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LEZIONE 15

La centralità della MORALITÀ nei processi di gruppo – The Centrality of Morality in Group Processes, A
social identity approach

La moralità rappresenta un regolatore fondamentale nella vita sociale. Vedremo perché non si può parlare
di moralità se non inquadrandola all’interno dei contesti di gruppo. Questa è una linea di ricerca che va
molto indietro, risale a diciassette anni fa ed è caratterizzata dalla lente d’ingrandimento teorica che è
l’identità sociale. È un approccio teorico in collaborazione con Naomi Ellemers e Manuela Barreto insieme
ad altri colleghi. Partiamo da una domanda importante, ci sono dettami morali universali? Se non
consideriamo le dinamiche di gruppo non possiamo comprendere la moralità. La moralità individuale è per
noi un ossimoro a tutti gli effetti.
Il dettame morale che potremmo considerare più diffuso è “non uccidere”, possiamo immaginare situazioni
in cui considereremmo questo comportamento non immorale come nel casi di un dirottamento aereo, se si
riesce ad uccidere il dirottatore per salvare un gran numero di persone probabilmente si farà. Si tratta di un
ragionamento consequenzialista, usato spesso per ragionare su quali siano le regole utilizzate dalle
persone per decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Il dilemma morale: un treno a tutta velocità
investirà, uccidendoli, cinque operai sul binario, se hai la possibilità con una leva di dirottare il treno su un
altro binario uccidendo una sola persona e non cinque, potresti fare lo scambio e con questo ipotetico
scambio si fa uso di un ragionamento di natura consequenzialista, se invece non accetto di fare la scambio
è perché non posso determinare la morte di un'altra persona e allora in questo caso si tratterà di un
ragionamento deontologico. Anni di studio ci hanno convinto che i principi universali sono etici ma non
morali, questi sono gruppo-dipendenti, ovviamente nelle nostre ricerche e qualcuno può anche non essere
d’accordo. Quando abbiamo iniziato a studiare la moralità abbiamo visto che in letteratura erano presenti
circa un migliaio di definizioni operative o operazionali per cui si è ragionato sulla sua complessità cercando
nuclei comuni. Prima di tutto è stata cercata la definizione sul dizionario Oxford America: “insieme dei
principi che riguardano distinzioni tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato”. Due i nuclei valoriali
fondamentali che sono stati individuati in tantissime definizioni: il primo è la trustworthiness (l’essere degni
di fiducia), in italiano il termine migliore è stato affidabile/affidabilità, l’altro aspetto è fairness ovvero
correttezza. L’affidabilità è stato dunque considerato l’aspetto centrale della nostra concettualizzazione
della moralità, ma ci sono anche altre definizioni come quella dei fondamenti morali (Johnatan Haidt), che
si fonda su aspetti come il caring(il prendersi cura), la cooperation (cooperazione) e la kindness (gentilezza).
Prima che gli psicologi sociali si occupassero della moralità, questa era considerata come prospettiva
individuale. Anche le prospettive individuali risentono comunque di un’eco dei gruppi di appartenenza.
Nell’ambito della filosofia il più importante studioso della moralità è Kant che ha parlato degli imperativi
categorici ovvero, se dovessimo decidere sulla correttezza o moralità di una questione e fossimo in
possesso di tutte le informazioni, dovremmo decidere tutti allo stesso modo circa la moralità di un’azione
(la sua massima più nota è: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”). La moralità è
dunque qualcosa di intrinseco all’uomo. Ma chi lo dice che un comportamento è quello corretto? Si
sottendono ovviamente delle convenzioni, delle nozioni condivise di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Un’altra prospettiva individuale di studio della moralità è quella della psicologia dello sviluppo: i bambini
acquisiscono le regole del ragionamento morale in riferimento a principi universali su ciò che è giusto e ciò
che è sbagliato con la famiglia, la socializzazione , la scuola ecc. e ciò avviene attraverso degli stadi, lo
abbiamo visto anche con Kolberg e i suoi tre stadi (preconvenzionale, convenzionale e post-
convenzionale). Anche in questo caso però, se i bambini apprendono delle regole, queste regole sono nel
vuoto sociale o nascono sempre perché ci sono dei gruppi di appartenenza? Le regole fanno sempre
riferimento a convenzioni condivise. Quindi la prima prospettiva individuale sullo studio della moralità è di
tipo filosofico, la seconda fa riferimento alla psicologia dello sviluppo, il terzo approccio riguarda la
psicologia della personalità. Come si fa a capire com’è la personalità di qualcuno? Si possono fare delle
misurazioni con modelli teorici come il Big five (secondo il quale la personalità si raggruppa intorno a cinque
grandi fattori), ma ci sono anche modelli alternativi come Ex aquo con un fattore iniziale che si chiama H
come honesty, humility che coglie aspetti legati alla moralità, le persone compilano un questionario riferito
a se stessi oppure lo fa qualcun altro al tuo posto, si confronta il punteggio ottenuto con il punteggio medio
della popolazione di riferimento. Anche in questo caso dunque per capire un risultato si farà un confronto
con un gruppo di riferimento, quindi c’è sempre un’eco dei gruppi di riferimento.
I gruppi sono importanti per la comprensione della moralità per i seguenti motivi:

