudice unico, ma un giudice collegiale, i recuperatores. La
condemnatio aveva formula con taxatio in maniera tale che non si superasse il limite
imposto dalla legge. L’azione era intrasmissibile agli eredi, sia dal lato passivo che attivo:
una volta morto l’offeso, infatti, non poteva più essere esercitata.

6.15.5 Altri illeciti extracontrattuali

Il diritto romano, oltre a quelli specificati conobbe altri delicta, sanzionati da azioni
penali ora civili ora pretore. Un caso particolare è quello dell’actio de pauperie,
contemplata nelle XII Tavole e presente nel Corpus iuris. Si trattava di un’azione che
scaturiva dal danno prodotto da pecudes, quindi danni conseguenti il comportamento
spontaneo e innaturale degli animali. Era esercitata contro il proprietario dell’animale,
che poteva o risarcire il danno o dare a nossa l’animale trasferendone al danneggiato la
proprietà. Poteva essere esercitato da ogni danneggiato che ne avesse interesse, o il
dominus stesso o altre figure come il comodatario. Era un’azione nossale ma non penale,
in quanto implicava il solo risarcimento del danno. Non riguardava atti illeciti di soggetti
a potestà e neanche illeciti volontari, ma solo il comportamento animale. Si trattava di
responsabilità oggettiva, senza colpa, che si addossava al dominus per il semplice fatto di
essere tale.

6.16 Le obbligazioni quasi ex delicto


Derivano dagli illeciti pretori non dolosi:
Le persone giuridiche

Iudex qui litem suam fecerit: nel caso in cui il giudice avesse giudicato male, per
imperizia. Si concedeva azione in factum, penale, con pena stabilita secondo criteri di
equità.

Effusum vel deiectum: con lo sviluppo edilizio, si ammise la possibilità di edifici costruiti
su più piani. Dunque, l’azione si concedeva al verificarsi di danni a persone o cose

2
provocati da oggetti lanciati o lasciati cadere dall’alo delle case di abitazione sulla
pubblica via. Contro l’habitator si concedeva azione penale in factum. La determinazione
della pena dipendeva dai diversi casi. per danni a cose era stabilita dal giudice al doppio
del danno, per ferimento di uomo libero stabilita secondo equità e per morte di un uomo
libero fissa (50 aurei nel diritto giustinianeo). Era un’azione popularis, ossia alla quale
era legittimato qualsiasi cittadino.

Positum aut suspensum: azione penale in factum e popularis, con pena fissa (10 aurei nel
diritto giustinianeo), che fu concessa contro l’habitator della casa sul cui tetto o
cornicione fosse stato posato un oggetto che rischiava di cadere. Era un’azione
esercitabile per la sola situazione di pericolo, a prescindere dal verificarsi del danno.

Actiones adversus, nautas, caupones, stabularios: era concessa per i furti, danni a
passeggeri ed avventori che si verificavano sulle navi, nelle locande, nelle stazioni per il
cambio dei cavalli con annesse locande. Si trattava di azioni penali in factum e in duplum
rispettivamente contro gli armatori, gli albergatori e i gestori. Erano a loro imputabili
anche se l’evento era dipendente da familiari, servi, dipendenti, ospiti e altri passeggeri o
avventori. Si trattò di responsabilità oggettiva, senza colpa, spesso coadiuvata dalla culpa
soggettiva, imputandosi a questi una scelta poco ponderata dei loro collaboratori.

6.17 Estinzione delle obbligazioni


Si estinguevano ipso iure e ope exceptionis. Con la compensazione invece ope iudicis,
ossia per effetto della sentenza del giudice.

6.17.1 L’adempimento (solutio)

L’adempimento della prestazione, in età arcaica, non fu sempre sufficiente. Fu soltanto in


età preclassica che la solutio venne considerata come formula dell’adempimento più
diffusa e ipso iure. A effettuarla era il debitore e un terzo, a meno che non si trattasse di
una prestazione di facere. A riceverla era il creditore, o il procurator di lui o una persona
da lui indicata o l’adiectus solutionis causa. Essa doveva essere adempita per intero, a
meno che il creditore non accettasse adempimento parziale. Quando godeva del
Le persone

beneficium competentiae, il debitore poteva adempiere parzialmente. Se il debitore


doveva più debiti omogenei e non si precisava per quale debito stesse adempiendo, il
pagamento si imputava in questo ordine: quello scaduto, quello per lui più gravoso, quello
più antico. In mancanza anche di questo, il pagamento si imputava proporzionalmente a
più debiti. Il debitore doveva eseguire esattamente la prestazione dovuta o un’altra
2

prestazione col consenso del creditore. In questo ambito, vi fu discussione tra i proculiani
e i sabiniani: per i primi si risolveva ope exceptionis, per i secondi, vincitori, ipso iure. La
prestazione andava adempiuta nel tempo indicato nell’atto costitutivo, dunque alla
scadenza del termine o al verificarsi della condizione. Se nulla era stabilito, andava
compiuta in un tempo determinato dalle circostanze e dal tipo di prestazione. Se niente
era implicito o esplicito, doveva compiersi immediatamente. Il luogo dell’adempimento
era indicato nell’atto costitutivo, dalle circostanze e dal tipo di prestazione. Se non era
specificato, si compiva nel luogo in cui il debitore poteva esser convenuto in giudizio,
dunque al suo domicilio.

6.17.2 La remissione del debito

Con il termine remissione, si indica oggi l’atto con cui il creditore rinuncia al proprio
credito. Nel diritto romano, si parla di solutio per aes et libram, acceptilatio e pactum de
non petendo.

La solutio per aes et libram

Il rito, simmetrico e contrario al nexum, si svolgeva alla presenza di cinque cittadini


romani puberi e di un libripens, anch’egli cittadino pubere, che reggeva la bilancia. Alla
presenza del creditore, il debitore si dichiarava libero, contemporaneamente gettando
sulla bilancia il metallo dovuto, che veniva pesato. Con l’introduzione della moneta
coniata, la pesatura divenne solo simbolica. Tale rito era utilizzato per la liberazione dei
nexi dal potere del creditore, per lo scioglimento del vincolo a carico del condannato in un
giudizio privato, per l’estinzione di obbligazioni pecuniarie da legato per damnationem.
Abrogato il nexum, tale rito venne riconosciuto come produttore di effetto liberatorio e
mantenne effetto estintivo ipso iure, riconosciuto a prescindere dall’adempimento. Fu
pertanto un imaginaria solutio, una solutio apparente di cui se ne aveva solo l’immagine e
divenne in sostanza un negozio per la remissione del debito, valido ed efficace qualunque
fosse la causa, anche a prescindere dalla sua esistenza. Fu utilizzata ancora in età classica,
ma scomparve in età postclassica.

L’acceptilatio

Era un atto a formalismo interno, simmetrico e contrario alla stipulatio. L’obbligazione si


costituiva e si estingueva ipso iure verbis. Era annoverata tra gli actus legitimi. Non tutte
Le persone giuridiche

le obbligazioni si estinguevano mediante questo rito ma solo quelle della stipulatio e le


altre nate verbis. In età arcaica, è probabile che le obbligazioni verbis non si estinguessero
per il fatto in sé dell’adempimento della prestazione, ma che si presupponesse
acceptilatio, presupponente a sua volta l’adempimento. Riconosciuto effetto obbligatorio
alla stipulatio, questo rito fu idoneo a estinguere l’obbligazione a prescindere

2
dall’adempimento. Fu adoperata per la remissione del debito, indipendentemente dalla
causa. Fu considerata imaginaria solutio. Si applicò durante il principato e nel Corpus,
per il largo ricorso alla stipulatio. Era nulla per vizi di forma o perché riferita a
obbligazioni non contratte verbis, era valida come pactum de non petendo.

Il pactum de non petendo

Si poteva avere remissione del debito anche con semplice patto a non pretendere
l’adempimento della prestazione. Avrebbe avuto l’efficacia propria dei nuda pacta,
estinto ipso iure e per le azioni penali furti e iniurarum.

6.17.3 La transazione

Era una specifica causa dei negozi astratti e un particolare caso di pactum de non petendo.
Presupponeva una lite in corso o incertezza su doveri e diritti reciproci delle parti e
pattuivano queste delle attribuzioni e rinunce. Per le attribuzioni si proseguiva o
immediatamente o ci si impegnava tramite stipulatio. Per le rinunce il pactum
transactionis era sufficiente, in quanto opposto validamente mediante exceptio. acquistò
poi fisionomia autonoma e per l’attuazione si utilizzò l’actio praescriptis verbis: da qui
l’inquadramento nei contratti innominati.

6.17.4 La novazione

Per novazione si intende la sostituzione di un’obbligazione con un’altra talché la prima si


estingue e al suo posto sorge la nuova. La novazione si verificava fondamentalmente per
effetto di una stipulatio che, avendo ad oggetto la stessa prestazione, facesse espresso
riferimento al rapporto obbligatorio che con essa si voleva estinguere. Per effetto della
novazione, la prima obbligazione si estingueva ipso iure e con essa si estinguevano, se
non rinnovate, eventuali garanzie personali e reale e si interrompeva il corso di eventuali
interessi. Si aveva necessità dell’idem debitum e altri due requisiti: l’aliquid novi e
l’animus novandi: il primo era la nuova obbligazione che doveva presentare qualcosa di
nuovo rispetto alla precedente, il secondo che si richiedeva l’intenzione delle parti di
procedere a novazione. Giustiniano mantenne l’animus novandi, ma ammise che la
novazione potesse aver luogo pure a prescindere dall’idem debitum. In relazione
all’aliquid novi, la novazione poteva essere oggettiva o soggettiva: nella prima l’elemento
Le persone

nuovo era la causa, ma anche condizioni, termini, garanzie personali. Un caso particolare
di novazione oggettiva è la stipulatio Aquiliana. In un'unica stipulatio si deduceva il
corrispettivo pecuniario – di ogni debito o obbligazione – conosciuto o ignorato da
ambedue le parti – del promittente verso lo stipulante, in modo che il primo fosse tenuto
verso lo stipulante ad una sola prestazione: quella, pecuniaria, ma incerta nel suo
2

ammontare, assunta con la stipulatio, la cui obbligazione avrebbe potuto essere estinta
con acceptilatio. Vi si ricorreva a scopo transattivo e nei rapporti tra amministratori di
complessi patrimoniali.

Nella novazione soggettiva, l’elemento nuovo riguardava o la persona del creditore o


quella del debitore e faceva seguito ad una delegatio, che era una autorizzazione
unilaterale ed informale. Si trattava di delegatio promittendi, attiva o passiva. In quella
attiva il creditore invitava il proprio debitore a promettere con stipulatio a un terzo quel
che lo stesso debitore doveva al creditore. In quella passiva, anche detta expromissio, il
creditore era il debitore, delegato da un terzo, delegatario il creditore: su invito del
debitore il terzo prometteva al creditore ciò che allo stesso doveva il delegante.
Nell’ultima età repubblicana, i giuristi attribuirono alla litis l’effetto di estinguere
l’obbligazione, che doveva tuttavia combinarsi all’effetto preclusivo: il creditore non può
più tornare ad agire, e quindi il suo credito era estinto. Una volta estinta l’obbligazione,
non per questo il debitore era da considerarsi libero: non era più tenuto in virtù del
vincolo originario ma era comunque tenuto in virtù di un vincolo di natura processuale,
un vincolo per cui si parlò di condemnari opotere. la sentenza di condanna avrebbe fatto
estinguere la condemnari opotere ma dava luogo a obligatio iudicati. Si effettuava una
sorta di novazione e ad altra novazione dava luogo la sentenza di condanna, limitata al
processo formulare. Nonostante l’obbligazione fosse estinta, sopravviveva il pegno e
continuavano a decorrere eventuali interessi. Il debitore avrebbe potuto validamente
adempiere il suo debito anche dopo la litis sì da essere assolto.

