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5
Elio Grazioli
E.G.
I.
Scrive Pomian:
Nel XVIII secolo i mercanti cominciano a mettere mano alla penna per dare consigli sulla scelta
e la sistemazione di una collezione, scrivere dissertazioni sul commercio delle curiosità e sulle
aste, e pubblicare manuali a uso dei collezionisti. Nello stesso periodo è la volta degli storici e dei
critici d’arte.15
Ma, mentre sistematizza e ordina, commercializza e normalizza, il secolo
galante ed erotico ha in una delle sue figure più rappresentative un vero e
proprio tipo, per quanto del tutto speciale, di collezionista, non di opere
d’arte o di oggetti particolari, ma appunto di amori. Ci riferiamo a don
Giovanni – versione più collezionistica del visconte di Valmont delle
Liaisons dangereuses, di Casanova e di De Sade – e naturalmente alla sua
interpretazione mozartiana. «Madamina, il catalogo è questo / delle belle che
amò il padron mio»: il don Giovanni di Mozart-Da Ponte non è infatti solo il
collezionista mosso dal desiderio insaziabile, da un moderno desiderio
“differente”, che ama la differenza nella sua forma della varietà e della
quantità, e che differisce, rimanda il soddisfacimento finale, morte del
desiderio; è anche, come ha stigmatizzato una volta per sempre Jean
Starobinski, il libertino che sta storicamente per trasformarsi in libertario,
l’amante cioè della libertà, colui che ama la e per la libertà, che colleziona
“conquiste” per non fissarsi in una e rimanere libero, anzi per perseguire la
libertà, costruirla di mano in mano secondo
la passione dell’illimitato, che rifiuta di riconoscere i freni […]. Baudelaire ha ragione quando
scrive che la Rivoluzione è stata fatta da dei voluttuosi: indica questi uomini che tutti i loro gusti
legano all’universo che sta finendo e che, rivolgendosi contro quest’ultimo, diventati suoi nemici
giurati, restavano i testimoni fedeli del suo disordine, delle sue libere speculazioni, dei suoi appetiti
contraddittori.16
Ma la forza poetica di questo personaggio per cui esso diventa pura espressione musicale sta
nell’essere un personaggio del tutto “naturale”. Egli sprigiona la sua energia in modo elementare
e istintivo. Come in certi animali, l’astuzia gli è utile soltanto per servire il senso, perché l’istinto
insaziabile abbia la sua vittoria.17
Aveva voluto, per il diletto del suo spirito e la gioia dei suoi occhi, alcune opere suggestive che lo
gettassero in un mondo sconosciuto, gli rivelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero
il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni indifferentemente
atroci.24
Perché, cosa sono in realtà gli oggetti ambiti dal collezionista, se non gli artifici di un eterno
inseguimento di se stesso? Essere asociale per eccellenza, egli si sente sicuro solo in compagnia
delle sue conquiste perché esprimono i rari momenti in cui ha potuto, in qualche modo, ingannare
il destino.26
Invenzione
Intanto viene inventato un nuovo strumento, una “macchina”, che ha una
della fotografia grande ripercussione sull’idea di collezionismo, sul concetto stesso del
collezionare, ovvero la fotografia. Appena la fotografia scopre di essere
immagine fedele della realtà, ciò di cui vuole dare documentazione è subito
sentito come qualcosa di diverso, singolare, raro, emozionante, qualcosa che
alcuni o tutti vorrebbero o dovrebbero collezionare, siano essi i momenti e
gli aspetti significativi della propria vita o dei propri cari, il luogo lontano
ed esotico, la scenetta pittoresca o l’evento che si candida alla cronaca o
alla storia. Scrive Susan Sontag:
L’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare.
[…] Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di
ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e,
cosa ancor più importante, un’etica della visione. Infine la conseguenza più grandiosa della
fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di
immagini. Collezionare fotografie è collezionare il mondo.28
La fotografia altera la modalità dell’esperienza del reale, non solo della sua
visione ma anche della sua comprensione. Da un lato pare conferire realtà al
reale stesso – reale solo se è fotografato –, dall’altro lo svuota, lo
appiattisce, livella il significato degli eventi. Il lontano nel tempo e nello
spazio, il raro, l’oggetto o essere in via di sparizione, questi che sono i temi
principali della fotografia dell’epoca segnano fin dentro il suo statuto di
documentazione: la fotografia, prima ancora che oggetto autonomo e
artistico, porta con sé l’idea di un tempo che consuma le cose e le vite, le
quali vanno per questo fermate, fissate almeno in immagine. Di fatto
chiunque aspira a diventare collezionista di qualsiasi cosa, fin di se stesso,
in immagine.
Lo stesso duro giudizio di Charles Baudelaire che ammonisce la
fotografia a non cercare di sfidare l’arte, ma ad accettare la sua condizione
di strumento “al servizio di” altro (scienza o altra disciplina o utilità), può
essere letto in questo senso non come una condanna alla sussidiarietà e
all’artisticità mancata, ma al contrario come un richiamo alla sua specificità
altra, diversa, quella che la lega intrinsecamente alla testimonianza, alla
documentazione, all’archivio, nei suoi più diversi modi e risvolti.
Quanti artisti oggi recuperano infatti in questa direzione una fotografia
ostentatamente “oggettiva” e la legano alla serie, alla quantità, all’ordine, al
programma, a ogni forma di archiviazione, una nuova archiviazione, certo,
segnata dal passaggio alla postmodernità? Non è il nostro senso del
collezionismo, ma ci torneremo.
