C)
Livio Andronico, come rivela il doppio nome, uno romano e l'altro greco, era in precedenza un
schiavo e che ricevette poi il nomen gentilizio da chi lo affrancò, fu Livio Salinatore a portarlo a
Roma e a dargli il nome della sua gens. Livio Andronico ebbe una grande influenza sulla letteratura
e sulla cultura in generale, inizialmente si occupò dell'istruzione di Livio Salinatore per poi però
entrare con un ruolo di primo piano nella cultura romana del tempo. Svolgendo il ruolo di maestro
(gramaticus) Livio probabilmente non si limitò a leggere e insegnare le opere greche ma iniziò
un'opera di traduzione dal greco al latino proprio per diffonderle tra i Romani.
Questa operazione culturale attrasse le simpatie di quegli intellettuali che in quegli anni
promuovevano una maggiore apertura della cultura romana verso quella greca. Nel 240 a.C gli edili,
per festeggiare l'anniversario della vittoria su Cartagine (conclusione della prima guerra punica),
affidarono a Livio Andronico il compito di comporre e rappresentare una fabula, ovvero un'opera
teatrale, in occasione dei Ludi romani, all'interno dei quali si diffondeva l'usanza di mettere in scena
opere teatrali, commedie e tragedie ispirate ai modelli greci.
A finanziare i ludi, le feste e la messe in scena di spettacoli teatrali erano i magistrati, che così
facendo vedevano crescere il loro prestigio. I “ludi scaenici” erano le rappresentazioni teatrali che
facevano parte della festa, per realizzarli i magistrati si accordavano con il direttore di una
compagnia teatrale che a sua volta comprava i drammi direttamente dagli autori, preparava la
musica, i costumi, gli oggetti di scena, ecc.
Nei giorni dedicati ai ludi scaenici gli spettacoli erano continui, si susseguivano continuamente
senza interruzioni. L'ingresso agli spettacoli era libero, perciò il pubblico comprendeva diverse
classi sociali ed era esso stesso a decretare il successo o il fallimento di uno spettacolo. I teatri
contenevano migliaia di persone, circa 10000 forse, quindi solo una piccola parte della popolazione
riusciva ad entrare a teatro considerando che la popolazione ammontava a circa 215000 nel 200 a.C
e a più di un milione in età imperiale. Numerose attrazioni e di tipo diverso venivano offerte al
pubblico che era libero di muoversi e di lasciare, ad esempio le prime due rappresentazioni della
Suocera di Terenzio furono un fallimento perché il pubblico lasciò la prima volta attratto
dall'esibizione di un funambolo e da quella successiva da un combattimento di gladiatori.
Il primo teatro permanente a Roma fu costruito da Pompeo nel 55 a.C, 200 anni dopo la nascita
della commedia e della tragedia latina, quindi, come in Grecia, i primi teatri nacquero molto tempo
dopo della fioritura della produzione drammatica.
Alla sommità delle gradinate del primo teatro permanente di Roma, eretto da Pompeo, si trovava un
tempio dedicato a Venere. I teatri erano ovviamente prima provvisori. Prima della fine del secolo
furono eretti altri due teatri: il teatro Balbo nel 13 a.C con 8000 posti a sedere e il teatro Marcello
nell'11 a.C.
Il termine per designare gli attori dell'antica Roma era histriones, in un primo momento esisteva una
netta distinzione tra gli attori delle commedie e delle tragedie e quelli del mimo, detti mimus o
saltator, perché considerati di minore importanza. Il termine histriones divenne però poi
comprensivo di tutto.
Livio Andronico era solito recitare nei suoi drammi ma i drammaturghi successivi abbandonarono
questa pratica e per lo più affidarono la messa in scena delle loro opere a professionisti, visto che
anche a Roma, come in Grecia, si era persa quella stretta relazione tra la scrittura dei testi e la loro
messa in scena.
Nel I sec a.C, mentre il genere comico e quello tragico iniziarono a declinare, si andò affermando la
figura dell'attore protagonista e alla rappresentazione regolare di un dramma si sostituì la
rappresentazione di una serie di scene disposte in modo da mettere in risalto il talento del “divo”.
Lo stile della recitazione cambiava a seconda del genere, nel caso della commedia la recitazione era
più lenta e declamatoria, nel caso della tragedia era invece più rapida e colloquiale. Le compagnie
erano formate da 5 o 6 membri che interpretavano più ruoli, anche quelli da donna visto che a
questa era impedita la recitazione. Gli attori erano abili oltre che nella recitazione anche nel canto,
nel ballo, e alcuni avevano abilità acrobatiche, ecc.
il teatro e i modelli greci
Livio Andronico, essendo maestro e avendo tradotto molti testi greci, si sarà poi posto l'obiettivo
però si acquisire una certa autonomia da questi, pur restando però sempre in un rapporto di
emulazione da essi. La produzione tragica di Livio Andronico appartiene al genere della fabula
cothurnata (cioè di argomento greco), detto così perché gli attori indossavano i coturni, calzature
dotate di zeppe, per accrescere la loro statura.
Il rapporto di emulazione di Livio Andronico con gli originali greci è stato evidente analizzando le
sue opere. Il rapporto di emulazione era però talvolta creativo, Livio cioè arricchiva le immagine e
le espressioni.
Del corpus delle tragedie di Livio ci restano otto titoli e circa sessanta frammenti. Dai titoli,
Achilles, Aiax mastigophorus, Equos Troianus, Hermiona, Danae, Andromeda e Tereus, si deduce
che egli attinse maggiormente dal ciclo troiano, ovvero ai miti che si rifanno alla guerra di Troia,
trattati soprattutto da Sofocle e Euripide. Probabilmente la scelta non è senza motivazioni, visto lo
stretto legame tra le vicende di Troia e quelle della nascita di Roma (Enea).
Di Livio Andronico ci restano tre titoli di commedie e qualche frammento: “Gladiolus” (lo
Spadaccino), “Ludius” (l'Istrione) e “Virgo” (il Vergine).
Il rapporto di Livio Andronico con la Commedia Nuova è invece incerto, è probabile che si sia
rifatto a poeti greci, mettendo in ridicolo aspetti e personaggi della società del suo tempo.
L'epica (e l'epilio)
Il genere deve il suo nome alla parola greca epos→ “parola”, “poesia”, “epica. Fu in Grecia
quella poesia in esametri che per prima si affermò con grandi poemi, l'Iliade e l'Odissea di Omero
(IX-VIII a.C). Più specificatamente per epica si intese un componimento in esametri in cui si
narrano le gesta di un eroe.
Iliade→ racconta la guerra degli Achei contro Troia durata 10 anni ed esalta le imprese di
Achille , l'eroe in cui si riconosce tutto il popolo greco nel momento i n cui afferma la propria
egemonia (medioevo ellenico).
Odissea→ narra le vicende dell'eroe greco Ulisse subito dopo la conclusione della guerra fino al
ritorno nella sua Itaca, è questo un momento diverso per la storia greca, meno arcaico, se infatti
Achille si presenta come eroe indiscusso, che si afferma soprattutto con le armi, al contrario Ulisse
è grande per ingegno.
L'Iliade e l'Odissea diedero vita ai due cicli quello troiano e quello tebano (vicende di Edipo, re di
Tebee della sua famiglia e i Nostoi (viaggi) che narravano le peripezie degli eroi al ritorno in
patria dopo la distruzione di Troia.
Caratteristica della poesia epica è che l'autore non compare, è come se le vicende scorressero
autonome, manca il punto di vista del narratore. Il genere epico è espressivo di valori, ideali in cui
si riconosce una collettività, pertanto va affermandosi in quei periodi in cui momenti in cui lo
spirito nazionale di un popolo si afferma ed è fortemente sentito.
Quando invece prevalgono lotte e contrasti e si afferma la tendenza all'individualismo l'epica tende
a restringersi o comunque a cambiare forma, è il caso dell'età ellenistica, un esempio sono le
Argonautiche di Apollonio Rodio (III a,C) che in quattro libri narrano le gesta di Giasone e degli
Argonauti alla ricerca del vello d'oro nella Colchide, ci sono le seguenti novità:
-l'opera è più breve;
-gusto per l'erudizione che vuole risaltare la cultura dell'autore;
-eziologia: ovvero, nell'opera si mettono in risalto le origini e le cause dei nomi, dei culti, delle
usanze, ecc;
-spazio alle vicende amorose tra Giasone e Medea con attenzione per l'indagine psicologiche e per
i toni di pathos.
Con A Rodio il genere epico comincia il suo declino ma i poeti greci gli restano comunque molto
legati tanto che la letteratura greca, iniziata con due poemi come Iliade e Odissea, si conclude
proprio con un poema epico, le Dionisiache di Nonno di Panopoli (V secolo d.C).
Nevio ed Ennio, il genere si consolida: dopo Livio Andronico a dare una svolta all'epica furono
Nevio ed Ennio.
Nevio scrisse il Bellum Poenicum incentrato sulla prima guerra punica, introdusse tecniche
narrative come quella delle digressioni nelle quali parlò delle vicende più antiche di Roma. Ennio
invece scrisse gli Annales, con l'intenzione di costruire una sorta di monumento di tutta la storia
romana, dalle origini fino al 178 a.C. L'opera era costituita da 18 libri ed era una vera a propria
celebrazione della grandezza romana, Ennio fa una scelta formale diversa da quello di Livio
Andronico, sceglie l'esametro al posto del rozzo saturnio.
Le due età che seguono, quella dei Gracchi e delle guerre civili segnano una crisi per il genere
epico e infatti è un periodo di crisi dello spirito nazionale, instabilità, lotte, nelle arti c'è quindi una
tendenza all'affermazione dell'individualismo.
L'Eneide
Solo con l'età augustea torneremo ad assistere alla nascita di un poema epico vero e proprio.
L'Eneide è il poema tipico dell'età augustea perché rispecchia i valori di quel periodo e da risalto e
pregio al programma augusteo che intendeva risanare la quiete e ridare a Roma la pace persa
durante gli anni di guerre civili. Come l'Eneide rispetta l'ideologia augustea:
-pone in primo piano valori come la pietas e la clementia;
-recupera la tradizione di grandezza e il mito delle origini;
-considera la guerra come male necessario a cui ricorrere come ultima soluzione;
-esaltando un'ideale di vita intesa come dovere e missione verso la collettività, in particolare con il
recupero dell'ideale di humanitas che si era affermato nel circolo degli Scipioni.
Ovidio
Nella stessa età, Ovidio scrive le Metamorfosi, il poema delle trasformazioni, composto in
esametri. È considerata un'opera epoca “sui generis”, ovvero originale, singolare, perché affronta
temi esclusivamente mitologici, perché manca un “fulcro”vero e proprio e perché, se il genere
epico ha un tono solenne e sostenuto, l'opera di Ovidio ha un tono più leggero che può essere
definito elegiaco.
Lucano
Lucano si colloca nell'età successiva, quella dei Giulio-Claudi che vede il ribaltamento di quegli
ideali di età augustea e anche un mutamento del genere epico, come di conseguenza. Lucano scrive
la Pharsalia o Bellum civile, narra le vicende della guerra tra civile fra Cesare e Pompeo, dunque
il tema è storico e non mitologico, si riallaccia così a Nevio ed Ennio. Lucano introduce il gusto
per il meraviglioso, per l'esotico, è chiaro in molte ambientazioni del poema, inoltre si avventura in
un'opera che ha anche una forte connotazione politica.
La crisi della civiltà romana a partire dal II secolo non consente l'affermazione del genere epico.
Il termine epillio è un diminutivo di epos, si tratta di un piccolo componimento in versi di natura
epica, in esametri, che tratta argomenti mitologici rari. Durante l'età ellenistica (323 a.c anno
della morte di Carlo Magno- 31 a.C, anno della conquista da parte di Roma del regno tolemaico
d'Egitto e scompara dell'ultima sovrana ellenistica, Cleopatra) l'epillio ebbe notevole successo
soprattutto perché Callimaco lo preferì al posto del genere epico tradizionale. L'Epillio ha tuttavia
una sua peculiarità, quella di non trattare la grande tradizione mitologica già ampiamente
sviluppata ma al contrario particolari secondari di alcune storie, anche celebri, fino ad allora del
tutto trascurati.
Figura intellettuale del tutto diversa da quella di Livio Andronico, Gneo Nevio fu il primo letterato
di condizione libera, di origini non greche. Il suo status gli consentì una libera espressione che
spesso gli causò scontri e problemi. Aveva un forte spirito nazionalistico che esaltò sia in epica che
nel genere teatrale. Nacque in Campania e partecipò alla prima guerra punica, per questo la sua
nascita può collocarsi al 270-275 a-C. Si rese noto alla società del tempo per la sua fierezza e il suo
orgoglio, per il carattere spigoloso che lo portò ad allontanarsi dalle grandi famiglie aristocratiche
del tempo, che detenevano il monopolio oltre che della ricchezza anche della cultura e della politica
e assunse una posizione politicamente libera, vicina al partito democratico e in particolare vicino
alla famiglia dei Marcelli che lo sostenne.
Entrò in collisione con la famiglia dei Metelli, vicina a quella degli Scipioni, tanto che per alcuni
suoi scritti piuttosto pungenti e diffamatori finì in arresto.
Il teatro
Nevio fu probabilmente l'inventore di una nuova forma teatrale, la fabula praetexta: si tratta di una
tragedia di argomento romano, così chiamata perché gli attori indossavano la toga praetexta, ovvero
quella orlata di porpora e utilizzata dai magistrati romani. La sua invenzione si deve forse allo
scopo di voler celebrare personaggi illustri. Di questo tipo di tragedie ci restano due titoli di opere
di Nevio: Romulus e Clastidium, che rivelano i due principali interessi dell'autore, ovvero il mito e
la storia.
Clastidium narra probabilmente la vittoria contro i Galli Insubri ottenuta a Clastidium (Casteggio)
nel 222 a.C dal console Marcello, appartenente alla famiglia dei Marcelli. È probabile che questa
fabula praetexta sia stata messa in scena l'anno della morte di Marcello, e che quindi possa essere
considerata come una laudatio funebris.
Nevio fu poi autore anche di Fabulae cothurnate, ci restano quattro titoli e diversi frammenti, e
sono a volte identici a quelli delle tragedie di Livio Andronico. Fra i titoli: Danae, Equos Troianus,
Aesiona, Lucurgus.
Nevio però raggiunse maggior successo con le commedie tanto che l'erudito Volcacio Sedigito lo
reputa al terzo posto tra i migliori commediografi romani, dopo Plauto e Cecilio Stazio. Delle
commedie di Nevio ci restano una trentina di titoli e molti frammenti. Inoltre sembra essere stato
Nevio il primo commediografi a introdurre la tecnica della contaminatio che consiste nel seguire
nella composizione di una commedia, un modello greco inserendo all'interno di essa scene prese da
altre commedie greche al fine di potenziarne la la vis comica (vigore comico).
Con l'uso della contaminatio nasce un tipo di commedia romana originale. Inoltre Nevio, vista
anche la sua origine campana che lo avvicinava ai caratteri farseschi dell'Atellana (genere di
commedia dai toni farseschi in dialetto osco), arricchì le sue commedie in senso farsesco,
guadagnando così di popolarità.
Fra le sue commedie abbiamo: Agrypnuntes (Gli insonni); Colax (L'adulatore), Carbonaria (La
commedia del carbone), Testicularia (la C dei testicoli),ecc, le ultime due sono di chiara derivazione
italica.
L'unica commedia di cui è possibile ricostruire la trama è la Tarentilla (la ragazza di Taranto) dove
notevole è il frammento che espone l'atteggiamento “da civetta” della ragazza.
L'arte di Nevio è caratterizzata da una vivacità della rappresentazione, di uno spirito comico che si
rifa a quello degli istrioni e che si incentra sulla realtà, presentandola spesso come paradossale.
Inoltre Nevio, per questo molto vicino a Plauto, usa un linguaggio vivo, ricco, colorato, con giochi
di suoni e parole.
La tragedia
La tragedia nasce in Grecia come genere poetico drammatico, all'interno del culto religioso del
Dio Dioniso, in suo onore ogni anno si celebravano infatti, in due periodi, le feste dionisiache
durante le quali andavano in scena le tragedie, esse attingevano sostanzialmente dal mito, che
costituiva il patrimonio religioso del popolo greco. La tragedia rappresenta vicende dolorose e
personaggi dai caratteri forti, nel bene o nel male, e raggiunge il suo culmine con la Katastrophé,
cioè un esito disastroso che come afferma anche Aristotele nella Poetica, scioglie gli eventi e ne
ristabilisce l'equilibrio, provocando nello spettatore un effetto “catartico”.
La tragedia fu importante per la società del tempo perché affronto temi politici, morali e religiosi,
ebbe quindi una funzione educatrice, sviluppando e trattando quei temi però all'interno di una
dimensione atemporale, la gente così a teatro aveva delle “risposte” a dubbi, paure, problemi.
La struttura della tragedia ateniese del V sec a.C:
prologo: che serve a presentare la vicenda
parodo (canto di ingresso del coro)
episodi (scene)
stasimi (intermessi tra un episodio e l'altro)
esodo (conclusione)
La tragedia ha solitamente uno stile elevato, linguaggio ricercato e solenne. Il coro aveva la
funzione di esprimere i sentimenti della collettività della polis. I maggiori rappresentanti della
tragedia greca furono Eschilo, Sofocle ed Euripide.
Il teatro tragico a Roma fu introdotto da Livio Andronico con la messa in scena nel 240 a.C della
fabula cothurnata (un dramma che non sappiamo se essere tragedia o commedia). Dopo Livio
Andronico a scrivere fabulae cothurnate furono Gneo Nevio, Ennio, Pacuvio e Accio.
La crisi della Repubblica romana determinò anche il declino del teatro romano e della tragedia in
particolare, di pari passo con quella che era la caduta dei valori e degli ideali, era cioè impossibile
la sopravvivenza di un genere che metteva in scena ideali e valori che il pubblico doveva
riconoscere. La tragedia non tramontò del tutto ma si limitò all'interno delle sale di recitazione,
perdendo il carattere di genere letterario destinato alla messa in scena.
