Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
SAGGI
TASCABILI
© 1968 Éditions Gallimard
© 1972/2009 RCS Libri S.p.A.
Via Mecenate 91 - 20138 Milano
ISBN 978-88-587-6565-4
Titolo originale
Le système des objects
1. Ma il catalogo stesso, la sua esistenza è invece piena di senso: nel suo progetto di una nomenclatura
esaustiva, risiede un profondo significato culturale: si può giungere agli oggetti soltanto grazie a un
catalogo, che possa essere sfogliato “per il piacere” come un manuale fantastico, un libro-cassa, o un
menu, ecc.
2. Anche le modalità di transizione dall’essenziale all’inessenziale sono oggi relativamente sistematizzate.
Questa sistematizzazione dell’inessenziale ha alcuni aspetti sociologici e psicologici, ma ha anche una
funzione ideologica di integrazione (cfr. “Modelli e serie”).
3. Sulla scorta di questa distinzione, si può fare uno stretto raffronto tra l’analisi degli oggetti e la
linguistica, o piuttosto la semiologia. Ciò che, nella sfera degli oggetti, chiamiamo differenza marginale,
o inessenziale, è analogo al concetto introdotto in semiologia: il “campo di dispersione”: “Il campo di
dispersione è costituito dalla varietà di esecuzioni di un’unità (per esempio di un fenomeno), fino a che
queste varietà non determinano un cambiamento di senso (cioè fino a che non passino a livello delle
variazioni pertinenti)… Anche in alimentazione si può parlare di campo di dispersione di un raccolto: è
costituito dai limiti entro cui tale raccolto conserva il suo significato, quali che siano le ‘fantasie’ del
suo esecutore. Le varietà che compongono il campo di dispersione si chiamano varianti combinatorie:
non partecipano della variazione di senso, non sono pertinenti… Abbiamo considerato a lungo le
variazioni combinatorie a livello di linguaggio; vi sono infatti molto vicine, ma le si considera ora come
fatti di lingua, dal momento che sono ‘obbligate’. (Roland Barthes, “Communications”, 4, p. 128.) E. R.
Barthes aggiunge che tale nozione è destinata a diventare fondamentale in semiologia, perché queste
variazioni, che sono irrilevanti sul piano della denotazione, possono ridiventare significanti a livello
della connotazione.
È facile vedere quanto sia profonda l’analogia tra variazione combinatoria e differenza marginale:
ambedue riguardano l’inessenziale, non sono pertinenti, dipendono da una “combinatoria” e assumono
senso a livello di connotazione. Ma la distinzione capitale risiede nel fatto che, mentre la variazione
combinatoria resta esteriore e indifferente al livello semiologico) denotativo, la differenza marginale,
non è mai “marginale”. Infatti il livello tecnologico non designa, come il livello della lingua nei
confronti del linguaggio, un’astrazione metologica fissa che viene a far parte del mondo reale grazie al
movimento delle connotazioni, ma uno schema strutturale evolutivo che le connotazioni (le differenze
inessenziali) irrigidiscono, stereotipano e fanno regredire. Il dinamismo strutturale della tecnica si
cristallizza a livello di oggetti, nella soggettività differenziale del sistema culturale, che si ripercuote
sull’ordine tecnico.
A. IL SISTEMA FUNZIONALE
O
IL DISCORSO OGGETTIVO
I. LE STRUTTURE DELL’ASSESTAMENTO
L’ambiente tradizionale
Gli elementi
I muri e la luce
L’illuminazione
Specchi e ritratti
Altro sintomo: vetri e specchi sono spariti. Dopo tanta metafisica sarebbe
necessaria una psicosociologia dello specchio. L’ambiente tradizionale
contadino ignora lo specchio, forse ne ha paura: è stregato. L’arredamento
borghese al contrario, e ciò che ne rimane nell’attuale arredamento di serie,
moltiplica gli specchi sui muri, negli armadi, credenze, buffet, pannelli. Come la
fonte luminosa, lo specchio occupa un posto privilegiato nelle stanze. In questa
prospettiva, lo specchio, “domesticità agiata”, assume ovunque il ruolo
ideologico di ridondanza, superfluità, riflesso: è un oggetto ricco in cui la prassi
rispettosa di se stessa dell’individuo borghese vive il privilegio di moltiplicare la
propria immagine e di giocare con i propri beni. Si può dire in generale che lo
specchio, oggetto d’ordine simbolico, non soltanto riflette le caratteristiche
somatiche dell’individuo, ma nel suo sviluppo accompagna lo sviluppo storico
della coscienza individuale. In esso risiede dunque la sanzione di tutto un ordine
sociale: non è a caso che il Secolo di Luigi XIV si riassuma nella Galleria degli
specchi, e che, più recentemente, la proliferazione dello specchio negli
appartamenti coincida con l’estendersi del farisaismo trionfante della coscienza
borghese, da Napoleone III al Modern Style. Ma le cose sono cambiate.
Nell’insieme funzionale il riflesso fine a se stesso non ha più senso. Lo specchio
continua a esistere: assume la sua funzione specifica nella stanza da bagno, non
incorniciato. Negato alla cura attenta dell’apparenza che il commercio sociale
esige, si libera della grazia e del prestigio della soggettività domestica.
Contemporaneamente gli altri oggetti sono liberati, non sono più costretti a
vivere in circuito chiuso con la propria immagine. Infatti lo specchio limita lo
spazio, presuppone un muro, rimanda al centro: più specchi ci sono, più gloriosa
è l’intimità della stanza, ma insieme maggiormente circoscritta su se stessa. La
tendenza attuale a moltiplicare le aperture, e i pannelli trasparenti conduce verso
la direzione opposta. (Inoltre tutti i trucchi permessi dallo specchio si scontrano
con l’esigenza attuale di genuinità rustica dei materiali.) È stato rotto un cerchio:
bisogna riconoscere all’ordine moderno una logica reale quando elimina,
contemporaneamente alle fonti luminose centrali o troppo visibili, anche gli
specchi che le riflettevano, cioè nega ogni centro reale o psicologico, libera lo
spazio da quello strabismo convergente che, agli occhi della coscienza borghese,
faceva luccicare l’arredamento su se stesso.6
Parallelamente allo specchio, anche un’altra cosa è sparita: è il ritratto di
famiglia, la foto matrimoniale nella stanza da letto, il ritratto in piedi o a mezzo
busto del padrone nella sala, il viso incorniciato dei figli un po’ dappertutto.
Tutto questo, essendo in certo modo lo specchio diacronico della famiglia,
sparisce insieme agli specchi reali a un certo livello di modernità (la cui
diffusione è ancora relativamente modesta). Perfino l’opera d’arte, vera o
riprodotta, non si inserisce più in quanto valore assoluto, ma in forma
combinatoria. Il successo delle stampe nell’arredamento, preferite ai quadri, si
spiega tra l’altro per il loro valore assoluto minore, di conseguenza per il loro
maggiore valore associativo. Nessun oggetto, come la lampada e lo specchio,
deve assumere una valenza psicologica troppo intensa.
L’orologio e il tempo
L’uomo dell’assestamento
Si vede dunque qual è il tipo di inquilino che viene proposto come modello:
l’“uomo dell’assestamento” non è né proprietario né semplice fruitore, è un
informatore attivo dell’ambiente. Dispone dello spazio come di una struttura
distributiva, per mezzo del controllo di questo spazio, ha in mano ogni
possibilità di rapporto reciproco, e di conseguenza la totalità dei ruoli che gli
oggetti possono assumere. (Deve dunque assumere egli stesso una “funzionalità”
omogenea a questo spazio, se vuole che i messaggi di assestamento possano
partire da e tornare a lui.) Non gli interessa né il possesso né l’usufrutto, ma la
responsabilità, nella misura in cui gestisce la possibilità permanente di
“risposte”. La sua prassi è costituita di esteriorità. L’inquilino moderno non
“consuma” i suoi oggetti. (Anche qui, il “gusto” non interviene più, il che ci
rinvia, nel suo duplice senso, a degli oggetti chiusi, la cui forma contiene, una
sostanza “commestibile” che li rende interiorizzabili.) Padroneggia gli oggetti, li
controlla, li ordina. Si ritrova manipolato nell’equilibrio tattico di un sistema.
Nel modello di inquilino “funzionale” è presente una chiara astrazione. La
pubblicità ci vuol far credere che l’uomo moderno in fondo non abbia più
bisogno dei suoi oggetti, che invece debba solo operare in mezzo ad essi come
tecnico intelligente delle comunicazioni. Ma se l’ambiente è un modo d’esistere
vissuto, il processo per cui si applicano ad esso modelli di calcolo e di
informazione tratti dalla sfera della tecnica pura, risulta estremamente astratto.
D’altra parte, questo gioco oggettivo si sdoppia subito in un lessico ambiguo: “a
vostro gusto”, “secondo le vostre esigenze” “personalizzazione” questa
atmosfera sarà la vostra”, ecc., che sembra in contraddizione e di fatto serve da
alibi. Il gioco oggettivo proposto all’uomo dell’assestamento è sempre ripreso
dal doppio gioco della pubblicità. Tuttavia, la stessa logica del gioco, comporta
l’immagine di una strategia generale dei rapporti umani, di un progetto umano,
di un modus vivendi dell’era tecnica — profondo cambiamento di civiltà i cui
aspetti sono rinvenibili nella vita quotidiana.
L’oggetto: comparsa umile e ricettiva, specie di schiavo psicologico e di
confidente, come fu vissuto nella quotidianità tradizionale e illustrato da tutta
l’arte occidentale fino ai nostri giorni, quell’oggetto fu il riflesso di un ordine
totale, legato a una concezione ben definita dell’arredamento e della prospettiva,
della sostanza e della forma. Secondo tale concezione, la forma è la linea di
demarcazione tra l’interno e l’esterno. È recipiente fisso, l’interno è sostanza.
Anche gli oggetti — e i mobili in particolar modo — hanno, oltre alla loro
funzione pratica, una funzione primordiale di vaso, che appartiene
all’immaginario.8 A questa funzione corrisponde la loro ricettività psicologica.
Gli oggetti sono dunque riflesso di una visione totale del mondo in cui ogni
essere è concepito come un “vaso di interiorità”, e i rapporti come correlazioni
trascendenti di sostanze — essendo la casa stessa l’equivalente simbolico del
corpo umano, il cui schema organico potente si generalizza successivamente in
uno schema ideale di integrazione delle strutture sociali. Questo costituisce un
modo totale di vivere: il suo ordine fondamentale è là Natura, in quanto sostanza
originale da cui discende il valore. Nella creazione o fabbricazione di oggetti,
l’uomo, imponendo una forma che è cultura, diventa transustanziatore di natura:
la filiazione delle sostanze, di età in età, di forma in forma, istituisce lo schema
originale della creatività: creazione ab utero, con tutto il simbolismo poetico e
metaforico che l’accompagna.9 Il senso e il valore derivano dalla trasmissione
ereditaria delle sostanze sotto la giurisdizione della forma: dunque il mondo
viene vissuto come regalato (nell’inconscio e durante l’infanzia questa
sensazione permane), e il progetto consiste in un’operazione di svelamento e di
perpetuazione. E, poiché la forma circoscrive l’oggetto, in esso è inclusa una
minuscola parte di natura, come nel corpo umano: l’oggetto è fondamentalmente
antropomorfico. Di conseguenza l’uomo è legato agli oggetti ambientali dalla
stessa intimità viscerale (mantenendo le dovute proporzioni) che lo lega agli
organi del proprio corpo, mentre la “proprietà” dell’oggetto tende continuamente
e potenzialmente al recupero della sostanza per annessione orale e
“assimilazione”.
Negli arredamenti moderni scorgiamo la fine di quest’ordine di Natura;
attraverso la rottura della forma, nella dissoluzione del limite formale interno-
esterno e di tutta la complessa dialettica dell’essere e dell’apparenza a essa
connessa, scopriamo rapporti e responsabilità oggettive qualitativamente diverse.
Il progetto vissuto di una società tecnica, è porre di nuovo in discussione l’idea
stessa di Genesi, è l’omissione delle origini, del senso dato e delle “essenze”, di
cui i buoni vecchi mobili erano ancora simboli concreti — calcolo e
concettualizzazione pratica sulla base di un’astrazione totale, idea di un mondo
non più dato, ma prodotto, — padroneggiato, manipolato, inventariato e
controllato: acquisito.10
Ma anche questo ordine moderno, specificamente diverso dall’ordine
tradizionale della procreazione, ha le proprie radici in una simbologia
fondamentale. Mentre la civiltà anteriore, basata sull’ordine naturale delle
sostanze, può essere ricondotta a strutture orali, è corretto vedere nel moderno
sistema di produzione, di calcolo e funzionalità, un ordine fallico, legato
all’impresa del superamento, della trasformazione del dato, un ordine di
emergenza verso strutture oggettive, ma anche un ordine della fecalità, fondato
sull’astrazione, di cui la quintessenza sarebbe la tendenza a istituire una materia
omogenea, sul calcolo e la frantumazione della materia, su un’aggressività anale
sublimata nel gioco, nel linguaggio, nell’ordine, nella classificazione, nella
distribuzione.
L’organizzazione, anche quando nell’impresa tecnica si pretende obiettiva,
rimane sempre contemporaneamente un potente registro di proiezione e di
investimento. La prova migliore è costituita dall’ossessione che spesso affiora
alle spalle del progetto organizzativo, e, nel nostro caso, dietro la volontà di
assestamento: occorre che tutto sia intercomunicante, funzionale — non più
segreti, misteri: tutto si organizza, dunque tutto è chiaro. Non esiste più
l’ossessione organizzativa tradizionale: ogni cosa pulita e al suo posto. Quello di
allora era un’ossessione morale: oggi è ossessione funzionale. La si spiega
rapportandola alla funzione della fecalità, che richiede un perfetto
funzionamento degli organi interni. Su questo punto si ergono le fondamenta per
una caratterologia della civiltà tecnica: se l’ipocondria è l’ossessione
puntualizzata sulla circolazione delle sostanze e sulla funzionalità degli organi
primari: in una certa misura si potrebbe definire l’uomo moderno, il cibernetico,
un ipocondriaco cerebrale, ossessionato dall’assolutezza della circolazione dei
messaggi.
Il colore tradizionale
Il colore “naturale”
Il colore “funzionale”
Il caldo e il freddo
La stessa analisi vale per i materiali. Il legno, per esempio, così ricercato oggi
per nostalgia affettiva: perché trae vita dalla terra, vive, respira, “lavora”. Ha un
suo calore latente, non riflette soltanto, come il vetro, brucia all’interno; nelle
sue fibre racchiude il tempo, è il recipiente ideale, poiché ogni contenuto è
qualcosa che si vorrebbe sottrarre al tempo. Il legno ha un suo odore, invecchia,
ha perfino parassiti, ecc. Insomma, il legno è un essere. In ciascuno di noi vive
l’immagine della “quercia massiccia” che evoca una teoria di generazioni, mobili
pesanti e case pregne di tradizioni familiari. Ma il “calore” di questo legno
(come pure delle pietre tagliate, o del cuoio naturale, o dei rami battuti, ecc.,
elementi, tutti, di un sogno materiale e materno che anche oggi alimentano una
nostalgia di lusso), ha oggi ancora senso?
Attualmente, ogni associazione organica e naturale ha praticamente trovato il
suo equivalente funzionale in sostanze plastiche e polimorfe:5 lana, cotone, seta
o lino hanno trovato il loro sostituto universale nel nailon o nelle sue
innumerevoli varianti. Legno, pietra, metallo, cedono il posto al cemento, alla
formica, ai polistiroli. Il problema non è negare questa evoluzione e sognare
idealmente la sostanza calda e umana degli oggetti di un tempo. La
contrapposizione sostanze naturali/sostanze sintetiche, proprio come
l’opposizione colore-tradizionale/colore-vivo, è soltanto una contrapposizione
morale. Oggettivamente le sostanze sono quelle che sono: non esistono sostanze
vere o false, naturali o artificiali. Perché mai il cemento dovrebbe essere meno
“vero” della pietra? Abbiamo a che fare quotidianamente con materie sintetiche
antiche come la carta che consideriamo assolutamente naturali; il vetro per
esempio, è una delle materie più ricche che esistano. In fondo, la nobiltà
ereditaria della materia vive soltanto per un’ideologia culturale analoga a quella
del mito aristocratico dell’ordine umano, e anche questo pregiudizio si spegne
col tempo.
