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KIERKEGAARD

Kierkegaard nasce in Danimarca, a Copenaghen. È un pensatore luterano e viene


ricordato soprattutto perché con lui inizia una stagione della filosofia in cui ci si
occupa dell’esistenza del singolo (cioè che nel 900 diventerà esistenzialismo). Nel
900 si assisterà alla Kierkegaard REINAISSANCE, si riscopre il pensiero
kierkegaardiana partendo dalla teologia, in particolare Karl Barth scrive un
commentario all’epistole Romane (di San Paolo), dove tutto è incentrato sulla visione
Kierkegaardiana del Cristianesimo di San Paolo.
All’interno del pensiero di Kierkegaard troviamo due temi centrali: la singolarità,
l’esistente concreto e il Cristianesimo, ovvero la scelta religiosa. Coerentemente con
la sua concezione filosofica centrata sull’esistenza del singolo, è molto importante la
sua esistenza personale. Egli viene educato in un clima religioso molto rigido. Nel
1840 si laureò con una dissertazione intitolata “Sul concetto dell’ironia con
particolare riguardo a Socrate”. Studia a Berlino e segue le lezioni di Schelling; alla
fine non intraprende nessun tipo di carriera, arriva ai titoli per diventare pastore
protestante, non si sposa e vive con la ricchezza lasciatagli dal padre. Kierkegaard
scrive nel corso della sua vita dei diari, attraverso i quali abbiamo conoscenza di
alcune vicende familiari; egli si definisce il figlio della vecchiaia, in quanto fu figlio di
seconde nozze perché il padre si era risposato e a 57 anni aveva avuto diversi figli,
molti dei quali morirono. Kierkegaard interpreta questa vicenda come segnata da un
“tragico destino misterioso”. Sicuramente questa vicenda influirà sul suo pensiero,
proprio per lo spessore psicologico. Kierkegaard vede nel suo destino e nella figura
del padre (insieme al suo senso di colpa) qualcosa di tragico, infatti parla anche di
Gran Terremoto che ha a che fare con la relazione con il padre, sostiene che ci sia
una sorta di maledizione sulla sua famiglia (dovuta forse da una bestemmia che il
padre aveva lanciato al Dio). Citazione: Fu allora che io ebbi il sospetto che
l’avanzata età di mio padre non fosse una benedizione divina, ma piuttosto una
maledizione e gli eminenti doni di intelligenza della nostra famiglia ci fossero dati
solo perché si estirpassero l’un l’altro. Allora io sentii il silenzio della morte crescermi
intorno, mio padre mi apparve come un condannato […] Qualche colpa doveva
gravare sulla famiglia intera, un castigo di Dio vi pendeva sopra.
All’interno di questo clima cupissimo, matura la “scheggia nelle carni”: Kierkegaard si
fidanza per un anno con una giovane Regina Olsen, figlia di un alto funzionario.
Tuttavia dopo un anno il filosofo decide di lasciare la ragazza, perché oltre la figura
di Regina Olsen c’è Dio, e per Kierkegaard queste due figure sono incompatibili. Alla
fine Kierkegaard non riesce a diventare pastore protestante e trascorre i suoi anni
scrivendo, ma molti dei suoi testi non vennero fermati, infatti decise di pubblicarli con
pseudonimi.
Tra le opere più importanti ricordiamo: Sul concetto dell’ironia con particolare
riguardo a Socrate, Enten-Eller pubblicato con il titolo Aut-aut; se la filosofia di Hegel
è la filosofia del ‘et-et’ perché la contraddizione non distrugge mai i momenti
precedenti, ma li ingloba, la filosofia di Kierkegaard è una filosofia del “aut-aut”,
ovvero la scelta tra due cose incompatibili: o Regina Olsen o Dio, o la vita etica
oppure la scelta religiosa. Timore e tremore, Il concetto dell’angoscia, La malattia
mortale. Pubblica anche un periodico “Il momento” entrando in una polemica
violentissima contro la Chiesa Cristiana danese, in particolare con il teologo e
vescovo Martensen. La polemica di Kierkegaard riguarda la figura del precedente
vescovo luterano Mynster, anche in questo caso Kierkegaard esprime una radicalità
molto forte, chiedendosi se il vescovo Mynster fosse stato davvero testimone della
verità, se fosse stato veramente cristiano, proprio perché egli rifiuta qualsiasi forma
di cristianesimo mondano e compromissorio. Per Kierkegaard il Cristianesimo è
testimonianza drammatica della verità, che risulta incompatibile una la vita normale.
Per questo rifiuta qualsiasi compromesso tra Cristianesimo e cultura; il Cristianesimo
è la scelta di negare il compromesso con il mondo.

