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L’occasione di questo lavoro è nata da un seminario sullo tenuto a
Bologna nel 1998 1999 dalla dr.ssa Jera Marusič; un seminario misto, con
partecipanti di provenienze diverse, dalla filologia classica alla storia anti
ca, alla filosofia. L’incontro fortunato tra queste prospettive ha aperto la
strada a un’interpretazione del dialogo che tenesse conto del suo caratte
re tra letteratura, filologia e filosofia, lanciando una sfida che ho
deciso di raccogliere. La ragione filosofica è nell’intuizione del ruolo pa
radigmatico dello nel platonico, della sua posizione iniziale –
prima ancora dei dialoghi aporetici – dell’intersezione fra i tre nuclei te
matici dell’etica, della conoscenza e del divino, decisivi per avvicinarsi al
cuore della filosofia platonica, e della filosofia .
Ringrazio dunque i compagni di seminario, che mi hanno lasciato
la traccia comune da cui sviluppare il lavoro personale; Alessia Bianchi,
per la sua lettura lenta del proemio e il controllo delle scelte lessicali deli
cate della traduzione; Chiara Palù, per una visione più ampia del rapporto
tra oralità e scrittura nell’Atene del V e del IV secolo a. C.; Regina Peters,
che ha letto con me il tedesco di Flashar.
Ringrazio Jera Marusič per le critiche stimolanti che mi hanno
permesso di migliorare questa nuova versione del mio lavoro, la Direzio
ne della rivista dell’Università degli Studi di Bologna e la casa edi
trice CLUEB, che ne hanno reso possibile la pubblicazione.
Ringrazio gli amici: Daria, Edoardo, Francesca e Valentina; i ma
estri, senza i quali non sarei diventata quella che sono: Rita Tamba, che
ha incoraggiato i miei interessi filosofici, Simonetta Nannini, che mi ha
insegnato a conoscere e ad amare la lingua greca, Walter Cavini, a cui de
vo l’occasione oltre alle capacità filosofiche che hanno reso possibile tra
sformare la mia tesi di laurea in un libro.

Ringrazio i miei genitori, e la mia famiglia, perché in ogni momento era


no e sono presenti, nonostante gli errori.

ABBREVIAZIONI: le abbreviazioni delle fonti greche sono tratte da


LSJ [469], quelle delle fonti latine da GLARE [471]; le abbreviazioni
ordinarie, redazionali, di consultazione e di riferimento bibliografico

11
di parole italiane e latine seguono nei loro criteri di formazione e
d’uso le indicazioni di LESINA [485].

ABBREVIAZIONI DELLE EDIZIONI CRITICHE


B. BACHMANN [83]
C. CALAME [87]
D. DITTMAR [91]
DK DIELS KRANZ [90]
G. P. GENTILI PRATO [94]
K. A. KASSEL AUSTIN [96]
L. P. LOBEL PAGE [97]
M. W. MERKELBACH WEST [100]
N.2 NAUCK [101]
P. PAGE [102]
S. M. SNELL MAEHLER [104]
U. USENER [106]
W. WEST [107]

BIBLIOGRAFIA: si tratta di un saggio bibliografico, che ha lo scopo di


indagare non solo la letteratura specifica sul testo che ho scelto di
commentare (completa, fatta eccezione per quanto riguarda la sua
fortuna), ma anche gli studî più significativi dedicati ai temi
che vi sono trattati, nella speranza che questo lavoro di ricerca bi
bliografica mostri i legami e le intersezioni tra i diversi aspetti della fi
losofia greca e platonica in particolare, e come i lavori degli interpreti
si collocano rispetto ad essi. È segnalato il caso in cui brevi articoli o
traduzioni siano consultabili in rete.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: la bibliografia segue una numerazione


progressiva dei titoli (in ordine alfabetico per autore all’interno di
ogni paragrafo); per i rimandi bibliografici nel testo ho adottato il si
stema di riferimento autore numero.

TRADUZIONE: la traduzione segue il testo greco dell’edizione critica


di J. Burnet ([1]); i casi in cui se ne discosta preferendo una diversa
lezione, o accetta il testo per ragioni specifiche, sono indicati in nota.

TRADUZIONI: le traduzioni dei passi citati, quando non diversamente


indicato, sono mie.

12
VIRGOLETTE: le virgolette basse uncinate («...») nelle note di com
mento alla traduzione non sono solo di citazione (uso ), ma
di volta in volta indicano, oltre alla traduzione scelta, le possibili ver
sioni di una parola o di una locuzione; le virgolette alte singole (‘...’),
di menzione, segnalano talvolta anche l’uso improprio o traslato di
un termine o di un’espressione.

13
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E
IWN

[À Perˆ 'Ili£doj, <di£logoj> peirastikÒj]

SWKRATES
SWKRATES IWN

SW. TÕn ”Iwna ca…rein. pÒqen t¦ nàn ¹m‹n ™pided»mhkaj; À


o‡koqen ™x 'Efšsou;
IWN. OÙdamîj, ð Sèkratej, ¢ll' ™x 'EpidaÚrou ™k tîn 'A@
sklhpie…wn.
SW. Mîn kaˆ BayJdîn ¢gîna tiqšasin tù qeù oƒ 'EpidaÚ@
rioi;
IWN. P£nu ge, kaˆ tÁj ¥llhj ge mousikÁj.
SW. T… oân; ºgwn…zou ti ¹m‹n; kaˆ pîj ti ºgwn…sw;
IWN. T¦ prîta tîn ¥qlwn ºnegk£meqa, ð Sèkratej.
SW. Eâ lšgeij: ¥ge d¾ Ópwj kaˆ t¦ Panaq»naia nik»somen.
IWN. 'All' œstai taàta, ™¦n qeÕj ™qšlV.
------------------------------------------------------------------------
SW. Kaˆ m¾n poll£kij ge ™z»lwsa Øm©j toÝj BayJdoÚj, ð
”Iwn, tÁj tšcnhj: tÕ g¦r ¤ma mUn tÕ sîma kekosmÁsqai
¢eˆ pršpon Ømîn eVnai tÍ tšcnV kaˆ æj kall…stoij
fa…nesqai, ¤ma dU ¢nagka‹on eVnai œn te ¥lloij poi@
hta‹j diatr…bein pollo‹j kaˆ ¢gaqo‹j kaˆ d¾ kaˆ
m£lista ™n `Om»rJ, tù ¢r…stJ kaˆ qeiot£tJ tîn poi@
htîn, kaˆ t¾n toÚtou di£\noian ™kmanq£nein, m¾ mÒnon
t¦ œph, zhlwtÒn ™stin. oÙ g¦r ¨n gšnoitÒ pote ¢gaqÕj
BayJdÒj, e„ m¾ sune…h t¦ legÒmena ØpÕ toà poihtoà.
tÕn g¦r BayJdÕn ˜rmhnša de‹ toà poihtoà tÁj diano…aj
g…gnesqai to‹j ¢koÚousi: toàto dU kalîj poie‹n m¾ gi@
gnèskonta Óti lšgei Ð poiht¾j ¢dÚnaton. taàta oân
p£nta ¥xia zhloàsqai.
[o Sull’ : <dialogo> peirastico]1

530a 542b4
12, 5 pp. St. / XII §§ Her.