L’importante è vedere, al di fuori delle immense prospettive pratiche che
questi nuovi materiali hanno aperto, in cosa abbiano modificato il “senso” dei
materiali.
Come il passaggio alle tonalità (calde, fredde o intermedie) significa uno
spostamento dello statuto morale dei colori verso un’astrazione che rende
possibile la sistematica e il gioco, così la fabbricazione di materiali sintetici
significa il loro slittamento dal simbolismo naturale verso un polimorfismo in
cui diventa possibile per questo livello di astrazione superiore un gioco
d’associazione universale dei materiali, e dunque un superamento
dell’opposizione formale materie-naturali/materie-artificiali: oggi non esiste
alcuna differenza tra un pannello di lana di vetro e uno di legno, tra cemento e
cuoio: valori “caldi” o valori “freddi”, valgono tutti nella misura in cui valgono i
materiali-elementi. Tali materiali, tra loro eterogenei, assumono omogeneità in
quanto segni culturali e possono istituirsi a sistema coerente. La loro astrazione
permette di combinarli a piacere.6
La logica dell’ambiente
L’analisi dei colori e dei materiali ci può portare fin d’ora a qualche
conclusione. L’alternanza sistematica di caldo e freddo in fondo definisce il
concetto stesso di “ambiente”, che è sempre alternativamente calore e distanza.
L’arredamento d’“ambiente” esiste perché tra gli esseri che l’abitano giochi la
stessa alternanza calore-non-calore, intimità-distanza, che tra gli oggetti che lo
compongono. Amico o parente, famiglia o cliente: è sempre necessario un certo
rapporto, che deve però restare mobile e “funzionale”: cioè deve essere possibile
in ogni momento, ma la soggettività deve risultarne risolta: i diversi tipi di
rapporto devono essere liberamente intercambiabili. Questo è il rapporto
funzionale, da cui il desiderio è (teoricamente) assente: è smobilitato a tutto
vantaggio di un ambiente.10 Qui comincia l’ambiguità.11
Le sedie
Culturalità e censura
Non soltanto per le sedie, ma per tutti gli oggetti la culturalità oggi è un
imperarivo, nella stessa misura in cui lo è il calcolo. Una volta, i mobili
accettavano la loro funzione. La funzione nutritiva e fondamentale della casa si
legge senza troppa difficoltà nelle tavole e nei buffet, pesanti, panciuti,
ipersignificanti a livello materno. Se per caso la loro funzione era tabu, venivano
eclissati in assoluto, come il letto nell’alcova. Perfino il letto centrale ostenta la
situazione coniugale (evidentemente non quella sessuale) borghese. Oggi il letto
sparisce: è diventato poltrona, divano, canapè, panca, oppure si nasconde in una
parete, non certo per divieto morale, ma per astrazione logica.14 La tavola
diventa bassa, decentrata, leggera. La cucina perde per intero la sua funzione
culinaria e diviene un laboratorio funzionale. E tutto ciò costituisce un
progresso, dal momento che l’ambiente tradizionale, nella sua schiettezza era
anche quello dell’ossessione morale e della difficoltà materiale di vita. Negli
appartamenti moderni siamo più liberi. Ma la situazione si sdoppia in un
formalismo più sottile che appartiene a una nuova morale: il suo significato
risiede nella transizione forzata dal mangiare, dormire e procreare al fumo, al
bere, al ricevimento, alla chiacchiera, allo sguardo, alla lettura. Le funzioni
viscerali perdono senso di fronte a quelle acculturate. Il buffet una volta
conteneva la biancheria, il vasellame, il cibo: oggi gli elementi funzionali sono
dedicati ai libri, ai soprammobili, al bar, al vuoto. La parola “raffinato”, che
insieme a “funzionale” è una delle parole chiave dell’arredamento moderno,
riassume molto chiaramente questo obbligo della cultura. Gli appartamenti
hanno sostituito ai simboli familiari gli indici di relazioni sociali. Non sono più
arredati secondo il gusto solenne degli affetti, ma secondo quello —
assolutamente rituale — della visita. Osservando da vicino gli oggetti e i mobili
contemporanei, si scopre che già conversano con le stesse capacità degli invitati,
che si intrecciano e si denudano con la stessa facilità — e che non occorre
lavorare per vivere.
La cultura ha sempre svolto il ruolo ideologico di appianamento, lo si sa:
sublimare le tensioni legate al regno delle funzioni, provvedere, al di là della
materialità e dei conflitti del mondo reale, al riconoscimento dell’essere in una
forma. Tale forma, che testimonia in favore e contro tutta una finalità e assicura
il ricordo vivente dell’avviluppamento fondamentale, diventa ancora più urgente
in una civiltà tecnologizzata. Come la realtà che riflette e disconosce lo stesso
tempo, la forma oggi si sistematizza: a una tecnicità sistematica, risponde una
culturalità sistematica. La culturalità sistematica a livello degli oggetti è ciò che
noi chiamiamo l’ambiente.
In luogo dello spazio continuo, ma limitato, che i gesti creano intorno agli
oggetti tradizionali durante il loro uso, gli oggetti tecnici istituiscono una
superficie discontinua e indefinita. La nuova distesa, dimensione funzionale, è
regolata dall’obbligo dell’organizzazione massimale, della comunicazione
ottimale. Per questo assistiamo, di pari passo con il progresso tecnologico, a una
miniaturizzazione sempre più ardita dell’oggetto tecnico.
Liberati dal riferimento all’uomo, a ciò che si potrebbe definire la “misura
naturale”, sempre più consacrati alla complessità dei messaggi, i meccanismi,
come il cervello e a sua immagine, tendono a un’irreversibile concentrazione
delle strutture, alla quintessenza del microcosmo.17 Dopo un periodo di
prometeica espansione di una tecnica che aspira a occupare il mondo e lo spazio,
siamo ormai nell’era di una tecnica che agisce sul mondo in profondità.
Elettronica, cibernetica: l’efficienza, liberata dallo spazio gestuale è ormai legata
alla saturazione della superficie minimale che regge uno spazio massimale senza
misura comune con l’esperienza sensibile.18
La potenza tecnica non può più essere mediata: non ha rapporto di comunanza
con l’uomo, e con il suo corpo. Non può più essere simbolizzata: le forme
funzionali possono soltanto connotare questa potenza. Nella loro coerenza
assoluta (aerodinamica, maneggevolezza, automatismo, ecc.) ipersignificano la
potenza ma contemporaneamente formalizzano il vuoto che ci divide: sono come
il rituale moderno di operazioni miracolose. Segno della nostra potenza, ma
contemporaneamente testimoni della nostra irresponsabilità nei loro confronti.
Superata la prima euforia meccanicista, è forse in questo ambito che occorre
cercare la ragione, della tetra soddisfazione tecnica dell’angoscia particolare che
nasce nei miracolati dell’oggetto, dell’indifferenza forzata, dello spettacolo
passivo della loro potenza. L’inutilità di alcuni gesti abituali, la rottura di ritmi di
vita quotidiana fondati sui movimenti finalizzati del corpo, hanno profonde
conseguenze a livello psicopatologico. Si è verificata una vera rivoluzione nella
vita quotidiana: gli oggetti sono diventati più complessi dei comportamenti degli
uomini relativi a tali oggetti. Gli oggetti sono sempre più differenziati, i nostri
gesti sempre più uniformi. Gli oggetti non sono più circondati da un teatro di
gesti di cui erano il copione da recitare; grazie alla loro forte finalità intrinseca,
oggi sono divenuti quasi gli attori di un processo globale di cui l’uomo è solo il
copione, o al massimo lo spettatore.
Possiamo citare, a mo’ di apologo, una storia curiosa. Avviene nel XVIII
secolo. Un illusionista che si intendeva a fondo delle tecniche di orologeria,
aveva costruito un automa. Era talmente perfetto, i movimenti erano così elastici
e naturali che gli spettatori, quando l’illusionista e il suo prodotto apparivano
insieme sulla scena, non riuscivano a capire quale dei due fosse l’uomo e quale
l’autonoma. L’illusionista fu costretto a meccanizzare i propri gesti, e per colmo
di raffinatezza artistica, rese più trasandata la sua figura per dare pepe allo
spettacolo, perché gli spettatori erano ormai troppo angosciati: non riuscivano a
capire quale fosse quello “vero”: sarebbe stato ancora più spettacolare se
avessero preso l’uomo per la macchina e la macchina per l’uomo.
Nella storia raccontata si può leggere quasi una illustrazione di un rapporto
fatale con la tecnica, sebbene nella realtà moderna non siano poi tanto
scroscianti gli applausi di un pubblico felice di essere stato preso in giro tanto
magistralmente. È l’illustrazione di una società in cui l’apparato tecnico sarà
tanto perfezionato che sembrerà un apparato gestuale “di sintesi” superiore
all’apparato gestuale tradizionale, quasi la proiezione sovrana di strutture
mentali perfette. Per il momento il gesto umano è ancora il solo che possa offrire
la precisione e la raffinatezza richieste da alcune attività. Ma nulla vieta di
pensare che la techne, con i suoi inarrestabili progressi, riesca a raggiungere uno
stadio di mimesis, in cui sostituisca al mondo reale e naturale, un mondo
costruito intelligibile. Se il simulacro è tanto ben simulato che diventa un
ordinatore efficiente della realtà, non è forse l’uomo, a questo punto, che fa
astrazione di se stesso nei confronti del simulacro? Già Lewis Mumford notava
(Tecnique et Civilisation p. 290): “La macchina porta alla eliminazione delle
funzioni che confina con la paralisi.” Non si tratta più di una ipotesi
meccanicistica, ma di una realtà vissuta: gli oggetti impongono un
comportamento discontinuo, una successione di gesti poveri, di gesti-segni, il cui
ritmo è svanito. È un po’ la situazione testimoniata dall’illusionista della nostra
storia, che di fronte alla perfezione della macchina da lui stesso creata, è
costretto a disarticolarsi e a meccanizzarsi. L’uomo è riportato all’incoerenza
dalla coerenza della sua proiezione strutturale. Di fronte all’oggetto funzionale
l’uomo diventa disfunzionale; irrazionale e soggettivo: una forma vuota e aperta
ai miti funzionali, alle proiezioni fantasmatiche legate alla stupefacente
efficienza del mondo.
Il mito funzionalista
Le automobili americane hanno per molto tempo sfoderato immense ali che
secondo V. Packard, nell’Art du gaspillage [The Waste Maker] (p. 282)
simbolizzano l’ossessione americana dei beni di consumo: ma le ali hanno altri
significati; appena liberato dalle forme dei veicoli precedenti e strutturato
secondo la propria funzione, velocemente l’oggetto automobile riesce soltanto a
connotare il risultato acquisito, a connotare se stesso come funzione vittoriosa.
Si assiste allora a un vero trionfalismo dell’oggetto: l’ala dell’automobile diventa
segno della vittoria sullo spazio, segno puro perché privo di rapporti con questa
vittoria (in realtà semmai la compromette, perché l’ala appesantisce l’automobile
e ne accresce l’ingombro). La mobilità tecnica e concreta si trasforma in
ipersignificato di fluidità assoluta. L’ala non è segno di velocità reale, ma
significa una velocità sublime, oltre ogni misura. Suggerisce un automatismo
miracoloso, una grazia: è la presenza stessa di quest’ala che,
nell’immaginazione, sembra spingere la automobile: che vola con le proprie ali,
mima un organismo superiore. Mentre il motore è l’efficiente reale, le ali sono
l’efficiente immaginario. La commedia dell’efficienza spontanea e trascendente
l’oggetto richiede tuttavia simboli naturali: l’automobile si camuffa con ali e
fusoliera che in altri casi sono elementi strutturali — ruba i segni dell’aeroplano,
oggetto-modello dello spazio; ruba i suoi segni alla natura: lo squalo, l’uccello,
ecc.
Ma oggi la connotazione naturale ha cambiato registro; una volta, per
naturalizzare gli oggetti, era il mondo vegetale che veniva corrotto, che
sommergeva gli oggetti, e perfino le macchine, di segni di prodotti della terra;25
oggi si delinea una sistematica della fluidità, che non cerca più le proprie
connotazioni nella terra e nella flora, elementi statici, ma nell’aria e nell’acqua,
elementi fluidi, e nella dinamica animale. La naturalità moderna, passata
dall’organico al fluido, resta pur sempre una connotazione di natura. L’elemento
astrutturale, inessenziale, come l’ala dell’automobile, connota sempre l’oggetto
tecnico naturalmente.
Lo connota perfino allegoricamente. Quando la struttura irrigidita viene
invasa dagli elementi astrutturali, quando il dettaglio formale invade l’oggetto, la
funzione reale diventa soltanto un alibi, e la forma significa soltanto Videa della
funzione: diventa allegorica. Le ali delle automobili sono le moderne allegorie.
Non abbiamo più muse e fiori, abbiamo ali di automobili e accendisigari levigati
dal mare. E il linguaggio inconscio parla proprio attraverso l’allegoria. Il
fantasma profondo della velocità si esprime nell’ala delle automobili, ma in
modo allusivo e regressivo. Se la velocità è una funzione fallica, l’ala lascia
intravedere solo una velocità formale, fissa, quasi commestibile visualmente.
Non è più termine di un processo attivo, ma di una gioia “in effigie” della
velocità — uno stato ultimo, passivo, di degradazione dell’energia a segno puro,
in cui il desiderio inconscio ripete senza fine un discorso statico.
La connotazione formale perciò equivale all’imposizione di una censura. La
simbologia fallica tradizionale si è disfatta dietro la realizzazione funzionale
delle forme: da una parte si astrae in un simulacro (il meccanismo nascosto, non-
leggibile), dall’altra, regressiva e narcisistica, si accontenta della copertura
formale e della funzionalità.
Si può vedere bene come le forme discorrano e a cosa tenda il loro linguaggio.
Relative le une alle altre e rinvianti di continuo nella loro stilizzazione a forme
analoghe, si danno quasi un linguaggio già conchiuso, realizzazione ottimale
dell’essenza dell’uomo e del mondo. Ma questo linguaggio non è mai innocente:
l’articolazione reciproca delle forme nasconde sempre un discorso indiretto. La
forma dell’accendisigari è relativa a quella della mano grazie al mare “che l’ha
levigato”, l’ala dell’automobile è relativa allo spazio percorso grazie all’aereo,
l’uccello ecc.: di fatto grazie all’idea del mare, all’idea dell’aereo e dell’uccello.
Così si intravede ovunque l’idea di Natura sotto forme molteplici (elementi
animali, vegetali, il corpo umano, lo stesso spazio),26 che si introduce
nell’articolazione delle forme. Nella misura in cui queste, costituendosi a
sistema, ricreano una specie di finalità interna, contemporaneamente si
connotano di natura poiché la natura rimane il riferimento ideale di ogni finalità.
Gli oggetti “volgari”, che si esauriscono nella loro funzione, non hanno questa
finalità. Al loro livello non si potrebbe parlare di atmosfera-ambiente, ma
semplicemente di ambiente. Si è voluto per molto tempo imporre loro una
finalità grossolana: le macchine da cucire sono state decorate di fiori, come
Cocteau e Buffet “vestivano” i frigoriferi. O, non potendo “naturalizzarle”, ci si
accontentava di velare la loro presenza. Così, dopo una fase abbastanza breve in
cui la macchina e la tecnica, fiere della loro emancipazione, sbandieravano in
modo osceno la loro praticità, il pudore moderno si applica con impegno a
nascondere la funzione pratica delle cose:
“Il riscaldamento al kerosene viene fornito da un’installazione assolutamente
invisibile.”
Il garage indispensabile deve evitare di imporsi visivamente, in qualunque
punto del giardino si trovi… È stato in questo caso nascosto in una capanna di
rocaille. Un giardino alpestre copre il tetto in cemento del locale, che comunica
con l’interno della casa attraverso una porticina nascosta nella rocaille…”
Naturalizzazione, inganno, sovrimpressione, arredamento: siamo circondati da
oggetti nei quali la forma interviene come falsa soluzione al modo
contraddittorio in cui l’oggetto è vissuto. Oggi l’arredamento diversificato ha
ceduto il posto a soluzioni più sottili. Ma la connotazione di natura, insita nel
linguaggio stesso delle forme, è sempre presente.
