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EUGENIO MONTALE

Eugenio Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896, figlio di un commerciante


medio-borghese proprietario di una piccola azienda. Anche lui, come per Saba e per
Svevo, aveva avuto la possibilità di fare studi commerciali e quindi completamente
estranei alla letteratura. Conseguì infatti il diploma di ragioniere. Non andò
all’università ma continuò a studiare canto perché aveva un grande talento e
predisposizione artistica verso il canto, tanto che sarebbe potuto diventare un
mestiere. Preferì quindi dedicarsi alla letteratura. Partecipa alla Prima guerra
mondiale con il grado di sottotenente e alla fine di questa ritorna alla propria vita,
durante le quali estati, che egli trascorreva in vacanza in una villa a La Spezia,
conobbe una giovane donna, Anna, colei che in alcune poesie chiamerà “Annetta”.
Entrerà man mano in rapporto con gli intellettuali torinesi, soprattutto con Piero
Gobetti. Egli era un intellettuale antifascista e un giornalista, una figura di grande
rilievo storico e fu il fondatore del giornale Il Baretti, che aveva un orientamento
politicamente molto forte di tipo antifascista. Montale iniziò appunto a frequentare
questi intellettuali e cominciò a pubblicare alcune delle sue poesie proprio sulla
rivista. Nei dibattiti ripresi nella stessa rivista egli si schierava contro le avanguardie
novecentesche. Egli fu uno dei pochi intellettuali italiani ad apprezzare Svevo, tatto
che sulle pagine di Il Baretti scrisse un articolo quasi celebrativo nei suoi confronti.
Nel 1925 esce la sua prima raccolta in versi, Ossi di seppia, firmando
contemporaneamente a quest’uscita il manifesto antifascista redatto da Benedetto
Croce. A causa del suo netto dissenso dovette condurre un’esistenza molto riservata
per non incorrere nelle repressioni del regime. Si trasferisce a Firenze per lavorare
come redattore in una casa editrice. Viene chiamato alla direzione di un prestigioso
Gabinetto letterario, il Vieusseux, una sorta di accademia letteraria. In quegli anni
incontra una giovane americana che era per motivi di studio si trovava a Firenze; il
suo nome era Irma ma egli in alcune poesie la cita come Clizia. Con lei intratterrà
una relazione passionale e movimentata, egli penserà sempre di raggiungerla dopo
che lei va via ma egli non lo farà mai perché resterà sempre attaccato all’Italia e alla
sua attività letteraria ma anche civile, politica e giornalistica. Nel 1939 pubblica la
sua seconda raccolta, dalla causa editrice Enaudi, le Occasioni. Così come faceva
Saba, egli continuò a portare avanti, tra le varie attività, anche quella di traduzione,
non solo di poesia ma anche prosa. Infatti portò avanti un progetto di traduzione
dell’antologia americana. Incontra un’altra donna, Drusilla Tanzi, colei che diventerà
sua. Ella è la donna che veniva chiamata “mosca” nelle sue opere, a causa della
montatura dei suoi occhiali. Esce la terza raccolta La bufera e altro. Invitò Saba e
Levi, i quali erano perseguitati a causa di motivi raziali, nella propria casa, li protesse
e si iscrisse al partito di azione allo scoppio della seconda guerra mondiale. Nel
dopoguerra, nel 1948, si trasferì a Milano e diventò redattore del Corriere della Sera.
In questa fase della propria vita accoglie in un unico volume una serie di racconti
brevi. Accoglierà un’altra nomina che gli sarà fatta: quella di esperto musicale e di
critico musicale per il Corriere di Informazione. Continuò con il lavoro di traduzione,
soprattutto opere di Shakespeare e Blake. Dopo un lunghissimo silenzio poetico, nel
1970, esce l’ultima raccolta: Satura, edita presso Mondadori. Con Satura la sua
maturazione poetica e umana raggiunge il proprio culmine. Una sezione dell’opera si
intitola Xenia, con riferimento alla lingua e cultura latina. Era stato nominato senatore
a vita per aver difeso e tutelato la patria in campo letterario, artistico e politico. Nel
1975 riceve il premio Nobel per la letteratura pronunciando, presso l’accademia di
Svevia, il suo celebre discorso “è ancora possibile la poesia?”. Montale morì il 12
settembre 1981 a causa di una trombosi celebrale.

