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Parole e immagini

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Elio Grazioli

La collezione come forma d’arte


Se ogni epoca ha un suo modo di collezionare, quello contemporaneo è
segnato da un reciproco legame con la pratica artistica, tanto che le due
attività spesso si sovrappongono fin quasi a confondersi. Gli esempi
abbondano: da Joseph Cornell, cacciatore di bizzarrie con cui compone le
sue scatole divinatorie, a Claes Oldenburg, che espone come opera propria
una raccolta di oggetti d’affezione; da Marcel Broodthaers, per cui il
collezionare è all’origine della scelta di diventare artista, a Hans-Peter
Feldmann che, sulla scia di Malraux, da anni ritaglia, classifica e incolla
immagini per un insolito museo. Il collezionismo non è più solo affare di chi,
non artista, raccoglie oggetti in quantità rilevante, ma diventa modalità
espressiva di quegli artisti che li radunano per costruire opere d’arte
secondo il principio warburghiano del montaggio.
D’altro canto, lo stesso collezionista è un artista che accetta di esprimersi
tramite immagini dotate di un forte potere simbolico, le quali diventano
un’estensione della sua persona. Appena l’occhio li cattura, gli oggetti si
caricano di qualità supplementari: spogliati della loro funzione, un sapiente
lavoro di accostamenti e rimandi crea fra loro un fertile dialogo, dando vita
a un insieme organico che non tollera mutilazioni. La collezione assume così
lo statuto di opera d’arte.
Eclettismo, trasversalità, soffio personale definiscono una tipologia di
collezione agli antipodi rispetto a quella chiusa e preordinata dei musei. A
questa dimensione più privata e creativa fa riferimento Elio Grazioli il
quale, nel ricostruire il percorso che dalla Wunderkammer porta al collage e
all’assemblage, racconta un collezionismo non utilitarista ma passionale,
meno vetrina di rappresentanza e più gioco per intenditori che sappiano
apprezzare le articolazioni impreviste. Pratica, questa, che ha molto da
insegnare a quelle istituzionali: una maggiore libertà e una necessità più
sentita.

Elio Grazioli è critico d’arte, insegna Storia dell’arte contemporanea


all’Università e all’Accademia di Belle Arti di Bergamo. È direttore
artistico della manifestazione “Fotografia Europea” di Reggio Emilia e
codirettore della collana “Riga” per l’editore Marcos y Marcos, per la quale
ha curato i volumi dedicati a Marcel Duchamp (1993), Alberto Giacometti
(1996), Pablo Picasso (1996), Constantin Brancusi (2001), Francis Picabia
(2003), Kurt Schwitters (2009). Fra le sue pubblicazioni: Corpo e figura
umana nella fotografia (1998), Arte e pubblicità (2001), La polvere
nell’arte (2004), Piero Manzoni (2007), Ugo Mulas (2010).

In copertina: Karsten Bott, Uno di ognuno, veduta dell’installazione “Von


Jedem Eins” alla Kunsthalle Mainz, 2011. Foto Norbert Miguletz ©
Kunsthalle Mainz © Karsten Bott, by SIAE 2012.
Nota dell’autore

Il testo che segue è la rielaborazione e l’ampliamento dell’introduzione che


scrissi qualche anno fa per il libro Il collezionismo o il mondo come voluttà
e simulazione, da un’idea e su istigazione di Giulio Lacchini e Amedeo
Martegani, uscito nel 2006 per le edizioni Studio permanente/a+mbookstore
(Cremona-Milano). Quel libro, oltre alla mia introduzione, contiene un
percorso singolare e sfaccettato all’interno delle tematiche del collezionismo
attraverso testi di Antonella Anedda, Manlio Brusatin, Pierre Cabanne,
Patrick Frey, Amedeo Martegani, Gianluigi Ricuperati, interviste a Gilbert &
George, Tullio Leggeri, Corrado Levi, Maurizio Nannucci, e interventi ad
hoc degli artisti Stefano Arienti, Giulio Lacchini e Luca Pancrazzi. Ringrazio
Lacchini e Martegani per allora e per ora.

E.G.
I.

Esistono strane persone che hanno la smania di raccogliere oggetti in


quantità spesso rilevante, talvolta eccessiva per le loro stesse possibilità;
oggetti legati tra loro da una qualche relazione, tenuti in ordine o in un
disordine relativo e significativo, che essi si godono appena ne hanno il
tempo e l’opportunità. Li hanno tutti registrati nella loro mente con estrema
precisione e li mostrano con compiacimento, a volte con un po’ di pudore, a
conoscenti o visitatori occasionali. Intorno a essi, infine, raccontano
aneddoti e riflessioni che finiscono spesso con l’incagliarsi nella vertigine
dell’emozione o nell’infinitezza della comprensione. Sono i collezionisti.
Spesso sono tipi curiosi, molto diversi tra loro, ma diversi soprattutto
dagli altri. Li si riconosce in un negozio, in una galleria d’arte, in un museo,
anche solo in una conversazione, se tocca argomenti che li riguardano. Si
alterano di fronte a ciò che li attira, diventano capaci di gesti altrimenti
lontanissimi dalle loro consuetudini. Per questo hanno da sempre attirato
l’attenzione di letterati e psicologi. Sono anche più numerosi di quanto
normalmente si pensi, piccoli e grandi, attratti da ogni tipo di oggetto, spinti
da ogni genere di passione o di motivo. In un certo senso soddisfano a un
grado più elevato un impulso che forse tutti possediamo, lo stesso che ci
spinge comunque a circondarci di oggetti che scegliamo e che diventano
importanti nello spazio in cui viviamo, che lo qualificano, lo strutturano,
persino lo riscrivono.
Certo, nel loro caso la quantità ha un peso determinante e innesca un vero
e proprio salto di qualità. Gli oggetti invadono pian piano gli spazi, che
diventano presto insufficienti, mentre la raccolta assume un andamento che
tende all’infinito. L’impulso si perpetra nella ricerca continua di altro
materiale, altri oggetti, non semplici varianti, ma veri e propri tasselli di una
visione, di una costruzione che prosegue. Quale costruzione? Non tanto o non
solo la costruzione di sé, ma quella parallela di un mondo a misura e sulla
spinta interna della propria passione, un mondo che guadagna e produce
senso, e in cui salvare questi particolari oggetti che sono i “pezzi”, come si
suol dire, da o della collezione. Non appena entrano in una raccolta o, ancor
prima, quando l’occhio del collezionista si posa su di loro e ne è catturato,
Una volta scelti essi cessano di essere semplici oggetti, non solo perché non sono più come
non sono più
semplici oggetti gli altri, quelli non selezionati, ma perché cambiano il loro stesso statuto di
oggetto, si caricano di una qualità supplementare, valgono in quanto parti di
un mondo a sé. Forse realizzano un sogno, una fantasia profonda, che tocca
punti radicati nell’io e nell’uomo, con un particolare rapporto sia con il
vivere sociale sia con l’individualità della persona. Forse un sogno anche in
senso proprio, prodotto peculiare della sospensione di certe facoltà e
attività, una proiezione originale della mente e del corpo di un io in
condizioni determinate. Non per niente sia Freud sia Breton erano notevoli
collezionisti.
La particolarità degli oggetti della collezione risiede anche nel singolare
rapporto che hanno con la realtà. Lo dimostra non solo la scelta di cui sono
motivo, ma soprattutto la cura di cui vengono circondati: conservati e protetti
per la loro unicità, rarità individuale e oggettuale, ordinati per il loro valore
simbolico e affettivo, il collezionista sembra custodire in essi anche un
segreto e vedervi qualcos’altro ancora. È, chissà, una loro materialità
peculiare, che negli altri oggetti si tende a sottovalutare, forse quella qualità
stessa di “cosa”, nel senso di Heidegger, per cui collezionare significa aver
cura non solo delle cose e del proprio mondo, ma, per così dire, del mondo e
della cosa stessi.
È questo tipo di collezionismo, questa varietà di tipi, quella in cui ci
interessa qui scuriosare, non quelli mossi da ragioni più esterne, estranee,
esogene, che siano l’economia, l’investimento, l’affare, o il rigore di un
ordine prestabilito, sia esso un’idea di storia o di mondo, di sistema o di
morale, o ancora la pretesa di totalità, informazione globale o controllo
diffuso. Mentre cioè aumentano musei e archivi (ora, naturalmente, anche e
soprattutto elettronici), che per le più svariate ragioni – didattiche, sociali,
Musei e archivi: mossi da ragioni
economiche, storiche, morali

Collezioni private: caratterizzati dalla


passione individuale
politiche, conoscitive, tecniche, storiche – vogliono raccogliere, conservare,
sistemare, offrire insiemi più vasti e rappresentativi e mappe più
onnicomprensive e sistematiche, da un altro lato persistono iniziative
particolari, inevitabilmente individuali, di persone che vanno dietro a una
propria idea o passione per realizzare ed esprimere qualcos’altro. Le prime
sono raccolte di oggetti, di opere, discorsi sull’oggetto, sull’opera, sull’arte:
meta-raccolte, meta-discorsi. Le seconde sfiorano l’opera stessa, l’oggetto,
l’arte; sono un discorso diretto, non autoreferenziale, non metalinguistico;
sono come un’opera propria del collezionista, il suo modo di fare arte, per
quanto attraverso oggetti od opere d’altri; sono un modo reale di agire nel
mondo.
Non tragga in inganno, soprattutto in quest’era post-ready-made e
postmoderna, il fatto che si tratti di raccolte di opere altrui; d’altronde,
modellismo a parte, il collezionista non raduna mai oggetti che si costruisce
da sé. Anche per questo l’oggetto collezionistico ha un carattere particolare
e la collezione è prima di tutto un modo di raccogliere e di tenere insieme
una forma e una logica diverse, in quest’era, potremmo allora dire, post-
collage e post-assemblage. Forma e logica diversa soprattutto da quelle più
diffuse, quelle sociali, cosiddette “vincenti”, di ricerca del successo; forma
e logica della qualità, del desiderio, del piacere e della realizzazione,
piuttosto che della volontà e della rappresentazione, della finzione e del
consenso; forma e logica interna e individuale, apparentemente al limite
dell’arbitrario e dell’espressionismo, ma che, come l’opera d’arte, dimostra
un proprio statuto di legge, di funzionamento prima e di reale validità poi,
che producono bellezza e salvaguardano la necessità e il valore
condivisibile. La preoccupazione del collezionista per il destino postumo
della sua collezione – conservazione, dono, dispersione, abbandono – si
comprende in questa prospettiva più che in altre, cioè nella sua concezione
come un tutto, un intero, un organismo che non tollera mutilazioni o ferite.
Né si tratta di un’immaginaria isola felice, di una beata illusione oppure
di una sacca di resistenza, di un’utopia minore o di una riduzione locale o
una variante glocale, anche se non manca di un suo intrinseco valore
alternativo. E neppure si adatta al cosiddetto “far rete”, all’adesione al
libero flusso che asseconda il principio liberale del cambiamento continuo,
coltivando invece in privato un impulso irresistibile, misto di processo in
progress e smania irrefrenabile. Possiede i caratteri degli organismi
complessi, non riducibili alla somma delle loro parti, fino agli equilibri
instabili, alle strutture dissipative e ai sistemi di auto-organizzazione,
passando per il ruolo attivo del posto vuoto, della macchia cieca, del pezzo
mancante, delle dinamiche post-dialettiche.
Infine, questa idea di collezionismo non è quella che corrisponde ai
presenti momenti di pretesa globalizzazione del mondo dell’arte, in realtà di
post-colonizzazione, di influenza dei nuovi modi d’arte non-occidentale, di
libertà dall’informazione diffusa, di affermazione della diversità, di voglia
di fare a modo proprio, di pluralità e molteplicità post-mediale dei linguaggi
e dei contenuti? Non corrisponde all’attuale reazione all’omogeneizzazione
diffusa, alla difesa dell’individualità, alla scioltezza dei sentimenti, alla
dialettica risolta – post-ideologica, come si suol dire – delle negazioni
legate alle opposizioni? Non è questo il tempo di un collezionismo libero, di
una sua concezione positiva?
Le collezioni, infatti, hanno sempre rappresentato le loro epoche, non solo
nel senso che le hanno testimoniate e rispecchiate campionandole attraverso
gli oggetti e le opere raccolte, né solo corrispondendo al gusto e alla cultura
del loro tempo, ma anche nel senso che, proprio là dove hanno deviato dalla
linea principale e più condivisa, hanno ancor meglio provato la profondità e
la verità delle scelte possibili. Così, a ogni epoca si ritrovano modalità e
concezioni di collezionismo corrispettivi.
II.

Ogni epoca ha un suo modo di collezionare a partire già dalla raccolta di


stranezze ed esoticità che accompagna il collezionismo fin dai suoi inizi, che
è forse il senso scatenante del collezionismo vero e proprio, la sorpresa di
fronte a mondi nuovi, e insieme il suo aspetto più privato, più personale.
Meno vetrina di rappresentanza e autorappresentazione, essa è più ricerca e
gioco per intenditori, cioè per amici che possano, condividendoli,
comprendere e apprezzare le ragioni e il significato delle scelte, delle
acquisizioni, degli accostamenti, nonché delle metafore e dei racconti
aneddotici che le accompagnano. Che sia il “medioevo fantastico”
raccontato da Jurgis Baltrušaitis o l’“antirinascimento” di Eugenio Battisti,
esiste già da allora un mondo dentro il mondo, un’eterogeneità dentro una
presunta omogeneità, una incongruità che apre ad altre possibilità e percorsi.
Le sue modalità ci interessano, e che siano state scoperte ‒ o riscoperte e
valorizzate ‒ nel xx secolo non apparirà come un caso. Il secolo della
modernità e delle avanguardie ha coltivato al proprio interno l’interesse per
le forme di deviazione, queste enclaves tuttavia numerose, queste follie
individuali ma diffuse, che rompono l’idea riduttiva dell’unità e della
categorizzazione di una cultura e di un sentire. Sono modalità estranee a
quelle dei musei ordinati per cronologia condivisa di movimenti, secondo
una storia semplificata per uso delle scuole e dell’informazione, o delle
raccolte presunte rigorose di una linea artistica o di un ambito selezionati, di
un modo o di un’idea stabiliti, figlie di un modernismo calvinista o d’assalto.
Collezioni, queste, basate su una concezione, un punto di vista, una visione,
venuti e sovrapposti dall’esterno, prefissati e poi seguiti con scrupolo
burocratico, riempiti dalle opere che le comprovano e non le mettono in
discussione, “collezioni puzzle”, come vengono giustamente chiamate,1
perché mirano a completare il disegno, cercano le tessere mancanti
nell’incastro preordinato.
Le collezioni di In questo senso, le collezioni di oggetti hanno per molti versi varie cose
oggetti sono
più libere e
da insegnare a quelle d’arte, una loro superiore libertà e insieme una loro
reali di quelle necessità più sentita e reale, ma anche una maggiore vicinanza a
d'arte un’espressione personale e a una logica in costruzione. Così gli studioli, i
gabinetti di curiosità, le cosiddette Wunderkammern, stanze delle meraviglie
in cui eccentrici signori, dal Rinascimento al XVII secolo, radunavano le loro
stravaganti raccolte, pur seguendo in gran parte criteri dettati da un
esoterismo anch’esso fondamentalmente precodificato, erano però ricche di
spunti e di deviazioni che non rientravano più nel disegno stabilito. Che è
anche il duplice senso della parola “meraviglia”, oggetto da ammirare,
perciò ricercato per essere collezionato ed esposto, ma anche sentimento che
è insieme causa prima ed effetto da suscitare nel visitatore, sorprendendolo
rispetto alle sue aspettative e conoscenze. Ne consegue che l’oggetto
principale della raccolta di meraviglie è quello dallo statuto ambiguo,
perfino dalla difficile riconoscibilità, misto di artificiale e naturale,
indecidibile se opera di uomo o di natura, d’arte o di altra misteriosa energia
e materia. Krzysztof Pomian ne fa il polo opposto della collezione di statue
antiche o moderne, che dà «il primato al marmo e al disegno, alla purezza
del progetto di produrre opere belle», mentre la Wunderkammer «tende a
spingere ai suoi limiti estremi il progetto di realizzarne di straordinarie», di
prodigiose, di differenziate per materiali, tecniche e forme.2
Non vi vedeva, il collezionista, mondi altri su cui si interrogava e che lo
spingevano a pensarne uno proprio? Come sono tenuti insieme questi oggetti
diversi, le opere disparate e non legate da stile o da caratteri estetici? Quali
i criteri della loro scelta? Adalgisa Lugli ha fatto notare alcuni meccanismi
che hanno presieduto alla formazione delle Wunderkammern e che ci
interessano ancora oggi da vicino (lei stessa ne ha peraltro spesso fornito il
rimando a opere di artisti contemporanei). Così la proiezione di forme
antropomorfe su oggetti di ogni tipo – in cui si scorgono forme umane per
“analogia”, nel senso di Paracelso, vale a dire di segno che la natura lascia
perché l’uomo lo riconosca e lo riconduca a sé – è dal nostro punto di vista
leggibile come attribuzione di senso a partire da sé, da una propria pulsione
o motivazione interna, piuttosto che da un progetto o da un sistema stabiliti.
Allo stesso modo il culto della trasfigurazione e del gioco delle somiglianze
– «permeabilità delle cose e loro possibilità di trasformazione» specifica
Lugli3 – vogliamo intenderlo non tanto nel senso di un’interpretazione del
mondo esistente, ma in quello di una sua messa alla prova, per così dire, di
una sua verifica di esistenza e interpretabilità, e dunque di costruzione di un
altro mondo da salvare. Niente di più alchimistico ed esoterico, del resto,
cui le Wunderkammern sono sempre associate.
Questo modo di intendere si estende fino all’attenzione, sempre fatta
notare da Lugli, che nella Wunderkammer viene riservata anche allo spazio,
al luogo, alle modalità e posizioni in cui gli oggetti vanno conservati ed
esposti; attenzione per posizione ed ex-posizione, cioè non solo per la
rappresentazione e il simbolismo, ma anche per la presentazione, per come
le cose stanno nel luogo che è loro e come vanno offerte in visione al
visitatore per essere comprese nella giusta maniera e direzione, oltre che nel
giusto contesto. Le Wunderkammern da questo punto di vista sono le
antesignane delle esposizioni d’arte contemporanea e delle “installazioni”.
Senza scordare infine le proprietà terapeutiche attribuite a tanti di quegli
oggetti meravigliosi e meraviglianti: è il carattere e l’effetto di un mondo che
ha senso, di un’opera, la collezione stessa, dove la bellezza è scoperta con
stupore, dove la ricerca è insieme un esercizio di indagine e di libertà.
Lo ribadisce in maniera che più convincente non si può – rifacendosi
proprio a Lugli, oltre che a Stephen Greenblatt – l’inventore della più
famosa Wunderkammer immaginaria contemporanea, il Museo della
Tecnologia del Giurassico, Lawrence Weschler, che alla meraviglia come
strumento di conoscenza dedica documentate pagine del suo Gabinetto delle
meraviglie di Mr. Wilson. Ma ancor più efficacemente Weschler sintetizza il
senso della collezione in due interventi del suo eroe, Mr. Wilson, appunto. Il
primo racconta come l’idea, anzi la vocazione alla raccolta sia nata in lui da
una vera e propria «folgorazione improvvisa», una «sensazione con
contenuto mistico», che un giorno gli rivelò quale sarebbe stato il compito
della sua vita: «un servizio reso, che consiste nel fornire alla gente le
condizioni… nel propiziare un ambiente nel quale essa possa cambiare».4
Nel secondo intervento Mr. Wilson, dopo aver contestato che esista una
differenza tra vita ed estetica, svela il senso stesso della collezione di
meraviglie: «Vede, alcuni aspetti di questo museo si possono penetrare molto
facilmente, ma, una volta rimossi i semplici strati superficiali, la realtà
sottostante è ancora più sorprendente di quanto quelli lascino intendere. I
primi strati sono solo un filtro…».5 Strati e filtri sono la struttura stessa del
collezionare, ma non è tutto qui, prosegue infatti Wilson, specificando da un
lato che «la natura è più incredibile dei prodotti dell’immaginazione», ma
dall’altro che «abbiamo un altro motto, qui al museo: Ut translatio natura,
la natura come metafora».6 Certo non si tratta di un museo di scienze naturali,
ma dell’esercizio della metafora che prende la natura stessa come oggetto, le
sue manifestazioni e stratificazioni come dispositivi di “traslazione”, per
questo ancora più sorprendenti di qualsiasi sforzo fantasioso. Alla luce di
questa traslazione si comprenderà bene che anche il “servizio” di cui Wilson
parla nel primo intervento è tutt’altro che un compito puramente didattico e
utilitaristico, ma è invece la creazione di un «ambiente nel quale cambiare».
Da parte sua Paolo Thea giustamente riassume: «In quel contesto è
esaltato l’aspetto cognitivo e sublime del fare artistico e si apprezza la
genialità fuori dal comune, l’eccellenza e i voli della fantasia anziché il
rispetto di canoni artistici».7 Non si tratta cioè – in ogni caso per noi – di
ricerca della vaghezza o dell’ambiguità come esaltazione della confusione
degli ambiti, della rottura dei confini tra le discipline, tra arte e scienza e
altro ancora, di contaminazioni e di trasversalità finalizzate all’immaginario
o alla fede in una forma unica e pervasiva, originaria e formante, ma
piuttosto dell’arte che c’è in ogni disciplina, di nodi che si creano tra gli
ambiti, di studio esatto della loro forma, della bellezza e del senso che
sconfinano dallo specifico e non si pongono come modello ma come incontro
sul percorso e come risultato di una spinta.
Un’altra forma speciale di collezione tipica del XVII secolo è il cosiddetto
cabinet d’amateur, quadro che ha come soggetto appunto la raccolta del
collezionista, ed è quindi la rappresentazione di una collezione. Anche in
questo caso, come in quello della collezione stessa, la stragrande
maggioranza dei quadri nasce dalla volontà di fare ordine, di catalogare,
piuttosto che di esporre liberamente e cercare nessi imprevisti. Prevalgono
così le Allegorie, che siano dei sensi, delle virtù e dei vizi, dei generi,
perfino dei continenti e quant’altro, o i “quadri mnemotecnici”,
organizzazione e disposizione di rimandi come guida per la memoria,
secondo l’antica tecnica retorica. Ma non c’è ars memoriae senza ars
oblivionis, come giustamente ricorda Victor Stoichita, e non c’è allegoria
apologetica senza reazione iconoclasta.8
A noi interessa invece in modo particolare un altro tipo di cabinet
d’amateur, quello più libero dalle tentazioni classificatorie, che si manifesta
allora nelle Quadrerie o nelle cosiddette Conversazioni. La Quadreria o
Galleria dipinta è il corrispettivo del moderno montaggio ed «è il risultato
della contestualizzazione di immagini che differiscono per provenienza, per
stile, per messaggio».9 Essa si presenta nella maniera nuova della “parete di
quadri”, resa possibile dalla diffusione della tela come supporto,
trasportabile e maneggevole, nonché dalla semplificazione delle cornici e
dalla moda del formato ridotto rispetto alle grandi pale d’altare e agli
inamovibili affreschi. Tale “parete”, al contrario dell’affresco che
trasformava la parete reale in un’unica immagine, è una composizione di
immagini diverse e comporta una nuova operazione che Stoichita definisce
“intertestuale”, composta a sua volta di un duplice dispositivo di
decontestualizzazione, cioè di prelievo da ambiti diversi, e di
ricontestualizzazione in una nuova combinazione fatta di giustapposizioni e
di incastonature.10 L’insieme dei quadri della collezione diventa cioè una
«serie aperta», in contrapposizione ai sistemi chiusi dei programmi
prestabiliti.11 La confusione e caoticità dei quadri appesi è dunque solo
apparente, in realtà è un sapiente montaggio di accostamenti e rimandi,
spesso anche un’occasione per suggestioni eterodosse, più o meno manifeste,
quando non nascoste per sfuggire alle censure di vario tipo.
Nelle Conversazioni questo è ancora più esplicito e dichiarato. In esse
abbiamo i personaggi, il collezionista e i suoi ospiti, che contemplano le
opere esposte e si intrattengono in piacevole discussione intorno a esse e, in
qualche modo, alla collezione stessa, attraverso paragoni e, possiamo
immaginare, alla ricerca di rimandi e connessioni, di altri nessi e di ordini
non preordinati: «la collezione in quanto discorso», come giustamente lo
definisce Stoichita, come «struttura dialogica» che attraversa la
rappresentazione.12 Non si tratta quindi di una semplice descrizione di una
galleria di quadri o di una storia da decifrare – visita del tale personaggio
famoso al cabinet del talaltro personaggio –, ma «ci troviamo in presenza di
un colloquium, di una disputatio, oppure, per utilizzare il termine allora più
in voga, di un entretien».13 Questa indicazione sollecita anche lo spettatore
non solo a immaginare il dialogo tra i personaggi, ma a sua volta anche
quello tra i quadri, cioè lo esorta appunto a una lettura intertestuale.
Gli stessi teorici dell’entretien come genere letterario l’hanno paragonato
a volte, come nel caso del cavalier de Méré, alla presentazione in
successione di alcuni quadri, i quali, una volta esaurita la conversazione,
dovevano restare a formare un unico insieme. Quest’ultimo, cioè l’insieme,
il quadro dei quadri, è dunque una particolare opera di tipo nuovo,
un’immagine completa non riducibile alle sue parti né alla loro pura somma.
Diventa un organismo “complesso”, come lo definiremmo oggi. Non
assimilabile a un percorso lineare, costringe l’osservatore a procedere per
blocchi, a passare da uno all’altro senza sosta, a rimbalzare da un punto
all’altro, stabilendo correlazioni, senza potersi veramente arrestare su
un’unica parte: «Il quadro, che in un primo momento appare come un
mosaico di citazioni, si raggruppa e si riorganizza».14
Naturalmente questo genere di opere è anche un “museo in scatola” – una
boîte-en-valise come l’avrebbe chiamata cinque secoli dopo Marcel
Duchamp –, quadro-catalogo e quadro-museo, con cui, come ribadisce
Stoichita, siamo di fronte alla nascita di tanti aspetti della modernità,
dall’autonomia del quadro all’idea stessa di segno autonomo. Ma questa
rischia di nuovo di essere quell’altra storia rispetto alla nostra, quella
dell’ordine e del controllo, salvo forse fare un ultimo appello a un’altra
delle interpretazioni contemporanee di questo tipo di quadri, quella di
Georges Perec nel suo Storia di un quadro, il cui titolo originale è
propriamente Un Cabinet d’amateur. Histoire d’un tableau. La particolarità
dell’idea di Perec è innanzitutto quella di aggiungere all’interno della
collezione dei quadri esposti alle pareti dello Studiolo dipinto da Heinrich
Kürz una copia dello Studiolo stesso, innescando una mise en abîme
vertiginosa su cui lo scrittore ricama abilmente, fino a fare anche del suo
romanzo una collezione e una mise en abîme. Ma quest’ultima non è
semplice e automatica, non un puro gioco di specchi, bensì complessa e
articolata. Così ogni copia interna allo Studiolo, evidentemente sempre più
piccola, sembra del tutto uguale ma in realtà contiene delle piccole
variazioni che vanno dal giocoso al simbolico, fino addirittura
all’anticipazione, per cui nel quadro si trova la versione finita di un dipinto
che il pittore nella realtà ha appena abbozzato e non ancora portato a
termine.
Il gioco dei rispecchiamenti si riflette anche sulle figure del pittore e del
collezionista attraverso uno scambio di sguardi dalle rispettive posizioni che
sfiora a volte lo scambio di parti: anche il collezionista è artista, come
l’artista è collezionista in questa rappresentazione di una collezione. E la
collezione è opera a sua volta: quando il collezionista Hermann Raffke
muore, lascia disposizioni per essere imbalsamato e conservato in una stanza
che ricostruisce la disposizione dello Studiolo e sulla cui parete di fondo
figura naturalmente lo Studiolo stesso.
Il libro racconta tutta la storia della collezione, la sua formazione, la sua
vendita, le monografie che l’accompagnano, una sul collezionista e l’altra sul
pittore dello Studiolo. Una storia per la verità non particolarmente
appassionante, “normale”, per così dire, senza slanci né dichiarazioni
significative, finché, colpo di scena finale e nodo che aggiunge un elemento
quasi sempre trascurato, anche l’erede entra in scena non solo nella parte
passiva di chi riceve e, come spesso accade, smantella e vende la collezione
che non sente sua, ma in maniera attiva e imprevista: i quadri venduti alle
aste dopo la morte del collezionista sono in realtà quasi tutti falsi e l’erede
ne è l’autore. Collezionista per procura, l’erede assume così anche il ruolo
del pittore in seconda battuta, ma il gioco non è finito e si eleva anzi alla
seconda potenza: l’operazione infatti è una vendetta concordata tra zio e
nipote dopo la scoperta che i quadri della collezione, comprati su
indicazione di sedicenti esperti, sono quasi tutti falsi o copie di scarso
valore; la vendetta consiste nel realizzare dei falsi di falsi. Naturalmente il
nipote erede, Humbert Raffke, non è altri che Heinrich Kürz, il pittore dello
Studiolo, e la mise en abîme si chiude.