La naturalizzazione si carica spontaneamente di riferimenti morali e
psicologici. Il lessico pubblicitario in questo caso è sintomaticamente rivelatore;
una terminologia assolutamente emozionale: “calore”, “intimità”, “fascino,”,
“sincerità” — retorica dei valori “naturali” —, accompagna nel discorso
pubblicitario il calcolo delle forme e lo “stile funzionale”. Questo “calore”,
questa “sincerità”, questa “lealtà” sono molto espliciti in merito all’equivoco di
un sistema in cui traspaiono in quanto segni, esattamente con la stessa funzione,
dell’uccello, dello spazio, del mare, valori tradizionali perduti da lungo tempo
non si può assolutamente parlare di “ipocrisia”. Ma questo mondo sistematico,
omogeneo e funzionale di colori, materiali e forme in cui le pulsioni, il desiderio
e la forza esplosiva dell’istinto non solo sono negati,27 ma misconosciuti,
omessi, non è forse un mondo morale o ipermorale? Mentre l’ipocrisia moderna
non consiste più nel velare l’oscenità della natura, tende tuttavia (o cerca di
riuscire) a soddisfare se stessa con la naturalità inoffensiva dei segni.
1. L’assestamento come trattamento dello spazio diventa esso stesso elemento d’ambiente.
2. I colori “veggenti” vi guardano. Indossate un vestito rosso: sarete più che nudi, sarete un oggetto puro,
senza interiorità. È in rapporto allo statuto sociale d’oggetto della donna che il vestiario femminile tende
particolarmente verso i colori vivi.
3. È vero che ormai molte automobili non sono più nere: escluso il lutto o il cerimoniale ufficiale, la
civiltà americana non conosce più il nero (salvo poi rieintrodurlo come valore combinatorio).
4. Si veda più avanti.
5. Realizzazione almeno parziale del mito sostanzialista che, dal XVI secolo, s’iscriveva nello stucco e
nella demiurgia “mondana” del barocco: sciogliere il mondo intero in una materia già fatta. Il mito
sostanzialista è uno degli aspetti del mito funzionalista di cui si park altrove: è, sul piano della sostanza,
l’equivalente dell’automatismo a livello delle funzioni: un meccanismo che guiderà tutte le macchine
presiederà a tutti i gesti umani — instaurerà un universo di sintesi. Tuttavia il sogno “sostanziale” è
l’aspetto più primitivo, più regressivo del mito: è l’alchimia transustanziatrice, fase anteriore all’epoca
meccanica.
6. In questo risiede la fondamentale differenza tra la “quercia massiccia” e il legno di teck: non è la sua
origine, il suo esotismo o il prezzo che lo distinguono sostanzialmente, ma l’uso a fine d’ambiente, che
fa che non sia più precisamente una sostanza naturale primaria, densa e dotata di calore, ma un semplice
segno culturale di quel calore, e, in quanto segno, come tante altre sostanze “nobili”, reinvestito
all’interno del sistema dell’arredamento moderno. Non più legno-materia, ma legno-elemento. Non più
qualità di presenza, ma valore d’ambiente.
7. Legno tecnicamente molto più adatto al montaggio e all’impiallacciatura, questo è sicuro. Ma bisogna
dire anche che l’esotismo svolge in questo caso un ruolo molto simile a quello che svolge il concetto di
vacanze nei colori vivi: un mito d’evasione naturale. Ma, in fondo, l’essenziale è che a causa di tutto
questo, i legni suddetti siano “secondari”, mentre sono veicoli di un astrazione culturale e possono così
obbedire alla logica del sistema.
8. Tuttavia è segno di una sconfitta — ma integrata — del sistema. Cfr. su questo punto, più avanti:
“L’oggetto antico”.
9. L’ambiguità del vetro riemerge chiaramente quando si passa dall’habitat al consumo e al
condizionamento, in cui il suo uso diventa ogni giorno più diffuso. Anche a quei livelli il vetro ha ogni
virtù: difende il prodotto contro il contagio, lascia passare soltanto lo sguardo. “Contenitore bello che
lasci vedere” sembra la definizione ideale del condizionamento. Il vetro, adatto ad assumere ogni forma,
offre le sue illimitate possibilità all’estetica. Domani “vestirà” le primizie e le frutta, che grazie al vetro,
conserveranno la loro freschezza d’aurora. Avvolgerà della sua trasparenza la nostra bistecca
quotidiana. Invisibile e presente ovunque, risponderà alla definizione di una vita più bella e più chiara.
Inoltre, qualunque sia il suo destino, non potrà mai essere un rifiuto, perché non ha odore. È una
sostanza nobile. Tuttavia si invitano i consumatori a buttarlo via dopo l’uso: “senza resa”. Il vetro
abbellisce con il suo prestigio “indistruttibile” l’acquisto, ma deve essere distrutto immediatamente. C’è
forse una contraddizione? No: il vetro svolge perfettamente il proprio ruolo di elemento d’ambiente, ma
questo ambiente assume qui il suo senso economico preciso: è il condizionamento. Il vetro fa vendere, è
funzionale, ma deve essere consumato anche esso, e a ritmo accelerato. La funzionalità psicologica del
vetro (la trasparenza, la purezza) è ripresa totalmente e immersa nella funzionalità economica. Il
sublime gioca come motivazione di acquisto.
10. Perfino la sessualità, nella concezione moderna, soddisfa questo tipo di rapporto: diversa dalla
sensualità, che è calorosa e istintuale, la sessualità è calda e fredda: così diventa, invece di passione,
puro e semplice valore d’ambiente. Ma per questo diventa anche discorso, senza perdersi in effusione.
11. Nel sistema degli oggetti come in ogni sistema vissuto, le grandi opposizioni strutturali sono sempre in
realtà altro da questo: un’opposizione strutturale a livello di sistema può essere razionalizzazione
coerente di un conflitto.
12. Solamente di fronte al tavolo da pranzo le sedie assumono le loro funzioni e insieme una connotazione
contadina: ma è un processo culturale di riflesso,
13. O, molto semplicemente passivo: non bisogna dimenticare che nella pubblicità degli arredatori e
mobilieri moderni, l’imperativo attivo dell’assestamento, cede di fronte alla suggestione passiva del
rilassamento. Anche l’ambiente diviene ambiguo: è un concetto attivo e passivo. L’uomo funzionale è
stanco a priori. I milioni di sedie e poltrone di cuoio o di gommapiuma, ognuna più accogliente
dell’altra, che riempiono delle loro moderne virtù d’ambiente e rilassamento le pagine delle riviste di
lusso, altro non sono che l’immane invito della civiltà futura alla soluzione delle tensioni e all’euforia
sfogata del settimo giorno. L’intera ideologia di questa civiltà, lontana o incombente sui modelli, è
tuttavia presente in queste immagini di una modernità idillica come l’antico ovile, in cui l’abitante
contempla il suo ambiente dal fondo morbido della poltrona. Risolte le passioni, le funzioni, le
contraddizioni, con la sola possibilità di rapporti, di un sistema di rapporti la cui struttura può ritrovare
in un sistema di oggetti, avendo fatto nascere lo spazio intorno a lui e “creato” le possibilità molteplici
di integrazione degli elementi all’insieme dell’abitazione come di se stesso all’insieme sociale, avendo
inoltre ricostituito un mondo discolpato dalle pulsioni e dalle funzioni primarie, ma pregno di
connotazioni sociali di calcolo di prestigio, il nostro inquilino moderno, stanco dallo sforzo, ammazzerà
la noia nell’alveo di una poltrona che abbraccerà le forme del suo corpo.
14. A meno che non lo si reintroduca talmente connotato culturalmente che la sua oscenità ne viene
circoscritta: il letto centrale del XVIII secolo spagnolo (Ma su questo punto si veda più avanti:
“L’oggetto antico”.)
15. più esattamente, la gestualità dello sforzo non si è solamente esaurita nella gestualità del controllo: si è
semmai dissodata in una gestualità di controllo e in una gestualità di gioco. Il corpo, dimenticato dalla
vita attiva moderna, ma liberato dai suoi obblighi, trova nello sport e nelle attività fisico-ricreative una
possibilità reale di espressione, per lo meno una possibilità di compensazione del consumo (ci si può
domandare infatti se lo sdoppiamento della gestualità dello sforzo instauri una libertà reale del corpo, o
se invece non instauri più semplicemente un sistema bipolare di cui il secondo termine — in questo caso
lo sport — non è altro che il termine compensatorio del primo. Lo stesso processo avviene nello
sdoppiamento del tempo in tempo libero e tempo lavorativo).
16. Prendiamo l’esempio del fuoco: il “camino” svolgeva primitivamente le tre funzioni congiunte di
riscaldamento, cucina e illuminazione. Significa che era investito di una forte complessità simbolica. più
tardi la cucina economica, ormai un apparecchio, riunisce le due funzioni di riscaldamento e di cucina:
mantiene una certa presenza simbolica. Poi tutte le funzioni si separano analiticamente; si disperdono in
apparecchi spedalizzati, in cui la sintesi non è più quella, concreta, del “camino”, ma quella astratta
dell’energia che li alimenta (gas o elettricità). La dimensione simbolica di questo nuovo ambiente è
nulla, fondata come è sulla rottura funzionale di un ordine diverso.
17. Da questo deriva la fascinazione che esercita l’oggetto miniaturizzato: l’orologio, il transistor, la
macchina fotografica, ecc.
18. Questa tendenza alla miniaturizzazione può sembrare paradossale in una civiltà dell’espansione, della
spazializzazione. In effetti, ne rivela insieme il compimento ideale e una contraddizione. La civiltà
tecnologica è però anche la stessa delle angustie urbane, della mancanza di spazio. È sempre più, per
necessità quotidiane assolute (e non solamente per ragioni strutturali), una civiltà del compact. Esiste un
rapporto preciso tra il laser, il calcolatore elettronico, la micro-tecnica da una parte e la macchina
compatta, il gadget polifunzionale, l’appartamento “studiato” e il transistor dall’altra, ma il rapporto non
è necessariamente strutturale o logico. Il principio di organizzazione massimale che conduce alle
tecniche di miniaturizzazione ha la funzione parallela di mascherare (senza risolvere) una penuria
cronica di spazio a livello quotidiano. Le due funzioni non sono strutturalmente legate, sono
semplicemente coinvolte nel quadro dello stesso sistema. L’oggetto tecnico quotidiano, preso fra le due
diverse funzioni, non sa con precisione a quale corrisponda: a un progresso tecnologico
((miniaturizzazione) o a una degradazione del sistema pratico (mancanza di spazio)?
(Studiamo peraltro — “i voltafaccia della tecnica” — l’antagonismo tra un’evoluzione tecnologica
strutturale e le strettezze e manchevolezze che reggono il sistema vissuto.)
19. Come, nel regno dell’ambiente, si faceva soltanto allusione alla natura.
20. Il problema non è poetizzare lo sforzo o la gestualità tradizionale: quando si pensa che lungo l’arco dei
secoli l’uomo ha compensato con le proprie forze i limiti dei suoi strumenti tecnici che dopo gli schiavi
e i servi, i contadini e gli artigiani avevano ancora tra le mani oggetti che derivavano direttamente
dall’età delia pietra, si può soltanto applaudire all’astrazione delle fonti d’energia e, alla sparizione di
una gestualità che in fondo non era altro che quella della schiavitù. Oggi la “macchinalità senza anima”
(fosse anche a livello di macinino elettrico) permette finalmente di superare la esatta equivalenza del
gesto e del prodotto, in cui si esauriva il lungo sforzo passato, e di creare per il gesto umano un
sovraprodotto. Ma le conseguenze, ad altri livelli, non sono meno profonde.
21. Così si può dire che si integri agli oggetti grazie alla gestualità ciò che Piaget chiama gli “schemi
affettivi” paterni e materni, rapporto del bambino con il suo ambiente umano primario e primordiale: il
padre e la madre appaiono al bambino come strumenti circondati da altri strumenti secondari.
22. La casa materna classica, come è designata dai bambini, con le porte e le finestre, simbolizza
contemporaneamente i bambini stessi (un viso umano) e il corpo della madre. La scomparsa della casa
tradizionale a diversi piani, scala, soffitta e cantina, significa, come la scomparsa della gestualità, la
frustrazione di una dimensione simbolica della riconoscenza. Nella connivenza profonda, nella
percezione viscerale del nostro corpo siamo delusi dalla vita nell’attuale sistema: non troviamo più
molto dei nostri organi né dell’organizzazione somatica.
23. Occorre operare una distinzione tra questa mitologia e l’ideologia del Progresso. Per quanto astratta
possa essere, rimane sempre un’ipotesi sulle strutture che si fonda sulla evoluzione tecnica. Il mito
funzionalista invece è semplice presunzione di una totalità tecnica sulla fede dei segni. La prima è una
mediazione socioculturale (legata al XVIII e al XIX secolo), la seconda è un’anticipazione fantasmatica.
24. Le mitologie “naturali” vivono molto spesso in riferimento a un sistema culturale precedente, specie di
relais pseudo-storico nel processo di regressione verso una totalità mitica: di conseguenza, la mitologia
dell’artigianato pre-industriale implica il mito di una natura “funzionale”, e reciprocamente.
25. Solo la linea curva ha conservato parte della connotazione vegetale e materna — le curve tendono a
imporre agli oggetti valori organici di capacità, o di evoluzione naturale. Per questo stanno sparendo o
diventano ellissi.
26. In effetti anche lo spazio si connota in quanto vuoto: non nasce dall’interrelazione vivente delle forme
(spazio “ritmato”), ma sono invece le forme che diventano relative l’una all’altra attraverso il vuoto,
segno formalizzato dello spazio. In una casa in cui c’è spazio, c’è anche un effetto di Natura: “respira”.
La tentazione del vuoto nasce da questo: muri vuoti significheranno cultura e benessere. Si valorizza un
oggetto creandogli attorno del vuoto. L’ambiente spesso è soltanto una disposizione formale, in cui un
vuoto calcolato “personalizza” qualche oggetto. Al contrario, nella serie, la povertà di spazio distrugge
l’ambiente, privando gli oggetti di questo respiro lussuoso. Forse è legittimo leggere in questa
affettazione del vuoto il riflesso di una morale della distinzione e della distanza. Anche qui si verifica
un’inversione della connotazione tradizionale, quella delle sostanze piene, in cui il valore si iscriveva
nell’accumulo e nell’ostentazione ingenua.
27. Il rifiuto morale dell’istinto è segno di una promiscuità istintiva. In questo caso, la promiscuità non
esiste più: la natura in tutte le sue forme è significata e misconosciuta all’interno degli stessi segni.
III. CONCLUSIONE: NATURALITÀ E
FUNZIONALITÀ
1. Cultura e natura in questo caso si contrappongono solo sul piano formale mentre a livello di segni sono
intercambiabili: nei due concetti di “naturalità” e “culturalità”, ciò che importa è il suffisso. Abbiamo
trovato, e troveremo il suffisso in molte occasioni: fine-finalità, persona-personalità, e ancora più in là
storia-storialità, funzione-funzionalità (personalizzazione), ecc. che segna ovunque il passaggio al senso
astratto, secondo, a livello del segno, e che proprio per questo assume un’importanza essenziale
nell’analisi di ogni sistematica, ma più in particolare nello studio delle strutture delle connotazione.
2. Ma la cultura non è mai stata altro. Per la prima volta oggi abbiamo, a livello del quotidiano, le
premesse per un sistema capace di assumere, all’interno della sua astrazione, tutte le determinazioni
degli oggetti, cioè di spingersi molto lontano nel campo dell’autonomia interna, e di realizzare perfino
(ecco la sua finalità) una perfetta sincronìa tra l’uomo e l’ambiente per riduzione dell’uno e dell’altro a
segni ed elementi semplici.