SO. Illustre Ione, salve!2 Da quale luogo3 ci4 arrivi,5 ora?6


Forse dalla tua casa7 a Efeso?8
I. Niente affatto,9 Socrate! Vengo da Epidauro, dalle feste
in onore di Asclepio.10
SO. Non vorrai dire che11 gli Epidauri dedicano al dio anche
un agone di rapsodi!12
I. Certo che sì,13 e inoltre agoni per tutte le altre arti delle
Muse.14
SO. Ebbene?15 Vi hai preso parte per noi,16 in qualche modo?
E come ti ci sei piazzato?17
I. Abbiamo riportato il primo premio,18 Socrate!
SO. Ben detto! Su, dunque,19 cerchiamo di vincere20 anche le
Panatenee!21
I. Sì, sarà così, se un dio lo vorrà.22

SO. Davvero,23 Ione, spesso ho invidiato24 l’arte25 a voi rap


sodi. Infatti conviene26 alla vostra arte avere un corpo
sempre adorno27 e apparire belli quanto più possibile; e
insieme è necessario per voi passare la vita28 in compa
gnia di molti altri poeti, bravi,29 ma in particolare30 di
Omero, il migliore e il più divino dei poeti, e capire a
fondo il suo pensiero, non solo impararne a memoria i
versi.31 Queste sono cose invidiabili: un buon rapsodo
non potrebbe mai essere tale32 se non comprendesse33 le
cose dette dal poeta! Infatti il rapsodo deve farsi media
tore34 del pensiero del poeta per gli ascoltatori, e farlo
bene senza sapere che cosa egli intenda dire35 è impossi
bile. Queste cose, dunque, sono del tutto degne di invi
dia.36

23
IWN. 'AlhqÁ lšgeij, ð Sèkratej: ™moˆ goàn toàto ple‹ston
œrgon paršscen tÁj tšcnhj, kaˆ o%mai k£llista ¢n(
qrèpwn lšgein perˆ `Om»rou, æj oÜte MhtrÒdwroj Ð \
LamyakhnÕj oÜte Sths…mbrotoj Ð Q£sioj oÜte Gla(
Úkwn oÜte ¥lloj oÙdeˆj tîn pèpote genomšnwn œscen
e„pe‹n oÛtw poll¦j kaˆ kal¦j diano…aj perˆ `Om»rou
Ósaj ™gè.
SW. Eâ lšgeij, ð ”Iwn: dÁlon g¦r Óti oÙ fqon»seij moi ™pi(
de‹xai.
IWN. Kaˆ m¾n ¥xiÒn ge ¢koàsai, ð Sèkratej, æj eâ kekÒ(
smhka tÕn “Omhron: éste o%mai ØpÕ `Omhridîn ¥xioj
e%nai crusù stef£nJ stefanwqÁnai.
SW. Kaˆ m¾n ™gë œti poi»somai scol¾n ¢kro£sasqa… \ sou,
____________________________________________
nàn dš moi tosÒnde ¢pÒkrinai: pÒteron perˆ `Om»rou
mÒnon deinÕj e% À kaˆ perˆ `HsiÒdou kaˆ 'ArcilÒcou;
IWN. OÙdamîj, ¢ll¦ perˆ `Om»rou mÒnon: ƒkanÕn g£r moi
doke‹ e%nai.
SW. ”Esti dT perˆ Ótou “OmhrÒj te kaˆ `Hs…odoj taÙt¦ lš(
geton;
IWN. O%mai œgwge kaˆ poll£.
SW. PÒteron oân perˆ toÚtwn k£llion ¨n ™xhg»saio §
“Omhroj lšgei À § `Hs…odoj;
IWN. `Omo…wj ¨n per… ge toÚtwn, ð \ Sèkratej, perˆ ïn
taÙt¦ lšgousin.
SW. T… dT ïn pšri m¾ taÙt¦ lšgousin; oŒon perˆ mantikÁj
lšgei ti “OmhrÒj te kaˆ `Hs…odoj.
IWN. P£nu ge.
SW. T… oân; Ósa te Ðmo…wj kaˆ Ósa diafÒrwj perˆ mantikÁj
lšgeton të poiht¦ toÚtw, pÒteron sÝ k£llion ¨n
™xhg»saio À tîn m£nteèn tij tîn ¢gaqîn;
IWN. Tîn m£ntewn.
SW. E„ dT sÝ Ãsqa m£ntij, oÙk, e‡per perˆ tîn Ðmo…wj le(
gomšnwn oŒÒj t' Ãsqa ™xhg»sasqai, kaˆ perˆ tîn dia(
fÒrwj legomšnwn ºp…stw ¨n ™xhge‹sqai;
IWN. DÁlon Óti.

24
IONE

I. Dici il vero, Socrate: a me,37 proprio38 questo dell’arte ha


procurato il più gran da fare39 e penso di essere, fra gli
uomini, chi meglio sa parlare a proposito di Omero,40
poiché41 né Metrodoro di Lampsaco,42 né Stesimbroto di
Taso,43 né Glaucone,44 né alcun altro di quanti mai sono
nati ha saputo esprimere così tanti bei pensieri su Omero
quanti ne so esprimere io.
SO. Ben detto, Ione. È evidente che non rifiuterai di esibirti45
davanti a me!
I. Davvero,46 Socrate, vale la pena di ascoltare come ho
abbellito Omero: tanto che penso di meritare di essere
incoronato con una corona d’oro47 dagli Omeridi.48
SO. E davvero49 io un’altra volta mi prenderò il tempo di a
scoltarti,
____________________________________________
ma… rispondi subito a questo: sei abile solo su Omero o
anche su Esiodo e Archiloco?50
I. No, solo su Omero, e mi sembra sufficiente!
SO. Ma c’è qualche argomento su cui Omero ed Esiodo di
cono le stesse cose?
I. Penso di sì, e anche molti.
SO. Riguardo a questi, allora, sapresti spiegare meglio51 le co
se che dice Omero o quelle che dice Esiodo?
I. Lo farei ugualmente bene, almeno riguardo a quegli ar
gomenti, Socrate, su cui dicono le stesse cose.
SO. E invece riguardo a quelli su cui non dicono le stesse co
se? Ad esempio, sulla divinazione qualcosa dice Omero e
qualcosa anche Esiodo.
I. Certo.
SO. Dunque? Le cose che questi due poeti dicono nello stes
so modo e quelle che dicono in modo diverso sulla divi
nazione, sapresti spiegarle meglio tu o un indovino di
quelli bravi?
I. Un indovino.
SO. Ma se tu fossi un indovino, se davvero fossi capace di
fornire una spiegazione riguardo alle cose dette nello
stesso modo, non sapresti fornirne una anche riguardo a
quelle dette in modo diverso?52
I. Sì, è evidente.