Scrive Pomian:

Nel XVIII secolo i mercanti cominciano a mettere mano alla penna per dare consigli sulla scelta
e la sistemazione di una collezione, scrivere dissertazioni sul commercio delle curiosità e sulle
aste, e pubblicare manuali a uso dei collezionisti. Nello stesso periodo è la volta degli storici e dei
critici d’arte.15
Ma, mentre sistematizza e ordina, commercializza e normalizza, il secolo
galante ed erotico ha in una delle sue figure più rappresentative un vero e
proprio tipo, per quanto del tutto speciale, di collezionista, non di opere
d’arte o di oggetti particolari, ma appunto di amori. Ci riferiamo a don
Giovanni – versione più collezionistica del visconte di Valmont delle
Liaisons dangereuses, di Casanova e di De Sade – e naturalmente alla sua
interpretazione mozartiana. «Madamina, il catalogo è questo / delle belle che
amò il padron mio»: il don Giovanni di Mozart-Da Ponte non è infatti solo il
collezionista mosso dal desiderio insaziabile, da un moderno desiderio
“differente”, che ama la differenza nella sua forma della varietà e della
quantità, e che differisce, rimanda il soddisfacimento finale, morte del
desiderio; è anche, come ha stigmatizzato una volta per sempre Jean
Starobinski, il libertino che sta storicamente per trasformarsi in libertario,
l’amante cioè della libertà, colui che ama la e per la libertà, che colleziona
“conquiste” per non fissarsi in una e rimanere libero, anzi per perseguire la
libertà, costruirla di mano in mano secondo

la passione dell’illimitato, che rifiuta di riconoscere i freni […]. Baudelaire ha ragione quando
scrive che la Rivoluzione è stata fatta da dei voluttuosi: indica questi uomini che tutti i loro gusti
legano all’universo che sta finendo e che, rivolgendosi contro quest’ultimo, diventati suoi nemici
giurati, restavano i testimoni fedeli del suo disordine, delle sue libere speculazioni, dei suoi appetiti
contraddittori.16

Ebbene il piacere non è qui un fine ma una sfida al disordine dell’universo e


alle sue contraddizioni.

Già Giovanni Macchia aveva caratterizzato la differenza del don Giovanni di


Mozart da quelli precedenti parlando di un’energia del tutto “naturale”:

Ma la forza poetica di questo personaggio per cui esso diventa pura espressione musicale sta
nell’essere un personaggio del tutto “naturale”. Egli sprigiona la sua energia in modo elementare
e istintivo. Come in certi animali, l’astuzia gli è utile soltanto per servire il senso, perché l’istinto
insaziabile abbia la sua vittoria.17

“Servire il senso” è espressione alquanto forte, impegnativa, che dice qui


come esso non è qualcosa che sta già prima, né che è un filosofico fine
trascendente, bensì un compito tutto “terreno” e “credibile”. Prosegue infatti
Macchia: «È l’incoscienza, la forza tutta terrena di don Giovanni, che non
cede dinanzi al sovrannaturale, chiusa com’è entro il certo, la materia, il
credibile, il senso».18 L’incoscienza – altro carattere tutto tipico del
collezionismo – è di nuovo il rovesciamento di una pretesa consapevolezza
che precede l’azione e il dare invece spazio all’inconscio, che ha un ruolo
così importante nella formazione e nell’espressione del senso.

Ma il collezionista più moderno e vicino a noi è quello dell’Ottocento.


Secolo ufficiale e borghese, moderno e presto modernista, il XIX secolo crea
un nuovo tipo di collezionista descritto perfettamente nei romanzi dei suoi
scrittori in indimenticabili figure come quella del cugino Pons di Honoré de
Balzac, o il Gardilanne di Champfleury e altre ancora. È in particolare il
collezionista a caccia di “occasioni”, appassionato di un ambito specifico,
che passa in perlustrazione ogni luogo dove si possa trovare un “pezzo” e si
concentra sull’informazione per scoprire ciò che può sfuggire al mercante
generico o battere sul tempo perfino quello più astuto. Cambia quando è in
azione, mostrando lati che non trapelano nella vita quotidiana. Per
Champfleury si trasforma addirittura nel suo opposto: così lo scialbo e
malaticcio Gardilanne, che diceva di non avere passioni, diventava «la
persona più passionale che si potesse immaginare, più ardente del
cacciatore, più inquieto di un innamorato al suo primo appuntamento, più
schiavo di un ambizioso, più febbrile di un giocatore. Nessuna passione!
Gardilanne le possedeva tutte, fuse in una sola, la più forte, la passione per
le collezioni!».19
Straordinarie diventano allora soprattutto le strategie per aggirare e
distrarre i sospetti dei venditori: «Oh, l’astuccio è grazioso e potrebbe anche
interessarmi, l’astuccio! perché, quanto al ventaglio…» mente lo spudorato
Pons,20 e Gardilanne «si gabellava per robivecchi per entrare in possesso
dello scranno in cui si era seduto forse il gran Condé».21 Sorprendenti sono
le scoperte casuali o inattese negli angoli inesplorati o trascurati, nonché i
veri e propri raggiri di proprietari bisognosi, come pure di eredi ignari dei
tesori che hanno tra le mani. Sennonché durante lo svolgimento del maneggio
perfino il patetico Pons rivela in fondo al proprio orgoglio offeso un moto
che svela la pulsione artistica che governa la sua mania, in realtà sincera e
genuina, che ama veramente ciò che coltiva, e che potrebbe anche rovesciare
la situazione e farla fallire, se non fosse per la cronica penuria di mezzi, di
denaro, o talvolta, nel suo caso forse più ancora, per mancanza di coraggio,
di carattere. Tant’è che, ferito, non osa reagire, e Balzac ironicamente ma
acutamente commenta: «Non osava abbandonarsi all’originalità che distingue
gli artisti e che nella giovinezza anche lui aveva avuto, con caratteri assai
fini, ma che l’abitudine di farsi da parte aveva allora quasi eliminata, e che
veniva rifiutata, come un attimo prima, appena si riaffacciava».22
La contrapposizione artista-collezionista, con la conseguente insinuazione
che il collezionista sia un artista mancato, corre lungo molta letteratura
sull’argomento a partire dall’Ottocento. È, naturalmente, la conseguenza
diretta e coerente del modo di intendere le due figure, schematizzate appunto
al di là di ogni sottigliezza; ma è anche il sintomo altrettanto diretto che
questo personaggio particolare e strano che è il collezionista comincia ad
assumere un rilievo e un’autonomia che forse preoccupa l’osservatore o la
sua comprensione del fenomeno.
Così infatti diventa non solo protagonista di un racconto o di un romanzo,
ma protagonista per identificazione dello scrittore stesso, dunque figura
artistica a tutti gli effetti. Che sia il cosiddetto decadentismo a farlo con più
decisione non è neppure questo un caso, ma è il segno che la questione è
passata da sintomo a un’esasperata consapevolezza. Parliamo di Des
Esseintes, il protagonista di A ritroso di Joris-Karl Huysmans, romanzo che
è a sua volta una collezione di fatto, che consiste nel racconto e commento
della selezione e raccolta effettuata dal protagonista-autore in ogni ambito
del sapere e del piacere umano.
Dopo aver saggiato ogni esperienza mondana nella capitale, dopo aver
provato la totalità delle esperienze, Des Esseintes si ritira in una casa di
campagna, completamente isolata, torre d’avorio che sistema e arreda «per il
suo piacere personale e non per stupire gli altri»,23 come aveva invece fatto
fino a quel momento. Libri, mobili, colori, pietre preziose, letture, tutto viene
passato al vaglio della nuova esigenza per dichiarare una scelta consapevole
e affermata; ogni cosa e argomento sono solo il pretesto per la ricostruzione
di tale selezione in ogni ambito per una collezione assoluta. Il progetto
generale:

Aveva voluto, per il diletto del suo spirito e la gioia dei suoi occhi, alcune opere suggestive che lo
gettassero in un mondo sconosciuto, gli rivelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero
il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni indifferentemente
atroci.24

D’altro canto, nella seconda metà del secolo, in corrispondenza con la


nascita della modernità artistica, il collezionismo si diffonde nella borghesia
che ne fa un comportamento tutto suo. Le molle del collezionare si
moltiplicano quanto i collezionisti, psicologia e psicoanalisi le studieranno
in dettaglio: mania, nevrosi, ostentazione, stravaganza, orgoglio,
compensazione? Comunque sia, «ogni collezione è una confessione pubblica,
carte in tavola – comprese le carte truccate – di un uomo che non è, che non
può essere come gli altri» stigmatizza il professor Langui.25 Il collezionista è
un possessivo, ama il rischio e la competizione; antagonismo, rivalità,
difficoltà acuiscono il suo appetito, eccitano le sue capacità combattive; non
indietreggia di fronte a nessuna trappola, manovra o tribolazione:

Perché, cosa sono in realtà gli oggetti ambiti dal collezionista, se non gli artifici di un eterno
inseguimento di se stesso? Essere asociale per eccellenza, egli si sente sicuro solo in compagnia
delle sue conquiste perché esprimono i rari momenti in cui ha potuto, in qualche modo, ingannare
il destino.26

Cure e sollecitudini si moltiplicano, e le preoccupazioni per la loro sorte:


Edmond de Goncourt chiederà nel testamento che le opere che hanno fatto la
sua felicità vadano vendute all’asta affinché il piacere procurato da ognuna
di esse sia offerto di nuovo ad altri; per una qualsiasi ragione, fondata o
immaginaria, molti negheranno la loro collezione agli eredi diretti; Albert
Barnes arriverà a proibire per testamento l’accesso alla sua collezione a
qualsiasi visitatore.
Inizia insomma un’epopea che prosegue fino a oggi. Il collezionista
diventa un personaggio delle cui vicende si racconta il “romanzo”. Se da un
lato collezionare diventa in ambiente borghese segno di buon gusto, di stato
sociale e di cultura, per cui ogni magnate del commercio e della finanza
assolda un consulente per avere anch’egli una casa arredata con i capolavori
del momento o una collezione da paragonare a quella dei suoi pari, dall’altro
lato che ne sarebbe di numerosi artisti dall’Impressionismo in poi senza i
loro sostenitori? Il ruolo del collezionista si fa ambiguo e variegato,
dall’investimento all’emulazione alla passione. Conclude Pierre Cabanne il
nuovo corso:
Il collezionismo non contribuisce soltanto alla fondazione o all’arricchimento delle istituzioni
pubbliche, esercita un’azione profonda sulla gerarchia dei valori e influisce così sulle fluttuazioni
del mercato, cioè sul posto del collezionista in questo ambito. Inoltre costituisce in una società
collettivista una delle ultime individualità, la cui attrazione è proporzionale alla sua autorità; la sua
singolarità, dal punto di vista sociale, lo mantiene lontano da ogni dipendenza, lo isola, lo protegge,
lo ripara.27

Invenzione
Intanto viene inventato un nuovo strumento, una “macchina”, che ha una
della fotografia grande ripercussione sull’idea di collezionismo, sul concetto stesso del
collezionare, ovvero la fotografia. Appena la fotografia scopre di essere
immagine fedele della realtà, ciò di cui vuole dare documentazione è subito
sentito come qualcosa di diverso, singolare, raro, emozionante, qualcosa che
alcuni o tutti vorrebbero o dovrebbero collezionare, siano essi i momenti e
gli aspetti significativi della propria vita o dei propri cari, il luogo lontano
ed esotico, la scenetta pittoresca o l’evento che si candida alla cronaca o
alla storia. Scrive Susan Sontag:

L’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare.
[…] Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di
ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e,
cosa ancor più importante, un’etica della visione. Infine la conseguenza più grandiosa della
fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di
immagini. Collezionare fotografie è collezionare il mondo.28

La fotografia altera la modalità dell’esperienza del reale, non solo della sua
visione ma anche della sua comprensione. Da un lato pare conferire realtà al
reale stesso – reale solo se è fotografato –, dall’altro lo svuota, lo
appiattisce, livella il significato degli eventi. Il lontano nel tempo e nello
spazio, il raro, l’oggetto o essere in via di sparizione, questi che sono i temi
principali della fotografia dell’epoca segnano fin dentro il suo statuto di
documentazione: la fotografia, prima ancora che oggetto autonomo e
artistico, porta con sé l’idea di un tempo che consuma le cose e le vite, le
quali vanno per questo fermate, fissate almeno in immagine. Di fatto
chiunque aspira a diventare collezionista di qualsiasi cosa, fin di se stesso,
in immagine.
Lo stesso duro giudizio di Charles Baudelaire che ammonisce la
fotografia a non cercare di sfidare l’arte, ma ad accettare la sua condizione
di strumento “al servizio di” altro (scienza o altra disciplina o utilità), può
essere letto in questo senso non come una condanna alla sussidiarietà e
all’artisticità mancata, ma al contrario come un richiamo alla sua specificità
altra, diversa, quella che la lega intrinsecamente alla testimonianza, alla
documentazione, all’archivio, nei suoi più diversi modi e risvolti.
Quanti artisti oggi recuperano infatti in questa direzione una fotografia
ostentatamente “oggettiva” e la legano alla serie, alla quantità, all’ordine, al
programma, a ogni forma di archiviazione, una nuova archiviazione, certo,
segnata dal passaggio alla postmodernità? Non è il nostro senso del
collezionismo, ma ci torneremo.
Ci sono anche altri aspetti, per certi versi ancora più radicali, che la
fotografia introduce all’interno delle problematiche collezionistiche. Così:
che artisticità hanno, e ancor più di che estetica sono portatrici fotografie e
archivi fotografici che non sono stati fatti con intenzioni artistiche? Sono
“artisti” Timothy O’Sullivan, Samuel Bourne, Felice Beato, Auguste
Salzman, Eugène Atget? In quale contesto si inseriscono? A quale “spazio
discorsivo” – come dice Rosalind Krauss – fanno riferimento?29 Sono
“opere” le loro fotografie? In un certo senso sì, ma in quale? Oggi infatti si
prendono fotografie scattate dagli autori al seguito di spedizioni geografiche,
per scopi scientifici o commerciali di diverso genere, senza alcuna
intenzione artistica comprovata, le si isola dal loro contesto e le si espone
bene incorniciate in gallerie e musei come “opere d’arte”. A che titolo lo si
fa? Che cosa significa? Per noi significa innanzitutto che tra documento,
archivio, serie, collezione, opera c’è un legame che la ricerca artistica ed
estetica posteriore non ha voluto sacrificare o ignorare e di cui ha anzi
voluto far fruttare le possibilità.30 Esistono infatti, al di là di specificità e
formalismi, modi svariati di incrociare l’arte, di catturare la bellezza, anche,
e talvolta meglio, dedicandosi ad altro; questa bellezza anzi ha vita e
pensiero propri e diversi, sfumature e sentimenti, freschezza e potenza che
non si ritrovano altrove. Anche in questo senso collezionare è un esercizio
estetico e la collezione assimilabile a un tipo di “opera”.
III.