APPENDICE: IL MONDO DOMESTICO E
L’AUTOMOBILE
Esiste dunque uno statuto specifico dell’oggetto antico, che nella misura in cui
introduce il tempo nell’ambiente o è vissuto come segno, non si distingue più da
altri elementi ed è relativo a tutti gli altri.3 Nella misura in cui invece presenta un
rapporto minimale con gli altri oggetti e si dà come totalità, come presenza
autentica, ha uno statuto psicologico speciale. È vissuto diversamente. Non
servendo a niente, serve profondamente a qualcosa. Dove nasce la potente
motivazione verso il mobile antico, verso il vecchio, l’autentico, l’oggetto di
“stile”, il rustico, l’artigianale, il manufatto, la ceramica indigena, il folclore?
Dove sorge il fenomeno di acculturazione che spinge i civilizzati verso segni
eccentrici, nel tempo e nello spazio, rispetto al loro sistema culturale, verso segni
sempre anteriori — fenomeno contrario a quello che spinge i “sotto-sviluppati”
prodotti e segni tecnici delle società industriali?
Gli oggetti antichi4 o di antiquariato rispondono a un’esigenza precisa, quella
di un essere definitivo, compiuto. La dimensione temporale dell’oggetto
mitologico è il passato: è ciò che esiste nel presente in quanto è già stato prima, e
che per questo è fondato su se stesso, “autentico”. L’oggetto antico è sempre, nel
pieno senso della frase, un “ritratto di famiglia”. Esiste sotto forma concreta di
oggetto, immemorializzazione di un essere precedente — processo che,
nell’immaginazione, equivale all’elisione del tempo. Questa caratteristica manca
evidentemente agli oggetti funzionali, che esistono solo nell’attualità,
all’indicativo, nella forma dell’imperativo pratico, che si esauriscono nell’uso
immediato senza essere esistiti in precedenza e che, anche se riescono, più o
meno bene, ad assicurare l’ambiente nello spazio, non lo assicurano tuttavia nel
tempo. L’oggetto funzionale è efficiente, l’oggetto antico è compiuto.
L’avvenimento compiuto che l’oggetto antico significa è la nascita. Io non sono
chi è attualmente, perché questo significa angoscia, sono chi è stato, secondo la
linea di una nascita invertita di cui questo oggetto è segno per me; l’oggetto si
tuffa dal presente nel tempo: regressione.5 L’oggetto antico in questo senso si dà
come origine.
L’“autenticità”
Gli oggetti antichi formano, nell’ambiente privato, una sfera ancora più
privata: sono meno oggetti di possesso che di intercessione simbolica, come gli
antenati — ma gli antenati sono “privatissime”. Sono evasione dalla
quotidianità, e l’evasione non è mai più radicale di quando si realizza nel
tempo,8 non è mai profonda come nell’infanzia. Può darsi che questa evasione
metaforica sia presente e viva in qualunque sentimento estetico, ma l’opera
d’arte in sé richiede una lettura razionale: l’oggetto antico non ha esigenze di
lettura, è “leggenda” perché è designato innanzi tutto dal suo coefficiente mitico
e di autenticità. Epoca, stili, modelli o serie, prezioso o no, vero o falso: niente di
tutto questo può apportare cambiamenti alla sua specificità vissuta: non è né vero
né falso, è “perfetto” — non è né esterno né interno, è un “alibi” — non è
sincronico né diacronico (non si inserisce in una struttura ambientale né in una
struttura temporale), è anacronistico — in relazione a chi lo possiede non è né
l’attributo di un verbo essere, né l’oggetto del verbo avere, ma si riallaccia
piuttosto alla categoria grammaticale dell’oggetto interno, che declina quasi
tautologicamente la sostanza del verbo.
L’oggetto funzionale è assenza di essere. La realtà è sconfitta nella
regressione verso la dimensione “perfetta” da cui, per essere, basta muoversi. Per
questo sembra così povero: qualunque siano il suo prezzo, le sue qualità, il suo
prestigio, configura la perdita del Padre e della Madre. Ricco di funzionalità e
povero di significanza, si riferisce all’attualità e si dissolve nella quotidianità.
L’oggetto mitologico, dalla minimale funzionalità e significanza massimale, si
riferisce all’ancestrale, o addirittura all’interiorità assoluta della natura. Sul piano
del vissuto, questi postulati contraddittori coestistono all’interno dello stesso
sistema in modo complementare. Capita così che l’architetto possieda
contemporaneamente il riscaldamento a kerosene e lo scaldaletto contadino. Ad
altri livelli possono coesistere i libri tascabili e l’edizione antica o rara della
stessa opera, la lavatrice elettrica e l’antica mestola della biancheria, l’armadio
funzionale incassato nel muro e la cassapanca spagnola a vista.9 Tale
complementarità è illustrata al limite dal doppio possesso, ora molto diffuso,
dell’appartamento in città e della casa di campagna.10
Questa dualità d’oggetti si verifica a livello della coscienza: è segno di una
sconfitta, e del tentativo di recupero all’interno delle modalità regressive. In una
civiltà in cui sincronia e diacronia tendono a organizzare un controllo
sistematico ed esclusivo del reale, compare (sia a livello degli oggetti che a
quello dei comportamenti e delle strutture sociali) una terza dimensione,
l’anacronia. Testimone di uno scacco relativo del sistema, la dimensione
regressiva trova tuttavia rifugio proprio all’interno del sistema, cui
paradossalmente permette di funzionare.
Il mercato dell’antico
Il neo-imperialismo culturale
1. Limitiamo la nostra analisi all’oggetto “antico” perché è l’esempio più chiaro dell’oggetto “non
sistematico”. Ma è evidente che l’analisi potrebbe essere condotta secondo gli stessi criteri a partire da
altre categorie di oggetti marginali.
2. Se la naturalità è disconoscimento della natura, la storialità è rifiuto della storia dietro l’esaltazione dei
suoi segni — presenza negata della storia.
3. Di fatto, l’oggetto antico si integra completamente nelle strutture d’ambiente, perché dove è presente, è
vissuto come “caldo” per contrapposizione al “freddo” dell’ambiente moderno.
4. E, per estensione, ancora una volta gli oggetti esotici: l’essere “all’estero” e la differenza di latitudine in
ogni caso comportano per l’uomo moderno un tuffo nel passato (Cfr. il turismo). Manufatti, oggetti
indigeni, ninnoli di ogni paese: la molteplicità pittoresca affascina meno dell’anteriorità delle forme e
dei sistemi costruttivi, dell’allusione a un mondo passato, sempre legato a quello dell’infanzia e dei
giocattoli.
5. Due moti contrapposti proprio perché si integra nel sistema culturale attuale, l’oggetto antico, dal
passato, significa nel presente la dimensione vuota del tempo. In quanto regressione individuale, al
contrario, è un moto del presente verso il passato per proiettare in esso la dimensione vuota dell’essere.
6. Si veda più avanti: “La collezione”.
7. La reliquia significa anche la possibilità di fermare la persona di Dio o l’anima dei morti in un oggetto.
E non c’è reliquia senza cornice. Il valore “scivola” dalla reliquia alla cornice, in oro, ne autentica il
valore e diventa in questo più efficace.
8. Il turismo assume dunque anche il duplice significato di ricerca del tempo perduto.
9. Non si debbono cercare correlazioni perfette e biunivoche: la frattura operata dagli oggetti moderni nel
campo funzionale è diversa da quella apportata dagli oggetti antichi. D’altro canto, la funzione degli
ultimi in questo caso non ha più il ruolo di funzione abolita.
10. Lo sdoppiamento dell’antica casa unica in residenza principale e residenza secondaria, in habitat
funzionale e habitat “naturalizzato” è senza dubbio l’esempio chiarificatore più evidente del processo
sistematico: il sistema si sdoppia per assumere un suo equilibrio fra termini formalmente contraddittori
e in fondo complementari. Gli ultimi agiscono sull’insieme della quotidianità, nella struttura lavoro-
svago, in cui lo svago non è un superamento, e nemmeno una conclusione della vita attiva, ma piuttosto
la stessa quotidianità che si sdoppia per potere, al di là delle contraddizioni reali, istituirsi come sistema
coerente e definitivo. Il processo è meno visibile a livello degli oggetti isolati, ma ogni oggetto-funzione
rimane tuttavia suscettibile di sdoppiamento, di opposizione formale a se stesso per una migliore
integrazione nell’insieme.
11. Anche nel bambino gli oggetti ambientali hanno orìgine primariamente dal Padre (e dalla madre fallica
nella prima età). L’appropriazione degli oggetti è appropriazione della potenza del Padre (R. Barthes
nota la stessa cosa per l’automobile: “Réalités”, ottobre 1963). L’uso dell’oggetto segue il processo di
identificazione con il Padre, con tutti i conflitti che ne discendono: è sempre ambiguo e pregno di
aggressività.
12. più si ascende nella scala sociale, più avviene questo fenomeno, ma tuttavia molto velocemente a partire
da un certo standing e da una “acculturazione” urbana minimale.
II. IL SISTEMA MARGINALE: LA COLLEZIONE
Tra le altre accezioni dell’oggetto, Littré dà anche questa: “Tutto ciò che è
causa e soggetto di una passione. In senso figurato e per eccellenza: l’oggetto
amato.”
Ammettiamo che gli oggetti quotidiani siano veramente oggetti di una
passione, la passione della proprietà privata, il cui investimento affettivo non è
inferiore a quello delle passioni umane, una passione quotidiana che spesso
supera le altre, che a volte regna solitaria in assenza di altre. Di questa passione
temperata, diffusa e regolatrice non riusciamo a misurare precisamente il ruolo
fondamentale nell’equilibrio vitale del soggetto e del gruppo, nella direzione
stessa della vita. In questo senso gli oggetti sono, al di fuori della esperienza che
ne abbiamo, e in una situazione data, qualcosa di non intimamente relativo al
soggetto, non soltanto un corpo materiale che oppone resistenza, ma uno spazio
mentale chiuso in cui io regno, una cosa di cui io sono senso, proprietà, passione.
Se uso il frigorifero per produrre freddo, opero una mediazione pratica: non è
un oggetto, ma un frigorifero. In questo senso, non lo posseggo. Il possesso non
coinvolge uno strumento, che rinvia al mondo esterno, ma coinvolge l’oggetto
astratto dalla sua funzione e divenuto relativo al soggetto. A questo livello, tutti
gli oggetti posseduti partecipano della stessa astrazione e rimandano l’uno
all’altro nella misura in cui rimandano soltanto al soggetto. Assurgono dunque a
sistema grazie a cui il soggetto cerca di ricostituire un mondo, una totalità
privata.
Ogni oggetto ha dunque due funzioni: la prima è l’essere pratico, la seconda
l’essere posseduto. Quella dipende dal campo di totalizzazione pratica del
mondo attraverso il soggetto, questa da un’impresa di totalizzazione astratta del
soggetto attraverso se stesso e al di fuori del mondo. Le due funzioni sono in
rapporto reciprocamente inverso. Al limite, l’oggetto strettamente pratico
assume una definizione sociale: la macchina. Al contrario, l’oggetto puro, privo
di funzioni, o astratto dal suo uso, assume uno statuto strettamente soggettivo:
diventa oggetto da collezione. Cessa di essere tappeto, tavola, o bussola o
giocattolo, per diventare “oggetto”. Uno “splendido oggetto”, dirà il
collezionista, e non una bella statua. Dal momento in cui l’oggetto non è più
definito dalla sua funzione, è qualificato dal soggetto: ma in questo caso tutti gli
oggetti si equivalgono nel possesso, astrazione densa di passione. Non ne basta
più uno solo: è sempre una serie di oggetti, al limite una serie totale, che diventa
progetto compiuto. Per questo il possesso di un oggetto, qualunque sia, è sempre
allo stesso tempo fonte di soddisfazione e di delusione: una serie completa lo
dilata e lo turba. Si può istituire un rapporto con la sfera della sessualità: mentre
il rapporto d’amore si realizza nella singolarità, il possesso amoroso (sessuale) in
quanto tale, si soddisfa soltanto in una successione di oggetti o nella ripetizione
dello stesso, o invece nella ipotesi di tutti gli oggetti. Soltanto un’organizzazione
più o meno complessa di oggetti che rimandano l’imo all’altro determina il
singolo oggetto in un’astrazione sufficiente perché possa essere recuperato dal
soggetto nell’astrazione vissuta, cioè nel sentimento di possesso.
Questo tipo di organizzazione è la collezione. Lo ambiente tradizionale
mantiene uno statuto ambiguo: il funzionale si dissolve continuamente nel
soggettivo, il possesso si confonde con l’uso, in un tentativo sempre deluso di
integrazione totale. La collezione invece può servirci da modello: in essa trionfa
la tensione appassionata verso il possesso, dove la prosa quotidiana degli oggetti
diventa poesia, discorso incosciente e trionfale.
L’oggetto-passione
“Il gusto della collezione è una specie di gioco passionale.” (Maurice Rheims,
La Vie étrange des objets, p. 28). Nel bambino si attua la modalità più
rudimentale di dominio sul mondo esterno: assestamento, classificazione,
manipolazione. La fase attiva della collezione sembra situarsi tra i sette e i dodici
anni, nel periodo di latenza tra la prepubertà e la pubertà. Il gusto della
collezione tende a sparire nella fase puberale, per rinascere spesso subito dopo.
più tardi, sono spesso uomini sopra i quarant’anni a essere travolti da questa
passione. In breve: è chiaramente leggibile un rapporto con la situazione
sessuale; la collezione appare come potente compensazione durante le fasi
critiche dell’evoluzione sessuale. Esclude sempre una sessualità genitale attiva,
ma non vi si sostituisce in modo puro e semplice. Costituisce invece una
regressione verso lo stadio anale, che si concretizza in comportamenti di
accumulazione, di ordine, di retenzione aggressiva. Il comportamento
collezionante non equivale alla pratica sessuale, non realizza una soddisfazione
delle pulsioni (come il feticismo), tuttavia può raggiungere una soddisfazione di
reazione altrettanto intensa. L’oggetto assume fino in fondo il senso dell’oggetto
amato. “La passione dell’oggetto porta a considerarlo come una cosa creata da
Dio: un collezionista di uova di porcellana pensa che Dio non abbia creato forme
altrettanto belle o più strane, e che le abbia immaginate per la gioia pura dei
collezionisti…” (M. Rheims, op. cit., p. 33). “Questo oggetto mi piace alla
follia”, dichiarano i collezionisti tutti e senza eccezione quando addirittura non
interviene la perversione feticistica per cui creano intorno alla collezione
un’atmosfera di clandestinità, di sequestro, di segreto e di menzogna che ha tutte
le caratteristiche di un rapporto colpevolizzato. Il gioco appassionato rende
sublime questa condotta regressiva e giustifica l’opinione secondo cui chiunque
non collezioni qualche cosa è soltanto un cretino o un misero relitto umano.1
Il collezionista non è sublime grazie alla natura degli oggetti che colleziona
(che variano a seconda dell’età, della professione, o della condizione sociale),
ma grazie al suo fanatismo. Fanatismo che è identico nel ricco appassionato di
miniature persiane come nel collezionista di scatole di fiammiferi. La diversità
che si può notare tra il primo e il secondo (quello ama gli oggetti in funzione
della serie, questo per il fascino diverso e irripetibile di ogni oggetto) non è
decisiva. La gioia che li accomuna deriva dal fatto che il possesso da una lato
gioca sulla singolarità assoluta di ogni elemento, che per ciò diventa un essere, e
in fondo del soggetto stesso — d’altro lato — fa leva sulla possibilità della serie,
cioè della sostituzione indefinita e del gioco. Quintessenza qualitativa,
manipolazione quantitativa. Il possesso è fatto di confusione di sensi (della
mano, dell’occhio), di intimità con un oggetto privilegiato, ma anche di ricerca,
ordine, gioco e riunione. Insomma, aleggia un’atmosfera da harem, in cui il
fascino risiede nella serie intima (in cui esiste sempre un elemento privilegiato) e
nell’intimità seriale.
Padrone di un serraglio segreto, l’uomo è in mezzo ai suoi oggetti in assoluto.