6.17.5 La compensazione

Per compensazione si intende il fenomeno per cui, se il creditore è debitore del suo
debitore, crediti e debiti reciproci si estinguono nella misura in cui concorrono. Oggi si fa
distinzione tra compensazione legale e compensazione giudiziale: nella prima,
l’estinzione ha luogo automaticamente per il semplice fatto che esistano obbligazioni
reciproche, mentre nella seconda, l’estinzione si verifica per effetto della sentenza di un
giudice, il quale, presi in esame i controcrediti, si dà luogo ad operazione contabile e si
condanna una delle parti al pagamento della differenza tra i crediti (o all’assoluzione se
equivalenti i crediti). Il fenomeno della compensazione legale è estraneo al diritto romano
e dapprima anche la compensazione giudiziale, perché ad ogni obbligazione
Le persone giuridiche

corrispondeva un’azione tipica e, nel processo ordinario, le strutture erano tali da non
consentire che si mescolassero azioni diverse nello stesso processo. Dall’ultima età
repubblicana si diede origine a diverse deroghe. Una delle quali riguardava obbligazioni
perseguibili con azioni di buona fede, perché non si ritenne conforme a buona fede che si
chiedesse l’adempimento di una prestazione se non si era adempiuta la propria.

2
Successivamente si tenne conto dei controcrediti del convenuto così da procedere a
compensazione e condannarlo al pagamento della differenza. Il credito minore si sarebbe
estinto per effetto della sentenza del giudice. Affinché il giudice potesse procedere si
richiedeva che i due crediti fossero ex eadem causa, dipendessero cioè dalla stessa fonte,
dallo stesso rapporto. Non occorreva che i crediti fossero omogenei, poiché, essendo la
condanna espressa in denaro, tutti i crediti venivano ridotti allo stesso comune
denominatore pecuniario: onde la possibilità di compensare, al limite, un credito in
denaro con altro avente oggetto uno schiavo. Altra deroga riguardò gli argentarii, i
banchieri, che disponevano di sicuri strumenti di riscontro contabile e dunque sui quali
gravò l’onore, se erano al contempo debitori e creditori dei propri clienti, di agire contro
di essi cum compensatione: avrebbero dovuto cioè calcolare preliminarmente il saldo per
cui restavano creditori così che nell’intentio dell’azione relativa al credito si inserisse quel
saldo. Col rischio, se veniva indicato un importo maggiore, di perdere la lite per pluris
petitio. Anche in questo caso, il credito si estingueva per effetto della sentenza del
giudice, ma i due crediti dovevano essere omogenei, quindi avere ad oggetto cose
fungibili e potevano non derivare dalla stessa fonte. Anche giudiziale era il tipo di
compensazione che aveva luogo con il bonorum emptor, il quale era obbligato ad agire
cum deductione contro i debitori del fallito se fossero questi stati a loro volta creditori
dello stesso. Al credito si faceva riferimento nella condictio, così che sarebbe stato
compito del giudice l’operazione contabile: in questo modo non v’era pericolo che il
creditore chiedesse più del dovuto e in tal modo il giudice poteva anche procedere a
compensare crediti non omogenei, pur se non derivanti da stessa fonte. In un riscritto,
Marco Aurelio consentì al convenuto di opporre in compensazione, nei giudizi di stretto
diritto e mediante exceptio doli, i propri controcrediti alle pretese creditorie dell’attore.
Nel diritto giustinianeo, il ricorso alla compensazione si generalizzò: essa poteva avere
luogo anche nell’ambito di azioni reale e ipso iure. Con Giustiniano, dunque, si riconobbe
la compensazione legale.

6.17.6 Il concursus causarum

Si fa riferimento all’ipotesi del creditore di una cosa determinata, il quale, dopo che
l’obbligazione è sorta, acquista la stessa cosa ad altro titolo, per altra via. La conseguenza
era che dapprima l’obbligazione si estingueva. Successivamente, si affermò il principio
Le persone

per cui l’obbligazione si estingueva in quanto le due cause – quella in base alla quale la
res era dovuta all’altra in base alla quale essa era acquistata – fossero ambedue lucrative,
senza oneri pecuniari per lo stesso creditore. Si parlò di concursus causarum
lucrativarum.
2

6.17.7 Altri fatti giuridici estintivi delle obbligazioni

Le obbligazioni si estinguevano ipso iure in altri casi ancora:

 Per confusione.
 Per impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore.
 In deroga al principio che crediti e debiti si trasmettevano agli eredi,
l’obbligazione si estingueva per morte di una parte nelle seguenti materie: negli
illeciti sanzionati da azioni penali, nelle obbligazioni di garanzia da sponsio e
fidepromissio, nella societas e nella locatio operarum, nel mandato.
 I contratti consensuali, finché non avesse avuto luogo l’esecuzione, si
scioglievano per reciproco dissenso, talché si estinguevano le obbligazioni.
Società e mandato anche per motivi diversi e anche se il contratto avesse avuto un
inizio di esecuzione. Si estinguevano allora quelle obbligazioni in funzione della
sua ulteriore attuazione, non le altre.
 Con l’adrogatio e la conventio in manum di donne sui iuris si estinguevano i
debiti contratti dall’adrogato e dalla donna.
 Con il decorso del tempo: inizialmente crediti e debiti non avevano limiti di
tempo. Tuttavia, Teodosio II istruì una praescriptio triginta annorum, opponibile
ad ogni azione dopo trent’anni di inerzia del titolare, che avrebbe estinto ogni
obbligazione in via d’eccezione.

6.18 La cessione dei crediti


Non era riconosciuta a Roma la possibilità di procedere a cessione dei crediti o
trasferimento dei debiti in modo che questi passassero inalterati da un soggetto ad un
altro. A quest’esigenza si fece fronte, a partire da età preclassica, con taluni espedienti.
Per quanto riguarda la cessione di crediti, innanzitutto, si procedette con la novazione:
una novazione soggettiva, nella quale la persona che cedeva il proprio credito (cedente)
assumeva il ruolo di delegante, la persona alla quale il credito era ceduto (cessionario) il
ruolo di delegatario e il debitore (ceduto) il ruolo di delegato. Cambiava così la persona
del creditore, ma non aveva luogo un vero e proprio trasferimento, in quanto il
cessionario non subentrava nella stessa identica posizione del cedente: se non rinnovate,
Le persone giuridiche

potevano estinguersi garanzie e interessi. Ciò non era sempre possibile poiché il debitore
avrebbe potuto non essere disponibile, quando invece obbligatoria era la sua presenza.
Allora il cedente avrebbe nominato cognitor o procurator ad litem il cessionario, che
avrebbe potuto agire in giudizio contro il debitore con la stessa azione della quale era
titolare il cedente. Il cessionario avrebbe trattenuto quanto ricavato: sarebbe stato pertanto

2
un cognitor o procurator in rem suam, ossia nel suo interesse. Così, però, il cessionario
era garantito solo a partire dalla litis contestatio poiché solo da quel momento il debitore
sarebbe stato tenuto direttamente verso il cessionario attore. Prima di allora il debitore
avrebbe dovuto adempiere direttamente al cedente con effetto liberatorio, e il cedente
avrebbe potuto far estinguere l’obbligazione e agire egli stesso in giudizio contro il
debitore o revocare unilateralmente la nomina a cognitor o procurator, qualifiche
intrasmissibili agli eredi. Per l’ipotesi di vendita e conseguente cessione di crediti, si
stabilì che al compratore-cessionario si dessero, contro i debitori ereditari, actiones utiles
proprio nomine, in modo che il cessionario potesse agire come per un credito proprio. Si
diedero anche al cessionario di singoli crediti. Si diffuse anche la prassi di notificare con
denuntiatio al debitore, da parte del cessionario, l’avvenuta cessione e, in età classica,
effettuata la denuntiatio, il debitore non poteva più pagare al cedente con efficacia
liberatoria. Risalgono al Basso Impero altri interventi imperiali: si vietò la cessio in
potentiorem, la cessione di debiti al più potente economicamente o socialmente e si vietò
che il cessionario esigesse dal debitore più di quanto speso per l’acquisto del credito.

6.19 Il trasferimento di debiti


Espedienti simmetrici e contrari potevano essere applicati per il trasferimento dei debiti:
su invito del debitore il creditore stipulava e il terzo prometteva quanto dovuto dal
debitore. Oppure il debitore nominava il terzo cognitor o procurator ad litem perché
sostenesse col ruolo di convenuto la lite con il creditore. Si poteva anche procedere con
transscriptio a persona in personam.

6.20 Le obbligazioni parziarie


Si dicono parziarie le obbligazioni con pluralità di creditori o di debitori, in cui ogni
creditore abbia il diritto di pretendere o ciascun debitore il dovere di prestare una parte
soltanto dell’oggetto della prestazione. Questa si ripartisce tra i creditori o tra i debitori in
parti uguali o disuguali a seconda dei casi, dando luogo a più obbligazioni ognuna con
Le persone

propria prestazione corrispondente alla parte dovuta a ciascuno o da ciascuno. È il caso


dei crediti e debiti ereditari, ripartiti tra più eredi.

6.21 Le obbligazioni solidali


2

A quelle parziarie si contrappongono le obbligazioni solidali, ossia quelle in cui,


essendoci più creditori o più debitori, ciascun creditore può esigere e ciascun debitore
deve adempiere l’intero. Da qui il termine solidali, ossia in solidum, per intero. Esse
potevano essere attive, con più creditori, o passive, con più debitori. Erano anche
cumulative, quando la prestazione era dovuta tante volte quanti erano i debitori o i
creditori o elettive, quando l’adempimento di uno faceva estinguere l’obbligazione per
tutti.

6.21.1 Le obbligazioni solidali cumulative

Esse si riscontravano in materia di legati per damnationem e in materia di delicta. Nel


primo caso, poteva darsi solidarietà cumulativa attiva quando la stessa cosa era legata dal
testatore disgiuntamente a più persone: l’erede avrebbe dovuto prestare e ogni legatario
pretendere l’intero, senza che la prestazione in favore di uno liberasse l’erede rispetto agli
altri. Nel secondo caso, degli illeciti sanzionati da azioni penali, la regola era quella della
solidarietà cumulativa passiva: se più erano gli autori dell’illecito erano tenuti tutti a
pagare l’intera pena senza effetto liberatorio per gli altri. Nel caso di iniuria poteva anche
essere attiva: se taluno, con lo stesso atto, avesse offeso più persone, doveva pagare
l’intero a tutti gli offesi. Questo processo subì depenalizzazione, fino a lasciare poche
tracce nella compilazione giustinianea.

6.21.2 Le obbligazioni solidali elettive

Quando vi era la presenza di solidarietà elettiva, uno solo dei creditori esigeva per tutti
l’intera prestazione, o uno solo dei debitori l’adempiva per tutti. Una possibile forma era
nella stipulatio, nel caso di più stipulanti e un promittente o viceversa: attiva nel primo
caso, passiva nel secondo. Poteva sorgere anche nell’ambito di altri contratti, sempre che
una delle parti contraenti fosse costituita da più persone, e che vi fosse la volontà dei
contraenti. Il regime poteva non essere così nel caso di obbligazioni indivisibili con
pluralità di creditori o debitori o nel caso del legato per damnationem in cui il testatore
avesse posto a carico di un erede l’obbligo di compiere una determinata prestazione in
favore di uno o dell’altro legatario, o avesse posto alternativamente a carico di più coeredi
l’obbligo di compiere la stessa prestazione a un legatario. Essa si estingueva per tutti,
Le persone giuridiche

concreditori e condebitori, con l’adempimento della prestazione oppure per acceptilatio,


novazione, impossibilità sopravvenuta alla prestazione non imputabile al debitore.
Confusione e capitis deminutio la estinguevano solo nei confronti di quel creditore o
debitore cui l’azione fosse riferita. In merito al pactum de non petendo, bisognava
distinguere se fosse in rem o in personam: in rem avrebbe estinto per tutti, mentre in

2
personam solo tra le parti tra le quali il patto era intervenuto. Quanto alla litis contestatio,
si doveva distinguere tra giudizi di stretto diritto e giudizi di buona fede: nei primi, la litis
promossa da un concreditore o contro un condebitore estingueva l’obbligazione per tutti,
poiché la successiva azione promossa da altro concreditore o contro altro condebitore
sarebbe stata preclusa. Ciò persino se, nella solidarietà passiva, il primo condebitore non
adempisse la prestazione perché non solvibile. Nel secondo caso, si ritenne che finché il
creditore, nella solidarietà passiva, non fosse stato soddisfatto, l’obbligazione a carico dei
condebitori sussisteva. Analogamente per la solidarietà attiva. Giustiniano estese le
soluzioni che i classici avevano limitato ai giudizi di buona fede. In materia di diritto
romano non si conobbero vere e proprie azioni di rivalsa o di regresso. Contro il
concreditore il quale aveva esatto la prestazione gli altri concreditori non avevano azione
di rivalsa per pretendere che il ricavato venisse tra loro spartito. E il condebitore,
adempiuta la prestazione, non aveva azione di regresso contro gli altri obbligati per il
rimborso di quanto speso. Giovavano però le azioni che sanzionavano il loro rapporto
interno, ad esempio l’azione divisoria per i comproprietari. Il rapporto interno poteva
anche far sì che a dover adempiere fosse uno solo dei coobbligati: era il caso del creditore
principale e dell’adstipulator. L’adstipulator che avesse esatto la prestazione avrebbe
rimesso tutto il ricavato al creditore principale, che non avrebbe dovuto nulla a questo. A
situazioni simmetriche e contrarie davano luogo, nella solidarietà passiva, i rapporti tra
garanti e debitore principale, l’unico che avrebbe dovuto sopportare il sacrificio
economico della prestazione.