Con il nuovo secolo e la consolidata modernità, il collezionismo dunque


cambia, non è più rivolto al passato ma al presente, alla condivisione di una
ricerca artistica in atto, mentre del passato cerca ciò che gli permette di
ricostruire retrospettivamente il percorso che ha portato a quella visione del
presente, e così legittimarla. È una collezione dimostrativa, storica,
interpretativa: se ami l’Impressionismo devi avere anche i coloristi veneti
del Rinascimento, nature morte fiamminghe e spagnole, Chardin,
paesaggismo olandese e inglese, quindi Constable, Turner, la Scuola di
Barbizon, Corot etc.; se ami l’Espressionismo, allora ci vogliono i primitivi
medievali meno noti, Cosmé Tura, i manieristi, Rembrandt, Hals, curiosità
ed eccentricità del secolo XVIII, ex voto, arte popolare, primitiva e via di
seguito; se cominci ad acquistare il Cubismo, dovrai ricostruire con qualche
Cézanne, qualche scultura africana, ma diversa da quella che piace agli
espressionisti, e così via all’indietro nel tempo gli artisti più “geometrici”,
più “costruttivi”.
È finita l’epoca di Ambroise Vollard e cominciata quella di Daniel-Henry
Kahnweiler. Nascono anche i primi musei moderni organizzati
ermeneuticamente e didatticamente in questo modo. Valga per tutti il MOMA
di New York sotto la direzione di Alfred H. Barr, ferreo sostenitore di una
rigorosa visione della storia dell’arte come via che porta all’astrattismo,
nelle sue diverse forme e percorsi; ciò che non ha contribuito a tali
“evoluzioni” viene considerato un equivoco o tutt’al più messo in posizione
di dipendenza dialettica, come deviazione antitetica che ha permesso una più
consapevole sintesi. Da questa impostazione nasce anche l’arte per le
collezioni, o per i musei, cioè un’arte fatta apposta per inserirsi nel percorso
stabilito, deduttiva, evolutiva, formalista, nonché un’arte calcolata per “star
bene” nella tal collezione o sala di museo, arte d’arredo. Il sistema si
autoalimenta: il collezionista cerca qualcosa di preciso, che consolidi il suo
percorso e lo sviluppi conseguentemente, l’artista segue la stessa logica,
glielo realizza e giustifica il proprio lavoro come sviluppo di una linea
dell’arte.
In mezzo ci sono ancora collezionisti fuori dalle regole, come per molti
versi la stessa Gertrude Stein, che raccoglie intorno a sé artisti diversi nel
suo salotto del sabato sera in rue de Fleurus, che sceglie opera per opera,
che ama la complessità di una situazione che non vuole ridurre a un’unica
linea dominante. Ma intanto con le avanguardie questa stessa logica si
acuisce, non senza innescare, radicalizzandosi esteticamente, ulteriori
cambiamenti decisivi. Il collezionista ora non solo aderisce al presente, ma,
moltiplicandosi i movimenti artistici a un ritmo sempre più serrato, partecipa
con la propria scelta al successo di uno di essi, di cui condivide gli assunti e
gli eventi, spesso almeno parte della stessa vita di gruppo; oppure “punta”,
“scommette” su di esso come quello che lascerà un segno nella storia, che
avrà un futuro. L’esasperazione avanguardistica di quest’ultimo modo
diventa la ricerca costante del nuovo, del seguente, la scommessa sempre più
concentrata sull’anticipazione del futuro: arrivare prima degli altri, brillare
per acutezza di intuito nel vedere i primissimi segni di un nuovo
cambiamento, scovare per primi il giovane o lo sconosciuto che si affermerà
in seguito.
Le collezioni così cambiano di continuo, si rinnovano come e con i
movimenti artistici: a ogni nuova tendenza sulla scena, la precedente passa in
cantina o in magazzino, quando non va addirittura venduta, e i collezionisti si
fanno a loro volta direttamente o indirettamente mercanti. Oppure, meno
radicalmente, soprattutto quando è possibile per disponibilità di spazi e di
mezzi, la collezione, mentre procede in avanti nella scommessa sul futuro,
seleziona all’indietro e documenta, ma in realtà, ancora una volta,
“costruisce”, vagliando, la storia stessa: la collezione diventa simile al
museo, espressione di una visione generale più che individuale, sociale e
pubblica più che privata.
Con il Surrealismo però si profilano, o acquistano il loro pieno
significato, almeno altri due caratteri e modi collezionistici interessanti per
noi. Innanzitutto una versione più nobile della ricostruzione retrospettiva di
un percorso di legittimazione del proprio punto di arrivo, che comporta una
vera e propria ricerca, e non solo un vaglio, con scoperte effettive e
reinterpretazioni e rivalutazioni critiche. Le chiavi del fantastico,
dell’inconscio, del meraviglioso, dell’invisibile, di uno sguardo attento ai
dettagli solitamente trascurati, a espressioni mai prese in considerazione – i
bambini, i pazzi, gli occasionali – aprono nuove vie in avanti, oltre a
suggellare all’indietro. La stessa collezione di André Breton ne è la
dimostrazione e ogni mostra e pubblicazione del gruppo surrealista non ha
mai mancato di una sezione o di una mescolanza con oggetti del genere. È
una concezione più dialettica, nel senso che attribuirà Walter Benjamin a
questa espressione, ovvero un cortocircuito temporale, invece che una
linearità conseguente e storicista, in cui il presente rilegge il passato in una
chiave nuova, anticipando un futuro ancora da venire: nel presente, cioè, si
ritrovano costantemente tutte e tre le dimensioni temporali intrecciate tra
loro. È un tempo-collezione.
E questa idea di tempo c’entra appieno anche con l’altro punto, ancora
più decisivo per noi, perché entra nel vivo delle modalità del collezionare e
individua anzi un suo meccanismo sicuramente comune a molti collezionisti
per passione. È quello che Breton ha chiamato “caso oggettivo”, mediando
da Freud un’interpretazione di come la scoperta di un oggetto d’affezione,
una scelta di gusto, una decisione di acquisizione siano regolate da un
movimento in due direzioni, non solo quello del collezionista verso
l’oggetto, ma anche quello dell’oggetto verso il collezionista, un incontro, un
“appuntamento” – come definiva Duchamp la scelta dei suoi ready-made. La
sensazione che l’oggetto “chiami”, faccia segno, attiri in qualche modo
misterioso lo sguardo del collezionista, altri caratteri strani rubricati sotto il
segno della casualità o della coincidenza, grazie alla psicoanalisi e al suo
riadattamento bretoniano si manifestano ora come effetti di un caso sì, ma
“oggettivo”, cioè reale, attivo, significante. Scrive appunto Breton
nell’Amour fou:

Per noi si trattava di sapere se un incontro, scelto tra i ricordi e tale che le sue circostanze
assumano un particolare rilievo dal punto di vista affettivo, fosse stato posto, per chi era disposto
a rievocarlo, fin dal principio sotto il segno della spontaneità, dell’indeterminatezza,
dell’imprevedibilità o anche dell’inverosimiglianza e, nel caso, in che modo si fosse svolta in
seguito la riduzione di questi dati. Contavamo su osservazioni di qualsiasi tipo, anche distratte,
anche apparentemente irrazionali, che potessero essere formulate a proposito del concorso di
circostanze favorevoli a un incontro di tale sorta per porre in risalto che quel concorso non è
affatto inestricabile e mettere in luce i nessi di dipendenza che uniscono le due serie causali
(naturale e umana); nessi sottili, fuggevoli, inquietanti allo stato attuale delle conoscenze, ma che
illuminano a volte di vividi bagliori i passi più incerti dell’uomo.1

Segue, com’è noto, il racconto della visita fatta insieme ad Alberto


Giacometti al mercato delle pulci dove ebbe luogo l’incontro “casuale
oggettivo” con la maschera di metallo e il cucchiaio con la scarpetta
all’estremità del manico. A posteriori il soggetto di tali incontri scopre un
significato che non aveva immaginato che gli oggetti avessero per lui: è
l’effetto del desiderio, che rovescia i tempi, che svela poi ciò che stava
prima, che cosparge la vita di oggetti sostitutivi dell’“oggetto
originariamente perduto”, dell’oggetto primario.
Sono molle del collezionismo che non erano ancora state indagate e che
aderiscono bene alla nostra ricerca dentro un collezionismo non utilitarista
ma passionale e creativo, meccanismi che continueranno a segnare certo
approccio psicoanalitico alla pulsione del collezionare. Ne fanno anzi una
pulsione metaforica dello stato stesso dell’essere umano dominato dal
continuo inseguimento di un soddisfacimento mai definitivo e di un incontro
dai tempi rovesciati e dai risvolti misteriosi, anzi “perturbanti”, perché
intrecciato con la pulsione di morte. Non che l’oggetto risulti sminuito
perché risolto in puro e occasionale sostituto, al contrario: non c’è desiderio
senza oggetto, esso è l’incontro, appunto, tra interno ed esterno, pulsione e
cosa, sé e altro. L’oggetto per il Surrealismo è “emblema”, come scrive Lino
Gabellone, capace com’è «di evocare il meraviglioso, di sostituirsi o di
identificarsi a esso come la parte al tutto».2 Investito di proiezioni
immaginarie, di valenze simboliche, di un gioco complesso di spostamenti e
sostituzioni, nucleo di polisemie e sovradeterminazioni, l’oggetto non ha mai
avuto tanta importanza per un movimento artistico e un valore così
illuminante per la collezione: la collezione come collage? come lacaniana
“catena di significanti”? Senza dubbio, e non più solo per il surrealista.
O come montaggio, in senso meno spaziale e più temporale? È forse la
versione che potremmo attribuire meglio ad Aby Warburg. Personaggio
straordinario a cavallo fra i due secoli, sembra ancora tutto ottocentesco,
scevro da avanguardie artistiche o filosofiche, ma anticipatore di ciò che
verrà ben oltre. Le sue “invenzioni” che ci interessano sono la biblioteca e
l’atlante Mnemosyne, inseparabili in realtà l’uno dall’altra, varianti della
stessa idea.
Figlio cadetto di una grande famiglia di banchieri, Aby, com’è noto, cede
ancora ragazzo il suo diritto di primogenitura sull’eredità in cambio della
promessa del fratello che gli acquisterà tutti i libri che desidera vita natural
durante. Verità o leggenda, l’episodio segna comunque la tonalità del suo
modo di fare. Storico dell’arte antica, del Rinascimento italiano in
particolare, Warburg mette dunque insieme una biblioteca organizzata per
materie di studio e tra loro e al loro interno non per ordine alfabetico o
cronologico ma per contiguità, per affinità di argomento, tanto che, laddove
occorra, lo stesso libro è presente in più copie in diversi scaffali. Il lettore
interessato trova insomma subito accanto al libro appena letto quelli che
proseguono, legano, combinano con esso. Ne viene fuori una biblioteca
alquanto singolare, ermeneutica e fantasiosa, più simile a una mente, a una
mappa della memoria, che a un progetto scientifico.
Mnemosyne è simile e in parte diverso. Antesignano di tutta una serie di
raccolte di immagini, come vedremo più avanti, è detto “atlante” perché è un
insieme di tavole a tema, composte di immagini disparate – riproduzioni di
opere d’arte, dettagli, ingrandimenti, monete, tarocchi, ma anche immagini
etnografiche, perfino pubblicità, e altro ancora – disposte su un fondo nero a
loro volta vicine o più lontane per affinità, per disegnare una rete di rimandi,
analogie e differenze, passaggi e ritorni, contiguità spaziali e di contenuto,
salti temporali. Un’organizzazione che è stata giustamente definita
“topografica”, una disposizione che valorizza i nessi di collegamento, gli
“intervalli”, una rete aperta anziché una sintesi gerarchica o forzata. Scrive
allora Philippe-Alain Michaud:

Che Warburg abbia concepito Mnemosyne in termini topografici […] è quello che pare
suggerire l’enigmatica formula di “iconologia degli intervalli” impiegata dallo storico dell’arte nel
suo diario nel 1929, cioè un’iconologia che verterebbe non sul significato delle figure […] ma sui
rapporti complessi che queste figure intrattengono tra loro in un dispositivo visivo complesso, e
irriducibile all’ordine del discorso.3
Di nuovo siamo di fronte a un pensiero visivo, “senza parole”, che non è
comunque riducibile alla struttura e alla logica strutturata dal verbale.
Questi accostamenti […] non derivano solo dal semplice paragone, ma dallo scarto, dalla
detonazione, dalla deflagrazione: non mirano a far emergere invarianti tra ordini di realtà
eterogenee ma a introdurre differenze in seno all’identico. […] In Mnemosyne […] la distanza
tra le immagini, a favore di un rovesciamento dei parametri di spazio e di tempo, serve a
produrre delle tensioni tra gli oggetti figurati e, per induzione, tra i livelli di realtà da cui
procedono questi oggetti.4

La chiave per comprendere questa composizione altra, sottolinea Michaud


conducendo l’argomentazione al nostro tracciato, è che essa è doppia:
«Bisogna cercare di comprendere al tempo stesso in termini di introspezione
e di montaggio».5 Non è la stessa chiave di comprensione della tipologia di
collezione che stiamo presentando? Il fattore soggettivo, introspettivo,
personale, è sempre intrecciato a quello della ricerca e dello studio, per cui
tutto è ricondotto alla propria esperienza, non abbandonato a un’oggettività
presunta ed esogena. Il collezionista vuole comprendere ciò che colleziona,
far proprio in questo senso totale, non solo riempire una casella di uno
schema.
La forma compositiva che ne deriva è il montaggio, come ha ormai
mostrato e anche teorizzato il cinema, ma più come mappa del pensiero,
della mente, che come metodo narrativo; mappa spaziale di un tempo che non
è lineare e progressivo, ma fatto di salti e di ritorni, di coesistenze e di
passaggi:

Ogni tavola di Mnemosyne è il rilievo cartografico di una regione della storia dell’arte vista
simultaneamente come sequenza oggettiva e come catena di pensieri in cui la rete degli intervalli
disegna le linee di fratture che distribuiscono od organizzano le rappresentazioni in arcipelaghi, o
ancora, secondo Werner Hofmann, in “costellazioni”.6

Attraverso queste disposizioni Warburg mette infatti a fuoco quelle che


chiama Pathosformeln, forme di espressione del pathos, del sentire, che
appunto si modificano, scompaiono, poi tornano, poi regrediscono, poi si
sviluppano di nuovo, secondo una temporalità complessa. “Una storia di
fantasmi per adulti” come Warburg chiamava anche il suo Mnemosyne: le
parti di una collezione sono come fantasmi, sempre semivivi, sospesi,
sempre in gioco, sempre ritornanti.
Warburg muore nel 1929. Ha anticipato molto: a lungo la sua eredità sarà
identificata in quell’iconologia che è invece la versione di Ernst Gombrich,
in qualche modo una normalizzazione, un addomesticamento del portato
warburghiano; poi l’anima antiaccademica del suo modo di fare si incrocia
con l’eredità di quelle avanguardie che egli non aveva considerato e che
avevano invece sperimentato con diversa radicalità alcuni modi affini. Il relè
principale, come ha mostrato in numerose occasioni Georges Didi-
Huberman, è stato certamente Walter Benjamin, contemporaneamente e
appena dopo, all’inizio degli anni trenta. La sua idea di “immagine
dialettica” e il suo lavoro incompiuto, detto Passagenwerk, ne sono i punti
Benjamin
cardine.
Ma vediamolo più direttamente in relazione al tema del collezionismo. È
da colto bibliofilo che Benjamin inizia la sua riflessione, appassionatamente
ancor prima che filosoficamente, mentre toglie la sua biblioteca – curioso
parallelismo anche questo con Warburg – dalle casse, come titola appunto
l’articolo che scrive sull’argomento. Esordisce denunciando «la noia leggera
dell’ordine» dei libri quando sono sugli scaffali e lasciandosi invece cullare
dalla «marea massima dei ricordi che travolge ogni collezionista che si
occupa del suo patrimonio», perché «se è vero che ogni passione confina col
caos, quella del collezionista confina col caos dei ricordi».7 Quella cui
Benjamin si abbandona con struggimento è la forma particolare di disordine
divenuta così familiare da poter apparire come un altro genere di ordine?
Ogni ordine, proprio in questi ambiti, è uno stato di sospensione sull’abisso
del caos, ma «in effetti, se c’è un riscontro all’assenza di regole che
caratterizza una biblioteca, questo è la conformità a regole del suo
catalogo».8 Così la vita del collezionista è tesa dialetticamente tra i poli
dell’ordine e del disordine.
Poi è legata anche a molte altre questioni: a quella del possesso, per
esempio, rapporto che Benjamin giudica «assai enigmatico», e soprattutto al
carattere che il filosofo sottolineerà con più enfasi anche nelle riflessioni
future, cioè «un rapporto con le cose che non esalta in esse il valore
funzionale e dunque la loro utilità, studiandole piuttosto e amandole come la
scena, il teatro del loro destino».9 I collezionisti, afferma qui Benjamin, sono
i fisiognomisti delle cose: «Basta osservare come un collezionista maneggia
gli oggetti della sua vetrina. Appena li tiene in mano, pare guardare ispirato
attraverso di loro, nelle loro lontananze».10 Lo si vede anche nell’«aspetto di
vegliardo» che il collezionista sembra sempre assumere, che tuttavia si
compenetra, in un modo che viene detto precisamente magico, con quello
infantile, che pure lo segna profondamente. Caso e destino si intrecciano;
quel che ne deriva è un’autentica rinascita:

Non esagero: per l’autentico bibliomane l’acquisto di un vecchio libro significa la sua rinascita. E
appunto in ciò sta l’aspetto infantile che, nel collezionista, si compenetra con quello del vegliardo.
I bambini, infatti, dispongono della capacità di rinnovare l’esistenza come di una prassi centuplice
e mai in imbarazzo. Per loro il collezionare è uno tra i tanti metodi di rinnovamento.11

Il possesso allora, conclude Benjamin, lungi dall’essere un vizio feticista, è


il rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose: «non
come se le cose fossero viventi nel collezionista, piuttosto è egli stesso che
abita in loro».12
Ma la riflessione di Benjamin sul collezionismo si fa più fitta e
impegnativa nel Passagenwerk. Riprende comunque dagli stessi argomenti:
«Il collezionista è il vero inquilino dell’intérieur», che è il “rifugio” stesso
dell’arte. «Egli si assume il compito di trasfigurare le cose. È un lavoro di
Sisifo, che consiste nel togliere alle cose, mediante il suo possesso di esse,
il loro carattere di merce.»13 Le libera dal valore d’uso, dalla «schiavitù di
essere utili». Anzi, ancora di più:

Ciò che nel collezionismo è decisivo è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie
per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto
opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza. Cos’è poi questa
“completezza”? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice
presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente
creato: la collezione. E per il vero collezionista ogni singola cosa giunge a diventare
un’enciclopedia di tutte le scienze dell’epoca, del paesaggio, dell’industria, del proprietario da cui
proviene. […] Tutto quanto fu oggetto di memoria, pensiero, coscienza, diviene piedistallo,
cornice, basamento, scrigno del suo possedimento.14

Per Benjamin determinante è il carattere storico dell’oggetto da collezione,


condensato del passato. Ma al presente il tempo subisce un’altra
trasformazione ben singolare, e peculiare della collezione, perché

quanto accade al collezionista è che gli oggetti gli capitano. Il modo in cui li insegue e li
raggiunge, la modificazione che un nuovo pezzo che si aggiunge apporta in tutti gli altri, tutto
questo gli mostra le sue cose in stato di perenne fluttuazione. […] (In fondo si potrebbe dire che
il collezionista viva un pezzo di vita onirica. Anche nel sogno infatti il ritmo della percezione e
dell’esperienza vissuta è così alterato che tutto – anche ciò che è in apparenza più neutrale – ci
capita, ci riguarda.)15

Allo stesso modo il possesso del collezionista non è quello del comune
proprietario di qualsiasi cosa, né corrisponde ad altro tipo di acquisto: è un
momento necessario, il momento che inscrive il singolo oggetto nel «cerchio
magico in cui s’irrigidisce, nell’atto stesso in cui un ultimo brivido (il
brivido dell’essere acquistato) lo attraversa».16 Perché, infine, «il motivo
più recondito del collezionista può essere forse così circoscritto: egli
intraprende una lotta contro la dispersione. Il grande collezionista è
originariamente toccato dalla confusione, dalla frammentarietà in cui versano
le cose in questo mondo». Il collezionista allora riunisce ciò che è affine: è
così che «può riuscirgli di dare ammaestramenti sulle cose in virtù della loro
affinità o della loro successione nel tempo».17
Affinità e destino sono la posta in gioco delle cose liberate dall’utilità
secondo Benjamin. L’unico esempio di collezionista che egli riporta risulta
significativo a titolo conclusivo: «Il grande collezionista Pachinger ha messo
insieme una collezione di oggetti che, per inutilità e stato di deterioramento,
potrebbero essere affiancati a quelli riuniti nella collezione Figdor a Vienna.
Non sa quasi più lui stesso come le cose si mantengano in vita, spiega ai suoi
visitatori, accanto ai più vetusti apparecchi, fazzoletti, specchietti etc. Di lui
si narra che, passeggiando un giorno per lo Stachus, si sia chinato a
sollevare qualcosa: giaceva là un oggetto cui aveva dato la caccia per
settimane: l’esemplare difettoso di un biglietto di tram, che era stato in
circolazione solo per un paio d’ore».18 Molto vicino a Kurt Schwitters, di
cui pure si racconta di come raccogliesse da terra scarti di ogni genere, in
cui vedeva il pezzo mancante che da tempo cercava per concludere un suo
collage, Anton Pachinger è come Breton al mercato delle pulci in L’Amour
fou.
Benjamin non pare aver direttamente collegato immagine dialettica e
oggetto da collezione, ma il rimando a noi pare evidente e preme ribadirlo:
l’oggetto che entra nella collezione è come un’immagine dialettica, compreso
l’effetto di shock che esso comporta sull’insieme in cui si inserisce, che
rimescola e ristruttura, creando nuovi nessi e percorsi. In tale oggetto i tempi
si dialettizzano, inserendosi in una cronologia che è storica ma anche
personale ed ermeneutica, che rilegge il passato alla luce del presente e che
anticipa un futuro già inscritto. Citiamo Didi-Huberman a chiarificazione del
dispositivo:

Benjamin intende [l’immagine dialettica] innanzi tutto nel modo visivo e temporale di una
folgorazione: “L’immagine dialettica è un’immagine che folgora” scrive nel 1939 nei suoi
frammenti su Baudelaire. E nei paralipomeni alla tesi Über den Begriff der Geschichte, nel
1940: “L’immagine dialettica è un fulmine sferico che corre sopra l’intero orizzonte del passato”.
Essa delimita in ciò uno spazio proprio, un Bildraum che caratterizza la sua duplice temporalità
di “attualità… integrale” (integraler… Aktualität) e di apertura “da ogni lato” (allseitiger) del
tempo. Tale è la potenza dell’immagine, e tale è anche la sua essenziale fragilità. Potenza di
collisione, in cui cose, tempi, sono messi in contatto, “urtati”, dice Benjamin, e disgregati nel
contatto stesso. Potenza di lampo, come se la folgorazione prodotta dallo scontro fosse la sola
luce possibile per rendere visibile l’autentica storicità delle cose.19

Infine gli stessi Passagenwerke sono di fatto una sorta di collezione,


montaggio di citazioni, corrispettivo letterario dell’Atlante warburghiano.
Preme ribadire anche questo, per sottolineare una volta per tutte che l’idea di
collezione di cui stiamo parlando non è una concezione astratta e formalista,
ma va necessariamente e storicamente insieme a una prassi che porta questa
forma fin dentro il proprio modo sia di pensare sia di esporre il proprio
pensiero. Warburg e Benjamin si distinguono da altri prima di tutto per
questo.

2 collezionismi All’opposto, per proseguire con la nostra scorsa storica, sembra che tra il
di Hitler
1939 e il suo suicidio nel 1945 Hitler abbia perseguito due modalità deformi
di collezionismo: l’una consisteva nel raccogliere i più grandi capolavori
dell’arte europea che incontrava sul percorso delle sue imprese, tra bottini,
confische e anche, pare, qualche acquisto; la seconda nell’ordinare la
sistematica riproduzione fotografica di tutte le opere d’arte importanti della
Germania, in caso fossero andate distrutte dalla guerra e dai bombardamenti
degli Alleati. Valga questo esempio d’effetto per ricordare come dal legame
tra megalomania collezionistica e pretesa archivistica possa correre in tutta
la sua esasperazione totalitaria il rischio del collezionismo archivistico non
creativo, se possiamo sintetizzare così.
Da parte sua, mentre i musei si moltiplicano in tutto il mondo, André
Malraux concepisce nel dopoguerra quello che chiama il “Museo
immaginario” o senza pareti, mentale, museo del sapere, che è sempre «più
vasto dei musei reali», che denuncia la staticità e le pretese oggettive della
museografia, che ricorda come, ancora una volta, non tutto ciò che è esposto
nei musei è nato come opera d’arte, che l’arte non aveva la stessa funzione
prima della modernità – prima della benjaminiana “epoca della
riproducibilità tecnica” –, che le cornici, gli stili, lo stesso sguardo non sono
mai stati come ora, che sono in continuo cambiamento. «La metamorfosi non
è un incidente, è la vita stessa dell’opera d’arte»,20 il Museo immaginario è
il museo consapevole del cambiamento continuo delle forme e delle
concezioni, delle funzioni e dei significati. Ma c’è di più: il museo «troverà
la sua forma solo quando avrà smesso di confondere l’opera d’arte con
l’oggetto d’arte, quando il Museo immaginario gli avrà insegnato che la sua
azione più profonda sta nel suo rapporto con la morte».21 Le opere non sono
oggetti, sono “voci”; l’arte non appartiene alla conoscenza, ma alla “vita”,
alla “presenza”: «il vero Museo è la presenza, nella vita, di ciò che
dovrebbe appartenere alla morte».22 L’arte non è come la parola, ma come la
musica: «È il canto della metamorfosi, e nessuno lo ha sentito prima di noi –
il canto in cui le estetiche, i sogni e persino le religioni non sono più che
libretti di una musica inesauribile».23
Questo museo è sì “immaginario”, ma è anche quello di chi ama
veramente l’arte, è la forma dell’amore, invece che della conoscenza,
dell’arte. In questo senso è un po’ il fondo, il sostrato su cui poggia ogni
desiderio di collezionare, di dare sostanza a tale “immaginario”, di dargli
forma visibile da esibire a chi non sente e non vede, o dimentica. Ogni
collezionista, fosse pure inconsapevolmente, esibisce la sua passione ideale
per l’arte, il suo senso di un Museo immaginario.
Tale museo, però, deve anche la sua concezione alla tecnica della
fotografia, in particolare a quel suo carattere che Benjamin ha chiamato
“inconscio ottico”. La fotografia infatti non solo amplia le possibilità visive
dell’occhio umano, ma mostra ciò che a esso spesso sfugge, o che guarda
senza vedere, come le posizioni nel movimento – come ha mostrato la
cronofotografia – o i dettagli negli ingrandimenti, ma anche solo la varietà
dei dettagli di una scena di cui lo sguardo seleziona sempre solo una parte,
fino agli aspetti propriamente inconsci sia del comportamento umano sia
dello sguardo.24 Così la fotografia ci ha mostrato parti, dettagli e aspetti di
opere d’arte che non avevamo mai visto o mai notato e che ora entrano a far
parte integrante dell’opera così come la vediamo, ricordiamo, interpretiamo.
Il Museo immaginario di Malraux è un museo di riproduzioni fotografiche, è
il libro omonimo, un altro “atlante” da questo punto di vista, un’altra
“opera”.
IV.