Il rapporto umano, campo dell’unico e del conflittuale, non permette mai la
coesistenza della singolarità assoluta e della serie indefinita: per questo il
rapporto umano è fonte continua di angoscia. Il campo degli oggetti invece è
fonte di sicurezza, in quanto è campo di termini successivi e omogenei. A costo
di un’astuzia irreale — astrazione e regressione — è chiaro, ma cosa importa?
“L’oggetto è per l’uomo una specie di cane insensibile che riceve le carezze e le
rende a modo suo, o piuttosto le rimanda come uno specchio fedele non alle
immagini reali, ma alle immagini desiderate.” (M. Rheims, op. cit., p. 50).
Il più bell’animale domestico
L’immagine del cane è giusta: gli animali domestici sono una specie
intermedia tra gli uomini e gli oggetti. Cani, gatti, uccelli, tartarughe o canarini:
la loro presenza patetica è indice di un fallimento del rapporto umano e del
ricorso a un universo domestico narcissistico, in cui la soggettività può
realizzarsi in piena tranquillità. Si noti tra l’altro che gli animali non hanno sesso
(spesso sono castrati per tranquillità domestica), sono tanto privi di sesso quanto
gli oggetti, sebbene siano esseri viventi; solo a questa condizione possono essere
tranquillizzanti sul piano affettivo, cioè attraverso una castrazione reale o
simbolica possono diventare elementi catalizzanti dell’angoscia castratoria dei
proprietari, ruolo peraltro che assumono tutti gli oggetti che ci circondano.
L’oggetto, infatti, è l’animale domestico per eccellenza. È l’unico “essere” le cui
qualità esaltano la mia persona invece di frustrarla. Al plurale, gli oggetti sono le
sole realtà esistenti che riescano a coesistere veramente, poiché le loro differenze
non li pongono gli uni contro gli altri, come accade tra gli uomini o gli esseri
viventi, ma convergono invece docilmente verso l’io e si sommano senza alcuna
difficoltà nella coscienza. L’oggetto è ciò che meglio si lascia “personalizzare” e
registrare ad un tempo. E per contabilità soggettiva, non esiste nulla di esclusivo;
ogni cosa può essere posseduta, investita, o, nel gioco della collezione, assestata,
classificata, distribuita. L’oggetto è uno specchio, letteralmente: le immagini che
riflette si susseguono senza contraddizioni. È uno specchio perfetto, perché non
riflette immagini reali, ma desiderate. È un cane la cui unica qualità è la fedeltà.
Posso guardarlo senza che lui mi guardi. Ecco perché tutto ciò che non si è
riusciti a investire nei rapporti umani, viene investito negli oggetti. Per questo
l’uomo regredisce in essi tanto volentieri, per “raccogliersi”. Ma non lasciamoci
ingannare da questo raccoglimento o dalla letteratura che tratta di oggetti
inanimati. Il raccoglimento è una regressione, la passione è una fuga
appassionata. È fuori di dubbio che gli oggetti abbiano un ruolo regolatore nella
vita quotidiana, che in essi si sublimino molte nevrosi, si raccolgano molte
tensioni e energie in lutto; questo dà loro un’anima, li rende “nostri”, ma li fa
anche orpello di una mitologia tenace, ornamento ideale di un equilibrio
nevrotico.
Un gioco seriale
Ogni oggetto si trova a metà strada tra una specificità pratica, la sua funzione,
che è quasi il suo linguaggio manifesto, e l’assorbimento di una serie/collezione,
in cui diventa termine di un linguaggio latente, ripetitivo, estremamente
elementare e tenace. Il sistema discorsivo degli oggetti è analogo a quello delle
abitudini.5
L’abitudine è discontinuità e ripetizione (e non continuità, come suggerirebbe
l’uso). Attraverso la ripartizione del tempo nei nostri “schemi” abituali
risolviamo l’angoscia che la continuità e la singolarità assoluta degli
avvenimenti comportano. Così grazie alla integrazione discontinua all’interno di
serie disponiamo, possediamo oggetti. Lo stesso discorso è possibile per la
soggettività e gli oggetti ne sono un registro privilegiato, interpongono tra il
divenire irreversibile del mondo e noi uno schermo discontinuo, classificabile,
reversibile, ripetitivo a piacere, una sezione del mondo che ci appartiene, docile
alla mano e allo spirito, liberatoria dall’angoscia. Gli oggetti non aiutano
soltanto a dominare il mondo con la loro inserzione all’interno di serie
strumentali, ma aiutano anche, con l’inserzione all’interno di serie mentali, a
dominare il tempo, rendendolo discontinuo e classificandolo secondo le stesse
modalità delle abitudini, sottomettendolo ai limiti di associazione che regolano
l’assestamento nello spazio.
L’orologio è un ottimo esempio di questa funzione di inserimento nel
discontinuo e nell’“abituale”.6 Riassume in sé la duplice modalità secondo cui
viviamo gli oggetti. Da un lato fornisce informazioni sul tempo oggettivo:
l’esattezza cronometrica tuttavia è la dimensione delle limitazioni pratiche,
dell’esteriorità sociale e della morte. Mentre sottomette a una temporalità
irriducibile, l’orologio in quanto oggetto favorisce la appropriazione del tempo.
L’automobile “divora” i chilometri come l’oggetto-orologio divora il tempo.7
Dando sostanza e frazionando il tempo, lo rende un oggetto consumabile. Il
tempo non è più dimensione pericolosa della prassi; è una quantità
addomesticata. Non soltanto il fatto di sapere l’ora, ma il fatto, grazie a un
oggetto proprio, di “possedere” l’ora, di averla continuamente registrata addosso
a sé, è diventato un alimento fondamentale dell’uomo civilizzato: una sicurezza.
Il tempo non è più a casa, nel cuore pulsante della pendola, ma è sempre
nell’orologio da polso, registrato con la stessa soddisfazione organica della
regolarità degli intestini. Con l’orologio il tempo segnala se stesso come
dimensione della mia oggettivizzazione, e come bene domestico. Molti altri
oggetti potrebbero convalidare questa analisi del recupero della dimensione
stessa della limitazione oggettiva: l’orologio, grazie al rapporto diretto che
istituisce con il tempo, ne è l’esemplificazione più chiara.
Sul filo del processo di regressione, la passione degli oggetti raggiunge il suo
compimento nella gelosia pura. Il possesso trova la sua più profonda
soddisfazione nel valore che l’oggetto potrebbe avere per gli altri, e nella propria
possibilità di frustrarli. Il complesso della gelosia, caratteristico del fanatismo
collezionistico, coinvolge anche, con le dovute proporzioni, il semplice riflesso
di proprietà. Ciò che spinge a sottrarre la bellezza per potere essere i soli a
goderne, è un’evidente pulsione di tipo sadico-anale: un comportamento
perverso sul piano sessuale è largamente diffuso nel rapporto istituito con gli
oggetti.
Cosa significa l’oggetto sottratto? (Il suo valore oggettivo passa in secondo
piano di fronte alla reclusione, origine primaria del suo fascino.) Se non si presta
ad altri l’automobile, la penna stilografica, la moglie, è perché tali oggetti sono,
sul piano della gelosia, l’equivalente narcissistico dell’io: se l’oggetto si perde,
se viene deteriorato, è la castrazione. Non si presta il proprio pene, ecco il vero
problema. Il geloso sottrae agli altri, sequestra per tenere solo per sé, mascherata
sotto le apparenze di un oggetto, la propria libido, che cerca di soffocare in un
sistema di reclusione — lo stesso sistema grazie a cui la collezione risolve
l’angoscia della morte. Castra se stesso nell’angoscia della propria sessualità, o
piuttosto anticipa, con una castrazione simbolica — il sequestro — l’angoscia
della castrazione reale.9 Da questo disperato tentativo nasce la gioia perversa
della gelosia. Si è gelosi di se stessi, sempre. Si osserva, si sorveglia, si gode di
se stessi.
La gioia della gelosia ha radici evidenti nella delusione assoluta, poiché la
regressione sistematica non riesce mai a nascondere totalmente la coscienza del
mondo reale e del fallimento di un comportamento così strutturato. Lo stesso si
può dire della collezione: la sua potenza è precaria, dietro ad essa si profila la
sovranità del mondo reale, che la minaccia di continuo. La delusione tuttavia fa
parte del sistema. Insieme alla soddisfazione lo rende mobile — poiché la
delusione non rimanda mai al mondo, ma ad un termine ulteriore, delusione e
soddisfazione si alternano nel ciclo. Talvolta l’imballarsi nevrotico del sistema è
dovuto alla delusione costitutiva. La serie gira sempre più vorticosamente su se
stessa, le differenze si smussano e il meccanismo di sostituzione accelera. In tale
modo il sistema può giungere fino alla distruzione, che è autodistruzione del
soggetto. M. Rheims cita il caso di “uccisioni” violente di collezioni, specie di
suicidio dettato dall’impossibilità di non riuscire mai a circoscrivere la morte.
Nel sistema della gelosia, non è raro il caso in cui il soggetto finisca per uccidere
l’oggetto o l’essere sequestrato, per la sensazione dell’impossibilità di
contrastare totalmente l’avversità del mondo e la propria sessualità. È la fine
logica e illogica della passione.10
Un linguaggio chiuso
1. M. Fauron, presidente della lega dei collezionisti di etichette di sigaro (rivista “Liens” del Club français
du Livre, maggio 1964).
2. Ma anche la sua delusione, legata al carattere tautologico del sistema.
3. La serie è quasi sempre una specie di gioco che pone in posizione privilegiata uno dei termini e lo
assume a modello. Un bambino lancia dei tappi di bottiglia: quale vincerà? Non è certo un caso se, alla
fine, sarà sempre lo stesso a vincere. Il bambino inconsciamente ha puntato su uno. Il modello, la
gerarchia che inventa è il bambino stesso: si identifica non con un tappo preciso, ma addirittura al fatto
che quello vinca ogni volta. Tuttavia è presente in ognuno dei tappi come termine non segnato della
contropposizione: lanciarli a uno a uno, è giocare a diventare seri e per assumere se stesso a modello:
quello che vince. Secondo queste linee si chiarisce anche la psicologia del collezionista: raccogliendo
gli oggetti privilegiati, alla fine chi domina la gara è sempre il collezionista.
4. Ogni termine della serie può diventare il termine finale: ogni Callot può essere quello “che porterebbe a
compimento Callot”.
5. L’oggetto diventa allora supporto immediato di un ventaglio di abitudini, punto di cristallizzazione di
comportamenti regolarizzati. Mentre non può esserci abitudine che non ruoti attorno a un oggetto. Gli
uni e gli altri sono coinvolti inestricabilmente nell’esistenza quotidiana.
6. In ogni caso è particolarmente significativo — si pensi alla sparizione dell’orologio a pendolo — di una
tendenza irreversibile dell’oggetto moderno: miniaturizzazione e individualizzazione.
7. Qui l’esattezza è l’equivalente della velocità nello spazio: si deve divorare il tempo.
8. Il racconto di Tristan Bernard, che segue, dimostra in modo divertente come la collezione sia un gioco
con la morte (una passione) e in questo senso simbolicamente più forte della morte stessa: Un uomo
faceva collezione di bambini: legittimi, illegittimi, di primo o di secondo letto, adottivi, trovatelli,
bastardi ecc. Un giorno organizza una festa in cui li riunisce tutti. Un amico cinico gli dice allora: “Ne
manca uno.” Il collezionista, colto da angoscia, “Quale?” — “Il figlio postumo.” Il collezionista mise
incinta sua moglie e si suicidò.
Si ritrova lo stesso sistema allo stato puro, e sbarazzato dagli elementi tematici, nel gioco d’azzardo. È
comprensibile il fascino ancora più intenso che esercita. La purezza oltre la morte, la soggettività pura si
inseriscono qui investendo la serie pura del dominio immaginario con in più la certezza che nulla,
perfino all’interno delle vicissitudini del gioco, ha il potere di reimmettere le condizioni reali della vita e
della morte.
9. Il discorso vale anche per gli animali “da salotto” e per estensione per l’“oggetto” del rapporto sessuale,
in cui la manipolazione nella gelosia è dello stesso tipo.
10. Bisogna stare attenti a non confondere la delusione, impulso interno al sistema regressivo e seriale, con
la mancanza, di cui si parla più avanti, che invece è un fattore di emergenza al di fuori del sistema.
Deluso, il soggetto continua a restare sempre più coinvolto nel sistema; grazie alla mancanza invece,
evoluisce (relativamente) verso il mondo.
11. Al limite, i capelli, i piedi e, sull’onda della regressione, ancora più in là nel particolare e
nell’impersonale, fino al quid che il feticismo cristallizza, agli antipodi dell’essere vivente, nella
giarrettiera e nel reggiseno: si ritrova l’oggetto materiale, il cui possesso è caratterizzato dalla
eliminazione totale della presenza dell’altro.
12. Ecco perché la passione in questo caso è rimandata al feticcio, che semplifica in modo radicale l’oggetto
sessuale vivente e lo vive come una cosa equivalente al pene, investito in quanto tale.
13. Nella misura in cui l’essere vivente può essere sentito come asessuato (il bebé) può avere luogo
l’identificazione possessiva: “Mi fa male la testa?” si dice al bebè. O anche, “Abbiamo male alla nostra
testolina?” L’identificazione confusionale si blocca di fronte all’essere sessuato per l’angoscia della
castrazione.
14. La distinzione tra soddisfazione seriale e piacere puro è fondamentale. Nel secondo caso esiste un
piacere del piacere, in cui la soddisfazione supera se stessa come pura soddisfazione e si fonde in una
relazione. Mentre nella soddisfazione seriale il secondo termine del piacere, la dimensione attraverso cui
si definisce, sparisce del tutto, manca, viene frustrata: la soddisfazione viene rimandata alla successione,
proietta in superficie e compensa con la ripetizione una totalità irreperibile. Si comincia allora a
comprare sempre più libri proprio al momento in cui si smette di leggere. L’atto sessuale è ripetuto,
ovvero i vari pariners sostituiscono indefinitamente la fine della scoperta amorosa. Il piacere del piacere
è finito. Resta la soddisfazione. Le due sensazioni si escludono reciprocamente.
15. Ma anche in questo caso il collezionista ha la tendenza a non richiedere la presenza degli altri se non in
quanto testimoni della sua collezione, e li integra soltanto in quanto terzi in un rapporto già istituito tra il
soggetto e l’oggetto.
16. Al contrario della scienza e della memoria, per esempio, che sono anch’esse collezioni, ma collezioni di
fatti, di conoscenze.
C. IL SISTEMA META E DISFUNZIONALE:
GADGETS E ROBOTS
Analizzati gli oggetti nella loro sistematizzazione oggettiva (l’assestamento e
l’ambiente), e nella loro sistematizzazione soggettiva (collezione), si deve ora
indagare il campo delle connotazioni, cioè dei loro significati ideologici.
La trascendenza “funzionale”
Pseudo-funzionalità: l’aggeggio
Metafunzionalità: il robot
1. Per questo punto si rimanda all’analisi della retorica delle forme (“Valori d’ambiente: le Forme”) e, sul
piano sociologico al capitolo “Modelli e serie”.
2. Così, nell’ambito delle forme, l’“ala” dell’automobile connota la velocità nell’assoluto, e secondo
un’evidenza formale.
3. È evidente che sussìstono alcune resistenze: una certa personalizzazione “eroica” della guida per
esempio rifiuta il cambio automatico, ma tale “eroismo” è destinato, volenti o nolenti, a sparire.
4. Anche l’oggetto meccanico vi risponde ancora; per questo l’automobile, pur nella sua funzione di
veicolo, non ha smesso di essere a immagine dell’uomo. Linee, forme, organizzazione interna, tipo di
propulsione, carburante — non ha mai smesso di rinnegare ogni tipo di possibilità strutturale per
ubbidire ai dettami della morfologia, del comportamento e della psicologia umana.
5. Sulla questione della personalizzazione, si confronti più avanti: “Modelli e serie”. L’automatismo è
tuttavia immerso nelle motivazioni della moda e nei calcoli produttivi: un ancorché minimo sovrappiù
di automatismo è il modo migliore per declassare intere categorie di oggetti.
6. È tuttavia sempre necessaria una minima quantità di incidenza pratica reale per fungere da alibi alla
proiezione immaginaria.