DISSERTAZIONE GIOVANILE SUL CONCETTO DELL’IRONIA


Kierkegaard si laurea con una dissertazione Sul concetto dell’ironia con particolare
riguardo a Socrate. Si interessa a Socrate perché lui aveva messo in discussione le
certezze, aveva evidenziato la relatività di ogni ricerca umana, questo viene
interpretato da Kierkegaard anche come un elemento di polemica nei confronti
dell’Hegelismo. Se con Hegel abbiamo certezze, con Socrate si ha la messa in
discussione di ogni certezza, la consapevolezza dei limiti. L'ironia Socratica significa
non prendere sul serio il finito. L’atteggiamento assunto da Socrate per Kierkegaard
è assolutamente positivo, infatti il Cristianesimo di Kierkegaard mette in discussione
il finito. Ciò che invece non accetta è l’ironia romantica, perché nonostante metta in
discussione il finito, lo travolge in nome di un’interiorità che rischia di diventare
presuntuosa, presunzione dell’anima bella (che abbiamo visto con Hegel). L’anima
bella che nega ogni cosa finita e che infinitizza la sua interiorità; si corre il rischio di
rendere l’infinità in un giudice impietoso di tutte le cose finite (questo poi si traduce in
nichilismo o estetismo, perché tutto ciò che è finito è nulla). Nell’ironia Socratica
invece si mette solo in discussione il finito, ma Socrate non infinitizza sé stesso.
Kierkegaard contrappone all’ironia romantica lo Humor, atteggiamento di distacco
verso il finito che non si traduce nell’infantilizzazione dell’interiorità in quanto è
sempre presente il concetto Cristiano, e il distacco avviene sulla base di una
certezza: l’infinito esiste, ma non siamo noi. [È poi presente un umorismo Cristiano
non cupo, nella letteratura inglese del 900, in autori come Gilbert Keith Chesterton,
autore Cristiano dove è presente la leggerezza dell’umorismo cattolico. Si coglie la
finitezza delle cose del mondo sulla base di una certezza religiosa che rende più
leggeri e capaci di un’accettazione, e per questo evita la tendenza nichilista presente
nell’ironia romantica.]