ENNIO (239-169)
Quinto Ennio nacque a Rudiae (Puglia) e si formò all'interno di una tradizione culturale
parzialmente grecizzata. Conosceva la lingua greca, quella latina e quella osca (dell'area
meridionale della penisola). Svetonio lo definisce semigraecus, dunque la sua formazione culturale
dovette essere probabilmente greca. Combattè durante la seconda guerra punica, qui conobbe
Catone il Censore che ricopriva la carica di questore alle dipendenze di Scipione Africano e che lo
condusse a Roma dove cominciò a fare il maestro di scuola e dove compose alcune opere teatrali.
Ennio compose l'Ambracia, una fabula praetexta, per celebrare la vittoria del console Fulvio
Nobiliore in Ambracia, alla volta della quale, con questo scopo, partì anche il poeta.
Come riconoscimento nel 184 a.C ricevette la cittadinanza romana. Dall'amicizia con il figlio di
Fulvio Nobiliore, Quinto Nobiliore, Ennio decise di adottare il praenomen Quintus.
Fino alla sua morte Ennio visse a Roma dove direlle il collegium scribarub histrionumque, fondato
da L Andronico.
Nello stesso anno della sua morte, il 169, Ennio compose il Thyestes, una tragedia di argomentoo
greco.
L'amicizia con gli Scipioni e con Catone rivela la capacità di tenere legate, con la sua attività
letteraria, le due tendenza che il panorama culturale romano aveva assunto in quegli anni: quello
filellenico degli Scipipni e quello tradizionalistico del mos maiorum (nucleo della morale tradizione
della civiltà romana) di Catone il Censore.
Ennio fu particolarmente affascinato e influenzato dalla cultura ellenistica e dalla sua figura del
poeta doctus, ovvero di colui che conosce la mitologia e la scienza a che sa elaborarle e darne
espressione.
All'interno di quel contesto culturale che proponeva due tendenze, Ennio si stabilì ad una via di
mezzo, portò nella cultura ellenistica alcuni valori irrinunciabili che erano sempre stati al centro
della società romana e dei suoi progetti egemonici. In quest'ottica egli elaborò gli Annales, da un
lato definendosi l'alter Homerus, dunque facendo riferimento a caratteri letterari ellenistici, dall'altro
esaltando il Vir Roanus.
Gli Annales
Il progetto culturale di Ennio è quello di narrare in ordine cronologico, anno per anno, secondo il
modello degli Annales Maximi, tutta la storia di Roma in 18 libri, 18000 versi circa.
Gli Annales furono forse pubblicati a gruppi di tre o sei libri e furono composti nella fase matura del
poeta. È il primo poema romano in esametri dattilici.
Il numero dei libri è un multiplo di sei, rimanda alla tradizione omerica, Iliade e Odissea erano di 24
libri (18 multiplo di 6). l'opera ha intenti celebrativi della grandezza di Roma e della sua missione
civilizzatrice tanto che a tratti alcune pagine raggiungono il patetismo . Ciò che ci resta degli
Annales sono solo 650 esametri circa.
La struttura dell'opera
Dai frammenti che ci restano possiamo ipotizzare che gli Annales fossero così strutturati:
-Libri I-VI: dalla Preistoria di Roma alla guerra tarantina;
-Libri VII-XII: le prime due guerre contro Cartagine e esaltazione della figura di Cornelio Scipione
e la prima guerra macedonica fino al 197 a.c
-Libri XIII-XVIII : guerra siriana contro Antioco, vicende in Etolia e i fatti fino al 178 a.c ì.
Il teatro
Ennio scrive anche opere teatrali, in particolare di carattere tragico. Delle su tragedie sono di
argomento greco (fabulae cothurnatae) ci restano una ventina di titoli e pochi frammenti, rimandano
al ciclo troiano, prediletto da Ennio perché ovviamente rimanda alle origini di Roma. Il modello di
riferimento è Euripide,di cui si nota la presenza attraverso l'importanza che Ennio da ai personaggi
femminili (Medea, Ecuba, Andromaca..),nell'uso del tono patetico ma anche per la riflessione
filosofica che caratterizza i personaggi.
Per quanto riguarda le tragedie di argomento romano (fabulae praetextae) sappiamo che Ennio ne
compose due: l'Ambracia e le Sabinae. La seconda narra del ratto delle sabine e quindi delle origini
di Roma.
Ennio però fu anche autore di commedie di cui tuttavia resta ben poco forse per lo scarso prestigio
che il genere ebbe all'epoca.
PLAUTO
Tito Maccio Plauto nacque a Sarsina (Umbria), probabilmente nacque intorno agli anni 250 a.C.
La vita e l'attività teatrale di Plauto si svolse durante il periodo della seconda guerra punica e della
conquista d'Oriente, probabilmente si trasferì a Roma da ragazzo dove si avvicinò al teatro. Ha
composto due commedie, il Saturio (Il panciapiena) e l'Addictus (Lo schiavo per debiti), avrebbe
composto una terza commedia di cui non conosciamo il nome. Il successo che ebbe dalla
rappresentazione di queste commedie gli consentì di lasciare il lavoro alla macina e dedicarsi in
tutto e per tutto al teatro e alla composizione di fabulae palliatae. Compose numerose commedie ed
ebbe un grande successo tanto che ebbe molti imitatori. Plauto morì a Roma probabilmente nel 184
a.C.
Le commedie
Le commedie che gli antichi attribuivano a Plauto sono 130, tutte palliatae, ovvero di argomento e
costume greco, ma ce ne giungono solo ventuno. Questo numero si deve all'analisi di Varrone che
analizzò il corpus di opere concludendo che ventuno erano di Plauto, le altre di attribuzione incerta
e altre certamente non di Plauto. Le 21 fabulae sono collocate all'interno della “recensione Palatina”
ovvero nella Biblioteca palatina di Heidelberg, in ordine alfabetico: Amphitruo, Asinaria, Aulularia,
Captivi, Curculio, Casina, Cistellaria, Epidicus, Bacchides, Miles gloriosus, Truculentus, ecc.
è difficile ricostruire l'ordine cronologico, per questo si segue un ordine di tipo “tipologico”, così
facendo avremmo sei gruppi:
1- La commedia della beffa (Asinara, Persa, Casina): sono le commedie che ruotano attorno al
meccanismo fondamentale della beffa,ovvero, da un lato abbiamo lo sciocco che per la sua
sbadataggine attira su di se una serie di disavventure, diventando una sorta di zimbello; dall'altro
abbiamo invece colui che architetta la beffa, ovvero l'inganno, raggirando il malcapitato con la sua
intelligenza. Questa schema è presente in quasi tutte le commedie di Plauto.
2-La commedia del romanzesco (Mercator, Stichus, Mostellaria, Trinummus): qui l'elemento della
beffa si unisce al tema dell'avventuroso, quello di viaggi che attirano l'immaginario e l'attenzione
dello spettatore.
3-La commedia dell'agnizione o riconoscimento (Cistellaria, Poenulus, Curculio, Epidicus): le
commedie si concludono con l'agnizione (riconoscimento) che conclude una situazione avventurosa
e che risolve positivamente un intreccio che avrebbe svoltato la commedia in tragedia.
4-La commedia dei simillimi (Menaechmi, Bacchides, Amphitruo): si basa sulla nascita di una serie
di equivoci, opera appunto dei simillimi, ovvero dei personaggi “uguali come due gocce d'acqua”
che causano fraintendimenti e confusione.
5-La commedia della caricatura (Truculentus, Miles Gloriosus): si punta in questo caso
all'introspezione psicologica dei personaggi che vengono presentati non più solo fisicamente ma
anche nei loro pensieri, sentimenti, carattere e lo si fa ponendo l'accento sulla loro cattiveria che
viene però sbeffeggiata.
6-La commedia composita (Aulularia, Captivi, Rudens): gli elementi analizzati in precedenza sono
quasi tutti presenti.
La comicità di Plauto
Plauto è uno dei più grandi commediografi di tutti i tempi e le sue trovate sanno scatenare la risata,
lo fanno ricorrendo a strumenti come:
-la comicità di situazione(in rebus): consiste nel saper costruire una trama che ha in sé gli elementi
per scatenare la risata, elemento principe in questo caso è la beffa, ma anche il ricorso ai simillimi
(scambio di persona).
-la comicità di parola (in verbis): qui la risata scaturisce dall'uso creativo del linguaggio come
neologismo, parodia della lingua greca, raffica di improperi, ecc.
Il linguaggio è in questo caso vivace, scoppiettante e rivela come Plauto fosse uno scrittore in grado
di entrare in sintonia espressiva con le diverse fasce di pubblico ora raggiungendo una certa
“rusticitas”, ora sfoggiando una notevole “urbanitas”. La lingua usata da Plauto è ricca di
neologismi, nomi che già da sé scatenano il riso come Pirgopoliniche che significa “colui che vince
città turrite”, parodie di altre lingua come quella greca o punica, grecismi (quando il pubblico era
più colto e raffinato e poteva comprenderli), arcaismi, ecc.
La commedia
A differenza della tragedia, la commedia si pone l'obiettivo di suscitare il riso (risum movere), un
riso spontaneo, libero, immediato, questo perché personaggi, miti, uomini noti alla società
venivano messi in ridicolo e solo dopo il lo spettatore era spinto alla riflessione.
L'obiettivo del risum movere presuppone alcune scelte nella struttura della commedia:
a)il lieto fine che si determina con il superamento delle difficoltà;
b)la scelta di personaggi che non appartengano ad alti ranghi della società, meglio se di origine
servile.
c)la rappresentazione di vicende complesse legate alla vita quotidiana in cui l'amore è in primo
piano;
d)la scelta di lingua e di stile di medio livello.
Il genere nasce in Grecia, il termine Komodia viene da kòmos ovvero “processione” e odé ovvero
“canto”ed indica il canto della processione in onore del Dio Dioniso), ebbe maggiore fortuna nella
penisola ellenica con Aristofane e Menandro.
Aristofane visse nel V sec a.C ad Atene, le sue opere sono caratterizzate da un forte interesse per la
situazione politica ateniese sotto il dominio di Pericle e durante la guerra del Peloponneso.
Menandro invece trattò tematiche morali, filosofiche, psicologiche, indagando all'interno dei
rapporti nella famiglia e nella società.
La commedia latina, quando nasce, non può che fare riferimento al modello greco e lo fa
riconducendosi al modello di Menandro detta Néa (nuova) per distinguerla da quella di Aristofane
della archàia (antica). La preferenza per la Nèa viene dal fatto che questa era più vicina al mondo
romano, più “esportabile” rispetto a quella aristofanesca che invece è profondamente imperniata
sulla società, sulla politica e sulla condizione della Grecia e dell'Atene del V secolo.
La provenienza della commedia latina da quella greca è testimoniata già dal nome, palliata, in
quanto gli attori indossavano un pallio, una specie di mantellino tipico dell'abbigliamento greco.
Il primo a portare la commedia a Roma fu Livio Andronico, poi Gneo Nevio, Plauto, Stazio,
Terenzio.
Terenzio svolse la sua attività teatrale nel II sec a.C a Roma, detto dimiatus Menander, perché
studia molto da vicino gli originali menandrei con l'obiettivo di “educare” il pubblico alla
trasgressione della mos maiorum, in linea con il progetto filellenico degli Scipioni. Terenzio è
fautore di un teatro rivoluzionario in quanto più che invitare al riso immediato porta lo spettatore a
una riflessione, per questo è forse un teatro troppo avanzato per il suo tempo e per il tipo di
pubblico.
Le sue commedie infatti non sempre ebbero successo.
Tuttavia egli rivoluzionò la struttura della palliata:
-il prologo non aveva più valore espositivo ma polemico;
-maggior numero di dialoghi;
-eliminazione delle battute indirizzate al pubblico e quindi diminuzione della verisimiglianza;
-eliminazione quasi totale dei cantica;
-il punto più importante fu però l'introduzione di nuove tematiche, all'epoca rivoluzionarie, tra
queste l'humanitas, cardine dell'hummus culturale degli Scipioni.
Dopo Terenzio il genere della palliata iniziò a declinare ma si affermarono altri generi ad essa
simili: la togata, l'atellana, il mimo (è il genere che soppiantò la palliata alla fine del I sec a.C.)
che imita alcuni momenti della vita quotidiana, della realtà.
CECILIO STAZIO
Nacque a Mediolanum (Milano) in una data incerta e morì nel 168 a.C . Fu considerato uno dei più
grandi commediografi soprattutto per le trame delle sue commedie. Suo modello per eccellenza era
Menandro, le sue trame appaiono realistiche, aderenti al vero, tanto che Varrone lo loda per questo,
egli evita scene assurde, surreali.
Ebbe subito notevole successo, questo vuol dire che non temette il confronto con Plauto, anche
perché, molto legato al modello di Menandro, Stazio costruì personaggi differenti da quelli di
Plauto, ovvero più riflessivi, più profondi e pensosi, inoltre utilizza una comicità più garbata e fine,
segue un processo insomma che poi porterà al dimidiatus Menander (Terenzio).
D'altra parte però Stazio risulta vicino a Plauto perché sceglie anch'egli diverse forme metriche per i
suoi cantica (parti cantate della commedia) e perché a volte la sua comicità è mordace e burlesca,
dunque più vicino a quella italica che a quella greca.
Cecilio fu una sorta di anello di congiunzione tra Plauto e Terenzio e questo agì in modo negativo
sulla sua fama, infatti le sue opere caddero ben presto nel dimenticatoio e oggi ci resta ben poco.
Di quella che resta molti testi hanno titoli greci, come Androgynos (l'ermafrodito), Plocium (la
collana) e Andria (la fanciulla di Andro); altri invece sono latini come Meretrix.
Stazio fu il tipico intellettuale di un'epoca di transizione, quella in cui la politica e la cultura
subiscono rapidi cambiamenti, era l'epoca in cui si passava dagli anni terribili del secondo conflitto
contro Cartagine alla successiva caduta greca sotto il dominio romano, egli apre così nuove strade al
teatro, alla letteratura, alla cultura, che solo successivamente verranno riprese e sviluppate con
maggiore consapevolezza da Terenzio.
La commedia nuova greca è il primo modello di riferimento per la commedia palliata romana
anche se da parte di quest'ultima le innovazioni saranno molte, grazie a personalità come Plauto.
Le commedie
Di Terenzio ci restano sei fabulae palliatae (cioè favole di argomento e ambientazione greca):
l'Andria, l'Hecyra, l'Eunuchus, gli Adelphoe, ecc.
l'Andria, ovvero “la fanciulla di Andro” deriva da una commedia di Menandro e narra di un uomo
che impedisce il matrimoni tra il figlio Panfilo e la fanciulla Glicerio, perché ritenuta un'etera
(donna di compagnia simile a prostituta), proveniente dall'isola di Andro. Si scoprirà che Glicerio,
vittima di un naufragio da piccola, in realtà è anch'essa figlia di Cremete, l'uomo la cui figlia
secondo il padre di Panfilo, era la fanciulla che doveva sposare. Così la commedia termina con il
felice matrimonio tra i due.
Un'altra commedia è “Il punitore di sé stesso”, anch'essa di modello menandreo.
Delle sei commedie di Terenzio che ci restano la maggior parte sono di derivazione menandrea e
hanno al centro questioni amorose, amori impediti o ostacolati, riconoscimenti (agnizioni) finali che
permettono il discioglimento della vicenda.
I rapporti con Menandro
Definito “un mezzo menandro” (dimidiatus Menander), in realtà Terenzio presenta parecchi
elementi innovativi rispetto a Menandro e alla sua Commedia nuova:
-Terenzio stabilisce una sorta di piano provvidenziale per i suoi personaggi, vicino alla filosofia
stoica, Menandro invece li lascia in balia dei capricci del destino;
-Terenzio sembra più interessato alla presentazione dei caratteri piuttosto che alla costruzione di
intrecci complessi come Menandro;
-l'obiettivo di Terenzio è costruire un teatro nuovo, basato su nuovi ideali, su una nuova comicità,
proporre quindi un modello antitetico a quello di Plauto e in questo disegno, il modello menandreo
è molto funzionale. Terenzio lo riprende in modo autonomo, volendo spingere il suo pubblico e la
società a nuovi e moderni mores (nuove consuetudini).
I prologhi
Novità sostanziale di Terenzio rispetto alla palliata plautina riguarda i prologhi, infatti, se in Plauto
avevano carattere espositivo, in Terenzio hanno contenuto polemico. In essi l'autore si difende da
alcune accuse fattegli dal poeta Luscio Lanuvino. Per il prologo egli non si avvale di un attore della
commedia, ma si serve di un personaggio creato appositamente, che indossa un costume particolare
e che esordisce in scena dicendo “mi presento a voi ambasciatore e con l'abito del prologo”. Le
accuse che Lunuvino gli muoveva erano:
-accusa di contaminatio→ si difende nel prologo dell'Andria dicendo di aver preso a modello
Menandro e specificando il significato di contaminatio (per Terenzio consistere nell'introdurre
all'interno di una fabula assunta come modello base, scende di altri modelli;
-accusa di plagio→ si difende nel prologo dell'Eunuchus. È da precisare che per i Romani il plagio
consisteva nel riprendere un altro modello di opera romana, il rifacimento ai modelli greci era
invece ammesso. Terenzio era quindi accusato di essersi rifatto a fabulae romane;
-accusa di non autenticità delle sue opere→ da questa accusa Terenzio non da giustificazioni valide.
I personaggi si caratterizzano per l'umanità e i buoni principi. Sono buoni i servi, a differenza di
quelli astuti e malvagi di Plauto, lo stesso vale per le etere che da sempre classificate come tipi
avidi, si contraddistinguono per la purezza e la sincerità dei sentimenti, umano e simpatico
addirittura risulta il tipo del miles gloriosus.