7. In un mondo di apparecchi miniaturizzati, muti, immediati e impeccabili, l’automobile rimane pur
sempre il grande oggetto spettacolare, per la presenza molto viva del motore e della guida.
8. In questo risiede il suo limite: una macchina in grado di costruire una macchina identica a se stessa è
tecnicamente impensabile. Costituirebbe il colmo dell’autonomia, che si risolve sempre in tautologia.
Ma l’immaginazione non può giungere a tanto se non a prezzo di una regressione magica e infantile che
accetta perfino il livello della duplicazione automatica (scissiparità). Una macchina simile sarebbe
anche il colmo dell’assurdo: se la sua unica funzione fosse quella di riprodurre se stessa, potrebbe
contemporaneamente pelare i piselli? L’uomo non ha come unica funzione la riproduzione.
L’immaginazione non è follia: continua a mantenere una discriminante tra l’uomo e il suo doppio.
9. Citeremo nuovamente l’apologo del robot del XVIII secolo (Cfr. supra: “Il Mito funzionale”) in cui
l’illusionista, con enorme maestria artistica rende meccanici i propri gesti e trasforma i propri
atteggiamenti leggermente, per dare ancora senso allo spettacolo: la gioia che deriva dal notare
differenze tra il robot e l’uomo. Gli spettatori avrebbero provato un’angoscia troppo forte non riuscendo
a capire quale era il “vero”. E l’illusionista sapeva molto bene che più importante della perfezione del
suo automa era la differenza tra i due, e che sarebbe stato ancora meglio se la gente avesse preso la
macchina per l’uomo e l’uomo per la macchina.
10. Si veda più avanti: “Modelli e serie”.
11. La responsabilità del capitalismo è evidentemente decisiva per un periodo definito. Oltre una certa
soglia di evoluzione tecnica e di diffusione di beni e prodotti, le cose sono meno chiare.
12. Ugualmente si può pensare che il cinema e la TV abbiano solo sfiorato le immense possibilità concrete
di “cambiare la vita”. “Nessuno si meraviglia che il cinematografo sia stato concepito, sino dalla
nascita, in modo radicalmente sviante dai suoi fini apparenti, tecnici e scientifici, per essere afferrato
dallo spettacolo e diventare cinema… Lo slancio del cinema ha atrofizzato sviluppi che avrebbero
potuto sembrare assolutamente naturali.” (Edgar Morin, Le Cinema ou l’Homme imaginaire, p. 15).
L’autore dimostra anche come la lentezza dello sviluppo di questo mezzo tecnico (sonorizzazione,
colore, rilievo) sia connessa allo sfruttamento del cinema-consumo.
13. È la leggenda dello Studente di Praga. La sua immagine si stacca dallo specchio, si materializza in una
copia identica che lo ossessiona (come un patto col diavolo). Lo studente viene privato della sua
immagine speculare, ma ossessionato da essa diventata un altro se stesso. Un giorno, in cui il suo
doppio si trova, come nella scena primigenia, frapposto tra lui e lo specchio, gli spara e lo uccide: ma, è
chiaro, ha ucciso se stesso, poiché il suo doppio l’ha privato di realtà. Tuttavia, prima di morire, ritrova
la propria immagine reale nei cocci dello specchio frantumato.
14. Questo è stato chiamato da Morin il nichilismo del consumo.
D. IL SISTEMA SOCIO-IDEOLOGICO DEGLI
OGGETTI E DEL CONSUMO
I. MODELLI E SERIE
La scelta
Nessun oggetto è offerto al consumo in un tipo unico. Ciò che può venirci
rifiutato è la possibilità materiale di comprarlo. Ma la scelta offerta “a priori”
nella società industriale come grazia collettiva e come segno di libertà formale.
La “personalizzazione” poggia su questa disponibilità.5 Nella misura in cui al
compratore viene offerto un ventaglio di possibilità, questi supera la stretta
necessità dell’acquisto e si impegna personalmente. D’altra parte non è rimasta
nemmeno più la possibilità di non scegliere e di comprare un oggetto
semplicemente in funzione del suo uso — nessun oggetto si propone oggi al
“grado zero” dell’acquisto. Volenti o nolenti si è costretti a far parte di una
sistema culturale proprio dalla libertà che ci è offerta nella scelta. La scelta è
dunque speciosa: se la viviamo come libertà, sentiamo meno pesantemente che
ci è imposta in quanto tale, e che proprio attraverso di essa la società globale si
impone. Scegliere una o l’altra automobile forse personalizza l’individuo, ma
proprio questo fatto, la scelta, lo assegna all’ordine economico. “Il solo fatto di
scegliere questo o quell’oggetto per distinguersi dagli altri è in se stesso un
servizio sociale” (Stuart Mill). Moltiplicando gli oggetti, la società sposta su di
essi la facoltà di scelta e neutralizza così il pericolo che per essa le esigenze
personali costituiscono sempre. Diventa chiaro che la nozione di
“personalizzazione” è molto di più di un semplice argomento pubblicitario: è un
concetto ideologico fondamentale di una società che tende a integrare sempre
più gli individui, “personalizzando” oggetti e credenze.6
La differenza marginale
Il corollario del fatto che ogni oggetto ci appartiene in seguito a una scelta è il
fatto che in realtà nessun oggetto viene proposto come oggetto di serie, ma
piuttosto come modello. Anche l’oggetto più insignificante sarà differenziato
dagli altri per un particolare: colore, accessori, dettaglio. La differenza è sempre
data come specifica:
— Il nostro bidone della spazzatura è assolutamente originale, Gilac Décor
l’ha firmata per voi.
— Un frigorifero rivoluzionario: ha un nuovo scomparto surgelati e un
intepidatore per il burro.
— Il nostro rasoio elettrico è l’apice del progresso: è esagonale e
antimagnetico.
Di fatto le differenze citate sono marginali (secondo la definizione di
Riesman) o addirittura inessenziali. Ma a livello di oggetto industriale e di
coerenza tecnologica, l’esigenza di personalizzazione può essere soddisfatta
soltanto nell’inessenziale. Per personalizzare un’automobile, un’industria deve
prendere uno chassis di serie, un motore di serie e modificare alcune
caratteristiche esteriori o aggiungere qualche accessorio. L’automobile in quanto
oggetto tecnico essenziale non può essere personalizzata: solo i suoi aspetti
inessenziali possono essere modificati.
Naturalmente più l’oggetto deve rispondere a esigenze di personalizzazione,
più le sue caratteristiche esteriori sono appesantite da schiavitù esterne. La
carrozzeria si carica di accessori, le forme contravvengono alle norme tecniche
di fluidità e mobilità specifiche del veicolo. La differenza “marginale”, dunque,
non è soltanto marginale, ma si avvicina all’essenza dell’essere tecnico. La
funzione personalizzatrice non è soltanto un valore aggiunto, ma anche
parassitario. Sul piano tecnologico non è concepibile un oggetto personalizzato,
in un sistema industriale, che non perda, proprio nel processo di
personalizzazione, la sua tecnicità ottimale. Ma il sistema produttivo in questo
caso si assume la peggiore responsabilità, giocando senza riserve
sull’inessenziale per promuovere il consumo.
Quarantadue combinazioni di colori, semplici o a doppia tonalità, vi
permettono di scegliere la vostra “Ariane”: presso il concessionario è in vendita
anche il disco coprimozzo ultraspeciale, insieme all’automobile. Perché, sia ben
chiaro, ogni differenza “specifica” è poi riintegrata e serializzata nella
produzione industriale? La moda è costituita da questa seconda serialità. Alla
fine tutto è modello e non esistono più modelli. Ma, nelle serie limitate
successive, si verifica una transizione discontinua verso serie sempre più limitate
e basate su differenze sempre insignificanti e specifiche. Non esistono più
modelli assoluti cui si oppongano categoricamente oggetti di serie privi di
valore. Perché in questo caso non vi sarebbe più il fondamento psicologico della
scelta, e la partenza non sarebbe più il sistema culturale possibile. O, per lo
meno, non vi sarebbe più un sistema culturale capace di integrare la società
industriale moderna nel suo insieme.
Preso in esame il gioco formale delle differenze grazie a cui l’oggetto di serie
si dà e viene vissuto come modello, bisogna analizzare questa volta le differenze
reali che distinguono il modello dalla serie. È chiaro che il sistema ascendente di
valorizzazione differenziale in riferimento al modello ideale maschera la realtà
opposta della destrutturazione e della qualificazione massiva dell’oggetto di
serie in rapporto al modello reale.
Di tutte le schiavitù che condizionano l’oggetto di serie la più evidente è
quella legata alla durata e alla qualità tecnica. Gli imperativi della
personalizzazione si accordano a quelli della personalizzazione e il risultato è
una proliferazione dell’accessorio a spese del puro valore d’uso. Ogni
innovazione, insieme al gioco della moda, rende l’oggetto sempre più fragile ed
effimero. La tattica è sottilmente messa in evidenza da Packard (op. cit., p. 63):
“Si può limitare volontariamente la, durata di un oggetto o renderlo fuori uso
agendo su diversi fattori: la funzione dell’oggetto — è surclassato da un altro
prodotto tecnologicamente più avanzato (ma questo è un progresso); — la
qualità: si guasta o si esaurisce nei limiti di un tempo prefissato, generalmente
molto corto; — la presentazione: viene posto fuori moda volontariamente,
smette di piacere, sebbene conservi la qualità funzionale…”
I due ultimi aspetti del sistema sono solidali: il rinnovamento accelerato dei
modelli influisce da solo sulla qualità dei modelli — le calze saranno offerte in
tutti i colori, ma di qualità inferiore (o, in un altro caso, si sarà economizzato
sulla ricerca tecnologica per finanziare una campagna di pubblicità). Ma se le
fluttuazioni dirette della moda non bastano per rinnovare la domanda, si ricorrerà
ad una sotto-funzionalità artificiale: il “vizio costruttivo volontario”. Brook
Stevens: “È nota a tutti che accorciamo volontariamente la durata di tutto ciò che
esce dalle nostre fabbriche, e che proprio questa politica è la base della nostra
intera economia” (Packard, p. 62). Allora non diventa più assurdo parlare, al
limite, come Oliver Wendell, di “quel meraviglioso cabriolet concepito tanto
razionalmente da sfasciarsi in un sol colpo il giorno previsto” (ib., p. 65).
Secondo questa logica, alcuni pezzi delle automobili americane sono costruiti e
progettati perché non durino più di sessantamila chilometri. La grande
maggioranza degli oggetti di serie potrebbe essere di qualità molto superiore a
un costo di produzione praticamente uguale (lo ammettono timidamente anche i
costruttori): i pezzi “resi fragili” costano cari quanto pezzi normali. Ma bisogna
che l’oggetto non sfugga all’effimero e alla moda. È la caratteristica
fondamentale della serie: l’oggetto in essa è sottoposto a una fragilità
organizzata. In un mondo di abbondanza (relativa), la fragilità si sostituisce alla
rarità come dimensione della mancanza. La serie è mantenuta a forza in una
breve sincronia, in un universo perituro. L’oggetto non deve sfuggire alla morte.
Alla tattica normale del progresso tecnico, che tenderebbe a riassorbire la
mortalità dell’oggetto, si oppone la strategia della produzione, che cerca a tutti
costi di mantenerla.8 Nell’ambito della vendita, si parla di una “strategia del
desiderio” (Dichter); qui si potrebbe parlare di una strategia della frustrazione: le
due gareggiano per assicurare la finalità esclusiva della produzione — che oggi
sembra un’istanza trascendente con pieni diritti di vita e di morte sugli oggetti.9
Il modello invece ha diritto alla durata (relativa, perché anch’esso è impegnato
nel ciclo accelerato degli oggetti). Ha diritto alla solidità e alla “lealtà”.
Paradossalmente inserisce le due qualità in un ambito che sembra
tradizionalmente riservato alla serie, il valore d’uso. La superiorità si aggiunge a
quella della moda, le qualità tecniche alle qualità formali per costituire la
“funzionalità” superiore del modello.
Il deficit di “stile”
La differenza di classe
Il privilegio dell’attualità
“Il prodotto più richiesto oggi sul mercato, non è più una materia prima, né
una macchina, ma una personalità” (Riesman, op. cit. p. 76). In effetti una vera
deficienza di realizzazione personale assilla il consumatore contemporaneo, nel
contesto di mobilità obbligata che lo schema modello/serie istituisce (uno solo
tra i tanti aspetti di una struttura molto più ampia della mobilità e delle
aspirazioni sociali). Nel nostro caso la costrizione stessa è un paradosso:
nell’azione del consumo personalizzato, è chiaro che il soggetto, nella sua stessa
esigenza di essere soggetto, non fa altro che produrre se stesso come oggetto
della domanda economica. Il suo progetto, filtrato, e frantumato in anticipo dal
sistema socio-economico viene frustrato nel moto che tende a realizzarlo. Le
“differenze specifiche” sono prodotte industrialmente, la scelta potenziale è
pietrificata a priori: ciò che rimane è la pura illusione di una differenziazione
personale. Volendo aggiungere quella certa cosa che dovrebbe renderla unica, la
coscienza si reifica ancora di più, nel particolare: questo è il paradosso
dell’alienazione; la scelta vivente si incarna in differenze morte, nel suo
godimento il progetto si nega e si dispera.
Ecco la funzione ideologica del sistema: la promozione dello status sociale è
solo un gioco, poiché ogni differenza è già integrata precedentemente. Anche la
delusione che fa parte dell’insieme è già integrata dalla fuga in avanti del
sistema.
Si può parlare di alienazione? Nel suo insieme, il sistema della
personalizzazione eterodiretta è vissuta dalla grande maggioranza dei
consumatori come libertà. A un approccio critico questa libertà si svela nella sua
formalità, e la personalizzazione diventa solo una disavventura della persona.
Anche dove la pubblicità fa giocare la motivazione a vuoto (marche sdoppiate,
per lo stesso prodotto, differenze illusorie, condizionamento variabile, ecc.);
dove la scelta è condizionata in anticipo, bisogna ammettere che anche le
differenze superficiali diventano reali dall’istante in cui sono valorizzate in
quanto tali. Come contestare la felicità di chi acquista una pattumiera a fiori o un
rasoio “antimagnetico”? Nessuna teoria dei bisogni permette di attribuire priorità
assoluta a una soddisfazione piuttosto che a un’altra. Se l’esigenza di valore
personale è tanto sentita che, a svantaggio di altre cose, si incarna in un oggetto
“personalizzato”, come rifiutare questa sensazione, e in nome di quale essenza
“autentica” del valore?
1. Tuttavia la differenza tra le diverse classi di oggetti non è mai così precisa come tra le classi sociali. La
distinzione gerarchica, assoluta a livello di classi sociali, a livello di oggetti viene sfumata dal fattore
uso: una tavola continua ad avere la stessa funzione primaria ad ogni gradino della scala sociale.
2. Il fatto che la credenza stile Henri II sia diventata negli ultimi tempi un mobile in serie è dovuto alla
svolta diversa che l’oggetto culturale industrializzato ha assunto.
3. Mentre invece non perdono la loro connotazione di classe (si veda più avanti).
4. Anche l’opera d’arte non dipende dal modello o dalla serie. In essa si pone la stessa alternativa
categorica che si presente alla macchina: questa svolge o non svolge una certa funzione, l’opera d’arte è
vera o falsa. Non esistono differenze marginali. Solo a livello di oggetti privati e personalizzati (e non a
livello dell’opera d’arte) si rende attiva la dinamica modello-serie.
5. Nei paesi in cui esiste soltanto un tipo di automobile (per esempio nella Germania dell’Est), l’unicità è
un segno di penuria, antecedente alla società dei consumi propriamente detta. Si deve considerare
questo stadio provvisorio per ogni società.
6. Torneremo su questo punto in seguito.
7. Cfr. “Gadgets e robots” e più avanti, nello stesso capitolo, la questione della dequalificazione tecnica
degli oggetti di serie.
8. È vero che tale tendenza dovrebbe essere temperata dalla logica concorrenziale; ma in una società
monopolistica come gli USA ormai da lungo tempo la concorrenza reale non esiste più.
