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Per far sì che un concetto rimanga impresso, abbiamo 3 principi che questo deve “seguire” :
Stimolare curiosità
Trasmettere dei contenuti
Facilitarne il ricordo
La percezione non è reale, spesso vediamo e sentiamo cosa ci aspettiamo di vedere e sentire. Il
nostro sistema cognitivo e il suo funzionamento sono strettamente legati ai limiti strutturali del nostro
cervello; per esempio, al numero di informazioni che possiamo processare allo stesso momento.
Il nostro cervello è l’aggeggio più complicato e vedremo che il funzionamento celebrale è
strettamente legato ai limiti strutturali del cervello; per esempio, al numero di informazioni che possiamo
processare in un determinato momento.
Nella psicologia sociale non è importante la distinzione tra conscio e inconscio perché
corrisponde al pensiero controllato e quello automatico. Il pensiero automatico a differenza
dell’inconscio non è costituito da contenuti rimossi e negativi (repressi). Nel pensiero
controllato noi investiamo energie cognitive, il pensiero automatico invece ha una modalità
rapida, che il sistema cognitivo ha inventato per sopravvivere all’impossibilita di rispondere a
tutti gli stimoli sociali.
Quando si fa riferimento a controllato o automatico: si fa riferimento ad una soglia.
Proprio perché i pensieri controllati sono minori degli automatici, noi dobbiamo essere
consapevoli che i nostri comportamenti abituali sono difficili da modificare. Per salvaguardare
energie cognitive tendiamo a registrare informazioni che si accordano con quelle già presenti
in memoria. Il nostro sistema cognitivo è guidato da un bisogno di coerenza, per questo
motivo, ad esempio, quando noi parliamo di qualcosa con qualcuno, tendiamo a registrare in
memoria le informazioni che si accordano a quelle che abbiamo già in memoria e a non
registrare quelle che le contraddicono.
LEZIONE 2
Dalla nostra prima infanzia in poi, le condizioni sociali con gli altri sono fondamentali.
L’appartenenza sociale nei gruppi è un bisogno fondamentale.
Alcuni gruppi sono ascritti, quindi non siamo noi a scegliere il gruppo in questione a cui
apparteniamo. Maslow teorizza una piramide dei bisogni dell’uomo, alla base abbiamo bisogni
fisiologici fino ad arrivare ai vari bisogni sociali. Una ricerca mette in luce che tutti i bisogni,
compresi quelli primari, sottendono il BISOGNO DI APPARTENENZA. In effetti il bisogno di
connessioni sociali stabili è correlato al benessere delle persone. Dunque, le persone che hanno
soddisfatto il bisogno di appartenenza stanno meglio. Un’altra letteratura parla del bisogno
dell’ostracismo primario, Williams e colleghi hanno evidenziato come essere ostracizzati
(essere al di fuori di gruppi ritenuti importanti), produce dal punto di vista neurologico le stesse
condizioni del dolore fisico. Alcuni studiosi hanno fatto uno studio in cui hanno messo in relazione
l’attivazione di aree neurali del dolore fisico con l’attivazione di altre aree neurali adibite alla
socializzazione. Lo studio consisteva in una condizione in cui il partecipante ha più o meno un terzo
di attenzioni in un gioco, e una situazione in cui il partecipante veniva escluso. Egli ha rilevato che
essere escluso provoca l’attivazione di aree simili a quelle del dolore.
Inoltre, secondo altri studi, anche osservare una persona che viene esclusa comporta ad un
malessere del soggetto e questo fenomeno prende il nome di OSTRACISMO VICARIO, è il fenomeno
in cui osservando un soggetto sottoposto ad ostracismo, genera le stesse condizioni neurali che si
proverebbero in una situazione in cui ci si trova personalmente, dunque in una situazione di
ostracismo. Questo potrebbe avere delle ricadute negative sul benessere del soggetto sottoposto e
di chi osserva.
La differenza tra una variabile di mediazione e una variabile di moderazione: parliamo di concetti
statistici, in psicologia molto spesso gli studi vengono condotti con la logica:
variabile x------variabile y. La variabile x è una variabile indipendente e la y è quella dipendente.
In psicologia sociale, una persona ostracizzata manifesta malessere. Dunque, se riesco a manipolare
l’ostracismo posso notare, secondo il modello MONOCAUSALE, che la persona sta male.
Però se considero che l’ostracismo causa malessere, non so ancora dal punto di vista psicologico il
perché quella causa produce quella conseguenza. Ragionare su questo significa ragionare sul
processo che una variabile indipendente ha su una variabile dipendente. Lo studio di queste
variabili è lo studio di mediazione o delle variabili mediatrici. Mi spiega perché x causa y.
La variabile di mediazione spiega il processo che va da una variabile indipendente ad una variabile
dipendente.
L’ostracismo (variabile x) causa il bisogno di appartenenza (variabile mediatrice) e questo bisogno
causa malessere (variabile y).
X y in questo caso x (guadagno mensile), y (la spesa in cose futili).
L’idea è che più una persona guadagna e più spende in cose futili, questa relazione non è sempre la
stessa, possono esistere dei fattori che cambiano questa associazione. Uno di questo può essere lo
stato civile della persona (sposata o meno). Se fosse sposata questa associazione potrebbe essere
meno forte. Questa variabile si chiama di moderazione.
Quest’ultima, a differenza della variabile di mediazione (che interviene), è una variabile che cambia
la relazione, può cambiare l’intensità o addirittura di segno.
La variabile di moderazione mi spiega come un’associazione si modifica in diverse situazioni.
-la psicologia sociale mette in luce come la nostra appartenenza ad un gruppo, in un dato
momento, da’ forma all’interpretazione della realtà, ai nostri sentimenti ai pensieri e ai
comportamenti.
Le persone hanno contemporaneamente tante identità sociali in base ai gruppi ai quali
appartengono, ma è il contesto che determina qual è la categorizzazione nella quale io determino
la mia identità sociale in un gruppo.
La seconda cosa importante è la mia tendenza a comportarmi in un modo PROTOTIPICO, dunque di
aderire alle norme e comportamento di un dato gruppo.
L’identità sociale si definisce come quella parte di identità d’individuo, determinata alla tendenza
di appartenenza a un gruppo sociale, unicamente al valore che quella persona fornisce a questa
appartenenza.
-Una variabile di mediazione (o mediatore o variabile mediatrice) è una variabile che spiega il
processo attraverso il quale la V.I. determina la V.D.; In altre parole, la V.I. determina dei
cambiamenti nel mediatore e questi cambiamenti, a loro volta, determinano i cambiamenti nella
V.D.
-Una variabile di moderazione (o moderatore o variabile moderatrice) specifica le condizioni
dell'associazione tra una V.I. e una V.D.; in altre parole, determina il verso (o segno) e l'intensità
dell'associazione tra le due variabili.
A causa del fatto che le appartenenze di gruppo influenzano la realtà, noi siamo molto influenzati
dalle persone che si trovano all’interno del nostro gruppo. E proprio per questo noi dobbiamo
essere consapevoli che noi siamo influenzabili dalle persone intorno a noi; dunque, dovremmo
essere saggi con le persone che ci circondano.
- gli esseri umani sono o possono essere degli straordinari agenti di elaborazione, nel senso che il
modo in cui noi razionalizziamo le cose che il nostro gruppo fa, con spiegazioni che sono sempre
favorevoli alle cose fatte dal nostro gruppo. Di conseguenza dovremmo considerare queste
spiegazioni con scetticismo e con doppio scetticismo le spiegazioni fatte a noi stessi.
- Moderatore vs Mediatore
Questi termini sono usati per le variabili nella ricerca sociologica e nell'analisi statistica. Queste
variabili possono influenzare, cambiare e decidere la forza della relazione tra una variabile
indipendente e una variabile dipendente in qualsiasi ricerca o analisi statistica. Nonostante le
somiglianze, ci sono abbastanza differenze tra le variabili del moderatore.
Mediatore variabile
Il mediatore è una variabile che viene introdotta nella ricerca sociologica per ottenere un aiuto
nello spiegare la relazione tra variabili di rimorchio, cioè una variabile indipendente e una variabile
dipendente. Pertanto, il mediatore funziona come una variabile esplicativa che cerca di identificare
e spiegare la relazione tra la variabile indipendente e quella dipendente. Questo mediatore svolge
un ruolo molto importante in quanto governa la relazione tra le due variabili e consente al
ricercatore di identificare le relazioni esatte e la sua natura. Se lo scopo della ricerca è scoprire
perché due variabili sono fortemente associate, le variabili del mediatore si rivelano estremamente
utili. Una variabile mediatore è uno strumento eccellente per spiegare la natura della relazione tra
due variabili. Moderatore variabile
Un moderatore è una variabile che ha la capacità di cambiare la relazione tra due altre variabili. Il
motivo per cui questa variabile è chiamata moderatore è dovuto al fatto che decide la forza della
relazione tra due variabili. Una variabile moderatore può aumentare o diminuire la forza della
relazione tra due variabili, ma può anche cambiare la direzione della relazione. Un moderatore
influenza la forza di una relazione e può essere introdotto in una relazione per indurre un
cambiamento desiderato. Mediatore vs Moderatore
• Il mediatore identifica e spiega una relazione tra due variabili, mentre il moderatore influenza la
forza di una relazione. • Il moderatore può persino modificare la
direzione della relazione tra due variabili, ossia la variabile indipendente e dipendente.
• Il moderatore può ridurre o aumentare la forza in una relazione, ma la relazione esiste anche
senza il moderatore. • Il moderatore ci dice quando aspettarci e cosa
in una relazione, mentre la variabile del mediatore aiuta a identificare l'effetto e perché si verifica
un tale effetto.
- Calore genitoriale Intimità̀
V Indipendente V Dipendente
-
V Mediatore
-
- Adattamento Psicologico
MODERAZIONE
Parliamo di moderazione quando ipotizziamo che l’effetto della variabile indipendente sulla
variabile dipendente sia influenzato da una terza variabile che regola (modera) la relazione
tra la VI e la VD. Ovvero, che la relazione è condizionata da una terza variabile (effetto di
interazione).
-
V Moderatore
Caratteristiche genetiche
DISCIPLINE AFFINI
La psicologia sociale condivide delle somiglianze con:
Sociologia: fornisce leggi e teorie generali sulla società, non sugli individui.
La psicologia sociale: studia i processi psicologici che le persone condividono fra loro e
che le rendono sensibili all’influenza sociale.
Psicologia della personalità: studia le caratteristiche che rendono ogni individuo unico e
diverso dagli altri.
Nelle culture come quella italiana, dove c’è l’eteronormatività, quest’ultima va a dare forma alla
società. Poiché tutto ciò che viene considerato al di fuori dell’eteronormatività viene considerata
deviante, al punto che la norma viene rappresentata dalla coppia eterosessuale. Questa
eteronormatività guida così tanto la società al punto che l’omogenitorietà viene considerata
assurda. La confusione di base che si crea è tra il principio di generatività e il principio di
genitorietà. Questa confusione è dettata proprio dalla eteronormatività.
La psicologia sociale si occupa della relazione del soggetto con l’ambiente, e ha due “anime”: una di
natura più psicologica, che si afferma in modo particolare nel Nord America e una di natura più
sociologica, che si afferma in Europa. Questo perché gli eventi storici, come Prima e Seconda guerra
mondiale, hanno avuto sede primariamente nel contesto europeo.
Questa distinzione è stata operata da Cartwright.
Lo scopo è spiegare come la vita sociale sia possibile, come funzioni e come cambi nel tempo. I
sociologi riconducono il comportamento sociale a variabili strutturali (norme e ruoli sociali), mentre
gli psicologi sociali lo legano agli obiettivi, ai motivi e ai processi cognitivi degli individui.
La psicologia sociale psicologica: si concentra su tendenze individuali che esercitano, sul
comportamento, la stessa influenza dell’istinto. I fattori culturali e sociali intervengono
come forze che influenzano/distorcono i processi psicologici fondamentali. Lo scopo è
spiegare cosa fanno gli individui e il perché. Maggiormente focalizzata sul soggetto.
Psicologia sociale sociologica: Guarda al mondo reale e in quanto tale studia le funzioni
degli individui nel contesto delle strutture sociali; la cultura, i ruoli, i gruppi, le
organizzazioni e i comportamenti collettivi non sono semplicemente gli ambienti in cui vive
l’individuo, ma sono realtà in sé. Lo scopo è spiegare come la vita sociale sia possibile,
come funzioni e come cambi nel tempo. I sociologi riconducono il comportamento sociale a
variabili strutturali (norme e ruoli sociali), mentre gli psicologi sociali lo legano agli obiettivi,
ai motivi e ai processi cognitivi degli individui. Maggiormente focalizzata sul contesto, sui
gruppi e su ciò che circonda l’individuo.
Gli psicologi sociali di solito fanno risalire la loro storia all’ultimo decennio del XIX secolo. Il loro
passato risale invece a Platone e ad Aristotele (L’UOMO È UN ANIMALE SOCIALE)
L’oggetto della psicologia sociale, la natura sociale dell’uomo, è stato per lungo tempo trattato da
filosofi, i quali tendevano a spiegare la natura sociale dell’uomo in base a teorie semplici ed
unitarie.
La psicologia sociale risente del pensiero filosofico perché i temi coincidono. La differenza è che
all’interno della filosofia si utilizza la speculazione, in psicologia sociale si utilizza il metodo
scientifico per dare una risposta alle domande poste e per continuare la ricerca in virtù della
questione.
-ogni individuo può essere considerato unico o gli individui sono essenzialmente simili gli uni agli
altri?
-l’individuo esiste in funzione della società o invece la società è prodotto e funzione degli individui
che la compongono?
-il rapporto tra individuo e società è un problema significativo in sé o è espressione di una ideologia
latente?
- la natura degli esseri umani è essenzialmente egoistica e necessita di processi di educazione,
moralizzazione e socializzazione che facilitano la vita del gruppo, della comunità e dello stato o essi
sono sociali per “natura” e la asocialità è frutto di cattive influenze?
-gli individui sono attori liberi e responsabili o sono determinati da forze naturali e sociali?
La moralità è uno dei temi principali della psicologia sociale. Essa può essere definita a grandi linee
come la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, essa non può essere considerata
totalmente universale poiché dipende dalle ideologie e il contesto.
Il ragionamento CONSEGUENZIALISTA, ovvero la moralità di un’azione, viene concepita in base alla
conseguenza. Quindi la moralità in psicologia sociale è sempre contesto dipendente però all’interno
dei diversi gruppi o contesti le norme morali non possono che essere consensuali. Ovvero ciò che è
ritenuto giusto o sbagliato deve essere consensuale, perché se questo non fosse vero le persone
non saprebbero come agire e cosa aspettarsi dagli altri.
Diverso da questo è l’etica ovvero il discorso sulla moralità, la parte filosofica di questa, può essere
considerata universale.
LE ORIGINI DELLA PSICOLOGIA SOCIALE
- lo sviluppo industriale
- la nascita della classe operaia
- le folle invadono le piazze.
LA PSICOLOGIA DELLE FOLLE (Gustave Le Bon)
Le folle sono un insieme numericamente consistente di individui, presi in un determinato
momento, in uno stesso luogo. Le persone sono riunite per qualche avvenimento. Lo spazio
d’azione dei partecipanti sarà dunque, ristretto e a volte soffocato.
Secondo Gustave Le Bon gli individui che creano la folla acquistano una sorta di anima-mente
collettiva per il solo fatto di appartenervi. La folla non è la semplice somma delle menti individuali,
poiché nella folla l’individuo subisce una radicale trasformazione: perde il controllo di se stesso e
lascia affiorare aspetti primitivi e irrazionali.
La folla dunque sarebbe irrazionale, caratterizzata dall’azione e non dal pensiero, e sensibile
all’impressione. All’interno di una folla si avrebbe il livellamento a seguito dell’annullamento della
personalità cosciente e dell’emergere dell’inconscio (secondo una visione freudiana dell’inconscio),
dunque riemergerebbero tutte quelle pulsioni ritenute inaccettabili per il soggetto al punto da
reprimerle.
Gli individui perdono ogni inibizione perché la folla assicura anonimato e impunità. Ed infine si
andrebbe incontro ad un’emotività esasperata, nel caso delle folle criminali o eroiche.
I meccanismi responsabili della trasformazione dell’individuo sono: SENSO DI POTENZA
INVINCIBILE, CONTAGIO, SUGGESTIONE.
La psicologia sociale di matrice sociologica ha una forte eredità nel pensiero di sociologi come Le
Bonn e altri che sono stati in grado di teorizzare poi una teorizzazione della psicologia sociale. In
seguito, il “pessimismo” di Le Bonn sui gruppi, verrà superato nel momento in cui il
comportamento delle folle verrà considerato come un comportamento prevedibile. Il primo
esperimento di psicologia sociale fu effettuato da Triplett. Egli era interessato alle performance dei
soggetti, se queste ultime migliorassero in gruppo oppure da soli.
L’esperimento è una fotografia della realtà che consente ai ricercatori di manipolare alcuni fattori
per studiarne altri, tramite delle variabili.
Triplett misura la rapidità di avvolgere un mulinello, effettuato su dei bambini in primis da soli, e in
seguito fece eseguire lo stesso compito in gruppo e notò che la performance migliorava.
Questo fenomeno prende il nome di FACILITAZIONE ed è il fenomeno per cui la presenza di altre
persone migliora la performance in un compito rispetto allo stesso compito svolto individualmente.
Esistono anche delle evidenze opposte a Triplett: la presenza di altri inibisce la performance.
La prima volta che comparve l’espressione di psicologia sociale in un manuale fu il 1924, con Floyd
Allport.
Egli afferma che la psicologia sociale può essere considerata, nel suo complesso, lo studio dei
processi di influenza sociale. Ovvero lo studio scientifico delle modalità attraverso cui i pensieri, i
sentimenti e i comportamenti degli individui sono influenzati dalla presenza, reale o immaginata,
di altre persone.
Gli esperimenti che hanno fatto la storia della disciplina:
-Sherif – esperimento del campo estivo
-Asch—studi sul conformismo, come all’interno dei gruppi sia possibile direzionare la volontà del
singolo in base alla volontà del gruppo.
-Tajfel—esperimento dei gruppi minimi; tratta di conflitti simbolici legati a questioni paritarie
-Macrae—soppressione dello stereotipo.
LEZIONE 3
Allport riteneva che l’influenza sociale fosse fondamentalmente l’unico grande argomento della
psicologia sociale e che tutti gli argomenti potessero essere letti alla luce di essa.
Un momento cardine dell’evoluzione della psicologia sociale e delle scienze sociali in generale è
rappresentato dagli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale e da quelli che l’hanno seguita perché
in quegli anni molti studiosi della tradizione gestaltica emigrano negli USA e portano nel Nord-America i
concetti della Gestalt che vengono poi applicati ai fenomeni psicologico-sociali. Tale influenza si può
osservare nello studio della formazione delle impressioni: infatti alcuni ritenevano che formarsi
un’impressione significasse darsi una raffigurazione globale di un’altra persona e ciò richiama i principi
della Gestalt (percezione della forma completa). La II Guerra Mondiale è importante anche perché in quel
periodo si afferma la psicologia della persuasione, ovvero una serie di tecniche direzionate a spostare
l’opinione di massa (ad esempio la pubblicità, chi la guarda sposta la sua attenzione verso il prodotto ed è
spinto all’acquisto). Oggi il concetto di persuasione è cambiato perché l’obiettivo della pubblicità va oltre
lo stimolo all’acquisto, cerca di fare in modo che il consumatore si identifichi con il brand stesso (brand
loyalty, fedeltà al brand, es. dei Mac user). Molti psicologi sociali, come Hovland, nella II Guerra
Mondiale, soprattutto al servizio del governo degli USA, iniziano a studiare tecniche di persuasione con
l’obiettivo di reclutare militari e tirare su il morale delle truppe oltreoceano, tali psicologi vengono inoltre
interrogati dal governo statunitense sulla possibilità di promuovere la propaganda. Uno studio famoso
dell’epoca riguarda le donne statunitensi che venivano convinte a cucinare frattaglie di pollo: con la
guerra scarseggiavano i rifornimenti e le frattaglie di pollo costavano pochissimo. Un altro esempio è
l’indagine di segmentazione di mercato, più recente, che ci fa capire dove può arrivare una disciplina
come la psicologia sociale e riguarda la Ferrero e la produzione dei Ferrero Rocher creati per un pubblico
più adulto perché la nutella aveva una fascia di fruizione che riguardava soprattutto bambini e
adolescenti. La motivazione che non stimolava gli adulti a comprare la Nutella riguardava il fatto che
sporcasse e quindi fu creato un cioccolatino che la potesse contenere e che potesse essere consumato
senza sporcare le mani.
Lewin è autore della “teoria del campo”, una teoria molto famosa secondo la quale il vissuto di una
situazione e il comportamento di una persona sono funzione della persona stessa (delle sue
caratteristiche), dell’ambiente e della loro interazione.
Poi c’è Heider, emigrato negli USA, la cui teoria è detta “dell’attribuzione causale” secondo cui le
persone agiscono come degli scienziati ingenui e sono costantemente alla ricerca delle cause dei
comportamenti che osservano. Il sistema cognitivo in questo caso non è scevro da distorsioni chiamate
bias ovvero distorsioni cognitive proprie del pensiero automatico che conducono a errori nelle
valutazioni.