Un altro dei temi della commedia di Terenzio è l'educazione dei giovani e il rapporto padre
figlio, in quel periodo si dibatteva infatti su quale fosse il miglior modo di educare i giovani, se
attenersi ad un modello intransigente e rigoroso, legato alla tradizione romana e alla sua morale,
oppure se optare per un modello più permissivo e aperto, attenendosi al filellenismo. Terenzio
ovviamente si schierò dalla parte del secondo.
La lingua usata da Plauto, essendo le sue commedie fortemente aderenti ad una realtà raffinata e
credibile, risulta elegante e sorvegliata perché si rifa alla lingua usata quotidianamente da tutti i ceti
sociali ma allo stesso tempo è depurata da volgarismi e oscenità, volendo egli proporre una comicità
più raffinata di quella plautina.
LUCILIO (nato tra il 148 e il 180 a.C, morto intorno al 102 a.C)
Le notizie sulla vita di Lucilio sono poche e incerte, Orazio scrive che iniziò a scrivere le sue opere
quando era già senex (dopo i 60 anni). Lucilio nacque a Suessa Aurunca, la sua famiglia, di ceto
equestre, possedeva molti terreni, visse con la famiglia a Roma e entrò in contatto con gli
intellettuali del tempo nonché con il circolo degli Scipioni. La sua posizione agiata gli permise di
non partecipare alla vita pubblica e di dedicarsi all'otium letterario e alla produzione delle Satire.
Lucilio lesse, dei greci, Omero, Euripide, il favolista Esopo, il poeta Archiloco e filosofi come
Platone, dei romani apprezzava Ennio ma non Accio.
La produzione letteraria
Lucilio scrisse 30 libri di satire in 30 anni circa, ci restano circa 1400 frammenti conservati per
tradizione indiretta, cioè dalle citazioni riportate da un grammatico della tarda latinità, Nonio
Marcello che per di più cita di seconda mano, non avendo mai avuto a disposizione gli originali.
I libri delle satire furono divisi da un filologo del I sec a.C, Valerio Catone, secondo un criterio
metrico:
-libri 1-21 sono composti in esametri;
-libri 22-25 in distici elegiaci;
-libri 26-30 sono polimetri (varietà di metri): settenario trocaico, esametro, senario giambico.
I temi
In linea con la tradizione della satura arcaica romana, l'opera di Lucilio presenta una varietà di temi
che spaziano dalla polemica nelle sue diverse connotazioni politiche, letterarie, filosofiche,
all'amore, al quotidiano,ecc. Carattere distintivo della sua poesia è però la passione per la verità che
talvolta esprime con toni fortemente aggressivi.
Lucilio vedeva tutta la società romana macchiata dalla corruzione, perciò colpiva tutti indistamente
dalla posizione sociale con le sue satire.
Spesso alla polemica politica si aggiunge quella letteraria e culturale, bersaglio facile è il
tragediografo Accio che il drammaturgo accusa di essere malato di grandezza, lui che di piccola
statura si fa ergere una statua enorme nel tempio delle Muse.
Altro tema è quello erotico affrontato sotto diverse sfaccettature come quello della misoginia
oppure quello dell'amore per Collyra.
Un tema privato è quello contenuto dalla satira del III libro detta “iter Siculum” dove ripercorre i
suoi luoghi natii, proprio come fece Orazio con Brindisi.
Un intellettuale autonomo
Lucilio è l'inventore della satira, ovvero dell'unico genere letterario inventato autonomamente dai
romani e non ispirato ad alcun modello greco. Inoltre egli fu il primo intellettuale che si tenne fuori
dall'impegno politico e dalla partecipazione alla vita pubblica e dichiarò di volersi dedicare solo alla
cultura. Lucilio si fece interprete di quella cultura filellenica degli Scipioni e del principio
dell'humanitas che ne era il cardine, espresse così una nuova concezione di letteratura legata ad una
concezione di cultura autonoma.
La satira
Nell'Institutio oratoria Quintilliano afferma che la satira è l'unico genere a non avere il suo
corrispondente in letteratura greca, anche se non mancano esempi greci di opere “satiriche”
caratterizzate da ironia e da umorismo come i giambi di Callimaco, le Diatribe di Bione, le Satire
Menippee o anche i Dialoghi di Luciano di Samosata.
Il primo esempio di satira è quello della fase preletteraria quando compare un genere drammatico
nato probabilmente dalla contaminazione di manifestazioni diverse (recitazione, danza, musica) . Il
termine, secondo Varrone, è riconducibile alla locuzione satura lanx che serviva a indicare un
piatto ricolmo di primizie da offrire agli dei. L'utilizzazione del termine starebbe quindi a indicare
che la satira è un genere estremamente ricco e composito.
Ma c'è anche chi riconduce il termine satira ai Satyri, creature metà umane e metà caprine.
La satira perse presto il suo carattere teatrale per assumere quello di un genere che aveva per temi
ila critica dei costumi, la riflessione filosofica e moraleggiante, e la rappresentazione della realtà.
Le Saturae di Ennio in quattro o sei libri, trattanti diversi temi, costituiscono forse l'archetipo del
genere satirico così come lo conosciamo dalle opere di Lucilio, Orazio, Persio e Giovenale.
Tuttavia il primo vero inventore della satira è Lucilio che visse durante l'età dei Gracchi (Tiberio e
Caio).
Dopo qualche anno, il genere rifiorì con Varrone Reatino che compose le Saturae Menippee,
prendendo a modello Menippo di Gadara, delle satire di Reatino ci restano circa 600 frammenti,
trattano temi moraleggianti prendendo come paragone il mos maiorum.
Ma il più grande autore satirico della romanità è Orazio che rifiuta il modello menippeo e si rifa a
Lucilio. Le satire di Orazio mostrano una perfezione formale e una sostanziale differenza con le
satire di Lucilio, nonostante le prendano a modello, trattano cioè in toni pacati i vizi più notevoli
della società del tempo e non hanno il carattere polemico di Lucilio.
Il teatro tragico
Le opere più importanti di Accio sono però le tragedie di cui restano 47 titoli e circa 700 versi: per
la maggior parte sono fabulae cothurnatae, solo due sono praetextae.
Il Brutus ha come tema uno degli eventi più noti della storia romana, quello della cacciata
dell'ultimo re, Tarquinio, a opera di Bruto, considerato quindi il fondatore della Res publica. Con
quest'opera l'autore poteva così celebrare anche l'amico e patronus Decio Giunio Bruto, discendente
dell'eroe antico, ma poteva anche trasmettere quell'idea antitirannica di cui era sostenitrice
l'aristocrazia romana intransigente e conservatrice, in quegli anni in cui l'attività politica dei Gracchi
minacciava la stabilità e la sicurezza dell'egemonia del potere dell'aristocrazia romana perché
avrebbe potuto creare sconvolgimenti sociali e politici (essendo i Gracchi rappresentanti della
plebe).
La maggior parte della produzione di Accio vede però fabulae cothurnate che hanno come modello
di riferimento Euripide ma che reinterpretano i miti alla base di quella che era la personalità
dell'autore e il clima della Roma di quegli anni, minacciata da instabilità politica e civile.
Nelle tragedie di Accio sono presenti il gusto per il patetico e per l'orrido, lo si nota in particolare in
due opere dove i personaggi sono violenti e truci sia per come si esprimono, sia per le scene di
orrore e di sangue in cui si ritrovano coinvolti. Le due tragedie sono il Tereus e l'Atreus.
La prima racconta del re Tereo che, uomo malvagio e crudele, invaghitosi della cognata Filomela,
non solo la violenta ma le taglia la lingua per impedirle di rivelare il nome di chi l'ha stuprata.
La seconda invece ha come tema il mito di Atreo che colmo di odio per il fratello Tieste, con
l'ingannoo gli imbadisce le carni dei figli rivelandogli solo dopo la verità.
Accio disegna nelle sue opere spesso la figura del tiranno, che trova corrispondenze nella realtà nei
fratelli Gracchi che erano così percepiti dall'aristocrazia romana, secondo la quale volevano
ritagliarsi un potere personale e alimentarlo.
Un intellettuale conservatore
Nel II sec a.C, insieme con Pacuvio, Accio è l'autore più rappresentativo dell'ideologia
conservatrice, dello stile solenne, in un periodo in cui gli intellettuali si indirizzavano invece verso
ideologie più aperte o comunque verso uno stile più libero e autonomo, e sul piano linguistico più
aderente alla quotidianità.
Quella di Pacuvio è una personalità poliedrica, da alcune testimonianze di Plinio il Vecchio risulta
che era figlio di una sorella di Ennio, che fu autore di un dipinto all'interno del tempio di Ercole nel
Foro Boario, inoltre fu musico ed ebbe una serie di interessi culturali vari.
A Roma entrò subito in contatto con il Circolo degli Sciopioni e in particolare con G. Lelio , la sua
cultura fu raffinata oltre che poliedrica, ma Pacuvio era anche attentissimo alla perfezione formale,
tanto che lasciò pochissime opere nonostante ebbe lunga vita.
Di Pacuvio ci restano i titoli e alcuni frammenti di 12 tragedie di argomento greco: Antiopa,
Armorum iudicium (da Eschilo) , Atalanta, Hermiona, Teucer, Iliona (da Euripide), Niptra e Cryses
(da Sofocle).
Sappiamo che Pacuvio compose anche alcune Saturae sul modello di Ennio, ma non ne resta nulla.
Pacuvio sembra essere un attento conoscitore della tragedia greca , le sue opere infatti ricalcano i
modelli ellenici, da Eschilo a Euripide, sviluppano poi anche temi secondari e quasi sconosciuti in
modo dettagliato e creativo. Pacuvio fa uso della contaminatio, inoltre, anche lui tende in alcuni
passi delle sue opere ad esprimere gusto per il macabro e per l'orrido.
Pacuvio fu molto amato dal pubblico romano perché i suoi personaggi avevano una forte
caratterizzazione in senso romano, e per di più si facevano fieri portatori dell'orgoglio nazionale.
Per quanto riguarda il linguaggio usato, è ricco sul piano espressivo ed elaborato, in sintonia con i
contenuti che esprime, Varrone definirà questo genere di linguaggio “ubertas” (fertile e abbondante,
riferito al suolo).
Dal quadro delineato potrebbe sembrare che le tragedie di Pacuvio fossero tutte destinate ad un
pubblico d'èlite, quello che dobbiamo considerare è però che i suoi testi ci sono stati tramandati da
grammatici ed eruditi che probabilmente li hanno depurati e modificati.
LUCREZIO
Le notizie sulla vita di Lucrezio sono pochissime e incerte, la sua data di nascita si può fissare forse
intorno al 94 a.C, secondo il De Poetis di Svetonio, quella di morte intorno al 50 a.C, quando forse
si suicidò. Il De Poetis di Svetonio viene ripreso e divulgato da S Girolamo che ci da altre
informazioni: “Lucrezio impazzisce a causa di un filtro d'amore, compone alcuni libri negli
intervalli della follia, poi pubblicati da Cicerone, e muore suicida a 48 anni.”
Certa è la composizione del De rerum natura e appare confermato che fu Cicerone a pubblicarlo. È
forse vero anche che il poeta fosse tormentato da disturbi di natura psicologica che lo portavano ad
avere disturbi psicologici.
Il luogo di nascita è incerto tra Roma e Pompei.
Città importante per la sua formazione fu Napoli dove frequentò i circoli filosofici nei quali si
predicava la dottrina di Epicuro dal quale il poeta rimase affascinato. A Roma entrò in contatto con
la cultura del tempo che è parte fondamentale della sua formazione.
I precetti epicurei
Lucrezio si trovò a Roma in un periodo di lotte e instabilità politiche e civili, anni terribili di guerre
e contrapposizione tra forti personalità politiche e militari. Per questo Lucrezio forse si dissociò
dall'attività politica ed elaborò un'opera che si facesse portatrice e che quindi divulgasse la dottrina
epicurea. Il fulcro tematico del De Rerum natura è il singolo uomo alla ricerca della verità.
Lucrezio forse non conobbe mai l'amore o ne rimare ferito, lo cita nel IV libro in modo superficiale
e confuso, questo, assieme al fatto che fallì nell'intento di divulgazione della dottrina epicurea, lo
indussero forse al suicidio.
L'elogio a Epicuro, ovvero l'uomo che, da solo, osò ribellarsi alla religio e al peso di quella
superstizione che opprimeva l'uomo. Il poeta dimostra che non è malvagio negare la religione
tradizione, piuttosto proprio quest'ultima lo è e si è irrimediabilmente macchiata visto che ha spinto
l'uomo a compiere, in suo nome, vere e proprie crudeltà. Lucrezio fa qui l'esempio di Ifigenia, una
giovinetta che il padre Agamennone decise di sacrificare affinché la flotta greca in partenza fosse
fortunata e risparmiata dalle ire degli dei.
Dopo il proemio Lucrezio parla della dottrina epicurea che descrive la realtà come eterna, che le
cose si formano attraverso un processo di aggregazione e disgregazione degli atomi.
Il secondo libro ha come fulcro tematico il clinamen, ovvero la possibilità per gli atomi di deviare il
moto rettilineo per determinare, attraverso uno scontro con gli altri atomi la formazione dei corpi,
questo consente al poeta di negare il determinismo atomico di Democrito.
Il terzo libro affronta invece la teoria dell'anima, che sarebbe divisa in un “animus” ovvero l'anima
razionale e in un “anima”, ovvero l'anima vegetativa, la seconda composta di atomi più leggeri.
Partendo dal fatto che l'anima è mortale, Lucrezio passa a negare anche la terribile paura che
affligge l'uomo, quella della morte, negando quest'ultima. Infatti, se l'anima è composta da atomi,
dopo la morte questa non fa altro che disgregarsi e ricomporsi in altri corpi, questa non può essere
temuta dagli uomini perché dopo la morte non c'è sofferenza, come non ce n'è prima della nascita.
Il IV libro tratta poi della teoria della conoscenza che per Lucrezio avviene per mezzo dei sensi: dai
corpi si distaccano delle immagini (simulacra rerum) che colpiscono il nostro corpo e generano le
sensazioni. Da qui Lucrezio analizza l'amore, identificandolo come una furia che causa delle
deformazioni, causa del sovraccarico di ciò che recepiamo dai sensi con impalcature di tipo
psicologico.
Il V libro parla delle origini del mondo che a Lucrezio non appare prodotto da alcun disegno
provvidenziale, tutto è soggetto al tempo a quindi è destinato a disgregarsi, gli dei esistono ma non
si occupano degli uomini, vivono in uno stato di serenità, nei cosiddetti intermundia.
Il VI libro sviluppa il tema che tutto ciò che accade in natura non è opera di intervento divino. C'è
poi un riferimento all'epidemia di peste di Atene, a proposito della quale Lucrezio afferma che
anche le epidemia sono dovute a leggi naturali e non all'intervento divino.
Il III libro
è dedicato alla dottrina dell'anima, all'inizio abbiamo nuovamente un elogio ad Epicuro (il poeta di
Samo), se nel primo inno viene chiamato Graius homo, qui invece è pater.
Dopo il proemio in cui il pater viene cantato come colui che con la sapienza ha sollevato l'uomo
dalla paura, dalle fatiche, dal terrore della morte, Lucrezio parla della distinzione fra animus e
anima. L'animus è sede delle facoltà razionali, ha sede nel petto e presiede tutte le facoltà psico
fisiche dell'uomo; l'anima ha sede in tutto il corpo ed è il principio vitale dell'uomo. Sia animus che
anima sono composte di atomi leggeri, sono corporei. Il corpo è la custodia dell'anima e Lucrezio
dimostra come quest'ultima sia mortale.
Il rapporto tra animus e anima: l'animus ha un ruolo più attivo perché è capace di utilizzare la
ragione, cosa che l'anima non fa, tuttavia quest'ultima risente degli sconvolgimenti che vive
l'animus (es una forte paura) e colpisce il corpo, mettendolo in azione.
La vanità del terrore della morte (III libro)
Il punto di arrivo del De rerum natura vuole essere proprio questo, dimostrare perché è inutile avere
paura della morte: se di tutto ciò che che è stato prima di noi non abbiamo sensazione alcuna, allo
stesso modo non avremo sensazione alcuna di tutto ciò che sarà quando il nostro corpo e la nostra
anima non ci saranno più. Siamo composti di corpo e di anima insieme, quindi, anche qualora la
nostra anima dovesse avere ancora sensazioni, o gli atomi di ciò che eravamo dovessero ricomporsi
per essere qualcos'altro, questo non ci riguarda perché la continuità del nostro essere è interrotta.
Dunque, Lucrezio conferma quanto è detto da Epicuro nella epistola a Meneceo: “il più orribile dei
mali, la morte, non è dunque nulla per noi, poiché quando noi siamo, la morte non c'è, e quando la
morte c'è, noi non siamo più”.
Gli dei non esistono e il Taedium Vitae (III libro)
Come è vano il timore della morte, così lo è quello dell'oltretomba e delle punizioni divine: tutto
ciò, come la morte, non esiste.
Per dare prova a questa sua verità, Lucrezio fa una lista dei personaggi che secondo le credenze,
popolerebbero l'Ade e di tutti quegli infiniti tormenti e pene a cui sarebbero sottoposti. Le pene
eterne infatti, non sarebbero che uno specchio dei tormenti e delle angosce di cui siamo vittime ogni
giorno.
Alla fine del III libro il poeta sviluppa il concetto del Taedium Vitae, ovvero di quella sensazione di
malessere costante che ogni uomo cova dentro di sé e che è il risultato del fatto che ignora le vere
cause del suo male, spostandosi continuamente alla ricerca di una parentesi di serenità.
Contro Aristotele e l'analisi dell'amore (IV libro)
L'ultima parte del quarto libro analizza il tema dell'amore che da Lucrezio è presentato come un atto
di moto per soddisfare il bisogno sessuale, con la conseguente perdita della tranquillità e della pace.
La cosmogonia (Vlibro)
Dopo un nuovo elogio a Epicuro, il poeta entra nel vivo della materia del poema annunciandone la
tesi di fondo: il mondo è destinato a perire.
