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NATURALISMO

Il Naturalismo si afferma in Francia negli anni Settanta dell’Ottocento; il suo


retroterra culturale è il Positivismo, espressione ideologica della nuova
organizzazione industriale della società borghese e del conseguente sviluppo della
ricerca scientifica e delle applicazioni tecnologiche. Il massimo esponente fu
Hippolyte Taine, la cui concezione era ispirata ad un rigoroso determinismo
materialistico ed affermava che i fenomeni spirituali sono prodotti della fisiologia
umana e sono determinati dall’ambiente fisico in cui l’uomo vive.
In un saggio Taine aveva già indicato come modello di scrittore scienziato “Balzac”
ed accanto a lui “Flaubert”. In primo luogo quest’ultimo per la sua teoria
dell’impersonalità; egli diceva che l’autore doveva essere come Dio nella creazione,
invisibile e onnipotente, sì che lo si senta ovunque, ma non lo si veda mai. In
secondo luogo nominò anche De Goncourt, per la cura nel costruire i loro romanzi in
base ad una documentazione minuziosa e diretta degli ambienti sociali rappresentati
e per l’attenzione nuova dimostrata ai ceti inferiori, a fenomeni di degradazione
umana e casi patologici.
Tali esigenze di trasformare il romanzo in uno strumento scientifico furono riprese
da Emilie Zola, il quale sosteneva che il metodo sperimentale delle scienze, applicato
prima ai corpi innati e poi ai viventi, deve essere ora applicato anche alla sfera
spirituale. Il presupposto di queste teorie è la convinzione che anche le qualità
“spirituali” sono un dato di natura come quelle fisiche. La scienza, sostiene Zola, non
ha ancora trovato con certezza tutte le leggi che regolano la vita passionale e
intellettuale dell’uomo, ma due principi si possono già affermare: l’ereditarietà
biologica e l’influsso esercitato dall’ambiente sociale. Come si vede, alla base del
romanzo sperimentale zoliano, si ha una concezione progressista della società e
della funzione dello scrittore, a cui viene assegnato un preciso impegno sociale e
politico.

GUSTAVE FLAUBERT
Nacque a Rouen da una famiglia borghese. Gli anni del liceo furono segnati da voraci
letture e caratterizzati da un’esasperata sensibilità romantica. Tra i diciotto e i
vent’anni si colloca la prima produzione letteraria, in cui si esprime in forme
enfatiche ed eccessive: Memorie di Marzo (1839), Novembre (1842). Intanto
Flaubert si è trasferito a Parigi, dove inizia gli studi di diritto. Preferisce tuttavia gli
ambienti letterari e presto lascia l’università per il manifestarsi di gravi disturbi
nervosi. Lo stesso anno si trasferisce a Croisset; proprio in quell’anno si delinea la
sua poetica: il rifiuto di ogni lirismo effusivo, l’ideale di una rigorosa impersonalità,
di uno stile sorvegliato e perfetto.
MADAME BOVARY
Il romanzo è la storia di una ragazza di provincia, Emma Rouault, che ha sposato un
ufficiale sanitario, Charles Bovary, uomo di mediocre personalità, ottuso e comune.
Emma ha una sensibilità romantica acutissima, esasperata dai libri. La vita coniugale
grigia e vuota contrasta in modo intollerabile coi suoi sogni di una vita lussuosa,
aristocratica e segnata da sublimi e romanzesche passioni. Cosi Emma decide di
trasferirsi altrove. Qui trova Leon, giovane praticante di un notaio; la loro relazione è
del tutto platonica. Partito Leon, Emma ripiomba nella noia e nel disgusto, ed è così
preda del facile dongiovanni, Rodolphe. La relazione è di breve durata, infatti
quando torna Leon si riallaccia a lui, ma subentra presto anche qui una delusione.
Emma comincia a condurre una vita stravagante e dispendiosa, indebitandosi con
l’usuraio. Chiede aiuto agli ex ma invano, e così precipita con il sequestro giudiziario.
Emma prende del veleno e muore dopo atroci sofferenze. Charles, logorato dalla
morte della moglie, conduce una vita solitaria e muore a sua volta con una ciocca di
Emma in mano. Il romanzo si chiude con il trionfo del farmacista, perfetta immagine
della stupidità borghese.
Madame Bovary è un’opera complessa; per un verso Emma, con i suoi sogni, le sue
aspirazioni ad una vita più intensa, esprime una forma di contestazione della
grettezza e della stupidità dell’ambiente borghese di provincia. Il personaggio ha
infatti una funzione critica: la sua noia e la sua insofferenza riescono a far affiorare
tutta l’intollerabile negatività di quel mondo senza luce ed esprime il bisogno di
un’alternativa. Dall’altro lato, però, soggettivamente è anch’essa parte di quella
stupidità. I sogni romantici ricavati dai libri si degradano in lei al livello della
mediocrità piccolo borghese, si irrigidiscono in luoghi comuni angusti e ridicoli.
Strumento di un’analisi critica di tutta una società e di tutta una mentalità, Emma è
al tempo stesso oggetto e vittima di quest’analisi implacabile. Questa problematica
ambiguità si riflette anche nella costruzione narrativa. Il narratore si fa pressoché
invisibile, rinuncia ai suoi continui interventi; la vicenda non è presentata dal punto
di vista del narratore; ma da quello soggettivo e parziale dei personaggi. Infatti i fatti
sono visti attraverso l’ottica del personaggio e nel suo giudizio. Strumento principale
di questa focalizzazione è il discorso indiretto libero; infatti proprio la scomparsa del
narratore onnisciente crea un effetto di indeterminazione e ambiguità. Il racconto si
presenta quindi come un oggetto passibile di varie interpretazioni, lasciando che le
cose parlino da sé; ma proprio questo determinò un alto tasso di problematicità
nell’interpretazione.
EDMOND E JULES DE GONCOURT
I due fratelli costituiscono un caso singolare di collaborazione letteraria. Scrissero
numerosi romanzi, nati da una scrupolosa documentazione dal vero e tesi a
descrivere costumi umani. Nei loro romanzi i due ripresero le idee più realistiche di
Balzac e Flaubert, ma vi unirono una curiosità estetizzante e sensuale per l’abnorme,
il morboso, il brutto, il patologico. Furono pertanto tra gli iniziatori della narrativa
naturalistica, ma per altri aspetti le loro opere rivelano cospicue venature di
Decadentismo. La loro opera più importante è il Diario, vera miniera di notizie sulla
cultura e sulla società letteraria del tempo.