La psicologia sociale comunque non è esclusivamente nord-americana. In Europa, per questioni legate
alla guerra, ci si interroga maggiormente sui fenomeni sociali in senso stretto (pregiudizio, funzionamento
dei gruppi). Dal punto di vista paradigmatico c’è il rifiuto del comportamentismo blando,
dell’associazionismo (associazione stimolo-risposta senza preoccuparsi dei processi cognitivi coinvolti
che invece esistono).
Il primo manuale di psicologia sociale porta la firma di Floyd Henry Allport ma la matrice di quel
manuale resta individuale. Per Allport la psicologia sociale era una scienza che studia l’individuo, quindi
più una psicologia della personalità, mentre noi oggi sappiamo che ci interessa il contesto e come ciò può
influenzare il comportamento delle persone, ovvero l’interazione degli individui con l’ambiente di
riferimento.
. Il suo libro Psicologia sociale (1924) ha avuto un impatto su tutti i futuri scritti nel campo. Era
particolarmente interessato all'opinione pubblica , agli atteggiamenti , al morale, alle voci e
al comportamento . Si è concentrato sull'esplorazione di questi argomenti attraverso la sperimentazione di
laboratorio e la ricerca di indagine.
La psicologia sociale passa pian piano dall’essere focalizzata sull’individuo a ragionare su aspetti che
legano l’individuo all’ambiente, uno degli aspetti è il costrutto di atteggiamento sociale: l’atteggiamento è
una valutazione globale su un target di interesse. Questo target può essere un oggetto (mi piace/non mi
piace), una persona o una cosa, un’idea o un gruppo. È importante studiare l’atteggiamento perché esso
predice il comportamento. Tuttavia, così come avviene in altre discipline la psicologia inizialmente soffre
di una velata accusa da parte delle scienze fisiche e matematiche e viene definita scienza soft ovvero era
ritenuta avere una scarsa quantificazione matematica. I suoi costrutti non sono direttamente osservabili.
La depressione, infatti, non può essere misurata, ma vengono misurate le manifestazioni comportamentali
che sono indicatori della depressione. Si parte da una definizione latente per creare qualcosa di
misurabile, come un questionario: la trasformazione di un costrutto latente in una variabile o in una serie
di indicatori misurabili si chiama operalizzazione. Nel 1928, quando la psicologia sociale era preda di
ingiurie di poca scientificità, Thurstone scrive un articolo sugli atteggiamenti che possono essere misurati
e crea la scala di Thurstone, dopodiché altri autori teorizzano approcci sul cambiamento degli
atteggiamenti.
La determinante è l’intenzione, quindi, occorre lavorare su di essa per cambiare l’atteggiamento. Si passa
poi all’interazione con l’ambiente: Lewin dirà proprio questo. Quando noi consideriamo il
comportamento di una persona dobbiamo considerare il modo in cui interpreta il suo ambiente.
Interpretare l’ambiente significa essere in possesso di un campo psicologico che è rappresentato
dall’insieme degli elementi che ci riguardano (motivazioni, bisogni, emozioni, aspettative) e di tutti gli
altri elementi presenti nell’ambiente (altre persone o elementi strutturali). Quindi l’oggettività di ciò che
esiste e la nostra percezione di esse. Il comportamento, dunque, è determinato dalle caratteristiche della
persona, da quelle dell’ambiente e dalla loro interazione. A Lewin si deve anche un’importante
definizione della psicologia sociale: “un gruppo è una totalità dinamica in divenire, diversa dalla somma
degli elementi che lo compongono, in cui una modifica che si presenta in uno dei suoi elementi produce
una modifica in tutto il gruppo”. Un esempio è quello dell’arrivo di un figlio in una coppia, del
cambiamento lavorativo o qualsiasi altra modifica che stravolge un sistema. Questa definizione è alla base
della psicoterapia sistemico-relazionale: un disagio non riguarda solo l’individuo ma il sistema in cui è
incluso e si affronta la comprensione del sistema non del singolo. Un altro teorico rilevante in ambito di
psicologia sociale è Leon Festinger a cui si devono più teorie ma la più nota è quella della dissonanza
cognitiva: uno stato di disconfort (malessere, disagio) che si genera quando in un individuo c’è una
discrepanza tra due cognizioni (pensieri, credenze) o tra una cognizione e un comportamento ed è
motivato a risolvere il disagio con delle strategie (esempio: so che fumare fa male, ma mi piace; questo
stato mi crea disagio perché c’è un contrasto tra i due concetti e allora posso risolverla aggiungendo una
terza cognizione, oppure si rivaluta una delle due cognizioni). Il modo in cui si risolve la dissonanza è del
tutto individuale e dipende dagli obiettivi personali, dalle emozioni ecc. La dissonanza cognitiva viene
utilizzata in molte tecniche di persuasione come nella trappola della razionalizzazione o impegno e
coerenza (es. acquisto auto il cui prezzo è di tredicimila euro, tremila euro in più di quello che potevo
spendere e allora quell’auto, secondo Festinger, mi piacerà di più di quanto mi piaccia realmente perché
devo razionalizzare una spesa che non era prevista). Questo atteggiamento è ancora più forte quando la
scelta è avvenuta e infatti si chiama dissonanza post-decisionale perché ormai, ad esempio nel caso
dell’auto, l’acquisto è stato già fatto. Avevamo detto che l’individuo è un cercatore di coerenza, a Fritz
Heider dobbiamo una teoria molto in linea con la teoria della dissonanza: la sua è la teoria della coerenza
cognitiva e teoria dell’attribuzione.
Si nota che le scale di atteggiamento (questionari) non necessariamente predicono il comportamento.
Perché? Principalmente perché le persone possono non voler dire ciò che pensano realmente soprattutto
su argomenti delicati.
Le persone potrebbero mascherare ciò che pensano in realtà per motivi legati alla desiderabilità sociale
(cioè tendenza a rispondere in modi considerati socialmente corretti) o perché influenzate dalle aspettative
dello sperimentatore. Per aggirarla la psicologia sociale ha creato tecniche indirette di rilevazione degli
atteggiamenti e tecniche implicite. Tornando alla distinzione tra processi automatici e controllati
rispondere a un questionario usando la desiderabilità sociale significa usare un pensiero controllato. Si
può misurare il vero atteggiamento con misure fisiologiche, con strumenti che misurano attivazione
neurale, battito cardiaco, dilatazione pupillare, risposta galvanica cutanea ecc. si inizia a considerare
veramente ciò che c’è nella scatola nera. Uno dei processi è la motivazione. Solmon Ash dice che per
considerare una persona calda o fredda, positiva o negativa bastano pochi tratti. Poi arriva Anderson
secondo il quale se si fa la somma algebrica delle informazioni su una persona, si ottiene l’impressione su
quella persona. Tutto dipende dalla motivazione, dall’obiettivo per il quale occorre formarsi un’opinione
su una persona. I processi di pensiero sono sia automatici sia controllati ma la motivazione consente di
indirizzare le energie cognitive su ciò che sto facendo. Si passa così dall’idea che il percepiente sia un
mero registratore di stimoli, all’idea che il sistema cognitivo elabora quegli stimoli, cioè li riceve e decide
quali immagazzinare e quali no, li aggancia a nozioni note, li trasforma in strategie e prende decisioni che
possono essere frutto di automatismo o di pensiero controllato.
Negativity effect: gli eventi negativi, per il sistema cognitivo, sono più salienti di quelli positivi. Il
sistema cognitivo non è in grado di ragionare in termini probabilistici a meno che non conosca le regole
di probabilità con molto allenamento.
Legge dei grandi numeri: per un numero infinitesimale di volte è probabile che la probabilità tenda alla
frequenza.
Dopo il comportamentismo (stimolo-risposta), con l’avvento del cognitivismo, applicato alla psicologia
sociale, si dà vita alla cognizione sociale ovvero l’insieme dei processi attraverso i quali le persone
arrivano a comprendere se stesse e il mondo che le circonda usando la percezione, la motivazione e i
desideri.
1. Se la prima concezione dell’uomo è quella del cercatore di coerenza cognitiva (Heider, Festinger
ecc.),
2. con la nascita della social cognition la visione dell’uomo è quella di un economizzatore di risorse
cognitive, cioè i processi automatici esistono perché abbiamo bisogno di risparmiare energie
cognitive.
3. La terza visione, oggi più accreditata, è quella che vede l’uomo come tattico motivato;
l’individuo è consapevole che le sue energie cognitive sono limitate e allora è la motivazione che
lo spinge all’uso di strategia automatica o del pensiero automatico.
Per quanto riguarda la psicologia sociale in Europa, nel dopoguerra, abbiamo Moscovici e Tajfel.
Tajfel, autore della teoria dell’identità sociale che più di tutte riesce a spiegare il legame tra l’individuo e
il gruppo di appartenenza.
Moscovici è autore di due importanti teorie, una delle quali è della conversione, l’altra delle
rappresentazioni sociali.
Gordon Allport è autore di importanti teorie sul pregiudizio, egli colloca la psicologia sociale e lo studio
dell’influenza sociale nell’ambito della scienza, ovvero dà una spiegazione scientifica della psicologia
sociale, che è l’insieme dei processi attraverso i quali i pensieri, i sentimenti e i comportamenti delle
persone sono influenzati dalla presenza reale o immaginaria di altre persone.
Questa distinzione tra pensieri, sentimenti e comportamenti tornerà in tantissimi aspetti della psicologia
sociale, si parla spesso dell’ABC della psicologia sociale (affect, belief e behaviuor/comportamento).
Gli atteggiamenti sono valutazioni complessive di favorevolezza/sfavorevolezza nei confronti di un
target. Predicono il comportamento. Es. del fumo (posso essere favorevole/sfavorevole): componente
affettiva (mi piace fumare), componente cognitiva (credenze e pensieri associati al fumo come il fatto che
si è consapevoli che faccia male), comportamentale (se fumo o no). Si parla di insieme di modalità
quando si parla di psicologia sociale perché non esiste un solo tipo di influenza sociale, quella più
conosciuta e studiata per prima è quella che spiega perché la maggior parte di noi usa lo stesso cellulare o
si veste allo stesso modo, ovvero il conformismo, cioè l’influenza della massa che influenza il singolo che
adatta il suo modo di pensare e il suo comportamento alla massa stessa. Anche se ci sentiamo liberi in
realtà siamo più influenzabili di quanto pensiamo. Non si vuole apparire diversi, ci sono contesti in cui ci
si sente più a proprio agio confondendosi nella maggioranza. Si è ritenuto che il conformismo sia l’unico
possibile esito del processo di influenza sociale, se questo fosse vero non sarebbe spiegabile il fatto che
nascano le nuove mode che cambiano quelle esistenti. Moscovici afferma che se l’influenza della
maggioranza fosse l’unico esito spiegabile, potremmo rendere conto del conformismo ma non
cambiamento sociale (nuove mode, nuovi modi di pensare, nuove correnti letterarie). Si chiama influenza
della minoranza o influenza minoritaria e non si riferisce solo a quella numerica ma di potere,
mainstream, che una delle due detiene (maggioranza o minoranza): da un lato abbiamo una maggioranza
numerica che detiene la posizione dominante (prima dell’avvento del Mac la leadership era del personal
computer, poi la minoranza ha cambiato le cose con paradigma diverso, quando il Mac viene lanciato non
è ancora una dominanza). Un esempio paradigmatico dell’influenza della minoranza è quello del quadro
di Monet “Impressione, levar del sole”, manifesto dell’impressionismo, appese il suo quadro inizialmente
criticato esternamente a una porta sul marciapiede e anche i suoi colleghi iniziarono a fare lo stesso. Ci
sono vari tipi di influenza, una di queste è quella delle competenze: ad esempio una persona che indossa il
camice da medico sarà ritenuto un medico. Si basa sulla credibilità attribuita alla fonte. Poi c’è l’influenza
senza messaggio: ad esempio una smorfia di una persona che ci fa credere qualcosa, un gesto
involontario, non intenzionale che però fa interpretare a ognuno qualcosa che può anche essere frainteso.
L’influenza sociale è un ambito di studi che si sovrappone parzialmente ad altri ma ha delle sue
specifiche. Condivide degli aspetti con il processo di persuasione, ovvero il tentativo esplicito con delle
argomentazioni da parte di una fonte di cambiare l’opinione di chi si ha davanti, avvicinandola alla
propria. L’influenza può anche non generare un cambiamento nell’atteggiamento, può anche non essere
sostenuta da argomentazioni, può inoltre essere passiva, quando si influenza senza l’intenzione di farlo.
Quindi influenza e persuasione non sono sovrapponibili perché la persuasione è sempre intenzionale,
l’influenza non lo è. L’influenza si sovrappone parzialmente al cambiamento di atteggiamento: da un lato
il cambiamento di atteggiamento è solo uno dei possibili esiti dell’influenza perché alcuni tipi di influenza
possono rafforzare l’idea iniziale di chi riceve il tentativo di influenza (reattanza psicologica) e poi perché
il cambiamento di atteggiamento può derivare anche da un ragionamento o dall’osservazione del suo
comportamento, ad esempio nella teoria dell’autopercezione di Bem l’idea è che quando le persone si
trovano di fronte ad un oggetto di atteggiamento che non conoscono bene, per comprendere il loro
atteggiamento, osservano il proprio comportamento. Un ulteriore concetto, con cui entra in contatto
l’influenza, è il potere: l’influenza è un processo mentre il potere implica una relazione tra una persona e
un gruppo, ci sono poi processi di pensieri meno controllati come la suggestione che sono esempi di
influenza senza potere.
Chi è la fonte e chi è il bersaglio del processo di influenza? Nell’idea del conformismo o dell’influenza
della maggioranza il processo di influenza è unidirezionale, asimmetrico, dove l’influenza può andare
unicamente dalla fonte verso il bersaglio (es. dalla maggioranza verso il singolo), questo modello si
chiama FUNZIONALISTA DELL’INFLUENZA, ma non è sempre così. Noi siamo contemporaneamente
fonte e bersaglio di influenza sociale (Moscovici nel modello genetico). In leadership è implicito il
concetto di followership, ciò significa che se ragiono nell’ottica della maggioranza è il leader che
influenza i follower; se ragiono nell’ottica di Moscovici, dell’influenza reciproca, definisco leader la
persona che nel gioco dell’influenza reciproca, all’interno di un gruppo, esercita un’influenza maggiore
sugli altri, di quanto riescano a fare gli altri su di lui/lei. Un esempio di cambiamento sociale in letteratura
è Oliver Twist, ma anche il caso di Franca Viola, Marie Curie (Le chiesero: com’è vivere con un genio?
Rispose: Chiedetelo a mio marito).
LEZIONE 4
Anche il singolo o una minoranza possono rappresentare un’influenza che è il cambiamento sociale.
Come ci fa capire Moscovici non necessariamente l’influenza è unidirezionale.
Cosa significa essere fonte attiva o passiva di influenza sociale? Il primo esperimento, riconosciuto come
tale dalla psicologia sociale, è attribuito a Triplett, esperto di ciclismo che si chiedeva se la presenza di
altre persone facilitasse le performance. La sua osservazione fu che quando un ciclista andava da solo
aveva performance peggiori rispetto a quando andava in gruppo. Il metodo sperimentale è un metodo di
indagine che consiste nel creare una situazione controllata in laboratorio in cui si manipolano variabili
indipendenti con un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo e si osserva la variabile dipendente per
vedere se ci sono effetti della VI sulla VD. Triplett riproduce la situazione. Fornisce una fotografia
semplificata della situazione reale e invece di portare bici in laboratorio chiama degli adolescenti e fa sì
che avvolgano un mulinello da pesca. Rileva la differenza tra velocità di avvolgimento dei singoli e delle
persone insieme ad altre persone. Riscontra che in gruppo la velocità di avvolgimento del mulinello è più
intensa (questo si chiama facilitazione). Qualcun altro osserva invece che la presenza di altre persone
nello svolgere operazioni matematiche crea invece inibizione alla performance quindi il favorire o inibire
la performance dipende da molti fattori come la difficoltà di un compito. Zajonc definisce la teoria
dell’impulso: la presenza degli altri attiva il sistema fisiologico della persona, una sorta di allerta e il
sistema neuroendocrino (arousal di attivazione) e il sistema cognitivo attivano immediatamente le risposte
dominanti che non richiedono uno sforzo cognitivo (come avvolgere un mulinello). In tal caso le persone
in compagnia migliorano le performance, ma in presenza di un compito difficile non si usano le risposte
dominanti, si usano quelle cognitive più alte e in quel caso rispetto ai compiti da svolgere, si devono
inattivare le risposte dominanti e le performance sono peggiori. Le risposte dominanti sono quelle
automatiche che non richiedono sforzo cognitivo. Un altro tipo di influenza passiva che si genera, senza
che la fonte di influenza abbia intenzione di modificare, è quella che si chiama inerzia sociale: in
situazioni con più persone, un pericolo non è percepito come tale perché è come se ci fosse una diffusione
di responsabilità. È l’apatia degli astanti, coloro che non intervengono perché sono presenti altre persone
(teoria del ’70, in riferimento a omicidio di Kitty Genovese, 38 persone avevano osservato il fenomeno e
nessuno era intervenuto). È detto anche effetto spettatore, sono coloro che non sono coinvolti
nell’episodio di violenza ma che ne sono a conoscenza, avrebbero la possibilità di rappresentare supporto
sociale, di interrompere episodi di violenza, ma senza intervenire provocano un peggioramento della
situazione. Implicitamente non intervenendo è come se spingessero la vittima a non denunciare
l’episodio. Abbiamo anche l’influenza informativa: è quel tipo di influenza a cui noi siamo soggetti, in
situazioni per noi non completamente chiare, e utilizziamo il comportamento altrui come fonte di
informazione del comportamento da seguire. Se vediamo due persone discutere animatamente per strada e
notiamo altre persone che osservano e stentano ad intervenire siamo portati a non intervenire e
sottostimare la gravità della situazione. Più persone si influenzano reciprocamente, si tratta di ignoranza
pluralistica. Se la discussione per strada è non solo con toni alti ma con aggressione ed è
inequivocabilmente grave, allora parleremo di diffusione della responsabilità. Stesso esito ma processo
differente. La fonte di influenza può anche essere attiva, la persuasione è un tipo di influenza
intenzionale, può esercitare con pressione diretta (caso classico di ragazza che dice al fidanzato di
comprarle l’anello) oppure indiretta (hai visto che Mario ha comprato l’anello alla ragazza?).
Noi siamo contemporaneamente fonte e bersaglio. Siamo molto influenzabili ma non lo ammettiamo,
riteniamo di essere meno suggestionabili di quanto lo siano gli altri: è l’effetto terza persona. Il bersaglio
può anche non riconoscere un tentativo di influenza e subirlo in modo inconsapevole. Quando qualcuno
prova a influenzarci si è notato che tendiamo a dimenticare i messaggi ricevuti, non significa che però
quel messaggio non vada nel pensiero automatico riuscendo a influenzare lo stesso un comportamento.
Per influenzare si utilizzano spesso i termini di paragone. Il bersaglio non ama ammettere di essere
influenzabile ma ci sono situazioni in cui non si hanno problemi a dire che si è influenzati, come in
seguito a una minaccia o fare qualcosa contro la propria volontà, oppure quando abbiamo una
ricompensa. Non c’è un avvicinamento alla fonte di influenza ma ci può essere il fenomeno opposto, di
allontanamento, si chiama reattanza psicologica o effetto boomerang, invece di avvicinarci alla posizione
di chi vuole convincerci di qualcosa (fonte). Alcuni autori hanno ragionato sui livelli di influenza
considerando la possibilità che non tutti i tentativi di influenza siano profondi o superficiali, ma hanno
ipotizzato diversi livelli di influenza, a seconda della persistenza del tempo di un tipo di influenza, e la
resistenza ai tentativi di cambiamento, mettendole insieme abbiamo diversi livelli di influenza. Un
esempio classico di credenze culturali molto persistenti nel tempo e poco resistenti ai tentativi di
cambiamento sono i truismi culturali, credenze diffuse su ampia scala: ad es. l’attività fisica è risaputo
che faccia bene, per assurdo se facesse male e ci fosse uno studio scientifico a dimostrarlo nessuno
farebbe più sport. Sfruttando questo concetto dei livelli di influenza Kelman teorizza modello a tre livelli
(1961):
il primo è COMPIACENZA, livello meno profondo, rappresenta un cambiamento solo apparente
e pubblico di comportarsi (esempio del telefonino che viene silenziato o spento perché così ha
chiesto il prof.);
il secondo è di livello intermedio e si definisce di IDENTIFICAZIONE, si accetta privatamente il
messaggio della fonte e l’influenza dura finché dura la relazione con la fonte (ci si identifica con
il prof ritenendo importante spegnere il cellulare a lezione, per dimostrarsi compiacenti, non
solo per non essere puntiti);
il terzo livello è più profondo e si chiama di INTERIORIZZAZIONE, indipendente dalla presenza
della fonte, è un’accettazione totale dell’influenza ed è più duraturo. Il bersaglio ha
interiorizzato il messaggio nelle credenze più profonde e lo mantiene nel tempo.
Gli studi che hanno portato alla concettualizzazione dell’influenza della maggioranza (conformismo) sono
quelli di Sherif (1935) che intendeva comprendere come si arrivi in un gruppo alla formazione di una
norma (prescrizioni o proscrizioni comportamentali che regolano la vita all’interno di un gruppo ),
atteggiamento o comportamento considerato accettabile (come la norma implicita di salutarsi o la norma
esplicita di non bere alcolici prima della maggiore età).