ESISTENZA COME POSSIBILITA’ E FEDE


La categoria fondamentale del pensiero Kierkegaardiano è la POSSIBILITA’.
L’esistenza è possibilità, immediatamente questo concetto assume una posizione
anti-idealistica, perché in primis la filosofia dell’idealismo è una filosofia della
necessità; in Hegel abbiamo conosciuto la centralità del processo necessario dello
spirito, anche la libertà non è altro che la necessità della ragione. In Kierkegaard la
possibilità e la libertà sono categorie fondamentali, ma non sono espressioni dello
spirito, bensì del singolo. Essendo in Kierkegaard il discorso sulla singolarità, la
possibilità e la libertà non possono evitare di essere scelte fra alternative
inconciliabili, o scelgo una cosa o un’altra, non posso scegliere una cosa e anche
l’altra (In Hegel abbiamo visto che lo spirito poteva cumulare tutte e il contrario di
tutto nel suo percorso, in Kierkegaard questo non è possibile in quanto non è in
gioco una ragione universale, ma la capacità di scelta di un singolo; siamo costretti a
scegliere fra alternative inconciliabili).
La possibilità (presente come possibilità positiva, dunque capacità in Kant) è un
qualcosa di minaccioso, “nella possibilità tutto è possibile”, quindi ogni possibilità è
possibilità di realizzazione ma anche di fallimento. La grande minaccia che grava
nell’esistenzialismo di Kierkegaard sull’uomo è proprio questa possibilità che può
distruggerci, annullarci e minacciarci. Kierkegaard sottolinea soprattutto le possibilità
negative, che conosciamo nel sentimento fondamentale dell’ANGOSCIA. Non a
caso egli si presenta come il discepolo dell’angoscia, perché è colui che guarda le
possibilità dell’esistenza a partire dalla drammatica possibilità che esse siano
distruttive per l’uomo. È come se Kierkegaard si presentasse come una cavia
d’esperimento per l’esistenza, egli dice: "ciò che io sono è un nulla; questo procura a
me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esistenza al punto zero, tra
il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra qualche cosa e il nulla
come un semplice forse”.
Rappresentarsi come il punto zero è come un’impossibilità di riconoscersi nelle
infinite possibilità della vita. Di fronte al mare magnum di possibilità, Kierkegaard si
presenta in una condizione di paralisi, il punto zero, l’impossibilità di realizzare le
possibilità. Di fronte a questa impossibilità Kierkegaard assume un atteggiamento
contemplativo, scrive infatti molte opere, ad esempio Il diario di un seduttore, dove
racconta la possibilità della vita estetica. In questo schema una scelta definitiva è
possibile ma è costituita da un salto, il salto nella fede. Solo il Cristianesimo ci libera
da questa condizione. Ma non si tratta del DEUS EX MACHINA che giunge a
risolvere concettualmente i nostri problemi; è un Dio che ha i caratteri della radicale
trascendenza rispetto alla nostra esistenza. Infatti nella teologia dialettica di Barth,
Dio è il NO ad ogni nostra possibilità e noi possiamo scegliere Dio non attraverso
uno sviluppo coerente, ma attraverso un salto. [Heidegger, il quale riprende
Kierkegaard, dirà che la nostra più vera possibilità, è la possibilità dell’impossibilità
di ogni nostra possibilità, ovvero la morte.]

ERRORE LOGICO ED ETICO NELL’IDEALISMO


Per Kierkegaard la concezione idealistica è una concezione sbagliata, il panteismo
idealistico rappresenta una concezione errata sul piano logico ma anche sul pianto
etico. Ciò significa che l’idealismo cancella il SINGOLO, quindi il soggetto pensante.
Nell’idealismo è il pensiero che pensa: in qualche modo nell’idealismo si realizza
quell’idea aristotelica per cui “il pensiero pensa sé stesso”. Come il meraviglioso dio
di Aristotele era pensiero di pensiero, allo stesso modo l’assoluto di Hegel pensa
autonomamente, dunque l’ESISTENTE CHE PENSA SCOMPARE in questo tipo di
filosofia. Ora, questo per Kierkegaard (come anche per Feuerbach) c’è un errore
logico, ossia il rovesciamento di soggetto e predicato, ma c’è anche un vero e
proprio errore etico, perché c’è la cancellazione nel pensiero hegeliano
dell’esperienza individuale e di quell’aspetto fondamentale di quest’ultima, ovvero
l’esperienza religiosa. In Hegel anche la religione è espressione di un pensiero,
anche se non perfettamente logico o concettuale ma è pensiero. In Kierkegaard la
religione è fede, abbandono a Dio a partire dall’esperienza angosciante e disperante
della vita. A partire quindi, dalla dimensione stricto sensu (strettamente
individuale/esistenziale). Da questo punto di vista la logica hegeliana è
assolutamente incompatibile con l’idea kierkegaardiana della scelta. Non conta la
continuità logica, nel pensiero di Kierkegaard; quanto la capacità di agire scegliendo
e scegliendo fra cose incompatibili. Facendo scelte che Kierkegaard definisce salti:
non sono processi che hanno una loro necessità e continuità, ma scelte fra possibili
tipologie di vita. Questa differenza profonda di concezione si rispecchia anche nel
modo di concepire la storia, che per Kierkegaard non ha il rilievo che ha per Hegel.
Della storia facciamo parte come esistenti, non è il centro nella concezione
kierkegaardiana. Il centro della concezione kierkegaardiana è il rapporto esistenziale
con l’assoluto (cioè con Dio) nella fede, non nel pensiero logico come nell’idealismo
hegeliano. Ognuno di noi, quindi, partecipa nella storia, ma non come si partecipa di
un processo logico - assoluto - razionale, al contrario come si partecipa di qualcosa
di incerto - contingente - privo di logicità.
Anche in Kierkegaard abbiamo una concezione dialettica. La differenza rispetto alla
dialettica hegeliana è profonda perché, non si tratta di una dialettica logica razionale,
ma di una dialettica esistenziale. Qui dialettico significa che ci sono cose
contrapposte fra cui scegliere. Quindi, “dialettica” è la scelta che ognuno di noi fa
nell’esistenza fra cose diverse incompatibili. Non è l’et-et della logica hegeliana (c’è
un qualcosa, che poi viene superata in qualcos’altro, in cui però la prima cosa viene
ricompresa, sviluppata). In Kierkegaard abbiamo l’aut-aut (o questo o l’altro, o la vita
estetica o la vita etica o la vita religiosa). Non c’è compatibilità fra scelte di vita
diverse. Con Kierkegaard (e anche con Nietzsche) vi è quindi una visione tragica,
non solo nel senso pessimistico, ma nel senso che riconduce alla tragedia greca. Il
protagonista è costretto a scelte ineludibili (=inevitabili) e scegliendo qualcosa
necessariamente rinuncia ad altro: come Agamennone che deve scegliere fra il
sacrificio della figlia Ifigenia o il fallimento della missione degli Achei a Troia. Il
tragico, dunque, sta nel fatto di dover scegliere, dover rinunciare a qualcosa di
fondamentale in nome di qualcos’altro. E in questo c’è la dialettica qualitativa.
Quello kierkegaardiano è un soggetto costretto a scelte che si escludono
qualitativamente e sono incompatibili e nessuna è una scelta perfetta, nessuna è
senza rischi e soprattutto nessuna è senza male.