25
SW. T… oân pote perˆ mTn `Om»rou deinÕj e%, perˆ dT `HsiÒ(
dou oÜ, oÙdT tîn ¥llwn poihtîn; À “Omhroj perˆ ¥l(
lwn tinîn lšgei À ïnper sÚmpantej oƒ ¥lloi poihta…;
oÙ perˆ polšmou te t¦ poll¦ diel»luqen kaˆ perˆ Ðmi(
liîn prÕj ¢ll»louj ¢nqrèpwn ¢gaqîn te kaˆ kakîn
kaˆ „diwtîn kaˆ dhmiourgîn, kaˆ perˆ qeîn prÕj ¢ll»(
louj kaˆ prÕj ¢nqrèpouj ÐmiloÚntwn, æj Ðmiloàsi,
kaˆ perˆ tîn oÙran…wn paqhm£twn kaˆ perˆ tîn ™n
“Aidou, kaˆ genšseij kaˆ qeîn \ kaˆ ¹rèwn; oÙ taàt£
™sti perˆ ïn “Omhroj t¾n po…hsin pepo…hken;
IWN. 'AlhqÁ lšgeij, ð Sèkratej.
SW. T… dT oƒ ¥lloi poihta…; oÙ perˆ tîn aÙtîn toÚtwn;
IWN. Na…, ¢ll', ð Sèkratej, oÙc Ðmo…wj pepoi»kasi kaˆ
“Omhroj.
SW. T… m»n; k£kion;
IWN. PolÚ ge.
SW. “Omhroj dT ¥meinon;
IWN. ”Ameinon mšntoi n¾ D…a.
SW. OÙkoàn, ð f…lh kefal¾ ”Iwn, Ótan perˆ ¢riqmoà pol(
lîn legÒntwn eŒj tij ¥rista lšgV, gnèsetai d»pou tij
\ tÕn eâ lšgonta;
IWN. Fhm….
SW. PÒteron oân Ð aÙtÕj Ósper kaˆ toÝj kakîj lšgontaj,
À ¥lloj;
IWN. `O aÙtÕj d»pou.
SW. OÙkoàn Ð t¾n ¢riqmhtik¾n tšcnhn œcwn oátÒj ™stin;
IWN. Na….
SW. T… d'; Ótan pollîn legÒntwn perˆ Øgieinîn sit…wn Ð(
po‹£ ™stin, eŒj tij ¥rista lšgV, pÒteron ›teroj mšn tij
tÕn ¥rista lšgonta gnèsetai Óti ¥rista lšgei, ›teroj
dT tÕn k£kion Óti k£kion, À Ð aÙtÒj;
IWN. DÁlon d»pou, Ð aÙtÒj.
SW. T…j oátoj; t… Ônoma aÙtù;
IWN. 'IatrÒj.

26
IONE

SO. Perché mai, allora, sei abile su Omero, ma non su Esio


do, né sugli altri poeti? Forse Omero parla di cose diver
se da quelle di cui parlano tutti gli altri poeti? Non ha
trattato per lo più di guerra e di reciproche relazioni fra
buoni e cattivi, uomini comuni e gente del mestiere, e di
dèi che intrattengono relazioni fra loro e con gli uomini,
e di come le intrattengono? E degli avvenimenti celesti e
di quelli dell’Ade, e di generazioni di dèi e di eroi? Non
sono queste le cose sulle quali Omero ha composto la
sua poesia?53
I. Dici il vero, Socrate.
SO. Perché, invece, gli altri poeti? Non hanno fatto poesia su
questi stessi argomenti?
I. Sì, Socrate, ma non lo hanno fatto nello stesso modo54 di
Omero.
SO. Come, allora? Peggio?
I. Di molto!
SO. Omero, dunque, meglio?
I. Certamente meglio, per Zeus!55
SO. Ebbene,56 Ione mio caro,57 qualora, parlando molti a
proposito del numero, uno solo ne parli in modo eccel
lente,58 qualcuno, io penso, riconoscerà chi ne parla be
ne.
I. Io dico di sì.
SO. Dunque, proprio lo stesso che riconoscerà anche quelli
che ne parlano male, o un altro?59
I. Lo stesso, senza dubbio.
SO. E non è forse colui60 che possiede l’arte aritmetica?
I. Sì.
SO. E ancora, qualora parlando molti a proposito di quali cibi
sono sani, uno solo ne parli in modo eccellente, qualcuno
riconoscerà quello che parla in modo eccellente come chi
parla in modo eccellente, qualcun altro quello che parla
peggio come chi parla peggio, o sarà lo stesso?
I. Non c’è alcun dubbio: lo stesso.
SO. E chi è costui? Qual è il suo nome?
I. Medico.

27
SW. OÙkoàn ™n kefala…J lšgomen æj Ð aÙtÕj gnèsetai
¢e…, perˆ tîn aÙtîn pollîn legÒn\twn, Óstij te eâ lš(
gei kaˆ Óstij kakîj: À e„ m¾ gnèsetai tÕn kakîj lš(
gonta, dÁlon Óti oÙdT tÕn eâ, per… ge toà aÙtoà.
IWN. OÛtwj.
SW. OÙkoàn Ð aÙtÕj g…gnetai deinÕj perˆ ¢mfotšrwn;
IWN. Na….
SW. OÙkoàn sÝ fÊj kaˆ “Omhron kaˆ toÝj ¥llouj poiht£j,
™n oŒj kaˆ `Hs…odoj kaˆ 'Arc…locÒj ™stin, per… ge tîn
aÙtîn lšgein, ¢ll' oÙc Ðmo…wj, ¢ll¦ tÕn mTn eâ ge,
toÝj dT ce‹ron;
IWN. Kaˆ ¢lhqÁ lšgw.
SW. OÙkoàn, e‡per tÕn eâ lšgonta gignè\skeij, kaˆ toÝj
ce‹ron lšgontaj gignèskoij ¨n Óti ce‹ron lšgousin.
IWN. ”Eoikšn ge.
SW. OÙkoàn, ð bšltiste, Ðmo…wj tÕn ”Iwna lšgontej perˆ
`Om»rou te deinÕn e%nai kaˆ perˆ tîn ¥llwn poihtîn
oÙc ¡marthsÒmeqa, ™peid» ge aÙtÕj ÐmologÍ tÕn aÙtÕn
œsesqai krit¾n ƒkanÕn p£ntwn Ósoi ¨n perˆ tîn aÙtîn
lšgwsi, toÝj dT poiht¦j scedÕn ¤pantaj t¦ aÙt¦ po(
ie‹n.
IWN. T… oân pote tÕ a‡tion, ð Sèkratej, Óti ™gè, Ótan mšn
tij perˆ ¥llou tou poihtoà dialšghtai, oÜte prosšcw \
tÕn noàn ¢dunatî te kaˆ Ðtioàn sumbalšsqai lÒgou
¥xion, ¢ll' ¢tecnîj nust£zw, ™peid¦n dš tij perˆ
`Om»rou mnhsqÍ, eÙqÚj te ™gr»gora kaˆ prosšcw tÕn
noàn kaˆ eÙporî Óti lšgw;
SW. OÙ calepÕn toàtÒ ge e„k£sai, ð ˜ta‹re, ¢ll¦ pantˆ
dÁlon Óti tšcnV kaˆ ™pist»mV perˆ `Om»rou lšgein
¢dÚnatoj e%: e„ g¦r tšcnV oŒÒj te Ãsqa, kaˆ perˆ tîn
¥llwn poihtîn ¡p£ntwn lšgein oŒÒj t' ¨n Ãsqa: poi(
htik¾ g£r poÚ ™stin tÕ Ólon. À oÜ;
IWN. Na….