Ci sono anche le norme proscrittive che sono quelle che vietano (vendere alcolici ai minori, non
parcheggiare in divieto di sosta...). Possono essere codificate o non codificate cioè scritte oppure no. Le
norme sono quelle che all’interno di un gruppo si presentano con la maggior frequenza, considerate
corrette in modo consensuale. In statistica si parla di norme nella Curva di Gauss o curva normale.
Sherif voleva comprendere i meccanismi che nelle situazioni ambigue portano il gruppo a formare delle
norme e sfrutta un’illusione percettiva che si chiama effetto autocinetico; se di notte al buio guardiamo
fisso una stella mentre siamo in auto quella stella sembrerà muoversi, è una distorsione percettiva quando
non ci sono punti di riferimento su uno sfondo scuro e c’è qualcosa di luminoso. Quel tipo di punto
luminoso appare come se fosse in movimento.
Esperimento: Un gruppo di persone deve dire di quanto si muove quel puntino luminoso per una serie di
volte: la prima volta fa svolgere il compito a una persona sola e accade che, partendo dai giudizi iniziali,
le persone si danno un campo di variazione (ad es. si muove di cinque centimetri), quindi si danno una
regola. La seconda volta il compito è svolto prima da soli poi insieme ad altri ad alta voce e le norme che
le persone avevano creato da sole tendono a convergere (si crea una norma, si è negoziato in modo
inconsapevole verso un range per andare poi verso la norma). Nella terza condizione le persone svolgono
il compito prima in gruppo e poi da sole. Nella condizione inversa le persone insieme creano una norma
poi quando lavorano da sole si basano sulla regola formata all’interno del gruppo. Quindi i giudizi
individuali nelle situazioni ambigue tendono a convergere verso una norma quando le persone sono in
gruppo. Quella norma, creata in modo consensuale in gruppo, permane anche quando le persone sono in
una situazione individuale. Questo processo si chiama normalizzazione ed è il fenomeno per cui i giudizi
individuali, in una situazione di gruppo, subiscono un’influenza da parte della situazione di gruppo stessa
e tendono a convergere verso un punto moderato. Le motivazioni che portano a una posizione moderata
riguardano fattori di tipo motivazionale, ovvero le persone mettono in atto un sistema di concessioni
reciproche per salvaguardare la relazione, e di tipo cognitivo, ovvero l’informazione costituita
dall’opinione degli altri rappresenta un punto di riferimento.
Se immaginiamo di essere, ad esempio, nell’esecutivo di un’associazione e dover stabilire il budget per
un evento, si avranno diversi pareri sull’ammontare: dopo la discussione, per il fenomeno della
normalizzazione, il gruppo raggiungerà una posizione moderata o normativa.
Come sappiamo nella curva di Gauss la parte centrale è la norma, ma ci sono anche le code che
riguardano le situazioni più estreme. Secondo alcuni autori la discussione in un gruppo su questioni
ideologiche può anche portare al fenomeno opposto ovvero la polarizzazione. Cioè l’idea iniziale di un
individuo, in seguito a una discussione di gruppo, tende a diventare più estrema e non più moderata.
Secondo Moscovici e Zavalloni la polarizzazione è dovuta a due ordini di fattori: il primo è motivazionale
e si chiama confronto sociale: quando ragioniamo su un argomento abbiamo la tendenza a presentarci
meglio degli altri (effetto primus inter pares), da qui viene l’espressione primo cittadino, tra pari ma
qualcosa in più. In pratica si esce più rafforzati in un’idea iniziale. Il secondo riguarda le argomentazioni
persuasive ovvero le posizioni che una persona assume in merito a una questione (ad esempio pro o
contro i vaccini) in un contesto con altre persone, con idee diverse e diverse motivazioni. Ogni persona
cerca la coerenza e uno degli esiti è che quando sono esposto a nuovi argomenti tenderò a dare più
attenzione a ciò che si accorda con ciò che ho già in memoria, quindi con quella che era già la mia idea di
qualcosa. Alla fine della discussione si sarà ancora più ancorati alla propria idea iniziale. Stiamo parlando
di processi automatici.
Ash: studi sul conformismo (video con esperimento: un gruppo di persone sono d’accordo tra loro a
sembrare partecipanti del test e uno solo di loro è un vero partecipante, queste persone devono dire quale
linea ha la stessa lunghezza di altre. Anche se la risposta è evidente, i partecipanti-attori indicano una
linea che in realtà è più grande e così anche l’unico vero partecipante è portato a rispondere la stessa cosa,
benché sia consapevole che la risposta sia quella sbagliata). In condizioni di assoluta inequivocabilità
percettiva le persone in un terzo dei casi dichiarano qualcosa di diverso da ciò che vedono, alcuni perché
soprattutto hanno paura del giudizio di apparire diversi, una paura che è più forte rispetto al bisogno di
esprimere un giudizio corretto. Quindi le persone accettano la posizione della maggioranza pur non
condividendola.
MOTIVI DELLA CONFORMITÀ: una deformazione percettiva, una deformazione di giudizio, un forte
bisogno di non apparire diversi. Tuttavia, un livello di cultura più elevato corrisponde anche a una
maggiore capacità critica e quindi una migliore comprensione della propria responsabilità, pertanto,
persone più acculturate potrebbero essere meno soggette al fenomeno del conformismo.
LEZIONE 5
Milgram: il suo studio nasce per spiegare l’obbedienza all’autorità, nasce da un evento reale, voleva
comprendere le situazioni che da sempre esistono nel genere umano, ma in particolare nei campi di
concentramento. Coloro che si difendevano, per aver compiuto atti atroci, sostenevano di aver solo
eseguito gli ordini. Nella fase iniziale della prova, lo sperimentatore, assieme a un collaboratore complice,
assegnava i ruoli di allievo e di insegnante; i due soggetti venivano poi condotti nelle stanze predisposte
per l'esperimento. L'insegnante (soggetto ignaro) era posto di fronte al quadro di controllo di un
generatore di corrente elettrica composto da interruttori a leva in fila con indicazione della tensione, dai
15 V del primo ai 450 V dell'ultimo. All'insegnante era fatta percepire la scossa relativa alla terza leva in
modo che si rendesse personalmente conto che non vi erano finzioni e gli venivano precisati i suoi
compiti come segue: leggere all'allievo una serie di coppie di parole, compito dell'allievo era di
memorizzare le coppie in vista della fase successiva; ripetere la seconda parola di ogni coppia
accompagnata da quattro associazioni alternative e chiedere all'allievo quale fosse, tra quelle elencate, la
parola presente nella coppia originaria; decidere se la risposta fornita dall'allievo fosse corretta; in caso
fosse sbagliata, infliggere una punizione aumentando l'intensità della scossa a ogni errore dell'allievo.
Quest'ultimo veniva legato a una specie di sedia elettrica e gli era applicato un elettrodo al polso,
collegato al generatore di corrente posto nella stanza accanto. Doveva rispondere alle domande e fingere
una reazione con implorazioni e grida, al progredire dell'intensità delle scosse (che in realtà non riceveva)
fino a che, raggiunti i 330 V, non emetteva più alcun lamento, simulando di essere svenuto per le scosse
precedenti. Lo sperimentatore aveva il compito, durante la prova, di esortare in modo pressante
l'insegnante (ecco le quattro esortazioni di cui si parla più avanti): «continui per piacere», «l’esperimento
esige che lei continui!», «è assolutamente indispensabile che lei continui», «non ha altra scelta, deve
proseguire». Il grado di obbedienza fu misurato in base al numero dell'ultimo interruttore premuto da ogni
soggetto prima che quest'ultimo interrompesse autonomamente la prova oppure, nel caso il soggetto
avesse deciso di continuare fino alla fine, al trentesimo interruttore. Soltanto al termine dell'esperimento i
soggetti vennero informati che la vittima non aveva subito alcun tipo di scossa.
Con l’esperimento si cerca di spiegare il processo di influenza determinato dalla disparità di autorità tra
fonte e bersaglio. Se, da un certo punto di vista, l’obbedienza è importante per l’ordine sociale (come il
rispetto del codice stradale), nei sistemi militari, negli ordini di polizia e sistemi religiosi, ad esempio, è
fondamentale il discorso dell’obbedienza per evitare sanzioni o ottenere ricompense.
L’idea che guida il processo di obbedienza è che il bersaglio ritiene che la fonte abbia il diritto morale di
prescrivere un certo comportamento. Di conseguenza il processo di evitamento delle punizioni è simile a
quello di influenza di maggioranza e della compiacenza, ma ci sono anche delle differenze. Le quattro
esortazioni dell’esperimento di Milgram rappresentano il processo di operazionalizzazione dell’autorità
(operazionalizzare significa trasformare un costrutto latente, quindi non direttamente osservabile, in una
serie di indicatori osservabili. Il costrutto latente è l’autorità che si impone, gli indicatori dell’autorità che
si impongono sono le quattro esortazioni citate sopra.
Risultati dell’esperimento: 26 soggetti su 40 abbassarono la leva da 450 volts, perché il bersaglio ha paura
di essere sanzionato (ciò è visibile dalla comunicazione non verbale). I soggetti mostrarono un forte grado
di tensione e agitazione.
Oggi è facile trovare una donna in un laboratorio a fare un esperimento, ma ai tempi di Milgram
l’operalizzazione di Milgram era la tipizzazione stereotipica dell’autorità accademica, lo sperimentatore
aveva delle caratteristiche tipiche (età avanzata, occhiali, barba e camice), difficilmente una donna
avrebbe avuto la stessa autorità a quel tempo.
Spiegazione di Milgram: i comportamenti di obbedienza distruttiva non sono necessariamente frutto di
perversioni e sadismo, ma possono essere indotti da un particolare contesto sociale, con processi di
influenza sociale. Questa è la spiegazione di molti militari che hanno così giustificato il proprio
comportamento. Dal punto di vista psicologico l’obbedienza all’autorità è legata al cosiddetto stato
eteronomico: in presenza delle autorità le persone tenderebbero ad avere un cambiamento
nell’attribuzione di responsabilità individuale tale per cui, da sole, scelgono in modo autonomo; in
presenza di autorità il comportamento è suggerito da un’altra entità, dovendo soddisfare le esigenze
dell’autorità stessa.
Sia l’obbedienza distruttiva sia la compiacenza (o conformismo) condividono aspetti come avere un
aspetto prevalentemente pubblico. Ma ci sono anche differenze tra i due processi: (esempio domanda
aperta all’esame, differenza tra obbedienza e autorità e obbedienza e conformismo).
1. L’obbedienza comporta una struttura gerarchica, cioè la disparità di status tra fonte e bersaglio,
mentre nel conformismo il cedimento di una persona è nel pari status (stesso livello).
2. L’obbedienza riguarda un’azione che la fonte non può compiere, mentre nel conformismo
riguarda un’azione manifesta della fonte.
3. Nell’obbedienza è una risposta a comandi espliciti (tira quella scossa, continua), il conformismo
è una risposta in gran parte implicita (se vedi gli altri fumare fumi anche tu).
4. Nell’obbedienza il processo è consapevole e l’individuo non fatica ad ammetterlo, mentre nel
conformismo è un processo che le persone fanno fatica ad ammettere (ricorda l’effetto terza
persona).
I processi che secondo Moscovici determinano queste differenze: quando siamo di fronte a una posizione
maggioritaria attiviamo un processo cognitivo “di confronto” tra la nostra posizione e quella della
maggioranza. La minoranza attiverebbe un processo molto più complesso che si chiama “di convalida o
validazione”: di fronte a un processo di influenza minoritaria ho due posizioni disponibili (quella della
maggioranza e della minoranza) non confronto solo la mia con quella della maggioranza, ma costringo il
mio sistema cognitivo a considerare tante possibili opinioni alternative. Se arrivo a dire che sono
d’accordo con la minoranza, quella posizione sarà molto profonda.
Charles Nemeth approfondisce cosa succede a livello di ragionamento, per spiegare i processi di
confronto e convalida, che Moscovici attribuisce a influenza maggioritaria e minoritaria: quando
confronto la mia unica posizione con quella della maggioranza, nei processi di influenza maggioritaria,
induco nel mio sistema cognitivo un processo di pensiero convergente che considera solo quella
posizione, quindi i processi di influenza maggioritaria sono particolarmente efficaci quando le questioni
su cui si dibatte sono semplici. Al contrario nel processo di convalida o validazione nell’influenza
minoritaria abbiamo il processo di pensiero divergente che considera più alternative possibili ed è
particolarmente efficace nei compiti che richiedono creatività.
Concettualizzazione recente: incrocio della dimensione numerica di maggioranza/minoranza con la
dimensione di potere/non potere: secondo Moscovici le maggioranze sono grandi e dotate di potere, le
minoranze il contrario. Ma in realtà, in anni recenti, altri studiosi hanno constatato che esistono
minoranze dotate di potere, come i politici; se consideriamo le élite abbiamo minoranze dotate di molto
potere e, in quel caso, le minoranze saranno spinte al mantenimento dello status quo e non al
cambiamento. Quindi esistono anche maggioranze non dotate di potere.
(fino a qui è stato trattato il testo “L’influenza sociale”)
LEZIONE 6
FARE RICERCA IN PSICOLOGIA SOCIALE (CAPITOLO 2 DEL MANUALE)
TEORIE, IPOTESI E VARIABILI
Fare ricerca, in psicologia sociale, significa testare ipotesi che mirano a rappresentare un aspetto della
realtà. Tale tentativo si definisce teoria, ovvero un insieme di proposizioni o frasi basate su regole e
connettori logici, che tendono a spiegare un aspetto della realtà. Se affermo che “nella teoria dell’identità
sociale un aspetto importante dell’identità delle persone è l’appartenenza a un gruppo”, poi posso
continuare con altre proposizioni che mettono in relazione ciò con altri concetti come identità sociale
positiva o negativa, in base allo status e l’autostima (ad esempio “se appartengo a un gruppo di alto status
allora la mia autostima sarà positiva”). Le frasi sono collocate a un alto livello di astrazione perché non
sono andato sul concreto, ma mi sono tenuto astratto, esse derivano dall’osservazione dei ricercatori che
agiscono con il metodo sperimentale, l’osservazione è empirica e l’obiettivo è anche quello di poter fare
delle previsioni generalizzabili al di là del contesto in cui la teoria è stata formulata.
Le teorie sono degli insiemi di proposizioni che stabiliscono anche delle relazioni tra concetti: ad es. lo
status del gruppo di appartenenza e il livello di autostima delle persone. Quando la teoria è sottoposta a
verifica è perché ci sono state delle ipotesi a monte. La critica mossa alla psicologia in generale, e dunque
alla psicologia sociale, è quella di essere una scienza soft, non direttamente osservabile (non osserviamo
l’autostima in modo diretto ma indicatori che derivano direttamente dai costrutti latenti a cui sono
associati tramite il processo di operazionalizzazione). Le due variabili che ci interessano maggiormente
sono quella indipendente a cui è attribuito il ruolo di causa e che viene modificata dallo sperimentatore e
la variabile dipendente che è influenzata dalla variabile indipendente.
Il metodo scientifico è quello che qualifica la ricerca, rispetto alla speculazione filosofica. Per considerare
la psicologia una vera scienza occorre utilizzare un metodo rigoroso, scientifico che consenta di giungere
a conclusioni potenzialmente generalizzabili.
Il metodo sperimentale consiste nella formulazione delle ipotesi di ricerca e nella scelta tra diversi
approcci alla ricerca (ci sono paradigmi epistemologici di analisi, come quello del neopositivismo che è
attualmente il più diffuso, secondo il quale la realtà è conoscibile attraverso approssimazioni successive e
di conseguenza c’è una quota di errore dovuta al caso o al fatto che si possono fare errori di misura, di
campionamento, il punteggio che rileviamo in uno studio sulla depressione fa rilevare una quota di errore
ineliminabile, ma comunque minimizzabile, ad es. in un articolo si può trovare P<0,5 che è una soglia di
errore comunemente accettata cioè si ammette che i risultati siano dovuti al caso o all’errore meno di
cinque volte su cento). Si raccolgono poi i dati che vengono analizzati in funzione delle ipotesi, è una
procedura molto lineare e successivamente si formulano conclusioni; ma i prodotti della ricerca non
sarebbero tali se non ci fosse la condivisione dei risultati con la comunità scientifica di riferimento e non
si scrivesse un articolo per una rivista scientifica.
I livelli dell’indagine empirica sono tre:
1. descrittivo: fotografia statica di un fenomeno, ad esempio rilevazioni di variabili come
provenienza geografica, se ci sono più uomini o donne, età ecc...
si fa poi una descrizione partendo dai dati raccolti, senza fare altre analisi.
2. indagini correlazionali: mirano a comprendere se due variabili sono correlate tra di loro, ad
esempio relazione peso/altezza. Il coefficiente di correlazione risente del numero dei
partecipanti. In un campione di quindici partecipanti potrebbe essere nulla la correlazione tra
peso e altezza. Superati i 250 casi o unità invece le correlazioni tendono a stabilirsi.
“Correlation does not mean causation”: la correlazione non implica in alcun modo una relazione
di causa-effetto. Non si può stabilire quale variabile rappresenti l’antecedente dell’altra, si può
conoscere solo l’intensità di una correlazione positiva o negativa.
3. indagini sperimentali: in questo caso si può conoscere la causa/effetto; l’esperimento si
caratterizza per la manipolazione di una o più variabili dipendenti (il ricercatore manipola
attivamente qualcosa) e un gruppo di controllo e la procedura di randomizzazione, ovvero i
partecipanti vengono attribuiti casualmente al gruppo di controllo (che non riceve niente
oppure solo il placebo) o al gruppo sperimentale che riceve ad esempio un farmaco.
Differenza tra esperimenti in laboratorio e sul campo: nel primo caso si è condotti in un laboratorio e il
ricercatore ha il massimo controllo sulle variabili, la procedura è molto controllata, al tempo stesso è
fondamentale riconoscere che il laboratorio è una situazione artificiale, in cui le persone sanno di essere
oggetto di esperimenti e le persone potrebbero viziare le loro risposte.
Nel secondo caso gli ambienti sono naturalistici, avviene la manipolazione della variabile indipendente e
non c’è randomizzazione. Questo riduce la validità interna della ricerca perché se trovassi delle differenze
nelle performance esse potrebbero essere dovute anche a motivazioni legate a tantissimi fattori non
controllabili (come estrazione sociale, motivazione ecc.). Grande validità esterna ma scarsa interna.
METODI DI RACCOLTA DATI: la maggior parte delle ricerche utilizza self-report come le scale di
atteggiamento (quanto sei d’accordo con qualcosa? Per niente o molto) in cui il partecipante riporta la sua
opinione in modo diretto, ma è possibile che i dati raccolti non siano molto rappresentativi del vero
comportamento.
Le ricerche d’archivio consistono nella valutazione di dati raccolti in passato con scopi indipendenti da
quelli della ricerca in atto. Il ricercatore non ha in questo caso il controllo sulla raccolta dei dati. C’è poi il
metodo dell’osservazione, utilizzato soprattutto in psicologia dello sviluppo dei bambini. Ha il vantaggio
di poter vedere direttamente il comportamento dei partecipanti, ma ha lo svantaggio di alterare il
comportamento stesso in presenza dell’osservatore (effetto Hawthorne).
Poi ci sono le misure psicofisiologiche: come la risposta galvanica cutanea, la dilatazione della pupilla, la
sudorazione, alterazione dell’attività polmonare e del battito cardiaco. Metodo costoso e tecniche
intrusive ne rappresentano i limiti (ricordare Zajonc e la teoria dell’impulso: la presenza degli altri genera
un’attivazione fisiologica che si chiama arousal che facilita le risposte dominanti o automatiche).
Oggi in psicologia sociale le misure più importanti sono quelle implicite.
Abbiamo detto che i processi di pensiero possono essere automatici e controllati (impiegano risorse
cognitive) e abbiamo parlato di tutte le loro caratteristiche, ma ce n’è ancora una: si tratta delle misure
implicite che sfruttano il concetto di accessibilità ovvero la rapidità con la quale di fronte a un oggetto di
atteggiamento si attiva la valutazione di quell’oggetto (se sono molto pregiudizievole nei confronti degli
omosessuali e mi viene chiesto qualcosa in merito, nella mia memoria si attiva immediatamente la
valutazione negativa). Questa misura consente di rilevare indirettamente, tramite i tempi di reazione di
esposizione a un concetto e alla sua valutazione, l’atteggiamento reale delle persone, cioè non viziato
come la desiderabilità sociale e altre distorsioni.
Un esempio è lo IAT (Implicit Association Test), il test dell’associazione implicita che misura i tempi di
reazione con l’associazione parole negative: volto bianco/nero).
Oggi si è molto attenti al concetto di replicabilità: un aspetto importante è che un indicatore di validità
della ricerca è legato a quanto un risultato sia replicato da altre persone. Se trovo che in Italia gli uomini
hanno più pregiudizio di genere delle donne e un collega trova lo stesso dato in un altro Paese, il fatto di
replicare quel dato consente di dire che la teoria di riferimento è più corretta, è robusta. Si parla spesso di
crisi della replicabilità perché spesso sono usate misure non valide ecc. es. esperimento di Zimbardo della
prigione di Stanford non è stato replicato.