Dagli anni '60

Negli anni settanta del secolo scorso la situazione subisce un curioso


rovesciamento, la direzione si inverte: il collezionismo non è più solo affare
di chi, non artista, raccoglie le opere altrui, ma entra direttamente nell’arte,
come l’arte nel collezionismo; la forma del collezionare entra cioè a far
parte delle modalità del fare arte: gli artisti raccolgono ed espongono
collezioni quali opere proprie.
Come vi si è arrivati e per quali ragioni? È probabilmente lo sviluppo
dell’assemblage ad aver innescato la questione. Sviluppo tridimensionale
del collage, l’assemblage è già negli anni cinquanta nelle mani di Joseph
Cornell, di Robert Rauschenberg, dell’Independent Group, la forma che
dispone l’artista a raccogliere e ad accostare, a cercare modalità nuove di
stare insieme e di connettere.
Cornell costruisce piccole scatole, raccolte di materiali di affezione, di
ascendenza surrealista e schwittersiana, ma di atteggiamento del tutto
diverso, più intime, con rimandi in cui si intrecciano – come fa al caso
nostro – lo storico e il personale. Allora inserisce illustrazioni di opere del
passato o pubblicità o ritagli di giornale o oggetti che evocano l’arte del
passato e gli stili dell’arte d’avanguardia europea, sorta di «souvenir di un
mondo che non ha mai conosciuto direttamente», come scrive Kirk
Varnedoe,1 anticipo di una poetica della citazione che verrà solo vent’anni
dopo.
Su di lui e sulle sue opere Charles Simic ha scritto un libro che è a sua
volta una collezione, dal significativo titolo Il cacciatore di immagini.
Composto di brevi capitoli, anch’essi come delle piccole scatole di ricordi e
di osservazioni, basta percorrerne l’indice – “Viaggiatore in una terra
strana”, “Il metodo dei veggenti”, “Dove il caso incontra la necessità”,
“Terra incognita”, “Caleidoscopio divino”, “Una forza illeggibile”,
“Scacchiera dell’anima” – per costruire un elenco di argomenti tutti affini al
nostro. Ma riportiamo almeno un brano centrale:

Cornell sapeva quello che stava facendo? Sì, ma in prevalenza no. Chi può davvero saperlo?
[…] Il surrealismo gli fornì il modo di essere qualcosa più di un semplice eccentrico, collezionista
di bizzarrie varie. Le idee sull’arte vennero dopo, se mai vennero chiaramente. E come
avrebbero potuto? La sua è una pratica divinatoria.2

In Cornell collezionista e artista sono così intrecciati che Simic, per


mostrarlo, ne scambia addirittura i tempi: prima collezionista che artista, che
significa artista-collezionista fin dall’inizio. Ricorre qui un tema classico
della ricerca artistica moderna che è al cuore anche del collezionare: il “non
sapere”, che è, l’abbiamo ribadito diverse volte, un non sapere prima, cioè
un non seguire un progetto prestabilito, ma che talvolta viene scambiato per
un’inconsapevolezza esibita come antiformalismo e antintellettualismo. La
questione è invece quella dell’intreccio e rovesciamento dei tempi: è dopo
che il progetto acquista senso, si ristruttura, anche se poi appare come ordine
e dunque come se fosse stato stabilito prima. Il collezionare è appunto questa
idea di forma, attiva, che dà forma mentre si fa e che rende pertanto il
contenuto inestricabile dalla forma stessa. È la scoperta, è il memorabile «Io
non cerco, trovo» di Picasso.
La centralità di un’opera come Rebus di Rauschenberg, del 1955, sta per
noi nel suo mostrare il risvolto più attuale di questo argomento. Essa mostra
fin dal titolo di che cosa si tratta: il disporsi dei materiali di una collezione,
qui di un collage, così come il disporsi dei materiali di un pensiero visivo,
va visto come un rebus, vale a dire come un percorso di accostamenti,
incastri, salti, sovrapposizioni, non più lineare e sintatticoarmonico, che
tuttavia dà un senso, un altro senso, non più identificabile con una frase, un
“discorso”. Questo – il rebus – che, ricordiamolo, era già un’indicazione che
Freud dava per l’interpretazione dei simboli dell’inconscio nel “lavoro dei
sogni”, non è più una metafora, una fissazione formale, ma è ora come si
presenta alla nostra percezione e conoscenza il mondo stesso, quello urbano
in particolare, fatto di ritmi serrati, di stimoli diversi, interrotti e incastonati
l’uno nell’altro, di diversioni e distorsioni. Ora la nostra stessa mente lavora
in questo modo, raccogliendo come arrivano di mano in mano gli stimoli, le
immagini, i suoni, le idee, gli odori, che ci giungono in sequenze complesse e
casuali, veloci e da tutte le direzioni, e che selezioniamo e montiamo per
associazioni e automatismi. Niente più lentezza e linearità, omogeneità e
continuità del panorama naturale, ora è la grande città l’ambiente della vita
contemporanea. E con essa la tecnologia, l’oggetto prodotto industrialmente,
il design, il cinema.
È quanto ha registrato l’Independent Group londinese attraverso
l’evoluzione degli argomenti delle sue mostre. Se la prima mostra del 1951,
esito finale di una sessione di conferenze e gruppi di studio in cui si
organizzava, è “Growth and Form” (Crescita e forma) – allestita da Richard
Hamilton prima della fondazione ufficiale del gruppo –, incentrata ancora sul
rapporto tra forme naturali e forme artistiche, le seguenti si spostano
decisamente sugli argomenti della nuova vita urbana, poi centrali
nell’attività del gruppo stesso, tanto da farne l’anticipatore della Pop Art.
Dall’interdisciplinarietà si passa alla visione di un nuovo mondo le cui parti
sono integrate in un unicum. Ecco allora arte e vita, scienza, tecnologia,
design, cultura popolare legarsi sempre di più tra loro, fino all’ultima
leggendaria mostra, nel 1956, ambiziosamente e programmaticamente
intitolata “This Is Tomorrow” (Questo è il domani).
Il “domani”, dunque, di nuovo da intendere come il futuro anteriore,
anticipato o prefigurato dall’oggi. È la mostra dove appare il famoso collage
di Richard Hamilton Che cosa rende così diverse e attraenti le case
d’oggi?, ma soprattutto è una mostra i cui ingredienti vanno a costituire un
insieme inscindibile, esso stesso “opera” in questo senso, di un nuovo tipo,
una “installazione” le cui parti non sono separabili dall’insieme, non hanno
autonomia né valore, ma sono integrate in modo assoluto. Le immagini –
prese dalla pubblicità, dal cinema, dalle riviste, dai fumetti – e gli oggetti
creano un ambiente unico, un allestimento, senza opere e tutto opera, un
“terreno comune”, come dichiarato in catalogo.3 Una mostra-collezione
insomma.
Mentre nel 1961 si tiene la grande mostra “The Art of Assemblage” al
Museum of Modern Art di New York, che ricostruisce premurosamente il
percorso che dal collage ha portato al nuovo esito tridimensionale e
bricoleur che Rauschenberg sta sviluppando, l’anno seguente l’antropologo
Claude Lévi-Strauss pubblica il libro Il pensiero selvaggio, in cui è esposta
una teoria del bricolage che ne dà una versione non formalista e al tempo
stesso rigorosa e “strutturale”. Lévi-Strauss è infatti uno dei padri del
cosiddetto Strutturalismo, la corrente di pensiero che segnerà fortemente il
decennio appena iniziato e che formula sotto la denominazione di struttura
una delle modalità forti dell’idea di insieme, di organizzazione e di
costituzione, di assetto e di architettura del pensiero e del fare umano. Basata
sul modello linguistico messo a punto da Ferdinand De Saussure, la struttura
è l’essenza e al tempo stesso la composizione di ogni fenomeno preso in
considerazione. Organizzata per assi di opposizioni binarie, si presenta
come una griglia in grado di interpretare sia come il fenomeno è costituito
sia il suo significato.
Il pensiero selvaggio parte proprio dall’osservazione che anche il
pensiero dei “selvaggi” è meticoloso e ordinato, benché basato su altri
criteri ordinativi e altri parametri rispetto alla scienza moderna. Si tratta di
una “scienza del concreto”, basata sulle proprietà sensibili e analogiche, sui
caratteri comuni e le relazioni, invece che sull’analisi, le proprietà
specifiche e le possibilità combinatorie. Ebbene, prosegue, «sopravvive fra
noi una forma di attività che, sul piano tecnico, ci consente di renderci conto
abbastanza bene delle caratteristiche, sul piano speculativo, di una scienza
che preferiamo chiamare “primaria” anziché primitiva: questa forma è di
solito designata col termine bricolage».4 Il bricoleur è colui che esegue un
lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi dal professionista:

Il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre
all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via “finito” di arnesi e di materiali,
peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del
momento, né d’altronde con nessun progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le
occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i
residui di costruzioni o di distruzioni antecedenti.5

Nell’attività del bricoleur, poi più comunemente assimilata a quella


dell’artista, ritroviamo in realtà tutti i caratteri del “nostro” collezionista.
Ogni elemento del suo strumentario – insieme finito ed eteroclito, come ha
precisato Lévi-Strauss – non è vincolato a un unico impiego determinato ma
rappresenta un insieme di relazioni e di possibilità «al tempo stesso concrete
e virtuali».6 Il bricoleur «interroga tutti quegli oggetti eterocliti che
costituiscono il suo tesoro, per comprendere ciò che ognuno di essi potrebbe
“significare” […] così che ogni scelta trarrà seco una riorganizzazione
completa della struttura che non sarà mai identica a quella vagamente
immaginata né ad altra che avrebbe potuto esserle preferita»,7 ogni
modificazione che riguarda un elemento interesserà automaticamente tutti gli
altri e ogni stato intermedio di realizzazione divergerà inevitabilmente
dall’intenzione iniziale, se mai ce n’è stata una. Mentre lo scienziato tende a
porsi “al di là”, il bricoleur resta “al di qua”; il primo opera mediante
concetti, il secondo mediante segni definiti, sulla scorta di De Saussure,
come il nesso tra il precetto e il concetto; dove «il primo esige un’integrale
trasparenza alla realtà, mentre il secondo accetta, anzi pretende, che a questa
realtà sia incorporata una certa densità umana».8 In conclusione, «si
potrebbe dunque dire che lo scienziato e il bricoleur sono entrambi alla
ricerca di messaggi; sennonché, per il bricoleur si tratta, per così dire, di
messaggi pre-trasmessi e di cui egli fa collezione».9 In estrema sintesi, e per
stare ai termini linguistici e strutturalisti, nel bricolage «i significati si
trasformano in significanti e viceversa».10
Quanto questo abbia potuto interessare gli artisti e gli studiosi d’arte non
è difficile immaginare, e lo dimostra l’esplosione dell’assemblage,
assimilato per molti aspetti al bricolage, ma per noi ha anche e soprattutto un
altro valore rispetto al nostro percorso. Quello del collezionista è dunque un
“pensiero mitico”, un “pensiero selvaggio”? Certamente e ancor più
direttamente di quello dell’artista. E non sfuggirà allora nelle riflessioni di
Lévi-Strauss non solo il ruolo dato al “senso estetico” nel bricolage, ma
soprattutto il valore poetico che egli gli attribuisce e che coincide con quello
della collezione: «La poesia del bricolage nasce anche e soprattutto dal fatto
che questo non si limita a portare a termine, o a eseguire, ma “parla”, non
soltanto con le cose, come abbiamo già dimostrato, ma anche mediante le
cose».11
Ma la società di quegli anni è diventata una società non del bricolage, bensì
dell’accumulo e del consumo, del supermarket, della televisione, della
metropoli. È la “società di massa” oggetto della Pop Art. Non per niente uno
dei primi artisti a mettere insieme una vera e propria collezione da esporre
come opera propria, il Mouse Museum (1965-77), è lo stesso Claes
Oldenburg che ha aperto la sua carriera con l’esposizione delle proprie
opere in forma di Store, cioè come negozio, anziché come luogo deputato
dell’arte.
Il Mouse Museum è un piccolo museo, un padiglione a forma di testa di
Mickey Mouse stilizzata geometricamente, all’interno del quale è esposta la
collezione di trecentottanta gadget e objets trouvés di vario tipo e soggetto
raccolta da Oldenburg nel tempo. I gadget fanno il verso pop agli oggetti
estetizzati e caricati di “funzionamento simbolico” dai surrealisti; sono il
kitsch, come si usa dire in quel periodo, cioè il gusto di massa, cattivo o
commerciale che sia, al centro di un dibattito serrato e acceso, paradigma di
un vero e proprio scarto generazionale oltre che estetico. Chi aveva lanciato
tale dibattito negli Stati Uniti già del 1939 era stato il critico Clement
Greenberg, aspro difensore delle ragioni dell’avanguardia, cioè in quel
contesto del cosiddetto Espressionismo Astratto, contro ogni avanzata
dell’arte industriale e di ogni industrializzazione dell’arte, come già avevano
denunciato Adorno e Horkeimer.12
Il gesto di Oldenburg è significativo in sé, primo esempio di una pratica
che si diffonde in varie versioni. Il riferimento alle diverse scatole di
Duchamp – e in particolare alla Scatola in valigia realizzata tra il 1930 e il
1940 – che non abbiamo fatto fin qui perché non la consideriamo tanto una
collezione quanto una sorta di résumé della propria opera, museocatalogo
personale, non può essere del tutto passato sotto silenzio perché diventa
corrente per diversi artisti e gruppi, soprattutto dell’ambito di Fluxus e del
Nouveau Réalisme, ed è per loro il termine medio tra la parodia pop e la
critica all’istituzione.
Fluxus ne realizza la variante più radicale. Il movimento, basato sulla
convinzione che l’arte debba diventare creatività diffusa, che tutto è arte, che
niente deve diventare merce, tutto deve risolversi in un “flusso”, appunto,
continuo e inarrestabile, dedica molto spazio e tempo alla realizzazione di
ephemera, come vengono chiamati tutti quei prodotti che solitamente stanno
intorno all’opera vera e propria e alla sua esposizione, per esempio gli inviti
alle mostre, i biglietti da visita, le pubblicità, i cataloghi o i loro sostituti,
nonché i multipli, le fanzine, ogni genere di piccolo oggetto diffuso durante
le manifestazioni. Questi prodotti formano un insieme che ha tutta la logica di
una collezione, ma al tempo stesso ne sono anche l’opposto, perché
normalmente li si usa e poi li si getta, non vengono conservati; caricati di
attenzione da parte di questi artisti, essi intendono sovvertire l’aspetto
feticistico ed economico della collezione, aspirando invece a diventare un
simbolo di condivisione di un atteggiamento e di un’attività che deve
diventare comune, uno stimolo alla creatività di ciascuno, un invito al
pubblico affinché da passivo diventi attivo, artista egli stesso. Il paradosso
sarà naturalmente che anche l’effimero diventerà oggetto di investimento e
feticcio, e il sogno di Fluxus, come di alcuni movimenti giovanili
contemporanei, rimarrà un’utopia; ma questa, come si suol dire, è un’altra
storia.
Conta ribadire che dinanzi a una scatola Fluxus piena di foglietti e
oggettini, così come a una sua pubblicazione piena di immagini e interventi
di ogni genere, siamo di fronte più a un insieme di oggetti, a uno strambo,
neodadaistico, come si tende a dire, collage e assemblage, anziché a quello
che siamo abituati a considerare un’opera. Qui insomma la collezione
assume la valenza nuova della contestazione dello statuto tradizionale
dell’opera: che cos’è un’opera? Che cosa la rende riconoscibile come tale?
Un insieme di oggetti diversi può essere un’opera? Che cosa la distingue da
una semplice raccolta di materiali, dalla documentazione, dalla
divulgazione?
Sul concetto di collezione Marcel Broodthaers ha impostato ‒ secondo
Rosalind Krauss13 ma non solo ‒ il centro della propria strategia estetica,
oltre che la motivazione originaria della sua scelta di diventare artista. Come
egli stesso ha dichiarato, divenne artista per impossibilità economica di
essere collezionista: perché allora non farsi le opere da sé? Rovesciamento
indicativo della logica complessiva di questo artista.
La sua opera più famosa è senz’altro il Museo d’arte moderna.
Dipartimento delle Aquile (1968-72), un’enorme collezione di tutto quanto
ha come argomento l’aquila, da oggetti di uso quotidiano a opere d’arte
(anche in riproduzione), a documenti storici, a pubblicità, a vere e proprie
aquile impagliate. L’aquila vi è la presenza-simbolo, ossessivo filtro
attraverso cui vagliare le entrate di una raccolta e le uscite di una visione del
mondo, un simbolo non a caso a due facce: quella privata, personale della
forza e dell’acutezza della vista, e quella pubblica, politica, del potere e
dell’istituzione. Il lavoro di Broodthaers ha sempre queste due facce, è frutto
di una logica a due movimenti. Rosalind Krauss e Benjamin Buchloh
sostengono: «Il persistente senso di contraddizione può essere definito la più
importante caratteristica nei pensieri e nelle dichiarazioni di Broodthaers e,
sicuramente, nel suo lavoro»; ovvero: «Per dirla in sintesi estrema, esiste un
modo in cui egli seppe effettuare una forma di détournement su se stesso».14
L’osservazione è importante, perché sgancia il simbolo dall’essere
puramente un tema, un soggetto iconografico, come in tante collezioni
appunto “a tema”, per diventare l’indicatore stesso della logica del
dispositivo.
In questo senso Broodthaers ha realizzato un corrispettivo più “privato”
del Museo delle Aquile in un’altra opera, questa volta esplicitamente
intitolata Ma collection, che si presenta, almeno nel titolo, come la “mia”
collezione personale, più intima, e come un condensato significativo, invece
che un progetto aperto e ampio, suscettibile di sempre ulteriori apporti e
integrazioni. In realtà il “mia” di Ma collection gioca su un significato e una
forma autoreferenziali: la collezione di me. L’opera infatti è composta dalle
pagine di alcuni cataloghi di esposizioni cui l’artista ha partecipato e in cui
ha integrato un ritratto del poeta Mallarmé, che ricorre anche nelle altre parti
dei due pannelli (fronte e retro) che la costituiscono. La “mia” collezione è
la collezione di me come artista, della documentazione che mi riguarda – e
comprende la mia immagine, cioè me stesso, precisa Broodthaers – un
“sistema tautologico”, come lo definisce,15 se non fosse per quella presenza
singolare, atto d’affetto e dichiarazione estetica, del ritratto di Mallarmé.
È questa presenza di un omaggio sentito a reintrodurre l’intimità del
“mia” nella speciale collezione di Broodthaers e a fare dell’opera un
richiamo alla “vera” collezione, in contrasto con quella pubblica,
istituzionale, di potere. Qui la storia è introdotta nel proprio, invece che il
proprio nella storia. Tale è il giro logico che Broodthaers fa subire a questa
sua opera. Rosalind Krauss, richiamandosi a Douglas Crimp che si rifà a
Walter Benjamin, conclude la sua interpretazione osservando che la presenza
di Mallarmé introduce anche un’aria compassata, un “fuori moda”, che,
rimandando come Broodthaers fa sovente al XIX secolo, critica il
consumismo odierno e lo fa – come direbbe appunto Benjamin – secondo
«l’ambivalenza tra l’elemento utopico e quello cinico», poiché «proprio nel
momento dell’obsolescenza di una tecnologia questa [libera] ancora una
volta la dimensione utopica, come l’ultimo bagliore di una stella morente.
Poiché l’obsolescenza, vera legge della produzione delle merci, libera
l’oggetto fuori moda dalle restrizioni dell’utilità e rivela le false promesse
di quella legge».16 Altra modalità, quella di Broodthaers, machiavellica ma
contemporanea (cioè “decostruttivista” ante litteram), e sempre tutta
collezionistica, di liberare gli oggetti e le forme dalla “schiavitù di essere
utili”.
Obsolescenza Il tema della cosiddetta “obsolescenza”, rilanciato proprio da Krauss, è
un altro nodo importante dell’idea di collezionismo che andiamo qui
illustrando. Intesa solitamente come l’invecchiare, l’andare fuori moda –
secondo i parametri dell’avvicendamento obbligatorio, del sempre nuovo
della moda –, come ciò che va scomparendo, esaurendosi, perdendo di
utilità o appeal, era la molla della ricerca da parte del collezionista di ciò
che non si troverà più, del raro rimasto in pochi esemplari, di ciò che
incarna il passato. Benjamin l’ha invece ripresa in una versione diversa.
Secondo la sua ipotesi, in ciò che va scomparendo sostituito da una versione
più aggiornata, utile, efficace, si anticipa talvolta qualcosa di addirittura più
avanti, anzi di ciò che, scavalcando la nuova invenzione, la soppianterà con
un’altra da essa derivata. Così nel panorama, reso obsoleto e sostituito dalla
fotografia, in realtà è in nuce il cinema, che sarà uno sviluppo e superamento
della fotografia stessa.17 Evidentemente è lo stesso meccanismo temporale
dell’immagine dialettica, e allo stesso modo di quella ci dice come la
ricerca del passato da parte del collezionista è semmai ricerca
dell’obsolescenza, ovvero di ciò che possedeva un’anticipazione del
presente, e magari un barlume di futuro. Lo sguardo del collezionista è
quello che coglie tale spunto, tale nodo, che nella “malinconia” dell’oggetto
obsoleto non si ferma alla nostalgia del passato ma vede qualcos’altro che è
il presente a rivelare e che rimescola i dati del presente stesso ed è già teso
verso uno sviluppo insospettato.
Ora sono dunque gli artisti stessi ad accorgersi che collezionare è un modo
particolare di scegliere, accostare, tenere insieme le cose, e assumono
questa forma come una modalità del fare e dell’esporre. È, la loro, anche una
risposta “concreta” a una società che sta diventando prima di tutto una
società dell’immagine, o dello “spettacolo”, come denunciano i situazionisti.
Di fronte alla riduzione di tutto a immagine, alla sostituzione della presenza
materiale con la virtualità e a quella della ricerca dell’autentico con la
manipolazione del già noto, all’accumulo indiscriminato, alla quantità, al
consumismo del sempre nuovo, la collezione valorizza gli oggetti, ne gode le
relazioni, ricerca la qualità, riannoda le dimensioni temporali. È, infine, una
riflessione sulla forma stessa, e precisamente sul suo contenuto: sia
personale, privato, che pubblico, esemplare.
Ma c’è raccogliere e raccogliere, è chiaro. Qui a noi preme il raccogliere
in forma di “collezione”, non gli altri, né quello per ripetizione, alla Andy
Warhol, né quello a monte per costituire una riserva di soggetti per le
proprie opere, né quello a posteriori come documentazione-archivio,18 come
molti artisti pur fanno (e non a caso comunque in questo periodo), risposte
diverse alla stessa domanda di fondo. Lo dimostrano gli esempi più
eccellenti, a partire dallo stesso Andy Warhol che, mentre accumula per
ripetizione sulle tele, contemporaneamente, privatamente, per se stesso,
raccoglie quantità immense di materiali vari nella sua collezione personale
nonché in quelle che chiama Time Capsules, capsule del (o di) tempo: il
tempo appunto, il cambiamento, l’irreversibilità, la morte, tema centrale in
Warhol, ma anche il tempo interno di ogni capsula, di ogni raccolta; il tempo
come intervallo spaziale tra le parti di un momento esposto attraverso la
varietà dei suoi componenti simultanei, e il tempo in sé, qualunque cosa esso
sia, in quanto “cosa”, presenza. Oppure Gilbert & George, che dagli anni
settanta raccolgono nei Secret Files migliaia di campioni di tutto ciò che
entra poi nelle loro opere, delle immagini delle opere stesse e di tutto ciò
che vi sta intorno, progetti, esposizioni, mondanità, destinazioni; ma non
solo, raccolgono anche tutto ciò che li interessa ed è parte afferente alle
tematiche delle loro opere, che sono il loro mondo, la loro stessa vita: è
allora la collezione che rimanda all’opera o l’opera che rimanda alla
collezione?
Non riducibili né alla documentazione né al puro materiale preparatorio
per le opere, gli archivi di Gilbert & George risentono dell’atteggiamento
del collezionista. La quantità di fotografie di uno stesso soggetto supera di
gran lunga i preparativi di un’opera e innesca un salto di qualità testimoniato
da ciò che gli artisti stessi vi vedono e da come ne parlano, dalle riflessioni
che ne traggono: dimensione morale, microcosmo, cosmologia etc.