OSSI DI SEPPIA
In questa raccolta, pubblicata nel 1925, è evidente innanzitutto l’influsso di
Schopenhauer, quindi del suo pessimismo, e anche di tutte le correnti letterarie e
filosofiche dei primi del novecento, che si opponevano al positivismo. Infatti Montale
non vede nell’evoluzione della società qualcosa di benefico e positivo. Ossi di
Seppia viene chiamata così dall’autore perché vuole dare l’dea di cose
sopravvissute, che resistono alla trasformazione del tempo a cui noi creature viventi
siamo soggetti. Quindi siamo completamente travolti da questo ciclo di
trasformazione che sostanzialmente è anche un ciclo di distruzione, così come la
seppia si decompone e si distrugge, ma, allo stesso tempo, assieme all’accezione
negativa, c’è il lato positivo, ossia ciò che riesce a sopravvivere. L’osso di seppia
allude alla vita prosciugata, risucchiata, ridotta all’essenziale, a sottolineare una
condizione esistenziale che vuole prendere come spunto le cose minime, ma anche
le cose travolte dal tempo. Quindi l’osso di seppia è una metafora esistenziale di ciò
che poeticamente Montale voleva raccontare. Il paesaggio di Ossi di seppia è il
paesaggio di Montale, il paesaggio di Liguria, prevalentemente roccioso, senza
troppa vegetazione, a tratti brullo. Il sole, seppur per Montale simboleggia la
pienezza vitale, spesso tende a inaridire ogni forma di vita, riducendo la vita alla sua
essenza. Montale, in sostanza, concepisce la vita come una lotta continua, in cui
l’uomo pur consapevole della sua dimensione, di prigioniero dell’esistenza, lotta fino
all’ultimo spasmo per uscirne. Questi toni pessimistici e il connesso "male di vivere"
montaliano si riflettono nello stile prevalente delle poesie di Ossi di seppia, scritte
all'insegna di un linguaggio antilirico e quotidiano, che privilegia un lessico non
aulico, una sintassi tendenzialmente prosastica resa vivida da un'accurata ricerca
fonico-simbolica sui termini prevalentemente usati. Il recupero e la profonda
rielaborazione formale e contenutistica della tradizione letteraria italiana fanno sì che
la prima raccolta di Montale, come dimostrano emblematicamente alcuni testi, tra cui
I limoni, Non chiederci la parola, Meriggiare pallido e assorto, sia un punto fermo tra i
più noti e penetranti della nostra poesia novecentesca. In Montale sembra che il
tempo si ripeta ciclicamente, ritornando, questo è il concetto di eterno ritorno.
NON CHIEDERCI LA PAROLA

Non chiederci la parola che squadri da stesso, e non si dà preoccupazione


ogni lato alcuna della sua ombra che il rovente
l’animo nostro informe, e a lettere di sole estivo proietta sopra un muro
fuoco senza intonaco!
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso Non domandarci una formula
prato. matematica che possa rivelarti nuovi
mondi, piuttosto chiedici solamente
Ah l’uomo che se ne va sicuro, qualche sillaba dal suono aspro e
agli altri ed a se stesso amico, secca come un ramo. Tutto ciò che noi
e l’ombra sua non cura che la canicola siamo capaci di dirti oggi è ciò che non
stampa sopra uno scalcinato muro! siamo, ciò che non vogliamo.

Non domandarci la formula che mondi


possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come
un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo.

Non chiederci la spiegazione che dia


una definizione precisa dei segreti
dell’animo umano indecifrabile, e con
lettere indelebili e marchiate a fuoco,
lo descriva apertamente al mondo,
risplendendo come un fiore giallo di
zafferano rimasto solo in mezzo a un
campo polveroso.