Cap. 3 COGNIZIONE SOCIALE
La cognizione sociale fa riferimento a un insieme di processi che conducono gli individui a formarsi
impressioni e giudizi su se stessi, sugli altri e sui gruppi in generale, riguarda il modo in cui il sistema
cognitivo individuale va a raccogliere e interpretare le informazioni. Alcuni processi li abbiamo visti in
precedenza (automatici e controllati) e abbiamo visto che l’individuo è un cercatore di coerenza e che, a
seguito di una discussione di gruppo, si ha la polarizzazione (a seguito di discussioni la nostra opinione
sarà rafforzata da chi la pensa come noi, le opinioni si polarizzano ovvero si estremizzano), mentre su
questioni su cui non abbiamo un’idea ben precisa si può avere una convergenza verso una posizione
intermedia/norma. Fiske e Taylor sono le due capostipiti degli studi sulla cognizione sociale che
storicamente si affaccia nel panorama della psicologia sociale quando si inizia a parlare di cognitivismo e
si supera l’associazionismo di matrice comportamentista. La cognizione sociale fa riferimento ai giudizi
che rivolgiamo agli agenti sociali, cioè le altre persone presenti nel contesto in cui viviamo. Le idee sulla
comprensione dell’essere umano: negli anni ‘50 abbiamo il modello del cercatore di coerenza (Festinger e
Heider) che vede il pensatore sociale come individuo alle prese con la risoluzione di discrepanze
percepite tra le proprie cognizioni, emozioni e comportamento. Tale dissonanza genera una pulsione
negativa che deve essere risolta aggiungendo cognizioni o rivalutando il peso di alcune di esse (es.
fumare mi piace, ma so che fa male e così mi sento motivato a risolvere questo disconfort quindi potrò
sottovalutare il peso negativo che ha il fumo).
Negli anni ’70 prevale la visione dello scienziato ingenuo, una visione che abbiamo nelle teorie
dell’attribuzione causale cioè il corpus di teorie secondo cui gli individui sarebbero costantemente
motivati a comprendere e attribuire le cause dei comportamenti che osservano e dei fenomeni sociali.
Le cause possono essere interne o disposizionali: appannaggio della persona che agisce ad un determinato
comportamento (dipende da fattori come il carattere, i problemi psicologici ecc.).
La causa può essere anche esterna o situazionale: dovuta al contesto, alla fortuna, al caso ecc. La
distinzione è utile alla stabilità nel tempo dell’attribuzione di una caratteristica a un individuo. Quelle
interne sono stabili nel tempo, le esterne sono modificabili e non stabili nel tempo. Ciò che si verifica
sempre è il bias (distorsione) di corrispondenza o errore fondamentale di attribuzione: è la tendenza che
abbiamo a sovrastimare le cause interne andando a sottostimare le cause legate alle situazioni.
Fare attribuzione di causa serve perché per le persone è importante rendere l’ambiente sociale
prevedibile, devono cioè dare sempre un ordine al mondo sociale in cui agiscono per comprendere come
comportarsi. Uno strumento che rende la vita prevedibile all’interno dei gruppi è ad esempio la moralità
intesa come distinzione tra giusto e sbagliato, un altro strumento di regolazione della vita nei gruppi è la
presenza di norme (prescrizioni e proscrizioni). Questa cognizione fa riferimento a quello che Heider
definisce il locus of control (Mario lancia la pietra. Perché? Devo considerare se il “luogo” in cui inserire
la causa del comportamento è Mario o è la situazione).
Le persone tendono a sovrastimare le cause interne, ma essendo motivate a mantenere alta autostima
utilizzano le attribuzioni di causa in maniera strategica: es. esame superato è merito mio, esame non
superato è colpa del docente. È questo il self-serving bias (distorsioni al servizio di sé), cioè si
attribuiscono cause interne per i propri meriti ma si utilizzano quelle esterne per giustificare un
insuccesso.
Jones e Davis (1965) parlano di inferenza corrispondente: quando le persone osservano un
comportamento, l’obiettivo del processo di attribuzione di causa è arrivare a inferire l’atteggiamento che
è dietro quel comportamento (qual è l’aspetto di personalità stabile che sta dietro quel comportamento?).
Tra i vari elementi, che le persone possono trovare nell’ambiente sociale, quelli che consentono di fare
delle inferenze corrispondenti sono quelle poco comuni: ad esempio se nella classe di psicologia sociale
180 persone prendono un voto tra 18 e 26 e 8 prendono 30 l’effetto non comune è quel 30 e su quelle 8
persone farò un’inferenza corrispondente: dirò che sono persone diligenti e intelligenti.
Un’altra teoria è quella di Kelly (1967), autore del modello della covariazione: quando dobbiamo fare
un’inferenza di causa e dire se è interna o esterna andiamo a considerare:
1. la specificità, ovvero la distintività: l’effetto si produce solo quando l’entità è presente? Quando
non capisco la lezione, se ciò è legato alla spiegazione dell’insegnante c’è un’alta specificità se
invece non capisco neanche le altre lezioni la specificità è bassa.
2. la coerenza: l’effetto si produce tutte le volte che l’entità è presente? Il fatto di non capire le
lezioni del prof. si limita alle lezioni di oggi o in generale non capisco mai le sue lezioni? In base a
questo c’è bassa coerenza o alta coerenza.
3. il consenso: solo io percepisco questo o anche tutti gli altri? Basso consenso quando sono solo io
a non comprendere la lezione del prof. o alto consenso quando nessuno capisce la lezione.
Se c’è un’alta distintività, un’alta coerenza e un alto consenso allora l’attribuzione di causa è a carico
dell’entità in questione (nell’esempio è del prof.). ma se c’è una bassa specificità o distintività, alta
coerenza e un basso consenso allora la causa è interna.
Errore fondamentale di attribuzione o bias di corrispondenza: si verifica quando le persone sovrastimano
il peso di fattori disposizionali e sottostimano il peso di fattori situazionali quando si tratta di giudicare il
comportamento di una terza persona, ma questo bias può invertirsi quando io spiego il mio
comportamento. Perché? Ciò si spiega con la salienza percettiva. Ci sono due ordini di fattori: il primo è
puramente percettivo cioè quando osservo una persona comportarsi in un certo modo sono focalizzato su
quella persona e lascio sullo sfondo il contesto. Essendo focalizzato percettivamente su quella persona
sottostimo le informazioni sul contesto perché ne ho di meno. Le cause situazionali restano spesso
invisibili. La persona appare come la causa più logica di quel comportamento. L’altro è legato alla
quantità di informazioni che ho a disposizione: posso non conoscere le cause contestuali che determinano
il comportamento, ma se si tratta di me ho quelle informazioni. Se ragioniamo su noi stessi invece lo
sguardo è spostato verso il contesto, dunque verso l’esterno, quando spiego il mio comportamento ho a
disposizione tutte le informazioni contestuali.
Concetto di autopresentazione: concetto importante nell’ambito della sfera morale che riguarda la
salvaguardia dell’autostima, si tende a dare una valutazione positiva di se stessi.
Ci sono inoltre attribuzioni particolari a vantaggio del sé che si chiamano attribuzioni difensive e
consentono di gestire le minacce a cui potrebbero andare incontro: ad es. ottimismo irrealistico, cioè
credere che le situazioni spiacevoli potrebbero succedere più agli altri che a noi. C’è poi la credenza in un
mondo giusto, l’idea che ognuno abbia ciò che merita (come sostenere che una donna che ha subito una
violenza per qualche ragione l’abbia meritato, ciò serve per mettermi al riparo, cioè se mi comporto
diversamente non subirò violenza).
Il modello di economizzatore di risorse cognitive: gli esseri umani hanno una quota di risorse cognitive
limitata e quindi si usano di più i processi automatici di quelli controllati, ma c’è anche lo stratega
motivato per il quale la motivazione è la chiave fondamentale per direzionare le risorse cognitive in un
senso o nell’altro.
Pregiudizio
Il pregiudizio è un’antipatia fondata su una generalizzazione falsa e inflessibile. Può essere sentito
internamente o espresso. Secondo Allport può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un
individuo in quanto membro di quel gruppo. La generalizzazione è la generalizzazione stereotipica del
gruppo verso una persona di quel gruppo. Negli anni 50-60 (lo stereotipo è l’insieme delle caratteristiche
inflessibili che descrive un gruppo) Allport studia la generalizzazione nei confronti degli afroamericani che
venivano visti come violenti e poco competenti (lo stereotipo può contenere anche elementi positivi) quindi
gli afroamericani erano abili sportivi e musicisti. Avere un pregiudizio significa attribuire tutte le
caratteristiche stereotipiche ad una persona appartenente ad un determinato gruppo senza conoscere la
persona in questione. Si studia però maggiormente la direzione che porta a discriminare, mediante l’utilizzo
dei pregiudizi. Lo stereotipo è la componente cognitiva degli atteggiamenti nei confronti di un gruppo
sociale, il pregiudizio è la componente emotivo-affettiva degli atteggiamenti nei confronti di un gruppo
sociale e la discriminazione che rappresenta la componente comportamentale degli atteggiamenti.
Per sintetizzare:
a) Comportamento positivo di un membro del proprio gruppo (in-group) viene descritto in termini
astratti (è);
b) Comportamento negativo di un membro del proprio gruppo (in-group) viene descritto in termini
concreti (fa) ;
Il fenomeno appena illustrato prende il nome di Linguistic Intergroup Bias o Bias Linguistico Intergruppi;
una cosa “interessante” è che se leggiamo di un incidente che ha causato due vittime in un sabato sera, ad
esempio, è molto probabile riscontrare parole diverse a seconda che l'incidente sia stato causato da un
italiano o da un immigrato.
L’utilizzo dell’astrazione linguistica nel contesto, per esempio scolastico o universitario, è molto pregnante
perché se ci troviamo dinanzi ai genitori di un alunno e gli diciamo che questo è, ad esempio, svogliato,
abbiamo utilizzato un linguaggio astratto e dunque stiamo dicendo che lo è oggi e lo sarà per sempre
(attribuzione stabile); se invece dicessimo che non si applica, gli daremmo un'opportunità di cambiamento.
Vi sono dei principi che guidano l’elaborazione cognitiva:
1. Facciamo affidamento sui processi automatici perché siamo PIGRI, ciò vuol significare che molto
spesso, quando noi dobbiamo emettere un giudizio o una valutazione, tendiamo a fare più
affidamento alle informazioni che sono accessibili.
Più le informazioni sono accessibili e più esercitano un’influenza sulla nostra vita mentale,
sul nostro modo di percepire gli altri e di interpretare la realtà sociale.
Per accessibilità s’intende la rapidità con la quale, di fronte a un oggetto di valutazione, si attiva la sua
valutazione. Essa si distingue in due tipologie:
Cronica: quando io ho accessibilità ad una valutazione su un qualcosa per un lungo periodo di
tempo;
Temporanea: vi sono degli argomenti che sono “caldi” in un determinato periodo storico che non lo
saranno più in un altro momento storico;
2. “Siamo Conservativi”: entra in gioco la profondità di elaborazione divisa in:
Centrale: percorsi di elaborazione profondi, controllati e dispendiosi cognitivamente nel momento
in cui gli schemi pregressi vengono contraddetti o quando sono presenti stati di alta motivazione;
processi controllati.
Periferica: tendenza risparmiare energie cognitive e affidarsi ad un'elaborazione superficiale e il più
possibile rapida delle informazioni, utilizzando ad esempio le euristiche (scorciatoie di pensiero);
processi automatici.
Esistono ancora altri due principi considerati motivazionali, nel senso che vanno a guidare il tipo di
elaborazione che decidiamo di seguire (centrale o periferica):
1. Direzionali: interagiscono con i processi cognitivi in atto per portare l'esito del percorso verso la
conclusione desiderata; per esempio, se stiamo frequentando una persona che ha tanti aspetti
positivi, ma anche qualche aspetto negativo, e ciò che vogliamo è continuare a frequentare
questa persona; i principi direzionali fanno sì che daremo meno peso alle informazioni negative
per andare verso la conclusione che desideriamo (stare con lui/lei).
2. Non Direzionali: determinati dalla propensione degli esseri umani verso il raggruppamento di un
senso di padronanza del proprio mondo (coerenza).
Quando noi dobbiamo utilizzare poche energie, risparmiare tempo e decidere su qualcosa di diversa
natura, utilizziamo le cosiddette euristiche, delle scorciatoie di pensiero che ci consentono di risparmiare
tempo ed energie quando dobbiamo prendere una decisione, chiaramente queste euristiche possono
condurre a degli errori. Le più note in psicologia sociale sono:
Euristica della rappresentatività: uno stimolo viene assegnato ad una particolare categoria,
unicamente in base alla sua somiglianza e rappresentatività con quella categoria, ignorando
qualsiasi altro tipo di informazione (modo in cui si è vestiti: camice bianco= medico; magari, invece,
è un operaio).
Euristica della disponibilità: tendenza a giudicare più frequente e probabile un certo evento o un
dato esemplare sulla base della facilità con cui vengono in mente eventi o esemplari simili.
Fallacia dello scommettitore: gli individui non riescono a tenere presente gli assunti della legge dei
grandi numeri (all’aumentare del numero di rilevazioni che tende a infinito, la frequenza tende alla
probabilità) nel corso del ragionamento probabilistico.
Correlazione illusoria: tendenza a percepire o sovrastimare la relazione tra due variabili, anche
quando queste due variabili non sono legate tra loro oppure lo sono ma debolmente. Essa può
sfociare nel cosiddetto “pensiero magico” che è un sintomo diciamo, psichiatrico; esso è quel
pensiero che utilizzate quando si dice “se metto sto paio di calzini supero l'esame”.
Quando dobbiamo ragionare su noi stessi e sugli altri utilizziamo delle strutture cognitive che
rappresentano dei pacchetti di informazioni su un qualcosa; queste strutture sono gli schemi.
Gli schemi sono delle strutture rigide di informazioni, organizzate in memoria, circa una persona, un
gruppo, un evento, una situazione o un'idea.
Schemi di sé: rappresentazione cognitiva che contiene le informazioni che abbiamo su noi stessi; il
fatto di avere tante informazioni non significa che le utilizziamo tutte quando ci descriviamo,
perché a quel punto entra in gioco quella che si chiama impression management, cioè gestione
dell'impressione: le persone tendono a presentarsi in maniera strategica. Essi sono dunque,
strutture di conoscenza, generalizzazioni cognitive, derivate da esperienze passate, che organizzano
in memoria e ordinano tutte le rappresentazioni che una persona ha dei propri attributi,
rappresentazioni e ruoli sociali.
Rimanendo sul discorso del linguaggio, uno dei peggiori modi per manifestare pregiudizio e discriminazione
nei confronti di un out-group, di un'altra persona o di un gruppo diverso dal mio, è una forma di pregiudizio
molto pesante che si chiama oggettivazione, talvolta utilizzata come sinonimo, anche se non è la stessa
cosa, di deumanizzazione, fa riferimento al fatto che io tolgo umanità all'altro, che è un qualcosa di
estremamente doloroso.
Secondo Haslam ci sarebbero due forme di deumanizzazione:
Meccanicistica: consiste nel considerare l'altro al pari di un oggetto, di un automa, o di una parte
del corpo.
Animalistica: come la precedente, ma ti tolgo umanità invece di trasformarti in un oggetto, ti
trasformo in un animale.
Opotov quando si occupa del fenomeno del circolo morale, ritiene che noi, in qualche modo, siamo
obbligati a rispettare delle regole morali nei confronti di coloro che fanno parte del nostro circolo;
non posso andare fuori e spegnere il sigaro su una persona perché è un'azione che lede la moralità
dell'altro e dunque la sua umanità. Lo studioso ritiene che la deumanizzazione sposti alcune persone al di
fuori del circolo morale e quindi nei loro confronti non ho più remore e posso fare quello che voglio su di
loro in quanto non più considerate come persone, ma sono oggetti o animali. Tutto ciò posso farlo senza
che il mio sistema cognitivo entri in dissonanza.
Gli insulti, in larga misura, possono essere considerati come deumanizzanti; facciamo qualche esempio:
Elaborazione Meccanicistica: coglione! Trasformo il soggetto in una parte del corpo (oggetto).
Elaborazione Meccanicistica: stronzo! Trasformo il soggetto in un oggetto.
Elaborazione Animalistica: capra! Trasformo il soggetto in un animale.
La maggior parte degli insulti veicolano deumanizzazione, cioè il fatto che non considero umana una
persona. La cosa interessante è che quando insultiamo sessualmente uomini o donne, gli uomini sono
meno bersagliati e hanno letteralmente la meglio; ad esempio, una donna che va con molti uomini viene
considerata come una poco di buono, troia, zoccola... un uomo che invece va con tante donne viene
considerato come un playboy, uno stallone o come un maiale, inteso in senso negativo. Il fatto di tenere le
donne storicamente in una posizione subordinata, si ritrova anche negli insulti; paradossalmente lo stesso
comportamento in un caso può essere considerato quasi positivo rispetto all'altro.
Gli schemi in generale e gli schemi di sé, nel particolare, servono fondamentalmente sia quando noi
dobbiamo codificare delle informazioni in ingresso, nel senso che, quando abbiamo una nuova
informazione, utilizziamo gli schemi per fare in modo che si allinei con quelle che già conosciamo; servono
inoltre a decodificare, cioè a facilitare, per esempio, i ricordi (memoria ricostruttiva).
I BIAS (si dice Baias) o meglio bias cognitivi, sono delle distorsioni che le persone attuano nelle valutazioni
di fatti e avvenimenti... In sintesi, i bias cognitivi rappresentano il modo con cui il nostro cervello distorce di
fatto la realtà.
A volte queste strategie innate ci portano fuori strada, altre volte invece la scorciatoia scelta si rivela buona.
Bisogna chiaramente stare attenti perché, come negli altri processi cognitivi, anche in relazione agli schemi
(STRUTTURE COGNITIVE) di sé possiamo incorrere in bias (distorsione, tendenza, inclinazione).
Effetto del falso consenso: lo schema di sé viene utilizzato come punto di riferimento per definire gli
altri; questo, in altre parole, significa che tendiamo a credere che gli altri la pensino come noi.
Self Anchoring Bias (bias dell’autoancoraggio): l'immagine dell’in-group, dunque non dell’out-
group, viene ancorata alla rappresentazione del sé fino a diventare una copia. In altre parole, le
informazioni circa i gruppi rilevanti, vengono incorporate nello schema di sé, ma non le
informazioni sugli out-group rilevanti.
Le impressioni si formano in pochi millisecondi (più o meno 1/10 di secondo) dicono Willis e Todorov; la
loro formazione si riferisce a quei processi tramite i quali noi, da poche informazioni iniziali, riusciamo a
derivare un primo giudizio di favorevolezza/sfavorevolezza (valutazione globale) nei confronti di una
persona. La cosiddetta “prima impressione” viene successivamente modificata, adattata, rivista e corretta
dalle informazioni seguenti.
Le prime impressioni vengono studiate per la prima volta da Ash, secondo il quale la formazione di queste
ultime, sarebbe un procedimento globale configurazionale. Il suo modello di formazione delle impressioni si
chiama proprio modello configurazionale e assume che la formazione delle impressioni sia guidata da un
nucleo interpretativo e le diverse informazioni sono organizzate e unificate all'interno di configurazioni
dotate di senso e non scomponibili.
È interessante sapere che negli esperimenti di Ash sul modello configurazionale, quando è presente il tratto
del calore sociale, l'impressione che le persone formano è molto positiva rispetto a quando c'è il tratto della
freddezza sociale, dove l’impressione che si forma è molto negativa. Allora Ash sostiene che da pochi tratti
che lui considera centrali, come il calore, le persone formano un'impressione globale configurazionale
(pochi tratti guidano la prima impressione); non ho bisogno di sapere tutte le caratteristiche di quelle
persone, ma ho bisogno di avere poche informazioni per formare un'impressione coerente (se quella
persona è calda, sarà anche simpatica). Al calore contrappone anche la competenza.
Questo modello risponde al principio dell'economia cognitiva, cioè ritenendo che da pochi tratti centrali,
che possono cambiare l'impressione che io formo, al contrario di quelli periferici che non la modificano,
formo un'impressione globale, sostanzialmente sto affermando che il sistema cognitivo risparmia energie
cognitive e dunque utilizza i famosi processi automatici. Vi sono due effetti della quale sicuramente si è già
sentito parlare in psicologia cognitiva e sono:
Effetto Primacy (primato): tendiamo a ricordare maggiormente i primi elementi di una serie;
Effetto Recency (novità): tendiamo a ricordare maggiormente gli ultimi elementi di una serie;
In definitiva il modello configurazionale di Ash prevede che la formazione delle impressioni sia un processo
automatico guidato da tratti centrali che sono legati al calore sociale; tuttavia, ci sono delle situazioni in cui
non mi basta avere un'impressione superficiale e devo andare in profondità. In quest’ultimo caso ci viene in
aiuto un altro modello che è il modello algebrico di Anderson; a differenza del precedente esso prevede che
la formazione delle impressioni sia un processo controllato; dunque, che richiede un grande dispendio di
energie cognitive, ed inoltre si ritiene che l'impressione sia una somma algebrica dei vari tratti. Ad esempio,
se io so che una persona ha tre caratteristiche positive e due negative, la somma algebrica mi dice che
quella persona è moderatamente positiva per me.