6.22 Le garanzie personali delle


obbligazioni
Le garanzie personali si realizzavano con l’intervento di un terzo (garante) che assume di
adempiere la stessa obbligazione del debitore principale.

6.22.1 Stipulazioni di garanzia

La più antica, antenata della stipulatio, è la sponsio: si compiva verbis e dava origine ad
obbligazioni contratte verbis. Doveva essere prestata subito dopo la promissio del
Le persone

debitore principale dallo sponsor. Era riservata ai soli cives Romani. L’obbligazione si
estingueva alla morte dello sponsor. Una lex Publilia stabilì contro il debitore che entro
sei mesi non gli avesse rimborsato quanto pagato al creditore, lo sponsor avrebbe potuto
direttamente agire con la legis actio per manus iniectionem pro iudicato. Venuta meno
questa poté agire ex lex Publilia con l’actio depensi: nella misura del simplum qualora il
2

debitore ammettesse il suo debito e nella misura del doppio qualora lo negasse. Più
recente è la fidepromissio, della prima età preclassica, una vera e propria stipulatio. Il
regime giuridico era come quello della sponsio: tuttavia, questa era fruibile sia da cittadini
che da peregrini e ad essa non fu estesa l’azione di regresso della legge Publilia. A queste
stipulazioni di garanzia fecero riferimento alcune leggi repubblicane. Tra queste, la Lex
Furia de sponsu, che stabilì che, trascorsi due anni dall’assunzione della garanzia, i
garanti erano liberati. E che, se più erano i garanti, la prestazione doveva essere divisa tra
loro in parti uguali. Alla fine della repubblica, si diede avvio anche alla fideiussione, una
stipulatio accessibile sia a cittadini che a non cittadini, alla quale non si estesero le leggi
Publilia e Furia e il regime giuridico rimase assai diverso: essa, alla morte del fideiussore,
passava agli eredi, potevano essere garantite anche obbligazioni diverse rispetto a quelle
contratte verbis e si poteva derogare la regola dell’unità di tempo e spazio (poteva essere
prestata a distanza di tempo dopo l’assunzione dell’obbligazione principale e in luogo
diverso). Adriano riconobbe il principio per cui la prestazione fosse divisibile tra più
fideiussori dello stesso credito, purché solvibili. Un tratto comune di queste tre
stipulazioni era che si costituiva tra debitore principale e garanti da una parte e creditore
dall’altra, il regime della solidarietà elettiva passiva, essendo la prima parte tenuta al
pagamento in solidum al creditore. La posizione del garante era diversa da quella del
debitore, in quanto caratteristica della garanzia era l’accessorietà: essa presupponeva
l’esistenza dell’obbligazione principale. Erano nulle le stipulazioni per importi superiori
al debito principale. L’estinzione dell’obbligazione principale comportava l’estinzione
delle garanzie, ma non viceversa: quella principale si estingueva solo se l’estinzione delle
stipulazioni di garanzia investiva l’intero rapporto. Quanto alla litis contestatio, si deve
ricordare che con essa l’obbligazione si estingueva nei confronti sia del debitore che dei
garanti, in quanto l’azione contro i garanti era di stretto diritto. Da qui l’effetto preclusivo
verso tutti i condebitori solidali e l’esigenza che il creditore proponesse l’azione contro il
più solvibile di essi. Circa i rapporti tra debitore principale e garanti, bisogna specificare
che il sacrificio economico spettava soltanto in ultimo al debitore principale, ma che
l’zione di regresso dei garanti contro il debitore si aveva, con l’actio depensi, solo nella
sponsio. Per le altre due stipulazioni si fece riferimento al mandato, concedendo l’actio
mandati contraria. Solo per i debiti pecuniari, al garante pronto a pagare il creditore
cedeva anche l’azione contro il debitore principale, nominandolo cognitor o procurator
Le persone giuridiche

in rem suam: si parlò di beneficium cedendarum actionum. Nell’età postclassica, in


seguito al processo di decadenza, sponsio e fidepromissio scomparvero e con essi le
norme non comuni alla fideiussione. Inoltre, in età giustinianea, la riforma legislativa che
negava nella litis l’estinzione dell’obbligazione per tutti i condebitori solidali venne
estesa ai rapporti tra creditore, debitore principale e garanti. Inoltre il beneficium

2
cedendarum actionum venne considerato come vero e proprio diritto del garante. Si istituì
il beneficium excessionis, con il quale si riconobbe a ogni garante il diritto di pretendere
che si agisse prima contro il debitore principale, se necessario anche in via esecutiva. I
garanti sarebbero così stati tenuti non oltre la misura di quello che il debitore principale
poteva prestare.

6.22.2 Il mandato di credito

Nell’ultima età repubblicana, si affermò il principio per cui si poteva impiegare il


mandato in funzione di garanzia dell’obbligazione da mutuo, che si affermò durante l’età
classica. Il garante, divenuto, mandante, dava compito al creditore, mandatario, di
devolvere una certa somma a mutuo a un terzo. Si contraeva un mandatum pecuniae
credendae, ossia un mandato di credito. Al creditore si dava sia actio certae creditae
pecuniae contro il debitore sia actio mandati contraria contro il garante, tutte di buona
fede. Il beneficium cedendarum actionum non dipendeva dal consenso del creditore ma
dai poteri del giudice, che avrebbe potuto subordinare la condanna del mandante alla
cessione, da parte dell’attore, dell’azione contro il debitore principale. Se erano più i
mandanti dello stesso credito, l’esercizio dell’azione contro uno non precludeva, nel caso
di insoddisfazione, di ripetere l’azione contro gli altri. Nella compilazione giustinianea si
cercò di uniformare la normativa del mandato di credito a quella della fideiussione. Il
beneficium divisionis venne esteso al caso di più mandanti dello stesso credito e il
beneficium excussionis fu riferito da Giustiniano congiuntamente a fideiussori e mandanti
del credito.

6.23 Gli atti in frode dei creditori


Poiché il patrimonio del debitore rappresentava per il creditore strumento di garanzia di
carattere generale, si cercò di tutelare quest’ultimo contro il pericolo che il patrimonio del
debitore si riducesse oltre misura sino a rivelarsi insufficiente. A tutela di ciò la lex Aelia
Sentia sancì la nullità della manumissione dei servi fatta dal debitore in frode al creditore.
Il pretore però concesse anche denegatio actionis, in integrum restitutio ob fraudem e
interdictum fraudatorium.
Le persone

 Denegatio actionis: riguardava le obbligazioni che il debitore, rivelatosi


insolvente, avesse assunto a proprio carico con il proposito di accrescere la sua
situazione di insolvibilità. Al terzo il pretore avrebbe denegato l’azione contro il
bonorum emptor.

 In integrum restitutio ob fraudem: gli atti del debitore che ne avevano ridotto il
2

patrimonio venivano sostanzialmente revocati.

 Interdictum fraudatorium: si dava direttamente al singolo creditore e dopo la


bonorum venditio. Riguardava gli atti di riduzione dell’attivo patrimoniale che il
debitore avesse fatto in frode al creditore. Era rivolto contro il terzo in favore del
quale tali atti erano stati compiuti. Era azione restitutoria e giovava anche ai
creditori che avevano partecipato alla procedura concorsuale.

Il termine per queste due ultime era di un anno dall’istanza. Requisiti comuni erano:

 Eventus damni: aveva carattere oggettivo, ossia doveva essere reale l’effettivo
pregiudizio ai creditori, avendo ridotto il patrimonio del debitore in misura tale
che esso non era più sufficiente per soddisfare i creditori.

 Consilium fraudis: aveva carattere soggettivo ed era la determinazione da parte


del debitore di realizzare l’evento.

 Scientia fraudis: aveva carattere soggettivo ed era la conoscenza da parte del


terzo in favore del quale era stato compiuto l’atto fraudolento di conoscere
l’intenzione del debitore. Si finì per prescindere da questa nei confronti del terzo
donatario.

I compilatori del Digesto procedettero alla fusione degli ultimi due atti cosicché il diritto
per la revoca degli atti fraudolenti divenne un’azione ordinaria, che, siccome rinvenuta in
uno scritto attribuito a Paolo, venne detta actio Pauliana.
Le persone giuridiche

2
7. Le donazioni
7.1 La donazione: concetto ed evoluzione
La donazione non era dapprima un negozio autonomo ma una possibile causa di negozi
giuridici astratti, i quali potevano in fatti essere compiuti donandi causa, in modo che una
parte effettuasse un’attribuzione patrimoniale in favore di un’altra senza corrispettivo e
pertanto a titolo gratuito. Essa aveva effetti diversi: effetti reali nel trasferimento della
proprietà e nella costituzione o estinzione di altri diritti di godimento, effetti obbligatori
quando il donante con stipulatio prometteva una certa prestazione, effetti estintivi di
obbligazioni quando faceva acceptilatio del proprio credito o rimetteva al debitore il suo
debito. Si distingue quindi rispettivamente tra donazioni in dando, donazioni in
obligando, donazioni in liberando.

7.1.1 La lex Cincia


Fu elaborata nel 204 a.C., cosiddetta de donis et muneribus, e proibì le donazioni al di
sopra di un certo limite. Si trattava di un plebiscito proposto dal tribuno Cincio Alimento,
nell’interesse dei ceti socialmente svantaggiati e più deboli al fronte di combattere il
dilagante fenomeno delle donazioni estorte. Non sappiamo quale fosse tale limite, ma fu
relativamente basso. Dal divieto erano esclusi i parenti fino al sesto grado e taluni affini,
rientranti nelle personae exceptae. Era una lex imperfecta: vietava tali donazioni ma non
stabiliva l’invalidità di quelle già avvenute contro legge né sanzionava i trasgressori.
Provvide il pretore con l’exceptio legis Cinciae: una un mezzo di difesa che giovava al
donante se, trattandosi di donazione in dando o in obligando, alla donazione non avesse
dato esecuzione. Quando si trattava di donazioni in obligando, non essendo i presupposti
di tale legge, il donante, convenuto dal donatario, con l’actio ex stipulatu per
l’adempimento, poteva invocare il beneficium competentiae. In età classica venne
stabilito che con la morte del donante sarebbero venute meno le limitazioni stabilite dalla
Le persone

legge, dunque la donazione non sarebbe più stata revocabile, in quanto il donatario
avrebbe potuto appellarsi, in seguito ad exceptio, alla replicatio doli. Quelle revocabili si
dissero imperfectae e quelle non revocabili perfectae.