 Le persone inferiscono qualcosa sulla propria moralità attraverso il confronto sociale (orizzontale,
verticale, verso il basso), allo stesso modo se volessi sapere quanto sono onesto dovrei guardare i
gruppi di riferimento che rappresentano uno standard.

 Quando le persone devono presentarsi agli altri utilizzano delle strategie, i bias a favore del sé per
ottimizzare la propria immagine come l’effetto primus inter pares. Si è visto che quando si chiede
alle persone di presentarsi utilizzando le tre dimensioni di confronto che sono moralità,
competenza e socievolezza, le persone preferiscono presentarsi in maniera superiore soprattutto
per quanto riguarda la moralità anche se questo comporta concedere una diminuzione della
considerazione della propria competenza, si chiama effetto Mohammed Alì che negli anni ’50 subì
un blocco di carriera come pugile perché era un uomo di colore, lui era un pacifista e per non
entrare nel servizio di leva taroccò i test cognitivi e come giustificazione disse: “Ho sempre detto di
essere il più grande non il più intelligente”. Questo effetto riguarda anche la stima dei propri
comportamenti (Epley e Dunning). Le persone sovrastimano i propri comportamenti passati. Con il
termine accrescimento morale del sé ci riferiamo alla tendenza delle persone a presentarsi sotto
una luce migliore rispetto a quella reale quando è chiamata in causa la moralità (More Hole than
you, cioè “più santo di te”).

 La moralità non può mai essere individuale, dev’essere necessariamente condivisa. La moralità cioè
non può essere puramente individuale perché se ognuno seguisse un suo senso unico di morale
allora le persone non avrebbero idea di cosa gli altri considerano morale e non saprebbero cosa
aspettarsi dagli altri e come comportarsi. Sul DSM (manuale per stabilire i disturbi psicologici e
psichiatrici) troviamo la definizione del disturbo antisociale di personalità e vediamo che una
persona che ha il disturbo non condivide con gli altri le nozioni su ciò che è giusto e ciò che è
sbagliato, è indifferente alla sofferenza altrui, ha un suo senso unico della moralità. In pratica la
mancata condivisione della moralità spinge verso i disturbi antisociali. Le diverse anime della
psicologia studiano i fenomeni da angolazioni diverse ma i fenomeni sono gli stessi.

 Qualche forma di moralità condivisa è fondamentale per ogni relazione sociale, tutte le relazioni
hanno bisogno di un pavimento comune per coordinare i comportamenti. Nelle frequentazioni tra
le persone ci vuole un implicito che dice: “io e te condividiamo la stessa nozione di moralità”. Un
insieme di regole implicite o esplicite condivise che guidano il comportamento. La moralità di una
qualunque azione, non essendo universale, è determinata dalle dimensioni valoriali del gruppo a
cui apparteniamo. Alla base dei conflitti tra gruppi c’è sempre una differenza del concetto di
moralità (Cristianesimo-Islamismo e la diversa concettualizzazione dell’omicidio rapportato alla
Guerra Santa, ecc.).