Viene da chiedersi quale dei due modelli sia quello corretto e la risposta sta nella motivazione, che ci porta
ad usare più uno o l'altro modello. Che significa? In determinate condizioni posso essere motivato a
formare un'impressione rapida e meno accurata mentre in altre posso essere motivato a formarne una più
accurata; nel primo caso probabilmente utilizzerò il modello configurazione di Ash, nel secondo caso
utilizzerò il modello algebrico di Anderson. Tale idea è stata teorizzata da Fiske e Neuberg in quello che
chiamano modello del continuum della formazione delle impressioni; gli studiosi ritengono che il modello
configurazionale e il modello algebrico siano poli opposti di un continuum e la motivazione individuale mi
spinge all'utilizzo di uno o dell'altro.
Quando Ash compie i suoi studi incentra il suo ragionamento sulla dimensione del calore sociale
comparando gli effetti di quest’ultimo alla dimensione della competenza.
Queste due dimensioni sono state teorizzate a lungo da Susan Fiske e altri collaboratori, come i due grandi
fattori del giudizio sociale, tant’è che la teoria prende il nome di Big two. Calore e Competenza sono state
utilizzate anche per dire che gli stereotipi, che servono per descrivere i gruppi sociali, sono calibrati su di
loro.
Tale modello prende il nome di modello del contenuto degli stereotipi secondo il quale la rappresentazione
stereotipica, associata a ciascun gruppo sociale, si definisce sulla base del calore e della competenza
attribuita al gruppo stesso.
In chiave funzionalista:
la dimensione del calore: aiuta le persone a definire le intenzioni, buone o cattive, del gruppo in
questione; la percezione di calore è determinata dal tipo di interdipendenza positiva/cooperativa,
oppure negativa/competitiva che si instaura tra in-Group e out-group.
l'attribuzione di competenza: determinata dallo status socio-economico, alto o basso, attribuito al
gruppo stesso; l'intersezione tra tipo di interdipendenze e status socio-economico dà quindi luogo a
quattro possibili interpretazioni:
1. L’in-Group è generalmente percepito come molto onesto, amichevole, sincero ma anche
intelligente e competente.
2. I gruppi emarginati (poveri e senzatetto) sono caratterizzati da basso calore e bassa
competenza.
3. I gruppi che presentano alta competenza ma basso calore (es. ebrei).
4. I gruppi che presentano alto calore ma bassa competenza (es. casalinghe e anziani).
La bontà del modello è stata confermata in molti contesti culturali, inclusa l'Italia.
Tuttavia, esistono dei gruppi che non sono ben rappresentati dalle due dimensioni considerate, come i gay,
gli arabi, e i musulmani; sebbene per alcuni di questi gruppi ci si potrebbe aspettare una stereotipizzazione
molto negativa (vedi gay o musulmani), in realtà nel modello presentano livelli moderati di competenza e
calore. Nel tentativo di dar conto di questi risultati Fiske e colleghi hanno suggerito che probabilmente le
due dimensioni ipotizzate non catturano pienamente il contenuto degli stereotipi associati a tutti i gruppi
sociali, ragionando attentamente su questo tipo di gruppi. Appare evidente che alcuni aspetti della
dimensione morale, ad esempio l'affidabilità o la correttezza, potrebbero essere centrali nella definizione
degli stereotipi ad essi associati.
Leach e colleghi hanno quindi avanzato l'ipotesi che, prestare un'attenzione particolare ai contenuti morali
degli stereotipi, avrebbe ulteriormente migliorato la comprensione della percezione degli out-Group e, di
conseguenza, hanno introdotto aspetti specifici della moralità nei loro studi sugli stereotipi relativi a
quest'ultimi. Secondo gli studiosi i modelli bidimensionali appena presentati descrivono il contenuto degli
stereotipi ad un livello molto generale: le dimensioni di calore e competenza, sono troppo astratte per
cogliere aspetti specifici come quelli legati alla moralità o ad altre caratteristiche associate ai gruppi sociali.
All'interno della macro-dimensione del calore, dunque, bisognerebbe considerare più dettagliatamente gli
aspetti legati alla moralità, quale ad esempio l'onestà, l'affidabilità, la correttezza, la cooperazione.
Analizzando i contenuti degli stereotipi riferiti a ceceni ed ebrei, da abitanti della Federazione Russa, Leach
e colleghi hanno rilevato dunque che le caratteristiche di socievolezza e moralità non sono sovrapponibili
tra loro; ad esempio, sebbene gli ebrei siano visti come più socievoli dei ceceni, sono altresì considerati
scarsamente morali.
Partendo da questi risultati Brambilla e colleghi hanno poi esaminato l'impatto della moralità, della
competenza e della socievolezza attribuiti ad un out-Group sulle impressioni formate nei suoi confronti;
ancora una volta la descrizione del gruppo come immorale determinava impressioni più negative nei suoi
confronti, in quanto l'out-Group veniva visto come minaccioso per il proprio gruppo (tale aspetto viene
analizzato anche da Sacchi, Pagliaro ed Ellemers). Questo aspetto legato alla minaccia che un out-Group
può rappresentare è anche alla base di molti lavori che hanno analizzato il fenomeno del pregiudizio e il
ruolo che la moralità può rivestire su questo processo.
In sintesi, da un modello a due dimensioni che comprende Calore e Competenza,
si passa a un modello a tre dimensioni che comprende:
socievolezza (calore),
moralità,
competenza.
Le prime due distinguibili dal punto di vista teorico (es. simpatico diverso da onesto) ed empirico con
tecniche di analisi dati (es. analisi fattoriale). Gli studi sulla moralità iniziano nel 2007; Ad un certo punto ci
si inizia ad interessare agli studi che avevano contrapposto competenza e calore sociale per andare a
disambiguare, all’interno del calore, quale fosse la sottodimensione dominante (moralità VS socievolezza);
Brambilla, Sacchi e altri colleghi dell’Università di Milano, ripetono gli esperimenti di Ash utilizzando il
modello a tre fattori. Il risultato che ne viene fuori è che la moralità è la dimensione più importante come
guida dell’impressione, cioè le impressioni, positive o negative, sono maggiormente guidate dalle
informazioni che io prendo sulla moralità di un altro (la sua affidabilità) piuttosto che da quelle di
socievolezza o di competenza.
Partendo da questa idea Willis e Todorov presentano a delle persone dei volti, presi da un inventario di
volti caratterizzati da alta/bassa onestà, competenza e socievolezza, per pochissimi millisecondi;
consapevolmente l’individuo non vede il volto, ma il suo sistema cognitivo invece si. Presentano un volto
“competente” e uno “incompetente” chiedendogli successivamente il grado di competenza della persona
vista, il risultato è nullo, ossia in pochi millisecondi in cui viene presentato il volto non si ha nessun effetto
poiché il sistema cognitivo non riesce a rilevare la competenza dal volto e risponderanno dunque, che
quell’individuo è “mediamente competente” facendo in definitiva accavallare le impressioni; ripetono la
procedura con volti socievoli e non, il risultato è il medesimo. Nel momento in cui presentato un volto
“onesto” e uno “non onesto”, questa volta il sistema cognitivo vede e comunica nell’immediatezza
l’impressione negativa, dunque l’individuo disonesto. Il risultato finale è che il sistema cognitivo riesce a
rilevare la moralità di un volto in pochissimi millisecondi.
Fiske ipotizza che la spiegazione di tutto ciò sia una spiegazione funzionalista (ipotesi funzionalista); quando
le persone devono formare le prime impressioni su di una persona le prime informazioni, che vengono
prese in considerazione, sono proprio quelle sulla moralità e solo in un secondo momento arrivano quelle
sulla competenza. Questo perché, moralità e competenza, mi danno due classi di informazioni differenti:
moralità: mi dice qualcosa sulle intenzioni (se la persona che ho davanti è pericolosa o
potenzialmente positiva);
competenza: mi dice qualcosa sulla capacità di una persona di agire sulle sue intenzioni;
Le teorie implicite di personalità: sono fondamentalmente degli schemi; quindi, delle strutture cognitive
automatiche che ritengono che determinati tratti di personalità debbano essere associati tra di loro, per
esempio, se io dico Cristian è una persona intelligente e chiedessi di dire altri aggettivi su di lui, saremmo
portati a dire altri aggettivi positivi.
Allo stesso tempo, se io avessi detto un aggettivo negativo, avreste continuato con aggettivi negativi.
Sono culturalmente create e culturalmente condivise.
Lezione 8
Effetto pecora nera: un membro dell’ in-group, che viola una norma, viene sanzionato maggiormente
rispetto allo stesso comportamento da parte di un out-group.
- Perché gli altri membri non vogliono che sembri un comportamento identificativo dell’in-group.
Negativity effect (Fiske): le impressioni negative sono più forti e più difficili da modificare, mentre per
quelle positive il contrario (basterà un nuovo elemento negativo per farci cambiare idea). Questo vale
soprattutto quando parliamo di moralità.
Errori di giudizio dovuti ai bias di conferma:
- Correlazioni illusorie
- Profezia che si autoavvera: le nostre ipotesi iniziali (profezia) condizionano il nostro
comportamento (es. Ci comportiamo in modo amichevole/scontroso), conseguenzialmente il
nostro comportamento condizionerà quello dell’altra persona allo stesso modo; infine risulterà che
la nostra profezia si sia avverata.
• Categorizzazione sociale, percezione dei gruppi sociali e dei membri di questi gruppi.
- Processo di categorizzazione: raggruppamento, in una stessa classe di componenti, originariamente
distinti tra loro.
- Processo di astrazione, risponde al principio di economia cognitiva (risparmio), funge da base per i
processi inferenziali e permette una risposta comportamentale rapida ed efficace, basata su dei
modelli di risposta.
Quando si parla di stimoli sociali o di persone, anziché oggetti: si parla di categorizzazione sociale.
- Inseriamo le persone in categorie discrete; questo però ci porta a trattarle, non più come persone
uniche e irripetibili, ma come elementi di un insieme. Le informazioni che attribuiamo ad un
determinato gruppo (stereotipi) guidano alla valutazione, al giudizio, di quel gruppo.
- Processo di classificazione di stimoli all’interno di una particolare categoria; di conseguenza l’analisi
di quello stimolo, partirà delle informazioni che conosciamo su quella categoria.
Stereotipo: (componente cognitiva) struttura rigida che è data dall’insieme delle caratteristiche
che si ritiene rappresentino un determinato gruppo; prodotti culturali che vengono tramandati
anche tramite la socializzazione.
Pregiudizio: (componente affettiva) tendenza ad attribuire determinati tratti ad una persona,
soltanto perché sono tratti che attribuiamo alla categoria dove abbiamo collocato quella
persona.
il pregiudizio è una valutazione preconcetta che NON si basa sulla conoscenza della persona ma
sull’attribuzione a quella persona delle caratteristiche esteriori. Se io, per esempio, ho idea che
gli immigrati siano tutte persone pericolose (stereotipo), incontro una persona appartenente al
gruppo degli immigrati e la ritengo pericolosa, non perché la conosco ma perché le
attribuiscono le caratteristiche stereotipiche, che ho in memoria del suo gruppo, questo è
pregiudizio componente la discriminazione.
Discriminazione: (componente comportamentale) se magari la picchio, come purtroppo
succede dappertutto, quella è la discriminazione.
Ovviamente NON sono veri questi stereotipi. Come i giocattoli che vengono regalati ai bambini e
alle bambine in base al sesso.
• Priming = innescare : procedura per cui, se attiviamo uno stereotipo di genere in un individuo,
quest’ultimo si comporterà in modo tale da confermare lo stereotipo attivato.
Risp: Fattori di natura cognitiva; fattori legati alla valenza della prima impressione e fattori
motivazionali.
Il modello di kelman rispetto alla relazione tra i livelli di influenze, la profondità di questi livelli.
Le caratteristiche dell'influenza maggioritaria (influenza pubblica)
Le caratteristiche nell'influenza minoritaria (influenza privata)
Quali sono i fattori che distinguono l’influenza della maggioranza da quella della minoranza?
- Quella maggioritaria è diretta sull’argomento oggetto del processo di influenza, quella
minoritaria indiretta su argomenti correlati;
- quella maggioritaria si verifica immediatamente, quella minoritaria è trasposta nel tempo,
un po' ritardata;
- l'esito è un processo di compiacenza pubblica, in un caso, e, nell'altro, è la conversione,
cioè il cambiamento dell'opinione dell'altro;
- le maggioranze stimolano un processo di confronto tra la propria posizione e quella della
maggioranza, le minoranze un processo di convalida o di validazione dell'opinione;
- il processo di pensiero citato dalle maggioranze è un processo di pensiero convergente, il
processo di pensiero elicitato dalle minoranze è un processo di pensiero divergente.
Quali sono i fattori che facilitano o ostacolano l'obbedienza all'autorità?
Quali sono i fattori o le differenze dell’influenza della maggioranza e quella delle autorità?
Che cosa sono gli stereotipi e quali sono le funzioni degli stereotipi?
Cosa sono gli stereotipi e come si formano gli stereotipi?
Quali sono i modelli della formazione delle impressioni?
Qual è la differenza tra psicologia sociale psicologica e sociologica?
Cosa si intende per dissonanza cognitiva e quali sono le strategie per superarla?
Cos'è la categorizzazione sociale e quali sono le conseguenze percettive tra categorizzazione sociale
Secondo Nemeth le minoranze suscitano…
un processo di pensiero convergente
un processo di pensiero riemergente
un processo di confronto
Queste componenti possono essere concordanti tra di loro (so che fumare fa male, non mi piace e quindi
non fumo), ma possono essere anche discordanti (so che fumare fa male, ma fumo lo stesso), quando le
credenze si contraddicono si crea la dissonanza cognitiva, quel disconfort che spinge le persone a risolvere
la dissonanza stessa.
Se consideriamo che ci sono componenti contrastanti all’interno dell’atteggiamento, esse possono essere di
elevata intensità: posso davvero pensare che fumare faccia male, ma può piacermi comunque tanto. In
questo caso si genera un atteggiamento che si definisce ambivalente, ovvero un atteggiamento che
comprende, al suo interno, valutazioni positive e negative di elevata intensità (similarity intensity model).
Il costrutto di ambivalenza di atteggiamenti riguarda soprattutto l’atteggiamento verso le minoranze, per le
quali proviamo stima, perché coraggiosa, dato che rompe il consenso con la maggioranza e allo stesso
tempo manteniamo la distanza per non essere associati a essa, ma l’ambivalenza è il motore dell’influenza
indiretta. L’ambivalenza è peculiare rispetto alla dissonanza (si cambia il peso di una delle due valutazioni in
contrasto) perché non deve essere per forza risolta, anzi in una serie di studi è stato dimostrato che può
avere valore adattivo: esprimo l’una o l’altra delle valutazioni contrastanti a seconda del contesto in cui mi
trovo, se, ad esempio, sono a cena con un medico potrei esprimere l’atteggiamento di chi è consapevole
che fumare fa male e non fumo, mentre se sono con mio padre che fuma il sigaro allora non esiterò a
fumare. L’ambivalenza non crea disconfort, anzi posso utilizzare un atteggiamento ambivalente esprimendo
nel contesto specifico la componente che ad esso si adatta.
Gli atteggiamenti possono inoltre essere espliciti, quando ci sono valutazioni consapevoli e deliberate che
riflettono il pensiero controllato (es. cosa ne pensate dei rom in una scala da “completamente sfavorevole
ad assolutamente favorevole”? Posso modulare la risposta in base alla desiderabilità sociale).
Gli atteggiamenti impliciti sfruttano invece il principio di accessibilità, cioè la rapidità con cui, di fronte a un
oggetto di atteggiamento, si attiva la valutazione di quell’oggetto (es. IAT - Implicit Association Test che
misura l’atteggiamento genuino).
Una serie di studi hanno dimostrato che gli atteggiamenti espliciti non necessariamente convergono con
quelli impliciti, che non sono controllabili, mentre quelli espliciti possono essere distorti dalla desiderabilità
sociale. Quelli più predittivi del comportamento sono quelli impliciti che rappresentano una misura più
realistica della predisposizione delle persone.
Gli atteggiamenti vengono studiati perché predicono il comportamento. Gli atteggiamenti impliciti sono
analizzati soprattutto per predire il comportamento degli elettori indecisi (Silvia Galli in un articolo del
2003).
C’è una teoria della persuasione che si chiama strategia del ricorso alla paura; la paura, dal punto di vista
epistemico, è un motore che tentiamo di tenere lontano. L’individuo crea delle strategie per aggirare la
dissonanza legata alla paura (come la scatola che copre il pacchetto di sigarette per non vedere i moniti
sulla salute).
Teoria dei fondamenti morali: quando sono di fronte a qualcosa, che posso giudicare onesto o no, avrò
un’immediata intuizione morale.
Come si formano gli atteggiamenti? Si possono formare in diversi modi:
Con l’esperienza diretta con l’oggetto di atteggiamento; con l’osservazione dell’atteggiamento degli
altri, perché qualcuno ci parla dell’oggetto di atteggiamento e la formazione può essere più o meno
consapevole.
Con il condizionamento classico: se uno stimolo è associato ripetutamente a un altro stimolo si può
modificarne la valutazione (es. campanella associata a scossa elettrica, avrò nel tempo una
valutazione negativa del suono della campanella); esso viene sfruttato nel condizionamento
operante per determinare il comportamento: se il topo preme la leva ed esce il cibo la premerà per
sfamarsi se si attiva una scossa difficilmente ci tornerà.
Con la mera esposizione a un oggetto di atteggiamento può aumentare la positività nei confronti di
quell’atteggiamento (ad es. politici che stanno spesso sui social).
Secondo Zajonc più siamo esposti a un oggetto di atteggiamento, più siamo favorevoli a esso.
Zajonc mostra in continuazione ideogrammi cinesi a persone che non li conoscono, inizialmente la
valutazione è abbastanza neutrale, poi nel tempo trova che la favorevolezza aumenta con l’aumentare del
numero di esposizioni a tali ideogrammi. L’effetto di mera esposizione è una U rovesciata, in termini
scientifici è una parabola con coefficiente negativo;
Zajonc parla di punto di noia: aumentando il numero di esposizioni l’atteggiamento che si forma è positivo,
ma se il numero di esposizioni è eccessivo subentra la stanchezza, la noia verso quell’atteggiamento.
Teoria dell’autopercezione di Bem: soprattutto nei casi in cui il mio atteggiamento verso qualcosa sia
debole, posso provare a comprendere qualcosa del mio atteggiamento guardando i miei comportamenti
(es. della persona che corre tutte le mattine, se le chiediamo se le piace, questa persona ragionerà sul fatto
che se ci va ogni giorno di conseguenza le piace).
Ma gli atteggiamenti possono anche essere il frutto di un approccio più ragionato: se ci viene chiesto cosa
pensiamo su un argomento di un certo peso, andremo a direzionare le nostre energie cognitive (tattico
motivato).
Gli atteggiamenti, dunque, possono formarsi per svolgere determinate funzioni (approccio funzionale o
funzionalista).
Come altri costrutti della psicologia sociale, come la motivazione sociale, anche gli atteggiamenti soddisfano
bisogni psicologici di alto livello.
Secondo alcuni autori gli atteggiamenti hanno queste FUNZIONI:
Utilitaristica per massimizzare i vantaggi e minimizzare le perdite
Conoscitiva per conoscere le caratteristiche dell’oggetto di atteggiamento, della realtà, organizzare
e interpretare nuovi oggetti ed eventi
Ego-difensiva per aiutare a ridurre l’ansia che deriva da minacce esterne e interne, preservando
l’autostima e la sicurezza
Di espressione dei valori, cioè esprimono a se stessi e agli altri valori centrali per il sé e per la
propria identità.
Importante: ciascun atteggiamento può avere per una persona una funzione diversa, ad esempio nei
confronti di un’auto può avere una funzione utilitaristica, per una persona che ha un lavoro come
impiegato, e quindi l’atteggiamento positivo o negativo sarà legato ai consumi dell’auto stessa, per un
manager può esprimere dei valori, cioè cerca un’auto che sia espressione del suo status, a prescindere dai
suoi consumi.
Ipotesi della corrispondenza funzionale: è una teoria secondo la quale, poiché gli atteggiamenti possono
avere più funzioni per le persone, una comunicazione persuasiva - finalizzata dunque a modificare un
atteggiamento - sarà più efficace se si sovrappone alla funzione che quell’atteggiamento ha per quella
persona. Ci deve essere cioè una corrispondenza tra la funzione dell’atteggiamento per la persona e la
funzione che elicita la persuasione. Una comunicazione persuasiva sarà più efficace se stuzzica la funzione
che quell’atteggiamento ha per quella persona.
Così come gli atteggiamenti possono avere più funzioni per le persone, anche la base strutturale degli
atteggiamenti per le persone può essere differente.
Lo stesso atteggiamento può avere per una persona una base più cognitiva, per un’altra una base più
affettiva. La base dell’atteggiamento nei confronti della donazione di sangue è affettiva (voglio aiutare gli
altri), oppure cognitiva in base alla motivazione, quindi come per la corrispondenza funzionale esiste anche
quella strutturale: una comunicazione persuasiva sarà più efficace se basata sulla componente più
importante della struttura dell’atteggiamento per il ricevente, ciò significa che se una persona ha un
atteggiamento con base affettiva e voglio convincerlo a donare il sangue, dovrò usare una comunicazione
su base affettiva.
Al pari della corrispondenza funzionale l’ipotesi della corrispondenza strutturale ritiene che, poiché gli
atteggiamenti possono avere una prevalenza cognitiva o affettiva, un tentativo di persuasione avrà più
probabilità di successo quando sarà basato su quella componente.