Ah, l’uomo che procede altezzoso e


superbo, fiducioso nel prossimo e in se
Figure retoriche:
Enjambements: vv. 3-4 (croco/perduto); 7-8 (canicola/stampa);
metafora: "lettere di fuoco" (v. 2);
similitudine: "risplenda come un croco" (v. 3);
similitudine: "secca come un ramo" (v. 10);
anafora: ripetizione di "Non" a inizio verso (vv. 1 e 9);
allitterazione della "r": (chiederci, domandarci, croco);
allitterazione della "p": (perduto, polveroso, prato);
allitterazione della "s": (sì, storta, sillaba, secca);
antitesi: "squadri" (v. 1) e "informe" (v. 2);
antitesi: "croco" (v. 3) e "ramo" (v. 10);
epifonema: "Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo". Consiste nell'esprimere un motto sentenzioso che, solitamente, chiude
con enfasi un discorso.

Analisi metrica:
Lo schema metrico è comporto da tre quartine formate da versi di varia lunghezza e
con rime ABBA, CDDC, EFEF; la rima del verso 7 è ipermetra (amico/canico-la). Il
componimento è costruito con una struttura circolare. La prima e la terza strofa si
corrispondono simmetricamente: il primo verso è costituito da un ottonario e un
settenario, il secondo è un doppio settenario, gli ultimi due sono endecasillabi; esse
si oppongono perciò alla strofa seconda, che si presenta con quattro versi disuguali,
rispettivamente di 10-9-12-11 sillabe

Analisi:
Montale si rivolge direttamente a un ipotetico interlocutore, che si identifica con il
lettore dei suoi versi; in questo caso, tuttavia, il poeta usa per se stesso la prima
persona plurale, coinvolgendo quindi anche gli altri poeti e, per estensione, la
poesia. Il testo costituisce infatti un documento essenziale di poetica. Nella prima
quartina si afferma che la poesia non è in grado di portare ordine nel caos interiore
dell’uomo, né di definire ed esprimere con precisione impulsi e sentimenti confusi e
contraddittori. Il concetto viene presentato attribuendo all'astratto una forma
concretamente sensibile, attraverso le immagini di un «animo informe» che non può
essere "squadrato" e delle «lettere di fuoco» con cui dovrebbero essere espressi i
suoi moti. Poi si materializza nell'immagine del fiore dall'intenso color giallo (simbolo
della luce): la parola poetica dovrebbe dare senso, valore, pienezza alla vita,
illuminare grigiore insensato e mortificante del vivere quotidiano, dell’aridità
esistenziale (il «polveroso prato»), ma il poeta afferma desolatamente che essa non
è in grado di svolgere questo compito.
La quartina centrale vale come elemento di cerniera e di raccordo. L'interiezione
d'apertura rappresenta un segno di rammarico, ma soprattutto di totale e polemica
estraneità nei confronti dell’uomo deciso e sicuro, in pace con se stesso e con gli
altri. È il conformista, interamente appagato e integrato nel mondo in cui vive, a
differenza del poeta e dei suoi lettori; egli non si pone domande, né si preoccupa
della sua «ombra», simbolo degli aspetti negativi dell'esistenza, dell'indecifrabilità
della realtà esterna e della sua stessa realtà interiore. La vampa del sole, lungi dal
rappresentare la pienezza vitalistica come in d'Annunzio, si collega al motivo
dell'aridità, poiché la luce vale solo a mettere in evidenza il lato in ombra della vita e
la prigionia entro lo «scalcinato muro».
Il collegamento della quartina conclusiva con quella iniziale è sottolineato dalla
ripresa ostentatamente parallela del verso che le introduce: a «Non chiederci la
parola che squadri da ogni lato» corrisponde «Non domandarci la formula che mondi
possa aprirti» (v. 9). La parola poetica non è più, come ritenevano i simbolisti e
Ungaretti, la formula magica che ci introduce nell'essenza ultima e segreta della
realtà, ci fa attingere all’assoluto. Essa viene ridotta (v. 10) a «qualche storta sillaba
e secca» (inerte, sul piano spirituale) «come un ramo» (che vale come antitesi, a
distanza, del «croco»). È anche questa una dichiarazione di poetica, una definizione
del proprio linguaggio scabro e antilirico, per il rifiuto di una facile cantabilità.
I due versi finali, riassumendo le ragioni dell'intero componimento, esprimono con
estrema lucidità la condizione di un'esistenza priva di certezze conoscitive e di valori
alternativi: la poesia non è in grado di proporre messaggi positivi, può solo definire
lucidamente una condizione in negativo. Da questa sfiducia nelle possibilità della
poesia si può misurare la distanza di Montale da d'Annunzio, che proclamava «il
verso è tutto» e definiva il «Verbo» poetico «la suprema scienza e la suprema forza
del mondo»; ma anche da Pascoli, convinto che la poesia, «senza farci scendere a
uno a uno i gradini del pensiero, ci trasporta nell'abisso della verità». Si può
constatare attraverso questa distanza un mutamento pro- fondo di clima culturale.
Ma occorre anche tener conto del momento storico e politico in cui si colloca il testo.
Benché non siano riferimenti espliciti, non è possibile non collegare le posizioni di
Montale all'affermarsi della dittatura fascista, che genera negli intellettuali formatisi
nella cultura liberale un senso di impotenza: essi rifiutano una realtà ripugnante alla
loro coscienza, ma l'unico mezzo per opporsi ad essa è isolarsi nella propria
solitudine, trovare la propria dignità solo nella negazione, non essendovi la
possibilità di un impegno civile e culturale in positivo.