Il primato della moralità nel giudizio sociale

Avevamo visto già il modello del contenuto degli stereotipi incentrato su calore e competenza e sappiamo
che nel 2007 Ellemers e Barreto distinguono all’interno del calore sociale due sottodimensioni dicendo che
il fatto che una persona sia onesta o sincera non implica che la persona sia simpatica o estroversa e gli
autori ipotizzano che le due categorie siano distinguibili a livello teorico ed empirico. Nell’analisi fattoriale si
raggruppano serie di elementi numericamente ampi in dimensioni numericamente minori, gli studiosi
hanno allora preso 9 item cioè tratti come moralità, competenza, socievolezza, sincerità, affidabilità,
capacità ecc. di cui tre riferiti alla moralità, tre alla competenza e tre alla socievolezza e hanno verificato
empiricamente che i nove item saturavano su tre dimensioni latenti differenti. Sulla base di un articolo del
2007 un gruppo di studiosi tra cui Brambilla e Sacchi hanno ripreso gli studi di Asch per il quale era centrale
il calore nella formazione dell’impressione, ma in realtà sono i tratti morali che ci dicono qualcosa sulle
intenzioni di un persona. C’è una spiegazione funzionalista: mi interessa sapere più qualcosa sui tratti
morali che sulla competenza perché così saprò qualcosa sulle intenzioni potenzialmente negative
(minaccioso) o positive di una persona, poi la competenza mi dirà se andrà ad agire le sue intenzioni o
meno. Ci sono ricerche poi che ci dicono che si attiva l’amigdala la cui funzione è anche quella di
comprensione degli stimoli minacciosi.

Qualche anno fa in una serie di scuole del circondario abruzzese è stato chiesto ai dipendenti come
insegnanti e amministrativi di immaginare l’arrivo di un nuovo dirigente scolastico che era stato definito o
in termini di alta o bassa moralità in due diverse condizioni e in termini di alta o bassa competenza. È stato
chiesto quali fossero le emozioni in base alle varie descrizioni e di indicare il grado in cui avrebbero voluto
agire una serie di comportamenti verso la nuova persona come portarla in giro per la città, aiutarla a fare
un trasloco, ecc. È emerso che il fatto che la persona fosse definita in termini di alta o bassa competenza
non produceva differenza sulla reazioni emotive né sulle intenzioni di comportamento cosa che invece
avveniva quando veniva descritta molto o poco morale sia in fatto di emozioni sia di intenzioni cooperative.
Le valutazioni morali sono così importanti da essere coinvolte nelle valutazioni dei casi di violenza e nelle
reazioni delle persone. Una delle critiche più forti agli studi di psicologia sociale è quella che riguarda le
intenzioni comportamentali delle persone. Misurare i comportamenti è infatti più difficile che misurare le
intenzioni.
Noi ammettiamo che c’è la possibilità che gli atteggiamenti non si traducano sempre in comportamenti e
abbiamo voluto utilizzare la realtà virtuale immersiva che consente di interagire con la realtà virtuale e con
un caschetto e guanti collegati si può misurare il comportamento delle persone in uno scenario ipotetico. È
stato detto ai partecipanti che avrebbero interagito con un avatar enormemente onesta o disonesta.
Bisognava fermare con una mano (distanza sociale/di confort) l’avatar appena si riteneva di non voler più
continuare. Lo spazio peripersonale viene utilizzato a seconda delle persone che abbiamo intorno. Quando
l’avatar era descritto in termini negativi su base morale veniva aumentata la distanza di confort. È stata
utilizzata anche la distanza di raggiungimento quindi occorreva fermare l’avatar quando pensi di poterlo
raggiungere. È emerso che anche sulla reachability distance veniva messo più spazio tra i partecipanti e
l’avatar. Le persone dicevano che toccavano l’avatar disonesto anche quando era più distante, cioè
dicevano di poterlo toccare prima che ciò fosse possibile. La spiegazione viene dal significato della “distanza
di raggiungimento” che è una distanza di azione sul mondo (così viene considerata in psicologia cognitiva” e
questo si riallaccia al discorso dei proverbi (“chi mena prima mena due volte”), quando c’è un avatar
immorale per avere il controllo sulla situazione, in pratica, agiamo noi per primi.

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