Lucrezio spiega che il mondo non è creazione divina, né' è dono fatto dagli dei agli uomini in
quanto gli dei non avrebbero avuto nessun motivo di scomodarsi per creare una sede all'umanità. E
questo spiegato dal fatto che il nostro è un pianeta ricco di minacce per l'uomo, come
sconvolgimenti atmosferici, bestie feroci, ambienti che non permettono la vita umana→ è il
concetto di “natura matrigna” che verrà ripreso da poeti come Foscolo e Leopardi.
Il mondo è mortale (V libro)
Il mondo è mortale e lo dimostrano gli elementi di cui è composto (terra, acqua, aria, fuoco), tutti a
loro volta mortali, il mondo come l'uomo è destinato a perire perché soggetto a malattie,
sconvolgimenti, perché fatto anch'esso di materia. Esso ha avuto una formazione come quella
umana, dovuta all'aggregazione casuale di atomi in un ammasso informe.
Il poeta parla poi dell'uomo primitivo e del progresso che, togliendo all'uomo i caratteri di essere
rozzo e ferino, gli ha però fatto acquisire la cattiveria, la malizia, il desiderio e la brama di ricchezza
e potenza che hanno portato a non pochi problemi e morti, se infatti l'uomo primitivo mancava per
mancanza di cibo, difficile che poteva morire per il suo eccesso e, se moriva perché venuto a
contatto con una sostanza velenosa per il suo organismo, non moriva di certo perché avvelenato da
altri.
I fenomeni atmosferici e i fenomeni terrestri (VI libro)
Il libro si apre con l'ultimo encomio di Epicuro. Se infatti Atene ha donato all'umanità il cibo, le
leggi, la civiltà, il dono maggiore che però ha fatto è stato quello di questo grande filosofo e poeta.
Argomento di questo libro è l'azione dei venti, delle tempeste, dei lampi e dei tuoni. I fenomeni
atmosferici non hanno nulla a che fare con il volere divino, perché gli dei non sono né irascibili ne
vendicativi (come precedentemente detto). Dopo aver parlato anche dei fenomeni come eruzioni,
terremoti ecc, Lucrezio conclude rievocando e descrivendo la terribile peste che colpì Atene e il
poema termina con questa parentesi di angoscia, morte e devastazione, del tutto in contrasto con la
visione epicurea che vuole liberare l'uomo dal peso delle paure terrene per portarlo a raggiungere la
felicità attraverso il piacere e la serenità fisica e spirituale.
Ma Lucrezio deve qualcosa anche ad Empedocle, il filosofo di Agrigento che Lucrezio celebra nel
primo libro sottolineandone la grandezza dei “canti sgorgati da un animo divino”. Egli si rifa ad
Empedocle sul piano artistico, in quanto anche lui aveva composto un poema sulla natura.
L. dimostra poi stima anche per Ennio. Sia Empedocle, che Ennio, che Lucrezio mostrano delle
affinità sul piano artistico e spirituale.
Lo stile di Lucrezio
Lucrezio riesce a descrivere una molteplicità di temi come la natura, i suoi elementi, le sue
manifestazioni, le sensazioni e le emozioni umane, il dolore, la morte la paura, gli scenari cupi, e
ancora la gioia, la bellezza, o stupore nei confronti dell'infinito, della grandezza del cosmo, tutto
con una serie di toni e di colori di resa eccezionale.
La sua grandezza sta però nell'essere riuscito ad adattare la lingua latina ad un tema così nuoco,
diverso e complesso come quello della filosofia greca, ma anche nella capacità di trasferire quelle
suggestione descrittive di toni, colori, pathos, forza e potenza, anche nei numerosi tratti del poema
in cui parla dell'arida materia filosofica e delle questioni scientifiche.
Lo stile che Lucrezio adotta è solenne, molti sono gli arcaismi→ solennità e arcaismi si rifanno allo
stile di Ennio. Tuttavia, quando Lucrezio si trova a dover adattare la lingua latina per esprimere
concetti, espressioni e termini greci, nascono nuove parole (come corpora prima, primordia, semina)
che testimoniano la sua creatività.
La scrittura filosofica
La filosofia si afferma in Grecia durante l'età arcaica, prima con Talete, Anasimandro, poi con
Parmenide, Empedocle, Eraclito, Democrito, ecc, non mostra però possedere un linguaggio e un
genere che possa esprimere in modo adeguato i risultati che la disciplina raggiunge.
Infatti i filosofi si esprimono nelle forme più svariate: dal testo in versi, alla prosa, fino al genere
gnomico che, attraverso una forma molto sintetica riesce ad esprimersi, rendendo il testo fruibile
ad un vasto pubblico.
Dei filosofi antichi abbiamo solo rari e poveri frammenti, soltanto con Platone, che ci ha lasciato
moltissime opere quasi tutte in forma dialogica possiamo avere un esempio valido.
La scelta del dialogo si deve sia a questioni letterarie ma in gran parte a esigenze filosofiche,
infatti, con il dialogo, è più facile per l'autore esporre e giungere alla sua dottrina, alla sua
“verità”.
Dopo Platone abbiamo Aristotele che compone un numero elevato di opere, alcune riservate agli
scolari, sono quest'ultime quelle che ci pervengono, perciò è difficile ipotizzare la forma letteraria
usata da Aristotele scrittore.
Dopo di lui la filosofia sceglie molte strade, la forma dialogica viene presso che abbandonata a
favore del trattato, dove l'autore può esprimere in modo chiaro il suo pensiero senza il bisogno di
un personaggio con il quale interloquire.
Alcuni pensatori come Epicuro si cimentano poi nel genere epistolare e o altri generi come Bione
che inventa quello della diatriba stoico-cinica.
Per quanto riguarda la filosofia a Roma, inizialmente non fu vista di buon occhio perché si temeva
potesse mettere in discussione il rapporto di subordinazione che il Civis Romanus aveva con la
Respublica, accendendo lo spirito critico del cittadino. Ma già con Ennio si hanno le prime
manifestazioni di apertura nei confronti della filosofia greca. Ma solo dal II secolo e con l'arrivo di
Panezio a Roma si ebbe una progressiva diffusione della filosofia. La prima scuola filosofica a
diffondersi nel mondo romano e in particolare all'interno del circolo degli Scipioni fu quella stoica
che si legava al contesto sociale e culturale della Roma di quegli anni.
La filosofia ha poi una rapida diffusione nella Roma del I sec a.C, in corrispondenza con le guerre
civili e con l'affermazione dell'individualismo nella società romana. In questo contesto infatti opera
Lucrezio, poi Cicerone che con molte opere in prosa affronta e divulga le tesi delle scuole
filosofiche greche, egli utilizza la forma del dialogo scegliendo di interloquire con importanti
personaggi della società e della cultura romana.
A Cicerone va riconosciuto il merito di aver dotato Roma di un linguaggio speciale, quello della
prosa filosofica al quale poi attingerà anche Seneca.
CATULLO
Gaio Valerio Catullo sarebbe nato a Verona, nella Gallia Cisalpina verso l'84 a.C, e sarebbe morto a
Roma non prima del 54 a.C, alcune notizie cronologiche molto discutibili sono fornite dalle fonti di
San Gerolamo nel suo Chronicon.
Gaio è il prenome attestato da Apuleio nel II sec a.C e da San Girolamo nel V; il gentilizio Valerio è
romano, infatti è probabile che la gens Valeria da cui proveniva Catullo e che si trovava a Verona
venisse proprio da Roma. Anche il cognomen Catullo è romano.
Di famiglia nobile e ricca, il padre di Catullo possedeva una villa sul lago di Garda dove ospitava i
proconsoli di Gallia, tra questi Q.Metello Celere e G.Giulio Cesare. Forse in questa circostanza
Catullo conobbe la donna che influenzerà la sua vita e i suoi componimenti, Clodia, la moglie di
Metello Celere, cantata come Lesbia, in ricordo della poetessa Saffo (nata nel VI sec a.C nell'isola
di Lesbo).
Clodia era figlia si Appio Claudio Pulcro e sorella del sanguinario tribuno Publio Clodio Pulcro,
nemico di Cicerone. Da giovane Catullo si trasferì a Roma, quella lacerata dai conflitti politici,
corrotta nei costumi, desiderosa di mutamenti, qui si svolge quel “romanzo d'amore” fra Catullo e
Lesbia (Catullo si sposta a Roma anche per raggiungere lei).
Quando la storia tra i due termina il poeta prima fa ritorno a Verona, poi torna a Roma e decide di
partire in Bitinia con il pretore Gaio Memmio (probabilmente la stessa a cui Lucrezio dedica il De
rerum natura). Catullo tornò deluso dal suo viaggio, non riuscì mai a dimenticare Lesbia, morì a
trent'anni ormai ammalato e spossato.
Catullo visse a Roma circa un decennio, che coincide all'inizio con la Congiura di Catilina e alla
fine con la guerra civile fra Cesare e Pompeo. Catullo, nonostante fosse proveniente da una ricca
famiglia aristocratica amica di Cesare, decide di non partecipare all'attività politica. Inoltre,
nonostante egli viva in un periodo in cui, nel panorama culturale romano, le correnti filosofiche si
avvicendano (epicureismo e stoicismo, ma anche neopitagorismo e razionalismo materialistico), e
nonostante abbia alle spalle una colta formazione, Catullo esclude la filosofia dai suoi scritti e
sceglie invece la poesia che sa ampiamente elaborare: argomenti, toni, uso della metrica,
reminiscenze letterarie, erudite, poetiche, ecc.
Negli ambienti romani Catullo si avvicinò e strinse un sodalizio con i cosiddetti poetae novi, in
particolare con Elvio Cinna e Licinio Calvo, perché con questi condivideva l'adesione al canoni
dell'ellenismo e di Callimaco soprattutto, esponente della poesia alessandrina.
Questi canoni prevedono: poesia levigata e accurata formalmente (labor limae), in sede
contenutistica, fondata sulla doctrina, ovvero sull'erudizione.
La doctrina era poi→ da un lato la profonda conoscenza dei miti e della loro tradizione, dall'altro
l'assidua frequentazione dei poeti e degli autori che costituivano l'humus della formazione culturale
degli stessi poetae novi e di Catullo. Questi poeti coltivarono questa poesia curata e levigata,
preferendola ad altri forme poetiche (come la poesia celebrativa), si distanziarono e distaccarono
quindi dal resto dell'ambiente culturale, anche nei loro costumi: provocatori e non in linea con
quelli incoraggiati dalla morale perbenista.
Catullo e Lesbia
Lesbia era una donna spregiudicata e disinibita, di circa 7 anni più grande del poeta, rimase vedova
in età prematura e quindi nulla esclude che non abbia avuto una relazione con il poeta, anche
quando il marito di lei era ancora in vita. È anche probabile che avesse altri amanti, è probabile che
l'amore con Catullo si sia concluso poco tempo prima della sua morte nel 54 a.C.
fu una storia travagliata: Catullo era una sorta di “poeta maledetto” del quale la donna rimase
affascinata. Se però Catullo fu per Lesbia uno dei tanti, al contrario Lesbia fu per lui la sua ragione
di vita, forse l'unica donna, per lei prova un sentimento profondo e totalizzante→ coinvolgimento
totale dei sensi ma anche punto di riferimento spirituale, e oggetto di un amore tenero, tanto che il
poeta dichiara di averla amata come un padre può amare i figli o i generi e cioè in modo casto e
tenero.
L'amore tra i due è instabile e tormentato, fatto di abbandoni, tradimenti e riprese, tutti convogliano
in modo intenso nella poesia catulliana, egli passa da momenti di gioia massima a momenti di cupo
dolore. Ogni momento quotidiano, ogni sensazione, viene interiorizzato da Catullo e messo in
poesia.
Foedus e fides
Entrambi i termini racchiudono, sia in campo giuridico che religioso due significati. Nel campo
giuridico, foedus è il patto che sancisce un accordo, fides invece è la parola data, la fedeltà al patto
stipulato. In campo religioso invece, fodus è il vincolo che nel rito lega la divinità a colui che
rivolge la preghiera, la fides è invece la testimonianza o la tutela degli dei in favore dei
comportamenti degli uomini che li invocavano a questo scopo, cioè per comprovare la loro buona
fede.
Catullo trasferisce questi due termini nel rapporto d'amore, senza però effettuare alcun processo di
risemantizzazione, anzi, essi apportano nella sfera amorosa la stessa profondità e la stessa potenza
del vincolo che hanno in campo giuridico, e la stessa sacralità che hanno in campo religioso.
Così per Catullo il rapporto d'amore ha una connotazione morale che si regge sul patto di fedeltà
tra i due amanti e che coinvolge a pieno la loro interiorità.
Il tema dell'amore
è da sottolineare come Catullo, rifacendosi a Saffo, canta e propone la vasta gamma di
stravolgimenti che il sentimento provoca in chi è innamorato, e tutto ciò che egli prova,
emotivamente e fisicamente quando vede la donna amata, offrendo al lettore una sorta di “sindrome
d'amore” (sobbalzare il cuore nel petto, fuoco sottile sotto l'epidermide, occhi che non vedono, voce
spezzata, rombano le orecchie, tremore, sudore, sono più verde dell'erba).
Catullo ludibundus
oltre che alla rabbia e a momenti di ridicolizzazione dei suoi nemici, o di invettive e frecciate
volgari e ingiuriose contro di loro, Catullo appare anche ludibundus, ovvero “scherzoso”, si
abbandona cioè allo scherzo e all'ironia gustosa e quando lo fa anche il suo apparato linguistico
cambia. Vittime del suo scherzo sono gli amici o vittime di situazione divertenti. Gli scherzi di
Catullo non risparmiano nemmeno le donne, in modo particolare ne mette alcune a confronto di
Lesbia la quale risulta sempre la più bella a discapito delle altre delle quali il poeta evidenzia difetti
fisici.
Lo stile e la lingua
Catullo crea una sua lingua poetica che riflette quella che è la novità della sua poesia, ovvero la
combinazione tra la sua vita e la doctrina, infatti la lingua vede la combinazione tra elementi
quotidiani e altri elevati e addirittura solenni. Questo impasto linguistico si nota ovviamente più nei
nugae, rispetto a epigrammi e carmina. Catullo impiega termini derivanti da altri autori di altri
generi, come i comici, i satirici, gli autori di atellane e persino i tragici, utilizza poi composti
derivanti dal greco, ma la sua singolarità sta nell'utilizzare espedienti propri come i diminutivi.
Altre caratteristiche del suo stile sono: aprire e concludere un carme con uno stesso verso, ricorrere
a versi appena variati nel medesimo carme o in carmi differenti, o ancora, dare enfasi ad un concetto
attraverso l'uso della ripetizione.
Questo tipo di linguaggio visto che non ricorre nei poeti contemporanei ai poeti neoterici, né risulta
essere la lingua di fruizione della poesia, deve essere una sorta di sperimentazione applicata dai
poetae novi, visto che ognuno di loro fa delle innovazioni autonome.
Il pubblico
Visto il carattere anticonformista e innovativo della poesia dei poetae novi e in particolare di
Catullo, è chiaro che gran parte del pubblico restasse escluso e che questi carmi fossero dedicati a
chi potesse comprendere, apprezzandolo o meno, questo nuovo stile.
Questo tipo di poesia è stato definito “poesia di circolo” perché la poesia dei poetae novi traeva le
sue novità, il suo stile, i suoi contenuti, ecc dall'interno del suo circolo, dunque, coloro che ne
appoggiavano gli ideali e ne entravano a far parte inevitabilmente apportavano qualcosa di sé
all'intero gruppo.
Ecco che il pubblico dei carmi catulliani dovette essere proprio il circolo, ma occorre fare una
distinzione tra pubblico e destinatari.
Del resto, nel I sec a.C tutto il rapporto tra letteratura e pubblico subì un cambiamento. Il pubblico
non era più vasto ed eterogeneo ma divenne altamente specializzato culturalmente e molto settario
politicamente: la competenza divenne quindi uno degli ideali della società del I secolo, così che non
solo Catullo ma tutti gli autori del tempo ebbero un pubblico di riferimento molto ristretto.
La lirica
Nel mondo greco “lirica” è la poesia che viene cantata con l'accompagnamento della lyra,
secondo la mitologia la lira era stata inventata da Mercurio o da Orfeo. Questo genere di poesia,
che può essere accompagnato anche da altri strumenti, cominciò ad affermarsi in Grecia già in età
arcaica (VII-VI secolo a.C) e si divise in:
-lirica monodica: cantata da una sola persona che esprime sentimenti personali con particolare
riferimento all'amore, alla vita che scorre inesorabile, alla passione per la lotta politica. Una delle
esponenti è Saffo;
-lirica corale o corodica: cantata da un coro guidato da un corifeo, ha invece diversi sottogeneri a
seconda della forma e dell'occasione per la quale viene composta. ( un es. è il ditirambo, canto
accompagnato da una danza ritmica,consacrato al culto di Dioniso).
La poesia lirica cominciò a diffondersi a Roma a partire dalla metà del II sec a.C, subito dopo le
campagne militari vittoriose contro la Macedonia, la Siria,ecc. Così nascono i primi circoli
letterali di poeti che propongono una poesia nuova che esalti valori e sentimenti personali,
dell'individuo, una poesia intesa come lusus, come otium e senza intenti celebrativi, morali, politici.
Da qui nel I sec nasceranno i poetae novi.
CESARE
Gaio Giulio Cesare nacque a Roma il 13 luglio del 100 a.C, discendente della gens Iulia. La madre,
Aurelia, faceva parte di una famiglia vicina a Silla, mentre la zia paterna aveva sposato Mario:
Cesare così aveva legami con i maggiori esponenti delle due fazioni politiche che in quegli anni si
contendevano il potere su Roma.
Dal 59 a.C però egli prese la decisione di schierarsi definitivamente dalla parte dei populares.
Dalla madre Aurelia che lo storico Tacito paragona a Cornelia, la madre dei Gracchi, per la forza
caratteriale, Cesare ebbe la prima educazione poi completata sotto la guida di Antonio Gnifone, un
retore di origine gallica. Cesare a soli trent'anni venne designato flamen Dialis, ovvero sacerdote di
Giove. Anche Cesare compì il viaggio in Grecia dove seguì le lezioni che Apollonio Molone di
Rodi teneva nella sua scuola e del quale fu allievo anche Cicerone.