Commento:
Il componimento risale al 1923 e inaugura la sezione intitolata Ossi di Seppia: sono
in tutto ventidue brevi liriche, scritte tra il 1921 e il 1925, che diedero poi il titolo
all'intero libro. La lirica è una dichiarazione di poetica; Montale dichiara, come tutti i
poeti del 900, ed anche per questo parla al plurale, di non essere in grado di offrire
all'uomo, al lettore, un messaggio forte, un messaggio di certezza, di sicurezza, di
verità. Per questo i poeti possono solamente parlare al negativo; possono solamente
dare la testimonianza della sofferenza, del disagio esistenziale che attraversa l'uomo
contemporaneo. È da notare l'uso del correlativo oggettivo, cioè l'oggetto che
simboleggia la condizione esistenziale del soggetto; inoltre c’è anche l'uso di suoni
volutamente allitteranti, per dare l'idea di una sofferenza, di una fatica
nell'espressione della propria intimità, del proprio modo di essere. Con il suo
paesaggio di aridità, e con la sua parodia dell'uomo che se ne va senza problemi,
sicuro e che evita di porsi le domande fondamentali, Non chiederci la parola illustra
con ammirevole sinteticità la condizione di solitudine e di amarezza spirituale in cui
si muove l’umanità contemporanea. Non solo: Montale aggiunge che è finito il tempo
in cui ai poeti si riconosceva l’ultima parola o la possibilità di soluzioni positive. La
poesia di oggi non può che presentarsi come nuda (e fraterna) testimonianza della
crisi in atto.

I LIMONI
In questa poesia programmatica, Montale contrappone alle piante rare e letterarie
dei poeti ufficiali i limoni, simbolo di una realtà quotidiana e consueta. Il loro profumo
e il silenzio estivo sembrano promettere il miracoloso rivelarsi del senso segreto
della realtà: ma il miracolo non si compie, e le uniche divinità che sembrano
manifestarsi sono in realtà le ombre degli uomini. D’inverno, nelle città, i limoni
riappariranno però con i loro colori e il loro odore, a ricordare il clima solare e
sospeso dell’estate.

Metrica:
versi di varia misura, dal senario all’endecasillabo. Rime sparse liberamente (ad
esempio nel verso 2/3, 8/10, ecc.)