Ci sono anche altri aspetti, per certi versi ancora più radicali, che la
fotografia introduce all’interno delle problematiche collezionistiche. Così:
che artisticità hanno, e ancor più di che estetica sono portatrici fotografie e
archivi fotografici che non sono stati fatti con intenzioni artistiche? Sono
“artisti” Timothy O’Sullivan, Samuel Bourne, Felice Beato, Auguste
Salzman, Eugène Atget? In quale contesto si inseriscono? A quale “spazio
discorsivo” – come dice Rosalind Krauss – fanno riferimento?29 Sono
“opere” le loro fotografie? In un certo senso sì, ma in quale? Oggi infatti si
prendono fotografie scattate dagli autori al seguito di spedizioni geografiche,
per scopi scientifici o commerciali di diverso genere, senza alcuna
intenzione artistica comprovata, le si isola dal loro contesto e le si espone
bene incorniciate in gallerie e musei come “opere d’arte”. A che titolo lo si
fa? Che cosa significa? Per noi significa innanzitutto che tra documento,
archivio, serie, collezione, opera c’è un legame che la ricerca artistica ed
estetica posteriore non ha voluto sacrificare o ignorare e di cui ha anzi
voluto far fruttare le possibilità.30 Esistono infatti, al di là di specificità e
formalismi, modi svariati di incrociare l’arte, di catturare la bellezza, anche,
e talvolta meglio, dedicandosi ad altro; questa bellezza anzi ha vita e
pensiero propri e diversi, sfumature e sentimenti, freschezza e potenza che
non si ritrovano altrove. Anche in questo senso collezionare è un esercizio
estetico e la collezione assimilabile a un tipo di “opera”.
III.
Per noi si trattava di sapere se un incontro, scelto tra i ricordi e tale che le sue circostanze
assumano un particolare rilievo dal punto di vista affettivo, fosse stato posto, per chi era disposto
a rievocarlo, fin dal principio sotto il segno della spontaneità, dell’indeterminatezza,
dell’imprevedibilità o anche dell’inverosimiglianza e, nel caso, in che modo si fosse svolta in
seguito la riduzione di questi dati. Contavamo su osservazioni di qualsiasi tipo, anche distratte,
anche apparentemente irrazionali, che potessero essere formulate a proposito del concorso di
circostanze favorevoli a un incontro di tale sorta per porre in risalto che quel concorso non è
affatto inestricabile e mettere in luce i nessi di dipendenza che uniscono le due serie causali
(naturale e umana); nessi sottili, fuggevoli, inquietanti allo stato attuale delle conoscenze, ma che
illuminano a volte di vividi bagliori i passi più incerti dell’uomo.1
Che Warburg abbia concepito Mnemosyne in termini topografici […] è quello che pare
suggerire l’enigmatica formula di “iconologia degli intervalli” impiegata dallo storico dell’arte nel
suo diario nel 1929, cioè un’iconologia che verterebbe non sul significato delle figure […] ma sui
rapporti complessi che queste figure intrattengono tra loro in un dispositivo visivo complesso, e
irriducibile all’ordine del discorso.3
Di nuovo siamo di fronte a un pensiero visivo, “senza parole”, che non è
comunque riducibile alla struttura e alla logica strutturata dal verbale.
Questi accostamenti […] non derivano solo dal semplice paragone, ma dallo scarto, dalla
detonazione, dalla deflagrazione: non mirano a far emergere invarianti tra ordini di realtà
eterogenee ma a introdurre differenze in seno all’identico. […] In Mnemosyne […] la distanza
tra le immagini, a favore di un rovesciamento dei parametri di spazio e di tempo, serve a
produrre delle tensioni tra gli oggetti figurati e, per induzione, tra i livelli di realtà da cui
procedono questi oggetti.4
Ogni tavola di Mnemosyne è il rilievo cartografico di una regione della storia dell’arte vista
simultaneamente come sequenza oggettiva e come catena di pensieri in cui la rete degli intervalli
disegna le linee di fratture che distribuiscono od organizzano le rappresentazioni in arcipelaghi, o
ancora, secondo Werner Hofmann, in “costellazioni”.6
Non esagero: per l’autentico bibliomane l’acquisto di un vecchio libro significa la sua rinascita. E
appunto in ciò sta l’aspetto infantile che, nel collezionista, si compenetra con quello del vegliardo.
I bambini, infatti, dispongono della capacità di rinnovare l’esistenza come di una prassi centuplice
e mai in imbarazzo. Per loro il collezionare è uno tra i tanti metodi di rinnovamento.11
Ciò che nel collezionismo è decisivo è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie
per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto
opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza. Cos’è poi questa
“completezza”? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice
presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente
creato: la collezione. E per il vero collezionista ogni singola cosa giunge a diventare
un’enciclopedia di tutte le scienze dell’epoca, del paesaggio, dell’industria, del proprietario da cui
proviene. […] Tutto quanto fu oggetto di memoria, pensiero, coscienza, diviene piedistallo,
cornice, basamento, scrigno del suo possedimento.14
quanto accade al collezionista è che gli oggetti gli capitano. Il modo in cui li insegue e li
raggiunge, la modificazione che un nuovo pezzo che si aggiunge apporta in tutti gli altri, tutto
questo gli mostra le sue cose in stato di perenne fluttuazione. […] (In fondo si potrebbe dire che
il collezionista viva un pezzo di vita onirica. Anche nel sogno infatti il ritmo della percezione e
dell’esperienza vissuta è così alterato che tutto – anche ciò che è in apparenza più neutrale – ci
capita, ci riguarda.)15
Allo stesso modo il possesso del collezionista non è quello del comune
proprietario di qualsiasi cosa, né corrisponde ad altro tipo di acquisto: è un
momento necessario, il momento che inscrive il singolo oggetto nel «cerchio
magico in cui s’irrigidisce, nell’atto stesso in cui un ultimo brivido (il
brivido dell’essere acquistato) lo attraversa».16 Perché, infine, «il motivo
più recondito del collezionista può essere forse così circoscritto: egli
intraprende una lotta contro la dispersione. Il grande collezionista è
originariamente toccato dalla confusione, dalla frammentarietà in cui versano
le cose in questo mondo». Il collezionista allora riunisce ciò che è affine: è
così che «può riuscirgli di dare ammaestramenti sulle cose in virtù della loro
affinità o della loro successione nel tempo».17
Affinità e destino sono la posta in gioco delle cose liberate dall’utilità
secondo Benjamin. L’unico esempio di collezionista che egli riporta risulta
significativo a titolo conclusivo: «Il grande collezionista Pachinger ha messo
insieme una collezione di oggetti che, per inutilità e stato di deterioramento,
potrebbero essere affiancati a quelli riuniti nella collezione Figdor a Vienna.