28
IONE

SO. Dunque,61 riassumendo, diciamo che la stessa persona


riconoscerà sempre, fra molti che parlano delle stesse co
se, non solo chi parla bene, ma anche chi parla male; al
trimenti, se non riconoscerà chi parla male, è evidente
che non riconoscerà nemmeno chi parla bene, dello stes
so argomento appunto.62
I. È così.
SO. Dunque,63 la stessa persona diventa abile su entrambi?
I. Sì.
SO. E non sei tu64 a dire che sia Omero sia gli altri poeti, fra i
quali anche Esiodo e Archiloco, parlano sì degli stessi ar
gomenti, ma non nello stesso modo, bensì l’uno certa
mente bene, gli altri peggio?
I. E dico la verità.
SO. Dunque,65 se è vero che riconosci chi parla bene, dovre
sti riconoscere anche quelli che parlano peggio come
quelli che parlano peggio.
I. Almeno così sembra.66
SO. Dunque,67 mio eccellente amico,68 dicendo che Ione è
ugualmente abile su Omero e sugli altri poeti non sba
glieremo, dal momento che lui stesso è d’accordo nel di
re che la medesima persona sarà giudice competente di
tutti quanti parlano delle stesse cose, e che i poeti, per lo
più, parlano delle stesse cose.69
I. Qual è mai dunque la ragione, Socrate, per cui io, ogni
volta che qualcuno discute di un qualsiasi altro poeta,
non presto attenzione e per di più mi è impossibile met
tere insieme una qualunque cosa degna di essere detta,
ma semplicemente mi metto a sonnecchiare, mentre non
appena qualcuno richiama la <mia> memoria su Omero,
subito mi ritrovo sveglio e presto attenzione e sono pie
no di parole?70
SO. Non è affatto difficile arguirlo, amico mio. Al contrario,
è chiaro a chiunque che ti è impossibile parlare di Omero
per arte e conoscenza;71 se infatti tu fossi capace di farlo
per arte, saresti capace di parlare anche di tutti gli altri
poeti: l’arte poetica è un tutto,72 io credo. O no?
I Sì.

29
SW. OÙkoàn ™peid¦n l£bV tij kaˆ ¥llhn tšcnhn ¹ntinoàn
Ólhn, Ð aÙtÕj trÒpoj tÁj skšyewj œstai perˆ ¡pasîn
tîn tecnîn; pîj toàto lšgw, dšV t… mou ¢koàsai, ð
”Iwn;
IWN. Naˆ m¦ tÕn D…a, ð Sèkratej, œgwge: ca…rw g¦r ¢koÚwn
Ømîn tîn sofîn.
SW. Boulo…mhn ¥n se ¢lhqÁ lšgein, ð ”Iwn: ¢ll¦ sofoˆ mšn
poÚ ™ste Øme‹j oƒ mayJdoˆ kaˆ Øpokritaˆ kaˆ ïn Øme‹j
°dete t¦ poi»mata, ™gë dT oÙdTn ¥llo À t¢lhqÁ lšgw,
\ oŒon e„kÕj „dièthn ¥nqrwpon. ™peˆ kaˆ perˆ toÚtou oá
nàn ºrÒmhn se, qšasai æj faàlon kaˆ „diwtikÒn ™sti
kaˆ pantÕj ¢ndrÕj gnînai Ö œlegon, t¾n aÙt¾n e%nai
skšyin, ™peid£n tij Ólhn tšcnhn l£bV. l£bwmen g¦r tù
lÒgJ: grafik¾ g£r t…j ™sti tšcnh tÕ Ólon;
IWN. Na….
SW. OÙkoàn kaˆ grafÁj polloˆ kaˆ e„sˆ kaˆ gegÒnasin
¢gaqoˆ kaˆ faàloi;
IWN. P£nu ge.
SW. ”Hdh oân tina e%dej Óstij perˆ mTn Polugnètou toà
'Aglaofîntoj deinÒj ™stin ¢pofa…nein § eâ te gr£fei
kaˆ § m», perˆ dT tîn ¥llwn grafšwn \ ¢dÚnatoj; kaˆ
™peid¦n mšn tij t¦ tîn ¥llwn zwgr£fwn œrga ™pidei(
knÚV, nust£zei te kaˆ ¢pore‹ kaˆ oÙk œcei Óti sum(
b£lhtai, ™peid¦n dT perˆ Polugnètou À ¥llou Ótou
boÚlei tîn grafšwn ˜nÕj mÒnou dšV ¢pof»nasqai
gnèmhn, ™gr»goršn te kaˆ prosšcei tÕn noàn kaˆ eÙpo(
re‹ Óti e‡pV;
IWN. OÙ m¦ tÕn D…a, oÙ dÁta.
SW. T… dš; ™n ¢ndriantopoi…v ½dh tin' e%dej Óstij perˆ mTn
Daid£lou toà Mht…onoj \ À 'Epeioà toà Panopšwj À
Qeodèrou toà Sam…ou À ¥llou tinÕj ¢ndriantopoioà
˜nÕj pšri deinÒj ™stin ™xhge‹sqai § eâ pepo…hken, ™n
dT to‹j tîn ¥llwn ¢ndriantopoiîn œrgoij ¢pore‹ te
kaˆ nust£zei, oÙk œcwn Óti e‡pV;
IWN. OÙ m¦ tÕn D…a, oÙdT toàton ˜èraka.

30
IONE

SO. Ora,73 ogni volta che prendi in considerazione una qual


siasi altra arte come un tutto, il tipo d’esame non sarà lo
stesso che per tutte quante le arti? Hai bisogno di sentire
da me in che senso lo dico, Ione?
I. Sì, per Zeus, Socrate, certo che sì: mi piace ascoltare voi
sapienti!
SO. Vorrei che tu dicessi la verità, Ione. Ma sapienti siete
piuttosto74 voi rapsodi e attori, e coloro di cui cantate i
poemi; quanto a me, io non dico altro che la semplice ve
rità, come è naturale per un uomo comune. Questo vale
anche per la domanda che ti ho appena posto: guarda
come è mediocre e comune, e qualcosa che qualunque
uomo potrebbe capire, ciò che dicevo: che l’esame è lo
stesso ogni qualvolta uno consideri un’arte tutta intera.75
Cerchiamo di afferrarlo con un esempio: c’è un’arte della
pittura come un tutto?
I. Sì.
SO. Dunque76 ci sono e ci sono stati anche molti pittori, bra
vi e mediocri?
I. Certo.
SO. Ora, hai mai visto qualcuno che sia abile a mostrare fra le
opere di Polignoto di Aglaofonte quali sono dipinte bene
e quali no,77 ma a cui sia impossibile farlo per gli altri pit
tori? E ogni volta che qualcuno gli esibisce le opere degli
altri pittori, si mette a sonnecchiare, resta senza parole78 e
non riesce a mettere insieme nulla, mentre non appena
deve esprimere un giudizio79 su Polignoto o su qualsivo
glia pittore, ma che sia uno e uno soltanto, si ritrova sve
glio, presta attenzione ed è pieno di parole da dire?
I. No, per Zeus, no di sicuro!80
SO. E ancora, nell’ambito della scultura, hai mai visto qual
cuno che, a proposito di Dedalo di Metione, o di Epeo
di Panopeo, o di Teodoro di Samo,81 o di qualsiasi altro
scultore, purché di uno solo, sia abile a spiegare quali co
se ha fatto bene,82 mentre in mezzo alle opere degli altri
scultori resti senza parole e si metta a sonnecchiare, non
sapendo cosa dire?
I. No, per Zeus, non ho mai visto neanche questo.83