Cesare sposò 4 donne: la prima a 17 anni, Cossuzia, poi Cornelia, figlia di Cinna, console con
Mario, perciò questa unione non fu gradita a Silla così Cesare per evitare scontri con il dittatore
partì per la carriera militare al comando di Minucio Termo (politico e militare romano. Morta
Cornelia sposò Pompeia, nipote di Pompeo e di Silla, poi ripudiata, nel 59 a.c infine sposò
Calpurina, figlia di Calpurnio Pisone.
La carriera politica: la carriera militare di Cesare iniziò quando, fra l'80 e il 78, fu in Asia con
Minucio Termo, quando Silla morì egli potè rientrare a Roma e cominciare la carriera politica. Gia
nel 74 fu nominato pontefice, poi nel 67 ottenne la questura in Spagna, nel 65 fu edile curule; nel 63
fu eletto poi pontefice massimo e questa fu il suo successo politico.
Nel 62 Cesare fu pretore nella Gallia Ulteriore, dove riuscì a riassestare le finanze, nel 60 insieme
con Pompeo e Crasso forma il primo triumvirato, di atteggiamento fortemente democratico. Nel 59
ottenne la carica di console. Questo periodo fra il 60 e il 59 fu determinante perché raggiunse tutti i
suoi obiettivi politici varando una serie di leggi che garantivano i provinciali, la fazione dei
populares e che misero solida base per la Roma degli anni successivi.
Fu in grado di compiere una serie di mosse a suo vantaggio come l'ultimo matrimonio.
Tra il 58 e il 52 Cesare sottomise tutta la Gallia, consapevole del suo ormai enorme potere si rivoltò
contro lo stato. Egli aveva infatti chiesto che gli venisse prorogato il comando, gli aristocratici, con
a capo Pompeo, glielo negarono ordinandogli anzi di licenziare l'esercito. A questo punto Cesare
compì il gesto del passaggio del Rubicone segnando così l'inizio della guerra civile contro Pompeo
che si concluse nel 48 con la battaglia di Farsalo.
Con la morte di Pompeo, la sconfitta dei pompeiani, la fine di Catone, altro suo nemico politico,
sostanzialmente Cesare non aveva più nemici e potè governare da solo.
Venne prima nominato console, poi dittatore per dieci anni e nel Gennaio del 44 dittatore a vita.
Il 15 marzo del 44 a.C, nel giorno delle Idi, un gruppo di congiurati che credevano di poter
restaurare l'antica libertà impedendo a Cesare di continuare il suo progetto politico, lo uccise a
pugnalate: i congiurati erano guidati da Bruto, nipote di Catone (che aveva aderito prima al partito
di Pompeo) e da Cassio (anch'egli prima vicino a Pompeo). Entrambi, Bruto e Cassio, dopo la
battaglia di Farsalo si erano riconciliati con Cesare e si erano mostrati favorevoli alla sua politica.
Le opere perdute
Secondo le fonti di Svetonio, Cesare si dedicò fin da ragazzo alla poesia ma di questa produzione
non resta nulla, fu autore di un poemetto mitologico in cui celebrava le Laudes Herculis, e di una
tragedia intitolata Oedipus che si rifaceva forse al mito edipico oggetto dei drammi di Sofocle.
Sempre in età giovanile si collocano i Dicta collectanea, una raccolta di sentenze e detti. Poi in età
matura scrisse l'Iter, un poemetto in memoria del viaggio da lui compiuto in Spagna.
Delle sue opere in prosa restano pochi frammenti come le Orationes in cui Cesare diede prova di
abilità oratorie e retoriche.
I discorsi: uno fu quello che Cesare tenne per sottrarre alla pena capitale i catilinari, o un altro che
pronunziò contro Gaio Cornelio Dolabella per accusa per concussione. È da citare anche il discorso
contro Marco Antonio che accusa di aver accumulato ingenti ricchezze; ci sono poi due elogi
funebri, uno per la zia paterna Giulia, l'altro per la moglie Cornelia.
Le epistulae: sono lettere , pubblicate in volumi da Svetonio e divise in sezioni: una dedicata al
Senato, una a Cicerone e una ad familiares.
Il De bello Gallico
Si tratta di una delle due opere considerate come le maggiori di Cesare, il suo titolo esteso p
Commentarius de bello Gallico. Il commentarius in realtà non è un vero e proprio scritto letterario
ma è una sorta di resoconto essenziale che successivamente, fatti i dovuti interventi sostanziali e
formali, sarebbe potuto diventare un'opera di tipo storico. Lo stesso Cicerone asserisce che gli scritti
da Cesare erano tali da non indurre nessuno a modificarli.
Secondo alcuni Cesare ha composto il De bello gallico alla fine della campagna militare in Gallia,
utilizzando anche i rapporti dei suoi luogotenenti, secondo altri invece sono il frutto di un resoconto
che l'autore ha compiuto a fine di ogni anno, proprio nella forma in cui ancora oggi si legge l'opera.
Si tratta di un'opera in 7 libri, uno per ogni anno della guerra gallica, dal 58 al 52, pubblicati nel 51.
a questi si aggiunge un ottavo libro, opera del luogotenente Aulo Irzio (secondo le fonti di
Svetonio).
Il contenuto
il primo libro (58 a.C): il primo libro si apre con la descrizione geografica e antropologica della
Gallia (popolazioni che la abitano, confini,ecc), poi presenta la condizione degli Elvezi che
capeggiati da Orgetorige, vengono spinti da questo a progettare di trasferirsi dal loro territorio, in
altre regioni, attraversando la provincia romana con l'intenzione di prendere il dominio su tutta la
Gallia. Cesare comprese il piano del capo degli Elvezi che tuttavia non riuscì a causa di disordini
interni che lo portarono a togliersi la vita. Nonostante questo gli Elvezi mantennero il loro piano e
provarono ad uscire dai loro territori per invadere alcune terre abitate da tribù galliche alleate dei
Romani. A questo punto Cesare interviene militarmente e sconfigge gli Elvezi. Poi si trova ad
affrontare il capo degli Svevi che con la sua terribile violenza era in realtà una minaccia per tutti i
popoli della Gallia. Dopo una serie di dure imprese, affanni e stenti, Cesare riesce a battere
Ariovisto nei pressi del Reno. Così nel 58 Cesare porta a termine due guerre.
Il secondo libro (57 a.C)
E' l'anno in cui Cesare fronteggia la coalizione dei Belgi, un popolo che costituiva un terzo
dell'intera Gallia, organizzata appunto contro i Romani insieme ad altri popoli come i Nervii.
Intanto apprende da Publio Crasso che molte popolazione che vivevano lungo la costa si erano
arrese al dominio romano, a questo punto parte per l'Italia.
Il terzo libro (56 a .C)
Cesare partendo per l'Italia aveva assegnato a Servio Galba il compito di liberare un passo delle
Alpi che alcune popolazioni locali avevano reso inaccessibile e rischioso per i mercanti che lo
attraversavano. Servio riesce solo in parte.
Intanto Cesare che aveva respinto i Germani e battuto la popolazione alpina dei Seduni, credendo
così di aver pacificato la Gallia,era partito per l'Illirico (costa sud orientale del mar adriatico) ma
viene richiamato per lo scoppio di alcuni disordini che sembrano annunciare una ripresa della
guerra. Cesare sconfisse i Veneti (nord della Gallia), il popolo ribellatosi.
Il quarto libro (55 a.C)
Nel 55 a.C Cesare si trovò a dover fronteggiare l'attraversamento del Reno e la penetrazione in
Gallia da parte di due popolazioni germaniche tormentate dagli Svevi, scoppia quindi la guerra di
Cesare contro i germani, vinta dai Romani.
Cesare decide di varcare il Reno per andare in aiuto agli Ubii, l'unica popolazione germanica amica
dei Romani che aveva chiesto l'intervento di Cesare per sconfiggere gli Svevi, egli in soli 10 gg fa
costruire un ponte di legno sul Reno e distrugge i territori delle popoli che avevano appoggiato la
traversata del Reno di Usipeti e Tancteri, poi torna in Gallia.
Sempre nel 55 Cesare compie la prima spedizione in Britannia, perché si mostrava favorevole a
voler appoggiare i Galli in guerra. Organizza una piccola flotta e attraversa lo stretto ma trova i
britannici schierati, le truppe romane sono costrette a ritirarsi.
Al ritorno in Gallia Cesare affronta altre due popolazione che non vogliono piegarsi al dominio
romano.
Il quinto libro (54 a.C)
Cesare tenta una seconda impresa contro i Britanni, approfittando della chiamata del figlio del re di
una popolazione stanziata sul Tamigi, questo aveva richiesto l'aiuto dei Romani dopo che
Cassivellauno aveva ucciso il re e si era impossessato della parte settentrionale della Britannia.
Come accaduto la prima volta, anche durante questa spedizione i Romani vengono sorpresi da una
tempesta ma stavolta la flotta di Cesare con una strategia riesce a passare il Tamigi. Alla fine Cesare
vinse e i britanni si sottomisero.
Il sesto libro (53 a.C)
La situazione in Gallia, nonostante la sottomissione delle popolazioni, continuava a vedere continue
ribellioni da parte di quest'ultime, così Cesare allea nuove truppe. A questo punto Cesare fa un
lungo excursus sui costumi e gli usi dei Galli e dei Germani, segue la descrizione della selva Ercinia
, intorno alla quale si trovavano i luoghi più fertili della Germania e in cui vivono molte specie di
animali mai viste altrove.
Cesare analizzano i costumi dei Germani ne dichiara subito la differenza con quelli gallici, facendo
esempi e paragoni: ad esempio i germani non hanno una religiosità complessa, né ministri sacri
paragonabili ai druidi, ma praticano culti comprensibili e verificabili. Inoltre vivono in mezzo alle
fatiche, praticano la castità, non hanno un'agricoltura sviluppata, né la proprietà privata per evitare
di legarsi alla terra e diventare avidi e sedentari. Questi caratteri li accomunano agli Svevi. Sia per i
Svevi che per le popolazione germaniche è un onore avere intorno territori spopolati e devastati.
Positivo dei germani è invece il culto dell'ospitalità praticata con spontaneità, e secondo Cesare per
questo molto leale.
Il settimo libro (52 a.C)
Mentre Cesare si trova in Italia per le sessioni giudiziali, i Galli approfittano per riunirsi
segretamente in assemblee e progettare una sollevazione generale contro il dominio romano.
Trovano in Vercingetorige, capo degli Averni,un capo capace col suo carisma, di infiammare gli
animi e guidare la rivolta.
Cesare, informato di questi fatti, si appresta a partire per la Gallia Transalpina, raggiunge l'esercito e
inizia le prime azioni militari contro Vercingetorige e la sua coalizione.
Cesare riesce a prendere alcune città ribelli, intanto il capo degli Averni inizia a incendiare villaggi
con lo scopo di lasciare i Romani in una terribile carestia.
Cesare, riuscito a stipulare delle alleanze, tra cui quella degli Edui, marcia contro la città di
Georgovia, capitale degli Averni, ma viene respinto. Questa sconfitta ha un grave peso per Cesare
perché gli Edui passano alla lega celtica e anche i popoli del Belgio abbandonano i Romani.
Tutta la Gallia è contro Cesare, egli allora marcia e raggiunge Labieno, che intanto aveva sconfitto i
Senoni e marciava verso sud, nel frattempo si imbatte nell'esercito degli Averni che avevano la loro
base delle operazioni nella città di Alesia, qui i Romani hanno la meglio.
Recuperate le forze, con 250 000 fanti, Cesare programma l'attacco decisivo alla città di Alesia, la
circonda, in due giorni sia gli assediati di Alesia che le truppe esterne dei Galli, assalgono le
fortificazioni romane, ma grazie all'intervento pronto di Labieno dopo una resistenza sono costretti
alla resa. Vercingetorige si consegna come prigioniero a Cesare. Poi mano mano Cesare riesce a
sottomettere anche gli altri popoli, si organizzano a Roma venti giorni di ringraziamento agli dei per
le imprese compiute in quell'anno.
Nel settimo libro la presa di Alesia costituisce il fulcro drammatico, è infatti l'evento più
drammatico di tutta la guerra gallica. Infatti, se per un attimo tutte le vittorie e la presa di potere sui
popoli galli fatta da Cesare, sembra annullata, proprio in quel momento il condottiero romano da
prova della sua eccezionale abilità. Così emerge sia il lato umano di Cesare, che ammette tutte le
preoccupazioni e le difficoltà dell'impresa, dall'altra si fa spazio il condottiero abile e determinato
che rimette insieme le sue forze e rimette a frutto gli anni precedenti di guerre e imprese.
Le tematiche
1 L'aspetto militare
Il De bello Gallico è un'opera di carattere militare e infatti Cesare privilegia proprio questo
carattere, egli inoltre, giustifica e motiva le sue decisioni.
Ciò di cui tuttavia l'autore sembra preoccuparsi maggiormente è di far risultare sempre la
superiorità militare dei Romani, anche davanti al nemico più valoroso e preparato nell'arte della
guerra. Questa superiorità non risiede solo nella fedeltà e nella coesione delle truppe, ma soprattutto
nelle abilità strategiche e tattiche, nell'organizzazione e disposizione degli schieramenti. Cesare
inoltre si presenta come il condottiero abile, esperto, attento, pronto a fronteggiare ogni situazione,
difficoltà, pericolo.
Parla anche delle perdite umane e dei massacri compiuti e subiti, senza lasciar trasparire cedimenti
emotivi ma presentandoli come risvolti necessari a quel “de bellum iustum” che sta conducendo.
Egli vuole che nella sua personalità coincidano sia quella del condottiero che tiene alla sua gloria
personale, sia quella di colui che si mette a servizio della Repubblica romana e per il valore e la
superiorità di questa compie ogni impresa.
2. Il rapporto con i soldati
Cesare non manca mai di attribuire tutti i meriti della riuscita delle imprese alle sue truppe, di cui
loda la fedeltà e la capacità ammirevole di far fronte a disagi, sacrifici e rinunce. Molto spesso
abbiamo ringraziamenti e attestazioni di stima e riconoscenza da parte del condottiero romano ai
suoi uomini. Dal canto suo Cesare si preoccupa di rifornire gli eserciti di cibo, mezzi, risorse e
rifornimenti di ogni genere. Egli inoltre non manca di incoraggiare e spronare le truppe. Le
allocuzioni alle truppe sono riportare sia nella forma del discorso indiretto che in quella di d diretto.
3. I popoli stranieri
Cesare poi parla delle popolazioni con cui entra in contatto e dei rapporti di amicizia o inimicizia
che instaura. Individuando nella grande regione della Gallia tre parti, nomina subito i popoli che le
abitano: Belgi, Aquitani e Galli, che nella lingua indigena venivano chiamati Celti e risiedevano
nella parte centrale del territorio.
Cesare istituisce un rapporto tra la collocazione topografica del popolo e la sua forza: i Belgi sono i
più forti perché sono i più lontani dalla civiltà della provincia romana e anche perché sono vicini ai
Germani, coi i quali sono costretti a combattere continuamente.
Cesare, nel descrivere un popolo, analizza: la loro collocazione, il tipo di ambiente (vegetazioni,
fauna), usi e costumi, religione, classi sociali, abitudini di combattimento e curiosità.
Cesare inoltre si trova ovviamente a trattare con gli ambasciatori dei popoli con i quali intrattiene
alleanze o con i quali ha avuto conflitti, appare sempre determinato ma cerca tuttavia quasi sempre
un dialogo o una trattativa prima di giungere al conflitto.
4. Il tono e lo stile
Nel de bello gallico il tono con cui Cesare espone gli argomenti è distaccato, freddo, ma obiettivo e
sobrio. Non fa considerazioni personali, né emotive. La sobria, come il tono, è chiara, sobria,
precisa, lontana dalla volontà di rendere effetti sorprendenti. Presenta il susseguirsi degli eventi, in
modo dettagliato e quindi talvolta monotono, visto il tipo di genere da lui scelto.
La scrittura lineare e sobria lo è anche nelle scelte e nelle costruzioni sintattiche e morfologiche;
abbiamo una lingua latina ormai matura, lontana da quella arcaica.
Il de bello civili
I Commentarii de bello civili, articolato in tre libri, narra delle vicende del 48 e del 49 a.C.
Come per il de bello gallico, ci si chiede se Cesare abbia composto l'opera alla fine di ogni anni di
attività militari oppure alla fine, ovvero dopo la Battaglia di Munda che coincide con la conclusione
di quasi tutte le operazioni.
Nel I libro Cesare narra dell'origine della guerra civile, dell'uscita di Pompeo dall'Italia, delle guerre
in Spagna. Nel II libro invece, parla della guerra di Marsiglia, dell'elezione di Cesare a dittatore.
Nel III libro espone le vicende successive alla guerra civile fino all'inizio della guerra alessandrina.
Elementi politici del De bello civili
Il Bellum civile di Cesare vuole si riscattare la libertà del popolo romani, oppresso da una cerchia di
potenti, ma vuole farlo restaurando quello che è il regime repubblicano e non inneggiando a una
rivoluzione. I pompeiani hanno violato i principi della Repubblica, perciò con la sua opera Cesare
ha un obiettivo principale: rassicurare i moderati (detti boni) e tutti quegli elementi dei ceti ricchi o
benestanti. Cesare è conciliante verso il suo nemico, adotta quella “clementia” che non è di certo da
attribuire al suo lato di eroe benevolo, bensì ad un preciso programma politico: trovare un
compromesso tra i vari ceti.
Perciò tutta l'opera ha una tendenza legalitaria. Particolare rilievo da alla soluzione del problema dei
debiti, si scaglia apertamente contro i debitori per difendere quella linea economico-sociale del suo
programma politico e per difendere l'operato di Caio Trebonio
le tematiche
Cesare parla in particolare dei motivi politici che hanno portato alla guerra senza soffermarsi sugli
aspetti militari, se non per sottolineare l'inferiorità dei suoi avversari. Il motivo politico principale è
togliersi di dosso quell'etichetta di rivoluzionario, addirittura al pari di personaggi come i Gracchi e
Catilina, che il senato e i pompeiani gli avevano cucito addosso.