Parafrasi:
1-3 Ascoltami, i poeti illustri (laureati) si muovono soltanto fra le piante dei nomi poco
comuni (usati): bossi ligustri o acanti. Il poeta si rivolge a una donna. I poeti laureati
cui si contrappone sono i poeti ufficiali, metaforicamente incoronati con il lauro,
simbolo di gloria. Bossi ligustri o acanti sono piante ornamentali, spesso celebrate
nella tradizione antica e nella lirica decadente.
4-10 io, per me, amo le strade che sbucano sui (riescono agli) fossi erbosi dove, in
pozzanghere mezzo seccate, i ragazzi afferrano (agguantando) qualche esile
(sparuta) anguilla: le stradine (viuzze) che costeggiano i terreni rialzati (seguono i
ciglioni), scendono fra i pennacchi (ciuffi) delle canne e portano agli (mettono negli)
orti, tra gli alberi dei limoni. Montale contrappone al paesaggio stilizzato e letterario
dei poeti laureati quello realistico della sua infanzia.
11-17 è meglio se i gridi (gazzare=allegro baccano) degli uccelli finiscono (si
spengono) perdendosi (inghiottite) nell’azzurro del cielo: allora si ascolta più
chiaramente (chiaro) il sussurro dei rami amati (amici) /dei limoni/ nell’aria che quasi
non si muove, e si percepisce meglio la sensazione (i sensi) di questo odore che non
sa staccarsi da terra e riversa (piove; transitivo) nel petto una dolcezza inquieta. Il
paesaggio più gradito è quello silenzioso e assolato in cui si spande il profumo dei
limoni: il loro odore che non sa staccarsi da terra è una metafora di fedeltà alla realtà
quotidiana, contro le sublimazioni dei poeti laureati.
18-21 qui per miracolo si placa (tace) la guerra delle passioni che distraggono
(divertite), qui anche a noi poveri tocca la nostra parte di ricchezza, che (ed) è
l’odore dei limoni. Passioni divertite sono quelle distolte dai problemi più profondi e
reali. Il profumo dei limoni, mettendo fine alle ansie, riporta il poeta al senso delle
cose.
22-29 vedi, in questi silenzi in cui le cose si abbandonano e sembrano vicine a
rivelare (tradire) il loro estremo (ultimo) segreto, talvolta ci si aspetta di scoprire uno
sbaglio della Natura, il punto morto del mondo /il punto in cui le leggi consuete non
valgono più/, l’anello che non regge (tiene) /l’anello spezzato che permette di
infrangere una catena/, il filo /annodato/ da districare (disbrogliare) che finalmente ci
porti (metta) nel mezzo di una verità. Le metafore dello sbaglio, del punto morto e
dell’anello alludono a qualcosa di imprevisto, che sfugga alle leggi della natura e che
riveli il senso nascosto della realtà; il filo ricorda quello che Arianna diede a Teseo
per guidarlo fuori dal labirinto.
30-33 lo sguardo cerca affannosamente (fruga) intorno, la mente indaga, fa dei
collegamenti (accorda), scompone (disunisce) nel profumo che si diffonde (dilaga)
quando il giorno più si avvicina alla fine (languisce= si indebolisce) /al tramonto/. I
sensi e la mente si interrogano alla ricerca del significato segreto e del miracolo che
dovrebbe rivelarlo.
34-36 sono /questi/ i silenzi in cui ogni ombra umana che si allontana si vede una
qualche Divinità disturbata /e che quindi sfugge dagli uomini/. Nel mondo di Montale
il miracolo non si compie e non ci sono vere divinità: quelle che sembrano apparire,
e che hanno un aspetto accigliato e scostante, sono le ombre degli uomini.
37-39 ma l’illusione /quella che ci riveli il senso della realtà/ viene meno (manac9 e il
tempo ci riporta nelle città rumorose dove l’azzurro /del cielo/ si mostra soltanto a
pezzi, in alto, fra i cornicioni (cimase) /delle case/.
40-42 poi (di poi) la pioggia colpisce (stanca) la terra; la noia (tedio) dell’inverno /il
brutto tempo invernale/ si addensa (s’affolla) sulle case, la luce diventa scarsa (si fa
avara) /le giornate sono più buie/ - amara sull’anima. Si noti la paronomasia in
AVARA-AMARA.
43-49 finché (quando) un giorno da un portone semiaperto (malchiuso) fra gli alberi
di un cortile (di una corte) ci si mostrano le macchie gialle (i gialli) dei limoni; e il gelo
del cuore si dissolve, e le trombe d’oro della solarità /i limoni/ ci riversano
(scrosciano) in petto le loro canzoni. Per sinestesia il colore giallo (al plurale, per
indicare la molteplicità dei frutti) e il profumo dei limoni diventano una musica (le
canzoni), suonata dalle trombe d’oro della solarità (i limoni stessi). Le trombe fanno
pensare a un suono limpido e squillante, l’oro al materiale cui è fatto lo strumento e
al colore dei limoni; la solarità è la condizione di vita dolce e inquieta rievocata nelle
storie precedenti, e di cui i limoni sono il simbolo.