31
SW. 'All¦ m»n, éj g' ™gë o%mai, oÙd' ™n aÙl»sei ge oÙdT ™n
kiqar…sei oÙdT ™n kiqarJd…v oÙdT ™n mayJd…v oÙdepè(
pot' e%dej ¥ndra Óstij perˆ mTn 'OlÚmpou deinÒj ™stin
™xhge‹sqai À perˆ QamÚrou À perˆ \ 'Orfšwj À perˆ
Fhm…ou toà 'Iqakhs…ou mayJdoà, perˆ dT ”Iwnoj toà
'Efes…ou [mayJdoà] ¢pore‹ kaˆ oÙk œcei sumbalšsqai
¤ te eâ mayJde‹ kaˆ § m».
IWN. OÙk œcw soi perˆ toÚtou ¢ntilšgein, ð Sèkratej: ¢ll'
™ke‹no ™mautù sÚnoida, Óti perˆ `Om»rou k£llist'
¢nqrèpwn lšgw kaˆ eÙporî kaˆ oƒ ¥lloi p£ntej mš
fasin eâ lšgein, perˆ dT tîn ¥llwn oÜ. ka…toi Óra
toàto t… œstin.
SW. Kaˆ Ðrî, ð ”Iwn, kaˆ œrcoma… gš soi ¢pofanoÚ\menoj Ó
moi doke‹ toàto e%nai.
____________________________________________
œsti g¦r toàto tšcnh mTn oÙk ×n
par¦ soˆ perˆ `Om»rou eâ lšgein, Ö nund¾ œlegon, qe…a
dT dÚnamij ¼ se kine‹, ésper ™n tÍ l…qJ ¿n EÙrip…dhj
mTn MagnÁtin çnÒmasen, oƒ dT polloˆ `Hrakle…an. kaˆ
g¦r aÛth ¹ l…qoj oÙ mÒnon aÙtoÝj toÝj daktul…ouj
¥gei toÝj sidhroàj, ¢ll¦ kaˆ dÚnamin ™nt…qhsi to‹j
daktul…oij ést' aâ dÚnasqai taÙtÕn toàto poie‹n Óper
¹ l…qoj, ¥llouj \ ¥gein daktul…ouj, ést' ™n…ote Ðrma(
qÕj makrÕj p£nu sidhr…wn kaˆ daktul…wn ™x ¢ll»lwn
½rthtai: p©si dT toÚtoij ™x ™ke…nhj tÁj l…qou ¹ dÚna(
mij ¢n»rthtai. oÛtw dT kaˆ ¹ Moàsa ™nqšouj mTn poie‹
aÙt», di¦ dT tîn ™nqšwn toÚtwn ¥llwn ™nqousiazÒn(
twn ÐrmaqÕj ™xart©tai. p£ntej g¦r o† te tîn ™pîn
poihtaˆ oƒ ¢gaqoˆ oÙk ™k tšcnhj ¢ll' œnqeoi Ôntej kaˆ
katecÒmenoi p£nta taàta t¦ kal¦ lšgousi poi»mata,
kaˆ oƒ melopoioˆ oƒ ¢gaqoˆ æsaÚtwj, ésper oƒ ko(
ru\bantiîntej oÙk œmfronej Ôntej Ñrcoàntai, oÛtw kaˆ
oƒ melopoioˆ oÙk œmfronej Ôntej t¦ kal¦ mšlh taàta
poioàsin, ¢ll' ™peid¦n ™mbîsin e„j t¾n ¡rmon…an kaˆ
e„j tÕn muqmÒn, bakceÚousi kaˆ katecÒmenoi, ésper aƒ
b£kcai ¢rÚontai ™k tîn potamîn mšli kaˆ g£la kate(

32
IONE

SO. Ma certo, io credo, nemmeno nell’auletica, nella citaristi


ca, nella citarodia e nella rapsodia hai mai visto un uomo
che sia abile a dare una spiegazione di Olimpo, di Tamiri,
di Orfeo o di Femio, il rapsodo di Itaca,84 e che invece su
Ione di Efeso resti senza parole e non riesca a distingue
re le opere che ha recitato bene da quelle che non ha re
citato bene.
I. Su questo non posso contraddirti, Socrate, ma di quello
<che ti dicevo> sono consapevole: che parlo di Omero
meglio di chiunque altro e sono pieno di parole e tutti
dicono che io parlo bene, mentre non lo dicono <quan
do parlo> degli altri <poeti>.85 Ma vedi tu la ragione di
questo.
SO. La vedo, Ione, e mi appresto a mostrare anche a te quale
mi pare che sia.
____________________________________________
È questa: non è un’arte da parte tua parlare bene di O
mero, come dicevo poco fa, ma una forza divina86 è
quella che ti muove, come nella pietra che Euripide
chiamò Magnete, i più invece Eraclea.87 E infatti questa
pietra non solo attrae gli anelli, essi stessi di ferro, ma in
fonde anche una forza in essi, tale che a loro volta pos
sano esercitare lo stesso potere della pietra: attrarre altri
anelli. E così talvolta si forma una catena davvero lunga
di anelli di ferro, che dipendono gli uni dagli altri; ma è
da quella pietra che dipende per ognuno la forza.88 Nello
stesso modo, anche la Musa rende, essa stessa,89 ispirati;
poi, tramite questi ispirati si forma una catena di altri
presi da entusiasmo.90 Infatti tutti i poeti epici, quelli bra
vi,91 non per arte, ma perché ispirati e posseduti92 recita
no tutti quei bei93 poemi, e lo stesso i poeti melici, quelli
bravi: come coloro che partecipano ai riti coribantici94
non danzano quando sono in senno, così anche i poeti
melici non compongono, in senno, i loro bei canti, ma
non appena muovono un passo seguendo l’armonia e il
ritmo sono presi da furore bacchico e posseduti. Come le
Baccanti attingono miele e latte dai fiumi quando sono