Non sa quasi più lui stesso come le cose si mantengano in vita, spiega ai suoi
visitatori, accanto ai più vetusti apparecchi, fazzoletti, specchietti etc. Di lui
si narra che, passeggiando un giorno per lo Stachus, si sia chinato a
sollevare qualcosa: giaceva là un oggetto cui aveva dato la caccia per
settimane: l’esemplare difettoso di un biglietto di tram, che era stato in
circolazione solo per un paio d’ore».18 Molto vicino a Kurt Schwitters, di
cui pure si racconta di come raccogliesse da terra scarti di ogni genere, in
cui vedeva il pezzo mancante che da tempo cercava per concludere un suo
collage, Anton Pachinger è come Breton al mercato delle pulci in L’Amour
fou.
Benjamin non pare aver direttamente collegato immagine dialettica e
oggetto da collezione, ma il rimando a noi pare evidente e preme ribadirlo:
l’oggetto che entra nella collezione è come un’immagine dialettica, compreso
l’effetto di shock che esso comporta sull’insieme in cui si inserisce, che
rimescola e ristruttura, creando nuovi nessi e percorsi. In tale oggetto i tempi
si dialettizzano, inserendosi in una cronologia che è storica ma anche
personale ed ermeneutica, che rilegge il passato alla luce del presente e che
anticipa un futuro già inscritto. Citiamo Didi-Huberman a chiarificazione del
dispositivo:
Benjamin intende [l’immagine dialettica] innanzi tutto nel modo visivo e temporale di una
folgorazione: “L’immagine dialettica è un’immagine che folgora” scrive nel 1939 nei suoi
frammenti su Baudelaire. E nei paralipomeni alla tesi Über den Begriff der Geschichte, nel
1940: “L’immagine dialettica è un fulmine sferico che corre sopra l’intero orizzonte del passato”.
Essa delimita in ciò uno spazio proprio, un Bildraum che caratterizza la sua duplice temporalità
di “attualità… integrale” (integraler… Aktualität) e di apertura “da ogni lato” (allseitiger) del
tempo. Tale è la potenza dell’immagine, e tale è anche la sua essenziale fragilità. Potenza di
collisione, in cui cose, tempi, sono messi in contatto, “urtati”, dice Benjamin, e disgregati nel
contatto stesso. Potenza di lampo, come se la folgorazione prodotta dallo scontro fosse la sola
luce possibile per rendere visibile l’autentica storicità delle cose.19
2 collezionismi All’opposto, per proseguire con la nostra scorsa storica, sembra che tra il
di Hitler
1939 e il suo suicidio nel 1945 Hitler abbia perseguito due modalità deformi
di collezionismo: l’una consisteva nel raccogliere i più grandi capolavori
dell’arte europea che incontrava sul percorso delle sue imprese, tra bottini,
confische e anche, pare, qualche acquisto; la seconda nell’ordinare la
sistematica riproduzione fotografica di tutte le opere d’arte importanti della
Germania, in caso fossero andate distrutte dalla guerra e dai bombardamenti
degli Alleati. Valga questo esempio d’effetto per ricordare come dal legame
tra megalomania collezionistica e pretesa archivistica possa correre in tutta
la sua esasperazione totalitaria il rischio del collezionismo archivistico non
creativo, se possiamo sintetizzare così.
Da parte sua, mentre i musei si moltiplicano in tutto il mondo, André
Malraux concepisce nel dopoguerra quello che chiama il “Museo
immaginario” o senza pareti, mentale, museo del sapere, che è sempre «più
vasto dei musei reali», che denuncia la staticità e le pretese oggettive della
museografia, che ricorda come, ancora una volta, non tutto ciò che è esposto
nei musei è nato come opera d’arte, che l’arte non aveva la stessa funzione
prima della modernità – prima della benjaminiana “epoca della
riproducibilità tecnica” –, che le cornici, gli stili, lo stesso sguardo non sono
mai stati come ora, che sono in continuo cambiamento. «La metamorfosi non
è un incidente, è la vita stessa dell’opera d’arte»,20 il Museo immaginario è
il museo consapevole del cambiamento continuo delle forme e delle
concezioni, delle funzioni e dei significati. Ma c’è di più: il museo «troverà
la sua forma solo quando avrà smesso di confondere l’opera d’arte con
l’oggetto d’arte, quando il Museo immaginario gli avrà insegnato che la sua
azione più profonda sta nel suo rapporto con la morte».21 Le opere non sono
oggetti, sono “voci”; l’arte non appartiene alla conoscenza, ma alla “vita”,
alla “presenza”: «il vero Museo è la presenza, nella vita, di ciò che
dovrebbe appartenere alla morte».22 L’arte non è come la parola, ma come la
musica: «È il canto della metamorfosi, e nessuno lo ha sentito prima di noi –
il canto in cui le estetiche, i sogni e persino le religioni non sono più che
libretti di una musica inesauribile».23
Questo museo è sì “immaginario”, ma è anche quello di chi ama
veramente l’arte, è la forma dell’amore, invece che della conoscenza,
dell’arte. In questo senso è un po’ il fondo, il sostrato su cui poggia ogni
desiderio di collezionare, di dare sostanza a tale “immaginario”, di dargli
forma visibile da esibire a chi non sente e non vede, o dimentica. Ogni
collezionista, fosse pure inconsapevolmente, esibisce la sua passione ideale
per l’arte, il suo senso di un Museo immaginario.