9. Bisogna peraltro riconoscere che la responsabilità non risiede soltanto in questa “strategia del cinismo”:
vi è una precisa complicità psicologica da parte del consumatore. Chi non sarebbe semplicemente
sbalordito all’idea di dovere tenere per venti o trenta anni la stesa automobile, anche se questa fosse
pienamente soddisfacente ad ogni livello? Ma su questo punto, si confronti “Gadgets e robots”.
10. O grigie: ma si tratta dello stesso paradigma “morale” (Cfr. p. 40).
11. In un sistema simile, i due termini sono ipersignificanti l’uno in funzione dell’altro e non possono
evitare la ridondanza. Ma proprio la ridondanza e la ipersignificazione sono modalità psico-sociologiche
vissute del sistema, che non è mai, come la sua descrizione rischia di far fraintendere, un sistema puro di
contrapposizioni strutturali.
12. Mentre la tradizione borghese, spontaneamente ridondante (la casa era piena come un uovo) invitava
all’accumulazione, le linee più “funzionali” dell’arredamento moderno la negano. L’iperinvestimento
dello spazio nella casa moderna di serie è segno di una incoerenza ancora più grave che
nell’arredamento tradizionale.
13. Cfr. p. 69: “La connotazione formale”.
II. LE RATE
Gli oggetti vengono oggi proposti sotto il segno della differenziazione e della
scelta, ma sono anche proposti (per lo meno gli oggetti-chiave) sotto il segno del
credito. E allo stesso modo in cui, se l’oggetto vi piace ed è bene venduto, la
scelta vi è “offerta”, così sono anche offerte facilità di pagamento, quasi una
gratificazione del sistema produttivo. Il credito è concepito come diritto del
consumatore, e in fondo come diritto economico del cittadino. Ogni restrizione
alle possibilità di credito è sentita come misura repressiva da parte dello Stato,
una soppressione totale del credito (sebbene impensabile) sarebbe vissuta
dall’insieme della società come soppressione della libertà. Nell’ambito della
pubblicità, il credito è un argomento decisivo nella “strategia del desiderio”, e
agisce con la stessa potenza per qualunque qualità d’oggetto: nella motivazione
all’acquisto ha la stessa importanza della scelta, della “personalizzazione” e della
fabulazione pubblicitaria, di cui è complemento tattico. Il contesto psicologico è
lo stesso: l’anticipazione del modello nella serie diventa in questo caso
anticipazione del godimento dell’oggetto nel tempo.
Il sistema rateale coinvolge indifferentemente l’oggetto di serie e il modello, e
niente impedisce di comprare una Jaguar a rate. Tuttavia è un fatto, e quasi una
legge del costume, che il modello di lusso sia comprato in contanti, mentre
l’oggetto acquistato a rate abbia poche speranze di essere un modello. C’è una
logica dello standing che fa sì che uno dei privilegi del modello sia l’acquisto in
contanti, mentre l’obbligo delle cambiali aggiunga materia al deficit psicologico
tipico dell’oggetto di serie.
Un certo pudore ha sempre individuato nel sistema rateale una serie di pericoli
morali classificando l’acquisto in contanti come una delle virtù borghesi. Ma si
deve ammettere che queste resistenze psicologiche diminuiscono
progressivamente. Dove persistono, sono ancora sopravvivenze della nozione
tradizionale di proprietà, e sono tipiche della classe dei possidenti, fedele ai
concetti di eredità, risparmio e patrimonio. Ma anche queste sopravvivenze
spariranno. Se un tempo la proprietà veniva prima dell’uso, oggi è il contrario,
poiché l’estensione del credito traduce, tra gli altri aspetti definiti da Riesman, il
passaggio progressivo da una civiltà dell’accaparramento a una civiltà della
pratica. Il consumatore “a credito” impara a poco a poco a usufruire dell’oggetto
in piena libertà, come se fosse “il proprio”. Spesso poi il periodo in cui si
effettua il pagamento è pressappoco lo stesso in cui l’oggetto viene usato: la
“scadenza” dell’oggetto è legata al suo decadimento (si sa peraltro che i calcoli
delle industrie americane riescono talvolta perfino a fare coincidere esattamente i
due periodi). La cosa implica sempre il rischio che in caso di fallimento o di
perdita, l’oggetto decada prima di scadere. Il rischio genera, anche dove il
credito sembra perfettamente integrato alla vita quotidiana, un’insicurezza
sconosciuta all’oggetto “patrimoniale”. Questo è mio: sono libero dall’oggetto.
L’oggetto a credito diventerà mio quando “sarà stato pagato”: è qualcosa di
simile a un futuro anteriore.
L’angoscia delle scadenze è particolare, costituisce un processo parallelo che
pesa quotidianamente senza che il rapporto oggettivo affiori alla coscienza:
ossessiona il progetto umano, non la pratica immediata. Ipotecato, l’oggetto
sfugge nel tempo, in fondo sfugge il suo padrone, e la sua fuga è simile, ad altri
livelli, alla fuga dell’oggetto di serie che cerca di raggiungere sempre, mai
riuscendovi, il modello. La doppia fuga costituisce la fragilità latente, la
delusione sempre connessa al mondo d’oggetti che ci circonda.
Il sistema rateale rende più chiaro un modo molto diffuso di porsi in rapporto
agli oggetti nel contesto moderno. In realtà non è necessario avere di fronte a sé
quindici mesi di cambiali o tratte per un’automobile, per un frigorifero e una
televisione per vivere “a credito”: la dimensione modello/serie, con la sua
assegnazione forzata al modello, consiste già in un rapporto di handicap. È però
una dimensione della promozione sociale e insieme dell’aspirazione frustrata.
Siamo continuamente in ritardo sugli oggetti. Sono qui, ma sono già un anno
avanti, nell’ultima cambiale che li affiancherà, o nel prossimo modello che li
sostituirà. Il sistema rateale non fa altro che trasporre nell’ordine economico una
situazione psicologica fondamentale: l’obbligo di successione è lo stesso,
economico nel sistema delle scadenze rateali, psicosociologico nella successione
sistematica e accelerata delle serie e dei modelli — in ogni caso gli oggetti sono
vissuti secondo canoni di temporalità costretta precedentemente, ipotecata. Non
esistono più prevenzioni contro il credito, forse perché in fondo tutti gli oggetti
oggi sono vissuti come oggetti a credito, come credenziali sulla società globale,
sempre rivedibili, sempre fluttuanti e prese in un’inflazione e in una svalutazione
croniche. La “personalizzazione” ci era apparsa come qualcosa di più di un
artificio pubblicitario: un concetto ideologico di base, così il credito è molto più
di una semplice istituzione economica: è una dimensione fondamentale della
nostra società, una nuova etica.
La costrizione all’acquisto
Nella dolce litania dell’oggetto bisogna sapere leggere il vero imperativo della
pubblicità. “Ecco come la società intera si adatta a voi e ai vostri desideri. È
giusto allora che vi integriate in questa società.” La persuasione, come dice
Packard, diventa occulta, e tende alla compulsion, all’acquisto e al
condizionamento da parte degli oggetti, ma più fortemente mira al consenso
sociale che il messaggio suggerisce: l’oggetto è un servizio, è un rapporto
personale tra la società e l’individuo. Che si organizzi sul cliché dell’immagine
materna o sulla funzione ludica, la pubblicità tende a uno stesso processo di
regressione al di qua dei processi sociali reali di lavoro, di produzione, di
mercato e di valore, la cui presenza rischierebbe di perturbare l’integrazione
miracolosa: non lo avete comprato, ma avete espresso il desiderio di questo
oggetto: tutti gli ingegneri, i tecnici ecc. vi hanno gratificato producendolo. In
una società industriale la divisione del lavoro dissocia il lavoro dal suo prodotto.
La pubblicità corona questa scissione dissociando radicalmente, nell’atto
dell’acquisto, il prodotto dal bene di consumo: interponendo una potente
immagine materna tra il lavoro e il prodotto, fa sì che il prodotto non sia più
considerato come tale (con la sua storia, ecc.), ma semplicemente come oggetto.
Dissociando produttore e consumatore nello stesso individuo, nell’astrazione
materiale di un sistema molto differenziato d’oggetti, la pubblicità si impegna a
ricreare una confusione infantile tra oggetto e desiderio dell’oggetto, a portare il
consumatore allo stadio in cui il bambino confonde la madre con ciò che ella gli
dà.
Di fatto, la pubblicità omette con particolare cura i processi oggettivi, la storia
sociale degli oggetti, solo per potere meglio imporre, attraverso l’istanza sociale
immaginaria, il sistema reale di produzione e sfruttamento. Bisogna sapere
cogliere, al di là della psicologia pubblicitaria, la demagogia e il livello politico,
la tattica del discorso: questa poggia ancora su uno sdoppiamento: la realtà
sociale è sdoppiata in un’istanza reale e in un’immagine — la prima si nasconde
dietro la seconda, diventa illeggibile, e lascia spazio solo per una proposta di
assorbimento nell’ambiente materno. “La società si adatta totalmente a voi;
integratevi nella società”: il trucco della falsa reciprocità è evidente: un’istanza
immaginaria si adatta all’individuo, mentre l’individuo dovrebbe adattarsi a un
sistema reale e concreto. Attraverso la poltrona “che sposa le forme del corpo”,
l’intero sistema tecnico e politico della società viene da Voi assunto e sposato.
La società diventa materna per potere meglio conservare un sistema di obblighi e
costrizioni.15 La diffusione dei prodotti e le tecniche pubblicitarie svolgono
dunque un ruolo politico immenso: assicurano perfettamente la sostituzione delle
ideologie precedenti, morali e politiche. Meglio ancora: mentre l’integrazione
morale e politica non è mai avvenuta senza violenza (è stata sempre necessaria la
repressione aperta), le nuove tecniche riescono a evitare la repressione: il
consumatore interiorizza l’istanza sociale e le sue norme, nell’atto stesso del
consumo.
L’efficacia è resa più valida dalla composizione del segno pubblicitario e dal
processo della sua lettura.
I segni pubblicitari parlano di oggetti, ma senza spiegarli in vista di una praxis
(o spiegano molto poco): rimandano agli oggetti reali come si rimanda a un
mondo assente. Sono letteralmente “leggenda”, cioè esistono innanzi tutto per
essere letti. Ma anche se non rimandano al mondo reale, non vi si sostituiscono
nemmeno: sono segni che impongono un’attività specifica: la lettura.
Se trasmettessero un’informazione, si verificherebbe la possibilità di una
lettura totale e la potenziale transizione verso il campo della prassi. Ma i segni
pubblicitari svolgono un ruolo diverso: assenza di ciò che designano. La lettura,
in questo senso non transitiva, si organizza in un sistema specifico di
soddisfazione nel quale tuttavia la determinazione dell’assenza del reale, la
frustrazione, è continuamente attiva.
L’immagine crea un vuoto, visualizza un’assenza — in questo senso è
evocatrice. Ma è una scappatoia. Provoca un investimento che poi va in corto-
circuito a livello di lettura. Fa convergere le velleità fluttuanti su un oggetto che
maschera e rivela insieme. Delude, la sua funzione è di far vedere e deludere. Lo
sguardo è illusione di contatto, l’immagine e la sua lettura sono illusioni di
possesso. La pubblicità in tale modo non offre né una soddisfazione
allucinatoria, né una mediazione pratica verso il mondo: suscita un
atteggiamento di velleità delusa, cammino incompiuto, insurrezione e tradimento
continuato, aurore di oggetti e di desideri. La lettura dell’immagine mette in
moto un intero psicodramma, che permette di accettare la propria passività e di
trasformarsi in consumatore. La enorme ricchezza di immagini elude il
passaggio verso la realtà, alimenta in modo sottile il senso di colpa con una
continua frustrazione, blocca la coscienza su una soddisfazione sognata. In realtà
l’immagine e la sua lettura non sono la strada più corta verso un oggetto, ma
verso un’altra immagine. Così i segni si succedono come aurore di immagini
durante gli stati ipnagogici.
Bisogna ricordarsi la funzione frustrante, di omissione del mondo
dell’immagine. Solo questo ci permette di capire come il principio di realtà
nascosto dall’immagine sia in essa efficacemente trasparente come repressione
continua del desiderio (è reso spettacolo, deluso, cristallizzato e trasposto in
modo regressivo e derisorio su un oggetto). Solo così afferreremo le intime
collusioni del segno pubblicitario con il sistema globale della società: la
pubblicità non trasmette meccanicamente i valori della società, ma, più
sottilmente, nell’ambiguità della funzione di presunzione — a metà tra il
possesso e la privazione, ad un tempo designazione e indice di assenza — la
pubblicità “lascia passare” l’ordine sociale nella sua doppia determinazione di
gratificazione e repressione.16
Gratificazione, frustrazione: due aspetti inscindibili dell’integrazione. Ogni
immagine pubblicitaria è leggenda; e priva il mondo della sua angosciante
polisemia. Ma per rendersi leggibile deve rendersi povera e immediata, e se è
ancora suscettibile di troppe interpretazioni, limita il proprio senso con il
linguaggio, che la sottotitola come una seconda leggenda. E, attraverso la lettura,
rimanda a nuove immagini. Infine la pubblicità è fonte di sicurezza per la
coscienza attraverso una semantica sociale diretta, al limite diretta verso un
unico significato, che è società globale. Questa in tale modo si identifica con
ogni ruolo: suscita una selva di immagini di cui successivamente riduce il senso.
Suscita l’angoscia e la placa. Soddisfa e delude, smuove e rimuove. Sotto il
segno della pubblicità instaura il regno della libertà del desiderio. Ma il desiderio
non vi è mai realmente liberato — significherebbe la fine dell’ordine sociale —,
il desiderio nell’immagine ha un margine di libertà sufficiente a permettergli di
scatenare i riflessi angoscianti e colpevolizzanti legati all’emergenza del
desiderio. Catalizzato e disinnescato dalla stessa immagine la velleità del
desiderio viene ricuperata dalla istanza sociale. Profusione di libertà, ma
immaginaria, orgia mentale continua, ma orchestrata, regressione indirizzata
dove ogni perversità è risolta a vantaggio del sistema: la gratificazione è
immensa nella società dei consumi, ma anche la repressione è immensa —
recepiamo le due istanze nel linguaggio e nell’immagine pubblicitaria, che
rendono attivo il principio repressivo di realtà all’interno del principio di piacere.
La presunzione collettiva
Il detersivo Pax
Il concorso pubblicitario
Alcuni giornali ogni anno lanciano concorsi in cui la scelta viene operata su
una domanda discriminante: quante risposte giuste verranno date al nostro
concorso? La semplice domanda instaura nuovamente la sorte, in un contesto in
cui tutta l’intelligenza del concorrente ha cercato di eliminarla lungo l’arco di
alcune settimane. L’emulazione è ricondotta all’opzione mistica del gioco e della
lotteria. L’interessante tuttavia è che non è una sorte qualunque che è messa in
gioco: né Dio né la fatalità, come una volta, ma un insieme di occasioni, un
gruppo accidentale e arbitrario (la somma delle persone che tentano o possono
riuscire nel concorso) diventano l’istanza discriminante, e la divinazione di
questa istanza, la riuscita identificazione dell’individuo con la sorte collettiva
diventa il criterio del successo. Per questo le questioni preliminari sono
generalmente molto facili: bisogna che un numero molto vasto acceda
all’essenziale, all’intuizione magica del Grande Collettivo (la pura casualità
reinstaura il mito di democrazia assoluta). Come significato ultimo del concorso,
si ottiene una specie di collettività fantasma, assolutamente congiunturale, non
strutturale, senza un’immagine autentica (“prenderà sostanza” astrattamente solo
nell’istante in cui si dissolve, nel numero di risposte giuste), coinvolta nella e
dalla gratificazione di una o poche persone che l’avranno indovinata nella sua
astrazione.
Garap
Un nuovo umanesimo?
Il condizionamento seriale
Ora si vede meglio quale sistema di condizionamento sia in atto dietro i temi
della concorrenza e della “personalizzazione”. La stessa ideologia, in realtà: la
concorrenza, che una volta era la regola aurea della produzione nel regno della
libertà, oggi è stata trasposta all’infinito nell’ambito del consumo.