7.1.2 La riforma di Costantino e la legislazione di Giustiniano


2

Con la costituzione di Costantino nel 323, la donazione divenne vero e proprio negozio
causale e fu classificata contractus, potendo effettuare questa il trasferimento della
proprietà, dunque dar luogo a effetti reali. Con riguardo agli immobili, però, si
necessitavano alcune formalità: la forma scritta, la consegna della cosa in presenza del
vicinato, la registrazione presso un ufficio pubblico. La donazione fu detta perfecta, non
più revocabile. La lex Cincia perse probabilmente valore. Giustiniano non negò la
costituzione di Costantino, ma tornò ad esigere la traditio per il passaggio della proprietà
e al contempo diede efficacia alle donazioni obbligatorie pure se compiute con semplice
patto.

7.2 Le donazioni tra coniugi


Sorse, nel clima di sfiducia nella donazione, il principio che vietava le donazioni tra
marito e moglie: non aveva avuto origini legislative e forse faceva capo ai mores.
Comportava la nullità dell’atto compiuto contro il divieto, talché la mancipatio non
avrebbe trasferito la proprietà, rimasta al donante. Furono esclusi doni di modico valore
in importanti occasioni e il consumo e l’utilizzo di beni di uso quotidiano. Ciò subì un
temperamento con un senatoconsulto, che confermò le donazioni tra coniugi non
revocabili in vita dal donante, per le quali lo stesso donante avesse dimostrato in vita di
non cambiare volontà.

7.3 La donatio mortis causa


Un tipo particolare di donazione, nella quale la causa donandi si combinava con la causa
mortis, era la donatio mortis causa. Ricorreva quando taluno, credendo di essere in
pericolo di vita o di sopravvivere meno a lungo del donatario, faceva donazione di una
sua proprietà, trasferendola, ad un altro. Una volta guarito o sopravvissuto, con condictio
poteva pretendere la restituzione di quanto donato: questo perché era venuta a mancare la
causa. L’idea era che il donante aveva preferito se stesso al donatario, e il donatario ai
propri eredi. Era un acquisto a titolo particolare in dipendenza della morte del disponente.
Le persone giuridiche

Perciò, questa si assimilò a buona parte del regime dei legati, giungendo con Giustiniano
alla parificazione.

2
Le persone
2

8. Le successioni mortis
causa

8.1 Il fenomeno della successione


L’espressione successio in locum esprime l’idea di una persona che prende il posto di
un’altra. Dunque successio in ius indica l’idea del passaggio di posizioni giuridiche
soggettive da un soggetto ad un altro ferma restando la loro identità. Si tratta sia di
posizioni giuridiche attive che passive, quindi proprietà, crediti, debiti. Chi trasmette è il
dante causa e chi acquista a titolo derivativo è il successore, o avente causa. La
successione può essere a titolo universale, quando il successore subentra in un complesso
universale e non necessariamente definito nei suoi elementi costitutivi di posizioni
giuridiche soggettive che facevano capo ad altri e particolare, quando il successore
subentra in singole determinate posizioni giuridiche soggettive di un altro. Le successioni
possono essere inter vivos o mortis causa. Oggi, l’unica universale è quella a causa di
morte, mentre nel diritto romano vi rientravano la successione in favore del pater familias
in dipendenza di adrogatio, di conventio in manum di donna sui iuris. Erano iure civili,
ma tra le iure pretorio rientra la successione del bonorum emptor in relazione alla
bonorum venditio.

8.2 La successione universale mortis causa


secondo il ius civile. Concetti e principi
fondamentali
I successori mortis causa a titolo universale erano per eccellenza gli eredi e le situazioni
giuridiche soggettive costituivano l’hereditas. L’acquisto dell’hereditas presupponeva la
Le persone giuridiche

chiamata all’eredità: in termini giuridici presupponeva la delazione ereditaria, che


avveniva nel momento stesso della morte del dante causa. Poteva essere testamentaria o
legittima: la prima avveniva per testamento valido ed efficace, mentre la seconda in forza
di legge, ab intestato (in cui l’intestatus era la persona che non aveva fatto testamento). Si
diveniva heres automaticamente e necessariamente per il fatto della delazione, mentre si

2
proseguiva ad accettazione a volte. Di qui la distinzione tra heredes necessarii e heredes
voluntarii: i primi automaticamente per effetto della delazione, i secondi in forza
d’accettazione. Una volta acquistato il titolo non si perdeva più e non poteva essere
ceduto. A seguito dell’incompatibilità tra successione testamentaria e legittima, si affermò
che queste due non potevano coesistere nella stessa persona. Altro principio era quello
dell’intrasmissibilità della delazione ereditaria: se il chiamato ad eredità moriva prima di
aver accettato, i suoi eredi non avrebbero potuto procedere ad accettazione. La regola subì
in età classica e postclassica temperamenti per ragioni d’equità. Giustiniano introdusse la
transmissio iustinianea riconoscendo agli eredi del chiamato di acquistare in vece sua
l’eredità entro un anno dall’aver avuto notizia della delazione o dal giorno della delazione
se il dante causa non ne aveva avuto notizia. La delazione era intrasmissibile mortis
causa e con atti inter vivos. Ne fu non proprio un’eccezione l’in iure cessio hereditatis,
per cui l’erede ab intestato cedeva l’eredità sì che il cessionario divenisse egli stesso
erede. Non era trasmissione in quanto il cessionario non rispondeva alla chiamata
all’eredità né si trasmetteva una posizione giuridica soggettiva, in quanto l’erede non
aveva ancora acquistato tale titolo. Cadde in desuetudine in età postclassica.

8.2.1 Capacità di trasmettere e acquistare di ereditando ed eredi


Entrambi dovevano essere persone libere, cittadini romani e sui iuris. Alla successione
erano chiamati anche i nascituri purché già concepiti al momento della morte
dell’ereditando. Quando dovevano però essere giuridicamente capaci? Si distingue tra
successione testamentaria e legittima. In quella legittima la capacità giuridica
dell’ereditando doveva sussistere al tempo della morte, quella dell’erede al tempo della
delazione, mentre per gli eredi volontari anche al tempo dell’accettazione. Nella
successione testamentaria, le fonti parlano di testamenti factio e indicano sia la capacità di
fare testamento sia la capacità di acquistare quali heredes in forza di testamento. Attiva fu
definita la prima, passiva la seconda. In quella attiva, oltre alla capacità giuridica, si
richiedeva la capacità d’agire: la prima doveva sussistere al tempo della perfezione del
testamento senza interruzioni sino alla morte, mentre la seconda solo nella prestazione del
testamento. In quella passiva, la capacità giuridica era richiesta sia al tempo della
perfezione del testamento sia al tempo della chiamata ad eredità. Per gli eredi volontari,
anche al tempo dell’accettazione. Essa si derogava sia a filii familias immediatamente
Le persone

soggetti a patria potestas del testatore sia a servi manomessi per via testamentaria. Gli uni
e gli altri potevano essere validamente istituiti eredi, giuridicamente capaci alla morte
dell’ereditando. Nulla vietava che si istituissero eredi figli e schiavi altrui: questi, con
l’accettazione avrebbero acquistato eredità l’avente potestà. Essi avrebbero per questo
fatto valido atto d’accettazione previa invito dell’avente potestà. Le conseguenze
2

giuridiche dell’incapacità discendevano dai principi. Gli incapaci non erano chiamati
all’eredità. Se un incapace era istituito erede, al suo posto subentrava il substitutus. In
difetto di quello, si accresceva la quota ai coeredi testamentari. Ma se ad essere incapace
era l’unico chiamato all’eredità o tutti quelli chiamati, si apriva la successione legittima.
Quanto al testatore, in difetto di testamenti facto attiva, il testamento era nullo e si
proseguiva a successione legittima.

8.2.2 Capacitas e legislazione caducaria


La lex Iulia de maritandis ordinibus e la lex Papia Poppea di età augustea si occuparono
della capacitas di acquistare mortis causa con riguardo a caelibes e orbi. I caelibes delle
leggi erano i non coniugati, gli orbi i coniugati senza figli. Si negò a questi la capacità di
acquistare per testamento, totale per i celibi, per metà di quanto disposto gli orbi. Quanto
al non acquistato dai non capaces, si accresceva questo in favore dei coeredi che fossero
discendenti o ascendenti al testatore. In difetto, esso diveniva caducum ed era devoluto in
primo luogo ai coeredi con figli e poi ai legatari con figli e in difetto di questi
all’aerarium populi romani, da età classica avanzata al fisco. Per la persecuzione dei
caduca, si utilizzava la caducorum vindicatio. Per gli altri casi, e poi nella successione
legittima, si proseguiva a seguire il ius antiquum, il regime precedenti le leggi augustee.
Agli inizi del III sec. l’imperatore Antonino Caracalla, per arginare la scarsità
demografica, volse le leggi augustee all’accrescimento del patrimonio pubblico. Abolì i
privilegi dei coeredi con figli e dei legati con figli e stabilì che in assenza di parenti in
linea retta del testatore, la quota vacante sarebbe stata devoluta al fisco. Durante il Basso
Impero, le disposizioni di queste leggi furono abrogate, tornando all’antico regime del ius
antiquum.

8.2.3 Indegnità a succedere


I senatoconsulti e le costituzioni imperiali andarono sanzionando con l’indegnità a
succedere il comportamento di quanti furono ritenuti indigni a subentrare al defunto iure
hereditario. Non furono ritenuti incapaci ad acquistare l’eredità, ma, al momento
dell’acquisto, questa veniva reclamata extra ordinem dall’aerarium populi Romani, o dal
fisco poi. Essi restavano tali anche dopo l’azione dell’erario o del fisco e il pretore
concesse azioni ereditarie contro e in favore di essi. Erano ritenuti indegni ad esempio:
Le persone giuridiche

 l’uccisore dell’ereditando.

 l’erede che avrebbe contestato giudiziariamente lo status personale dell’ereditando.

 colui che impediva a questo di fare testamento, o lo impugnava come inofficioso o


falso.

2
 i rei di adulterio e stuprum.

8.2.4 L’acquisto dell’eredità. Gli eredi necessari


Gli eredi potevano essere necessari o volontari. Gli eredi necessari erano i sui heredes e
anche gli schiavi manomessi nel testamento del dominus e nello stesso istituiti eredi. Si
dissero necessari in quanto acquistavano automaticamente e necessariamente il titolo di
eredi alla morte dell’ereditando senza bisogno di accettazione e senza possibilità di
rifiuto. I sui erano quindi i familiari direttamente soggetti alla potestas dell’ereditando al
momento della sua morte, che, sia nella successione testamentaria che legittima,
sarebbero diventati sui iuris. Gli eredi subentravano sia nell’attivo che nel passivo: se il
passivo superava l’attivo (se quindi l’eredità era svantaggiosa), gli eredi avrebbero dovuto
onorare il passivo con il proprio patrimonio e se erano impossibilitati sarebbero andati
incontro al rischio di procedure esecutive con le relative conseguenze. Dall’ultima età
repubblicana il pretore gli concesse quindi il beneficium abstinendi che, pur conservando
formalmente la qualifica di eredi, faceva evitare la praescriptio: questa sarebbe infatti
stata a nome dell’ereditando, rendendone ignominiosa la memoria. Per il timore di ciò,
spesso l’ereditando manometteva nel testamento un servo, rendendolo erede necessario,
ma non sui heres: non godeva di tale beneficio e la bonorum venditio sarebbe stata a suo
nome.

Gli eredi volontari

Gli altri chiamati all’eredità erano gli eredi volontari, o heredes extranei. Non divenivano
eredi automaticamente per effetto della chiamata, ma di seguito ad accettazione o
adizione. Prima dell’accettazione l’eredita era considerata giacente ed esposta a usucapio
pro herede.

8.2.5 L’accettazione dell’eredità


Questa poteva avvenire o mediante cretio o per pro herede gestio.

→ Cretio: era un atto formale, uno degli actus legitimi e si compiva con la pronuncia
di parole determinate, tra cui adeo cernoque, che esprimevano la volontà di
accettare l’eredità. Si faceva necessariamente ricorso a questa se, nella successione
Le persone

testamentaria, espresso dallo stesso testatore nei confronti dell’istituito.


Scomparve in età postclassica.