EMILE ZOLA
Figlio di un ingegnare italiano, nacque a Parigi nel 1840. Dopo la morte del padre fu
costretto ad iniziare a lavorare; solo in seguitò si dedicò al giornalismo. Scrisse
numerosi racconti di impronta romantica, ma ben presto fu attratto dalle idee
positiviste. Abbandonò così l’orientamento romantico e scrisse il suo primo romanzo
naturalistico, “Thérèse Raquin” (1867). I primi racconti non ebbero successo, mentre
vasta risonanza ottenne “l’Assommoir”, grazie soprattutto allo scandalo che suscitò
con le sue crude descrizioni della degradazione umana negli operai parigini. Grazie a
quel romanzo si raccolse intorno a lui un gruppo di scrittori più giovani, che lo
consideravano un maestro e un caposcuola. Da quelle riunioni scaturì una raccolta di
novelle “Le serate di Medan” che costituì il manifesto collettivo della scuola
naturalista.

IL ROMANZO RUSSO
Nel secondo Ottocento si sviluppa una straordinaria produzione di narrativa
realistica, quella russa. Non vi era una regime liberale o democratico, né una
rivoluzione industriale: la Russia era una monarchia assoluta, di un assolutismo
dispotico, che esercitava un ferreo controllo, anche sulla cultura. Nonostante ciò, vi
era presente un’intellettualità di opposizione molto viva, che si ispirava al
liberalismo, alla democrazia, al socialismo; si distingueva anche una critica letteraria
di ispirazione democratica che propugnava il valore civile ed etico della letteratura.
FIODOR DOSTOIEVSKIJ
Nacque a Mosca nel 1821, da una famiglia bigotta ed autoritaria. Nel 1849, dopo
aver frequentato un circolo socialista, lo scrittore fu condannato a morte; ma il
giorno stesso dell’esecuzione giunse la grazia e la pena fu commutata in otto anni di
lavori forzati in Siberia. Furono anni durissimi, in cui cominciò a manifestarsi in lui
un’acuta forma di epilessia. Tornato a Pietroburgo, nel 1858, si dedicò al vizio del
gioco. Da qui cominciò a pubblicare numerose opere dove manifestava un odio
profondo verso la civilizzazione europea moderna, capitalista e materialista.
Alle basi dei grandi romanzi dostoievskiani vi è un complesso, tormentato contenuto
di pensiero. I temi dominanti sono il male che è nell’uomo, la libertà da ogni morale
se viene a mancare l’idea di Dio, la possibilità di aderire alle ragioni dell’umanità.
Vivissimo nello scrittore è il senso della “doppiezza” della psiche umana, e conflitti
laceranti ce è impossibile ricomporre. La narrazione infatti no è oggettiva, ma
fortemente soggettivizzata: gli eventi sono filtrati attraverso la coscienza lacerata e
febbrilmente tormentata dei personaggi stessi. Questo dominio dei punti di vista
soggettivi dei personaggi dà luogo alla polifonia: le prospettive die personaggi si
impongono con assoluta autonomia rispetto all’orientamento dello scrittore stesso.
Da qui deriva anche l’uso caratteristico del tempo. Al di là di queste strutture
narrative, egli attinge al repertorio “romanzesco”, addirittura agli schemi del
romanzo d’appendice o della letteratura poliziesca.