Cesare così si presenta come difensore delle leggi, minacciate dalla presa di potere dei suoi
avversari e li dipinge come coloro che vorrebbero sbarazzarsi di chi, abilmente e con la sua impresa
aveva aggiunto a Roma il possesso e il dominio sulla Gallia e sulla Germania.
Cesare disprezza e ridicolizza i suoi avversari, li accusa di vanità e arroganza.
La clementia Caesaris: chiamata da Cesare misericordia, lenitas o liberalitas, essa si inquadra
all'interno di quella volontà di ribaltare l'opinione pubblica riguardo la propria responsabilità nella
guerra con Pompeo.
Il tono e lo stile
il De bello civili appare con un tono più vivace e agile rispetto a quello del De bello gallico, questo
per i toni polemici e sarcastici con i quali parla dei pompeiani ma anche per l'uso delle strutture
narrativo: ricorso più frequente al discorso diretto e periodare più variabile.
Il corpus Caesarianum
opere di dubbia partenità cesariana sono: ottavo libro del De bello gallico (molto probabilmente
opera di Aulo Irzio, luogotenente di Cesare che narrò i fatti del 51-50 a.C); Bellum Alexandrinum
(anch'esso forse opera di Arzio, narra degli eventi successivi alla guerra civile); Bellum Africanum
(guerra in Africa contro i pompeiani con vittoria a Tapso) e Bellum Hispaniense (guerra spagnola e
vittoria a Munda).
SALLUSTIO
Il Chronicon di San Girolamo riporta la data e il luogo di nascita di Gaio Sallustio Crispo:
Amiternum (antica città sabina vicino l'Aquila), 86 a.C, proveniente da una famiglia plebea
benestante, potè avere quindi una buona formazione. Da giovane si trasferì a Roma dove frequentò
il circolo di intellettuali a cui faceva capo Nigidio Figulo e in quest'occasione forse si dedicò alla
poesia filosofica: sono forse suoi gli “Empedoclea” citati anche da Cicerone in una sua epistola e
che dovevano essere un'opera in esametri in cui l'autore divulgava o si ispirava alla dottrina del
filosofo Empedocle.
A Roma Sallustio si avviò alla vita politica nel partito democratico, intorno al 55 a.C divenne
questore e qualche anno dopo tribuno della plebe. Dopo aver accusato Milone dell'omicidio di
Clodio, e accusato di adulterio, venne espulso per immoralità del senato e vi rientrò solo grazie
all'intervento di Cesare.
In occasione della guerra civile Sallustio militò dalla parte di Cesare e, in seguito alla sottomissione
del regno di Numidia, a conclusione del Bellum Africanum, ottenne l'incarico di governatore
dell'Africa. Concluso il mandato in Africa tornò a Roma e grazie al denaro accumulato acquistò una
vasta proprietà, tra il Quirinale e il Pincio, dove abitò fino alla morte.
Terminò la sua carriera politica (che non fu mai brillante) in modo definitivo alla morte di Cesare,
nel 44 a.C, quando si ritirò a vita privata fino alla morte, avvenuta nel 35 a.C.
Negli ultimi anni si dedicò all'otium, ovvero all'attività intellettuale e letteraria, compose infatti le
Epistulae ad Caesarem.
Le epistulae ad Caesarem
Sallustio ebbe in Cesare un punto di riferimento certo nella carriera politica: lo dimostra la sua
inclinazione verso i populares, partito di Cesare, anche lui tribuno della plebe; l'attività militare
svolta sempre dalla parte del condottiero; ma soprattutto il fatto che alla sua morte Sallustio
abbandonò l'attività politica e la vita pubblica.
Sono di dubbia autenticità le due lettere che probabilmente Sallustio indirissò a Cesare, le Epistulae
ad Caesarem costituiscono un documento illuminante sulla posizione politica dell'autore. La prima
lettera è del 50 a.C, la seconda del 46 a.C (appena prima della conclusione della guerra civile).
Dato che nelle due epistolae non mancano toni politici e propagandistici è probabile che Sallustio
avesse intenzione di diffonderle come manifesti propagandistici.
La prima epistola
Nell'epistola del 46 a.C, scritta dopo la vittoria di Cesare a Tapso, l'autore rivolge al condottiero
un'esortazione alla clementia con la quale egli avrebbe dovuto risolvere le tensioni tra le opposte
fazioni e raggiungere la pacificazione sociale.
Vero fulcro tematico è la proposta di Sallustio a Cesare di un programma di moralizzazione che
mettesse fine ai conflitti con l'eliminazione dell'avidità di denaro. Il programma era da attuare con
diversi interventi come: l'educazione dei giovani, i negotia (le occupazioni) per la plebe, la
condanna dell'usura, la riforma del servizio militare,ecc. Si tratta di un vero e proprio progetto di
governo.
La seconda epistola
Nell'epistola del 50 a.C, l'autore getta fango sulla fazione opposta ai populares: la factio nobiliare,
fatta eccezione per Catone, viene presentata come avida e corrotta.
In questa epistola il programma di buon governo rivolto a Cesare viene articolato in due momenti:
uno dedicato alla plebs, l'altro ai patres.
La plebs: Sallustio parla del decadimento della plebs, trasformatasi da un ceto di piccoli proprietari
terrieri ad una massa ricca di cattivi costumi, priva di concordia al suo interno. Come rimedio al
degrado della plebe, l'autore consiglia consiglia a Cesare alcuni provvedimenti come l'estensione
del diritto di cittadinanza, la fondazione di colonie, e la possibilità di avere accesso a occupazioni
oneste.
I Patres: anche per loro Sallustio propone provvedimenti come l'ampliamento del numero dei
senatori e l'introduzione del voto segreto.
Tra le due epistole il tratto comune è la condanna dell'avidità, del desiderio irrefrenabile di
ricchezze, che coinvolge sia la plebe sia i nobili mettendo in pericolo l'integrità e la salute dello
Stato.
Sallustio in questi due scritti mostra un'idea “moderata” della democrazia, che sposa perfettamente
quella di Cesare e il suo programma politico.
L'invectiva in Ciceronem
Un altro scritto di indubbia paternità sallustiana è l'invettiva contro Cicerone, Quintilliano la
attribuisce a lui, citandolo come “Lo storico di Amiternum” ma sappiamo che nel 54 a.C, anno
dell'invettiva, Sallustio aveva 32 anni, era troppo giovane quindi per rivolgersi in Senato a un
personaggio del calibro di Cicerone, con quei toni. È probabile che si tratta però forse solo di un
documento propagandistico e politico che l'autore diffuse al solo scopo di screditare l'aristocrazia
senatoria, o ancora, potrebbe trattarsi di un falso.
Nell'invettiva viene preso di mira Cicerone sia come uomo pubblico, attaccato e accusato per la
condanna dei Catilinari, sia come uomo privato, schernito e ridicolizzato, chiamato “Romolo di
Arpino” per sottolinearne la provenienza municipale e il suo autoconsiderarsi fondatore di Roma,
per averla salvata dall'attività di Catilina e dei suoi seguaci.
Il De coniuratione Catilinae
Fra il 42 e il 41 a.C, compose la sua prima opera storiografica, il De coniuratione Catilinae. Con la
pubblicazione di quest'opera, Sallustio inaugura a Roma la storiografia artistica, di cui egli stesso e
Cicerone lamentano l'assenza o l'inadeguatezza, e, secondo Quintilliano, porta la ricerca
storiografica romana, insieme a Tito Livio, all'altezza raggiunta dai greci con Erodoto e Tucidide.
Il De coniuratione è un opera monografica, ovvero tratta dii un solo momento della storia, o di un
solo episodio. Sallustio infatti concepisce la storiografia come uno strumento che può far conoscere
e rintracciare l'origine, i motivi e il processo della crisi della Res publica.
Sallustio sceglie si trattare l'evento che sconvolse la Roma repubblicana dal 64, ovvero l'insuccesso
elettorale di Catilina, fino al 62, quando egli fu sconfitto a Pistoia. L'autore individua nel misfatto di
Catilina l'episodio scatenante della crisi dello Stato, nonché l'apice di un processo degenerativo le
cui cause egli vuole indagare a fondo. Sallustio vuole far luce sulla corruzione dell'aristocrazia e in
particolare sui giovani.
Il contenuto
il De coniuratione Catilinae si sviluppa in 61 capitoli. La descrizione degli eventi che costituiscono
la misfatta di Catilina prendono avvio da una descrizione morale e fisica del personaggio per poi
passare in rassegna le somme vicende di Roma, individuando nel passare del tempo un processo di
degenerazione e corruzione che ha portato alla crisi attuale. Secondo S. le motivazioni sarebbero da
ricercare in alcune cause di ordine morale: l'importanza acquisita dall'avidità di denaro, dalla gloria,
dalla potenza e la conseguente perdita di valore della virtù, dell'onestà, tutto questo dilagava tra i
giovani.
Sallustio poi descrive gli eventi che vanno dal 64 al 62. Battuto nella tornata elettorale Catilina
decide di passare allo scontro armato per prendere potere , ma subito risponde Cicerone che, come
consul, sente il bisogno di difendere lo Stato, inoltre, scaglia in Senato un durissimo discorso contro
Catilina che è costretto a fuggire, per poi unirsi con i rivoltosi stanziati a Fiesole. Intanto a Roma si
scoprono le prove del tentato colpo di Stato: Gaio Cetego e Publio Lentulo, che avevano partecipato
alla congiura, vengono arrestati e uccisi. Il 5 dicembre in Senato, discutendo le prove presentate da
Cicerone contro Cetego e Lentulo, prendono la parola Cesare e Catone l'Uticense, due personaggi
privilegiati nell'economia dell'opera: il primo per motivi politici, e per l'uso della clemenza, il
secondo per la ferrea integrità morale.
Dopo questa parentesi si ritorna alla descrizione degli eventi: dopo la morte dei due accusati di
congiura, e scoperte le prove dell'esistenza di quest'ultima, a Roma la situazione precipita e si fa
drammatica per Catilina a cui non resta che accettare lo scontro con l'esercito romano a Pistoia dove
viene sconfitto e muore dando prova di grande coraggio.
Il proemio
Il proemio al De coniuratione è costituito dai primi quattro capitoli dove Sallustio affronta un tema
di carattere generale: i principi ai quali la vita umana deve attenersi per ottenere la gloria presso i
posteri. È un proemio ispirato alla trattatistica greca e in particolare all'epistola VII di Platone.
Il contenuto del proemio: 1-l'uomo per differenziarsi dall'animale deve valorizzare la propria
componente spirituale e non vivere nell'oscurità; 2-è uomo colui che vive secondo i dettami
dell'anima, che vive svolgendo un'occupazione cercando così l'onore in attività decorose e degne; 3-
essendosi dedicato anche lui, (l'autore) da giovane, alla vita pubblica e ai vizi, decide poi di
abbandonarla e di dedicarsi all'otium letterario, scrivendo la storia della Roma carptim, ovvero
approfondendone i singoli episodi.
Tuttavia, il proemio ha una sua motivazione, è portavoce di una scelta controcorrente. A Roma nel I
sec era diffuso il dibattito del rapporto fra otium e negotium, cioè l'attività pratica. Il negotium
aveva grande importanza nella Roma antica ed era legato alla tradizione dei padri; al contrario
l'otium andava diffondendosi con la conoscenza e l'affacciarsi della cultura greca nel panorama
culturale romano e lo faceva dando importanza e dignità all'attività dell'intellettuale. Sallustio
scegliendo l'otium e abbandonando la politica attiva e la partecipazione alla vita pubblica fa una
vera e propria dichiarazione: lo storico, con la sua attività, è utile allo Stato quanto lo è chi fa
attività politica o militare.
Il primo excursus: “L'archeologia” della storia romana
Nel cap 5 del De coniuratione Sallustio fa un ritratto di Catilina parlando delle sue origini,
dell'adolescenza e giovinezza turbolenta, della sua resistenza fisica, del suo animo a tratti malvagio
e depravato, della sua scarsa cultura, giungendo a dare una motivazione di base al carattere
“demoniaco” di Catilina: l'essersi lasciato corrompere dalla luxuria e dall'avaritia.
Da qui Sallustio fa un excursus per sommi capi delle vicende della storia di Roma soffermandosi
sulle virtù dell'antico popolo romano, sul desiderio di gloria, sull'ardimento dei giovani e sui valori
che dominavano: la bona fama e la magna nobilitas. Riflette poi sul fatto che mentre le opere dei
Greci furono cantate, quelle dei Romani no, perché gli ingegni più valorosi preferivano l'azione alla
parola. Lo storico poi segna una netta linea di demarcazione tra il passato virtuoso e glorioso del
popolo romano e la decadenza e la corruzione presente, individua l'evento che ha segnato l'inizio
della decadenza romana: la distruzione di Cartagine.
È da quel momento che come un morbo a Roma si diffonde la brama di potere e di ricchezza che
trasformano un periodo di pace e serenità in rovina e miseria. Infatti se l'ambizione è nobilitante, al
contrario, nell'uomo avido e inetto diventa pericolosa. Con la corsa alla ricchezza la virtù
scomparve e i giovani si trovano a vivere così nell'eccesso, nella bramosia, nell'avidità, tutto questo
al punto che i vincitori oltraggiano i vinti, a differenza degli antichi che invece sapevano averne
rispetto.
Come nel modello di Tucidide, l'excursus all'interno del proemio ha la funzione di esporre e
presentare quei principi che costituiranno la base ideologica dell'intera opera. L'excursus quindi è
una sorta di collante tra storia, politica e pensiero etico, ovvero la vasta operazione che compie
Sallustio. Il presente dunque, non si può comprendere se non si conosce il passato.
La congiura
Quello di Catilina era un vero e proprio attacco armato al cuore della Repubblica, la conferma è nel
fatto che egli costituì un esercito con l'aiuto dell'amico Gaio Manlio che radunò e addestrò le truppe
in Etruria, mentre anche in Puglia e nel Piceno venivano organizzate bande armate. Tutto quindi era
pronto per marciare alla volta di Roma.
Intanto Cicerone, informato delle trame di Catilina da Fulvia, amante di uno dei congiurati (Quinto
Curio), nella notte tra il 20 e il 21 ottobre del 63 a Cicerone vengono recapitate una serie di lettere
che fanno allusione alla congiura.
Cicerone denuncia la congiura in Senato e i senatori fanno ricorso al Senatus consultum ultimum al
quale si ricorre solo in caso di imminente pericolo e che prevedeva la corsa alle armi per la difesa
dello Stato. Così Cicerone era di fatto il solo a misurarsi con Catilina.
Quest'ultimo rimase a Roma, dove si mise sotto la protezione di Marco Metello per poi riunire, di
notte, i complici della congiura e organizzare l'attentato alla vita del console Cicerone che però,
informato all'ultimo, riesce a fuggire e il giorno seguente, l'8 novembre riunisce l'adunanza del
Senato e pronuncia l'infuocata Prima Catilinaria, cioè il primo dei quattro discorsi che egli scrisse
contro il nemico dello Stato. Il 9 novembre Catilina lasciò Roma e si spostò in Etruria, in città
rimasero solo Cetego e Lentulo che, accusati della congiura di cui proprio Cicerone ottene prove
tangibili, vennero condannati a morte. A optare per la condanna a morte di fronte al senato fu
Catone, a differenza di Cesare (ritenuto all'epoca simpatizzante di Catilina) che aveva proposto
l'esilio.
Si trattava di una procedura del tutto insolita: ricorrere alla pena capitale senza processi e nessun
appello al popolo. Cicerone aveva così vinto la sua battaglia.
Appresa la fine dei compagni avvenuta a Roma, le fila di Catilina si assottigliarono ma egli riuscì
comunque a organizzare un esercito. Nel tentativo di intraprendere una marcia veloce verso la
Gallia, puntando da Fiesole verso Pistoia, Catilina venne circondato dalle truppe del console
Antonio Ibrida e da quelle del pretore Metello Celere (a cui Catilina chiese invano clemenza).
Antonio Ibrida, per non venir meno alla parola data a Cicerone, affidò il comando a Marco Petreio
che nel gennaio del 62 sconfisse le truppe di Catilina nelle celebre battaglia di Pistoia.
I discorsi di Cesare e di Catone
I discorsi pronunciati da Cesare e Catone nella seduta del Senato convocata il 5 dicembre del 63 da
Cicerone, per discutere della punizione da dare ai due uomini partecipi della congiura contro lo
Stato, vengono inseriti da Sallustio all'interno della sua opera, come da modello tucidideo.
Nelle due orazioni i due politici espressero pensieri del tutto opposti.
Cesare fa un discorso che riflette in tutto e per tutto la sua posizione di politico democratico
moderato, egli infatti è convinto che solo una trasformazione delle strutture politiche e un
rinnovamento istituzionale possano salvare la Repubblica. La sua vera preoccupazione è che il
Senato possa dare sentenze che vadano al di la' delle leggi, per questo fa continui richiami alla
tolleranza, alla clementia, esorta ad abbandonare l'ira e la sete di vendetta.
La sentenza di Cesare: siano confiscati i beni dei colpevoli e non si faccia più di loro nemmeno il
nome.
La sentenza di Catone: i colpevoli, poiché hanno attentato contro i cittadini e lo Stato, devono, more
maiorum, essere puniti con la morte. Il nocciolo del discorso di Catone ripropone per intero la mos
maiorum, sintesi del suo pensiero politico. Egli sostiene infatti che la Repubblica può essere salvata
solo attraverso il ritorno alla tradizione dei padri, ai costumi integri e sani, ai valori vivi al tempo
dell'antica Roma.
Anche nei toni i discorsi divergono, quello di Cesare è pacato, solenne, quello di Catone è invece
acceso, pieno di invettive e polemiche.