→ Pro herede gestio: si compiva in tutti gli altri casi. era un’accettazione tacita
dell’eredità, che consisteva in comportamenti determinati, che manifestavano
senza equivoci la volontà di accettare. Si trattava di atti concludenti, per lo più
2

inerenti alla gestione del patrimonio. Tuttavia, si potevano anche avere


dichiarazioni espresse ed informali di quest’accettazione. L’adizione doveva
essere compiuta personalmente senza né condizioni né termini, dopo che avesse
avuto luogo la delazione. Tuttavia, dei termini potevano essere imposti dal pretore,
il quale li immetteva per dare tempo all’erede indeciso di accettare o rifiutare
l’eredità. Trascorso questo termine, era automaticamente considerato rinunziante.
Dunque, purché erede volontario, egli poteva rinunciare. Non v’era una
prescrizione di forma e non potevano esservi apposti termini e condizioni, pena la
nullità.

8.2.6 La fusione dei patrimoni: rimedi


Il patrimonio del defunto andava a fondersi con quello dell’erede o di ciascuno degli
eredi. Quando l’eredità era dannosa, gli eredi volontari avrebbero potuto rifiutare,
costringendo i creditori ad agire per via esecutiva, danneggiando il nome del defunto. Per
questo, si escogitarono diversi rimedi:

 Il pactum ut minus solvatur: prima di accettare gli eredi convenivano con il


creditore ereditario al pagamento di una sola percentuale dei debiti. Se poi
convenuti per importo maggiore, avrebbero agito con l’exceptio pacti conventi.

 L’aditio mandato creditorum: i chiamati avrebbero adito l’eredità ma dietro


mandato dei creditori. Se avessero dovuto pagare oltre l’attivo ereditario
avrebbero opposto l’actio mandati contraria.

 Beneficium inventarii: aggiunto da Giustiniano. Non avendo ancora accettato,


entro un mese dalla notizia della delazione, gli eredi avrebbero potuto iniziare e
portare a compimento nei due mesi successivi la descrizione esatta dei cespiti
ereditari, appunto l’inventario. Il chiamato all’eredità avrebbe accettato pagando i
debiti del defunto sino alla concorrenza dell’attivo ereditario.

Era possibile pure che fosse l’erede volontario ad essere obbligato al pagamento di debiti,
ma che fosse insufficiente il suo patrimonio. Il pregiudizio per la fusione dei patrimoni
avrebbe allora riguardato i creditori ereditari. Una volta avviata l’esecuzione per debiti
contro l’erede, il pretore avrebbe concesso un decretum di separatio bonorum: la
Le persone giuridiche

bonorum venditio avrebbe riguardato unicamente i beni dell’erede e il creditore avrebbe


potuto soddisfarsi per intero o in misura maggiore sui beni ereditari.

8.2.7 L’hereditas
Era oggetto della successione universale e la qualificarono come universitas, intendendo

2
un complesso unitariamente considerato di corpora e iura (beni e proprietà, crediti e
debiti), possibile oggetto di bonorum venditio e di specifica azione giudiziaria. Era un
dato reale e contemporaneamente una costruzione giuridica, per cui poteva accadere che
il passivo superasse l’attivo. Subiva incrementi e perdite o poteva rimanere uguale a se
stessa. Era inoltre un complesso unitario che, prima dell’accettazione, era suscettibile di
propria autonoma considerazione: si pensi all’eredità giacente, all’in iure cessio
hereditatis e all’usucapio pro herede. Era considerata anche ius (ius successionis o ius
hereditatis) avente ad oggetto la stessa universitas e spettante a quanti ne fossero eredi,
classificata come res incorporales. Comprendeva le situazioni soggettive trasmissibili che
facevano capo al defunto al tempo della morte: non comprendevano l’usufrutto e diritti
affine, né le potestas familiari (estinte alla sua morte) o la tutela e la cura. Invece, si
trasmettevano la potestà sui servi e il mancipium su filii familias altrui. Gli heredes
necessari furono considerati automaticamente possessori delle cose già in possesso del
defunto. Gli eredi volontari diventati possessori con la presa di possesso furono
considerati i continuatori del possesso dell’ereditando e nella sua stessa situazione
possessoria. All’ereditando potevano far capo posizioni soggettive che non si
estinguevano con la morte e che passavano ai familiari stretti, che fossero questi eredi o
non, come i sacra familiaria (i riti inerenti al culto delle divinità domestiche), il ius
sepulcri (il sepolcro) e il patronato (i diritti, le prerogative, le aspettative del patrono
riguardo ai suoi liberti).

8.2.8 L’hereditatis petitio


L’azione specifica a tutela dell’eredità, spettante all’erede, era la vindicatio hereditatis,
un’azione reale di ultima età repubblicana, conosciuta come hereditatis petitio. Aveva
stesso rito delle legis actio sacramenti in rem, con adattamenti necessari all’oggetto e
giudizio dei centumviri. Si procedeva pertanto con formula petitoria, sebbene il regime
subì diverse differenziazioni. Viene in considerazione la legittimazione passiva: il
principio espresso è che l’azione compete contro il possessore di cose ereditarie se questo
possiede pro herede o pro possessore. Possedeva pro herede chi assumeva il titolo di
erede, mentre pro possessore chi possedeva senza alcun titolo o causa del proprio
possesso. Se il convenuto inoltre invocava a giustificazione qualsiasi altro tiolo, l’attore
avrebbe potuto procedere con la rivendica e non con quest’azione menzionata. Fu
Le persone

ammessa questa contro colui che avesse accettato hereditatem defendere per distogliere
l’attore dal vero legittimato e anche contro chi avesse prima della litis cessato
dolosamente di possedere. Il convenuto con la petizione di eredità, o in buona o in mala
fede, doveva restituire i frutti percepiti dal possesso della cosa ereditata e rispondere del
suo comportamento doloso o colposo, ma anche restituire i frutti percepiti prima della lite
2

sotto il profilo in cui questi accrescono l’eredità, oltre che le cose acquistate con il
patrimonio ereditario e quanto ricavato dalla vendita di queste cose ereditarie, dunque
ogni cosa lo avesse arricchito in relazione al possesso di cose ereditarie. Dunque
l’hereditatis petitio, pur essendo azione reale, comprendeva delle prestazioni personali.
Giustiniano la incluse tra le azioni di buona fede.

8.2.9 La coeredità
In relazione al consortium ercto non cito, si parla di comunione di eredità, o coeredità,
che si stabiliva tra più eredi una volta scomparso il consortium o tra più eredi extranei.
Ogni erede era titolare di una quota ideale con diritti e doveri uguali a quelli del
comproprietario sul bene comune. Ciò emerge nell’ambito dello ius adcrescendi e della
divisione.

Lo Ius adcrescendi: in virtù del diritto di accrescimento, uno o più contitolari, in


proporzione alla propria quota, in determinate circostanze acquistavano automaticamente
la quota dell’altro. Nella coeredità invece l’accrescimento presupponeva che uno dei
chiamati in eredità, per incapacità, rinuncia o altro, non divenisse coerede. La sua quota
veniva automaticamente devoluta a favore degli altri coeredi che avessero acquistato
quanto deferito. Nella successione testamentaria tale diritto si derogava:

 quando trovava applicazione la legislazione caducaria.

 quando il testatore aveva provveduto alla nomina di un substitutus.

 quando il testatore aveva istituito congiuntamente più eredi per la stessa quota: per
effetto della coniunctio, la parte del coerede che non acquistava l’eredità si accresceva
in favore degli altri che fossero stati chiamati in eredità.

La divisione: da essa erano esclusi crediti e debiti ereditari in quanto si imputavano


direttamente ai coeredi, in proporzione della quota ad ognuno spettante. Le obbligazioni
seguivano, se divisibili, il regime delle obbligazioni parziarie. Se indivisibili venivano
considerate obbligazioni solidali elettive. L’azione propria della divisione era l’actio
familiae erciscundae, nella quale si procedeva per formula. Questa comprendeva
l’adiudicatio: il giudice procedeva alla distribuzione di cespiti ereditari divisi in più lotti
tanti quanti fossero le quote ereditarie e poi, mediante adiudicatio, li aggiudicava ai
Le persone giuridiche

partecipanti alla divisione con effetto costitutivi di proprietà o altri diritti reali. Al
regolamento dei conti si procedeva per condemnationes, rendendo la divisione fonte di
obbligazioni. Il giudice doveva tenere conto di diversi fattori giuridicamente rilevanti: il
modus del testatore messo a carico di taluno degli eredi, i prelievi spettanti a singoli
coeredi sull’asse ereditario indiviso, la certa res da assegnare, per volontà del testatore,

2
all’erede istituito ex certa re.

8.3 La successione universale mortis causa


secondo il diritto pretorio. La bonorum
possessio
Si elaborò in ultima età repubblicana un sistema di successione universale mortis causa
pretorio, mediante la concessione di bonorum possessio, che non era antitetica a quella di
ius civile ma era volta a agevolarne l’applicazione, a compensare e correggere. Le origini
vanno ricercate nel dicere vindicias con cui il magistrato assegnava il processo
provvisorio della cosa in contestazione. Nel caso di controversia ereditaria, assegnava il
possesso dei beni ereditari, anche successivamente con formula petitoria, dovendo
stabilire quale delle parti era in possesso dell’eredità, e assegnando bonorum possessio a
quella che gli appariva più probabilmente erede o a che offrisse maggiori garanzie per la
restituzione. La bonorum possessio non era tanto in favore del più probabile erede ma in
favore della persona che ragioni di opportunità suggerivano venisse alla successione del
testamentario. E ciò anche se non vi era controversia. Divenne istituto di diritto
sostanziale: si stabilì a quali soggetti e in quale ordine avrebbe dato la bonorum possessio
il pretore, che si andò precisando e consolidando, fino a stabilizzarsi al tempo di Adriano
con la codificazione dell’editto. La qualifica di bonorum possessor rimase distinta da
quella dell’erede: l’erede era successore universale iure civile, il possessor iure pretorio.
Così come il pretore non poteva annullare posizioni giuridiche soggettive acquistate e
riconosciute iure civili, ma solo impedirne nei fatti la realizzazione, così non poteva
costituire posizioni giuridiche iure civili rilevati, non poteva creare heredes. Assicurava
però ai bonorum possessores posizioni di vantaggio e di svantaggio analoghe a quelle
dell’erede. Per la presa di possesso, al bonorum possessor si diede l’interdictum quorum
bonorum. Il possessor non acquistava però il dominium ex iure Quiritium, bensì la
possessio ad usucapionem dei corpora hereditaria: li avrebbe avuti in bonis e ne sarebbe
diventato proprietario per diritto civile con il decorso del tempo. Se ne avesse perduto il
possesso prima del decorso del tempo, avrebbe potuto recuperarlo con azione analoga a
quella Publiciana, anch’essa fittizia. Con riguardo a debiti e crediti ereditari, si
Le persone

concedevano azioni iure civili come quelle degli eredi. La bonorum possessio era spesso
concessa a soggetti che erano anche heredes, e che avrebbero potuto utilizzare
prerogative proprie solo del possessor: la possessio sarebbe stata adiuvandi iuris civilis
gratia. Era possibile che si desse a soggetti i quali non erano eredi o per mancanza di eredi
civili o per preferenza a essi, per colmare lacune del diritto civile o correggerlo. Nel
2

conflitto chi dei due prevaleva? Inizialmente si dava sempre ragione all’erede civile:
tuttavia, tale pratica si ritenne iniqua e dunque la vittoria dipese da caso a caso. Il
possessor avrebbe potuto opporre exceptio doli all’hereditatis petitio dell’erede. La
bonorum possessio poteva essere cum re se a prevalere era il possessor, sine re viceversa.
La tutela giudiziaria per le due figure era pressoché uguale e si ritenne che oggetto della
bonorum possessio era una universitas, un ius, quindi un insieme unitario di posizioni
giuridiche soggettive attive e passive. In materia di successione, il regime dell’eredità si
riconobbe uguale in quanto a capacità, indegnità, comunione, accrescimento e divisione.
Si sottolineò la formale distinzione, ma la sostanziale equiparazione dei due istituti,
osservando che il bonorum possessor succede in luogo all’erede (loco heredis).
Differenze invece si applicarono per delazione e acquisto. Per diritto pretorio, la
delazione era testamentaria e legittima: alla prima apparteneva la bonorum possssio
secundum tabulas, alla seconda sine tabulis e contra tabulas. A norma di un’apposita
clausola edittale, l’edictum successorium, la chiamata dei successibili avveniva per
categorie e aveva durata limitata nel tempo. Era assegnato ad ogni categoria un termine
per essere ammessi. Decorso questo inutilmente, l’istanza sarebbe stata loro preclusa e
sarebbero stati chiamati gli appartenenti alla categoria successiva. Il tempo per l’istanza
era di un anno per i figli e i genitori dell’ereditando, di cento giorni per gli altri chiamati.
Esso decorreva dalla morte dell’ereditando per gli appartenenti alla categoria chiamata
per prima e successivamente dalla scadenza del termine assegnato agli appartenenti alla
categoria precedente. Alla successione pretoria erano chiamati soltanto gli eredi volontari
poiché alla bonorum possessio erano ammessi di seguito ad agnitio bonorum
possessionis. Si iniziava con un’istanza dell’interessato e si concludeva con la
concessione da parte del pretore secondo le previsioni edittali. Nell’età postclassica,
venuta meno la giurisdizione pretoria, si continuò a distinguere tra heredes e bonorum
possessores, anche se, per diritto giustinianeo, vennero quasi del tutto assimilate.