GLI STADI DELL’ESISTENZA


Kierkegaard rappresenta due diverse possibilità di vita e lo fa, non concettualmente,
ma attraverso dei personaggi.
La prima possibilità è quella della vita estetica = è la vita eccezionale, che coglie
l’attimo (il vivere pericolosamente di D’Annunzio). È la vita che vuole cogliere il
piacere, la gioia. Per rappresentare nella sua pienezza lo stadio estetico
dell’esistenza, Kierkegaard tratteggia la figura di Johannes, il protagonista del
Diario di un seduttore, per cui il vero piacere è nella seduzione, nel far proprio e nel
dominare la preda da conquistare. Dunque un piacere più intellettuale che fisico;
sempre una forma di eros, ma in cui è molto forte l’aspetto del gusto e del piacere
del dominio. L’altro personaggio della vita estetica è il don Giovanni di Mozart, un
conquistatore spregiudicato che gode della conquista effettiva della sua preda.
Qual è il destino di queste vite, tutte giocate sull’attimo, sul piacere,
sull’eccezionalità? Il destino è la noia e la disperazione. Perché vivendo nell’attimo,
il soggetto si disgrega, non riesce a trovare un suo centro. Non riesce a trovare in
una donna, quell’infinità di piacere e realizzazione che sta cercando. Non trova
un suo centro di gravità il soggetto nella vita estetica, si trova disgregato e disperato.
[Questa disperazione non sarà superata in un passaggio logico come la coscienza
infelice di Hegel, ma richiederà un salto in un altro tipo di vita, che è la vita etica.]

LA VITA ETICA
La condizione disperante a cui conduce il passaggio da un piacere all’altro nella vita
ESTETICA richiede il salto nella vita ETICA (non è un passaggio di tipo Hegeliano
ma è un vero e proprio salto che richiede la scelta della disperazione). Infatti la
disperazione è una scelta, in quanto “Si può dubitare senza scegliere di dubitare ma
non si può disperare senza sceglierlo”. In tal senso, disperare non è uno stato di
passivo avvilimento, poiché ad un certo punto si fa propria la condizione della
disperazione (la si assume). La risposta a questa condizione NON è un’evoluzione
progressiva verso un’altra forma di vita, ma la scelta a sua volta di un’altra forma di
vita. Dopo aver assunto quindi la disperazione si salta in una condizione che ha
caratteri profondamente diversi: si sceglie di scegliere, si diventa responsabili. E’
quindi un po’ il contrario della vita estetica. In Kierkegaard, invece di trovare un
concetto, troviamo una figura rappresentativa di questo modo d’essere: il
MATRIMONIO, il marito, la persona che lavora. L’uomo che sceglie la vita etica
sceglie la famiglia, la continuità, la RIPETIZIONE (contrario dell’eccezionalità
estetica). Tuttavia anche questa scelta si rivela una scelta destinata al fallimento
(tutte le scelte sono destinate al fallimento, in quanto, in Kierkegaard, l’unica risposta
è Dio): quando noi conduciamo una vita etica, accettiamo un modo di vita e
soprattutto accettiamo degli aspetti fallimentari, deludenti, DECETTIVI della
condizione umana. Quando ci rendiamo conto di questo, siamo poi portati al
PENTIMENTO. Anche viver responsabilmente non è sufficiente, del resto gli aspetti
della vita etica NON sono Dio ma manifestazioni della nostra finitezza, dei nostri
limiti. Ci resta soltanto l’ultimo stadio della vita: LO STADIO RELIGIOSO.