Attraverso le migliaia di differenze marginali e la diffrazione spesso solo
formale dello stesso prodotto da parte del condizionamento, la concorrenza ha
assunto ad agni livello toni esacerbati, aprendo il ventaglio immenso di una
libertà precaria, l’ultima: la libertà della scelta casuale degli oggetti che
distinguono dagli altri.19 Di fatto si può pensare che l’ideologia concorrenziale
sia destinata a compiere lo stesso decorso, cioè la stessa fine in questo ambito
come in quello della produzione: se il consumo può ancora sembrare una
professione liberale, in cui può giocare l’espressione individuale, mentre la
produzione sarebbe invece definitivamente pianificata, la ragione è che le
tecniche di pianificazione psicologica sono molto in ritardo su quelle della
pianificazione economica.
Vogliamo ciò che gli altri non hanno ancora. Almeno nelle società europee
occidentali (il problema è in sospeso all’Est), siamo ancora allo stadio
concorrenziale, eroico, nella scelta e nell’uso dei prodotti. Non si è ancora
istituita, come negli Stati Uniti, la successione sistematica, la sincronizzazione
ciclica dei modelli.20 Resistenze psicologiche? Forza della tradizione? La
ragione è invece che la maggioranza delle popolazioni dei paesi europei non ha
ancora raggiunto lo standing economico sufficiente: gli oggetti si collocano tutti
a livello di esigenza massima, e ne consegue che in realtà vi è soltanto un
repertorio di modelli e che la diversità importa meno del fatto di possedere
l’“ultimo” modello — feticcio imperativo della valorizzazione sociale. Negli
Stati Uniti, il 90% della popolazione desidera soltanto possedere ciò che gli altri
possiedono, e la scelta si sposta in massa, da un anno all’altro, sull’ultimo
modello che uniformemente è riconosciuto come il migliore. Si è costituita una
classe fissa di consumatori “normali” che praticamente coincide con la totalità
della popolazione americana. Anche se in Europa non siamo ancora a questo
punto, ci accorgiamo già sensibilmente dell’ambiguità della pubblicità, secondo
la tendenza irreversibile del modello americano: la pubblicità provoca alla
concorrenza, ma, attraverso la concorrenza immaginaria, invoca ormai una
profonda monotonia, una sollecitazione uniforme, un’involuzione nel senso
beato della massa consumatrice. Intima: “Comprate questo perché quest’altro
non assomiglia a niente altro!” (La carne “d’élite”, la sigaretta degli happy few!
ecc.), ma anche: “Compratelo, perché tutti lo usano!“21 Non esiste
contraddizione. È possibile che ognuno si senta originale mentre tutti si
assomigliano: per questo basta uno schema proiettivo collettivo e mitologico —
basta un modello.22
Dopo tali premesse, è logico pensare che il fine ultimo di una società dei
consumi (non per qualche machiavellismo tecnocratico, ma per il semplice gioco
strutturale della concorrenza) sia la funzionalizzazione del consumatore, la
monopolizzazione psicologica di ogni bisogno —, unanimità del consumo che
corrisponda finalmente in modo armonico alla concentrazione e al dirigismo
assoluto della produzione.
Un nuovo linguaggio?
Vorremmo che l’analisi, da noi operata a diversi livelli, del rapporto con gli
oggetti nel suo processo sistematico, fosse conclusa da una definizione del
“consumo”, poiché è in esso che ogni elemento di una prassi attuale in questo
campo si conclude.
Si può concepire il consumo come una modalità caratteristica della civiltà
industriale, a condizione che si tolga di mezzo una volta per tutte ogni accezione
corrente: processo di soddisfazione dei bisogni. Il consumo non è una modalità
passiva di soddisfazione dei bisogni. Il consumo non è una modalità passiva di
assorbimento e di appropriazione da opporre al processo produttivo per
equilibrare schemi ingenui di comportamento e di alienazione. Bisogna
affermare a chiare lettere fin dall’inizio che il consumo è una modalità attiva di
rapporto non soltanto con gli oggetti ma con la collettività e con il mondo, una
modalità di attività sistematica e di risposta globale su cui l’intero sistema
culturale contemporaneo si fonda.
Bisogna affermare a chiare lettere che non sono gli oggetti e i prodotti
materiali che sono oggetto di consumo: sono soltanto oggetto del bisogno e della
soddisfazione. Si è sempre comprato, posseduto, goduto, speso, eppure non “si
consumava”. Le feste “primitive”, il lusso del borghese del XIX secolo, la
prodigalità del signore feudale non erano consumo. E la giustificazione dell’uso
della parola, che si attaglia correttamente alla società contemporanea, non risiede
nel fatto che mangiamo meglio e con più abbondanza, che assorbiamo più
immagini e messaggi, che abbiamo a nostra disposizione un maggior numero di
apparecchi o gadgets. Né il volume dei beni, né la soddisfazione dei bisogni
bastano a definire il concetto di consumo: ne sono solo una condizione
preliminare.
Il consumo non è un’attività materiale e neanche una fenomenologia
dell’“abbondanza”. Non è definito dal cibo che si digerisce o dal vestito che si
indossa, dall’automobile che si guida e nemmeno dalla sostanza orale e visuale
delle immagini o dei messaggi: è invece definito dall’organizzazione di tutti gli
elementi citati sopra, in sostanza significante; è la potenziale totalità di ogni
oggetto e messaggio costituito in linguaggio più o meno coerente fin da ora. Il
consumo, se mai ha un senso, è un’attività di manipolazione sistematica dei
segni.
L’oggetto-simbolo tradizionale (strumenti di lavoro, mobili, abitazione),
termine mediano di una relazione reale o di una situazione vissuta, l’oggetto che
porta chiaramente impressa nella sua sostanza e nella forma la dinamica conscia
o inconscia del rapporto, cioè non arbitraria, questo oggetto legato, impregnato,
carico di connotazioni ma sempre vivo grazie al suo rapporto di interiorità, di
transitività con il fatto o il gesto umano, (collettivo o individuale), quest’oggetto
non è mai consumato. Per diventare oggetto di consumo deve diventare segno,
cioè in qualche modo esterno a un rapporto che significa soltanto, cioè arbitrario
e privo di coerenza con il rapporto concreto, coerente invece e carico di senso in
un rapporto astratto e sistematico con tutti gli altri oggetti-segni. A questo livello
si “personalizza”, entra nella serie, ecc.: è consumato, non nella sua materialità,
ma nella sua differenziazione.
La conversione dell’oggetto verso uno statuto sistematico di segno implica un
cambiamento contemporaneo del rapporto umano, che diventa relazione di
consumo, che tende cioè a consumarsi (nel duplice senso della parola:
“realizzarsi” e “annullarsi”) nel e grazie all’oggetto, che diventa mediazione
obbligata, e, molto presto, segno sostitutivo, alibi.
Si nota dunque che ciò che viene consumato non è l’oggetto, ma piuttosto il
rapporto stesso — significato e assente, incluso ed escluso ad un tempo —,
l’idea di rapporto si consuma nella serie di oggetti che rimandano ad essa.
Il rapporto non è più vissuto: è astratto e si annulla in un oggetto-segno in cui
si consuma.
La situazione del rapporto/oggetto è orchestrata ad ogni livello dal sistema
produttivo. La pubblicità sostiene subdolamente che il rapporto vivente,
contraddittorio, non deve turbare l’ordine “razionale” della produzione, che deve
anzi consumarsi come tutto il resto. Per integrarsi, deve “personalizzarsi”. Ci si
ricollega al risultato della logica formale della merce analizzata da Marx: i
bisogni, la cultura, i sentimenti, la scienza, tutte le forze dell’uomo sono
integrate al sistema produttivo in quanto merce, si materializzano in forze
produttive per essere vendute: oggi i desideri, i progetti, le esigenze, ogni
passione e rapporto si astraggono (o si materializzano) in segni e oggetti per
essere acquistati e consumati. La coppia, per esempio: la finalità oggettiva della
coppia diventa il consumo d’oggetti, anche degli oggetti simbolici del rapporto.1
“L’occhio scivola subito sulla moquette grigia del lungo, alto e stretto
corridoio. I muri sono costituiti di pannelli di legno chiaro sui cui brillano
guarnizioni di rame. Tre stampe conducono a una tappezzeria in cuoio, intelaiata
da grossi anelli di legno venato; basterebbe sfiorarli per farli scivolare… / Poi/ È
un soggiorno, largo tre metri e lungo circa sette. A sinistra, in una specie di
alcova, un imponente divano di cuoio nero malandato è circondato da due
biblioteche di ciliegio selvatico pallido in cui trovano posto pile di libri. Sopra il
divano un portolano occupa tutta la lunghezza del pannello. Oltre una tavola
piccola e bassa, sopra un tappeto da orazioni in seta, agganciato al muro da tre
grossi chiodi di rame, che un grosso divano perpendicolare al primo, coperto di
velluto bruno chiaro, porta a un mobile minuto dalle zampe lunghe, laccato di
rosso, rifinito con tre assicelle che accolgono oggettini vari: agate e uova di
pietra, tabacchiere, bomboniere, portaceneri di giada, ecc. più in là alcune
cassette e dischi, a fianco di un grammofono chiuso di cui si vedono solo quattro
manopole d’acciaio inciso…” (Georges Perec, Les Choses, p. 12, Lettres
Nouvelles, 1965). Malgrado una ambigua nostalgia densa e elegante
dell’arredamento descritto, è chiaro che niente in esso ha alcun valore
“simbolico”. Basta paragonare questa descrizione a una simile di Balzac per
rendersi conto che in questa nessun rapporto umano è iscritto nelle cose: tutto è
segno, e segno puro. Nulla ha presenza o storia, mentre tutto è ricco di
riferimenti: orientale, scozzese, early american, ecc. Ogni oggetto ha come unica
caratteristica la singolarità: tutti gli oggetti sono astratti nella differenza
specifica (modalità di essere referenziale) ed entrano in contatto in virtù di
questa astrazione. Siamo nell’universo del consumo.2
Ma il seguito del racconto di Perec lascia intravedere la funzione del sistema
di oggetti/segni: senza simbolizzare un rapporto, gli oggetti costituiti di
esteriorità nel loro continuo riferimento reciproco, descrivono il vuoto del
rapporto, decifrabile ovunque nell’esistenza reciproca dei due partners. Jérôme e
Sylvie non esistono in quanto coppia: la loro realtà è “Jérôme-e-Sylvie”,
complicità pura trasparente nel sistema d’oggetti che la significano. Gli oggetti
non si sostituiscono meccanicamente alla relazione assente riempiendo un vuoto,
no: descrivono tale vuoto, il luogo del rapporto, in un moto che è, nell’insieme,
modo di non viverlo, ma di additarlo ugualmente sempre (salvo nel caso in cui si
verifichi una regressione totale) a una possibilità di vivere. Il rapporto non
sprofonda nella positività assoluta degli oggetti, ma si articola sugli oggetti come
su altrettanti punti materiali di una catena di significati, ma tale configurazione
significativa di oggetti è spesso povera, schematica, chiusa; in essa si ripete
l’idea di un rapporto che non riesce a essere vissuto. Divano di cuoio,
grammofono, soprammobili, portacenere di giada: in questi oggetti è l’idea del
rapporto che viene significata, che si consuma in essi, e dunque vi si abolisce in
quanto rapporto vissuto.
Il consumo viene dunque definito come prassi idealista totale, sistematica,
che va ben oltre il rapporto con gli oggetti e la relazione interindividuale per
estendersi a tutti i registri della storia, della comunicazione e della cultura.
L’esigenza di cultura è molto forte: ma nel libro di lusso o nella litoguglia della
sala da pranzo solo la sua idea viene consumata. L’esigenza della rivoluzione è
viva, ma a meno di rendersi attuale nella prassi, si consuma nell’idea della
Rivoluzione. In quanto idea, la Rivoluzione è eterna, e sarà eternamente
consumabile come ogni altra idea — tutte, anche le idee più contraddittorie,
possono coesistere come segni nella logica idealista del consumo. La rivoluzione
significa se stessa in una terminologia combinatoria, in un lessico di termini non
mediati in cui viene data come compiuta, in cui cioè “consuma se stessa”3.
Anche gli oggetti di consumo costituiscono un lessico idealista di segni in cui
la stessa volontà di vivere viene indicata in una materialità fuggente. Lo si può
leggere anche nel libro di Perec (p. 15): “Talvolta riuscivano a pensare che una
vita intera può essere trascorsa in armonia tra questi muri coperti di libri, tra
questi oggetti così perfettamente addomesticati che a lungo tempo avrebbero
immaginato creati solo per loro… Ma non si sarebbero sentiti incatenati. Un
giorno o l’altro si sarebbero buttati nell’avventura. Nessun progetto sembrava
loro irrealizzabile.” Non per nulla è tutto al condizionale, e il libro lo smentisce:
non esiste più progetto, esiste solo una serie di oggetti. L’oggetto di consumo
diventa allora esattamente ciò in cui il progetto “si rassegna”.
Dunque non vi sono limiti al consumo. Se fosse qualcosa da prendere con
ingenuo entusiasmo, un assorbimento, un’orgia, esisterebbe un limite di
saturazione. Se fosse relativo al sistema dei bisogni, ci si dovrebbe muovere
verso un progressivo soddisfacimento. Ma sappiamo che non è nulla di tutto
questo: si vuole consumare di più, sempre di più. La costrizione al consumo non
è dovuta a una fatalità psicologica (chi ha bevuto berrà ecc.) né a una semplice
costrizione del prestigio. Se il consumo sembra inarrestabile, la ragione è che il
consumo è una prassi idealista totale che non ha più nulla a che fare (al di là di
un certo limite) con la soddisfazione dei bisogni né con il principio di realtà. È
sospinto dal progetto sempre frustrato e sottinteso dall’oggetto. Il progetto senza
mediazioni nel segno trasferisce la propria dinamica esistenziale nel possesso
sistematico e indefinito di oggetti/segni di consumo. Il consumo allora può solo
superare se stesso e reiterarsi per restare ciò che è: una ragione di vita. Il
progetto di vivere, frantumato, deluso, significato rinasce e si annulla
nell’oggetto successivo. “Temperare” il consumo o stabilire un sistema di
bisogni adatto a normalizzare il consumo stesso fa parte di un moralismo assurdo
quanto ingenuo.
Dall’esigenza di totalità che sta alla base del progetto sorge il processo
sistematico e infinito del consumo. Gli oggetti/segni nella loro idealità si
equivalgono e possono moltiplicarsi all’infinito: devono farlo per riempire ogni
istante una realtà assente. Il consumo è irreprensibile perché si fonda su una
mancanza.
1. Negli USA le coppie vengono incoraggiate a cambiare la fede matrimoniale ogni anno e a “significare”
il loro rapporto con regali e acquisti “in comune”.
2. Nell’arredamento di G. Perec, ci troviamo di fronte a oggetti già trascendenti, non a oggetti in serie.
Nell’appartamento descritto aleggia una sensazione di obbligo culturale totale, terrorismo culturale. Ma
il fatto non cambia nulla al sistema del consumo.
3. In questo caso l’etimologia è edificante: “Tutto è consumato = Tutto è compiuto” vale anche “Tutto è
distrutto”. La Rivoluzione si consuma nell’idea della Rivoluzione significa che la Rivoluzione vi si
compie (formalmente) e vi abolisce se stessa: ciò che viene dato come realizzato, è d’ora in poi,
immediatamente consumabile.
INDICE
Introduzione
I. Le Strutture Dell’assestamento
L’ambiente tradizionale
L’oggetto moderno liberato nella sua funzione
L’arredamento modello
Gli elementi
I muri e la luce
L’illuminazione
Specchi e ritratti
L’orologio e il tempo
Il colore tradizionale
Il colore “naturale”
Il colore “funzionale”
Il caldo e il freddo
Le sedie
Culturalità e censura
I. MODELLI E SERIE
La scelta
La differenza marginale
Il deficit tecnico
Il deficit di “stile”
La differenza di classe
Il privilegio dell’attualità
La disavventura della persona
Ideologia dei modelli
II. Le Rate
III. La Pubblicità
Il detersivo Pax
Il concorso pubblicitario
Garap
Un nuovo umanesimo?
Il condizionamento seriale
La libertà per difetto
Un nuovo linguaggio?