LEV TOLSTOJ
Nacque nel 1828 da una famiglia nobile; dopo la laurea si arruolò come ufficiale
nell’esercito. Egli visse in una perenne inquietudine esistenziale e in una continua
ricerca. La ricerca spirituale che è alla base delle sue opere vive in una narrazione di
grande potenza drammatica. Ciò che colpisce, infatti, dei suoi romanzi è la capacità
di rendere la totalità del reale e delle sue infinite manifestazioni.

IL NATURALISMO
L’immagine di Zola che si diffuse in Italia fu quella del romanziere scienziato, nonché
dello scrittore “sociale” in lotta. Furono infatti in primo luogo gli ambienti culturali
milanesi di sinistra, a diffondere e ad esaltare la sua opera si dai primi anni Settanta.
La sinistra milanese, però, rimase prigioniera delle sue aspirazioni confuse e
velleitarie e dimostrò di non avere la forza culturale per costruire una teoria artistica
organica. Le formulazioni teoriche rimasero quanto mai generiche e approssimative
e le loro opere creative o si limitarono alla ricerca di effetti scandalistici.
Una teoria coerente ed un nuovo linguaggio furono elaborati da due intellettuali
conservatori: Capuana e Verga. Luigi Capuana respinge la subordinazione della
letteratura a scopi estrinseci; nella sua prospettiva, quindi, il Naturalismo perde la
sua volontà di far scienza e il suo impegno politico diretto e si traduce solo in un
modo particolare di fare letteratura. La “scientificità” non deve consistere nel
trasformare la narrazione in esperimento per dimostrare tesi scientifiche, ma nella
tecnica con cui lo scrittore rappresenta la realtà. La “scientificità”, insomma, si
manifesta solo nella forma artistica; e questa maniera si riassume nel principio
dell’impersonalità dell’opera d’arte.

GIOVANNI VERGA
Nacque a Catania nel 1840, da una famiglia di agiati proprietari terrieri con
ascendenze nobiliari. Compì i primi studi presso maestri privati, in particolare
Antonino Abate, da cui assorbì il fervente patriottismo e il gusto letterario
romantico. I suoi studi superiori non furono regolari: prima frequentò legge, ma
successivamente frequentò giornalismo politico, pubblicando a sue spese il romanzo
“i carbonari della montagna”. Nel 1865 Verga lascia la provincia e si reca una prima
volta a Firenze, allora capitale. Ci torna poi nel 1869 per soggiornarvi a lungo, dove
viene in contatto con la vera società letteraria italiana.
Nel 1872 si trasferisce a Milano, dove entra in contatto con gli ambienti della
scapigliatura. Nel 1878 avviene la svolta capitale verso il Verismo, con la
pubblicazione del racconto Rosso Malpelo. Seguono nel 1880 le novelle di Vita Nei
Campi, nel 1831 i Malavoglia, e poi Novelle rusticane, Vagabondaggio e Mastro-don
Gesualdo. A Milano soggiorna per lunghi periodi, alternati con ritorni in Sicilia. Dal
1893 torna a vivere definitivamente a Catania. Dopo il 1903, l’anno della
pubblicazione del dramma dal tuo al mio, si chiude in un silenzio pressoché totale.
La sua vita diventa ossessionata dalla cure delle proprietà agricole e dalle spese
economiche. Le lettere mostrano infatti un inaridimento assoluto; le sue posizioni
politiche si fanno sempre più chiuse e conservatrici. Allo scoppio della prima guerra
mondiale è un fervente interventista e nel dopoguerra si schiera con i nazionalisti.
Muore poi nel gennaio 1922, l’anno della marcia su Roma.
I ROMANZI PREVERISTI E LA SVOLTA VERISTA
Quando era ancora a Catania aveva scritto il romanzo “Una peccatrice”, poi
ripudiato, fortemente autobiografico, che narra la storia di un intellettuale piccolo
borghese siciliano; a Firenze termina, invece, Storia di una capinera, romanzo
sentimentale e lacrimevole, che gli assicura un notevole e duraturo successo. A
Milano finisce il romanzo Eva, storia di un giovane pittore che a Firenze brucia le sue
illusioni e i suoi ideali artistici nell’amore per una ballerina, simbolo di una società
materialista, tutta protesa verso i piaceri. La protesta per la nuova condizione
dell’intellettuale, emarginato e declassato, è molto vicina all’accesa polemica
anticapitalistica. In realtà in Verga stava maturando una crisi; dopo i tre anni di
silenzio, nel 1878, esce un racconto che si discosta fortemente dalle opere
precedenti: si tratta di Rosso Malpelo, racconto di un garzone di miniera che vive in
un ambiente duro e disumano, narrata con un linguaggio nudo e scabro. E’ la prima
opera della nuova maniera verista, ispirata ad una rigorosa impersonalità. Già nel
1874 Verga aveva pubblicato un bozzetto di un ambiente siciliano e rusticano,
Nedda, che descriveva la misera vita di un bracciante. Il cambio così vistoso di temi e
di linguaggio inaugurato da Rosso Malpelo è stato spesso interpretato come una
“conversione”. In realtà si tenga presente che Verga si proponeva di dipingere il
“vero” già ai tempi di Eva, Eros e di Tigre reale. Semplicemente, possedeva
strumenti ancora approssimativi e inadatti. L’approdo al Verismo è quindi il frutto di
una chiarificazione progressiva di proposti già radicati: la concezione materialistica
della realtà e l’impersonalità.