Tale museo, però, deve anche la sua concezione alla tecnica della
fotografia, in particolare a quel suo carattere che Benjamin ha chiamato
“inconscio ottico”. La fotografia infatti non solo amplia le possibilità visive
dell’occhio umano, ma mostra ciò che a esso spesso sfugge, o che guarda
senza vedere, come le posizioni nel movimento – come ha mostrato la
cronofotografia – o i dettagli negli ingrandimenti, ma anche solo la varietà
dei dettagli di una scena di cui lo sguardo seleziona sempre solo una parte,
fino agli aspetti propriamente inconsci sia del comportamento umano sia
dello sguardo.24 Così la fotografia ci ha mostrato parti, dettagli e aspetti di
opere d’arte che non avevamo mai visto o mai notato e che ora entrano a far
parte integrante dell’opera così come la vediamo, ricordiamo, interpretiamo.
Il Museo immaginario di Malraux è un museo di riproduzioni fotografiche, è
il libro omonimo, un altro “atlante” da questo punto di vista, un’altra
“opera”.
IV.
Cornell sapeva quello che stava facendo? Sì, ma in prevalenza no. Chi può davvero saperlo?
[…] Il surrealismo gli fornì il modo di essere qualcosa più di un semplice eccentrico, collezionista
di bizzarrie varie. Le idee sull’arte vennero dopo, se mai vennero chiaramente. E come
avrebbero potuto? La sua è una pratica divinatoria.2
Il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre
all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via “finito” di arnesi e di materiali,
peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del
momento, né d’altronde con nessun progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le
occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i
residui di costruzioni o di distruzioni antecedenti.5
Ecco i contatti del sudore. Abbiamo scoperto dei fiori e dei motivi sorprendenti in queste gocce.
Ci fanno sempre venire in mente delle carte da parati cinesi. Tutte queste sono immagini di
piscio, ce ne sono letteralmente migliaia. E quelle sono di sangue e di sperma. Noi pensiamo che
in questi diversi motivi che si formano nel cuore stesso di questi soggetti abbiamo scoperto una
dimensione morale. Perché esistono dei crocifissi nel piscio? Perché dei pugnali nel sangue?
Forse l’essere è riflesso ovunque in noi e non solo nella testa, nell’anima o nel sesso, ma
percorre il corpo intero.19
La logica di un oggetto ha sempre una durata limitata che difficilmente si riesce a trasmettere
nel tempo. Per questo ho rivolto subito la mia attenzione, oltre al nucleo bibliografico, a tutti quei
documenti che mi sembravano fragili per la loro stessa natura e che data la loro circolazione
marginale non credevo avessero possibilità di essere collezionati.24
Non nutro un interesse scientifico o accademico […]. Ho bisogno di operare con confini larghi
entro i quali vivere l’ambivalenza del rassicurare o del creare dubbi. Un luogo in cui si mescola il
narrativo e l’analitico che sono in me… Amo soprattutto dare una circolazione dinamica alle
cose, alle idee.25
Ogni oggetto ha dunque due funzioni: la prima è l’essere pratico, la seconda l’essere posseduto.
Quella dipende dal campo di totalizzazione pratica del mondo attraverso il soggetto, questa da
un’impresa di totalizzazione astratta del soggetto attraverso se stesso e al di fuori del mondo.1
Gli oggetti liberi dal loro uso disegnano degli speciali insiemi, delle
speciali totalità: «Non ne basta più uno solo: è sempre una serie di oggetti,
al limite una serie totale, che diventa progetto compiuto». Questa serie che
tende a essere completa spiega la perdita di singolarità di ogni oggetto e la
sua sostituibilità, da cui deriva il misto di soddisfazione e di delusione di cui
è sempre fonte. Per questo, prosegue Baudrillard,
soltanto un’organizzazione più o meno complessa di oggetti che rimandano l’uno all’altro
determina il singolo oggetto in un’astrazione sufficiente perché possa venire recuperato dal
soggetto nell’astrazione vissuta, cioè nel sentimento di possesso. Questo tipo di organizzazione è
la collezione: in essa trionfa la tensione appassionata verso il possesso, dove la prosa quotidiana
degli oggetti diventa poesia, discorso incosciente e trionfale.2
Un qualunque oggetto non si oppone mai alla moltiplicazione dello stesso processo di proiezione
narcisistica operata su un numero indefinito di oggetti, ma l’impone invece, prestandosi a
un’ambientazione totale, a una totalizzazione delle immagini di sé; ecco il miracolo della
collezione. Perché in realtà si colleziona sempre il proprio io.3
I verbi del collezionismo [cercare, indagare, scandagliare, chiedere delazioni, spiare, controllare,
archiviare, inscatolare, eludere, nascondere, coprire] sono quelli dei servizi segreti, del mondo
dell’azione parallela, della simulazione o dell’azione mai avvenuta ufficialmente ma accaduta;
[…] a volte invece può bastare avere avuto, aver visto, non necessariamente avere fatto
prigionieri; alcune cose si arrendono in fretta e non è conveniente portarle con sé, poiché
esauriscono magari in un solo dettaglio la loro necessità di cose; altre invece, inaccessibili e
sempre diverse a ogni attenzione, devono essere isolate e magari riguardate, condivise, per
mescolare e rimescolare quello che non viene mai a galla e resta segreto. Altre ancora prendono
forma solo se raccolte tutte insieme, ordinate come aiuole, semplici ed elementari, inutili se sole.