Ecco i contatti del sudore. Abbiamo scoperto dei fiori e dei motivi sorprendenti in queste gocce.
Ci fanno sempre venire in mente delle carte da parati cinesi. Tutte queste sono immagini di
piscio, ce ne sono letteralmente migliaia. E quelle sono di sangue e di sperma. Noi pensiamo che
in questi diversi motivi che si formano nel cuore stesso di questi soggetti abbiamo scoperto una
dimensione morale. Perché esistono dei crocifissi nel piscio? Perché dei pugnali nel sangue?
Forse l’essere è riflesso ovunque in noi e non solo nella testa, nell’anima o nel sesso, ma
percorre il corpo intero.19

Di contro alla praticità del sistema di archiviazione e alla concretezza


dell’accumulo si staglia la libertà della visione e l’attaccamento a ognuno
dei numerosissimi oggetti. Sono due vie diverse, quando non divergenti,
come affermano loro stessi: «Seguiamo due vie allo stesso tempo: una molto
organizzata, pratica, metodica; l’altra completamente folle, completamente
fuori, suonata».20 È qui che si colloca lo snodo del rovesciamento in atto.
Così anche per quanto riguarda l’entrata della collezione in arte
preferiamo, per sottolineare tale differenza di atteggiamento, le opere che
manifestano una dinamica interna anziché esterna, una spinta interiore
anziché autoreferenziale, una “poesia” anziché una chiusura. E dunque, per
esempio, non tanto l’opera di Bernd & Hilla Becher, che pare voler stoccare
tutte le occasioni di un soggetto, quanto invece un progetto come quello della
Variable Piece #70 (1971) di Douglas Huebler, che aspira inverosimilmente
a «documentare fotograficamente fino alla fine dei suoi giorni l’esistenza di
ogni persona vivente, con lo scopo di produrre la rappresentazione più
autentica e più completa della specie umana che possa venire così riunita».
Vi è in essa un compito impossibile assunto come tale fin dall’inizio, che dà
al progetto, alla serialità tipici di tanta Arte Concettuale,21 uno slancio
poetico ed esistenziale che rimanda al dopo anziché al prima, che differisce
anziché eseguire, che dà vertigine – che “confonde”, potremmo anche dire,
come ha fatto Huebler in altre opere mescolando gli spazi e i tempi in modo
da renderli irriconoscibili secondo i criteri stabiliti – anziché asserire.
I casi più clamorosi di raccolte di immagini che diventano
programmaticamente opere sono di area germanica, ognuno diverso e che
presenta un lato differente della questione del rapporto raccolta-opera. A
partire da Gerhard Richter, con il suo Atlas (work in progress dal 1962).
Atlante, appunto, e non semplice riserva o archivio di soggetti per le opere,
suggerisce più direttamente come anche l’artista colleziona “prima” di
dipingere, sceglie cioè i soggetti delle proprie opere un po’ come il
collezionista sceglie le opere della propria collezione, e li tiene tutti a
disposizione in un insieme simultaneo, creando rimandi, connessioni,
sviluppi, agganci. D’altro canto la collezione come forma è anche una
risposta al museo come istituzione, alla sua struttura rigida e
autoreferenziale, metadiscorsiva anziché diretta, formalista anziché vitale,
tutta pubblica e istituzionale piuttosto che, almeno dialetticamente, anche
privata e intima. E poi è risposta alla critica stessa del museo,
dell’istituzione, dell’esposizione, che entra sempre più nell’arte degli anni
settanta, a sua volta, da questo punto di vista, spesso rischiosamente
formalista e metadiscorsiva.
Ma il caso Richter presenta ulteriori risvolti ampiamente ripresi dai suoi
commentatori. Come nasce veramente l’Atlas e che finalità effettiva aveva e
ha? Ma soprattutto, con quale atteggiamento? È una ricerca iconografica
come sembra, oppure la sua esasperazione nichilista annullante? E in che
senso è iconografia? In che modo, infine, diventa opera a sé?
Che da un certo momento in poi sia stata in qualche modo intesa come
opera lo dimostra la sua esposizione in diverse occasioni, a parete –
vedremo più avanti il significato di questa precisazione – e incorniciata
pezzo per pezzo. Che sia un’opera sui generis è questione centrale qui,
conviene ribadirlo, perché questo incrocio di collezione e opera cambia lo
statuto di entrambe, certo non solo di quello della collezione, anche se
questo aspetto in Richter è ancora in nuce rispetto ad altri che seguiranno,
perché comunque l’artista ancora dipinge a partire da alcune delle immagini
collezionate e dunque resta questa ambivalenza.
Sul tipo di immagini, sul sistema di scelta e di catalogazione, le
discussioni sono numerose e ancora aperte. L’aspetto più interessante è come
l’Atlas contenga in sé diversi modelli di raccolta, e non si attenga a uno solo,
omogeneo. C’è un po’ dell’album di famiglia nelle immagini private, c’è
l’album di ritagli, c’è lo studio di dettagli di proprie opere – quindi anche
immagini “dopo” l’opera – e altro ancora. Anche sulle ragioni di una
raccolta così complessa le ipotesi sono molte: si va da quelle estetiche, di
sintonia con la Pop Art nel voler lavorare su immagini già esistenti piuttosto
che inventarne di nuove, alla volontà di distinguersene scegliendone di
diverse da quelle del consumo (scatolette, divi, fumetti o simili); alle ragioni
di contenuto, soprattutto là dove prevalgono i rimandi storici o artistici,
aggiornati all’attualità o intrecciati all’autobiografia; alle ragioni che
saranno poi dette “postmoderne”.22 Su queste ultime il dibattito è il più
acceso: Richter, come Warhol, azzera tutto mettendolo sullo stesso piano
nell’indifferenza, ritraducendo tutto in grigio, quando non dissolvendo in
pennellate astratte o altro modo? C’è Aby Warburg o c’è Jean Baudrillard
dietro questo Atlante?
In gioco è il senso dell’iconografia oggi, e il senso della documentazione.
Da un lato c’è il diventare tutto immagine, per cui l’iconografia cerca la
ricorrenza delle stesse immagini o di dettagli come segno indicativo al di là
del suo contenuto manifesto; dall’altro c’è il viaggiare, fra un po’ si dirà
“navigare”, tra le immagini alla ricerca di sintomi e metafore; dall’altro
ancora c’è il lato personale dell’appropriazione, l’intrecciare il proprio
dentro a ciò che è pubblico e condiviso. Ancora: da un lato l’artista
sicuramente raccoglie e guarda le immagini diversamente dallo studioso,
dallo storico e dal filosofo; dall’altro, e in ogni caso, il lavoro stesso
dell’artista sta diventando molto simile a quello del collezionista. Infine, per
trasposizione, se l’Atlas di Richter è un’opera, l’opera di Richter è un
Atlante, cioè l’insieme dei dipinti dell’artista va guardato come una
collezione, va sfogliato come l’Atlas.
Il libro diventa spesso la destinazione o il supporto – oggi si direbbe il
medium – per le operazioni artistiche che allora vengono definite
genericamente concettuali.23 Ma qui siamo appunto al margine dell’Arte
Concettuale, segno anche questo della particolarità della questione che
stiamo affrontando. Ebbene, non hanno molto della collezione come la
intendiamo qui i libretti o i pieghevoli di Ed Ruscha degli anni 1963-68,
diversamente da quelli di Hans-Peter Feldmann, che anzi imposta tutto il suo
lavoro in termini di collezione. Dal 1968 fabbrica piccoli libretti con
immagini trovate e raccolte, perlopiù a tema, spesso vere e proprie
collezioni in senso tradizionale, di cartoline, poster, immagini tratte da
riviste e periodici. I soggetti sono i più vari, ma sostanzialmente semplici e
diretti, come ritratti, fototessere, figurine di calciatori, animali, oggetti,
bambini, uova, verdure etc. Dal 1977 presenta anche direttamente le raccolte
e inizia una serie di esposizioni di oggetti, sempre di collezionismo, come i
giocattoli e i gadget.
I libri e le raccolte non hanno particolarità evidenti e Feldmann sembra
giocare al puro raccogliere e al presentare mere raccolte, lasciando
all’osservatore qualsiasi tipo di deduzione. Certo, talvolta i titoli sono
pungenti, come l’esplicito Voyeurisme, benché piuttosto generale. È appunto
una questione di immagini e di sguardo, di immagini già esistenti e del modo
di guardare. Sicuramente non si tratta di iconografia, ma il raccogliere per
temi induce al confronto, al pensiero della variante, della varietà e della
variazione. Il voyeurismo indica il lato individuale e personale di questa
operazione. Quando, nel 2008, Feldmann ha finalmente riunito in un volume
più grande e a più vasta tiratura diverse sue collezioni di immagini, l’ha
intitolato Album, ribadendo il carattere personale e insieme ludico delle sue
raccolte. L’album è quello che ciascuno realizza per sé, ma è anche quello da
riempire con le figurine, uguale per tutti. È l’immagine della “società
dell’immagine”, come ormai viene chiamata l’attuale, e al tempo stesso il
contesto in cui ciascuno si muove inevitabilmente. In esso, collezionare è già
un fare attivo, un selezionare, un cercare il proprio percorso, il proprio
insieme, la propria posizione.
I “libri” di Feldmann hanno un evidente intento polemico, contro il
mercato, contro la feticizzazione dell’opera. Sono davvero “opere” questi
libri? Chi li considera tali? Infine anche i libri diventano oggetti da
collezione e il gioco si perpetua automaticamente: collezionare diventa
contagioso e un altro “sistema” si crea in alternativa a quello conclamato.
Sia per Richter sia per Feldmann si tratta di immagini trovate, mentre altri
artisti le hanno realizzate da sé. Qui la fotografia acquista un ruolo
importante e solo apparentemente scontato, perché rimette in gioco la
questione del documento ma anche quella del ready-made. L’Arte
Concettuale, la Body Art, la Land Art, l’happening, la performance hanno
infatti recuperato la fotografia in quello che potremmo chiamare il suo
“grado zero” documentario, pura registrazione dell’intervento artistico, tanto
più neutra in quanto non opera ma sua rappresentazione, in varie forme e
modi. Ma questa neutralità ha fatto anche pensare al procedimento
fotografico come a un ready-made meccanico, prelievo non di un oggetto in
sé ma di un’immagine che sta per quell’oggetto. Lo stesso Ruscha ne parla in
questi termini per le immagini dei suoi libri-opera. In quest’ottica la
fotografia, la serie fotografica, il libro, ogni altro supporto fotografico o
qualsiasi tipo di presentazione, come andiamo a vedere, possono diventare
opera a tutti gli effetti.
Così Dieter Roth inizia nel 1973 un’operazione che lo porterà alla
realizzazione, in due fasi, dal 1973 al 1975 e dal 1990 al 1998, di ben
trentunmila diapositive. Il soggetto sono le case di Reykjavik, la capitale
dell’Islanda, e il progetto ha una sua sistematicità inventariale, ma in qualche
modo assurda in sé, sia perché sostanzialmente inutile, sia perché, come nel
caso di Huebler, impossibile nel tempo, dato che case vengono abbattute e
altre costruite, sia infine perché destinata alla presentazione in proiezione,
cioè in pura visione, non archiviata per studio o altra funzione.
Raccolte in centinaia di caroselli di diapositive, stoccati su semplici
ripiani in legno, sono un ben particolare tipo di opera: sono le diapositive
l’opera, o le immagini proiettate, o la proiezione stessa, o l’installazione
d’insieme? Ancora una volta la domanda non è peregrina, perché restituisce
il nodo che è anche il senso dell’operazione stessa. Nel progetto sono infatti
intrecciati memoria personale e memoria collettiva, storia e geografia,
potremmo anche dire sociologia e biografia, oltre che arte e puro documento.
La proiezione continua delle diapositive, il rumore dei caroselli che ruotano,
il misto di freddezza, a volte desolazione, solitudine, e insieme le tracce
inevitabili di vita, rendono bene il tono e il contenuto di questa operazione,
la quale, mentre ci svela il fondo rimosso e il lato automatico di ogni
archiviazione, ci manifesta anche il fondo di incompletezza e di impossibile
chiusura della collezione.
La dialettica tra completezza e aleatorietà, pretesa sistematica e
impossibilità, il senso di inseguimento di un compito senza fine è al centro
dell’impresa collezionistica di Maurizio Nannucci. Dispiegato in due
modalità diverse, l’una che si riflette sull’altra, finisce con il segnare
l’intero suo lavoro. Da un lato, infatti, l’artista è un vero e proprio
collezionista di quegli ephemera di cui abbiamo già parlato, cartoncini di
invito, fanzine, ogni tipo di pubblicazione e gadget prodotto da artisti,
gallerie, musei, riviste; dall’altro ha realizzato in diverse occasioni opere
che sono a loro volta collezioni.
Il primo, iniziato già alla fine degli anni sessanta insieme ad altri artisti
amici, ha dato come risultato l’Archivio Exempla e poi l’Archivio Zona, a
Firenze. In esso assume tutto il suo significato l’“effimero” contenuto nella
denominazione di questo tipo di oggetti:

La logica di un oggetto ha sempre una durata limitata che difficilmente si riesce a trasmettere
nel tempo. Per questo ho rivolto subito la mia attenzione, oltre al nucleo bibliografico, a tutti quei
documenti che mi sembravano fragili per la loro stessa natura e che data la loro circolazione
marginale non credevo avessero possibilità di essere collezionati.24

Aspetto interessante, Nannucci conserva tutti i materiali in un rigoroso


ordine cronologico, a cui l’artista lega un valore più evocativo che
propriamente storico, come la visione di una storia altra, di una storia
attraverso i dati minori, più trascurati, meno considerati, più impastata con
la memoria individuale che una pura storia di dati e di informazioni: una
storia (im)possibile, per così dire, possibile ma mai del tutto, sempre
frammento e parte, discontinua. Dice l’artista:

Non nutro un interesse scientifico o accademico […]. Ho bisogno di operare con confini larghi
entro i quali vivere l’ambivalenza del rassicurare o del creare dubbi. Un luogo in cui si mescola il
narrativo e l’analitico che sono in me… Amo soprattutto dare una circolazione dinamica alle
cose, alle idee.25

È forse questo il filo che unisce l’attività collezionistica a quella


propriamente artistica, nella quale Nannucci produce in maniera ricorrente e
costante opere che sono a loro volta piccole collezioni. Lavori fotografici in
cui è messo in azione e al tempo stesso in discussione il principio di
catalogazione. I colori e i loro nomi innanzitutto, già nel 1967 con Faber-
Castell Polychromos, con tutti i colori di una confezione di pastelli di quella
marca, e Nomenclature, con i nomi dei colori, ma soprattutto Colori della
terra e Sessanta verdi naturali del 1973, composti di fotografie di terre e di
foglie diverse e perciò di cromie diverse, a riprendere la realtà e
inclassificabilità reale dei colori, la impossibile corrispondenza con un
nome, l’infinità della gamma e insieme la sua finitezza dovuta alla realtà. La
fotografia è qui proprio il senso del reale contrapposto a quello della
nominazione. E poi ancora: Giardini botanici, 1969-92, fotografie di
giardini botanici visitati nel tempo; Lives Here, 1975-87, fotografie
dell’entrata dell’abitazione di amici artisti; Stored Images, 1975-92,
fotografie degli archivi frequentati, dunque archivio degli archivi, fotografia-
collezione di collezioni; e così via. L’artista li considera “progetti aperti”, in
progress, destinati a proseguire nel tempo, mai chiusi, proprio a sottolineare
la continuità in dialettica con la fissazione.
Alla fine, anche per lui, possiamo dire che i suoi due percorsi si
intrecciano inestricabilmente. Anche il resto dell’opera di Nannucci, cioè,
può essere visto come una sorta di collezione: si prendano soprattutto le
scritte al neon per le quali è più noto, non sono a loro volta una collezione di
frasi – a differenza per esempio di un Lawrence Weiner o di una Jenny
Holzer – più che degli enunciati espressi dall’artista stesso?
V.

Ma è negli anni ottanta e seguenti che vi è un’esplosione di presenze di


collezioni in arte. Il fatto, come dicevamo, corrisponde allo spirito dei
tempi, al pensiero che da varie parti è detto postmoderno. “Simulacro” ancor
più che spettacolo, l’immagine ha ormai inghiottito, sostituito completamente
la realtà, secondo la versione baudrillardiana: tutto passa per l’immagine,
copia senza più originale di un mondo che si esperisce solo nella
dimensione, più che mediata, virtuale, simulata.
Baudrillard:
Il sistema
Come intende la collezione Jean Baudrillard? Su di essa ha scritto già
marginale: la alla fine degli anni sessanta un intero capitolo del suo Sistema degli oggetti,
collezione
intitolandolo “Il sistema marginale: la collezione”, in cui riassume con
grande acume i maggiori temi legati al collezionare e alla posizione come
pure al significato che l’oggetto assume o prefigura in esso. Ripercorriamo il
testo sinteticamente.
Oggetto causa
Il punto di partenza è la definizione dell’oggetto della collezione come di passione
«causa e soggetto di una passione», una passione diversa da quella che,
«temperata, diffusa e regolatrice», nutriamo anche per gli oggetti quotidiani
che possediamo, quelli segnati da una mediazione pratica, funzionale,
strumentale, non coinvolti in particolar modo dal senso del possesso. I
presupposti benjaminiani dell’impostazione di Baudrillard ci sono noti, ma
gli sviluppi sono originali:

Ogni oggetto ha dunque due funzioni: la prima è l’essere pratico, la seconda l’essere posseduto.
Quella dipende dal campo di totalizzazione pratica del mondo attraverso il soggetto, questa da
un’impresa di totalizzazione astratta del soggetto attraverso se stesso e al di fuori del mondo.1
Gli oggetti liberi dal loro uso disegnano degli speciali insiemi, delle
speciali totalità: «Non ne basta più uno solo: è sempre una serie di oggetti,
al limite una serie totale, che diventa progetto compiuto». Questa serie che
tende a essere completa spiega la perdita di singolarità di ogni oggetto e la
sua sostituibilità, da cui deriva il misto di soddisfazione e di delusione di cui
è sempre fonte. Per questo, prosegue Baudrillard,

soltanto un’organizzazione più o meno complessa di oggetti che rimandano l’uno all’altro
determina il singolo oggetto in un’astrazione sufficiente perché possa venire recuperato dal
soggetto nell’astrazione vissuta, cioè nel sentimento di possesso. Questo tipo di organizzazione è
la collezione: in essa trionfa la tensione appassionata verso il possesso, dove la prosa quotidiana
degli oggetti diventa poesia, discorso incosciente e trionfale.2

Baudrillard scorre allora le analogie e i rapporti tra passione collezionistica


e altre passioni, da quella erotica e sessuale a quella del fanatismo religioso,
da quella dell’appassionato di miniature persiane a quella del collezionista
di scatole di fiammiferi. Quindi passa in rassegna le astuzie della
soggettività nel gioco di rispecchiamenti in cui è presa di fronte all’oggetto
della passione di possedere: «La singolarità assoluta deriva dal fatto di
essere posseduto da me, il che mi permette di riconoscermi in esso come
essere assolutamente singolare». Qui l’analisi baudrillardiana finisce con il
mostrare un poco il suo limite psicologico, nonostante i voli teorici:

Un qualunque oggetto non si oppone mai alla moltiplicazione dello stesso processo di proiezione
narcisistica operata su un numero indefinito di oggetti, ma l’impone invece, prestandosi a
un’ambientazione totale, a una totalizzazione delle immagini di sé; ecco il miracolo della
collezione. Perché in realtà si colleziona sempre il proprio io.3

L’elemento finale della collezione non è altri che il collezionista, il quale


diventa se stesso solo sostituendosi a ogni elemento della collezione. Ma
allora che miracolo è, ci viene da chiederci?
Proseguiamo ancora con Baudrillard: che la chiave della passione non sia
il possesso ma la curiosità? Emerge allora un’altra problematica che è
quella della mancanza, e con essa quella della morte, e attraverso di esse
quella della dimensione della collezione, della sua finitezza e possibile
completamento o infinitezza e impossibile chiusura; e ancora e soprattutto
quella del rapporto con la realtà: «La mancanza è vissuta come sofferenza
ma è anche la frattura che permette di evitare il compimento della collezione,
che significherebbe una rottura definitiva con la realtà»;4 e il rapporto con il
tempo: «L’uomo non trova negli oggetti l’assicurazione di poter
sopravvivere, ma di vivere d’ora innanzi il processo della propria esistenza
continuamente secondo una modalità ciclica e controllata e di superare
dunque simbolicamente l’esistenza reale il cui svolgersi irreversibile gli
sfugge».5 E infine: «La collezione si libera dal carattere di accumulazione
pura, per la sua complessità culturale, per l’incompletezza. Una mancanza è
sempre, in definitiva, un’esigenza precisa di un oggetto assente. Il fatto che
l’esigenza si traduca e si trasformi in passione, ricerca, messaggio agli altri,
basta a rompere l’incanto mortale della collezione, in cui il soggetto si
impoverisce nella pura fascinazione».6
Siamo piuttosto lontani dal nostro modo di intendere la collezione,
soprattutto perché Baudrillard non è positivo nel suo modo di considerarla,
nonostante sembri prometterci un miracolo nella logica del collezionare. La
sua domanda finale è formulata come segue: «Il problema si può impostare
in altro modo: possono gli oggetti costituirsi in un linguaggio diverso? È in
grado l’uomo di istituire attraverso gli oggetti un linguaggio altro da un
discorso chiuso in se stesso?». La risposta è secca e negativa: «Il materiale
della collezione, gli oggetti, è troppo concreto, troppo discontinuo perché
possa articolarsi in una vera struttura dialettica. Se chi “non fa collezione di
nulla, è un cretino”, il collezionista ha sempre in sé qualcosa di povero e
disumano».7 Forse la questione sta proprio qui: colui che diventerà il
filosofo del “simulacro”, della sostituzione del reale con l’immagine
dell’immagine, ha qui ancora a che fare con oggetti «troppo concreti, troppo
discontinui», e in fondo non cerca di immaginare un «linguaggio altro» ma
una «vera struttura dialettica». Forse con le immagini potrebbe intravedere
una collezione più positiva. O ancora più negativa, visti certi sviluppi
seguenti del suo pensiero? Forse per Baudrillard la sostituzione della realtà
con l’immagine rischia una nuova versione “totalitaria” della collezione, una
simulazione del mondo ormai perduto? Oppure il mondo si rinnova, rivive
nella sua globale rappresentazione in immagine?
È in questo insieme di domande che ci pare di poter inquadrare le
imprese neototalizzanti di fotografare tutto, al limite il mondo intero,
versione attuale dell’archivio. Si pensi allora a progetti come Sichtbare Welt
(1986-2001) di Fischli & Weiss o a quello di Armin Linke che consiste nella
messa a disposizione di tutte le sue immagini nel suo sito Internet 4Flight
(2000). Tutto pare diventare immagine, ma non tutto si risolve in immagine,
la simulazione non è assoluta: par di scorgere ancora una differenza che si fa
avanti, anzi che prevale. In Fischli & Weiss resta il desiderio – o bisogno? –
di viaggiare, di andarsene, di essere da un’altra parte, di “vedere”. Il
“visibile” del mondo nel titolo segna l’ambivalenza stessa della
rappresentazione in arte, il suo essere illusione ma anche altro,
contemporaneamente medicina e veleno (o fiore e fungo velenoso, quali sono
sovrapposti in un’altra loro serie), sostituto ma un po’ diverso. In Linke resta
lo slancio del fotoreporter a caccia di luoghi unici, difficili da raggiungere, e
la loro proiezione – il “volo” – in avanti, come immagini del futuro più che
del presente.
E intanto cambia anche il modo di esporre questi insiemi: Fischli &
Weiss lo hanno mostrato in forma di diapositiva su tavoli luminosi, mentre
Linke lo immette regolarmente nel proprio sito web, lasciando al visitatore
la scelta del percorso e la possibilità di crearsi la propria collezione di
immagini da pubblicare in un libro on demand personalizzato. È dunque
esplicita in entrambi la volontà di non essere scambiati per meri archivi,
pura documentazione, e anzi di inventare nuovi modi di tenere insieme le
cose e di tracciarvi dei percorsi. La vastità delle operazioni, la loro
inesauribilità intrinseca, non è né progetto né vertigine, non induce né invoca
lo smarrimento o l’arbitrio, ma è costruzione di mano in mano: è crescita,
proprio come una collezione.
Il Postmodernismo non è infatti solo quello descritto da Baudrillard, è
anche la riapertura delle questioni, la necessità di riconsiderarle dopo il
cambiamento sancito dal prefisso “post”; è anche una sorta di libertà dopo
l’eccesso di analisi, una disinvoltura acquisita dalla consapevolezza che
ogni soluzione fissa inciampa nell’universalismo, che ogni posizione rigida
si svuota nella pretesa; è anche desiderio dai percorsi e dalle strategie non
lineari, è accettazione delle peripezie dell’animo e attenzione alle
meccaniche della passione.
Gli artisti hanno la loro da dire, da mostrare, in questo ambito. Il
desiderio di totalità, “preso per la coda”, diremmo parafrasando Picasso,
torna così in versione deviata. E non solo in immagini, ma nei modi più
disparati. Due esempi alquanto singolari sono quelli di Christian Boltanski,
che trova il censimento pubblico probabilmente più completo – e insieme
più “esposto” – dell’umanità nella sua forma già materiale degli elenchi
degli abbonati telefonici di tutto il mondo,8 o quella di Bertrand Lavier che
raccoglie tutti gli artisti di cognome Martin del xx secolo e ne espone
un’opera ciascuno, considerando l’insieme la sua propria “opera”.