Si è dimostrato che c’è un substrato neurale nell’ipotesi della corrispondenza, ovvero si attivano
determinate aree cerebrali.
LEZIONE 10
Gli atteggiamenti sono predittivi del comportamento? Essi servono a comprendere come si comporteranno
le persone in diversi contesti.
A lungo si è pensato che ci fosse una relazione lineare tra atteggiamento e comportamento; tuttavia,
all’inizio del secolo scorso uno studio, divenuto poi famoso, ha dimostrato che la corrispondenza tra
atteggiamenti e comportamenti è meno diretta di quanto si possa pensare.
Lo studio è stato svolto negli USA da LaPiere che voleva dimostrare se gli atteggiamenti verso gli asiatici
potessero predire il comportamento nei loro confronti. Negli USA, in quel periodo (anni ’30), era molto
forte lo stigma verso gli afroamericani e soprattutto verso gli asiatici. Lo studioso inizia a girare una serie di
strutture alberghiere e ristoranti insieme a una coppia di cinesi e rileva il comportamento degli albergatori e
ristoratori. Segna in una variabile dicotomica 0-1: le strutture che accettano e non accettano la coppia
cinese; a distanza di un mese telefona e contatta le strutture chiedendo se sarebbero state disposte ad
accettare asiatici e trova forte discrepanza tra ciò che è stato fatto e ciò che hanno dichiarato di voler fare.
La maggior parte ha accolto effettivamente i cinesi, solo in un caso su 250 strutture c’è stato un rifiuto, ma
nella risposta alla domanda telefonica ha avuto diversi no. C’è stata quindi una forte discrepanza tra
atteggiamento e comportamento. Perché? La ragione va ricercata nella presenza fisica dello
sperimentatore non asiatico che faceva scattare la desiderabilità sociale. Lo studio del ’34 ha una serie di
limiti perché non è detto che le persone che hanno risposto alla telefonata o alla lettera fossero le stesse
che hanno accolto i due asiatici, ma è interessante notare che ci sia qualcos’altro tra atteggiamento e
comportamento.
Fishbejn e Aijzen dicono che quando voglio studiare la relazione tra atteggiamento e comportamento devo
farlo in maniera corrispondente:
si devono misurare entrambi allo stesso livello di specificità (ti piacciono i concerti? Frequenti i
concerti? Se la risposta è sì, ad entrambi, c’è stessa specificità).
Un secondo fattore che aumenta la corrispondenza tra atteggiamento e comportamento è dato dal
tempo che intercorre tra la misurazione di uno e di un altro : ci può essere un arco temporale che
può rendere la correlazione tra misurazione dell’atteggiamento e del comportamento meno forte
(magari oggi mi piacciono i concerti, ma tra dieci anni, anche se mi piacciono, non potrò andare ai
concerti per svariati motivi).
Il terzo fattore è l’accessibilità cioè la capacità di richiamare alla mente, in maniera rapida, l’oggetto
di atteggiamento. Gli atteggiamenti più accessibili sono maggiormente predittivi dei comportamenti
(Russell Fazio).
L’ultimo fattore, che può incrementare la corrispondenza tra i due, è dato dalla forza con cui si ha
un atteggiamento, che è detto essere forte quando è estremo (se sono molto favorevole o molto
sfavorevole a qualcosa), quando si è formato con un’esperienza diretta e non per osservazione del
comportamento, quando è univalente (atteggiamento solo positivo o solo negativo).
Per quanto riguarda la struttura degli atteggiamenti, se ho un oggetto come la Nutella l’atteggiamento che
si forma avrà una componente negativa oppure positiva, mi piace o non mi piace, ha quindi una struttura
unipolare (un solo polo di valutazione che va dal neutro verso il positivo o verso il negativo).
Ma ci sono oggetti di atteggiamento come, ad esempio, un argomento come l’aborto, in questo caso il
disaccordo o l’accordo dipendono da molte motivazioni, è probabile che, ragionando sull’argomento,
l’atteggiamento abbia una struttura bipolare, cioè va dal polo negativo al positivo.
Secondo Antony Pratcanis, dunque, gli atteggiamenti che si formano nei confronti di oggetti semplici, sui
quali non c’è dibattito sociale, tendono ad avere una struttura unipolare, mentre quelli che si formano su
oggetti socialmente dibattuti tendono ad avere una struttura bipolare che va dal polo positivo al polo
negativo (o viceversa).
Sulla base dello studio che fanno Fishbejn e Aijzen si teorizzano due diversi modi per indagare il legame tra
atteggiamento e comportamento.
Nel 1971 gli autori teorizzano la teoria dell’azione ragionata o Reason and action theory secondo la quale la
determinante più importante del comportamento è l’intenzione di agire quel comportamento.
L’intenzione, a sua volta, è predetta da due aspetti:
dall’atteggiamento verso il comportamento (es. allacciarsi le cinture, se penso che mi salvino la vita
le indosserò) quindi la mia intenzione è determinata dal mio atteggiamento verso le cinture,
l’intenzione si tramuta in comportamento.
dalle norme soggettive: sono le credenze che le altre persone, che per me sono significative
(famiglia, amici), hanno nei confronti di quel comportamento e di conseguenza il comportamento
seguirà l’atteggiamento.
La teoria dell’azione ragionata spiega solo quei comportamenti che sono sotto il controllo volitivo, della
ragione e dell’intenzionalità, non spiega, però, i comportamenti automatici, routinari, quelli sotto
obbedienza e quelli disfunzionali come le dipendenze.
Qualche anno dopo Aijzen aggiunge un elemento che è la percezione del controllo sul comportamento; la
nuova teoria si chiama teoria del comportamento pianificato che è un’evoluzione dell’altra teoria e che
prevede che il controllo, percepito sul comportamento, agisca sulle intenzioni comportamentali e sia l’unico
predittore che ha anche un effetto diretto sul comportamento.
Se percepisci di avere un controllo su un comportamento, riuscirai ad avere l’intenzione di modificare un
certo comportamento. In ambito di psicologia della salute e tossicodipendenze si lavora molto su questo
aspetto, sul discorso della percezione del controllo, cioè quanto tu ritieni di avere il controllo su un
comportamento.
Ad esempio, per smettere di fumare si può avere l’intenzione di farlo, l’atteggiamento è “fumare fa male
alla salute”, le norme soggettive incidono sul comportamento, ma poi c’è la percezione di controllo: ho la
capacità di smettere di fumare. Un basso controllo percepito minerà il comportamento di smettere di
fumare.
Secondo il modello di Petti e Cacioppo, in caso di alta motivazione e alte abilità cognitive, il processo sarà
centrale, saranno analizzate le caratteristiche del messaggio comunicativo e l’esito sarà un cambiamento
effettivo degli atteggiamenti. Se invece ho bassa motivazione e basse risorse cognitive (con queste ultime si
intendono le competenze, il tempo e le risorse cognitive che hanno per processare il messaggio) sarò
convinto dalla comunicazione persuasiva solo se ci sono degli indicatori periferici che mi interessano.
Poi ci sono anche aspetti che incidono, variabili che differiscono tra le persone, come:
Need for cognition: significa bisogno di cognizione, alcune persone sono più portate per
l’elaborazione cognitiva (ad esempio i filosofi), alcune persone invece hanno bisogno di pochi
elementi per ragionare.
Need for cognitive closure: bisogno di chiusura cognitiva, persone che non amano le situazioni
aperte e incerte.
Il modello di Petti e Cacioppo prevede una via centrale e una periferica, che sono percorsi mutualmente
escludentesi, si può processare una comunicazione persuasiva seguendo o il percorso centrale o il percorso
periferico.
Contestualmente Shelly C. prevede un altro modello che si chiama euristico sistematico che ha sempre
due percorsi di elaborazione, il percorso sistematico si sovrappone a quello centrale (motivazioni e abilità
cognitive ci sono sempre nel seguire la fonte).
Shelly colloca, al posto del percorso periferico, l’utilizzo delle euristiche (metodi di ricerca), la via euristica
consente di decidere sulla bontà o meno della comunicazione persuasiva sulla base di euristiche
prevalentemente di natura affettiva. Una delle euristiche che secondo Shelly viene utilizzata è: how do I feel
about it? Cioè come mi pongo rispetto a questo argomento? Che sensazioni ho a pelle? Tramite una rapida
euristica, di fronte a una comunicazione persuasiva, starò bene o male. La differenza tra i due modelli
risiede nel fatto che nel modello di Petti e Cacioppo i due percorsi si escludono a vicenda, nel modello di
Shelly le due vie dell’elaborazione possono integrarsi, posso iniziare con un’euristica (questo informatore,
questa fonte mi piace, ma poi passo all’elaborazione sistematica).
Un cambiamento di atteggiamento, prodotto da un percorso centrale e da un’elaborazione sistematica, è
più resistente nel tempo, più stabile rispetto a uno prodotto da percorso periferico o euristico.
APPROFONDIMENTO a lezione: Atteggiamenti impliciti/automatici sono la stessa cosa: si possono
cambiare per condizionamento classico o mera esposizione. Il tutto dipende dal fatto che alla base
dell'atteggiamento c'è la rete associativa tra oggetto di atteggiamento e valutazione che abbiamo su di
esso; quindi, per cambiarlo, dobbiamo lavorare su questa cosa.
Col condizionamento andiamo ad associare un oggetto di atteggiamento a un nuovo stimolo (positivo o
negativo) mentre con la mera esposizione l'atteggiamento può cambiare perché è stato dimostrato che la
presentazione di uno stimolo, svariate volte, può migliorare l'atteggiamento che noi proviamo nei confronti
dello stesso (questo però solo fino al punto di noia, oltre il quale l'atteggiamento diventa negativo).
Mentre per gli atteggiamenti espliciti dobbiamo lavorare sulla dissonanza cognitiva che ci porta, alle volte,
a mutare il nostro atteggiamento poiché ricerchiamo coerenza. Questa cosa possiamo ottenerla
presentando argomentazioni a sostegno della tesi (si parla in questo caso di persuasione, che ha come
scopo quella di far mutare l'atteggiamento o il comportamento del bersaglio).
Poi, per essere più preciso: la mera esposizione è più implicata nella formazione che nella modifica (ma se
uno ha un atteggiamento poco positivo l'esposizione aumenta la positività)
LEZIONE 11 IL SÉ, AUTOREGOLAZIONE, MOTIVAZIONE ED EMOZIONI
Quando ragioniamo su chi siamo, rispetto a quando giudichiamo un’altra persona, stiamo parlando di un
ragionamento su noi stessi. La conoscenza del sé è l’unico argomento della psicologia sociale in cui il
soggetto della conoscenza coincide con l’oggetto del processo di conoscenza.
L’argomento è fondamentale per affrontare le strategie di autoregolazione, attraverso le quali gli
individui danno senso alle proprie emozioni e vissuti, rispondendo all’ambiente sociale con il proprio
comportamento. Il concetto di autoregolazione è un principio biologico, le cellule funzionano grazie allo
scambio di sostanze, cioè l’omeostasi per mantenere l’equilibrio.
I primi a ragionare sul sé sono stati William James e Herbert Mead conosciuti come i padri
dell’interazionismo simbolico: secondo James le persone acquisiscono consapevolezza su di sé
attraverso la relazione con gli altri. Se vivessimo nel vuoto sociale non avremmo alcuna possibilità di
capire alcunché su noi stessi perché non ci sarebbero feedback (riscontri), né positivi né negativi, che ci
consentono di comprendere qualcosa sulla nostra identità, a partire dalle predisposizioni. Se ho idea di
essere una persona molto attenta alle esigenze degli studenti, è una mia idea, ma se ho dei feedback
che vanno a corroborare quest’idea si presume che si capisca qualcosa in più su se stessi.
Secondo Mead la conoscenza di sé è legata alla relazione con gli altri, un’interazione che è mediata da
simboli che sono in larga misura rappresentati dal linguaggio. Il gioco consente ai bambini di iniziare a
considerare la prospettiva dell’altro (l’altro generalizzato).
Secondo alcuni lo sviluppo morale è fatto di stadi in cui i bambini imparano a considerare le questioni
morali.
Secondo Kolberg ci sono tre grandi stadi suddivisi poi internamente in altre due fasi. Le convenzioni
sono norme che riguardano la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato quindi da sanzionare
Preconvenzionale: i bambini non riescono ancora a ragionare per norme, non codificano ancora
il senso di appartenenza di un giocattolo
Convenzionale: fase dello sviluppo del ragionamento morale in cui i bambini hanno imparato le
regole (ad esempio si chiede di poter giocare con qualcosa, oppure non fumo in aula perché c’è
il cartello ecc.)
Post-convenzionale: il ragionamento morale non si struttura intorno a regole ma intorno a
principi morali astratti, per cui metto la cintura di sicurezza non perché sia previsto dal codice
stradale ma perché rispetto le regole dello Stato. Non tutti raggiungono questo stadio. C’è una
relazione tra cultura e capacità di ragionare in maniera post-convenzionale.
Tutto ciò consente di capire qualcosa su se stessi, se, ad esempio, si trascura il fatto che un oggetto sia di
qualcun altro, si sta sviluppando una personalità egoistica.
Secondo James all’interno del sé sono distinguibili due componenti: l’io e il me.
L’io è il soggetto consapevole, pensatore, in grado di conoscere, prendere iniziative e riflettere su di sé,
mentre il me rappresenta l’oggetto della conoscenza.
All’interno del me sono distinguibili delle componenti ulteriori:
il me materiale che fa riferimento al mio corpo o alle cose che possiedo
il me sociale che fa riferimento al mio rapporto con gli altri
il me spirituale che si riferisce a chi sono io veramente, quali sono i miei valori e le mie emozioni.
Dal me materiale al me spirituale è come se andassimo sempre più verso qualcosa di più importante su
se stessi. Si tratta di una struttura gerarchica che salendo dà informazioni sempre più rilevanti.
Automonitoraggio: Snider: ci sono persone più sensibili che si automonitorano e altre meno interessate,
con basso automonitoraggio.
Da dove origina il sé? Quali sono le sue fonti di conoscenza? Ragioniamo intanto sulle sue funzioni:
siamo in un’epoca che tenta di comprendere, soprattutto nell’ottica della psicologia sociale, dove sono
radicate determinate funzioni all’interno del cervello (localizzazione di una specifica funzione).
Network default mode (modalità predefinita di rete): una rappresentazione relativa agli aspetti associati
al sé, corteccia prefrontale anteriore mediale e corteccia cingolata posteriore. Il sé, più che essere
identificato da una singola area, è rappresentato da un network, un insieme di strutture, di reti coinvolte
nella comprensione che hanno di se stesse.
(Nervi cranici: Olfattivo, ottico, oculomotore, trocleare, trigemino, abducente, facciale, acustico-
vestibolare, glossofaringeo, vago, accessorio, ipoglosso).
Capire il sé è importante per:
L’autoconoscenza, lo schema di sé racchiude tutte le informazioni che abbiamo su noi stessi che
servono poi per relazionarci agli altri, il sé è autoconsapevolezza.
Per la funzione di agenticità (capacità umana di operare in un contesto per modificarlo, facoltà
di generare azioni mirate a determinati scopi): mi consente di agire nelle funzioni di ordine
superiore, come l’autocontrollo o il decision-making che è la capacità di prendere decisioni.
L’altra funzione importantissima è il sé interpersonale o pubblico che mi consente di interagire
con gli altri in modo strategico. Tutti gli attributi che utilizziamo per definire la nostra identità da
presentare al pubblico. Autopresentazione strategica.
Fonti di conoscenza del sé: teoria dell’autopercezione di Bem, non solo l’atteggiamento predice il
comportamento, ma può essere vero anche il contrario; si può dedurre anche osservando il proprio
comportamento. L’altra fonte è data dall’introspezione che è una delle fonti più importanti, è la capacità
di guardarci dentro. Ci sono tanti bias cognitivi che fanno in modo che ottimizziamo noi stessi, tendenza
di attribuirsi la causa dei propri successi e all’esterno le colpe; o possiamo non essere consapevoli dei
nostri stati mentali, dei nostri processi cognitivi che spesso sono automatici. Un aspetto fondamentale
per capire chi siamo è l’immagine che di noi stessi ci rimandano gli altri, si tratta dell’ interazione sociale.
Quando interagisco con gli altri, secondo Kooley, è come se gli altri fossero uno specchio, è il sé riflesso
(looking glass self). Una delle motivazioni è preservare autostima positiva, è per questo che le persone
tendono a presentarsi in modo strategico e prediligono ottimizzare la presentazione di se stessi, questa
motivazione si chiama self enhancement, tentativo di migliorare il sé. I membri dell’ingroup sono quelli
che ci danno il feedback, per esteso si possono definire gli “altri significativi”, coloro di cui mi interessa
l’opinione.
Secondo Higgins (1989) le persone strutturano il proprio sé su tre schemi diversi (DISCREPANZE DEL SE’):
Il sé reale, quello che siamo in un determinato momento
Il sé ideale, cioè ciò che vorremmo essere, fa riferimento alle ispirazioni
Il sé normativo, ciò che pensiamo di dover essere, fa riferimento alla necessità di evitare il
fallimento
Secondo Higgins il sé può agire le sue funzioni, di ordine superiore, attraverso due modalità diverse di
approccio volitivo alla realtà, da un lato abbiamo un sistema di promozione focalizzato sul sé ideale,
dall’altro il sistema di prevenzione focalizzato sul sé normativo. Il primo è caratterizzato dalla tendenza e
volontà di massimizzare gli esiti positivi con la paura di perdere occasione, il secondo è caratterizzato
dalla paura di sbagliare, ci si focalizza su ciò che dovremmo essere e si massimizzano quelli negativi, ci si
focalizza sui doveri e non sulle aspirazioni. Gli orientamenti si stabilizzano e di conseguenza restano tali
più o meno nel corso della vita; tuttavia, abbiamo parlato spesso del fatto che la psicologia sociale ha
un’ottica interazionista che riguarda il rapporto tra il funzionamento dell’individuo e il suo ambiente.
Una persona promotion sarà orientata all’attività imprenditoriale, mentre il prevention avrà un lavoro
con maggiore sicurezza, elaborando la teoria dei foci regolatori.
Higgins propone la teoria del FIT REGOLATORIO, cioè le persone possono essere promotion o
prevention ma possono esserci situazioni lavorative che possono elicitare maggiormente uno o l’altro
aspetto; se la predisposizione individuale si lega alle caratteristiche del contesto si parla di fit regolatorio
perché c’è una corrispondenza tra orientamento individuale e contesto e si esperiscono emozioni
positive.
Il contrario è il MISFIT REGOLATORIO, quando c’è discrepanza tra contesto e caratteristiche personali
(come un creativo che lavora in fabbrica).
Mindfullness: tecnica per entrare in connessione con la parte più profonda di sé, direzionamento
dell’attenzione verso l’interno. È una tecnica intenzionale. Si caratterizza per il focus sul “qui ed ora” e
ha una prospettiva non giudicante. Significa provare a conoscere qualcosa del funzionamento di sé,
focalizzandosi su uno stato che sto vivendo in questo momento cercando di eliminare dall’esperienza
una connotazione positiva o negativa rispetto all’evento che si sta vivendo.
Un aspetto importante della conoscenza di sé riguarda le emozioni, in modo particolare le
EMOZIONI COSCIENTI DEL SÉ, di cui siamo consapevoli e che rappresentano uno dei motori delle
interazioni con gli altri. Proprio perché sono coscienti si sviluppano di pari passo con lo sviluppo
cognitivo e si definiscono dipendenti dalla cognizione; il bambino finché non sviluppa capacità cognitive
non è in grado di esperirle. Ci sono tutta una serie di emozioni che ricadono nella sfera morale e che
consentono al bambino di gestire la relazione con l’altro.
STILL FACE: faccia immobile, consiste nel vedere a che punto dello sviluppo emotivo si trova il bambino.
Il bambino viene messo su una seggiolina e qualcuno gioca con lui, ti danno un segnale, ti stacchi e devi
guardarlo in modo impassibile. I ricercatori in questo modo ti danno indicazioni sullo sviluppo del
bambino, in base alle strategie che mette in atto: vocalizza, piange ecc. se continui a non considerarlo lui
ha strategie di autoconsolazione (es. mano in bocca).
Il vissuto di colpa è regolato dal sé normativo.
Nel discorso della conoscenza di sé, gli altri sono così importanti che Leon Festinger struttura la teoria
del CONFRONTO SOCIALE, riferito alle valutazioni individuali.
Le persone sono portate costantemente a valutare se stesse attraverso gli altri, e il confronto può essere
positivo o negativo e da questa valenza possono generarsi emozioni completamente opposte.
I confronti che hanno più senso sono quelli legati allo stesso contesto.
I confronti sociali hanno una serie di obiettivi, per soddisfare tre classi di motivazioni:
Per conoscere qualcosa su se stessi, confronto orizzontale guidato dal sé reale: è mosso da
desiderio di conoscere qualcosa su di sé
Per migliorarsi, come studiare con qualcuno più preparato di noi, in questo caso è verticale
guidato dal sé ideale che risponde alla motivazione di migliorarsi
Migliorare l’autostima con un confronto verso il basso (esempio studiare con qualcuno meno
preparato di noi).
il più funzionale è quello che risponde all’esigenza del momento in base alla motivazione.
LEZIONE 12
Le reazioni dei bystander (spettatore) all’Intimate Partner Violence ( IPV:violenza intima agita dal
partner).