Collezionare è piegare il desiderio al di sopra delle cose chiedendo una compagnia vivente, è un
esercizio di attenzione, un’assenza calibrata dalla storia.15
A partire dalla fine del Settecento, il termine “mercato” si allontana dal suo referente materiale
per designare il processo astratto della vendita e dell’acquisto. […] Quando interi settori della
nostra esistenza diventano invisibili per effetto del cambiamento di scala della globalizzazione
economica, quando le funzioni base della nostra vita quotidiana si vedono a poco a poco
trasformate in elementi di consumo […] sembra logico che gli artisti cerchino di
rimaterializzare queste funzioni e questi processi.
Ridando forma non tanto agli oggetti, che significherebbe ricadere nella
reificazione, quanto all’esperienza, allo strumento di relazione.17
Gli artisti-collezionisti, chiamiamoli così, sono davvero molti, chi più
occasionalmente chi meno, chi ne fa effettivamente una propria opera, chi,
sulla scorta dell’attualità del tema, ha dichiarato, esposto o pubblicato le sue
collezioni come tali, per mostrare come sente a sua volta il problema e come
lo affronta: tutte prove dell’intreccio essenziale tra fare artistico e sensibilità
collezionistica. Ricordiamone brevemente ancora qualcuno, che ci permette
di prendere in considerazione qualche altro aspetto. Per esempio famosa, tra
le altre sue, è la collezione di quadrifogli di Tacita Dean. Una collezione non
inusuale e in realtà diffusa e scontata, se il quadrifoglio è il simbolo della
fortuna, ma significativa se la si inserisce nel contesto dell’opera di Dean e
la si collega alla finezza della vista e al culto dell’attenzione, ovvero di un
perfetto intreccio di casualità e di concentrazione. È la dote primaria del
collezionista.
All’opposto della leggerezza e della fragilità dei quadrifogli di Dean, dal
canto suo, Luca Pancrazzi ha realizzato nel 2007 un’installazione con la sua
collezione di pesi per filo a piombo, una collezione già di per sé piuttosto
inusuale. Intitolata Fili da me lontano da te, consiste in fili con peso
all’estremità tesi in varie direzioni non perpendicolari a terra, che riempiono
una stanza intralciando il passaggio e intersecando lo sguardo – un po’ alla
maniera dell’allestimento di Marcel Duchamp per la mostra “First Papers of
Surrealism”. Ma la questione principale qui è che ciò che dovrebbe segnare
la direzione per eccellenza, quella della gravità, Pancrazzi lo fa andare in
tutte le direzioni, e la pesantezza del metallo si rovescia in una sorta di
libero volo. La “di-versità” del titolo contiene la varietà di significati:
ognuno è diverso perché ha un verso differente, ognuno libero ma tutti
direzionati… I fili sono tesi, la precisione non ne risente, l’intreccio non
diventa intrico, groviglio inestricabile. I pesi svolgono di fatto la loro
funzione, ma in maniera diversa. Tutti caratteri, anche questi, della
collezione, ma importante è soprattutto il senso della direzione, una visione
della collezione come di vettori precisi per quanto possano apparire
disparati e complessi.
Infine ben particolare è la collezione raccolta ed esposta da Jean-Luc
Moulène con il titolo 24 objets de grève (1999). Si tratta di oggetti realizzati
durante alcuni scioperi per comunicare lo sciopero stesso ed eventualmente
sostenere, con la vendita, gli scioperanti. Sono giornali usciti senza
immagini, pacchetti di sigarette con testo che comunica lo sciopero, gadget
di diverso tipo, caricaturale, umoristico, serio, utile, inutile… A parte il loro
supplementare ma intrinseco valore ideologico – o, in questo caso,
postideologico? neosituazionista? neo-politico? – sono oggetti che hanno
qualcosa in più o in meno del loro essere normale, una differenza che li
caratterizza, significativa proprio perché li segna indelebilmente: sono infatti
oggetti di produzione che comunicano la sospensione della “normale”
produzione. Ebbene, l’oggetto di ogni collezione è sempre un po’ così:
strano, particolare, comunque non normale, decontestualizzato e
ricontestualizzato diversamente, forma una collezione di differenze.
VI.
Un’artista che ha fatto suo il tema della dialettica tra museo, collezione
pubblica, istituzionale (che deve rispondere a funzioni didattiche, storiche o
altro) e collezione privata, personale, libera, è Louise Lawler. Il suo,
peraltro, è un caso pressoché unico, almeno per quanto riguarda l’entità del
progetto e la fama che ne è derivata.
Classificata come “decostruttivista”, in quanto usa la fotografia per
svelare la struttura del reale, mostrandone il lato nascosto, rimosso, eppure
sotteso alla logica stessa dell’evento preso in considerazione, Lawler ha
fatto della collezione il soggetto della propria opera e insieme la forma della
sua rappresentazione. Prima si è mossa nei musei, di cui ha fotografato le
vetrine, le scelte e i modi espositivi, oltre che i magazzini, le opere
imballate, poi è entrata nelle collezioni private, scoprendo l’altra logica che
le regge, talvolta ingenuamente, talaltra inconsapevolmente, comunque
diversa da quella programmata dell’istituzione.
Si prendano per esempio quelle che possono sembrare semplici questioni
di arredo, di gusto, di casualità dovute allo spazio: Lawler ne inquadra,
propriamente, un significato latente o nascosto. Una zuppiera Settecento
sopra un mobile davanti a un Pollock svela un inatteso fondo settecentesco in
Pollock e al tempo stesso una modernità imprevista nelle forme e
decorazioni della zuppiera. Un angolo di salotto vede raccolti come per caso
un Delaunay dietro un televisore, tra una lampada disegnata da Lichtenstein,
una finestra e una maschera africana, oggetti e opere che non sembrano avere
niente in comune e di cui invece Lawler coglie il legame con la luce, non
senza un tocco inquietante nel contrasto della maschera africana immersa
nell’ombra, simbolo del rimosso dell’arte occidentale. Vicinanze fortuite ma
altrettanto “oggettive” e veritiere delle analisi storiche e documentali: ne
emerge una “verità”, un senso, che nasce da un rapporto orizzontale, da una
contiguità, da un contatto, che svela nel privato ciò che la cultura nasconde o
rimuove, e che tuttavia la segna fino a livello strutturale, “metafisico”, come
direbbe appunto il decostruzionismo. La collezione diventa così la forma
stessa dell’opera e del suo funzionamento: l’opera stessa è accostamento e a
sua volta andrà a collocarsi tra altre opere in un’altra collezione.