Che la collezione sia una risposta possibile, sorta di rovesciamento in


positivo dei caratteri che una certa critica del Postmodernismo ha divulgato
come negativi? Così il Postmodernismo, secondo Fredric Jameson, è
caratterizzato dalla riduzione della profondità a superficie,
dall’indebolimento della storicità, sia pubblica che privata – «collasso
schizofrenico nella catena significante»,9 come lo chiama rifacendosi a
Jacques Lacan –, dalla derealizzazione della realtà ridotta a immagine che
produce una «sublime isteria», dall’abolizione infine della distanza critica e
dunque dall’esplosione delle autonomie e specificità, sostituite da una
perpetua distrazione e frammentazione psichica, sorta di «paranoia high-
tech». Ma se l’orizzontalità, l’uscita dalla storia, isteria sublime e paranoia
fluttuante, zapping e fine delle specificità fossero invece dei punti di
partenza per logiche diverse e comportamenti nuovi?
In questo senso, almeno in parte, può venir intesa la frequenza con cui
diversi artisti nell’ultimo decennio del secolo in particolare hanno esposto le
loro collezioni, collezioni che hanno raccolto accanto al proprio lavoro
d’artista e che a un tratto hanno fatto entrare nella loro opera, esponendole
come opera propria: finalmente opera e collezione si identificano
completamente, la collezione è l’opera, l’opera è una (la) collezione.

Così, ancora un po’ autoreferenzialmente, o post-autoreferenzialmente, se


così si può dire, Jac Leirner e Sylvie Fleury hanno esposto le loro collezioni
di borse, il primo di plastica, la seconda più snobisticamente “di marca”.
Borse che sono a loro volta strumenti per raccogliere, raccattare, fare la
spesa o lo shopping di lusso. Il gesto qui è autoreferenziale perché espone
una collezione per parlare del collezionare: lo shopping ne è la versione
postmoderna, non più il consumo in senso pop, ma la scelta attraverso ciò
che è messo a disposizione dalla società come costruzione del sé – non per
niente l’opera di Sylvie Fleury era nella mostra “Posthuman”, incentrata su
questo tema10 –, della propria individualità e singolarità, se non della
propria originalità, concetto invece moderno. In questo senso tali opere sono
un’anticipazione di quello che Nicolas Bourriaud chiamerà alla fine degli
anni novanta la Postproduction, cioè l’arte incentrata sull’utilizzo diverso di
ciò che è già prodotto.11
Noi siamo ciò che usiamo – non più il pop: noi siamo usati da ciò che
scegliamo – e la nostra identità non è riducibile alla somma, alla superficie
dei prodotti che usiamo, così come l’immagine dell’intera superficie, vedi
Leirner, non è riducibile a una superficie tatuata con i marchi pubblicitari,12
così come l’installazione di Leirner non è riducibile alla pittura e quella di
Fleury alla scultura, per quanto l’una punti sulla bidimensionalità e l’altra
sull’oggettualità. Ready-made postmoderni, essi invadono volutamente il
nostro spazio per coinvolgerci nella loro performatività: cosa facciamo noi
in quel senso? Che cosa e come scegliamo i nostri oggetti? Che collezionisti
siamo?
Da parte loro, Karsten Bott, Madelon Vriesendorp, Stefano Arienti,
Amedeo Martegani e Georges Adéagbo hanno invece esposto delle
collezioni che sono le loro stesse collezioni e che solo esposte diventano
opera loro. Il primo ha esposto migliaia di piccoli oggetti quotidiani, anche
usati, privi di valore economico, diversissimi tra loro. Il titolo del progetto è
indicativo: Uno di ognuno (1988), perché della collezione viene sottolineato
questo aspetto: che ce n’è uno per ogni tipo, che l’unicità è dato primario,
che è di unicità che si fa collezione, l’unicità è il suo carattere e valore. Si
tratta qui però di un’unicità che non è quella della rarità o del “pezzo unico”,
non è quella dell’aura benjaminiana, ma quella assoluta della singolarità di 1
ogni oggetto, anche se prodotto in serie, industrialmente: uno di ogni specie,
quell’uno unico, inevitabilmente diverso, “differente”.
Gli oggetti sono esposti a terra, sul pavimento, orizzontalmente sotto di 2
noi: anche l’orizzontalità – come si sarà notato per altri casi già citati – è un
carattere significativo della collezione, forma dello stare insieme degli
oggetti, dei loro rapporti “orizzontali”, come si usa dire, di contiguità e
giustapposizione, non gerarchici, non verticalizzati.
Madelon Vriesendorp coltiva ed espone due tipi di collezioni, una di
cartoline e l’altra di gadget di ogni tipo, spesso radunati in base ai soggetti.
Tra tutti, quello principale è a detta della stessa artista la città, noi diremmo
allora più propriamente la metropoli, che molti sociologi e studiosi ormai
considerano l’elemento, la condizione scatenante, il grande cambiamento in
atto a tutti i livelli nel mondo: fine della città in quanto comunità organizzata,
ordinata, regolata, e inizio di un’organizzazione a flussi, a zone, a nodi, a
equilibri instabili e sempre cangianti, continuamente in costruzione – altra
metafora in scala gigantesca e sociale della collezione. D’altro canto, le
cartoline e i gadget non sono il prodotto tipico di questa cultura in
trasformazione, dispersiva, fluttuante, frammentata, isterica e paranoica,
come dice Jameson, ma anche leggera, diffusa, sintetica, espansiva?
Stefano Arienti ha esposto in varie occasioni diverse sue collezioni, da
quella di cartoline a quella di diapositive a quella di tessuti, da cui ha poi
tratto spunti per ulteriori opere. Dalla collezione di cartoline per esempio ha
tratto un multiplo ma anche le immagini che ha inciso su grandi fogli di
polistirolo esposti a costruire una vera e propria parete, o accumulati come
in un magazzino anziché uno a uno come quadri (1991); con quella di tessuti
ha realizzato cuscini per un intervento di cosiddetta public art (2000). Oggi
sposi (2003), infine, è una collezione di oggetti trovati, di quei biglietti,
manifestini, striscioni che i novelli sposi disseminano per annunciare
l’evento o che gli amici realizzano per festeggiarli.
Tre ci sembrano i caratteri che Arienti evidenzia con questi suoi lavori: la 1
collezione ha un valore in sé, al di là di ciò su cui si esercita, al di là del suo
oggetto, come “metodologia”, come “pratica”, che può per questo diventare
artistica in sé; il criterio saliente, specifico si potrebbe dire, della selezione
necessaria per costruire una collezione è il valore affettivo degli oggetti 2
scelti, un’affettività che si trasmette negli oggetti stessi e si comunica ai suoi
eventuali spettatori; infine, e insieme, la collezione oggi può come mai
evidenziare con la sua forma il fatto che «ognuno, nella sua autistica
paradossalità di individuo» come dice l’artista in un’intervista «può tenere 3
insieme degli elementi completamente disparati».13
Insieme ad Amedeo Martegani, Arienti ha realizzato un libretto contenente
una collezione di immagini, Bugie tutti i giorni (1993), selezionate dagli
album fotografici personali di amici, attraverso e intorno alle quali i due
artisti hanno scritto testi di intervento sulle tematiche più urgenti, o meglio
«intorno a questo tema: scoprire e inventare altre bugie per amor dell’arte»,
perché «Bugie tutti i giorni è un percorso costruito dalla dipendenza dalle
immagini ma anche un’immersione nei materiali che rendono possibile la
realizzazione di un’opera. È un’attenzione non solo alla concretezza o alla
necessità – più o meno fondata – dell’opera, ma anche alla messa in scena
dei suoi dubbi, delle sue moine, delle sue ambiguità, e che vede l’opera
realizzarsi e farsi concreta dai materiali più incontrollabili e incontrollati. È
un viaggio tra tutte quelle immagini che, chiamate buone e cattive, passano
tra le mani, davanti agli occhi o che rimangono nei cassetti per anni».14
Questioni, queste, che attraversano anche la collezione, invece dell’archivio
o del puro materiale utilizzato per realizzare opere. La collezione, infatti,
testimonia, comprende, ingloba, “mette in scena” (al di là dei criteri della
fondatezza o del giudizio estetico o morale) i dubbi, le moine, le ambiguità,
l’incontrollabilità e incontrollatezza.
Da solo Martegani ha poi realizzato un altro libro – forma evidentemente
da lui privilegiata per la collezione, anche, forse, nel senso fisico delle
pagine, dello scorrere, dello sfogliare e contemporaneamente del tenere tutto
ri-legato insieme – intitolato Né creature né creatore (1996), consistente in
una collezione di immagini scontornate di fiori, sparse su poche pagine tra
centinaia lasciate vuote – un po’ come si fa quando ve li si mette a seccare –,
come incontri imprevisti tra le pagine stesse. I fiori sono scontornati in modo
da mantenere un sottile profilo bianco di luce che sembra rendere visibile
un’“aura”, vero soggetto di questa collezione certo non botanica.
Scrive Martegani:

I verbi del collezionismo [cercare, indagare, scandagliare, chiedere delazioni, spiare, controllare,
archiviare, inscatolare, eludere, nascondere, coprire] sono quelli dei servizi segreti, del mondo
dell’azione parallela, della simulazione o dell’azione mai avvenuta ufficialmente ma accaduta;
[…] a volte invece può bastare avere avuto, aver visto, non necessariamente avere fatto
prigionieri; alcune cose si arrendono in fretta e non è conveniente portarle con sé, poiché
esauriscono magari in un solo dettaglio la loro necessità di cose; altre invece, inaccessibili e
sempre diverse a ogni attenzione, devono essere isolate e magari riguardate, condivise, per
mescolare e rimescolare quello che non viene mai a galla e resta segreto. Altre ancora prendono
forma solo se raccolte tutte insieme, ordinate come aiuole, semplici ed elementari, inutili se sole.
Collezionare è piegare il desiderio al di sopra delle cose chiedendo una compagnia vivente, è un
esercizio di attenzione, un’assenza calibrata dalla storia.15

Georges Adéagbo ha esposto la sua collezione di cimeli di Edith Piaf, ogni


genere di oggetto – dischi, fotografie, poster, libri, riviste, calendari,
bottiglie etc. – che ha a che vedere con la famosa cantante. È la versione
monografica, monomaniaca, al limite del feticismo, della collezione; come il
feticismo è una modalità, un filtro, strettissimo proprio perché necessario –
in quanto mostra la necessarietà di ogni filtro –, per esperire il mondo, per
goderne di fatto, per viverci. Tutte le strategie dei collezionisti, argomento
della stragrande maggioranza della letteratura e aneddotica su di loro, non
sono anch’esse la descrizione della modalità di vita del collezionista stesso?
Strategie per vivere, tout court, per riuscire ad avere un rapporto con il
mondo, con le cose. «Allora lei direbbe che collezionare oggetti d’arte è
idolatria?»16 chiede provocatoriamente il collezionista di porcellane Utz
dell’omonimo romanzo di Bruce Chatwin al suo visitatore. C’è anzi di più;
lo dice esplicitamente Adéagbo intitolando la sua opera La resurrezione di
Edith Piaf (2000): collezionare è, come già affermava Benjamin, far
rivivere l’oggetto del proprio culto, non solo conservandone la memoria
attraverso le sue testimonianze, ridandogli la vita mantenendone vivo il
ricordo, ma anche rivivendo la sua vita: è rivivere e far rivivere rivivendo
un’altra vita, la vita di un altro.
Adéagbo espone talvolta i suoi oggetti per terra, orizzontalmente,
riprendendo la modalità espositiva non tanto del collezionista quanto dei
venditori ambulanti e occasionali, magari sopra tappeti o stuoie. Originario
del Benin, egli allude in particolare alla condizione di extracomunitario e
alla particolarità di quel tipo di “mercato”. Scrive a tal proposito Nicolas
Bourriaud, altra faccia della “resurrezione”:

A partire dalla fine del Settecento, il termine “mercato” si allontana dal suo referente materiale
per designare il processo astratto della vendita e dell’acquisto. […] Quando interi settori della
nostra esistenza diventano invisibili per effetto del cambiamento di scala della globalizzazione
economica, quando le funzioni base della nostra vita quotidiana si vedono a poco a poco
trasformate in elementi di consumo […] sembra logico che gli artisti cerchino di
rimaterializzare queste funzioni e questi processi.

Ridando forma non tanto agli oggetti, che significherebbe ricadere nella
reificazione, quanto all’esperienza, allo strumento di relazione.17
Gli artisti-collezionisti, chiamiamoli così, sono davvero molti, chi più
occasionalmente chi meno, chi ne fa effettivamente una propria opera, chi,
sulla scorta dell’attualità del tema, ha dichiarato, esposto o pubblicato le sue
collezioni come tali, per mostrare come sente a sua volta il problema e come
lo affronta: tutte prove dell’intreccio essenziale tra fare artistico e sensibilità
collezionistica. Ricordiamone brevemente ancora qualcuno, che ci permette
di prendere in considerazione qualche altro aspetto. Per esempio famosa, tra
le altre sue, è la collezione di quadrifogli di Tacita Dean. Una collezione non
inusuale e in realtà diffusa e scontata, se il quadrifoglio è il simbolo della
fortuna, ma significativa se la si inserisce nel contesto dell’opera di Dean e
la si collega alla finezza della vista e al culto dell’attenzione, ovvero di un
perfetto intreccio di casualità e di concentrazione. È la dote primaria del
collezionista.
All’opposto della leggerezza e della fragilità dei quadrifogli di Dean, dal
canto suo, Luca Pancrazzi ha realizzato nel 2007 un’installazione con la sua
collezione di pesi per filo a piombo, una collezione già di per sé piuttosto
inusuale. Intitolata Fili da me lontano da te, consiste in fili con peso
all’estremità tesi in varie direzioni non perpendicolari a terra, che riempiono
una stanza intralciando il passaggio e intersecando lo sguardo – un po’ alla
maniera dell’allestimento di Marcel Duchamp per la mostra “First Papers of
Surrealism”. Ma la questione principale qui è che ciò che dovrebbe segnare
la direzione per eccellenza, quella della gravità, Pancrazzi lo fa andare in
tutte le direzioni, e la pesantezza del metallo si rovescia in una sorta di
libero volo. La “di-versità” del titolo contiene la varietà di significati:
ognuno è diverso perché ha un verso differente, ognuno libero ma tutti
direzionati… I fili sono tesi, la precisione non ne risente, l’intreccio non
diventa intrico, groviglio inestricabile. I pesi svolgono di fatto la loro
funzione, ma in maniera diversa. Tutti caratteri, anche questi, della
collezione, ma importante è soprattutto il senso della direzione, una visione
della collezione come di vettori precisi per quanto possano apparire
disparati e complessi.
Infine ben particolare è la collezione raccolta ed esposta da Jean-Luc
Moulène con il titolo 24 objets de grève (1999). Si tratta di oggetti realizzati
durante alcuni scioperi per comunicare lo sciopero stesso ed eventualmente
sostenere, con la vendita, gli scioperanti. Sono giornali usciti senza
immagini, pacchetti di sigarette con testo che comunica lo sciopero, gadget
di diverso tipo, caricaturale, umoristico, serio, utile, inutile… A parte il loro
supplementare ma intrinseco valore ideologico – o, in questo caso,
postideologico? neosituazionista? neo-politico? – sono oggetti che hanno
qualcosa in più o in meno del loro essere normale, una differenza che li
caratterizza, significativa proprio perché li segna indelebilmente: sono infatti
oggetti di produzione che comunicano la sospensione della “normale”
produzione. Ebbene, l’oggetto di ogni collezione è sempre un po’ così:
strano, particolare, comunque non normale, decontestualizzato e
ricontestualizzato diversamente, forma una collezione di differenze.
VI.

Un’artista che ha fatto suo il tema della dialettica tra museo, collezione
pubblica, istituzionale (che deve rispondere a funzioni didattiche, storiche o
altro) e collezione privata, personale, libera, è Louise Lawler. Il suo,
peraltro, è un caso pressoché unico, almeno per quanto riguarda l’entità del
progetto e la fama che ne è derivata.
Classificata come “decostruttivista”, in quanto usa la fotografia per
svelare la struttura del reale, mostrandone il lato nascosto, rimosso, eppure
sotteso alla logica stessa dell’evento preso in considerazione, Lawler ha
fatto della collezione il soggetto della propria opera e insieme la forma della
sua rappresentazione. Prima si è mossa nei musei, di cui ha fotografato le
vetrine, le scelte e i modi espositivi, oltre che i magazzini, le opere
imballate, poi è entrata nelle collezioni private, scoprendo l’altra logica che
le regge, talvolta ingenuamente, talaltra inconsapevolmente, comunque
diversa da quella programmata dell’istituzione.
Si prendano per esempio quelle che possono sembrare semplici questioni
di arredo, di gusto, di casualità dovute allo spazio: Lawler ne inquadra,
propriamente, un significato latente o nascosto. Una zuppiera Settecento
sopra un mobile davanti a un Pollock svela un inatteso fondo settecentesco in
Pollock e al tempo stesso una modernità imprevista nelle forme e
decorazioni della zuppiera. Un angolo di salotto vede raccolti come per caso
un Delaunay dietro un televisore, tra una lampada disegnata da Lichtenstein,
una finestra e una maschera africana, oggetti e opere che non sembrano avere
niente in comune e di cui invece Lawler coglie il legame con la luce, non
senza un tocco inquietante nel contrasto della maschera africana immersa
nell’ombra, simbolo del rimosso dell’arte occidentale. Vicinanze fortuite ma
altrettanto “oggettive” e veritiere delle analisi storiche e documentali: ne
emerge una “verità”, un senso, che nasce da un rapporto orizzontale, da una
contiguità, da un contatto, che svela nel privato ciò che la cultura nasconde o
rimuove, e che tuttavia la segna fino a livello strutturale, “metafisico”, come
direbbe appunto il decostruzionismo. La collezione diventa così la forma
stessa dell’opera e del suo funzionamento: l’opera stessa è accostamento e a
sua volta andrà a collocarsi tra altre opere in un’altra collezione.
La questione era sentita anche dall’altra parte, cioè da quella degli spazi
pubblici e istituzionali, dai musei e dalle gallerie, che colgono l’occasione
per «rimettere in discussione le pratiche di esposizione che sono le
tradizionali del museo e, così, di proporre ai visitatori altri contesti di
percezione, altre situazioni di ricezione».1 Tale è la collezione per il
visitatore: altro modo di accostarsi e accostare le opere, altro contesto di
fruizione, a sua volta privato, personale, libero, aperto, rispetto a quello
guidato, costretto, incasellato dei musei. Ci se ne accorge già nei non
particolari musei che sono di fatto delle collezioni storiche – a ben pensarci,
ogni museo è come una collezione, se lo si considera nella cronologia delle
sue acquisizioni e fuori dagli schemi che ne dettano strettamente la logica –
conservate come erano al momento del loro lascito, talvolta perfino nello
stesso luogo e con lo stesso arredo. Ma ora si tratta di esposizioni
temporanee all’interno dell’istituzione, mirate a mettere in dialettica i due
modelli. Ora il punto di vista è quello curatoriale e dello spettatore, non più
quello del collezionista o dell’artista.
L’effetto è forte: «Una casa al museo, una casa nel museo, una casa come
museo: strano effetto di scatole cinesi, strana apertura del museo a questo
spazio assolutamente altro che è lo spazio domestico».2 Lo spostamento è
radicale e paradossale, un’abitazione, un luogo segnato, vissuto, in un luogo
di pura visita, forse un non luogo, nel senso di Marc Augé, senza storia
propria, senza identità, puro contenitore uguale ovunque, comunque retto da
regole diverse. L’intenzione deve essere altrettanto decisa e determinata. Ha
scritto Harald Szeemann, un curatore evidentemente consapevole di tali
questioni:
Per me il mestiere di “realizzatore di esposizioni” e il suo contesto non possono rinnovarsi se non
nella reintegrazione della dimensione dell’intimità, e un uguale valore sociale lo si può trovare in
qualcosa di fragile, di intimo, contrapposto a una violenta rivendicazione esplicativa, come
ricondurre la rivendicazione, l’avventura irrazionale visualmente formulata di un solitario a un
denominatore comune, desiderato o compreso dalla società.3

Dagli anni novanta anche le esposizioni del genere si sono moltiplicate,


ulteriore segno della sintonia del fenomeno generale. Dapprima si tratta
soprattutto di indagare quello che viene chiamato “lo sguardo del
collezionista”, quindi ancora quel punto di vista, ma per i musei è
l’occasione di mostrare al pubblico ciò che normalmente non gli è
accessibile, nonché di far agire a diversi livelli l’antitesi collezione-
istituzione. Queste mostre sono in tal senso antesignane delle più radicali che
seguiranno. Citiamo alcune iniziative parigine su questo argomento: nel 1989
“Le Regard d’un amateur”, esposizione della donazione Cordier al Centre
Pompidou, ripresentata nel 2009 con il significativo titolo “Le Désordre du
plaisir”; nel 1994 “Vue d’un collectionneur” curata da Sybil Albers-Barrier
per l’Espace de l’art concret; nel 1995 Suzanne Pagé scrive nel catalogo
della mostra al Musée d’art moderne de la Ville de Paris che bisognava
«convincere i collezionisti a consentire il prestito che avrebbe tradotto il più
fedelmente possibile la loro linea o il loro eclettismo, e avrebbe restituito al
meglio la qualità del loro sguardo».4 Nel 2010 poi il Musée d’art moderne
del Lussemburgo (MUDAM) ha organizzato un ciclo di presentazioni di
collezioni private intitolata “Regard sur une collection privée”: secondo gli
organizzatori della prima tornata, intitolata “Just Love Me”, la sfida è quella
di «preservare questo soffio, far sentire questo piacere di vivere con delle
opere nella quotidianità. La scommessa è dunque di non fissare un insieme
per il fatto di essere presentato nelle sale di un museo».5 Di nuovo quindi vi
si trova lo sguardo del collezionista associato al piacere, ma inoltre, come fa
notare Nina Léger, la collezione sarebbe legata a un “soffio”, a un’anima
portatrice di vita, che il museo invece “fissa”, blocca, spegne. Scrive la
Léger: «Accogliendo la collezione privata, il museo accoglierebbe il suo
doppio gioioso e anarchico, la sua impronta rovesciata, dove i princìpi di
isolamento e distinzione delle opere sarebbero sostituiti da pratiche di
mescolamento, dove i disordini si sostituirebbero all’ordine, dove la vita
avrebbe la meglio sull’inerzia».6
Più radicalmente, nel 1994 si tiene al Musée d’art moderne et
contemporain di Ginevra (MAMCO) la mostra “L’Appartement”, da allora
permanente, che è un po’ caposcuola di questa tipologia di esposizione, di
cui costituisce una sorta di manifesto. La ricostruzione dell’appartamento del
collezionista Ghislain Mollet-Viéville all’interno del museo vede appunto lo
scontro tra i due spazi-logiche: cucina, stanze, moquette, mobili, un Kosuth
sopra un sofà, un neon di Flavin nell’angolo del vestibolo, una High Energy
Bar di Walter De Maria sul comodino… È la dimostrazione che davvero una
collezione non è un insieme di opere su pareti bianche o accostate soltanto
ad altre opere, ma che la stanza di una casa è un altro spazio non solo fisico
ma anche mentale.
Nel 2004 la Maison Rouge di Parigi – fondazione aperta da un
collezionista e votata programmaticamente a esporre collezioni private –
inaugura la sua attività rilanciando lo stesso esperimento con l’esposizione
intitolata “L’Intime, le collectionneur derrière la porte” (L’intimo, il
collezionista dietro la porta). L’idea era il «tentativo più realista possibile di
mostrare in un luogo espositivo come uomini e donne vivono con oggetti e/o
opere. Così “L’Intime” trattava più degli atteggiamenti dei collezionisti che
delle loro collezioni».7 L’intimità con gli oggetti e le opere d’arte dunque era
l’argomento, quella dei collezionisti come modello per quella auspicata per i
visitatori: tutti devono diventare “collezionisti” in questo senso, potremmo
sintetizzare.