La psicologia sociale studia anche i fattori che negli episodi di violenza rendono ingaggiata, cioè coinvolta
responsabilmente una persona oppure no. Abbiamo tantissime forme di violenza: la svalutazione, la
violenza sessuale, la violenza psicologica, privazione della libertà, violenza fisica ecc., spesso però la
violenza è considerata come una forma univoca legata alla violenza fisica. Tutto il programma di ricerca
ha avuto l’obiettivo di esaminare i fattori situazionali, individuali, culturali che potessero facilitare o
inibire il supporto alle vittime di violenza. Allport parlava di studio scientifico delle modalità di influenza
sociale, la stessa cosa è stata fatta in questo programma di ricerca, si tratta di un’indagine sperimentale
(che differisce da quella correzionale, perché quest’ultima non spiega la causalità) che spiega la
relazione di causa, cioè si manipola la variabile indipendente, antecedente causale dei bystander. Sono
state studiate anche le variabili di mediazione, cioè perché un antecedente produce una reazione nel
bystander. L’equazione tra intimate partner violence e violenza contro le donne non è corretta perché
ovviamente sono incluse anche le coppie non eterosessuali. Se comprendiamo gli antecedenti dei
comportamenti dei bystander si potrebbe poi prevenire il fenomeno.
L’intimate partner violence non si sovrappone tout court alla violenza contro le donne, si riferisce a
qualsiasi tipo di comportamento all’interno di una relazione intima che può causare dolore, fisico,
psicologico o sessuale nella coppia. Ci sono gli atti di violenza fisica, di natura sessuale, di abuso emotivo
come le umiliazioni e le intimidazioni, le forme di controllo del comportamento come l’isolamento della
persona, il controllo degli spostamenti, il divieto all’accesso economico-finanziario, privazione di varie
forme di libertà, sembrano meno rilevanti ma in realtà non lo sono e ricadono nella tipologia di
comportamenti controllanti e tolgono al partner l’ agenticità e quindi la capacità di agire e pensare
autonomamente. La violenza ha una serie di manifestazioni collocabili lungo un continuum che va da
gesti soft, come il controllo del cellulare fino all’omicidio. Se un nostro amico controlla il cellulare della
fidanzata e stiamo zitti, lo spingiamo a ritenere normale questo comportamento; dovremmo, invece,
reagire dicendogli che il suo è un gesto di violenza. Spesso si interiorizza come normale il
comportamento di violenza, questo è veicolato dalla cultura, come accade nelle società dove, ad
esempio, vige l’onore mascolino e dove l’infedeltà della compagna è segno di violazione dell’onore. I
comportamenti violenti, tesi a riparare il torto all’onore, rappresentano comportamenti che dalle
istituzioni sono suggeriti come tali.
Fino ad alcuni anni fa esistevano le attenuanti di onore: l’omicidio aveva delle attenuanti se si poteva
dimostrare di essere stati traditi dalla propria moglie! Le cognizioni sono incarnate nel linguaggio (es.
proverbio “tra moglie e marito non mettere il dito; chi la fa l’aspetti; chi si fa i fatti suoi campa cent’anni;
i panni sporchi si lavano in famiglia) e tutto ciò esclude le fonti di prevenzione di violenza perché esclude
l’intromissione di una terza persona”.
Spesso il concetto di IPV è utilizzato come sinonimo di violenza contro le donne: la casistica più studiata
è chiaramente legata alla violenza agita da uomini su donne, ma lo studio non prende in esame né
l’orientamento sessuale né il genere. Un altro sinonimo è la violenza domestica: è vero ma ci sono anche
altre forme di violenza domestica non riferita alla coppia, come la violenza contro i figli o contro gli
anziani che non è solo fisica, ma spesso anche l’abbandono, la negligenza, la scarsa cura, anche
nell’alimentazione. Bisogna imparare a riconoscere la violenza. Per arrivare a una definizione più
completa in accordo con l’OMS si può dire che si tratta di una serie di comportamenti, in una relazione
intima, che causano dolore fisico, sessuale o psicologico senza riferimenti al genere sessuale e
all’orientamento sessuale della vittima.
La violenza è una questione di potere, di misoginia, una visione patriarcale che va sdoganata e bisogna
mettersi nella condizione di trattare le persone come tali.
I dati dell’OMS dicono che, in media, una donna su tre si trova a subire un atto di violenza, come quelli
precedentemente elencati, si tratta di qualcosa di cui bisogna farsi carico e che non va ignorato. La
violenza ha una serie di effetti sulla salute fisica e sugli infortuni, come ad esempio i lividi, le fratture, ma
anche a livello mentale come depressione, disturbo post-traumatico da stress, dopo episodio
minaccioso, comportamenti disfunzionali come il binge-drinking, disturbi dell’alimentazione, del sonno,
comportamenti sessuali promiscui, gravidanze indesiderate, aborti praticati in contesti non sicuri,
malattie a trasmissione sessuale ecc., oppure c’è maggiore probabilità di essere coinvolte in omicidio
ecc.
La 49° Assemblea Mondiale della Sanità ha definito l’IPV come problema trainante della salute pubblica,
a livello mondiale, e questo vuol dire che non si può non intervenire in caso di eventi violenti per
interromperla, bisogna sentirsi responsabili come bystander. Le vittime spesso si sentono responsabili e
si vergognano di ciò che accade, è per questo che la violenza spesso viene interiorizzata e non si
chiamano le forza dell’ordine.
Il circolo della violenza: la dinamica inizia con comportamenti controllanti che vanno in escalation con
minacce e vanno ad agire comportamenti violenti a livello fisico, c’è poi il finto pentimento, periodo
definito “luna di miele”, successivo alle scuse, in cui la coppia è solo apparentemente legata, poi si torna
nel circolo della violenza con minacce, episodi violenti ecc.
Un altro motivo che non fa sì che le donne denuncino è dovuto alla paura per le conseguenze come una
vendetta oppure la violenza economica.
Impotenza appresa: la persona non può guidare la propria vita.
Poi ci sono fattori di ordine religioso e culturale, come detto in precedenza.
Un’altra ragione di mancata denuncia è perché NON tutte le donne sono a conoscenza della presenza di
servizi di supporto come i centri antiviolenza e quindi si sentono intrappolate.
Vittimizzazione secondaria: quando una donna denuncia una violenza, come uno stupro, gli avvocati
difensori e gli inquirenti fanno di tutto per scagionare la persona violenta e in questo tentativo svalutano
la vittima, gettando su di lei delle ombre di dubbio (ad esempio: “è vero che quando esci indossi abiti
succinti?”), quindi oltre al danno la beffa!
Latané e Darley teorizzano L’APPROCCIO DEL BYSTANDAR : i bystander sono degli spettatori, persone
non direttamente coinvolte nelle situazioni di emergenza, ma per il fatto di assistere a episodi di
violenza possono:
non fare niente, mettendosi da parte e diffondere situazione ad alto rischio (l’inerzia fa
condividere senso di normalità per una situazione, si legittima l’episodio)
oppure si può aiutare la vittima e migliorare la situazione, come far presente che quel
comportamento non è socialmente accettabile e, in questo caso, si possono fare tante cose: si
entra con responsabilità nella situazione chiamando ad esempio la polizia.
È possibile che ci sia vergogna sociale, oppure si faccia una valutazione di costi e benefici, superate queste
considerazioni, quello che era l’aver notato qualcosa, si trasforma finalmente in un’intenzione vera e
propria di agire il comportamento e fornire aiuto. È ovviamente un modello teorico per spiegare che tra il
notare che accade qualcosa e il fornire aiuto ci sono tanti processi cognitivi che possono portarci a non
intervenire. Possiamo agire rendendo i cittadini dei BYSTANDER ingaggiati, responsabilizzati e consapevoli.
Di recente Victoria Banyard ha considerato assolutamente valido il modello precedente, ha tuttavia anche
ipotizzato che il bystander aiuti la vittima e denunci l’aggressore, secondo Latanè e Darley il modello si
chiude lì, mentre Victoria Banyard dice che, dopo l’aiuto del bystander, può accadere che l’aggressore
venga arrestato o che si vendichi. Si ha il modello “ACTION COILS MODEL”: per comprendere il
comportamento dei bystander non ci si può fermare al primo comportamento di aiuto perché se esso non
risulta efficace, o addirittura dannoso perché l’aggressore si vendica, accade che il bystander non aiuti più,
se l’aiuto risulta invece efficace in futuro il bystander sarà spinto a mettere di nuovo in atto quel
comportamento. Si tratta di una retroattività degli effetti del comportamento di aiuto, ecco perché coils
significa molla che è il nome del modello.
(Lezione 13- Violenza sulle donne)
Ogni forma di violenza è condannabile e da combattere; il discorso dei bystander si può estendere a ogni
forma di violenza, es. violenza contro i bambini e gli anziani, bullismo, al mobbing all'interno
dell’organizzazione delle aziende. A proposito del discorso sulla violenza, in particolare quella contro le
donne, è stato realizzato un contributo (qualche anno fa) dalla RAI nella quale intervistarono Anna
Costanza Baldry; ella, mancata nel 2019, è stata un’eccellente psicologa e criminologa italiana e
internazionale più impegnata in questa tematica. La Baldry ha tentato di coniugare l’attività pratica dei
centri antiviolenza, con un cellulare messo a disposizione per le vittime di violenza H24, con l’attività
sociale (ultimo centro aperto a Caserta, in un bene confiscato alla camorra); queste attività venivano
coniugate, non soltanto tramite attività di volontariato (fondamentale per questi centri), ma anche
tramite una rigorosa attività scientifica. Nell’anno seguente alla sua morte, il professor Pagliaro, insieme
alla collega Pacilli, ha redatto una rassegna degli studi condotti negli ultimi 15 anni;
questo in modo tale da presentare, alla comunità scientifica, non solo l’interesse per la materia, ma
un’idea di sostegno e intervento alle istituzioni, nel tentativo di ridurre gli esiti nefasti delle violenze che
fosse guidato da un rigore scientifico solido. L’attività di ricerca e di pratica professionale di Anna
Costanza Baldry è stata riconosciuta con la medaglia al merito al lavoro, consegnatale dal Presidente
della Repubblica Mattarella, successivamente ella consegna al Presidente una lettera nella quale
chiedeva il sostegno per i centri antiviolenza.
Baynard si occupa molto di Dating Violence (incontri di violenza), violenza che accade durante un
appuntamento, in modo particolare in riferimento ai campus americani dove il problema degli episodi di
violenza è enormemente ampio dal punto di vista numerico; quando lavora in questi campus la studiosa
lavora sui tentativi di scardinare la cultura misogina. La Baynard sostiene che gli episodi di violenza non
sono dicotomici, ma vanno situati in un contiuum che va dagli episodi soft (es. battuta sessista, tocco
indesiderato) ad episodi forti.
A partire dal 2010 si è iniziato un programma di ricerca il cui obiettivo era quello di indagare quali
fossero i fattori cognitivi, culturali, sociali che spingono i bystander a ritenere che una donna, vittima di
violenza, meriti o meno il loro aiuto e studiarne i relativi motivi. Per condurre lo studio non è stata
utilizzata una metodologia qualitativa (metodo correlazionale) che partisse dalle narrative di queste
persone (interviste) per estrapolare dei concetti, ma è stata utilizzata una metodologia quantitativa
(metodo sperimentale). L’interpretazione di un episodio di violenza nella vita reale, è il frutto
dell’interazione di molteplici fattori, dunque, in laboratorio vengono portati dei pezzettini per volta nel
tentativo di poter ricostruire una fotografia più ampia. Appare chiaro, già dal principio, che il limite di
questi studi è stato che singolarmente hanno rappresentato delle fotografie semplificate della realtà, ma
come linea di ricerca (programma di studi) hanno consentito di restituire una fotografia molto
complessa di quello che succede.
Gli elementi approfonditi sono:
• Antecedenti:
▪ Infedeltà;
▪ Norme di gruppo;
▪ RWA (componenti ideologiche, RWA sta per autoritarismo di destra);
▪ Sessualizzazione;
▪ Espressione del ruolo di genere (es. casi non prototipici);
• Meccanismi sottostanti (variabili di mediazione):
▪ Atteggiamento verso il VAW;
▪ Umanità percepita;
▪ Pazienza morale;
▪ Valutazioni morali;
▪ Attribuzione di responsabilità;
Entrando nello specifico:
La sessualizzazione è un fenomeno che è andato accentuandosi negli ultimi 30 anni; sessualizzazione in
generale significa: considerare una persona non come tale, ma come le parti del suo corpo che
rappresentano sessualità ( es. “questa è tutto culo!”); non è altro che una forma di de-umanizzazione.
Il problema è che lo sguardo sessualizzante può essere interiorizzato dalle donne stesse e può creare dei
modelli di ruolo molto pericolosi che portano le donne a stare male. Tutto ciò si è accentuato a causa
della comunicazione mediata dai mezzi d’informazione, la sessualizzazione di corpi femminili (ma anche
dei corpi maschili) è visibile in qualunque ambito della vita sociale (es. squadra beach-volley che ha
lottato con il comitato internazionale per poter cambiare le culottes della divisa). Il messaggio
sbagliatissimo è quello di utilizzare il corpo delle persone in un contesto nel quale il corpo non c’entra
nella maniera più assoluta; va ricordato che gli effetti della de-umanizzazione producono conseguenze
diverse in donne e uomini (es. uomo: figo; donna: poco di buono).
La Pazienza Morale (Moral Patiency) definita da Kurt Gray: la capacità che noi attribuiamo ad una
persona di sentire dolore fisico o psicologico.
Nel 2013 viene pubblicato un articolo intitolato “The rule of law of masculine honor: Afghan police
attitudes and intimate partner violence” (“Il ruolo della legge ai tempi dell'onore maschile:
atteggiamenti della polizia afghana e violenza del partner intimo”) di Baldry, Pagliaro e Porcaro, nella
quale viene analizzato quanto la cultura dell’onore mascolino avesse un effetto nel provocare le reazioni
dei poliziotti afghani agli episodi di violenza; nei luoghi di guerra, l’emergenza legata ad essa è tale da
poter far passare in secondo piano molti episodi di violenza (sottovalutazione episodio di violenza).
Si è provato a capire quale fosse il ruolo di questa cultura dell’onore misogino, in un contesto rilevante
come quello afgano, visto il clima culturale (in Afghanistan all'epoca, ma oggi ancora di più, vige la
Sharia, la legge tramandata dal Corano che viene estremizzata dai Talebani).
Il concetto dell’onore, secondo Vandello e Cohen, ha una duplice faccia:
Positiva: virtù che si riferisce all’altruismo e all’orgoglio;
Negativa: relativi allo status e/o reputazione e basati sul potere di un uomo d’imporre la sua
volontà sugli altri;
In questo specifico contesto l’onore è legato alla sua accezione negativa, tanto che si definisce
masculine honor (onore mascolino). In alcune culture, le donne tendono ad essere considerate delle
minacce alla reputazione dell’uomo; il comportamento delle donne, in modo particolare quando questo
si discosta dalle aspettative di genere, può essere considerato una minaccia all’onore e di conseguenza
la violenza agita per ripristinare quest’ultimo è legittimata (es. donne sportive uccise perché il fare sport,
secondo la lettura estremizzata del Corano, non rientra nelle aspettative di genere).
Il più grande “peccato” che una donna possa compiere e che leda l’onore mascolino è l’infedeltà, e, in
contesti come questo, viene addirittura sanzionata dalla legge; nel 2012, quando la Baldry raccoglie
questi dati nella città di Kandahar su poliziotti afghani, nel momento in cui una donna ammetteva la sua
infedeltà verso il marito era punibile fino a 2 anni di reclusione, un uomo che assassinava una donna con
le prove del tradimento era punibile in egual misura.
L’idea dello studio descritto nell’articolo era quella che si poteva evidenziare che le decisioni dei
poliziotti afghani fossero guidate non solo dalla legge, come avrebbe dovuto essere, ma anche da fattori
contestuali legati alla cultura dell’onore, cioè da atteggiamenti basati sulla mascolinità. È stato
presentato alla polizia afghana, un estratto di un verbale (rapporto) stilato da un loro collega nel quale,
sostanzialmente, si descriveva un intervento a seguito di una segnalazione da parte di una donna che
denunciava la violenza, da parte del proprio marito, a carico della figlia (è stata trovata la donna molto
malconcia con evidenti segni di violenza fisica addosso e il marito urlava affermando di volerla uccidere;
quest’ultimo è stato allontanato e la donna, interrogata, ha spiegato che, una volta che il marito è
rientrato a casa, l’ha accusata di tradimento e l’ha massacrata); ad una metà dei partecipanti veniva
detto che la donna ha ammesso il tradimento, all’altra metà invece veniva detto che la donna non aveva
ammesso il tradimento. Successivamente venivano misurate le intenzioni di arresto, cioè veniva chiesto
il loro intervento in merito (in assenza di effetto della cultura dell’onore avrebbero dovuto rispondere
tutti con l’intenzione di arrestare il marito, in quanto per la legge la violenza non è consentita);
Quello che succedeva era questo: I poliziotti afghani, che hanno letto l’estratto prima descritto, nel quale
la donna AMMETTAVA il tradimento, l’avrebbero aiutata meno. Questo significa che venivano prodotti
degli atteggiamenti meno negativi nei confronti della violenza e l’intenzione di aiutare la vittima era
minore.
In un altro studio, condotto da Baldry, Pagliaro e Pacilli, viene invece approfondita la percezione di
umanità di una donna che viene ad essere vittima di un tradimento, in modo particolare viene
approfondito il ruolo delle credenze di genere del sessismo (insieme di atteggiamenti di natura misogina
che tendano a ritenere che esista una disparità di status tra uomo-donna e considerare queste ultime in
una posizione subordinata); si è cercato di capire se il sessismo guidasse l’interpretazione dell’evento e
se potesse distorcere la valutazione della donna considerata addirittura meno umana.
Il sessismo si divide in due orientamenti (Glick e Fiske):
Ostile: ritenere, ad esempio che le donne debbano stare in una posizione subordinata;
Benevolo o Benevolente: forma nascosta di sessismo che però, attraverso le sue credenze,
legittima la disparità uomo-donna (es. “le donne non si toccano nemmeno con un fiore”) ;
Esiste un’altra forma peculiare di de-umanizzazione, oltre a quella animalistica e meccanicistica, che è
L’INFRA-UMANIZZAZIONE e consiste nel togliere una parte (non tutta) di umanità alla persona; più
precisamente consiste nell’idea che il target della mia valutazione non sia in grado di sentire le emozioni
secondarie tipicamente umane (es. orgoglio).
È stato fatto leggere, ai partecipanti dello studio, un finto articolo di giornale riguardo un episodio di
violenza nella quale una donna veniva picchiata dal marito e lasciata esanime per terra per poi chiedere
quanto, secondo loro, questa donna (Anna) è in grado di provare delle emozioni secondarie.
Il risultato che ne viene fuori dimostra che, nel momento in cui Anna ammetteva il tradimento, i
partecipanti affermavano che quest’ultima era meno in grado di provare tali emozioni, cioè le
riducevano umanità nonostante le percosse ricevute; questo si associava di nuovo alla tendenza più
bassa nell’aiutare questa donna.
La dimensione morale è una dimensione centrale nel giudizio sociale; l’idea di fondo dello studio
appena descritto era che, probabilmente, il mancato aiuto era legato ad una valutazione della donna
come “disonesta” (dimensione morale) nonostante le percosse. Viene svolta la medesima procedura di
prima (presento articolo, la donna ammette o non ammette il tradimento) e viene chiesto di valutare la
donna sulle dimensioni del giudizio sociale (moralità, competenza, socievolezza), i risultati sono così
schematizzati:
Ne consegue che ammettere un tradimento riduce quanto gli altri ti considerano morale. Veniva poi
chiesto anche il grado di colpevolezza di Anna e quello del marito e il risultato che ne derivava è che le
persone consideravano la vittima di violenza come immorale e per di più colpevole della violenza stessa,
questa attribuzione portava ad una ridotta intenzione di aiuto; in tali risultati non vi era alcuna
differenza di genere (non erano solo gli uomini a pensarla così, ma anche le donne).
Avanzando con lo studio, un altro fattore analizzato è la SESSUALIZZAZIONE, questo perché la
percezione sociale della violenza di genere è molta legata al modo in cui i mass media rappresentano la
situazione; basti pensare che le immagini che accompagnano la descrizione di un episodio di violenza, la
maggior parte delle volte, sono tratte da un social network di una vittima, ad esempio, e la loro scelta
non è casuale.
La sessualizzazione della donna (focalizzarsi sul suo corpo piuttosto che sulle sue qualità) è visibile
virtualmente in ogni ambito della vita, dalla pubblicità, politica e contesti di lavoro, ma questa non è
causata da un singolo fattore, bensì da una molteplicità di fattori; volendola definire in modo più
preciso: la sessualizzazione è il risultato di un processo complesso d’interazione tra una serie di fattori
(es. estensione di nudità ossia quanta parte del corpo è esposta) contribuisco in qualche modo, nella
loro interazione, a focalizzare l’attenzione su una rappresentazione del corpo della vittima in una
maniera sessualmente suggestiva. Molti studi mostrano che quando le donne ricevono il cosiddetto
“sguardo oggettivante”, cioè quando si sentono oggettivate sessualmente, hanno dei problemi cognitivi;
ad esempio, le loro performance in compiti cognitivi scendono a seguito di un’interferenza cognitiva.