LA VITA RELIGIOSA
Kierkegaard dedica a questo stadio della vita un testo dal titolo “Timore e tremore”,
in cui la figura emblematica è ABRAMO. Abramo, colui che, ascoltando la voce di
Dio è disposto ad uccidere il figlio Isacco, ma non lo fa poiché Dio ferma la sua
mano. Questo aspetto della Bibbia, che faceva orrore a Kant in quanto è il contrario
della vita etica, in Kierkegaard viene presentato dicendo che la scelta religiosa non è
compatibile con quella etica. Da un punto di vista etico l’omicidio di Isacco sarebbe
inaccettabile (in quanto non ha un aspetto etico, come ad esempio l’omicidio di
Cesare da parte di Bruto che viene ucciso per la libertà). Abramo invece sarebbe
disposto ad uccidere Isacco perché lo dice Dio, per fede. Kierkegaard, presenta
infatti la fede come PARADOSSO, come un qualcosa che rovescia la logica della
vita morale. La Fede si presenta, dunque, come un qualcosa di paradossale, di
illogico e soprattutto incerto e rischioso (infatti Kierkegaard si chiede cosa
assicurasse ad Abramo che quella voce fosse la voce di Dio). Vi è infatti una
peculiarità della Fede, in quanto quest’ultima è accompagnata dall’angoscia,
dall’inquietudine. Per Kierkegaard, la sicurezza che sia Dio è proprio questa
inquietudine angosciata che accompagna la Fede. Questa scelta di rappresentare la
Fede in modo angoscioso è il motivo per cui Kierkegaard, pensatore cristiano
protestante, diventa poi il pensatore che drammaticamente polemizza con la chiesa
luterana danese (che trova una sorta di compromesso con il mondo). Il cristianesimo
di Kierkegaard è incompatibile con qualsiasi forma di addomesticamento, di
coesistenza compromissoria.

I TEMI DELL’ANGOSCIA E DELLA DISPERAZIONE


Kierkegaard legge la condizione umana a partire da due sentimenti fondamentali:
l’angoscia (la ritroveremo in Heidegger) e la disperazione. Questi sentimenti
caratterizzano il rapporto dell’esistente con il mondo. Il mondo è un mondo di
possibilità e di fronte ad esso il nostro rapporto è il sentimento dell’ANGOSCIA. E’
bene ricordare che del sentimento dell’angoscia, Kierkegaard, si occupa in un testo
che si chiama “Il concetto dell’angoscia”. Il nostro rapporto con noi stessi, è invece
segnato dalla DISPERAZIONE, di cui Kierkegaard si occupa nel testo “La malattia
mortale” (mortale in quanto la disperazione è un vivere la nostra morte).
L’angoscia, per Kierkegaard, è un sentimento he si prova di fronte all’indeterminato,
NON è timore, ma una sensazione di smarrimento di fronte alle infinite possibilità
della vita che sono, per questo filosofo, possibilità NULLIFICANTI. L’angoscia è
qualcosa che infatti proviamo anche dinanzi al nostro poter fare, tanto che, secondo
Kierkegaard, l’angoscia caratterizzava anche Adamo (che prima di peccare provava
angoscia per poter peccare, non obbedire). Il peccato viene proprio introdotto da
questa possibilità angosciante di potere, che è proprio il potere di disobbedire a Dio.