In modo ancor più radicale di una ricostruzione o di una donazione, ben


quindici sale diverse erano state letteralmente trasferite dalle case d’origine
al luogo espositivo: intere stanze di appartamenti di collezionisti erano state
svuotate e reinstallate, oggetti quotidiani compresi, alla Maison Rouge senza
alcun intervento selettivo da parte dei curatori, esattamente come li tiene il
collezionista, come se egli fosse lì, appena “dietro la porta”. Il senso
dell’intimità in questione è riassunto in maniera viva da una frase del
collezionista in una videointervista realizzata per l’occasione: «Mi accade
regolarmente di socchiudere la porta e di guardare, anche quando non c’è
luce, come le cose, sì, si muovono, si parlano, si scontrano». L’intimità cioè
è quella delle cose prima ancora che quella del collezionista. A questo il
collezionista assiste e a questo è invitato ad assistere il visitatore,
esperienza del tutto diversa dalla visita di una mostra in galleria o nelle sale
di un museo.
Noi stessi abbiamo tentato una variazione all’interno di questa
problematica con la mostra intitolata “Immagine la vita”, tenutasi allo Spazio
Gerra di Reggio Emilia nel 2008. L’idea era quella, come dice
ermeticamente il titolo, di verificare il valore, lo statuto, la funzione
dell’immagine – in questa società definita da più parti “società
dell’immagine” – nella vita di ciascuno, rompendo simbolicamente le
barriere che le separano.
Le immagini sono entrate ovunque e sono ormai onnipresenti e
compresenti, l’arte si trova a fare i conti con ogni forma di espressione e
ogni medium o ambito rivendica una sua artisticità, la pubblicità, la
televisione, Internet. Dentro uno spazio espositivo istituzionale abbiamo
messo direttamente a confronto varie forme di immagine, portando
all’interno anche ciò che vediamo solitamente all’esterno, come i manifesti
pubblicitari, simulando l’allestimento di stanze di abitazioni, con tavoli,
sedie, poltrone, lampade, ma senza ricostruire alcunché, anzi creando
evidenti discrepanze che mettessero il visitatore in una posizione inattesa. In
fondo anche la contrapposizione casa-museo può finire con l’essere
artificiosa e schematica. Allora, molto semplicemente, gli oggetti di arredo
non quadravano con le opere-immagini esposte, ma simulavano soltanto un
ambiente, un’atmosfera. Le sedute non erano di fronte alle opere appese, i
tappeti non erano dove dovevano essere, le piante intralciavano il passaggio,
le lampade non illuminavano alcun punto necessario… Tutto, insomma, era
“asimmetrico”, fuori registro, non corrispondente. Si era “come” in una
collezione, ma non veramente; allo stesso tempo lo spazio espositivo non era
rispettato come tale e diventava ibrido. È, a noi pare, la condizione in realtà
oggi più diffusa e paradigmatica, quella in cui le cose si mescolano, si
confrontano continuamente, «si muovono, si parlano, si scontrano», spazi,
situazioni, condizioni comprese. È la “contemporaneità”.8 E sono le
immagini a creare questo stato, appunto la loro onnipresenza e simultaneità.
Che ruolo e che statuto vi ha allora l’arte? E il collezionismo è ancora
diverso?
Quest’ultima questione l’avevamo enunciata in altro modo in una
precedente esposizione, dell’anno prima. Non più simulazione di ambienti,
la mostra “Collezionismi”, realizzata nello spazio Assab One di Milano,
vedeva raccolte collezioni diverse, non solo d’arte ma di ogni genere di
oggetto. Il collezionismo così era preso in considerazione come “sistema”
generale, non specifico, o meglio i vari tipi di collezionismo erano messi a
confronto-scontro.9 E che fosse una questione di collezionismo lo ribadiva
l’allestimento, in cui le opere d’arte erano presentate come “oggetti”,
accatastati o presentati come gli altri oggetti delle altre collezioni. A
complemento della mostra, a sottolineare che la questione era comunque
“artistica”, e non psicologica né sociale né antropologica, venivano
presentate alcune opere-collezioni di artisti, come quelli ricordati qui lungo
il nostro percorso: da Arienti a Martegani, a Pancrazzi e altri ancora.
In realtà si colleziona di tutto. Una delle stranezze del collezionismo è
anzi proprio questa, che si esercita su qualsiasi tipo di oggetto, tanto da far
pensare che non sia appunto questione di oggetto ma di qualcos’altro. Al
tempo stesso non esiste collezione che di oggetti, fossero pure idee o opere
immateriali.10 È infatti questo sempre al centro del problema: che genere di
oggetti sono gli oggetti di una collezione, gli oggetti che ispirano il
collezionista, che lo incontrano, che lo chiamano? Defunzionalizzati, certo,
caricati di senso, di affetto, di vita, anche, da un certo punto di vista perfino
non-oggetti eppure sempre intrinsecamente oggetti di una passione. Sono
forse addirittura l’oggetto stesso, l’“oggetto a”, per dirla con Jacques Lacan,
ancor più che la “cosa”, come già dicevamo, cioè non la materialità in sé
dell’oggetto, ma il suo essere appunto oggetto del desiderio, materiale ma
non riducibile alla sua materialità, eppure non senza materialità peculiare,
altrimenti non aderente al desiderio.

Ci sono state numerose altre mostre simili, ma con diverso intento, negli
spazi più vari. Tutte risentono della stessa volontà di disporre diversamente
le cose, di inventare nuovi modi in cui metterle insieme, di percorrere la
storia non seguendo la cronologia, di creare accostamenti produttivi, di
cercare percorsi senza rinunciare al coinvolgimento personale, di rimettere
in gioco ciò che restava escluso.
Ricordiamone alcune a titolo di esempio. Si potrebbe partire da un
intervento d’artista come quello di Hans Haacke nel Museum Boijmans di
Rotterdam, nel 1996. La mostra si intitolava “AnsichtsSachen/Viewing-
Matters”, traducibile come “Punti di vista” o anche, dall’inglese, “Oggetti da
vedere” se non “Questioni di visione” o simili. Il progetto giocava infatti su
questa ambiguità, portando nelle sale del museo le opere che solitamente si
trovano nei suoi depositi, in giacenza, come si suol dire, non esposte, e
allestendole per accostamenti tra epoche, autori, stili diversi, soprattutto tra
antichità e contemporaneità, trasformando, potremmo dire, il museo in
collezione. Haacke lo dichiara esplicitamente nell’introduzione:

Entrare nei depositi sotterranei di un museo è come entrare in una Wunderkammer. Artefatti di
tutte le dimensioni e i valori, prodotte da individui (alcuni senza nome) di diversi periodi storici e
reputazioni, appesi indiscriminatamente l’uno accanto all’altro e riposti intimamente vicini su
scaffali o per terra. L’essere vicini è il principio che li governa. È la collezione.

Prosegue delineando proprio l’alternativa tra i criteri espositivi dei musei e


quelli di una “collezione”:

Quando un oggetto viene esposto, entra in una “conversazione” con altri artefatti e, a seconda
del contesto in cui è posto, innesca modi particolari di visione diversi da altri. Sia come metafora
che come agente (e non solo nel mondo dell’arte), diventa parte delle negoziazioni – e della lotta
– su come comprendiamo il mondo e le nostre relazioni sociali.11

Il testo in catalogo si intitola efficacemente HindSight, retrovista, a indicare


una visione di quanto sta dietro di noi, alle nostre spalle, celato alla nostra
vista, metafora originale della storia, che pretendiamo di vedere voltandoci
come se questo fosse semplice e naturale, ma che, come illustra un famoso
quadro di Magritte portato a prima illustrazione del testo – un uomo di spalle
si specchia, ma il suo riflesso lo mostra ancora di spalle –, in realtà noi
vediamo “di spalle”. Salvo dunque cambiare punto di vista o modo di
visione. Allora esporre il deposito significa non solo mostrare le “spalle”
del museo e metterlo al posto del “fronte”, ma anche “voltare” il passato e
renderlo operante attraverso gli accostamenti, attraverso uno sguardo al
presente.
Nel 2007 il Museo Fortuny di Venezia inizia una trilogia di mostre, ideata
da Axel Vervoordt, impostata sugli accostamenti al di là delle epoche, degli
stili, delle firme – nonché con opere nuove commissionate per l’occasione –,
a tema, ma che vanno al di là del tema. Ospitate da un museo che è già una
collezione, perpetrano questa sua vocazione con spirito collezionistico. La
prima è intitolata “Artempo” e, propedeuticamente, mette in discussione
prima di tutto la concezione lineare del tempo, sottolineando come esso
«agisca, formi e trasfiguri l’arte».12 La tentazione idealistica
dell’universalità e dell’eternità dell’arte, al di là del tempo e dei tempi, è
qui forte, ma l’indicazione è libera per il visitatore e l’effetto è garantito,
perché qui conta il “pensiero visivo” più che le intenzioni dei curatori. Il
visitatore non deve seguire un percorso predeterminato e non ha indicazioni
prescrittive sugli accostamenti, ma coglie-costruisce i rimandi, immagina la
propria collezione ben più che avere di fronte una collezione già fatta e
costituita.
La seconda, l’anno seguente, si tiene a Parigi e si intitola “Academia: qui
esttu?”; la terza, nel 2009, di nuovo a Venezia, si intitola “In-finitum”, dove
il trattino indica bene l’idea di dialettica con la finitezza, più che di
affermazione di totalità. La formula resta la stessa e l’impatto anche. Tanto
che la trilogia conosce già un’estensione nel 2011 con “Tra. Edge of
Becoming” (Tra. Le soglie del divenire), dove è il titolo a dare indicazioni
nuove. Il “tra” indica il rapporto, lo spazio intermedio, l’intervallo, il salto
tra dimensioni diverse, il passaggio, il divenire appunto, tutte idee alla base
della collezione. Vale la pena cogliere l’occasione per sottolineare però i
diversi sensi di tale “spazio intermedio”, che non è solo rapporto, o non-
rapporto in senso comune, ma anche vuoto attivo, intervallo costruttivo, ciò
che sta tra le due cose, ancora una volta con e senza le cose stesse.
Più fashion e insieme più libero è l’ultimo esempio che chiamiamo in
causa, quello di uno stilista di moda nonché collezionista d’arte per
passione, ma anche per sintonia e per ricerca di ispirazione, quindi di
interazione, di reciprocità. Ci riferiamo all’edizione del 2008 dei
Rencontres d’Arles, la rassegna annuale di fotografia affidata quell’anno allo
stilista Christian Lacroix, che allestisce una scelta di opere dalla propria
collezione, nonché di proprie “creazioni”, all’interno delle sale del Musée
Réattu. Il dialogo era assicurato e funzionava come un gioco di specchi tra il
passato e i due livelli del presente, quello delle opere degli artisti e quello
delle “opere” dello stilista, con scambio vicendevole.
Il caso è interessante perché diverso dagli altri, trattandosi di una mostra
realizzata direttamente dal collezionista, che è anche “artista”, seppur in
altro ambito, e che mette proprio per questo in gioco la sua doppia
appartenenza, la sua bifrontalità. Scrive lo stilista:
Se la storia dell’arte non ha costituito per me né un fine né una carriera, mi ha comunque
“segnato” per sempre e insegnato a vivere la mia passione in un modo più quotidiano che
museografico, più applicato che colto. Mi sentivo più innamorato/amatore che specialista o
professore e questo cammino, che ho creduto a lungo deviato o trasversale ma che era molto
semplicemente il mio destino – la moda e il costume –, rimane bordato di monumenti. È un
percorso costellato di immagini senza le quali vivere mi sarebbe impossibile.13

E illustra praticamente questa sua “verità” e questa sua dinamica,


presentando in altra sede, e incorniciando il catalogo in una serie di pagine
che lo documentano, un ulteriore allestimento, questa volta dei suoi materiali
di lavoro, la sua iconografia, il suo atlante, disposto proprio come un
montaggio di queste immagini che lo hanno ispirato, che sono entrate nel suo
lavoro, dentro le quali il suo lavoro è entrato.

Possiamo mettere l’ultimo, più recente filone che vogliamo evocare


all’insegna non della collezione in sé, quanto del principio del montaggio,
inteso non tanto in senso cinematografico quanto in quello warburghiano-
collezionistico.
Riteorizzato in tal senso, come abbiamo già ricordato, il montaggio è
tornato in auge a tutti i livelli che ci interessano. Sintetizziamone gli aspetti
principali attraverso uno dei suoi più lucidi e insistenti teorici, Georges
Didi-Huberman: servirà anche a noi da promemoria finale. Il montaggio
dunque è un work in progress, un “lavoro” – nel senso freudiano del termine
– con cui si costruisce un insieme, dove «si tengono insieme, fosse pure
contraddicendosi, tutte le dimensioni del pensiero»,14 un lavoro «permanente
della riflessione e dell’immaginazione, della ricerca e del ritrovamento».
Come un diario, come quello di Bertolt Brecht che Didi-Huberman
commenta, fatto insieme di scrittura e di immagini, di idee e di oggetti, di
spunti concettuali e di trovate visive, o se si vuole, viceversa, di spunti
visivi e di trovate concettuali, di storia e di attualità, di autobiografia e di
cronaca. Un diario personale e pubblico insieme, scritto per così dire in
terza persona, in una sorta di “singolarità impersonale”, come riprende Didi-
Huberman rifacendosi a Gilles Deleuze.
Il montaggio mette in crisi la distinzione tra le categorie prefissate, è ed
ha una forma aperta. Mostra, non dimostra: espone, «dispiega, più
liberamente, il valore iconico, tabulare e mostrativo».15 Procede per
associazioni con materiali di ogni tipo, crea una rete di relazioni, svela
articolazioni impreviste. Ha valore creativo e documentario al tempo stesso,
impegna sia la memoria sia l’analisi sia l’intuizione, perfino la
premonizione. Dialettizza discontinuità e racconto, muove per deviazioni
(détours), meandri, salti. Decostruisce gli automatismi, innesca effetti critici;
chiede allo spettatore di uscire dalle sue abitudini e saperi costituiti e di
moltiplicare i suoi punti di vista. È “straniante”, «mostra smontando»,16
rivela altri rapporti possibili. Mostra «la dis-posizione delle cose», cioè un
loro ordine diverso:

Disorganizzando il loro ordine di apparizione. Modo di mostrare tale per cui qualsiasi disposizione
è uno shock delle eterogeneità. Il montaggio è questo: non si mostra che smembrando, non si
dispone che prima “dis-ponendo”. Non si monta se non mostrando le beanze che agitano ogni
soggetto di fronte agli altri.17

È un uso artistico, invece che dottrinale o filosofico, potremmo concludere


con Didi-Huberman, della dialettica:

Là dove il filosofo neo-hegeliano costruisce degli argomenti in vista di porre la verità, l’artista
del montaggio fabbrica invece delle eterogeneità in vista di dis-porre la verità in un ordine che
non è precisamente più l’ordine delle ragioni, ma quello delle “corrispondenze” (per dirla con
Baudelaire), delle “affinità elettive” (per dirla con Goethe e Benjamin), delle “lacerazioni” (per
dirla con Bataille) o delle “attrazioni” (per dirla con Ejzenštejn). […] Modo di esporre la verità
disorganizzando, dunque complicando e insieme implicando – e non spiegando – le cose.18

L’unico tentativo a nostra conoscenza di “riscrivere” programmaticamente la


storia dell’arte secondo tali princìpi, e naturalmente non a caso partendo
dalla contemporaneità, è quello di Denis Gielen, significativamente intitolato
Atlas de l’art contemporain à l’usage de tous (Atlante dell’arte
contemporanea a uso di tutti). Esplicitamente ispirato a Warburg, ritornano
nei suoi propositi le questioni che conosciamo:

Questo atlante è nato dalla volontà […] di produrre un’opera generale sull’arte contemporanea
che non resti legata né ai movimenti artistici né alle discipline accademiche e non si limiti alle
frontiere geopolitiche o ai capricci del mercato. Debordando dalle linee di demarcazione,
propone una storia dell’arte in cui le distinzioni si fanno, prima di tutto, tra immagini. […] Ispirate
al curioso Bilderatlas di Aby Warburg, le tavole stabiliscono, oltre agli accostamenti tra opere
attuali, delle corrispondenze tra immagini provenienti da epoche o ambiti talvolta lontani.19
A dire la verità, l’Atlante di Gielen non si concede tutte le libertà che
potrebbe – che un collezionista si permette – e, in nome delle finalità
pedagogiche, si organizza in «un’architettura gerarchizzata […] il cui
percorso va dal generale al particolare, dalle regole alle eccezioni, dalla
lezione alla fantasticheria». Ma l’effetto è comunque ottimo e aperto e anche
lo schema è complesso e solo indicativo. Si inizia dalla sezione dedicata
alla visione, che si divide in occhio, macchina fotografica, piano, tatto,
parata, a loro volta divisi in trenta voci; si passa alla sezione
dell’argomento, diviso in amore, burlesco, melancolia, psicotico, morte, e
infine alla sezione dello spazio, divisa in natura, architettura, viaggio,
memoria, luogo, tempo. Ogni sezione comprende un ampio testo illustrato,
ma sono soprattutto le numerose tavole ad “aprire” all’intervento diretto del
lettore, come un visitatore tra le stanze delle mostre ricordate o un
collezionista nella propria collezione.
Il fine didattico interferisce spesso con il principio collezionistico, come
si è visto in diverse occasioni. Ma, d’altro canto, è possibile una storia che
sia una collezione? Questione complessa, come tutte le questioni “teoriche”
o “di principio”, ma resta il fatto che non a caso essa si pone da più parti in
questo periodo. Questione di attualità dunque, o di inattualità, se si
preferisce.
Così il principio del montaggio, che sia esplicitamente applicato nel
contesto cui ci riferiamo, per altre vie e con altri intenti, è tornato in primo
piano nell’interesse di molti artisti, numerosi nel costruire opere come
“tavole” o video con montaggi non più riconducibili a una concezione
puramente temporale.20 Dei tanti, ci si permetta di concludere con un unico
caso in cui siamo peraltro ancora una volta coinvolti direttamente.
Il gruppo Warburghiana si forma nel 2000 in riunioni e corrispondenze tra
i suoi membri – tre artisti, Aurelio Andrighetto, Dario Bellini, Gianluca
Codeghini, e il sottoscritto – che portano a una serie di esposizioni negli anni
seguenti e alla pubblicazione nel 2005 del libro omonimo, in forma di
corrispondenza.21 In quell’anno Warburghiana mette a punto un format che
chiama “concerto sinottico”, che monta insieme immagini, video, musiche,
videointerviste, performance, conferenze. In esso affronta le questioni che gli
stanno a cuore, questioni “di contenuto”, come ribadisce in ogni intervento,
in reazione al formalismo o all’opportunismo degli argomenti di molta arte
allora in voga. Il concerto sinottico è programmaticamente basato sul
principio del montaggio, infilando una serie di interventi e materiali diversi,
fatti collidere l’uno con l’altro in una sequenza e in un allestimento e
teatralizzazione che ne esaltano i collegamenti e stimolano il pubblico a
stabilirne attivamente di propri.
Nel 2007 Warburghiana apre un suo sito web e organizza anche quello in
forma di montaggio, sia nella sequenza delle finestre sia nel format del
desktop, ovvero i numeri di una sorta di rivista online pensata come
montaggio dei materiali che espone. Ogni desktop è a tema e di esso
Warburghiana ha la regia. Il termine cinematografico ritrova qui il suo senso
autoriale, di colui che sceglie, produce, mette in ordine i pezzi del suo
insieme, una collezione online. Ma la denominazione desktop allude anche
all’idea di avere tutto a disposizione sul “tavolo”, sul piano di interfaccia
ora, che invita il visitatore a percorrerlo con lo stesso spirito, non fissandolo
nella versione che gli è offerta. Internet è già questo, nuova collezione
impersonale, collettiva, tutta da rifare con il contributo di ognuno.22
VII.