La questione era sentita anche dall’altra parte, cioè da quella degli spazi
pubblici e istituzionali, dai musei e dalle gallerie, che colgono l’occasione
per «rimettere in discussione le pratiche di esposizione che sono le
tradizionali del museo e, così, di proporre ai visitatori altri contesti di
percezione, altre situazioni di ricezione».1 Tale è la collezione per il
visitatore: altro modo di accostarsi e accostare le opere, altro contesto di
fruizione, a sua volta privato, personale, libero, aperto, rispetto a quello
guidato, costretto, incasellato dei musei. Ci se ne accorge già nei non
particolari musei che sono di fatto delle collezioni storiche – a ben pensarci,
ogni museo è come una collezione, se lo si considera nella cronologia delle
sue acquisizioni e fuori dagli schemi che ne dettano strettamente la logica –
conservate come erano al momento del loro lascito, talvolta perfino nello
stesso luogo e con lo stesso arredo. Ma ora si tratta di esposizioni
temporanee all’interno dell’istituzione, mirate a mettere in dialettica i due
modelli. Ora il punto di vista è quello curatoriale e dello spettatore, non più
quello del collezionista o dell’artista.
L’effetto è forte: «Una casa al museo, una casa nel museo, una casa come
museo: strano effetto di scatole cinesi, strana apertura del museo a questo
spazio assolutamente altro che è lo spazio domestico».2 Lo spostamento è
radicale e paradossale, un’abitazione, un luogo segnato, vissuto, in un luogo
di pura visita, forse un non luogo, nel senso di Marc Augé, senza storia
propria, senza identità, puro contenitore uguale ovunque, comunque retto da
regole diverse. L’intenzione deve essere altrettanto decisa e determinata. Ha
scritto Harald Szeemann, un curatore evidentemente consapevole di tali
questioni:
Per me il mestiere di “realizzatore di esposizioni” e il suo contesto non possono rinnovarsi se non
nella reintegrazione della dimensione dell’intimità, e un uguale valore sociale lo si può trovare in
qualcosa di fragile, di intimo, contrapposto a una violenta rivendicazione esplicativa, come
ricondurre la rivendicazione, l’avventura irrazionale visualmente formulata di un solitario a un
denominatore comune, desiderato o compreso dalla società.3
Ci sono state numerose altre mostre simili, ma con diverso intento, negli
spazi più vari. Tutte risentono della stessa volontà di disporre diversamente
le cose, di inventare nuovi modi in cui metterle insieme, di percorrere la
storia non seguendo la cronologia, di creare accostamenti produttivi, di
cercare percorsi senza rinunciare al coinvolgimento personale, di rimettere
in gioco ciò che restava escluso.
Ricordiamone alcune a titolo di esempio. Si potrebbe partire da un
intervento d’artista come quello di Hans Haacke nel Museum Boijmans di
Rotterdam, nel 1996. La mostra si intitolava “AnsichtsSachen/Viewing-
Matters”, traducibile come “Punti di vista” o anche, dall’inglese, “Oggetti da
vedere” se non “Questioni di visione” o simili. Il progetto giocava infatti su
questa ambiguità, portando nelle sale del museo le opere che solitamente si
trovano nei suoi depositi, in giacenza, come si suol dire, non esposte, e
allestendole per accostamenti tra epoche, autori, stili diversi, soprattutto tra
antichità e contemporaneità, trasformando, potremmo dire, il museo in
collezione. Haacke lo dichiara esplicitamente nell’introduzione:
Entrare nei depositi sotterranei di un museo è come entrare in una Wunderkammer. Artefatti di
tutte le dimensioni e i valori, prodotte da individui (alcuni senza nome) di diversi periodi storici e
reputazioni, appesi indiscriminatamente l’uno accanto all’altro e riposti intimamente vicini su
scaffali o per terra. L’essere vicini è il principio che li governa. È la collezione.
Quando un oggetto viene esposto, entra in una “conversazione” con altri artefatti e, a seconda
del contesto in cui è posto, innesca modi particolari di visione diversi da altri. Sia come metafora
che come agente (e non solo nel mondo dell’arte), diventa parte delle negoziazioni – e della lotta
– su come comprendiamo il mondo e le nostre relazioni sociali.11
Disorganizzando il loro ordine di apparizione. Modo di mostrare tale per cui qualsiasi disposizione
è uno shock delle eterogeneità. Il montaggio è questo: non si mostra che smembrando, non si
dispone che prima “dis-ponendo”. Non si monta se non mostrando le beanze che agitano ogni
soggetto di fronte agli altri.17
Là dove il filosofo neo-hegeliano costruisce degli argomenti in vista di porre la verità, l’artista
del montaggio fabbrica invece delle eterogeneità in vista di dis-porre la verità in un ordine che
non è precisamente più l’ordine delle ragioni, ma quello delle “corrispondenze” (per dirla con
Baudelaire), delle “affinità elettive” (per dirla con Goethe e Benjamin), delle “lacerazioni” (per
dirla con Bataille) o delle “attrazioni” (per dirla con Ejzenštejn). […] Modo di esporre la verità
disorganizzando, dunque complicando e insieme implicando – e non spiegando – le cose.18
Questo atlante è nato dalla volontà […] di produrre un’opera generale sull’arte contemporanea
che non resti legata né ai movimenti artistici né alle discipline accademiche e non si limiti alle
frontiere geopolitiche o ai capricci del mercato. Debordando dalle linee di demarcazione,
propone una storia dell’arte in cui le distinzioni si fanno, prima di tutto, tra immagini. […] Ispirate
al curioso Bilderatlas di Aby Warburg, le tavole stabiliscono, oltre agli accostamenti tra opere
attuali, delle corrispondenze tra immagini provenienti da epoche o ambiti talvolta lontani.19
A dire la verità, l’Atlante di Gielen non si concede tutte le libertà che
potrebbe – che un collezionista si permette – e, in nome delle finalità
pedagogiche, si organizza in «un’architettura gerarchizzata […] il cui
percorso va dal generale al particolare, dalle regole alle eccezioni, dalla
lezione alla fantasticheria». Ma l’effetto è comunque ottimo e aperto e anche
lo schema è complesso e solo indicativo. Si inizia dalla sezione dedicata
alla visione, che si divide in occhio, macchina fotografica, piano, tatto,
parata, a loro volta divisi in trenta voci; si passa alla sezione
dell’argomento, diviso in amore, burlesco, melancolia, psicotico, morte, e
infine alla sezione dello spazio, divisa in natura, architettura, viaggio,
memoria, luogo, tempo. Ogni sezione comprende un ampio testo illustrato,
ma sono soprattutto le numerose tavole ad “aprire” all’intervento diretto del
lettore, come un visitatore tra le stanze delle mostre ricordate o un
collezionista nella propria collezione.