8.3.1 La collazione
Si manifestò nell’ambito della bonorum possessio in due specie:

→ Collatio bonorum: fu proposta dal pretore con riguardo alla bonorum possessio
ab intestato. Alla successione pretoria erano chiamati i liberi, trai quali
rientravano sia i sui sia i figli emancipati, in riguardo ai quali il pretore si occupò
Le persone giuridiche

di determinarne le disparità. Gli acquisti compiuti dai sui in vita del pater
sarebbero andati all’avente potestà, mentre quelli degli emancipati rimanevano
agli emancipati stessi. Morto il padre, quindi, gli acquisti dei sui rientravano nella
massa ereditaria divisi tra sui e emancipati, mentre quelli degli emancipati
sarebbero rimasti agli stessi emancipati. Il pretore addossò ai figli emancipati,

2
pena la negazione dei mezzi giuridici loro spettanti in quanto bonorum
possessores, di procedere a collatio bonorum in modo che del patrimonio
personale si avvantaggiassero in uguale misura anche i sui. L’emancipato doveva
prestare tante cauzioni quanti erano i sui che avevano titolo alla collazione, a
ciascuno promettendo una parte dei propri beni personali, escluso il passivo. Beni
oggetto di questa collazione non sarebbero stati parte della massa ereditaria, ma
ignorati nel giudizio divisorio.

→ Collatio dotis: era anche questa di origine pretoria. Riguardava la figlia cui il
padre avesse concesso una dote e che, sciolto il matrimonio, sarebbe stata di
norma restituita. Essi, provenienti dal patrimonio paterno, avrebbero portato
vantaggio solo alla figlia. Dunque il pretore le diede l’onere alla collatio dotis, se
questa concorreva alla bonorum possessio ab intestato, in modo da garantire
uguaglianza a fratelli e sorelle. Sanzionata come la collatio bonorum, questa si
attuava mediante cauzioni, promettendo la figlia ai fratelli di cedere a ognuno
ugualmente una parte del patrimonio dotale.

Durante il Basso Impero questo regime subì importanti mutazioni: l’onere della
collazione non presuppose più la bonorum possessio e si realizzò con tutti i discendenti
sia in linea paterna che materna, emancipati e non, riguardando sia i beni dotali sia quelli
che il successore avesse avuti in donazione dall’ereditando. Confluì poi in un unico
istituto: la collatio discendentium. Rimase uguale il modo di attuazione tramite cautiones
e il riferimento alla sola successione legittima, che si estese solo con Giustiniano a quella
testamentaria.

8.4 Il fedecommesso universale


Anche il fedecommesso universale dava luogo a successione universale mortis causa.
Le persone

8.5 La successione universale ab intestato


In difetto di testamento valido ed efficace si apriva la successione ab intestato. Il
momento della sua delazione era lo stesso della morte dell’ereditando. Ma se, nella
successione civile, il testamento era valido ma non produceva effetti per mancata
2

accettazione degli eredi volontari, il momento della delazione ricorreva quando si aveva
la certezza che questi non avrebbero accettato. Analogamente nella successione pretoria:
gli eredi ab intestato erano chiamati alla bonorum possessio una volta trascorsi
inutilmente i termini per l’agnitio della bonorum possessio secondo testamento e si dava
possibilità di delazioni successive. In questa successione rientrava quella contro
testamento. Alla successione universale ab intestato erano chiamati gli eredi nel seguente
ordine: i sui, gli agnati, i gentiles. Tra i suoi si faceva rientrare anche i figli in potestate,
sia maschi che femmine, avuti durante iustae nuptiae e adottivi, la moglie in manus del
marito (considerata al pari di una sua sorella) e i nipoti figli del figlio premorto. A questa
categoria appartenevano anche i postumi sui, ossia quanti non ancora nati ma già
concepiti al momento della morte del pater familias. se più erano i sui, a ciascuno
spettava una quota per stirpe, non per capita: ai nipoti ex filio si assegnava globalmente
quanto sarebbe spettato al padre se questo fosse stato ancora in vita. Solo il sesso
maschile poteva avere sui heredes, per le donne dunque si faceva riferimento agli agnati.
Poi erano chiamati alla successione gli agnati, ossia le persone libere discendenti in linea
maschile da uno stesso capostipite comune di sesso maschile, sempre che il vincolo non si
fosse prima spezzato. Gli agnati erano non sui, dunque fratelli e sorelle, ma anche moglie
e figli, se la moglie avesse contratto matrimonio cum manu. Gli agnati di sesso maschile
non avevano limiti di grado, le donne non oltre il secondo grado. Poiché si parla di agnate
prossimo, il parente di grado più vicino escludeva quello più lontano: non si ammetteva
successio graduum. Se più erano gli agnati dello stesso grado, ad entrambi sarebbe
spettata un uguale quota, dunque la successione sarebbe stata per capita. Gli agnati erano
eredi volontari. Successivamente erano chiamati i gentili, ossia coloro che appartenevano
alla stessa gens dell’ereditando. Essi erano eredi volontari. Oltre la successio graduum,
era negata anche la successio ordinum, ossia la successione per classi, in quanto ai gentili
si faceva ricorso solo in mancanza di agnati. In età classica questa è desueta, essendo già
venuta meno l’organizzazione gentilizia. Vigeva poi la regola per cui il patrono
succedeva al proprio liberto se questo non avesse fatto testamento e in mancanza di sui
heredes: il patrono teneva il ruolo che nella successione dei nati liberi avrebbero avuto gli
agnati. Inoltre, il padre partecipava alla successione del figlio manomesso come parens
manumissor (considerato alla stregua di un patrono per il figlio).
Le persone giuridiche

8.5.1 La successione universale ab intestato secondo il diritto pretorio


Il sistema della successione si rivelò presto lacunoso ed iniquo: alla successione erano
ammessi soltanto i parenti in linea maschile, non vi erano reciproche aspettative
successorie tra madre e figlio quando il matrimonio era sine manu e ai matrimoni sine

2
manu non vi era successione tra marito e moglie, oltre che, spezzato il vincolo
dell’agnatio, i figli non erano chiamati alla successione del padre o dei fratelli naturali né
questi potevano succedere a fratelli o sorelle emancipati o dati in adozione. A ciò supplì il
sistema pretorio della bonorum possessio sine tabulis, alla quale erano chiamati:

 I liberi: erano i sui, i figli emancipati e i figli dati in adozione, ma già sui iuris al
tempo della morte del padre. se premorti o rinunciatari, i loro discendenti. Si
aveva attribuzione per stirpi.

 I legitimi: rientravano i successibili come sui, agnati, gentiles, patrono e parens


manumissor. Le regole erano le stesse del ius civile.

 I cognati: erano i parenti di sangue sia in linea maschile che in linea femminile,
non oltre il sesto grado. Il parente più vicino aveva la precedenza su quello più
lontano. Era ammessa successio graduum, e l’attribuzione avveniva per capita.

 Vir et uxor: erano chiamati alla successione reciprocamente marito e moglie.

Ogni soggetto possibile erede, nella successione civile, era presente nella previsione
edittale. Ma, nella successione pretoria, così non avveniva in quanto la cognatio era
ritenuta vincolo di sangue autonomo e così il vincolo coniugale, indipendentemente dalla
manus. In virtù dell’edictum successorium gli appartenenti ad una classe erano chiamati
non solo quando mancavano successibili nella classe precedente ma anche se questi
esistevano e avevano fatto decorrere il termine inutilmente. Questa bonorum possessio
ammise la successio graduum e la successio ordinum. Coloro che avevano fatto scadere il
termine, potevano richiedere la possessio se anche appartenenti alla classe successiva.

8.5.2 I senatoconsulti Tertulliano e Orfiziano


Questi senatoconsulti migliorarono le posizioni reciproche di madre e figli. Quello
Tertulliano fece riferimento alla donna con ius liberorum e la chiamò a succedere ai
propri figli, sebbene sarebbero stati preferiti i figli del defunto e i suoi discendenti, il
padre e i fratelli legati da agnatio, non gli altri agnati. Quello Orfiziano chiamò i figli a
succedere alla madre a preferenza di chiunque. Poiché i senatoconsulti erano fonte di ius
civile, madre e figli sarebbero divenuti heredes e come tali avrebbero avuto accesso alla
bonorum possessio ab intestato nella categoria dei legitimi.
Le persone

8.5.3 La successione intestata in età postclassica e giustinianea


Durante l’età postclassica la legislazione imperiale andò riformando la materia e così
Giustiniano, in maniera organica. Gli agnati persero quella posizione di privilegio di cui
godevano rispetto ai cognati e il trattamento successorio dei parenti in linea femminile si
2

integrò a quella maschile. Scomparvero le limitazioni alla successione delle donne e


migliorarono le aspettative reciproche di madri e figli e di mogli vedove. Si ammise la
successione dei figli illegittimi e, riguardo a quella dei liberti, si iniziò a tener conto delle
parentele nate durante la schiavitù, facendo perdere di valore la posizione successoria del
patrono e dei suoi discendenti. Nel 543 Giustiniano regolamentò la materia
organicamente: tolse valore definitivamente all’agnatio e diede esclusivo rilievo alla
parentela di sangue senza distinzioni.

8.5.4 L’eredità vacante


Qualora non si fosse fatto avanti nessun erede o bonorum possessor, il creditore ereditario
del defunto avrebbe avuto via libera per procedere ad esecuzione patrimoniale. Se non si
fosse fatto avanti nessun creditore ereditario, una lex Iulia de maritandis ordinibus stabilì
che l’eredità sarebbe amata all’erario, che, al tempo di Caracalla, divenne fisco.

8.6 Il testamento
La chiamata all’eredità avveniva in forza di testamento, la cui delazione prevaleva di
norma su quella ab intestato. Il testamento era un atto unilaterale, mortis causa,
personalissimo e revocabile sino all’ultimo istante di vita, con cui il testatore disponeva
delle proprie sostanze per il tempo dopo la propria morte. Il testamento era certamente un
atto complesso, che poteva contenere più negozi, di cui però imprescindibile, pena la
nullità dell’atto, l’istituzione dell’erede. La successione testamentaria non era la più
antica, ma certamente si affermò a Roma sin da età remota, prima ancora delle XII Tavole
e trovò ampia diffusione tra le classi più abbienti. Il testamento era considerato come un
conforto per la morte ed era ritenuta grave sciagura morire senza aver fatto testamento.
Testamentum deriva da testes, testimoni ed infatti formalità richiesta per questo era
proprio la presenza di testimoni.

8.6.1 Il testamento civile


La prima forma fu quella del testamento calatis committis, un atto formale che si compiva
oralmente alla presenza dei comitia curiata che si riunivano due volte all’anno. Poco
dopo comparve il testamento in procinctu, concesso ai militari, che potevano testare, con
Le persone giuridiche

dichiarazione formale e solenne, alla presenza dell’esercito romano schierato per la


battaglia. Caddero in desuetudine in età postclassica, preferendosi la mancipatio familiae
e il testamentum per aes et libram.