POETICA E TECNICA NARRATIVA


Alla base del nuovo metodo narrativo vi è il concetto di impersonalità: non basta che
quello che viene raccontato sia reale e documentato, deve essere anche raccontato
in modo da porre il lettore “faccia a faccia col fatto nudo e schietto”. Per questo lo
scrittore deve “eclissarsi”, cioè non deve comparire nel rattato con le sue reazioni
soggettive. L’autore deve “mettersi nella pelle dei personaggi”, in tal modo l’opera
sembrerà fatta da sé. In questo modo il lettore avrà l’impressione di non sentire un
racconto di fatti, ma di assistere in prima persona a fatti che si svolgono sotto i suoi
occhi.
Nelle opere di Verga, a raccontare, infatti, non è il narratore onnisciente
tradizionale, come in Manzoni, Balzac o Scott. Il punto di vista dello scrittore non si
avverte mai, poiché si mimetizza con i personaggi stessi, adottando il loro modo di
pensare e di sentire. Inoltre, questo narratore, non informa mai esaurientemente sul
carattere e sulla storia dei personaggi, né offre dettagliate descrizioni dei luoghi
dove si svolge l’azione. E se la voce narrante commenta e giudica i fatti, non lo fa
certo secondo la visione colta dell’autore, ma in base alla visione elementare e rozza
della collettività popolare. Di conseguenza anche il linguaggio è un linguaggio spoglio
e povero, punteggiato di modi di dire, paragoni e proverbi.

L’IDEOLOGIA VERGHIANA
Verga ritiene che l’autore debba eclissarsi dall’opera perché non ha il diritto di
giudicare la materia che rappresenta. Alla base di questa visione stanno posizioni
radicalmente pessimistiche: la società umana è per lui dominata al meccanismo
della lotta per la vita, un meccanismo crudele, per cui il più forte schiaccia
necessariamente il più debole. E’ una legge della natura, universale, che governa
qualsiasi società, in ogni tempo e in ogni luogo. Perciò Verga ritiene che non si possa
dare alternative alla realtà esistente né nel futuro, e neppure nella dimensione
trascendete. Infatti solo la fiducia nella possibilità di modificare il reale può
giustificare l’intervento dall’esterno nella materia, il giudizio correttivo,
l’indignazione e la condanna esplicita in nome dell’umanità. Se è impossibile
modificare l’esistente, ogni intervento giudicante appare inutile e privo di senso. La
letteratura non può contribuire a modificare la realtà, ma può solo avere la funzione
di studiare ciò che è dato una volta per tutte.
Si ha una profonda differenza tra il naturalismo e il verismo: nel naturalismo la
“voce” che racconta riproduce il modo di vedere e di pensare dell’autore,
intervenendo spesso con giudizi sulla materia trattata. In questo modo tra il
narratore e i personaggi vi è un distacco netto e il narratore lo fa sentire
esplicitamente. Zola risulta, insomma, estraneo all’originalissima tecnica verghiana
della “regressione”; per lui l’impersonalità significa assumere il distacco dello
“scienziato”, mentre per Verga significa immergersi, eclissarsi nell’oggetto.
Anche le due ideologie sono differenti: da un lato Zola ritiene che la scrittura
letteraria possa contribuire a cambiare la realtà ed ha piena fiducia nella funzione
progressiva della letteratura. Dall’altro lato, Verga, vede nella realtà rappresentata il
pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile.