Analisi:
Montale dichiara di preferire un paesaggio concreto e quotidiano: strade di
campagna, pozzanghere, viuzze che conducono a orti dove crescono alberi di limoni
(prime strofe) in mezzo a tale paesaggio anche i poeti umili trovano la loro dose di
felicità. Soprattutto trovano un varco che renda eccezionalmente visibile qualche
verità di solito nascosta, e in particolare la possibilità di sottrarsi alla catena delle
necessità consuete (terza strofa). È però una condizione illusoria e di breve durata,
cui segue l’esperienza del tedio cittadino e dell’autunno. Ma anche in città un giorno
l’apparizione improvvisa e imprevista dei limoni in un cortile potrà riportare per un
attimo la pienezza estiva e la felicità.
La lirica è costruita come la preparazione di un miracolo. Eppure questo miracolo
non si compie. Nonostante gli sforzi dei sensi e della mente, non accade nulla. Le
uniche Divinità che appaiono, sono solo ombre di uomini che si allontanano.
L’epifania, cioè la rivelazione del senso delle cose cui la poesia simbolica tende,
fallisce: è solo un’illusione. Anche quando si avvicina a una poetica simbolistica,
Montale sceglie una via alternativa e autonoma. L’unica ricchezza di cui si può
disporre è quella dei poveri: la realtà così com’è.
Il limone è per Montale anzitutto una pianta comune, familiare nel paesaggio ligure
della sua infanzia, contrapposta a piante rare e letterarie come “bossi ligustri o
acanti”. Essa ha dunque un valore realistico, ma poi acquista un significato ulteriore:
di vita concreta lontana dalle favole dei “poeti laureati”. Questo senso polemico si
arricchisce gradualmente di sfumature più complesse. I rami dell’albero sono amici.
Il loro odore ricorda sempre la realtà concreta (a differenza delle piante dai nomi
poco usati). Montale in questa realtà povera si trova una “ricchezza”: la quiete e la
dimenticanza di passioni che distolgono l’individuo da sé e da ciò che ha valore. Il
risultato è una “dolcezza inquieta”: l’ossimoro rivela l’ambivalenza fra desiderio di
abbandono e ricerca di qualcosa. La natura infatti è percepita come retta da due
leggi dure e costrittive: la “verità”, cioè il senso delle cose, si rivela come uno sbaglio
nel suo ordine, un “anello che non tiene”. Nonostante la promessa di felicità del
profumo che dilaga, il miracolo della rivelazione non si compie. I limoni diventano
così il simbolo di una felicità reale, inquieta e in fondo incomprensibile. L’esperienza
di “dolcezza inquieta” è inscindibile dalla presenza fisica della pianta: tanto che colori
e suoni si fondono, per sinestesia, nelle “canzoni delle “trombe d’oro”. Proprio per
questo i limoni sono un simbolo: cioè un oggetto concreto che si carica di significati
totalizzanti, inseparabili dall’oggetto stesso e dalla sua realtà sensoriale.

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