Il fine didattico interferisce spesso con il principio collezionistico, come
si è visto in diverse occasioni. Ma, d’altro canto, è possibile una storia che
sia una collezione? Questione complessa, come tutte le questioni “teoriche”
o “di principio”, ma resta il fatto che non a caso essa si pone da più parti in
questo periodo. Questione di attualità dunque, o di inattualità, se si
preferisce.
Così il principio del montaggio, che sia esplicitamente applicato nel
contesto cui ci riferiamo, per altre vie e con altri intenti, è tornato in primo
piano nell’interesse di molti artisti, numerosi nel costruire opere come
“tavole” o video con montaggi non più riconducibili a una concezione
puramente temporale.20 Dei tanti, ci si permetta di concludere con un unico
caso in cui siamo peraltro ancora una volta coinvolti direttamente.
Il gruppo Warburghiana si forma nel 2000 in riunioni e corrispondenze tra
i suoi membri – tre artisti, Aurelio Andrighetto, Dario Bellini, Gianluca
Codeghini, e il sottoscritto – che portano a una serie di esposizioni negli anni
seguenti e alla pubblicazione nel 2005 del libro omonimo, in forma di
corrispondenza.21 In quell’anno Warburghiana mette a punto un format che
chiama “concerto sinottico”, che monta insieme immagini, video, musiche,
videointerviste, performance, conferenze. In esso affronta le questioni che gli
stanno a cuore, questioni “di contenuto”, come ribadisce in ogni intervento,
in reazione al formalismo o all’opportunismo degli argomenti di molta arte
allora in voga. Il concerto sinottico è programmaticamente basato sul
principio del montaggio, infilando una serie di interventi e materiali diversi,
fatti collidere l’uno con l’altro in una sequenza e in un allestimento e
teatralizzazione che ne esaltano i collegamenti e stimolano il pubblico a
stabilirne attivamente di propri.
Nel 2007 Warburghiana apre un suo sito web e organizza anche quello in
forma di montaggio, sia nella sequenza delle finestre sia nel format del
desktop, ovvero i numeri di una sorta di rivista online pensata come
montaggio dei materiali che espone. Ogni desktop è a tema e di esso
Warburghiana ha la regia. Il termine cinematografico ritrova qui il suo senso
autoriale, di colui che sceglie, produce, mette in ordine i pezzi del suo
insieme, una collezione online. Ma la denominazione desktop allude anche
all’idea di avere tutto a disposizione sul “tavolo”, sul piano di interfaccia
ora, che invita il visitatore a percorrerlo con lo stesso spirito, non fissandolo
nella versione che gli è offerta. Internet è già questo, nuova collezione
impersonale, collettiva, tutta da rifare con il contributo di ognuno.22
VII.
Certamente chi colleziona accetta di esprimersi per metafora e in questo senso giustifica il suo
appropriarsi di un feticcio, cioè di un oggetto dotato di un grande potere simbolico, tanto da poter
sostituire un tutto. Egli è nella condizione infinitamente ambigua di possedere e di essere
posseduto nello stesso tempo. Può essere come il folle di un villaggio primitivo che scambia il
proprio corpo e la propria voce con quella di un animale della foresta. Ma nello stesso tempo
detiene l’opera, è artefice del suo destino e autore delle associazioni che può costruire intorno a
essa.2
II.
III.
1 André Breton, L’Amour fou, Einaudi, Torino 1974, pp. 25-26.
2 Lino Gabellone, L’oggetto surrealista: il testo, la città, l’oggetto in
Breton, Einaudi, Torino 1977, p. 18.
3 Philippe-Alain Michaud, “Zwischenreich. Mnemosyne, o l’espressività
senza oggetto”, in Ipso Facto, n. 7, maggio-agosto 2000, p. 47.
4 Ivi, pp. 48-49.
5 Ivi, p. 49.
6 Ibid.
7 Walter Benjamin, Tolgo la mia biblioteca dalle casse, in Opere
complete, vol. iv, Einaudi, Torino 2002, p. 456.
8 Ivi, p. 457.
9 Ibid.
10 Ibid.
11 Ivi, pp. 457-458.
12 Ivi, p. 463.
13 Walter Benjamin, Parigi, la capitale del XIX secolo, in op. cit., vol. IX,
p. 12.
14 Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, in op. cit., vol. IX, p. 214.
15 Ivi, p. 215.
16 Ivi, p. 214.
17 Ivi, p. 222.
18 Ivi, p. 218.
19 Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismi delle
immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 110-111.