È da chiedersi però quale sia la posizione di Sallustio, se è vero che quest'ultimo espone riporta i
due discorsi senza intervenire personalmente e mantenendo un atteggiamento distaccato, è anche
vero che da come espone il discorso di Cesare, sembra voler scagionare il condottiero romano da
quelle accuse che a quel tempo lo consideravano un sostenitore di Catilina o addirittura partecipante
alla congiura stessa.
Lo sfondo moralistico
tutta l'opera di Sallustio è pervasa da un forte moralismo che influisce sia sull'interpretazione dei
fatti da parte dello storico, sia sulla loro narrazione. Infatti, la monografia di Catilina è ricca, non
solo negli excursus (sezioni in cui sallustio espone i suoi principi morali), di occasioni in cui
l'autore non manca di ribadire la distinzione tra valori moralmente positivi e valori negativi.
In questa distinzione si oppongono: i boni mores e i vitia, i primi appartengono ai tempi antichi,
fino, secondo Sallustio, alla terza guerra punica; i vitia invece cominciarono a dilagare appena dopo
la distruzione di Cartagine fino a culminare con la congiura di Catilina.
Questi “vitia” furono principalmente: l'avaritia, ovvero la brama di denaro, e l'amibitio, la brama di
potere, esse attentarono alla virtus fino a disgregarla del tutto. Così, il definitivo trionfo del male sul
bene si ebbe quando, ai tempi di Catilina, la luxuria, ovvero il desiderio di lusso sfrenato si unì ai
due mali già esistenti, avaritia e ambitio.
Il Bellum lugurthinum
Si tratta della seconda opera monografica di Sallustio, composta tra 41 e il 39 a.C, la scelta
dell'argomento è chiarita dallo stesso autore: “mi accingo a scrivere sulla guerra che il popolo
romano condusse contro Giugurta perché essa fu grande, atroce e di esito incerto, poi perché, allora,
per la prima volta, si andò contro l'arroganza della nobiltà.”
il Bellum lugurthinum appare come una prosecuzione e una maturazione dei metodi e dei temi,
nonché delle ideologie, già esposte nel De coniuratione Catilinae. Infatti, anche qui Sallustio vuole
ricercare l'origine e analizzare gli antecedenti delle vicende che stanno ancora una volta
sconvolgendo Roma. In più, anche qui, secondo Sallustio i motivi di questo processo di decadenza
sono da ricercare nella degrado morale che ha interessato l'intera società, in particolare la nobilitas e
i ceti come quello degli equites.
Di fronte alla vicenda di Giugurta Sallustio ritiene di dover rintracciare i primi sintomi del
cedimento morale che si rivelerà poi letale nei moti di Tiberio e Gaio Gracco.
Ma si può dire che il Bellum Lugurthinum rappresenta una sorta di maturazione della prima opera
monografica, questo perché Sallustio stavolta abbandona quel moralismo rigido del Coniuratione e
tratta anche altri temi ed elementi come problemi economici e politici.
Nel Bellum Lugurthinum poi, a differenza della congiura di catilina che è una vicenda vicinissima a
Salllustio (20 anni prima), viene trattato un episodio molto più lontano con gli anni, quello della
guerra contro Giugurta, avvenuta tra il 111 e il 105→ questo a dimostrazione dell'avvenuta
maturazione di Sallustio come storico e “indagatore” degli eventi.
Il fatto narrato: alla morte di Micipsa, Re di Numidia (118 a.C), si creò in quella regione dell'Africa
una difficile situazione. A contendersi il potere rimasero i due figli del re, Aderbale e Iempsale e il
nipote Giugurta, quest'ultimo dopo aver ucciso Iempsale, voleva costringere alla resa anche
Aderbale che disperato si rivolse a Roma per sconfiggere Giugurta.
Quest'ultimo viene presentato come un abile politico che riesce a convincere Romani che dividere
il regno in due parti eque (una per lui una per il cugino Aderbale) era cosa impossibile.
Roma intervenne quando Giugurta uccise anche Aderbale. Ebbe così inizio la guerra che durò sei
anni (111-105) e che dimostrò l'incapacità dei nobili di condurre una guerra che oltre alla
preparazione militare richiedeva anche una maggiore tensione morale.
Solo quando Gaio Mario, console nel 107, intervenne nella guerra contro Giugurta, la situazione
ebbe finalmente una svolta: Gaio, di estrazione plebea e vicino alla fazione politica dei populares
aveva, secondo Sallustio, quella giusta tensione morale. Gaio riuscì a portare verso la conclusione la
guerra contro Giugurta.
Il Bellum Lugurthinum si articola in 114 capitoli, ha quindi una struttura più vasta e complessa della
prima monografia, sia perché l'evento trattato ha una maggiore durata, sia perché Sallustio narra sia
le vicende di guerra che quelle interne della politica romana.
L'obiettivo politico che Sallustio intende conseguire con la sua seconda monografia è quello di
opporre ad una classe dirigente ormai macchiatasi di corruzione, l'homo novus, incarnato in Gaio
Mario, espressione di ceti moralmente più sani che hanno trovato voce in lui.
Nel Bellum L. troviamo espresso il concetto di Metus hostilis→ ovvero la paura del nemico, quella
che costringe i cittadini a evitare lotte intestine e a rimanere uniti in un posizione di difesa
Le Historiae
Dopo le due monografie, tra il 39 e il 35 a.C, Sallustio compone le Historiae, un'opera che
comprendeva cinque libri che trattavano avvenimenti a partire dalla morte di Sila, ovvero
dall'evento in cui si fermavano le Historie di L. Cornelio Sisenna (acceso partigiano di Silla) e
giungevano fino all'inverno del 66 a.C, appena dopo la guerra contro i pirati.
L'opera ha un impianto annalistico anche se mantiene in un certo senso lo stile delle monografie,
perché non narra tutti i fatti ma si sofferma su alcuni, su quelli cioè che portano alla dimostrazione
della sua ideologia di fondo. Così anche nelle Historiae continuano ad avere grande importanza i
personaggi chiave, la morale, le loro azioni, l'indagine psicologica.
Di questa vasta opera restano solo: quattro discorsi (di Marco Emilio Lepido, di Lucio Marcio
Filippo, princeps senatus, del console Gaio Aurelio Cotta e del tribuno della plebe Gaio Licinio
Marco) e due lettere ( una di Pompeo al Senato e una di Mitridate, re del Ponto, ad Arsace, re dei
Parti) e alti frammenti.
L'abbandono della monografia si deve forse all'esigenza di fare un discorso più ampio di quello che
riguardava solo alcuni aspetti della crisi dello Stato romano. La genesi delle Historiae
probabilmente appare già in un capitolo del Bellum Iugurthinum, quando Sallustio, parlando di Silla
si lamenta del fatto che non avrà più occasioni di dilungarsi su questo personaggio. Quindi la
ragione che spinge Sallustio alle Historiae è quella forse, proprio di formulare un giudizio meno di
parte sulla dominatio sillana.
→ la tendenza antiaristocratica delle Historiae: come nelle monografie anche le Historiae hanno una
tendenza anti aristocratica di fondo che tuttavia appariva velata dal severo moralismo dell'autore
che portava così l'opera e quindi il racconto storico ad essere imparziale. Così Marco Emilio Lepido
(console nel 78) suscita una ribellione democratica contro il dominio di Silla(l'uomo che nelle
Historiae si dice abbia riconquistato con le armi lo Stato “non libertati sed predae”) e nel discorso
pronunciato ai Romani dice sulla tirannide dei nobili e sul servaggio della plebe, cose che Sallustio
appoggia, e viene bollato per aver cercato di conquistare l'appoggio del popolino, della plebaglia
romana e degli strati inferiore della campagna etrusca, tanto che l'appoggio dell'autore va anche al
nobile Marcio Filippo che suscita in risposta al discorso di Lepido la reazione del Senato in nome
dell'ordine e della libertà.
Sallustio poi anche se critica membri e sostenitori della nobiltà senatoriale non manca di
riconoscere l'abilità dello stesso Pompeo o di Metello che in campagne militari difficoltose
mostrano capacità straordinarie e non manca nemmeno di lodare vittorie come quella di Licinio
Lucullo contro Mitridate.
Dall'altro lato poi Sallustio appoggia l'attività tribunizia misurata e responsabile di Lucinio Macro
che in un discorso cercò, senza incitare le piazze alla violenza, di ridare dignità e peso politico ad
una plebe ormai asservita e depotenziata.
La sintassi di Sallustio è molto varia, e lo è per soddisfare due esigenze dell'usus scribendi
dell'autore: la brevitas (riuscire a esprimere un concetto attraverso un numero ridotto di parole) e la
variatio (consiste spesso nel cambiamento improvviso del costrutto o dell'impiego di categorie
grammaticali o di termini).
CICERONE
Cicerone nacque ad Arpino il 3 gennaio del 106 a.C da una ricca famiglia si rango equestre legata a
G.Mario. Da giovane Cicerone si trasferì a Roma dove apprese l'eloquenza da Antonio e Crasso, i
due più famosi oratori dell'epoca e diritto civile, ma nella città potè anche accedere agli
insegnamenti di maestri greci come Apollonio Molone di Rodi. In questa fase Cicerone si dedicò
alla traduzione di opere dal greco e a poesie composte secondo i canoni della poesia neoterica.
Fra il 79 e il 77 si recò anch'egli in Grecia dove frequentò la scuola di Antioco di Ascalona, filoso
accademico e quella di Zenone, legato alla filosofia epicurea.
Tornato a Roma si sposò con Terenzia, ebbe due figli, Cicerone e Tullia, e nonostante fosse un
homo novus, ovvero il primo della sua famiglia a dedicarsi alla vita pubblica, intraprese in cursus
honorum che lo porterà subito a ricoprire la carica di questore in Sicilia nel 75 e quella di edile nel
69, poi quella di pretore nel 66, fino all'elezione al consolato nel 63, anno in cui sventò la congiura
di Catilina, così da diventare per molti un vero pater patriae.
Questo periodo costituì una svola nella sua carriera politica, se infatti per alcuni era colui che aveva
salvata la Res Publica dall'attacco di Catilina ed era quindi l'unico protettore dei valori e dei poteri
dell'oligarchia, per altri invece era solo un nemico, come lo fu per Cesare, Pompeo e Crasso i quali
infatti, nel 60 a.C si unirono in un patto extracostituzionale (il cosiddetto primo
triumvirato)escludendolo di fatto dal potere, trovando anche poi il modo, nel 58 a,C di spedirlo in
esilio, accusandolo, attraverso Publio Clodio, di aver fatto condannare a morte senza processo i
seguaci di Catilina. La casa di Cicerone fu distrutta e i beni confiscati.
Già nel 57 però, grazie al favore di Pompeo, Cicerone potè tornare a Roma, in quell'anno però il
quadro politico era confuso, tra Cesare e Pompeo serpeggiava già qualche discordia, quelle che poi
avrebbero portato a scontrarsi nella celebre guerra civile, e Cicerone non seppe schierarsi da
nessuna delle due parti. Questo lo tenne fuori dalla stagione politica successiva.
Allo scoppio della guerra civile Cicerone si schierò dalla parte di Pompeo, dopo la battaglia di
Farsalo però, Cesare gli concesse il perdono e con esso la possibilità di tornare a Roma.
Seguì un periodo negativo per Cicerone che ormai di poco conto nel panorama politico, decise di
ritirarsi a vita privata, subì la perdita della figlia Tullia e il divorzio dalle sue mogli.
Nel 44 dopo la morte di Cesare tentò di rientrare in politica, spendendosi per la ricerca di un
accordo pacificatore tra i cesariani e i congiurati, si schierò contro Antonio, pronunciando contro di
lui le famose orazione Filippiche (cosiddette perché ricordavano, per il tono e per l'argomento, le
orazione di Demostene contro Filippo il Macedone).
Antonio si vendicò inserendolo nelle famose liste di proscrizione (epurazione degli oppositori
politici). Così lasciata Roma Cicerone fu raggiunto nei pressi di Formia dai sicari di Antonio e
ucciso barbaramente, era il 7 dicembre del 43 a.C, con Cicerone moriva l'ultimo custode dei valori
repubblicani.
I discorsi
Dai discorsi emerge uno spaccato della vita di Cicerone e di quella della Roma del tempo, delle sue
lotte intestine, dei suoi interessi, talvolta meschini. Coprono un arco di tempo che va dall'81 a.C,
alle cosiddette Filippiche, scritte contro Antonio e che gli costarono la morte, avvenuta nel 43 a.C.
All'inizio per Cicerone affermarsi non fu facile, dominava la scena nella carriera di avvocato il suo
maestro Ortensio Ortalo, e a Roma era ancora vivo il ricordo di oratori eccellenti come Antonio e
Bruto.
Ma Cicerone si affermò subito imponendosi sia nel diritto civile che in quello penale: con il primo
discorso difese P.Quinzio contro Sesto Nevio, difeso proprio da Ortensio Ortalo, con il secondo
discorso difese un suo cliente dall'accusa di parricidio.
Ma il vero e proprio esordio sulla scena forense è costituito dalle “Verrine” del 70 a.C: l'occasione
fu quella del processo che i cittadini di parecchie città della Sicilia intentarono contro G. Verre,
propretore dell'isola, dunque si trattava di un accusa contro una grande fetta della classe nobiliare
che veniva accusata di immoralità e corruzione e che quindi veniva ricusata dallo Stato coma classe
dirigente, inoltre a difesa di Verre c'era Ortensio Ortalo. Cicerone vinse la sentenza, questo segnò il
passaggio di testimone da Ortensio a Cicerone.
Iniziato il processo Cicerone pronunciò una durissima orazione contro Verre nella quale accusò il
nobile governatore di concussione. La violenza dell'attacco del giovane avvocato fu tale che Verre
fuggì per evitare una condanna troppo dura, così, a processo interrotto Cicerone scrisse “l'actio
secunda in Verrem”, mai pronunciata in aula e suddivisa in cinque discorsi nella quale vengono
analizzati tutti i crimini attribuiti a Verre. Il discorso più noto è il De signis (“Sulle statue”), dove
Cicerone accusa Verre, gran intenditore di opere d'arte, di essersi appropriato di un numero enorme
di statue provenienti da tutta la Sicilia.
Questo processo in realtà aveva una grande importanza, e Verre era solo una parte di un grande
schema: il processo portava in aula tutta la classe nobiliare, ovvero una classe che si rivelava ormai
incapace di governare, corrotta e macchiata irrimediabilmente, contro i ceti emergenti come gli
equites, che intendevano contendere con i senatori il ruolo di ceto dominante.
Il processo quindi, inevitabilmente doveva concludersi con un accordo tra i due ordines (nobilitas
ed equites), forse proprio ricorrendo alla lex Aurelia.
Il ritratto che Cicerone ci fornisce di Catilina è quello di un uomo perduto, brutale,assassino, capace
di sedurre una Vestale, di uccidere il proprio figlio, corruttore di giovani, omosessuale, estremista,
sempre in combutta con gli elementi più abbietti della torbida società romana.
La prima orazione in Catilinam si articola in tre momenti principali: nel primo paragrafo Cicerone
rimprovera a Catilina la sua audacia e il fatto di fingere di non accorgersi che la città è ormai tutta
sotto controllo perché tutti sanno della sua congiura, nel secondo paragrafo che si apre con
l'esclamazione “O tempora, o mores!, Cicerone lega alla tracotanza di Catilina che è così sfacciato
da presentarsi in senato nonostante tutto, alla tiepida reazione dei senatori e di lui stesso, console in
carica in quell'anno, che ancora indagano a decretare la pena capitale. Nel terzo paragrafo, per
sollecitare l'orgoglio della tradizione romana, fa alcuni exempla di provvedimenti memorabili, in
linea con il suo essere difensore della legalità repubblicana.
Le opere retoriche
Cicerone oltre a scrivere discorsi si fermò alla riflessione e allo studio di quelli che sono i principi
che stanno alla base dell'arte del dire. Inoltre, fu il primo ad armonizzare lo studio della retorica con
quello della filosofia che da sempre a Roma era stata ostacolata perché considerata momento di
evasione dalla vita pubblica, disciplina in cui gli interessi della Res publica passavano in secondo
piano. Cicerone è il primo a sostenere con forza che la filosofia deve far parte dell'educazione dei
giovani romani, accanto ovviamente alla retorica. Infatti, la filosofia è una vera e propria guida per
la vita umana ma, dice Cicerone, non è possibile essere filosofi senza possedere nel proprio
bagaglio culturale la capacità di persuadere attraverso l'uso della lingua e della parola.
Fin dalla giovinezza, forse anche grazie agli insegnamenti di Filone di Larissa (insegnante sia di
retorica che di filosofia) Cicerone ebbe sempre a cuore la questione relativa alla saldatura della
retorica alla filosofia, tanto che si cimentò nella composizione di una speciale enciclopedia sulla
retorica, di cui scrisse solo due libri, nota il titolo di De inventione (nome della prima parte di un
discorso sui principi della retorica), non è escluso che ci fossero altri libri.
Il De oratore
Il De oratore, composto fra il 56 e il 55 a.C, è costituito di tre libri in cui viene delineata la figura
del perfetto oratore, il quale oltre ad avere doti innate, deve avere un ottima preparazione culturale,
una formazione filosofica e un educazione morale.
La forma è quella del dialogo, ripresa dal modello di Aristotele, infatti ogni interlocutore espone il
suo pensiero in lunghi interventi.
Il dialogo si immagina essere avvenuto nella villa di Licinio Crasso nel 91 a.C. ad esso partecipano,
oltre a L.Crasso, Marco Antonio (personaggi principali), gli oratori Aurelio Cotta e Sulpici Rugo, il
giurista Muzio Scevola l'Augure, e un poeta tragico, Giulio Cesare Strabone.
Vengono trattati dai personaggi le vari parti della retorica: Antonio parla dell'inventio, della
dispositio e della memoria, necessarie perché il grande oratore, secondo lui, deve trarre esempio dai
predecessori. Nell'ultimo libro Crasso sviluppa il tema dell'elocutio, ovvero la capacità dell'oratore
di saper adattare il tono, lo stile, e il linguaggio alle diverse occasioni in cui è chiamato ad
intervenire.