 Mancipatio familiae: era un negozio fiduciario con cui il testatore trasferiva il


proprio patrimonio a una persona di fiducia, il familiae emptor, al quale affidava,

2
tramite lex mancipi, il compito di distribuire i suoi cespiti ereditari alla sua morte.

 Testamento per aes et libram: si trattava di una mancipatio familiae in cui il


familiae emptor pronunciava una formula elaborata, dalla quale traspariva il reale
scopo dell’atto e quindi il carattere fittizio. Il testatore manifestava la volontà di
testare oralmente, con nuncupatio, e, quanto alle disposizioni, per motivi di
segretezza, queste erano contenute nelle tavolette cerate che portava sempre con
sé. L’atto poteva essere compiuto oralmente con nuncupatio tale ma la più diffusa
era la nuncupatio di rinvio, che, pur previa disposizione orale, conservava forma
scritta per le disposizioni. Il familiae emptor ebbe quindi soltanto rilievo formale e
con la morte del testatore si procedeva subito agli effetti immediati del testamento
e quindi a delazione, con la chiamata degli eredi.

8.6.2 Il testamento pretorio


L’editto pretorio prevedeva una bonorum possessio secundum tabulas, al cui fine il
pretore esigeva un documento scritto, chiuso e sigillato con il contrassegno di sette
testimoni, senza riti particolari o formalità orali. Dunque, si faceva chiaramente
riferimento al testamento per aes et libram, che, per questo, sarebbe stato valido sia iure
civili che iure pretorio.

8.6.3 Il testamento in età postclassica


Fino ad età postclassica il più diffuso fu il testamento per aes et libram. Costantino, però,
sensibile alle esigenze dei provinciali insofferenti ad una formalità estranea alla loro
cultura, soppresse la mancipatio e relativa noncupatio concentrandosi sulla presenza di
idonei testimoni e assimilando al testamento pretorio. Solo Teodosio II stabilì un regime
unitario: il testamento doveva consistere in un documento scritto che il testatore
presentava il testamento a dei testimoni (che avrebbero potuto non conoscerne il
contenuto), dinanzi ai quali lo firmava. Dopo di lui, i testimoni apponevano la loro firma
e, all’esterno, il loro sigillo.
Le persone

8.6.4 Il testamento: invalidità e revoca


Un testamento si diceva invalido per l’inosservanza delle formalità per esso prescritte o
per incapacità del testore. L’invalidità poteva anche essere mediata, in dipendenza di un
vizio di forma nell’istituzione dell’erede o per incapacità degli eredi istituiti. Poteva
2

accadere che un testamento valido fosse colpito da invalidità dopo il perfezionamento: nel
caso di incapacità del testore o degli eredi istituiti, per sopravvenienza di un figlio e per
revoca.

 Sopravvenienza dei figli: si trattava della sopravvenienza di un suus o di un


postumo (invalidità agnatione postumi). Per i discendenti naturali, il principio non
trovava applicazione se il discendente sopravvenuto fosse stato contemplato nel
testamento o istituito erede o diseredato.

 Revoca: il testamento è atto di ultima volontà, che può quindi essere cambiata
sino all’ultimo istante di vita. Venne definito come un atto revocabile, che, iure
civili, però, era revocato solo per effetto di un nuovo testamento. Nel caso di
quello per aes et libram, si ritenne valido anche se il testore avesse rotto i sigilli e
cancellato integralmente o parzialmente il contenuto, o distrutto il documento.
Infatti sorgevano problemi di prova e non di validità, poiché considerabile la
formalità orale. In materia di diritto pretorio, il discorso è diverso: un nuovo
testamento avrebbe revocato il precedente, ma il pretore, per il fatto che esigeva
documento scritto ritenuto essenziale, se si fossero soltanto rotto i sigilli, avrebbe
negato la possessio secundum tabulas agli eredi istituiti e concesso quella sine
tabulis ai successibili pretori ab intestato. Dunque questi modi di revoca non erano
iure civili e acquisteranno valore generale solo a partire da età postclassica.

8.6.5 L’istituzione di erede


Essa poteva essere contenuta soltanto nel testamento. Venne definita caput et
fundamentum totius testamenti: caput perché si trovava all’inizio del testamento (regola
abolita da Giustiniano) e fundamentum in quanto nessun testamento era valido senza
l’istituzione dell’erede, che doveva avvenire in termini espliciti e con tono imperativo.
Tale regola subì attenuanti durante l’età classica, per poi essere abolita da Costanzo, che
stabilì che poteva essere espressa in qualsivoglia forma, purché inequivocabile.
L’istituzione poteva avvenire cum modo, cum libertate e cum cretione. Potevano essere
istituiti un solo o più eredi: un solo erede sarebbe stato erede per l’intero, ex asse, più
eredi per quota, solitamente espressa in dodicesimi. Poiché l’erede o gli eredi erano
successori universali, un’istituzione di erede ex certa re, in un singolo bene determinato,
sarebbe stata una contraddizione, onde la nullità. In età classica prevalse la tesi per cui era
Le persone giuridiche

valida l’istituzione dell’erede e ritenuta come non aggiunta la cosa. Tuttavia, ulteriori
sviluppi a tutela della volontà del testore, determinarono che la certa cosa dovesse essere
riesumata all’atto della divisione, così che il giudice ne tenesse conto nel procedere alla
distribuzione agli eredi dell’asse ereditario. L’istituzione di erede poteva essere sotto
condizione sospensiva, ma non risolutiva o con termine finale, in quanto incompatibili

2
con il principio di perpetuità del titolo ereditario. Non era neppure ammesso, per motivi di
opportunità, il termine iniziale. Termini e condizioni erano considerati come non apposti.

8.6.6 La sostituzione volgare


La sostituzione volgare era applicabile all’istituzione di erede chiunque fosse l’istituito ed
era in sostanza un’istituzione di erede sotto la condizione sospensiva che il primo erede
fosse premorto al testatore, che non avesse accettato l’eredità o che comunque non fosse
valido. Dunque si chiamava all’eredità un erede di secondo grado, il sostituto
(substitutus). Potevano aversi più sostituzioni, con eredi di terzo o di quarto grado ecc. la
sostituzione prevaleva sull’accrescimento.

8.6.7 La sostituzione pupillare


Essa presupponeva che il testatore istituisse erede un discendente soggetto alla sua
immediata potestas e consisteva nell’istituzione di un erede al pupillo qualora questo
fosse morto impubere, nell’impossibilità di fare testamento. Il testatore nominava un
erede al proprio discendente facendo in sostanza testamento al suo posto, in deroga al
principio per cui il testamento è atto personalissimo.

8.7 La successione contro il testamento. La


successione necessaria formale
secondo il ius civile
La giurisprudenza pontificale, tra la fine dell’età arcaica e la prima preclassica, affermò il
principio per cui i sui heredes dovevano essere istituiti o diseredati. La diseredazione
avrebbe escluso l’erede dall’eredità, mentre l’omissione avrebbe comportato invalidità del
testamento, con conseguente apertura della successione ab intestato. Si trattava per i suoi
di una garanzia affatto formale, in quanto il testatore aveva l’onere soltanto di nominarli,
non importa se per istituirli o diseredarli. È invalso pertanto parlare di successione
necessaria formale.
Le persone

8.7.1 La successione contro il testamento nel diritto pretorio


Analoga era la tutela disposta dal pretore, che non riguardava i sui, ma i liberi, quelli che
non fossero stati né istituiti eredi né diseredati: il pretore concedeva loro una bonorum
possessio contra tabulas, la quale era concessa anche in favore del patrono, per la metà
2

dell’eredità del liberto morto senza figli e anche in favore del padre per la metà del
patrimonio del figlio emancipato morto nelle stesse circostanze.

8.7.2 La querela inofficiosi testamenti


Una successione contro il testamento in favore dei congiunti del testatore si realizzò con
la querela inofficiosi testamenti. Prese avvio dall’espediente retorico di ultima età
repubblicana di far apparire infermo il testore che senza motivo e vietando l’elementare
dovere di affetto verso i familiari più stretti, avesse escluso il figlio o l’altro prossimo
congiunto dalla propria successione. Venne quindi considerato dai centumviri nullo il
testamento inofficioso di per sé iure civili valido sol che i sui fossero stati diseredati.
Dunque questa querela era una petizione di eredità atta a far perseguire al querelante la
propria quota di eredità ab intestato. La querela doveva essere esercitata, pena la
decadenza, entro cinque anni dall’adizione dell’eredità da parte dell’erede istituito. Vi
erano attivamente legittimati i figli del testatore, i sui e non. In assenza di figli, erano
ammessi anche genitori, fratelli e sorelle, sebbene la loro vittoria contro l’erede istituito
sarebbe stata più difficile: infatti l’inofficiosità del testamento richiedeva diversi requisiti
morali che spesso non si ritrovavano. Dalla querela era escluso il legittimato che avesse
dato seguito alla volontà testamentaria ed era anche escluso il congiunto che avesse
ricevuto almeno un quarto di quanto gli sarebbe spettato ab intestato. Col singolare
risultato che il legittimato che avesse avuto meno, poteva attraverso la querela ottenere
l’intero ab intestato. Alla querela erano passivamente legittimati gli eredi testamentari. In
età postclassica, si consolidò la legittimazione attiva dei genitori, quella di fratelli e
sorelle purché consanguinei (nati dallo stesso padre) e agnati, a condizione però che gli
eredi nel testamento fossero persone turpi. Con Giustiniano, il congiunto che avesse
ricevuto qualcosa in testamento era escluso dalla querela e ammesso alla cosiddetta actio
ad implendam legittimam per l’integrazione della portio debita. Si considera il precedente
storico della moderna legittima e gli attivamente legittimati erano oggi i legittimari.
Tuttavia, i moderni eredi necessari sono soltanto quelli che non potevano essere esclusi
dell’eredità.
Le persone giuridiche

8.8 I legati
Il testamento per essere valido doveva contenere una valida istituzione di erede, che era
disposizione a titolo universale. Ma potevano anche esservi a titolo particolare, come i
legati. Mediante i legati, il testatore concedeva, con atto di liberalità, ai legatari singoli

2
beni o singoli diritti, sottraendoli sostanzialmente agli eredi. Fu validato dalla
giurisprudenza pontificale, in età precedente alle XII Tavole.

8.8.1 I quattruor genera legatarum


Si individuarono quattro tipi di legati:

 per vindicationem: si istituiva con le parole do lego, accompagnate


dall’indicazione sia dell’oggetto che del destinatario. Aveva effetti reali, era
traslativo di proprietà o costitutivi di servitù e usufrutto. Doveva avere ad oggetto
beni propri del testatore.

 per damnationem: si disponeva con le parole heres meus damnas esto, indicando
il legatario e l’oggetto della prestazione. Il testatore faceva carico all’erede di
compiere una prestazione di dare o facere in favore della persona indicata, dando
luogo a un’obligatio nella quale l’erede era debitore e il legatario creditore. Aveva
ad oggetto cose del testatore, dell’erede o di terzi.

 sinendi modo: aveva efficacia obbligatoria, era sanzionato dall’actio ex


testamento e disposto dalle parole heres meus damnas esto, integrate
dall’imposizione all’erede di consentire al legatario di prendere possesso di una
cosa appartenente o al testatore o all’erede. Il legatario acquistava la proprietà
delle res nec mancipi, il possesso ad usucapionem delle res mancipi. Fu assimilato
al legato per damnationem.

 per praeceptionem: utilizzava l’imperativo praescriptio, preceduto dal nome del


legatario e da un oggetto, che dapprima poteva essere solo in favore di un coerede
istituito nel testamento. Era un legato di proprietà e aveva ad oggetto solo cose
proprie del testatore. Aveva attuazione con adiudicatio nell’actio familiae
erciscundae. Fu paragonato al legato per vindicationem e poté, secondo i
proculiani, essere fatto in favore di persona diversa dal coerede. Tale tesi fu
confermata dalla costituzione adrianea.
Le persone

8.8.2 Il senatoconsulto Neroniano, le riforme postclassiche e


l’unificazione dei tipi di legato
Tuttavia, la spartizione delle forme di legato dava spesso origine ad errori ed invalidità
dell’atto. Dunque il senatoconsulto Neroniano propose una conversione negoziale per cui
2

il legato istituito con formula non adatta alla circostanza, sarebbe stato considerato come
istituito con la giusta formula. Il problema venne ulteriormente superato quando Costanzo
abolì le antiche formule, dando capacità alle varie circostanze di individuare effetti reali o
effetti obbligatori. Giustiniano poi riconobbe gli effetti obbligatori a tutti i legati, con i
quali concorrevano all’occorrenza effetti reali. Si trattava dunque di una doppia tutela, in
quanto maggiore era la garanzia, sia reale con l’actio in rem, sia obbligatoria con l’actio
ex testamento. Più conveniente sarebbe stata l’ultima per due ragioni:

 era più leggero l’onere della prova, in quanto bastava dimostrare l’esistenza del
legato, mentre nella rivendica era più difficile provare l’acquisto di proprietà.

 nell’azione in persona la cosa veniva valutata dovunque essa stesse e pure se fosse
perita o deteriorata per responsabilità imputabile all’erede o agli eredi. Mentre nella
rivendica la cosa era valutata nel momento stesso, e si era rivolti contro chi la
possedesse allora.