L’ANGOSCIA
L’angoscia kierkegaardiana è il rapporto tra il soggetto e il mondo, il quale si
caratterizza come un sentimento indeterminato (è importante sottolineare questo
aspetto perché verrà ripresentato nella filosofia di Heidegger). Questo sentimento
indeterminato della possibilità nel caso di Adamo si presenta come possibilità di
potere e quindi di peccare non sottostando al divieto divino. Quindi la possibilità
produce angoscia il cui spazio temporale è il futuro che è per definizione il tempo
della possibilità al contrario del passato che genera rimorso a meno che non si
presenti come possibilità di ripetizione, quindi come un futuro probabile. L’angoscia,
o come la definì Heidegger “tonalità emotiva”, è una categoria umana necessaria,
cioè è una struttura dell’essere umano (qualcosa di simile al “conatus” spinoziano).
Questo modo di sentire, infatti, non è un semplice modo psicologico di sentire ma è
un qualcosa che ci caratterizza strutturalmente nel rapporto con il mondo e con sue
possibilità nullificanti, cioè distruttive. Pertanto non è un rapporto intellettivo (noi non
ragioniamo e capiamo che la possibilità è pericolosa) ma la sentiamo pericolosa.
Questo sentire ha una sua forza filosofica, cioè ci consente di comprendere la nostra
situazione esistenziale (anche la comprensione è un altro tratto della filosofia di
Heidegger). Essendo Kierkegaard un pensatore religioso il sentimento dell’angoscia
è espresso anche in termini religiosi; infatti, per Kierkegaard, l’umanità di Cristo non
si trova tanto nello smarrimento espresso dalle sue parole pronunciate in croce
“Padre, padre perché mi hai abbandonato?”, ma nell’angoscia di fronte a ciò che
stava per fare Giuda dicendo “ciò che devi fare fallo subito!”. Kierkegaard connette
inoltre l’angoscia al principio d’infinità che esprime nella frase “nella possibilità tutto è
possibile” il che ha una connotazione negativa in quanto indica la possibilità
dell’annullamento.

DALLA DISPERAZIONE ALLA FEDE


Se il nostro rapporto con il mondo è strutturato nell’angoscia, il nostro rapporto con
noi stessi è strutturato nel sentimento della disperazione. Per Kierkegaard l’io è una
struttura complessa, egli lo indica, usando un’espressione molto suggestiva, come
“rapporto che si rapporta a sé stesso”. Esso cioè è un qualcosa di consapevole, per
la precisione è il momento della consapevolezza della complessità umana. La
domanda che sorge spontanea è “perché nel rapporto con noi stessi siamo disperati
e che cos’è la disperazione?” La disperazione, per Kierkegaard, è la malattia mortale
non perché noi moriamo per la disperazione, ma perché essa è un vivere l’agonia
del nostro vivere. A questo proposito Kierkegaard dice qualcosa di interessante a
livello psicologico; egli dice che ognuno di noi, in rapporto a sé stesso, cade nella
disperazione sia se si vuole com’è sia se non si vuole com’è. Volendo noi stessi, noi
infatti vogliamo tutto il carico di errori, inadeguatezze e imperfezioni che ci
caratterizza il che implica l’accettazione di qualcosa di inaccettabile. D’altra parte,
anche non volere sé stessi è disperante perché noi non possiamo non essere noi
stessi. Quindi siamo ad una biforcazione che porta sempre alla disperazione. Qual è
la soluzione? L’unica soluzione alla disperazione è una particolare forma di
accettazione, cioè quel rapporto con noi stessi in cui riconosciamo la nostra
imperfezione e accettiamo la nostra dipendenza da Dio quindi la fede. La fede, però,
non è qualcosa di razionale, è un salto, una scommessa (come in Pascal), un
paradosso, è un aiuto che non aiuta. Non è il comodo affidarsi a Dio e la sua
provvidenza e questo è dovuto all’ambiente religioso luterano in cui si sviluppa il
pensiero kierkegaardiano in cui l’individuo si affida all’ “obscura voluntas dei”. Se l’io
è sintesi di necessità e di libertà, elementi fondamentali nell’analisi del pensiero di
Kierkegaard sono la condizione di mancanza di necessità e la mancanza di libertà.
La mancanza di necessità è quella del Don Giovanni che non trova mai un punto di
consolidamento. Altrettanto insopportabile è la mancanza di possibilità.

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