È dunque l’arte stessa a ribadirci che la collezione è davvero una forma


attuale, che corrisponde a un sentire e un pensare rinnovato.
Retrospettivamente viene da generalizzare che in fondo ogni artista ha e
costruisce la propria collezione di rimandi, di maestri, di influenze; spesso
ce l’ha – o quello almeno che di essa vuole mostrare – appesa in studio sotto
forma di cartoline, ritagli, riproduzioni. Non solo, ogni artista ha anche una
collezione immaginaria in cui vedrebbe nella miglior compagnia il proprio
lavoro, ovvero alcune o ciascuna delle proprie opere; e ancora, per ogni
artista la propria opera, intesa come insieme, è in un certo senso una
collezione, cioè tutte collegate come in una perfetta collezione, ognuna con la
sua ragione, il suo senso, la sua necessità.
E i collezionisti? A sentirli si vede bene che la definizione del loro stato
non li interessa direttamente, che vi sfuggono anzi, quasi timorosi di rivelare
qualcosa di sbagliato o di forzare una situazione che essi vivono
spontaneamente, pulsionalmente. Preferiscono raccontare, certamente, perché
il racconto è la manifestazione esatta di questo stato che sfugge alla “teoria”,
alla definizione, all’analisi. Raccontando, anzi, scansano insistentemente i
tentativi di interpretazione, le domande che cercano di farli andare più “a
fondo”, o in altre direzioni: per loro il fatto ha un valore in sé, è
autoevidente, è esattamente “la cosa”, è quello che vogliono dire, non va
interpretato, non ha altro significato. Alla collezione di oggetti si crea
parallela una collezione di fatti, di ricordi, di racconti. Non per niente i
collezionisti raccontano sempre gli stessi aneddoti, e ogni volta usano
praticamente le stesse parole, aderendo perfettamente al fatto, al sentimento
di allora, avendo già affinato il racconto con tale precisione che non resta
che ripeterlo.
È il collezionismo stesso a sfuggire alla teoria, questo tipo di
collezionismo in ogni caso, attuale nel duplice senso della parola,
significativo ora perché intrinsecamente legato all’atto. I tentativi di
definirlo, di comprenderlo, di circoscriverlo, scoprono una struttura aperta,
proiettata in avanti, alla propria stessa costruzione – non decostruzione –,
all’arricchimento di oggetti e di senso, non a guardarsi indietro, né alle cause
né alle ragioni, che vengono piuttosto costantemente aggiornate.1 Il
collezionista racconta di coincidenze, di casi, di singolarità, che vanno ad
aggiungersi alle precedenti e che creano o evidenziano nuovi fili rossi,
rimandi, collegamenti, risvolti, possibilità. Racconta di una rete di luoghi e
di persone, di una geografia più che di una storia, di occasioni, raramente di
ricerche mirate.
Non è uno storico, né un critico. Con l’informazione e la storia ha
rapporti impuri, non distaccati, misti, segnati dalla metafora e
dall’attaccamento all’oggetto, dal loro strano intreccio, appunto. A
paragonare la collezione a un discorso poi, a un “testo”, si incontrano altre
sorprese: «La collezione va prima di tutto letta come un testo che può avere
rotture e frantumazioni sintattiche. È una scrittura fatta di oggetti e perciò una
scrittura geroglifica». E ancora, continua Adalgisa Lugli:

Certamente chi colleziona accetta di esprimersi per metafora e in questo senso giustifica il suo
appropriarsi di un feticcio, cioè di un oggetto dotato di un grande potere simbolico, tanto da poter
sostituire un tutto. Egli è nella condizione infinitamente ambigua di possedere e di essere
posseduto nello stesso tempo. Può essere come il folle di un villaggio primitivo che scambia il
proprio corpo e la propria voce con quella di un animale della foresta. Ma nello stesso tempo
detiene l’opera, è artefice del suo destino e autore delle associazioni che può costruire intorno a
essa.2

Possedere ed essere posseduto: in questa duplicità sta probabilmente


un’importante chiave di accostamento alle particolarità del collezionare.
In questo senso, psicoanalisi e antropologia tornano a dirci qualcosa,
specialmente dopo gli studi cosiddetti “postcoloniali”. Oltre a ulteriori
critiche del gusto, dei criteri dati per scontati (naturali o innati), della
“mistica del conoscitore”, come la chiama Sally Price,3 non per niente sono
rifiorite in questi ambiti le analisi del feticismo, dell’oggetto stesso come
feticcio, e della “cosa” come oggetto animato, dotato di “anima” e
interagente, non riducibile né a strumento né a merce, né alla funzione né alla
materialità, dotato di una “vita affettiva”, scrive Franco La Cecla, di una
“forza” che circola, si comunica, si trasmette attraverso e insieme alla cosa.4
E ancora in un altro senso, per usare le parole di un grande collezionista,
Mario Praz, è vero che: «il vecchio signore sordo e un po’ trasandato
stonava forse con l’impeccabile messa in scena della sua casa, eppure, senza
la sua presenza avrebbero spirato vita tutte quelle cose da lui raccolte con
tanto amore e tanta ostinazione?»;5 e anche che «Io sono convinto, fantasie a
parte, che i mobili si sentono meglio fisicamente, e stavo quasi per dire
spiritualmente, quando son collocati nel proprio ambiente».6 Dunque: le cose
collezionate hanno una vita che finisce con il sincronizzarsi, con il regolarsi
sul proprio insieme, sul loro essere raccolte, riunite e concentrate, e d’altro
canto questa vita finisce con il diventare inseparabile, indistinguibile da
quella del loro collezionista, ne diviene una sua estensione. In effetti, non ci
sembra ogni collezione di un tempo una casa di fantasmi, dove pare di poter
sentire ancora il collezionista aggirarsi a mostrare i propri “pezzi”, e di
sentire al tempo stesso un’aria d’intesa degli oggetti tra loro, un monito a non
venir separati, una sofferenza – souffrance, come dicono i francesi – a
giacere abbandonati e in balìa di visitatori estranei?
Strana faccenda insomma, questa della collezione. Neanche più metafora
del sapere, neppure di un sapere particolare, sregolato e fratto, pulsionale e
desiderante, attivo, finisce con l’essere oggi la metafora del presente stesso,
della condizione presente e del vivere al presente, del cercare soluzioni in
tempo reale, del procedere e raccogliere in presa diretta. Anche il
collezionista informatissimo su tutte le situazioni locali e internazionali,
gallerie, musei, mostre, fiere, intrighi, strategie, è in tal senso solo un
nevrotico di questa condizione, non un’aberrazione consumistica o
finanziaria. Collezionare è un’altra logica, un modo di muoversi in una realtà
cambiata e in continuo mutamento, e insieme un modo diverso di stare anche
con le cose che forse non cambiano mai, che vorremmo che cambiassero più
lentamente, che indicassero un disegno che ci sembra di avere presente.
Note

II.

1 Stefano Bartezzaghi, “The Gutenberg Collection. Alcune figurine dalle


collezioni del Novecento”, in Periodico del Palazzo delle Stelline, n.
3, primavera 2000.
2 Krzysztof Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, il Saggiatore,
Milano 1989, p. 64.
3 Adalgisa Lugli, Dalla meraviglia all’arte della meraviglia, Galleria
civica, Modena 1996, p. 29.
4 Lawrence Weschler, Il gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson,
Adelphi, Milano 1999, p. 52.
5 Ivi, p. 69
6 Ivi, pp. 70.
7 Paolo Thea, “Percorsi del meraviglioso”, in Wunderkammer.
Meraviglie d’arte in una stanza moderna, catalogo della mostra alla
Fondazione Stelline, Milano 1999, p. 7.
8 Victor I. Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici
nella pittura europea, il Saggiatore, Milano 1998, pp. 121-132.
9 Ivi, p. 85.
10 Ivi, p. 94.
11 Ivi, p. 110.
12 Ivi, p. 119.
13 Ibid.
14 Ivi, p. 120.
15 Krzysztof Pomian, op. cit., p. 9.
16 Vedi Jean Starobinski, 1789: i sogni e gli incubi della ragione,
Garzanti, Milano 1981, p. 27.
17 Giovanni Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, ora in
Ritratti, personaggi, fantasmi, Mondadori, Milano 1997, p. 783.
18 Ibid.
19 Champfleury, Il violino di faenza, Sellerio, Palermo 1990, p. 42.
20 Honoré de Balzac, Il cugino Pons, Garzanti, Milano 1993, p. 37.
21 Champfleury, op. cit., pp. 43-44.
22 Honoré de Balzac, op. cit., p. 40.
23 Joris-Karl Huysmans, A ritroso, Rizzoli, Milano 1953, p. 42.
24 Ivi, p. 81.
25 E. Langui, “G. van Geluwe”, in Les Beaux-arts, n. 671, citato in Pierre
Cabanne, Le Roman des grands collectionneurs, Plon, Paris 1961, p. 7
(traduzione nostra).
26 Ivi, p. 9.
27 Ivi, p. 14.
28 Susan Sontag, “Nella grotta di Platone”, in Sulla fotografia, Einaudi,
Torino 1978, p. 3.
29 Vedi Rosalind Krauss, “Gli spazi discorsivi della fotografia”, in Teoria
e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 30: «E la
fotografia in quale spazio discorsivo opera? Il discorso estetico
sviluppatosi nel XIX secolo si è sempre più organizzato intorno a quello
che potremmo chiamare lo spazio di esposizione».
30 Jean-François Chevrier dal canto suo collega la rivalutazione estetica
degli archivi fotografici ottocenteschi alla ricostituzione di una «cultura
della curiosità anteriore alle specializzazioni istituzionali», rimandando
dunque in questo modo ai “gabinetti di curiosità” passando per le
nozioni di “documento poetico” e di “appropriazione” di stampo
surrealista. Vedi Jean-François Chevrier, “La photographie comme
modèle – une réévaluation”, ora in Entre les beaux-arts et les média:
photographie et art moderne, L’Arachnéen, Paris 2010, pp. 52-57.

III.
1 André Breton, L’Amour fou, Einaudi, Torino 1974, pp. 25-26.
2 Lino Gabellone, L’oggetto surrealista: il testo, la città, l’oggetto in
Breton, Einaudi, Torino 1977, p. 18.
3 Philippe-Alain Michaud, “Zwischenreich. Mnemosyne, o l’espressività
senza oggetto”, in Ipso Facto, n. 7, maggio-agosto 2000, p. 47.
4 Ivi, pp. 48-49.
5 Ivi, p. 49.
6 Ibid.
7 Walter Benjamin, Tolgo la mia biblioteca dalle casse, in Opere
complete, vol. iv, Einaudi, Torino 2002, p. 456.
8 Ivi, p. 457.
9 Ibid.
10 Ibid.
11 Ivi, pp. 457-458.
12 Ivi, p. 463.
13 Walter Benjamin, Parigi, la capitale del XIX secolo, in op. cit., vol. IX,
p. 12.
14 Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, in op. cit., vol. IX, p. 214.
15 Ivi, p. 215.
16 Ivi, p. 214.
17 Ivi, p. 222.
18 Ivi, p. 218.
19 Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismi delle
immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 110-111.
20 André Malraux, Le Musée imaginaire (1947), Gallimard, Paris 2006,
p. 246 (traduzione nostra).
21 Ivi, p. 254.
22 Ivi, p. 256.
23 Ivi, p. 263.
24 Vedi Walter Benjamin, Breve storia della fotografia, in op. cit., vol. IV,
e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in
Opere complete, vol. VI; vedi inoltre Rosalind Krauss, L’inconscio
ottico, Bruno Mondadori, Milano 2008, in particolare pp. 182-183. Per
Malraux vedi tutto il capitolo III del Musée imaginaire, cit., pp. 88-176.
IV.

1 Kirk Varnedoe, High and Low, Museum of Modern Art, New York
1990, p. 311.
2 Charles Simic, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell,
Adelphi, Milano 2005, p. 58.
3 Vedi la ricostruzione puntuale della mostra in Stephan Schmidt Wulffen,
“Le futur à l’épreuve: This is Tomorrow, Whitechapel Gallery, London
1956”, in Katharina Hegewisch e Bernd Klüser, L’art de l’exposition,
Éditions du Regard, Paris 1998, pp. 227-241.
4 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1964), il Saggiatore,
Milano 2010, p. 29.
5 Ivi, p. 30.
6 Ivi, p. 31.
7 Ivi, pp. 31-32.
8 Ivi, pp. 32-33.
9 Ivi, p. 33.
10 Ivi, p. 34.
11 Ibidem.
12 Vedi Clement Greenberg, “Avanguardia e kitsch”, in L’avventura del
modernismo, Johan & Levi, Milano 2011, pp. 37-51. Per quanto
riguarda Adorno e Horkeimer il riferimento è al loro Dialetttica
dell’illuminismo (1966), Einaudi, Torino 2010.
13 Vedi Rosalind Krauss, L’arte nell’era mediale. Marcel Broodthaers,
ad esempio, Postmedia books, Milano 2005.
14 Benjamin Buchloh, Marcel Broodthaers: Allegories of the Avant-
Garde, citato in Rosalind Krauss, L’arte nell’era postmediale, cit., p.
29.
15 Marcel Broodthaers, Ma collection, citato in Rosalind Krauss, L’arte
nell’era postmediale, cit., p. 42.
16 Rosalind Krauss, L’arte nell’era postmediale, cit., p. 41.
17 Vedi Walter Benjamin, Parigi, la capitale del XIX secolo, in op. cit.,
vol. IX, pp. 5-18, e Rosalind Krauss, Reinventare il medium, Bruno
Mondadori, Milano 2005.
18 Il riferimento d’obbligo sul tema dell’archivio è il grande catalogo
personale di Hans-Peter Feldmann Interarchive. Archival Practices
and Sites in the Contemporary Field of Art, pubblicato in occasione
della mostra al Kunstraum dell’Università di Lüneburg, Verlag der
Buchhandlung Walther König, Köln 2002.
19 Hans-Ulrich Obrist, “Intervista a Gilbert & George”, in Elio Grazioli (a
c. di), Il collezionismo o il mondo come voluttà e simulazione, Studio
permanente/a+mbookstore, Milano 2004, p. 71.
20 Ivi, p. 72.
21 Vedi tra gli altri la sezione “Processo, sistema, serie”, in Peter Osborne
(a c. di), Arte concettuale, Phaidon, London 2006.
22 Vedi in particolare Benjamin Buchloh, “Atlas. Warburg’s paragon? The
end of collage and photomontage in postwar Europe”, in Ingrid
Schaffner e Matthias Winzen (a c. di), Deep Storage, Prestel, Munich-
New York 1998. Scrive tra l’altro Buchloh: «L’uso delle fotografie
amatoriali da parte di Richter nell’Atlas nega radicalmente le
aspettative utopiche dell’avanguardia e dell’ottimismo dei media degli
anni venti: mentre l’avanguardia sapeva ancora riconoscere nella
fotografia una promessa di nuove possibilità dell’autoritratto collettivo
e della nascente autodeterminazione, l’opera di Richter si confronta con
una produzione fotografica collettiva, la cui unica funzione è quella di
aumentare la riduzione dell’immagine alle impensate dimensioni
industriali», p. 56.
23 Vedi Anne Moeglin-Delcroix, “Livres d’artistes et collection”, in Sur le
livre d’artiste, Les mots et le reste, Marseille 2006, pp. 41-64.
24 Elio Grazioli, “Intervista a Maurizio Nannucci”, in Elio Grazioli (a c.
di), Il collezionismo o il mondo come voluttà e simulazione, cit. p. 80.
25 Ivi, p. 84.

V.

1 Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti (1972), Bompiani, Milano


2003, p. 112.
2 Ivi, pp. 112-113.
3 Ivi, pp. 117-118.
4 Ivi, p. 120.
5 Ivi, p. 125.
6 Ivi, p. 136.
7 Ivi, p. 137.
8 Boltanski aveva già realizzato negli anni 1973 e 1974 degli interessanti
libretti d’artista con il titolo di Inventaires, inventari dunque ma pieni
di ironia e di messa in discussione della pretesa esaustiva e della
finalità dell’inventariare, nonché – aspetto per noi più interessante – tra
l’apparente presenza morta degli oggetti e la vita a cui essi rimandano.
Vedi Anne-Moeglin-Delcroix, “Livres d’artistes et collection”, cit., pp.
57-58.
9 Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo
capitalismo, Garzanti, Milano 1989, pp. 52-56.
10 Vedi Jeffrey Deitch (a c. di), Posthuman, catalogo della mostra al
Castello di Rivoli, 1992.
11 Nicolas Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il
mondo, Postmedia books, Milano 2004. Questo libro, che dovrebbe
essere una delle versioni più audaci dell’idea di collezione, non ne
affronta invece il tema, forse troppo preso dal suo slancio sociale-
politico e dall’attualità. Riprogrammazione e riappropriazione
diventano le parole d’ordine, mentre il lato di assemblaggio, montaggio,
costruzione vengono messe da parte perfino nelle premesse storiche.
12 Anticipatori di questo discorso, ma non in chiave collezionistica, sono
stati Ashley Bickerton e Peter Nagy, che hanno realizzato opere
composte con i marchi, mentre dell’opera-shopping in qualche modo il
precursore è Haim Steinbach, con i suoi prodotti da supermercato
esposti su mensole neo-geo, come si diceva allora.
13 Massimo Kaufmann, “Intervista a Stefano Arienti”, in Flash Art, n. 242,
ottobre-novembre 2003, p. 104.
14 Stefano Arienti e Amedeo Martegani, Toujours mensonges/Bugie tutti i
giorni, Galleria Analix-B & L Polla, Carouge/Genève 1993, p. 5.
15 Amedeo Martegani, “Il collezionismo o il mondo come voluttà e
simulazione”, in Elio Grazioli (a c. di), Il collezionismo o il mondo
come voluttà e simulazione, cit., pp. 7-8.
16 Bruce Chatwin, Utz, Adelphi, Milano 1989, p. 42.
17 Nicolas Bourriaud, op. cit., pp. 27-29.

VI.

1 Nina Léger, “Le lieu de la demeure. Exposition de la collection privée


au musée”, in Hippocampe, n. 5, giugno 2011, p. 69.
2 Ivi, p. 67.
3 Harald Szeemann, “Un retour à la vie privée qui en valait la peine”, in
Écrire les expositions, La lettre volée, Bruxelles 1996, p. 37. Pur non
essendo il caso di una collezione esposta in un museo, ma nel suo stesso
luogo di origine, vale la pena citare la sua “Grossvater: Ein Pionier wie
wir” (Nonno: un pioniere come noi), esposizione delle collezioni di
oggetti vari del nonno nell’appartamento che fu il suo e poi di Szeemann
stesso, con significativa sovrapposizione di vite.
4 Suzanne Pagé (a c. di), Passions privées, collections particulières
d’art moderne et contemporain en France, Éditions des Musées de la
Ville de Paris, Paris 1995, p. 110.
5 Enrico Lunghi, Clément Minighetti (a c. di), Just Love Me. Regard sur
une collection privée, MUDAM, Luxembourg 2010, p. 3.
6 Nina Léger, op. cit., p. 70.
7 Antoine de Guilbert, in L’Intime, le collectionneur derrière la porte,
catalogo della mostra alla Maison Rouge, Parigi 2004, pp. 20-21.
8 Vedi Elio Grazioli, “Breve guida alla mostra ‘Immagine la vita’”, in
Diario Gerra, n. 1, 2008, pp. 36-55.
9 Su questo argomento si veda almeno Matthias Winzen, “Collecting – so
normal, so paradoxical”, in Deep Storage, cit. Scrive Winzen: «Per
quanto al primo sguardo collezionare possa apparire naturale, a un
secondo sguardo è anche carico di contraddizioni generate da
ambivalenze e paradossi. Sono precisamente tali contraddizioni che
interessano la pratica artistica. Mentre una collezione convenzionale
spiega, accumula e completa il suo oggetto (farfalle, libri, documenti),
il collezionare artistico è relativamente aperto, meno orientato a un fine
[…] tende a fare attenzione alle note e ai margini, a ciò che è assurdo e
trascurato nel collezionare, salvare e archiviare», cit., p. 22.
10 Vedi Gianluigi Ricuperati, “Collezionare idee”; Antonella Anedda,
“Décollectionner”; Manlio Brusatin, “Il collezionista di incudini”, tutti
in Elio Grazioli, Il collezionismo o il mondo come voluttà e
simulazione, cit., rispettivamente pp.137-42, 130-36 e 106-11.
11 Hans Haacke, “Introduzione”, in AnsichtsSachen/ViewingMatters,
Richter Verlag, Düsseldorf 1999, p. 7. Da parte sua, Ingrid Schaffner,
curatrice nel 1998 della più grande mostra sull’argomento, intitolata
“Deep Storage” (Magazzino profondo), descrive un’altra esperienza
della visita del deposito, che solleva nuove questioni: «Visitare il
deposito, dove gli oggetti stanno spogliati della loro aura critica,
significa contemplare l’arte in uno stato di remissione temporale»
(Ingrid Schaffner, “Deep Storage”, in Ingrid Schaffner e Matthias
Winzen (a c. di), Deep Storage, cit., p. 11). Sospesi in un curioso limbo
tra arte e altro, le opere nei depositi stanno tra «la memoria (le cose
salvate diventano ricordi) e la storia (le cose salvate diventano
informazione). E ancora, il deposito è uno spettacolo di cultura
materiale che fa appello al virtuale come a una forma ideale di sollievo
dal problema quotidiano con cui ha a che fare tutto questo genere di
cose». Non ancora storia, non più presente, non più oggetto quotidiano,
ma senza aura e non ancora vista come vera e propria opera, l’opera
che sta in deposito è diversa da quella che sta in collezione, ma
restituisce bene lo stato di potenzialità, e di attesa di considerazione, di
attenzione, di relazione, che hanno le opere nella collezione.
12 Dal comunicato stampa di “Artempo”, Museo Fortuny, Venezia 2007.
13 Christian Lacroix, “Au sujet du retour à Arles”, in Musée Réattu /
Christian Lacroix, Actes Sud, Arles 2008, p. 27.
14 Georges Didi-Huberman, Quand les images prennent position,
Éditions de Minuit, Paris 2009, p. 20. Pur teorizzata in diversi suoi
libri, ci rifacciamo qui in particolare alla ripresa e sintesi contenuta in
questo.
15 Ivi, p. 25.
16 Ivi, p. 70.
17 Ivi, p. 86.
18 Ivi, pp. 93-94.
19 Denis Gielen, “Avant-propos”, in Atlas de l’art contemporain à
l’usage de tous, Musée des Arts Contemporains au Grand-Hornu,
Luxembourg 2007, p. 15.
20 Si può leggere in parte in questa chiave il libro di Daniel Birnbaum,
Cronologia, tempo e identità nei film e video degli artisti
contemporanei, Postmedia books, Milano 2007.
21 Aurelio Andrighetto, Dario Bellini, Gianluca Codeghini, Elio Grazioli,
Warburghiana, Fancosoffiantino artecontemporanea, Torino 2005.
22 A titolo indicativo si vedano gli articoli dedicati a questo argomento in
Ingrid Schaffner e Matthias Winzen, op. cit., ovvero: Ingrid Scharlau,
“Cyberspace”, pp. 108-112; Jon Ippolito, “http:/www. Given: the
universe shown: every artwork”, pp. 157-164; Stefan Iglhaut,
“Interactive. From Archiving: Notes on “Deep Storage” and the
Medium of Availability”, pp. 174-176.

VII.

1 Approfittiamo qui per ricordare un volume fin qui non ancora citato ma
che tratta in realtà buona parte dei temi e numerose figure citate nel
nostro testo (da Sir John Soane a Freud, a Schwitters), per quanto con
un’ottica più accademica e tradizionale di quanto andavamo cercando e
perciò poco sfruttata qui nonostante la sua ricchezza di spunti, che è
l’ormai classico John Elsner e Roger Cardinal, (a c. di), The Cultures
of Collecting, Reaktion Books, New York 1994.
2 Adalgisa Lugli, “Il collezionista”, in Alfabeta, n. 68, gennaio 1985, p.
18.
3 Sally Price, I primitivi traditi, Einaudi, Torino 1992.
4 Franco La Cecla, Non è cosa, Eleuthera, Milano 1998.
5 Mario Praz, Vecchi collezionisti, ora in Bellezza e bizzarria,
Mondadori, Milano 2002, p. 1421.
6 Mario Praz, Un interno, ora in Bellezza e bizzarria, cit., p. 1374.
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Redazione
Margherita Alverà

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con Paola Lenarduzzi

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