Il ricorso all’azione di rivendica era più conveniente solo quando, essendo la cosa
reperibile e non deteriorata, il debitore – l’erede – non fosse in grado di far fronte ai debiti
con il proprio patrimonio. Con l’azione personale, infatti, il legato avrebbe agito da
creditore e avrebbe dovuto spartire il debito con gli altri creditori, percependo solo una
percentuale. Con l’azione di rivendica invece, agendo da proprietario, avrebbe potuto
ottenere la cosa integralmente.

8.8.3 I legati e gli onerati


La testamenti factio passiva si esigeva anche per i legati, così come le disposizioni delle
leggi caducarie e degli altri provvedimenti normativi relativi all’indegnità a succedere.
L’onere dei legati gravava sugli eredi, non oltre però l’attivo ereditario. Poteva accadere
che il testatore affidasse l’onere, nel caso di più eredi, a uno solo di questi o ad alcuni di
essi. In nessun caso il coerede onerato ne avrebbe subito oltre il valore della propria
quota. Nel caso di hereditas damnosa i legati sarebbero stati nulli.

8.8.4 I legati: il momento dell’acquisto


I legati avevano effetto dal momento in cui l’erede onerato acquistava l’eredita: il
momento della morte del testatore nel caso dei sui heredes e il momento dell’accettazione
Le persone giuridiche

nel caso degli eredi volntari. Poteva accadere che il legatario morisse dopo il testatore ma
prima dell’adizione dell’erede volontario: inizialmente il legato non avrebbe avuto effetti,
causando incapacità di trasmettere ai suoi eredi quella che era una semplice aspettativa. In
età repubblicana, però, era riconosciuto l’effetto limitato di far acquistare al legatario
diritto al lascito sin dal dies cedens, ossia dal momento stesso della morte del testatore. Il

2
legato sotto condizione sospensiva non avrebbe avuto effetto fino all’avveramento della
condizione. Al dies cedens, si oppose il dies veniens, il momento a partire dal quale
avrebbe avuto effetto il legato. Nel caso dei legati obbligatori, il legatario acquistava
immediatamente il proprio credito. Nel caso dei legati reali, i proculiani sostennero che
doveva essere manifestata dal legatario volontà d’accettazione, mentre i sabiniani
sostennero che l’acquisto avveniva immediatamente ma il legatario avrebbe potuto
rinunciarvi. Prevalsero i sabiniani. Nel caso di più collegatari con effetti reali, si dava
luogo all’accrescimento.

8.8.5 I legati: invalidità, inefficacia e revoca


A tale proposito giova ricordare ancora due casi:

 La regula Catoniana: il legato invalido al tempo della redazione o del


completamento del tastamento restava invalido pure se prima della morte del
testatore la causa di invalidità fosse cessata: si negava quindi la convalida del
legato inizialmente nullo. I classici applicarono ciò solo quando il dies cedens era
lo stesso della morte del testatore e non per legati con condizione sospensiva.

 Revoca: il legato poteva essere soggetto a revoca del testatore che avveniva o con
la revoca stessa del testamento o con l’uso, nello stesso testamento e prima del suo
completamento, di espressioni contrarie a quelle adoperate per il legato. Sin dalla
prima età classica, si riconobbe efficacia iure praetorio pure alla revoca del legato
liberamente manifestata dal testatore dopo la perfezione del testamento, anche se
espressa tacitamente. Il legato rimaneva valido iure civili, ma contro il legatario
che avesse agito in giudizio contro la volontà del testatore si sarebbe concesso
all’erede l’exceptio doli.

8.8.6 Limiti alla libertà di disporre mediante legati


Il costume che consigliava di istituire legati con larghezza e generosità determinò che la
somma del relativo importo esaurisse l’attivo ereditario sì che gli eredi restassero con
nulla. Dunque il legislatore repubblicano intervenne promulgando:

 la lex Furia testamentaria: stabilì a 1000 assi il valore massimo da lasciare ai


legati.
Le persone

 la lex Voconia: l’importo di ciascun legato non poteva superare quanto rimasto
agli eredi.

Queste leggi non risolsero il problema, in quanto più legati istituiti avrebbero potuto
assorbire tutto.
2

Si emanò dunque la lex Falcidia, la quale tolse valore alle leggi precedenti e determinò
che ai legati non fosse lasciato più dei tre quarti dell’eredità, così che agli eredi rimanesse
almeno un quarto dell’attivo. Se il testatore avesse ecceduto, i legati sarebbero stati ridotti
proporzionalmente in base alla legge Falcidia, la quale rimase in vigore per tutto lo
svolgimento del diritto romano.

8.9 Altre possibili disposizioni


testamentarie
Il testamento poteva contenere anche manumissioni e nomine di tutori, sempre
dipendenti, quanto agli effetti, dall’efficacia del testamento e per i quali si esigeva la
forma imperativa. Con la manumissio testamento il testatore liberava il proprio servo,
rendendolo contestualmente erede necessario. Si stabilì che si esigeva comunque forma
esplicita della manumissione, mentre Giustiniano la rese implicita nell’istituzione a erede
del servo. Con la tutoris datio il testatore nominava un tutore per un proprio discendente
immediatamente soggetto alla sua potestà, dunque suus: poteva trattarsi di tutor
impuberis o di tutor muliebris.

8.10 I fedecommessi
L’uso del testatore di raccomandare informalmente all’erede, rimettendosi alla sua fides
per l’adempimento, di compiere una prestazione determinata in favore della persona
indicata traeva origine in età repubblicana dal proposito di aggirare gli ostacoli del legato.
Augusto intervenne, rendendo vincolanti i fedecommessi e legittimando il beneficiato –
fedecommissario – a proporre la petitio fideicommissi secondo il nuovo rito extra
ordinem. Il fedecommesso aveva forma precativa, non imperativa. Per il resto la forma
era libera, e ammetteva l’utilizzo della lingua greca e di altre. Poteva essere disposto sia
nel testamento sia nei codicilli, confermati e non, ma anche oralmente, o con un semplice
cenno di assenso. Così libera era anche la revoca, che avveniva espressa, tacita, mediante
un comportamento incompatibile con la volontà di mantenere il lascito: si disse nuda
voluntate. Il disponente poteva onerare di fedecommesso un erede testamentario, un
Le persone giuridiche

legatario, un fedecommissario e persino un erede ab intestato. L’efficacia del


fedecommesso era subordinata all’acquisto dell’onerato, ma il fedecommissario avrebbe
trasmesso ai suoi eredi il diritto al lascito con il dies cedens, con la morte del disponente.
La testamenti factio era richiesta nel disponente, non nel fedecommissario: pertanto, da
ciò la possibilità di onerare di fedecommessi persone che non si potessero legare. Furono

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adottati criteri assai liberi per la ricerca della effettiva volontà del disponente. Mediante
fedecommesso, con manomissione fedecommissaria, si istituiva la libertà di un servo. Si
trattava di una manomissione indiretta, in quanto non si dava la libertà diretta al servo, ma
comportava l’obbligo dell’onerato di manometterlo. Il servo poteva anche appartenere
all’onerato stesso o a un terzo: in quest’ultimo caso, il terzo avrebbe dovuto acquistare il
servo e manometterlo. Il fedecommesso cadeva se il proprietario del servo non accettava
di venderlo o se chiedeva un prezzo non ragionevole. Il disponente poteva anche
procedere a sostituzione: a un primo fedecommissario se ne sostituiva un altro per
l’ipotesi che il primo non acquistasse il lascito. Nella sostituzione fedecommissaria il
disponente poteva indicare un sostituto che acquistasse non al posto della persona indicata
per prima ma dopo di questa poteva anche disporsi che un sostituto restituisse la cosa ad
un altro sostituto. Un’ipotesi particolare è quella del fedecommesso di famiglia per cui
l’onerato del fedecommesso ed eventualmente il sostituto dopo di lui, tutti appartenenti
alla stessa famiglia del disponente, avrebbero alla loro morte trasmesso il bene acquistato
col fedecommesso ad un altro membro della stessa famiglia. Il senatoconsulto Pegasiano
estese ai fedecommessi i divieti di capere della legge Iulia et Papia e la norma della legge
Falcidia. In età classica, vennero stesi ai fedecommessi altre norme dei legati e viceversa,
per procedere ad un avvicinamento dei due istituti, culminante con l’equiparazione ad
opera di Giustiniano.

8.10.1 I fedecommessi particolari e universali

Fino ad ora, si è discusso di fedecommessi particolari, equiparati ai legati. Ma questi


potevano anche essere universali. Con i fedecommessi universali, si faceva carico
all’erede di trasmettere ad altri, dopo averla acquistata, parte dell’eredità o l’intero.
Dunque sostanzialmente, di conferire al fedecommissario la qualità d’erede. Poiché
questa era intrasmissibile, l’erede doveva procedere alla cessione di tutti i beni materiali
ereditati e a crediti e debiti avrebbero dovuto provvedere tramite reciproche stipulationes,
in modo che fosse il fedecommissario ad esigere e pagare quanto gli spettava. Il
senatoconsulto Trebelliano stabilì che il fedecommissario sarebbe stato ammesso per la
quota spettantegli all’esercizio, in via utile ma in nome proprio, delle azioni spettanti
all’erede. E i creditori ereditari avrebbero agito, pure in via utile, contro lo stesso
fedecommissario. Il successivo senatoconsulto Pegasiano abrogò le norme di
Le persone

quest’ultimo, ripristinando il sistema delle reciproche stipulationes. Tuttavia, alle norme


del Trebelliano si tornò con Giustiniano.

8.11 I codicilli
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Al testamento si affiancarono i codicilli, anch’essi idonei, come il testamento, a contenere


più disposizioni mortis causa. Si trattava in sostanza di documenti scritti, spesso lettere,
che a differenza del testamento non richiedevano grandi formalità per la perfezione. Vi
diede riconoscimento Augusto. Furono classificati come confermati, ossia contenuti nel
testamento per ratifica o per preannunciarli, e non confermati, non contenuti in alcun
testamento.

 Confermati: potevano contenere qualsiasi disposizione testamentaria, ad


eccezione di istituzioni di erede e diseredazioni, dunque soprattutto legati,
fedecommessi e manumissioni. Erano parte integrante del testamento e ne
seguivano le sorti.

 Non confermati: potevano contenere solo fedecommessi e, poiché prescindevano


dal testamento, erano validi pure se a carico di eredi ab intestato.

In età postclassica, la differenza tra codicilli e testamento andò, in merito alla forma,
sempre più oscurandosi, richiedendosi per i primi anche la presenza di testimoni. In
merito ai contenuti, con l’equiparazione giustinianea di legati e fedecommessi, la
distinzione tra confermati e non confermati perse in gran parte valore, fermo restando
però la regola che negava ai codicilli l’istituzione di erede e la diseredazione.

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