VITA DEI CAMPI


E’ una raccolta narrativa sulla quale ha influito la lettura di Zola, la sua mentalità e il
suo modo di esprimersi giocarono un ruolo fondamentale nel suggerire a Verga la
tecnica della “regressione”. Altra influenza ebbe anche Capuana, che con le sue
recensioni contribuiva a diffondere la conoscenza di Zola, dando una personale
sistemazione alle opere veriste. Di questa raccolta, del 1880, fanno parte: Cavalleria
rusticana, La lupa, Fantasticheria, Il pastore, L’amante di Gramigna, Guerra di Santi,
Pentolaccia. Anche in questi racconti viene applicata la tecnica narrativa
dell’impersonalità, che consiste nell’eclisse dell’autore e nella regressione della voce
narrante. Accanto alla scabra rappresentazione verista, in queste opere, si può
trovare ancora un atteggiamento romantico, dato dal fatto che, in questo periodo, in
Verga, era ancora in atto una contraddizione tra le tendenze romantiche e le nuove
tendenze veristiche.

IL CICLO DEI VINTI


E’ la prima raccolta in cui Verga accenna una fantasmagoria della lotta per la vita.
Egli, infatti, non pone al centro l’intento scientifico di seguire gli effetti
dell’ereditarietà, ma bensì la volontà di tracciare un quadro sociale. Il criterio
unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza, che ricava dalle teorie di
Darwin. Verga non intende però soffermarsi sui vincitori di questa guerra universale,
ma sceglie come oggetto della sua narrazione i vinti. Del ciclo fanno parte: I
malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la duchessa de Leyra, l’onorevole Scipioni e
l’uomo di lusso.

IL MASTRO-DON GESUALDO
Nel 1889 esce infine il secondo romanzo del ciclo dei vinti. L’azione si svolge nei
primi dell’Ottocento, in un Italia preunitaria agitata da moti che interessano
direttamente la Sicilia. Gesualdo Motta da semplice nuotatore, con la sua
intelligenza è arrivato ad accumulare una fortuna. Inizialmente la sua ascesa sociale
dovrebbe essere coronata dal matrimonio con Biana Trao. Secondo lui questo
matrimonio può aprirgli numerose porte, ma nonostante questo resta escluso dalla
società nobiliare, che lo disprezza per le sue origini. Anche la moglie non lo ama,
anzi lo respinge. Nasce una figlia, Isabella, che però è frutto della relazione tra
Bianca e il cugino. La figlia sceglie di fuggire con un cugino povero, e per riparare
Gesualdo la dà in moglie al duca di Leyra, sborsando però una dote spropositata.
Anche a causa di questo si ammala di cancro al piloro. Viene accolto a Palermo nel
palazzo della figlia, ma per le sue maniere rozze viene relegato in disparte. Muore
poi solo sotto lo sguardo sprezzante di un servo.
Nel romanzo Verga resta fedele al principio di impersonalità per cui il narratore deve
essere esterno. Non si tratta più di un ambiente popolare, ma aristocratico e
borghese; di conseguenza anche il livello del narratore si innalza. Il narratore di
Gesualdo riprende i suoi diritti, ha uno sguardo lucidamente critico, un sarcasmo
impassibilmente corrosivo nel ritrarre ambienti e figure. Il protagonista ha però la
storia di un individuo eccezionale, della sua epica ascesa e della sua caduta.
Il frutto della scelta di Don Gesualdo in favore della logica della roba è una totale
sconfitta umana; egli è amaramente deluso nelle sue aspirazioni a relazioni umane
autentiche. Dalla sua lotta epica per la roba, dalla sua energia eroica e dalla sua
ascesi, Gesualdo non ha ricavato che odio, amarezza e dolore. E proprio perché
conserva con se un’esigenza di affetti autentici e di moti generosi, arriva alla
conclusione di un desolato bilancio.
Verga rappresenta la figura del mastro-don Gesualdo in una sorta di rovescio
negativo: l’alienazione della roba, la durezza disumana, l’insensatezza di una fatica
che attira solo odio e dolore. Da qui: Gesualdo è un vincitore sul piano materiale, ma
un vinto sul piano umano.

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