Appare chiaro che la sessualizzazione non è solamente un qualcosa di sgradevole, genera proprio dei
problemi nelle donne che possono arrivare ad introiettare lo sguardo oggettivante. Le donne
sessualizzate sono considerate meno umane proprio perché vengono trasformate nelle parti del loro
corpo e ad esse non viene attribuita capacità di stato mentale.
Gray è l’autore di una teoria che prende il nome di Moral Typecasting che significa il ruolo che una
persona gioca all'interno di una dinamica morale; egli sostiene che in ogni dinamica, che chiama in causa
la moralità, c'è:
una parte che si chiama MORAL AGENT: persona che agisce un comportamento che può essere
onesto oppure no;
una parte che si chiama MORAL PATIENT: persona che subisce in positivo o in negativo l’atto
morale o immorale;
La cosa interessante è che lo studioso trova che, coloro ch vengono de-umanizzati, vengono percepiti
come meno umani, ma se vengono percepiti come meno umani sono considerati anche come meno
rilevanti dal punto di vista morale.
La Moral Patiency (Pazienza Morale) è la capacità delle persone di esperire (sentire) piacere fisico e
psicologico e, al contrario, dolore fisico e psicologico; la cosa importante è che c'è un'ampia letteratura
che dimostra che la sessualizzazione si accompagna alla percezione che le persone abbiano meno
capacità di sentire dolore fisico e morale.
È stato chiesto ad una ragazza di fare da modella e posare in due foto diverse per posa e abbigliamento:
Foto 1: abbigliamento sexy e provocante, distesa su un divanetto;
Foto 2: abbigliamento casual, seduta al tavolo di un pub;
Viene creato e presentato ai partecipanti il questionario presentato fino ad ora (donna picchiata da
uomo) accompagnandolo con queste foto definite come immagine profilo di Facebook; così facendo
succedeva che, quando i partecipanti vedevano la foto 1, affermavano che la persona era meno in grado
di sentire dolore fisico e psicologico e di conseguenza l’aiutano meno.
Gramazio, Cadinu, Pacilli e Pagliaro hanno osservato cosa accade in merito alla sessualizzazione e alla
moralità negli ambienti lavorativi; La situazione è la stessa di prima, ossia viene chiesto ad una ragazza di
posare come modella in due foto diverse per abbigliamento, ma con la medesima posa (seduta su uno
sgabello):
Foto 1: abbigliamento sexy e provocante;
Foto 2: abbigliamento casual;
È stato descritto un episodio di molestie sul luogo di lavoro (questa donna aveva subito delle molestie da
parte del suo titolare che l’aveva palpeggiata e aveva fatto intendere che in caso di disponibilità avrebbe
potuto avere un avanzamento di carriera) e successivamente è stato chiesto il grado di onestà di questa
donna, quanta colpa le veniva attribuita e le intenzioni d’aiuto; veniva presentato il caso e le due foto. I
partecipanti che leggevano la storia accompagnata dalla foto 1 (sessualizzante) tendevano a percepire la
donna come meno onesta e più colpevole dell’accaduto, di conseguenza si riducevano le intenzioni
d’aiuto.
Sapendo che il comportamento all’interno dei gruppi deve essere prevedibile e che esistono degli
strumenti che regolano la vita degli individui, ossia le norme, si è andato a vedere se queste abbiano
qualche ruolo nel fenomeno dell’aiuto alle vittime di violenza e lo si è fatto utilizzando i poliziotti italiani
questa volta; vengono realizzati due studi, uno con le persone non esperte (Lay People) e uno con i
poliziotti italiani. Innanzitutto, le norme sono dei modi condivisi di pensare, sentire e comportarsi che ci
si aspetta come il modo giusto da attuare e nel momento in cui esse sono definite su basi morali, sono
ancora più forti nel guidare il comportamento delle persone.
• STUDIO 1:
Si è ritenuto che fosse possibile che le norme del gruppo di appartenenza (gruppo in cui persona vive),
rappresentano degli antecedenti importanti dei comportamenti che le persone agiscono.
Viene presentato il solito episodio di violenza per poi chiedere la disponibilità nell’intervenire in favore
della donna e andare a misurare l’identificazione con l’in-group. Viene detto ai partecipanti che le
persone che li hanno preceduti in quella situazione erano propensi nell’intervenire, oppure no,
trasmettendo una norma descrittiva (descrive comportamento medio del mio gruppo), andando a
chiedere subito dopo quanto si identificassero con il gruppo italiani e quanto questa identificazione
fosse importante; l’idea di fondo era che coloro che si identificavano molto con il gruppo italiani
avrebbero dovuto, in seguito a questo, dichiarare delle intenzioni di aiuto più simili a quelle che la
norma del gruppo aveva suggerito.
Nel post-test si riscontra una differenza che indica che coloro che avevano letto che gli altri italiani che
sarebbero intervenuti e si identificavano con il gruppo italiani, dicevano che probabilmente sarebbero
intervenuti.
• STUDIO 2:
Tutto quello precedentemente descritto è stato riscontrato anche nei poliziotti; si è visto che nel
momento in cui gli veniva detto che altri poliziotti avevano affermato che non sarebbero intervenuti,
loro si allineavano allo stesso pensiero.
Questo è problematico perché sta a significare che le decisioni sono prese, non solo sulla base di fattori
che riguardano l’episodio e su base legale, ma anche su altre considerazioni.
Si è riflettuto anche sul fatto che, in effetti, nella definizione di IPV non c’era niente che dicesse “violenza
di uomo su donna” e quando ci sono queste situazioni quello che bisogna fare è andare a replicare una
ricerca modificando qualcosa, in questo caso parlando di un episodio di violenza all’interno di una
coppia omosessuale, per verificare se le azioni delle persone sono le medesime a quelle nel caso delle
violenze uomo su donna o se ci sono delle specifiche. In questo studio è stato riscontrato che, anche se i
casi riportati alle autorità di casi di violenze omosessuali sono inferiori rispetto ai casi di violenze
eterosessuali, in realtà l’occorrenza del fenomeno (numeri della violenza) e dell’escalation della violenza
sono simili.
Gli omosessuali denunciano meno per la paura del pregiudizio, poiché ,oltre al peso della violenza, si
portano dietro anche il peso dei pregiudizi a loro assegnati in una condizione di doppio standard di
negatività (qualunque situazione che ti metta in una condizione di doppia possibilità di subire
pregiudizio); il pensiero di base è: “se per una donna è complicato denunciare, figurarsi per me che sono
anche omosessuale”.
Vi sono delle ricerche condotte in paesi dove l’omosessualità è più sdoganata dal punto di vista dei
diritti, i cui risultati mettono in evidenza che in questi paesi, nonostante ci siano delle differenze
nell’interpretazione della violenza in coppie etero e in coppie omosessuali (non prototipiche), in realtà il
ruolo degli atteggiamenti e delle credenze è abbastanza simile.
Si è andato infatti, a replicare esattamente il pattern per risultati; all’interno di una coppia gay, se uno
dei due ammette un tradimento e per questo viene picchiato, viene considerato più disonesto (meno
morale), più responsabile dell'accaduto e aiutato di meno. Questo succedeva in un campione di
eterosessuali, quindi l'out-group, utilizzando come misura di controllo gli atteggiamenti omofobici
(negativi nei confronti l'omofobia).
Paolini e Pacilli, il professor Pagliaro ha ripetuto il tutto su un campione di omosessuali, utilizzando come
variabile di controllo, questa volta, l'omofobia interiorizzata, il risultato riscontrato è il medesimo degli
studi visti in precedenza dove le donne considerano altre donne vittime di violenza e colpevoli
dell'accaduto, anche gli omosessuali considerano altri omosessuali colpevoli dell'accaduto se
ammettono il tradimento.
Un ultimo studio comprende l’analisi del ruolo della violenza sulla percezione di reputazione di una
donna a distanza di tempo; l'articolo si chiama è stato intitolato “ oltre al danno, la beffa”. Quello che è
stato dimostrato è che, mostrando alle persone il solito articolo di giornale con tutto quello che era
successo e via dicendo, e chiedendo successivamente di immaginare di vivere ad esempio, nello stesso
paese o città di questa persona, un anno dopo che quel tipo è stato condannato ecc e indicando quanto,
secondo ognuno di loro, volesse fare una di queste cose, si è successivamente andati a misurare quelle
che vengono definite delle proxy, cioè degli indicatori di reputazione (quanto avresti voluto averla nella
tua cerchia di amici o vivere nello stesso palazzo) queste persone volevano evitare la vittima nonostante
avesse subito violenza o proprio perché l’aveva subita. La reputazione è importante poiché un danno
reputazionale è l'artefice di un danno sociale, della mancata possibilità di questa donna di accedere a
determinate risorse sociali come l'amicizia; tantissime narrative di donne che non hanno denunciato
l'episodio di violenza, riportano la paura di essere stigmatizzate; quindi, la paura di non essere credute,
la paura di essere considerate delle poco di buono e così via.
Baldry e Winkel definisco i fattori quali: infedeltà, sessualizzazione della vittima, norme di gruppo e
credenze legate all’onore, come fattori extra-legali o extra-legal factors, ossia tutti quei fattori che non
dovrebbero avere nulla a che vedere sulla valutazione giudiziaria e legale di un caso di violenza. Tuttavia,
questi fattori impattano drasticamente le percezioni e i comportamenti delle persone (i giudici, gli
avvocati e gli assistenti ai quali si rivolgono le vittime, sono persone). Un altro elemento riscontrato a
seguito di questi studi è che, anche nel contesto della violenza, le valutazioni di ordine morale
rappresentano un trigger (innesco) importante:
nell’aiuto, se le valutazioni sono di moralità;
nell’inerzia, se sono di immoralità;
Forse l’aspetto più interessante è il fatto che questi studi non rappresentino una forma di
autocelebrazione scientifica, ma informano campagne di prevenzione; per esempio sono 3 anni che il
professor Pagliaro sta lavorando, insieme al centro LDV di Modena, per ragionare insieme agli autori di
violenza, considerando il carcere come un percorso di riabilitazione, che la violenza che loro hanno agito
non è giustificabile sulla base del nervosismo o altre motivazioni, ma è una questione di genere; questo
progetto è unico nel suo genere perché, mentre di solito sugli autori di violenza si lavora con lo
psicologo clinico e basta, in questo caso vi è un’equipe che, oltre ad analizzare e comprendere i fattori
scatenanti, somministra scale di sessismo affinché si comprendano che non esistono differenze di
genere (psicologi clinici + psicologi sociali).
LEZIONE 14
L’aggressività è qualsiasi comportamento intenzionale rivolto verso un altro individuo, con l’obiettivo
di provocare dolore fisico o psicologico. Essa può essere, in base alle situazioni, definita nei seguenti
modi:
Strumentale: se è basata su un comportamento razionale, sul calcolo, finalizzata a massimizzare
i profitti (di ogni tipo) nuocendo alla vittima.
Ostile: se è basata su un comportamento impulsivo, guidato dalla collera, in risposta ad una
provocazione.
La psicologia cognitiva e quella sociale vedono dunque l’aggressività come qualcosa che può anche
essere frutto di un calcolo e non solo come una reazione a qualcosa.
È molto importante considerare l’aggressività in maniera distaccata rispetto alle nostre esperienze
personali. L’aggressività è sempre intenzionale, dunque è consapevole e, in alcuni casi, è anche violenta.
La violenza è una forma di aggressività che ha come obiettivo quello di provocare un dolore estremo alla
vittima, come nel sadismo e nella violenza di genere. La violenza è sempre una forma di aggressività, ma
l’aggressività non sfocia sempre nella violenza.
Ci sono diversi ricercatori e diversi approcci allo studio dell’aggressività che sono:
quello biologico-evoluzionista che ha inizio con Lorenz (1966), etologo che traspose gli studi
degli animali all’essere umano, si descrive l’aggressività come qualcosa di innato e inserito nel
patrimonio genetico per garantire la sopravvivenza. Ma queste teorie non spiegano tutto il
ventaglio dei comportamenti aggressivi degli esseri umani, perché esiste anche la minaccia,
l’aggressività indiretta per danneggiare l’immagine di qualcuno ecc.
In quegli anni si parlava della teoria della caldaia a vapore: cioè l’uomo è come una caldaia le cui
emozioni sono energia, l’essere umano produce continuamente energia aggressiva finché non
viene rilasciata in risposta a stimoli esterni. Quando l’energia ha raggiunto una certa soglia
critica, allora si genera un’aggressione spontanea. Questa teoria però non tiene conto di tutti i
fattori psicosociali e delle varie reazioni.
antecedenti disposizionali e situazionali dell’aggressività: la letteratura dice che l’aggressività
dipende, sia dalle caratteristiche personali, sia dall’ambiente in cui si vive.
Le caratteristiche disposizionali sono dette BIG FIVE, si è visto che i seguenti tratti della
personalità incidevano sull’aggressività:
Amicalità: tratto che si collegava di più alla riduzione delle condotte aggressive, maggiore è
l’amicalità minore è l’aggressività
autostima: le ipotesi iniziali di questi studi ipotizzavano che le persone, con buona percezione
del sé, producessero meno aggressività, ma con il tempo si è visto che le condotte aggressive
erano appannaggio, una prerogativa, soprattutto di coloro che avevano bassa considerazione di
sé
narcisismo: gli studi sull’autostima portarono poi a indagare su aspetti come questo, coloro che
hanno una definizione del sé, che rasenta la perfezione, mettono in atto maggiori
comportamenti di aggressività
differenze di genere: l’aggressività si differenzia in base al genere? Gli studi sono diversi, si dà
spesso per scontato che il genere maschile sia più tendente all’aggressività, ma non esiste una
vera e propria distinzione; c’è un bilanciamento ed è stato introdotto il concetto di forme di
violenza diretta appannaggio per lo più degli uomini (aggressione fisica di una persona) e forme
di violenza indiretta che sono più femminili (come parlar male di qualcuno, mettere una persona
in una posizione scomoda o di pericolo)
uso di sostanze: ci sono evidenze empiriche importanti, gli stupefacenti, gli psicostimolanti e gli
alcolici creano un’alterazione psicofisica e il fenomeno delle condotte aggressive si amplifica.
Tuttavia, l’individuo è sempre immerso in un contesto che incide sulla condotta aggressiva. Tutti i dati e
modelli sono tasselli che vanno intesi come parte di un tutto di cui bisogna tener conto. Più fattori
insieme possono incidere.
C’è anche chi ha parlato di altri aspetti come:
temperature, in alcuni Paesi, con record di temperature altissime, si creano alterazioni
fisiologiche che provocano una frustrazione e la reazione può anche essere aggressiva.
Cambiamenti climatici: incapacità di adattarsi
inquinamento acustico: quando una persona è sovraccarica di stimoli esterni si alimenta status
di inadeguatezza che porta a voler sfogare tensione che si accumula
affollamento: come in uno stadio, tifoseria
Deindividuazione e disinibizione possono comportare aggressività
Le Bon, sul finire dell’800, ha elaborato la teoria della psicologia delle folle: la deindividuazione ha
origine da una perdita dell’identità personale che favorisce l’aggressività.
REICHER Social identity Model of Deindividuation Effects (1995): la deindividuazione ha origine da un
processo di rafforzamento del senso di appartenenza dell’individuo al gruppo. L’identità sociale guida il
comportamento del singolo che segue così le norme del gruppo (se urlano loro, urlo anch’io).
Un altro esempio famoso è l’effetto Lucifero, da un esperimento di Zimbardo nel carcere di Stanford,
uno dei più famosi esperimenti della psicologia sociale: furono presi degli studenti universitari, per
partecipare ad un esperimento di 15 giorni, in cambio di soldi, per poi essere inseriti nel gruppo come
carcerati o guardie, istruiti all’obbedienza; l’obiettivo era dimostrare che le persone, a prescindere dalla
personalità, a seconda del contesto, applicano un determinato modo di comportarsi (identificazione).
Nell’esperimento venivano quindi deindividuati della propria personalità, effettivamente i partecipanti si
comportarono come vere guardie e veri prigionieri. I prigionieri si comportavano male, in reazione ai
comportamenti delle guardie. L’esperimento ha del vero.
Lo studio conferma l’ipotesi situazionale di aggressività: le singole personalità degli individui
possono essere offuscate quando assumono posizioni autoritarie.
COMPORTAMENTO PROSOCIALE
È qualsiasi tipo di attività, azione finalizzata a portare una qualsiasi forma di beneficio a un’altra persona
o a un gruppo di persone. Non è inteso unicamente in relazione alle professioni di aiuto (come quella
medica). Perché le persone aiutano? Si parte sempre da un approccio evoluzionistico, con due correnti
di pensiero che partono da studi sugli animali:
evoluzionismo genetico: le persone si comportano bene per la conservazione della specie e la
trasmissione del patrimonio genetico.
Evoluzionismo culturale: per il mantenimento di una rete di relazioni sociali e trasmissione di
identità culturale di gruppo. Selezione di gruppo: l’altruismo facilita la sopravvivenza del nostro
gruppo.
Norme prosociali: guidano il comportamento da seguire o non seguire, con l’obiettivo di preservare e
promuovere le aspettative. In alcuni casi aiutiamo semplicemente perché, secondo i principi della
società, dobbiamo farlo.
Norma della reciprocità: aiuto perché un giorno potrei avere anch’io bisogno di aiuto
Norma della responsabilità sociale: aiuto perché certe persone non possono fare qualcosa da soli e
hanno bisogno di noi, si basa sul processo di attribuzione di responsabilità
Norma dell’equità: si bilanciano costi/benefici, tratto bene chi tratta bene gli altri.
Tutti gli atti prosociali si dividono in due macrogruppi. Cosa ci spinge a compiere gesti prosociali?
Ci sono motivazioni egoistiche e motivazioni altruistiche.
Tra le motivazioni egoistiche troviamo la teoria dello scambio sociale (Emerson, 1976), agiamo se ci
conviene farlo, si valutano i costi-benefici e l’obiettivo è ovviamente quello di massimizzare i benefici e
minimizzare i costi. Ciò che caratterizza questo modello dei costi-benefici è l’attivazione cognitiva
(arousal) con la quale contemporaneamente si ha un processo di valutazione costi-benefici (mi conviene
agire? Quanto tempo sprecherei?).
Costi aiuto: perdita tempo, rischi incolumità, fatica
Costo del non aiuto: senso di colpa, disistima degli altri, autocolpevolizzazione
Benefici aiuto: gratitudine, prestigio, lodi
Benefici non aiuto: proseguire la propria vita senza perdere tempo e fatica.
Modello dal sollievo da stati d’animo negativi (Cialdini 1987)
Le persone si comportano in modo altruista per ridurre eventuali stati d’animo negativi, provocati da
un’emergenza. Se hanno però a disposizione nell’ambiente altri mezzi per migliorare il proprio stato,
non sarà messa in atto una risposta pro-sociale. Gli individui che hanno una gratificazione alternativa
tenderanno a mettere in atto un comportamento di aiuto con meno probabilità.
Il ruolo dell’empatia
L’empatia è sapere come sta l’altro, sia in termini cognitivi, sia emotivi.
L’empatia può essere dunque cognitiva, che è una forma di consapevolezza cognitiva dello stato
d’animo di un’altra persona (pensieri, sentimenti), oppure emotiva che risente della sensibilità
individuale, è una risposta affettiva orientata all’altro che si sintonizza sullo stato di benessere o
malessere dell’altro.
Ipotesi dell’empatia-altruismo (Batson 1981): l’empatia sollecita una motivazione diretta ad alleviare la
sofferenza di chi si trova in difficoltà, con l’obiettivo di aiutare quella persona, quindi senza una
valutazione di costi-benefici. L’empatia può anche avere un dark side, cioè un lato oscuro, perché
quando si è troppo connessi con una persona si ha un effetto secondario, si polarizzano negativamente
le proprie emozioni, ci si identifica eccessivamente nell’altra persona.
Perché le persone non aiutano?
Preso in esame il caso di Kitty Genovese: nel cuore della notte fu aggredita in una strada di New York, lei
iniziò ad urlare, per centinaia di metri, ma nessuno la soccorse, sebbene ci fossero locali aperti e
persone in giro. Fu uccisa. C’erano 37 persone che avevano visto l’accaduto, ma nessuno era intervenuto
in suo aiuto. Dal punto di vista psicologico Latané e coll. parlano dell’effetto bystander/spettatore.
Smoke situation: esperimento di Latané e Darley (1968), i partecipanti all’esperimento segnalavano con
maggiore probabilità la presenza di fumo in una stanza quando erano da soli rispetto a quando erano in
compagnia di altri sconosciuti. Le persone perdono la responsabilità di agire quando si trovano insieme
ad altre persone che potrebbero agire al loro posto. Apatia degli astanti.
L’albero decisionale dell’intervento di aiuto di Latané e Darley: in una situazione di emergenza:
nella prima fase si deve capire che effettivamente qualcosa sta succedendo
ciò che sta accadendo è un’emergenza?
Se la risposta è sì, si può attivare l’ignoranza pluralistica, cioè si sottovaluta la gravità perché
magari gli altri non agiscono
Superando lo step precedente mi assumo la responsabilità di agire, se sono da solo, oppure no,
se ci sono altre persone
Se decido di agire devo decidere come farlo e questo si collega al senso di consapevolezza, di
preparazione personale in una situazione di emergenza ecc. la finalità ultima è il PRESTARE
AIUTO