20 André Malraux, Le Musée imaginaire (1947), Gallimard, Paris 2006,
p. 246 (traduzione nostra).
21 Ivi, p. 254.
22 Ivi, p. 256.
23 Ivi, p. 263.
24 Vedi Walter Benjamin, Breve storia della fotografia, in op. cit., vol. IV,
e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in
Opere complete, vol. VI; vedi inoltre Rosalind Krauss, L’inconscio
ottico, Bruno Mondadori, Milano 2008, in particolare pp. 182-183. Per
Malraux vedi tutto il capitolo III del Musée imaginaire, cit., pp. 88-176.
IV.
1 Kirk Varnedoe, High and Low, Museum of Modern Art, New York
1990, p. 311.
2 Charles Simic, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell,
Adelphi, Milano 2005, p. 58.
3 Vedi la ricostruzione puntuale della mostra in Stephan Schmidt Wulffen,
“Le futur à l’épreuve: This is Tomorrow, Whitechapel Gallery, London
1956”, in Katharina Hegewisch e Bernd Klüser, L’art de l’exposition,
Éditions du Regard, Paris 1998, pp. 227-241.
4 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1964), il Saggiatore,
Milano 2010, p. 29.
5 Ivi, p. 30.
6 Ivi, p. 31.
7 Ivi, pp. 31-32.
8 Ivi, pp. 32-33.
9 Ivi, p. 33.
10 Ivi, p. 34.
11 Ibidem.
12 Vedi Clement Greenberg, “Avanguardia e kitsch”, in L’avventura del
modernismo, Johan & Levi, Milano 2011, pp. 37-51. Per quanto
riguarda Adorno e Horkeimer il riferimento è al loro Dialetttica
dell’illuminismo (1966), Einaudi, Torino 2010.
13 Vedi Rosalind Krauss, L’arte nell’era mediale. Marcel Broodthaers,
ad esempio, Postmedia books, Milano 2005.
14 Benjamin Buchloh, Marcel Broodthaers: Allegories of the Avant-
Garde, citato in Rosalind Krauss, L’arte nell’era postmediale, cit., p.
29.
15 Marcel Broodthaers, Ma collection, citato in Rosalind Krauss, L’arte
nell’era postmediale, cit., p. 42.
16 Rosalind Krauss, L’arte nell’era postmediale, cit., p. 41.
17 Vedi Walter Benjamin, Parigi, la capitale del XIX secolo, in op. cit.,
vol. IX, pp. 5-18, e Rosalind Krauss, Reinventare il medium, Bruno
Mondadori, Milano 2005.
18 Il riferimento d’obbligo sul tema dell’archivio è il grande catalogo
personale di Hans-Peter Feldmann Interarchive. Archival Practices
and Sites in the Contemporary Field of Art, pubblicato in occasione
della mostra al Kunstraum dell’Università di Lüneburg, Verlag der
Buchhandlung Walther König, Köln 2002.
19 Hans-Ulrich Obrist, “Intervista a Gilbert & George”, in Elio Grazioli (a
c. di), Il collezionismo o il mondo come voluttà e simulazione, Studio
permanente/a+mbookstore, Milano 2004, p. 71.
20 Ivi, p. 72.
21 Vedi tra gli altri la sezione “Processo, sistema, serie”, in Peter Osborne
(a c. di), Arte concettuale, Phaidon, London 2006.
22 Vedi in particolare Benjamin Buchloh, “Atlas. Warburg’s paragon? The
end of collage and photomontage in postwar Europe”, in Ingrid
Schaffner e Matthias Winzen (a c. di), Deep Storage, Prestel, Munich-
New York 1998. Scrive tra l’altro Buchloh: «L’uso delle fotografie
amatoriali da parte di Richter nell’Atlas nega radicalmente le
aspettative utopiche dell’avanguardia e dell’ottimismo dei media degli
anni venti: mentre l’avanguardia sapeva ancora riconoscere nella
fotografia una promessa di nuove possibilità dell’autoritratto collettivo
e della nascente autodeterminazione, l’opera di Richter si confronta con
una produzione fotografica collettiva, la cui unica funzione è quella di
aumentare la riduzione dell’immagine alle impensate dimensioni
industriali», p. 56.
23 Vedi Anne Moeglin-Delcroix, “Livres d’artistes et collection”, in Sur le
livre d’artiste, Les mots et le reste, Marseille 2006, pp. 41-64.
24 Elio Grazioli, “Intervista a Maurizio Nannucci”, in Elio Grazioli (a c.
di), Il collezionismo o il mondo come voluttà e simulazione, cit. p. 80.
25 Ivi, p. 84.
V.
VI.
VII.
1 Approfittiamo qui per ricordare un volume fin qui non ancora citato ma
che tratta in realtà buona parte dei temi e numerose figure citate nel
nostro testo (da Sir John Soane a Freud, a Schwitters), per quanto con
un’ottica più accademica e tradizionale di quanto andavamo cercando e
perciò poco sfruttata qui nonostante la sua ricchezza di spunti, che è
l’ormai classico John Elsner e Roger Cardinal, (a c. di), The Cultures
of Collecting, Reaktion Books, New York 1994.
2 Adalgisa Lugli, “Il collezionista”, in Alfabeta, n. 68, gennaio 1985, p.
18.
3 Sally Price, I primitivi traditi, Einaudi, Torino 1992.
4 Franco La Cecla, Non è cosa, Eleuthera, Milano 1998.
5 Mario Praz, Vecchi collezionisti, ora in Bellezza e bizzarria,
Mondadori, Milano 2002, p. 1421.
6 Mario Praz, Un interno, ora in Bellezza e bizzarria, cit., p. 1374.
Bibliografia essenziale
Redazione
Margherita Alverà
Progetto grafico
Silvia Gherra in collaborazione
con Paola Lenarduzzi
Impaginazione
Smalltoo
ISBN 978-88-6010-144-0