33
cÒmenai, œmfronej dT oâsai oÜ, kaˆ tîn melopoiîn ¹
yuc¾ toàto ™rg£zetai, Óper aÙtoˆ lšgousi. Lšgousi
g¦r d»pouqen prÕj ¹m©j oƒ poihtaˆ Óti \ ¢pÕ krhnîn
melirrÚtwn ™k Mousîn k»pwn tinîn kaˆ napîn drepÒ(
menoi t¦ mšlh ¹m‹n fšrousin ésper aƒ mšlittai, kaˆ
aÙtoˆ oÛtw petÒmenoi: kaˆ ¢lhqÁ lšgousi. Koàfon g¦r
crÁma poiht»j ™stin kaˆ pthnÕn kaˆ ƒerÒn, kaˆ oÙ prÒ(
teron oŒÒj te poie‹n prˆn ¨n œnqeÒj te gšnhtai kaˆ
œkfrwn kaˆ Ð noàj mhkšti ™n aÙtù ™nÍ: ›wj d' ¨n toutˆ
œcV tÕ ktÁma, ¢dÚnatoj p©j poie‹n ¥nqrwpÒj ™stin kaˆ
crhsmJde‹n. ¤te oân oÙ tšcnV poioàntej kaˆ poll¦ lš(
gontej kaˆ kal¦ perˆ \ tîn pragm£twn, ésper sÝ perˆ
`Om»rou, ¢ll¦ qe…v mo…rv, toàto mÒnon oŒÒj te ›kastoj
poie‹n kalîj ™f' Ö ¹ Moàsa aÙtÕn érmhsen, Ð mTn di(
qur£mbouj, Ð dT ™gkèmia, Ð dT Øporc»mata, Ð d' œph, Ð
d' „£mbouj: t¦ d' ¥lla faàloj aÙtîn ›kastÒj ™stin. oÙ
g¦r tšcnV taàta lšgousin ¢ll¦ qe…v dun£mei, ™pe…, e„
perˆ ˜nÕj tšcnV kalîj ºp…stanto lšgein, k¨n perˆ tîn
¥llwn ¡p£ntwn: di¦ taàta dT Ð qeÕj ™xairoÚmenoj to
Útwn tÕn noàn toÚtoij crÁtai Øphrštaij kaˆ \ to‹j
crhsmJdo‹j kaˆ to‹j m£ntesi to‹j qe…oij, †na ¹me‹j oƒ
¢koÚontej e„dîmen Óti oÙc oáto… e„sin oƒ taàta lšgon(
tej oÛtw polloà ¥xia, oŒj noàj m¾ p£restin, ¢ll' Ð
qeÕj aÙtÒj ™stin Ð lšgwn, di¦ toÚtwn dT fqšggetai
prÕj ¹m©j. mšgiston dT tekm»rion tù lÒgJ TÚnnicoj Ð
CalkideÚj, Öj ¥llo mTn oÙdTn pèpote ™po…hse po…hma
Ótou tij ¨n ¢xièseien mnhsqÁnai, tÕn dT pa…wna Ön
p£ntej °dousi, scedÒn ti p£ntwn melîn k£lliston,
¢tecnîj, Óper aÙtÕj lšgei, \ eÛrhm£ ti Mois©n. ™n to(
ÚtJ g¦r d¾ m£list£ moi doke‹ Ð qeÕj ™nde…xasqai ¹m‹n,
†na m¾ dist£zwmen, Óti oÙk ¢nqrèpin£ ™stin t¦ kal¦
taàta poi»mata oÙdT ¢nqrèpwn, ¢ll¦ qe‹a kaˆ qeîn,
oƒ dT poihtaˆ oÙdTn ¢ll' À ˜rmhnÁj e„sin tîn qeîn, ka(
tecÒmenoi ™x Ótou ¨n ›kastoj katšchtai. taàta ™ndei(
knÚmenoj Ð qeÕj ™xep…thdej di¦ toà faulot£tou \ poi(
htoà tÕ k£lliston mšloj Ïsen: À oÙ dokî soi ¢lhqÁ
lšgein, ð ”Iwn;

34
IONE

possedute, ma non quando sono in senno, così fa anche


l’anima dei poeti melici, come essi stessi dicono. Infatti i
poeti ci dicono proprio che, dopo aver attinto i loro canti
da fonti che fanno colare miele, in certi giardini e valli
boscose delle Muse, a noi li portano come le api, anch’es
si a volo.95 E dicono la verità. Cosa leggera, infatti, è il
poeta e alata e sacra, e incapace di poetare prima di esse
re ispirato e fuori di senno, la mente non più in lui. Fin
tanto che ne mantenga il possesso, a ogni uomo è impos
sibile comporre versi e dare oracoli.96 Poiché, dunque,
non per arte poetano e dicono molte belle cose sui loro
argomenti, come fai tu su Omero, ma per sorte divina,97
ognuno è capace di comporre bene solo ciò a cui la Musa
lo spinge – chi ditirambi, chi encomi, chi iporchemi, chi
poemi epici, chi giambi – mentre negli altri <generi> cia
scuno di loro è mediocre.98 Non per arte, infatti, dicono
queste cose, ma per una forza divina, poiché, se sapesse
ro parlare bene per arte di una cosa, saprebbero parlare
bene anche di tutte le altre.99 Per questa ragione il dio,
togliendo loro la mente, li usa come servitori, come colo
ro che danno gli oracoli e i profeti, quelli divini: perché
noi ascoltatori possiamo sapere che non sono costoro a
dire cose di così alto valore, privi come sono della mente,
ma è il dio stesso che parla e tramite loro esprime parole
per noi.100 La prova più forte a favore di ciò che dico è
Tinnico di Calcide,101 il quale non compose mai alcun al
tro poema che qualcuno riterrebbe degno di essere ricor
dato, oltre al peana che tutti cantano, forse i più bello di
tutti i canti, «semplicemente» – come lui stesso dice –
«un’invenzione delle Muse».102 Soprattutto in questo, in
fatti, mi sembra che il dio ci mostri, affinché non ne du
bitiamo più, che questi bei poemi non sono cose umane
né possibili per gli uomini, ma divine e proprie degli dèi,
e che i poeti non sono altro che mediatori degli dèi, cia
scuno posseduto da quel dio che lo possiede. Per mo
strare questo, il dio di proposito ha cantato il più bel can
to tramite il poeta più mediocre.103 Non ti sembra forse
che io dica il vero, Ione?

35
IWN. Naˆ m¦ tÕn D…a, œmoige: ¤ptei g£r pèj mou to‹j lÒgoij
tÁj yucÁj, ð Sèkratej, ka… moi dokoàsi qe…v mo…rv
¹m‹n par¦ tîn qeîn taàta oƒ ¢gaqoˆ poihtaˆ ˜rmhne(
Úein.
SW. OÙkoàn Øme‹j aâ oƒ mayJdoˆ t¦ tîn poihtîn ˜rmhne(
Úete;
IWN. Kaˆ toàto ¢lhqTj lšgeij.
SW. OÙkoàn ˜rmhnšwn ˜rmhnÁj g…gnesqe;
IWN. Pant£pas… ge.
SW. ”Ece d» moi tÒde e„pš, ð ”Iwn, kaˆ m¾ ¢pokrÚyV Óti ¥n
se œrwmai: Ótan eâ e‡pVj œph kaˆ ™kpl»xVj m£lista
toÝj qewmšnouj, À tÕn 'Odussša Ótan ™pˆ tÕn oÙdÕn
™fallÒmenon °dVj, ™kfanÁ gignÒmenon to‹j mnhstÁrsi
kaˆ ™kcšonta toÝj ÑistoÝj prÕ tîn podîn, À 'Acillša
™pˆ tÕn “Ektora Ðrmînta, À kaˆ tîn perˆ 'Androm£chn
™leinîn ti À perˆ `Ek£bhn À perˆ Pr…amon, tÒte pÒteron
œmfrwn e% À œxw \ sautoà g…gnV kaˆ par¦ to‹j pr£g(
masin o‡eta… sou e%nai ¹ yuc¾ oŒj lšgeij ™nqousi£(
zousa, À ™n 'Iq£kV oâsin À ™n Tro…v À Ópwj ¨n kaˆ t¦
œph œcV;
IWN. `Wj ™nargšj moi toàto, ð Sèkratej, tÕ tekm»rion e%pej:
oÙ g£r se ¢pokruy£menoj ™rî. ™gë g¦r Ótan ™leinÒn
ti lšgw, dakrÚwn ™mp…mplanta… mou oƒ Ñfqalmo…: Ótan
te foberÕn À deinÒn, Ñrqaˆ aƒ tr…cej †stantai ØpÕ fÒ(
bou kaˆ ¹ kard…a phd´.
SW. T… oân; fîmen, ð ”Iwn, œmfrona e%nai tÒte toàton tÕn
¥nqrwpon, Öj ¨n kekosmhmšnoj ™sqÁti poik…lV kaˆ
cruso‹si stef£noij kl£V t' ™n qus…aij kaˆ ˜orta‹j,
mhdTn ¢polwlekëj toÚtwn, À fobÁtai plšon À ™n di(
smur…oij ¢nqrèpoij ˜sthkëj fil…oij, mhdenÕj ¢podÚ(
ontoj mhdT ¢dikoàntoj;
IWN. OÙ m¦ tÕn D…a, oÙ p£nu, ð Sèkratej, éj ge t¢lhqTj
e„rÁsqai.
SW. O%sqa oân Óti kaˆ tîn qeatîn toÝj polloÝj taÙt¦
taàta Øme‹j ™rg£zesqe;