Infine si parla dell'unicità del sapere in contrapposizione a qualsiasi tipo di specializzazione perché
espressione di un sapere molto parziale.
Il Brutus
Il Brutus viene scritto nel 46 a.C, si rivolge all'amico Giunio Bruto e delinea una storia
dell'eloquenza, della critica letteraria, dalle origini greche e romane fino ai tempi suoi. Anche il
Brutus è ambientato nella Villa di Tuscolo, presenta la forma dialogica, ma a differenza del De
oratore è ambientato nei tempi contemporanei. I personaggi che dialogano fra loro sono Attico,
Bruto e lo stesso Cicerone. Il Brutus è un'opera originale e ci fornisce preziose informazioni perché
al suo interno l'autore delinea un profilo dei singoli oratori e dei gruppi ai quali fanno parte, ovvero
atticismo e asianesimo.
L'Orator
L'Orator è anch'esso del 46, dopo il De Oratore e il Brutus e la terza opera retorica di Cicerone. È
dedicata a Giunio Bruto e non presenta stavolta la forma di dialogo ma in essa vengono definiti i
compiti del perfetto oratore, ovvero: probare (convincere), delectare (dilettare), flectere
(commuovere). Inoltre compare il principio secondo il quale il bravo oratore deve saper maneggiare
tutti gli stili e adattarli a seconda del contesto e di chi ha di fronte (elocutio).
Le opere politiche
Le più importanti sono il De republica e il De legibus, già nel titolo rimandano a quelle di Platone ,
ovvero la Politeia (lo Stato) e i Nomoi (le leggi). La scelta del genere è ancora una volta quella del
dialogo.
Il De Republica
Composto tra il 54 e il 51 a.C, è il periodo in cui Cicerone si dedicò all'otium letterario, dopo aver
lasciato la politica in seguito all'esilio e alla costituzione del triumvirato.
L'opera è un dialogo in sei libri, che si immagina tenuto nel 129 a.C fra Scipione Emiliano, G.
Lelio, Muzio Scevola l'Augure, Elio Tuberone, Rutilio Rufo, Spurio Mummio, ovvero i principali
aderenti alla cultura filellenica del circolo degli Scipioni.
Argomento della trattazione è lo Stato perfetto , fondato sulla migliore forma di governo fra quelle
sperimentate nel corso della storia (monarchia, aristocrazia, democrazia). Cicerone non ne privilegia
nessuna ma esalta la Costituzione mista che viene fuori dalla compresenza di tutte e tre. Per
Cicerone la costituzione mista è quella romana, dove il Senato rappresenta l'aristocrazia, i comizi
popolare il potere democratico, e i consoli sono una sorta di continuatori del potere monarchico.
Quindi quello che fa Cicerone non è esaltare una Costituzione ideale o che è frutto di un singolo
legislatore, come era accaduto in Grecia, ma al contrario esalta una costituzione che è risultato di un
processo evolutivo realizzato da molte generazioni.
Il De Republica è importante perché si delinea in esso la figura del princeps o moderator rei
publicae, che deve possedere carisma e prestigio personale prima ancora che autorità sul popolo che
detiene. Le componenti della sua virtus devono essere: fortezza, capacità di essere ponderato,
carattere forte propensione a obiettivi onesti.
Agli occhi di Cicerone gli ideali del princeps perfetto sono tutti contenuti nella personalità di
Scipione Emiliano, in un certo senso egli è il precursore della figura del princeps per eccellenza che
verrà, ovvero Augusto.
Del De Republica ci restano solo i primi due libri, scoperti dal Cardinale Angelo Mai nel 1822.
La parte conclusiva dell'opera è occupata dal Somnium Scipionis: qui Scipione Africano Maggiore,
vincitore dei Cartaginesi nella battaglia di Zama, compare in sogno a Scipione Emiliano e gli fa
notare la grandezza del cielo in confronto alla piccolezza della Terra, inoltre gli svela l'esistenza di
un luogo nel cielo in cui verranno accolti tutti gli uomini virtuosi, i difensori dello Stato, gli unici a
cui sarà concessa l'immortalità. Quest'ultima parte ha chiari richiami a Platone e alla sua Politea
dove proprio in conclusione si parla del mito di Er.
Il De legibus
E' la seconda opera politica di Cicerone, composta in forma dialogica intorno al 52, doveva
comprendere cinque libri ma ce ne giungono soltanto tre . I personaggi dei dialoghi, come nel
Brutus, sono contemporanei e sono: Cicerone, il fratello Quinto e Pomponio Attico. L'autore parla
delle leggi naturali dettate dalle divinità agli uomini, delle leggi religiose, e infine, delle
magistrature della Roma antica, rivelando così una certa nostalgia nei confronti della tradizione e
dei privilegi concessi alla classe dirigente.
Si sostiene quindi che le leggi hanno un fondamento naturale, divino, dunque chi le viola compie
non solo un delitto, ma un peccato.
Anche in quest'opera la società romana viene presentata come un modello, studiato attraverso
alcune intuizioni filosofiche greche come quelle di Platone e Aristotele.
Le opere filosofiche
Negli ultimi anni Cicerone si dedicò allo studio della filosofia, in particolare prese a indagare sul
tema della felicità dell'uomo. Cicerone individua nella filosofia una vera e propria medicina doloris,
capace di risolvere i due dolori che affliggono il suo animo: quello del distacco dalla vita politica
alla quale aveva rivolto tutta la sua esistenza, e quello della perdita dell'amata figlia Tullia, quindi,
sia nella sfera pubblica che in quella privata.
Le opere filosofiche di Cicerono sono:
La Consolatio: è la prima opera filosofica, non ci è pervenuta ma probabilmente era un'opera di
consolazione per la morte della figlia;
L'Hortensius seu de philosophia liber: dal nome di “Ortensio”, il suo maestro, non ci è pervenuto, si
trattava forse di un invito alla filosofia, e doveva essere di un forte impatto spirituale visto che
Agostino dalla sua lettura ne ricavò un impulsoo verso la fede cristiana;
-Le Tusculanae Disputationes: “le Discussioni di Tuscolo”, dedicate all'amico Bruto, composto tra il
44 e il 45, constano di 5 libri e sono composte sul modello del Peri penthous del greco Crantore.
Sono una sorta di consolatio per la fine della repubblica e per la morte di Tullia, hanno la forma del
dialogo, che si alterna tra un magister e un auditor che cercano di trovare un superamento a tutti
quegli ostacoli tra l'uomo e il raggiungimento della felicità, insegna anche come la virtus sia
necessaria per raggiungere la felicità. È una delle opere filosofiche più importanti per l'ampiezza del
tema trattato e per lo sviluppo che l'autore ne da, ma manca la vivacità dei dialoghi tipica di
Platone;
-Il De finibus bonorum et malorum: “sul sommo bene e sul sommo male”, composto nel 45,
anch'esso un dialogo in cinque libri dedicato a Bruto. Il dialogo si immagina tenuto nel 50 nella
villa ciceroniana di Cuma, prendendo come riferimento le tesi epicuree espone la questione relativa
al sommo bene e al sommo male, per poi esporre il punto di vista stoico da parte di Catone
l'Uticense a cui risponde lo stesso Cicerone sostenendo le tesi degli accademici e di Aristotele.
Infine a esporre la sua teoria è Antioco di Ascalona, che per l'autore sembra essere quella più
convincente;
- Il De natura deorum: composto tra il 44 e il 45 è un dialogo in tre libri, dedicati a Bruto. Cicerone
qui affronta argomenti di tipo teoretico come l'insofferenza degli dei nei confronti degli uomini o
come la tesi stoica che ammette l'esistenza di un principio provvidenziale che regola il mondo;
-il De divinatione: è un dialogo in due libri e ha un carattere polemico in quanto lo scrittore, in
opposizione al fratello Quinto, attacca tutta la materia oracolare, l'astrologia, contestandone la
veridicità e scientificità;
-il De fato: è affine al De divinatione, anch'esso in due libri, a dialogare sono Cicerone e Aulo Irzio,
discutono sul rapporto tra il destino e la libertà di scelta dell'uomo. La tesi ciceroniana rifiuta ogni
forma di fatalismo, così che ogni forma di libero arbitrio umana appare annullata;
-il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia:sono due dialoghi scritti nel 44 e dedicati ad
Attico, la novità è che in essi campeggiano due personaggi principali (Catone il Censore e Lelio);
-Gli Academia: composti nel 45, affrontano il tema della conoscenza, rimandando forse alla figura
di Filone di Larissa;
-Il De officiis: è l'ultima opera filosofica, composta nel 44, dedicata al figlio , si tratta di una sorta di
testamento spirituale. L'opera è in tre libri ed espone la questione relatica alla conciliazione
dell'utile con l'onesto, si affronta il tema dell'onestà e delle quattro forme in cui essa si può
manifestare (sapienza, giustizia, magnanimità, temperanza), nel secondo libro vengono esposti i
modi in cui l'utilità si può ottenere, il terzo libro affronta il tema dei conflitti che possono insorgere
tra l'onesto e l'utile. Cicerone si sarebbe rifatto all'opera “sul conveniente” del filosofo stoico
Panezio di Roma, l'ideologo dell'humanitas.
Se Panezio però aveva trattato il tema solo in modo teorico, Cicerone invece lo fa attenendosi alla
realtà e per lui l'officium diventa l'insieme di quelle virtù romane classiche e tradizionali:pietas,
fides, magnitudo animi, gravitas, aequitas.
Insomma, nelle sue opere filosofiche, Cicerone cerca di adattare, romanizzare filosofia, una
disciplina che non era mai stata accettata nel panorama culturale romano e lo fa eliminando quelle
sottigliezze teoretiche che stonavano con il forte pragmatismo romano.
VARRONE
Marco Terenzio Varrone è l'erudito dai più vasti interessi dell'intera latinità e forse del mondo
antico, nacque a Rieti nel 116 a.C, questo gli diede l'appellativo di “Reatino”. La famiglia, di nobili
origini, aveva possedimenti in Sabina, dove Varrone trascorse l'infanzia, più tardi divenne molto
ricco e il suo patrimonio di arricchì di alcune lussuose ville a Baia, in Campania e fondi terrieri
Tuscolo e a Cassino.
Quando si trasferì a Roma iniziò una formazione culturale molto dura ma allo stesso tempo vasta e
poliedrica: studi etimologici, filologia, linguistica, studi di oratoria, ecc.
ad Accio, che fu colui che lo fece avvicinare agli studi di linguistica, dedicò la sua prima opera
grammaticale, il De antiquitate litterarum.
Maestri di filosofia sono per Varrone Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, che seguirà anche in
Grecia nel tradizionale viaggio che i giovani intellettuali compivano, avvenuto per Varrone fra l'84 e
l'82. Così Varrone assunse una posizione filosofica di tipo eclettico, simile a Cicerone.
Al contrario di altri eruditi, Varrone partecipò all'attività forense e politica e fece una scelta precisa,
si schierò infatti dalla parte degli optimates, cioè dei nobili conservatori che si opponevano alle idee
dei populares.
Da sempre dalla parte di Pomeo, quando nel 49 scoppiò la guerra civile tra Cesare e Pompeo,
Varrone si trovava nella Spagna Ulteriore come propretore di Pompeo, e a detta di Cesare nel de
bello civili, Varrone si arrese, dopo aver tentato di difendere quella parte della Spagna dagli attacchi
dei cesariani.
Poi si spostò in Grecia al fianco di Pompeo, ma dopo la disfatta di questo a Farsalo, nel 48, fu preso
di mira da Marco Antonio, in quel momento Varrone si avvicinò a Cesare, per testimoniargli
l'apprezzamento nei suoi confronti, gli affidò l'organizzazione di due importanti biblioteche
pubbliche romane, una greca e una latina, ma prima che il progetto potesse realizzarsi Cesare fu
ucciso.
Dopo la morte di Cesare anche Varrone venne introdotto da Antonio e Ottaviano nelle liste di
proscrizione, intervenne così Fufio Caleno che risparmiò Varrone, lui riconoscente, si avvicinò a
Ottaviano fino ad arrivare a dedicargli il De gente populi Romani. L'opera trattava della grandezza
di Cesare, che stava a cuore di Ottaviano, suo figlio adottivo ed erede ed era una sorta di predizione
di una nuova età dell'oro e dell'apoteosi dello stesso Ottaviano.
Varrone morì nel 27 a.C, dopo aver scritto più di 70 opere, suddivise in circa 620 libri.
La produzione letteraria
Le opere di Varrone citate da autori antichi, aggiunte a quelle che San Girolamo elenca sono 74,
divise in 620 libri. Gli scritti varroniani sono divisibili in tipologie:
-opere di erudizione, di filologia e di storia;
-opere giuridiche e burocratiche;
-epitomi di grandi opere;
-opere di filosofia e di agricoltura (in fase matura);
-poesie, orazioni, satire, scritti vari in prosa;
Il De lingua latina
Fu composto dopo la battaglia di Farsalo tra il 47 e il 45, l'opera si componeva di 25 libri ma ci
giungono solo i libri dal V al X, ed è un trattato contenente le teorie linguistiche, filologiche e
grammaticali dell'autore. Il De lingua latina consente di attestare che Varrone trattò di una delle
questioni più complicate della linguistica del mondo antico, greco e latino: quella relativa
all'etimologia e quella intorno all'analogia e al suo rapporto con l'anomalia.
Il problema dell'etimologia, cioè della definizione del significato “vero” di un termine, era stata al
centro di molti studi filologici e grammaticali, la questione fu poi ripresa con passione da Elio
Stilone, maestro di Varrone, dal quale quest'ultimo ne riprese l'interesse.
Tuttavia Varrone trattò la questione etimologica non solo da grammatico e linguista, bensì da
filosofo. Egli si propone di studiare l'origine del latino e di ricavare dalle parole tutte le
informazioni che esse racchiudono sugli usi antichi, egli spera di poter accedere alle fonti del
lessico latino, di poter ricostruire la connessione immediata fra parole e cose, di risalire attraverso le
parole alla vita primitiva del Lazio.
Varrone però si rende conto che conducendo un'indagine etimologica solo sui testi poetici può
ottenere risultati limitati in sede pratica, a differenza di un'indagine più ampia condotta sulla base
del linguaggio corrente. Tuttavia Varrone sottoponendo a un'analisi etimologica accurata i testi di
poeti arcaici come i Carmi Saliario il Carme di Priamo, ormai poco comprensibili ai suoi tempi,
contava di riuscire a raggiungere l'origine prima di alcuni termini.
Ma contemporaneamente, Varrone è convinto, al contrario degli Stoici (in un certo senso inventori
dell'etimologia), che non si può pervenire il significato di tutti i termini, che non si può ripercorrere
tutto l'iter che porta all'esatta coincidenza tra significato e significante.
Secondo la teoria di Varrone esistono quattro gradi etimologici: 1 quello a cui arriva anche il popolo
quando trova l'etimologia di una parola, 2 quello grammaticale adoperato dagli alessandrini per
interpretare i testi antichi attraverso l'etimologia dei termini, 3 quello filosofico impiegato dagli
stoici, attenti alla lingua dell'uso comune e all'etimologia delle parole che lo costituiscono, 4 il
grado che ci consente di giungere all'età più lontana del tempo e al significato etimologico
primitivo, alla base della lingua latina, a questo grado anche Varrone sa quanto è difficile giungere.
Per quanto riguarda invece analogia e anomalia, la polemica si stanziò attorno alle due opposte
posizioni dei Pergameni (anomalisti) e degli Alessandrini (analogisti). La polemica, che affondava
le radici anche nel pensiero aristotelico attorno al linguaggio, si appuntava in modo particolare sul
rapporto fra le cose e le parole che le designano. Secondo gli Alessandrini il rapporto fra cose e
parole è una pura convenzione stabilita da una comunità di parlanti, secondo i Pergameni invece, si
tratta di un nesso naturale.
Varrone è analogista, pur riconoscendo il valore dell'uso, egli ritiene che la regola sia necessaria per
uniformare lo sviluppi delle parole e la loro flessione, così che i parlanti abbiano dei modelli su cui
orientarsi e per far si che la lingua non abbia un andamento caotico.
Il De rustica
Composto nel 37 a.C quando Varrone aveva ormai raggiunto gli 80 anni di età, è un'opera in prosa
in tre libri, che si svolge in forma di dialogo di tipo aristotelico. L'autore affronta il tema
dell'agricoltura sotto diversi punti di vista: dal profitto che da essa si può ricavare fino al diletto e
alla bellezza che essa può offrire. I dialoghi sono ambientati e collocati in tempi differenti e
presentano uno sfondo storico legato a diversi periodi dell'autore, per questo l'opera ha anche una
valenza autobiografica.
L'opera si sviluppa all'interno di un quadro storico e sociale che vede ormai la crisi dell'agricoltura,
ecco che Varrone vuole fornire indicazioni che possano migliorare la produttività dei terreni a
sopratutto invitare, quanti hanno abbandonato la campagna per l'urbe a farvi ritorno.
Il tono quindi è spesso nostalgico, Varrone infatti ricorda e allude ai tempi antichi, caratterizzati da
benessere e serenità.
Le satire Menippee
Quando fra l'84 e l'82 Varrone compì il viaggio in Grecia approfondì le sue conoscenze filosofiche,
in particolare si avvicinò a quelle dei cinici e a Menippo di Gadara, il filoso della prima metà del III
sec a.C. I filosofici cinici avevano un atteggiamento aggressivo e polemico nei confronti dei filosofi
contemporanei e dei loro dogmi.
Seguendo così il modello di Menippo che aveva composto satire, Varrone compose le Saturae
Menippeae, una vasta opera in prosa e in versi di 150 libri, ci restano circa 600 versi. Ciascun
componimento aveva un suo titolo che rimandava a un modo di dire o al contenuto della satira.
Gli argomenti delle satire erano i più svariati: dalla mitologia alla morale, ai costumi, ai difetti degli
uomini, dalla poesia alla filosofia, fino alla politica, tutti i componimenti contrassegnati da una forte
critica nei confronti del degrado che viveva la società contemporanea.