36
IONE

I. Sì, per Zeus, mi sembra proprio: in qualche modo mi


tocchi l’anima104 con le tue parole, Socrate, e mi sembra
che per sorte divina i buoni poeti medino queste cose per
noi da parte degli dèi.
SO. E voi rapsodi, per parte vostra, non mediate forse105 le
opere dei poeti?
I. Anche in questo dici il vero.
SO. Dunque106 siete mediatori di mediatori? 107
I. Assolutamente sì.
SO. Allora tieni fermo questo, Ione, e non nascondermi nulla
nel rispondere a ciò che ti chiedo: quando reciti bene
versi epici e stordisci fortemente gli spettatori – che tu
canti Odisseo che balza sulla soglia rivelandosi ai preten
denti e spargendo le frecce ai suoi piedi, o Achille che si
lancia su Ettore, o anche uno dei brani pietosi su An
dromaca, su Ecuba o su Priamo – in quel momento sei
in senno o fuori di te e la tua anima, presa da entusiasmo,
crede di trovarsi in mezzo ai fatti di cui narri, che si svol
gano a Itaca, a Troia o in qualunque luogo i versi rac
chiudano? 108
I. Come è evidente per me, Socrate, questa prova109 che mi
dai: certo risponderò senza nasconderti nulla. In effetti,
quando dico qualcosa di pietoso i miei occhi si riempio
no di lacrime, quando qualcosa di pauroso o terribile i
capelli mi si rizzano in testa dalla paura e il cuore sobbal
za.110
SO. E allora? Diremo, Ione, che in tal caso è in senno
quest’uomo che, adorno di una veste variopinta e di co
rone d’oro,111 piange durante i sacrifici o alle feste senza
aver perduto alcuno di questi ornamenti, o trema di pau
ra trovandosi di fronte a più di ventimila persone amiche,
senza che nessuno lo spogli o gli faccia torto?
I. No, per Zeus, niente affatto Socrate, a dire proprio il ve
ro! 112
SO. E tu sai che voi rapsodi producete questi stessi effetti an
che sulla maggior parte degli spettatori?113

37
IWN. Kaˆ m£la kalîj o%da: kaqorî g¦r ˜k£stote aÙtoÝj
¥nwqen ¢pÕ toà b»matoj kl£ont£j te kaˆ deinÕn ™m(
blšpontaj kaˆ sunqamboàntaj to‹j legomšnoij. de‹ g£r
me kaˆ sfÒdr' aÙto‹j tÕn noàn prosšcein: æj ™¦n mTn
kl£ontaj aÙtoÝj kaq…sw, aÙtÕj gel£somai ¢rgÚrion
lamb£nwn, ™¦n dT gelîntaj, aÙtÕj klaÚsomai ¢rgÚ(
rion ¢pollÚj.
SW. O%sqa oân Óti oátÒj ™stin Ð qeat¾j tîn daktul…wn Ð
œscatoj, ïn ™gë œlegon ØpÕ tÁj `Hrakleiètidoj l…qou
¢p' ¢ll»lwn t¾n dÚnamin lamb£nein; Ð dT mšsoj sÝ Ð \
mayJdÕj kaˆ Øpokrit»j, Ð dT prîtoj aÙtÕj Ð poiht»j:
Ð dT qeÕj di¦ p£ntwn toÚtwn ›lkei t¾n yuc¾n Ópoi ¨n
boÚlhtai tîn ¢nqrèpwn, ¢nakremannÝj ™x ¢ll»lwn
t¾n dÚnamin. kaˆ ésper ™k tÁj l…qou ™ke…nhj ÐrmaqÕj
p£mpoluj ™x»rthtai coreutîn te kaˆ didask£lwn kaˆ
Øpodidask£lwn, ™k plag…ou ™xhrthmšnwn tîn tÁj Mo(
Úshj ™kkremamšnwn daktul…wn. kaˆ Ð mTn tîn poihtîn
™x ¥llhj MoÚshj, Ð dT ™x ¥llhj ™x»rthtai Ñnom£zomen
dT aÙtÕ katšcetai, tÕ dš \ ™sti parapl»sion: œcetai
g£r ™k dT toÚtwn tîn prètwn daktul…wn, tîn poihtîn,
¥lloi ™x ¥llou aâ ºrthmšnoi e„sˆ kaˆ ™nqousi£zousin,
oƒ mTn ™x 'Orfšwj, oƒ dT ™k Mousa…ou: oƒ dT polloˆ ™x
`Om»rou katšconta… te kaˆ œcontai. ïn sÚ, ð ”Iwn, eŒj
e% kaˆ katšcV ™x `Om»rou, kaˆ ™peid¦n mšn tij ¥llou
tou poihtoà °dV, kaqeÚdeij te kaˆ ¢pore‹j Óti lšgVj,
™peid¦n dT toÚtou toà poihtoà fqšgxhta… tij mšloj,
eÙqÝj ™gr»goraj kaˆ Ñrce‹ta… sou ¹ yuc¾ kaˆ eÙpo(
re‹j Óti \ lšgVj: oÙ g¦r tšcnV oÙd' ™pist»mV perˆ
`Om»rou lšgeij § lšgeij, ¢ll¦ qe…v mo…rv kaˆ kato(
kwcÍ, ésper oƒ korubantiîntej ™ke…nou mÒnou
a„sq£nontai toà mšlouj Ñxšwj Ö ¨n ÃÄ toà qeoà ™x Ótou
¨n katšcwntai, kaˆ e„j ™ke‹no tÕ mšloj kaˆ schm£twn
kaˆ mhm£twn eÙporoàsi, tîn dT ¥llwn oÙ front…zou(
sin: oÛtw kaˆ sÚ, ð ”Iwn, perˆ mTn `Om»rou Ótan tij
mnhsqÍ, eÙpore‹j, perˆ dT tîn ¥llwn ¢pore‹j: \ toÚtou
d' ™stˆ tÕ a‡tion, Ó m' ™rwt´j, di' Óti sÝ perˆ mTn
`Om»rou eÙpore‹j, perˆ dT tîn ¥llwn oÜ, Óti oÙ tšcnV
¢ll¦ qe…v mo…rv `Om»rou deinÕj e% ™painšthj.

38
IONE

I. Lo so, e molto bene: infatti li osservo, ogni volta,


dall’alto della pedana, e li vedo piangere e lanciare sguar
di atterriti e partecipare dello stupore per le cose dette. E
bisogna che io presti loro tutta la mia attenzione, perché
se li dispongo al pianto, riderò io per il denaro che otter
rò, se al riso, sarò io a piangere per il denaro perso.114
SO. E tu sai che questo, lo spettatore, è l’ultimo degli anelli di
cui io dicevo che ricevono l’uno dall’altro la forza che
deriva dalla pietra Eraclea? Quello di mezzo sei tu, il rap
sodo e attore, il primo il poeta stesso. Ma è il dio che at
traverso tutti questi <anelli> attira l’anima degli uomini
ovunque voglia,115 facendo dipendere la forza dell’uno da
quella dell’altro. E come da quella pietra, pende una ca
tena molto lunga di coreuti, direttori di coro e assistenti
direttori, appesi di lato agli anelli che dipendono dalla
Musa. E un poeta dipende da una Musa, uno da un’altra
– noi diciamo allora che egli è posseduto, il che è assai
simile al vero: infatti è tenuto –116 e da questi primi anelli,
i poeti, altri pendono a loro volta e sono presi da entusia
smo, l’uno ad opera di Orfeo, l’altro ad opera di Museo,
ma i più sono posseduti e tenuti da Omero. Tu, Ione, sei
uno di questi ultimi e sei posseduto da Omero, e ogni
volta che uno canta di un altro poeta ti metti a sonnec
chiare e non trovi parole da dire, mentre non appena
qualcuno fa risuonare un canto di questo poeta, eccoti
subito sveglio, la tua anima si mette a danzare e di parole
da dire sei pieno: infatti non per arte né per conoscenza
tu dici ciò che dici su Omero, ma per sorte divina e pos
sessione.117 Come coloro che partecipano ai riti coriban
tici sentono acutamente solo quel canto che proviene dal
dio da cui sono posseduti e per quel canto sono pieni di
figure e formule, degli altri invece non si danno pensie
ro,118 così anche tu, Ione, non appena qualcuno richiama
la <tua> memoria su Omero sei pieno di parole, ma se si
tratta degli altri ne resti privo. E questa è la ragione che
mi chiedevi per cui su Omero sei pieno di parole, sugli
altri invece no: che non per arte ma per sorte divina sei
un mirabile elogiatore di Omero.119

39
IWN. SÝ mTn eâ lšgeij, ð Sèkratej: qaum£zoimi ment¨n e„
oÛtwj eâ e‡poij, éste me ¢nape‹sai æj ™gë katecÒme(
noj kaˆ mainÒmenoj “Omhron ™painî. o%mai dT oÙd' ¨n
soˆ dÒxaimi, e‡ mou ¢koÚsaij lšgontoj perˆ `Om»rou.
SW. Kaˆ m¾n ™qšlw ge ¢koàsai,
____________________________________________
oÙ mšntoi prÒteron \ prˆn
¥n moi ¢pokr…nV tÒde: ïn “Omhroj lšgei perˆ t…noj eâ
lšgeij; oÙ g¦r d»pou perˆ ¡p£ntwn ge.
IWN. Eâ ‡sqi, ð Sèkratej, perˆ oÙdenÕj Ótou oÜ.
SW. OÙ d»pou kaˆ perˆ toÚtwn ïn sÝ mTn tugc£neij oÙk
e„dèj, “Omhroj dT lšgei.
IWN. Kaˆ taàta po‹£ ™stin § “Omhroj mTn lšgei, ™gë dT oÙk
o%da;
SW. OÙ kaˆ perˆ tecnîn mšntoi lšgei pollacoà “Omhroj
kaˆ poll£; oŒon kaˆ perˆ ¹nioce…as ™¦n mnhsqî t¦
œph, ™gè soi fr£sw.
IWN. 'All' ™gë ™rî: ™gë g¦r mšmnhmai.
SW. E„pT d» moi § lšgei Nšstwr 'AntilÒcJ tù Øe‹, parai(
nîn eÙlabhqÁnai perˆ t¾n kamp¾n ™n tÍ ƒppodrom…v tÍ
™pˆ PatrÒklJ.

IWN. KlinqÁnai dš, fhs…, kaˆ aÙtÕj ™uxšstJ ™nˆ d…frJ


Ãk' ™p' ¢rister¦ to‹in: ¢t¦r tÕn dexiÕn †ppon
kšnsai Ðmokl»saj, e%xa… tš oƒ ¹n…a cers…n.
™n nÚssV dš toi †ppoj ¢risterÕj ™gcrimfq»tw,
æj ¥n toi pl»mnh ge do£ssetai ¥kron ƒkšsqai
kÚklou poihto‹o: l…qou d' ¢lšasqai ™paure‹n.

SW. 'Arke‹. taàta d», ð ”Iwn, t¦ œph e‡te Ñrqîj lšgei “O(
hroj e‡te m», pÒteroj ¨n gno…h ¥meinon, „atrÕj À ¹n…(
ocoj;
IWN. `Hn…ocoj d»pou.
SW. PÒteron Óti tšcnhn taÚthn œcei À kat' ¥llo ti;
IWN. OÜk, ¢ll' Óti tšcnhn.

40
IONE

I. Tu dici bene, Socrate; sarei stupito, tuttavia, se parlassi


bene a tal punto da persuadermi che io sono posseduto e
folle quando elogio Omero.120 Anzi, penso che non lo
sembrerei neanche a te, se mi ascoltassi parlare di Ome
ro.
SO. E vorrei proprio ascoltarti…
____________________________________________
… non prima tuttavia che tu risponda a questa domanda:
fra gli argomenti di cui tratta Omero, di quale parli bene?
Certo non di tutti!121
I. Sappilo, Socrate, non ce n’è uno di cui io non parli bene.
SO. Non certo anche di quelli che capita che tu non sappia,122
ma che Omero dice.
I. E quali sono queste cose che Omero dice e che io non
so?
SO. Ebbene, non parla anche delle arti,123 Omero, spesso e in
abbondanza? Ad esempio dell’arte dell’auriga – se riesco
a ricordare i versi, te li esporrò.
I. Ma li dirò io: io me li ricordo!124
SO. Recitami allora ciò che dice Nestore al figlio Antiloco,
raccomandandogli di fare attenzione alla girata nella gara
equestre in onore di Patroclo.

I. «Piegati», gli dice, «tu stesso nel carro ben levigato,


un po’ a sinistra dei due cavalli; il cavallo di destra
sprona e incita e con le mani allenta la briglia.
Il tuo cavallo sinistro, invece, giri rasente la meta,
sì che ti sembri quasi ne raggiunga il bordo il mozzo
della ruota ben fatta. Ma evita di toccare la pietra».125

SO. Basta così. Allora, Ione, se Omero parla correttamente in


questi versi oppure no, chi saprebbe riconoscerlo meglio:
un medico o un auriga?126
I. Un auriga, senza dubbio.
SO. Perché possiede quest’arte o per qualche altro motivo?
I. No, perché possiede l’arte.

41
SW. OÙkoàn ˜k£stV tîn tecnîn ¢podšdota… ti ØpÕ toà qe(
oà œrgon o†v te e%nai gignèskein; oÙ g£r pou § kuber(
nhtikÍ gignèskomen, gnwsÒmeqa kaˆ „atrikÍ.
IWN. OÙ dÁta.
SW. OÙdš ge § „atrikÍ, taàta kaˆ tektonikÍ.
IWN. OÙ dÁta.
SW. OÙkoàn oÛtw kaˆ kat¦ pasîn tîn tecnîn, § tÍ ˜tšrv
tšcnV gignèskomen, oÙ gnwsÒmeqa tÍ ˜tšrv; tÒde dš
moi prÒteron toÚtou ¢pÒkrinai: t¾n mTn ˜tšran fÊj
e%na… tina tšcnhn, t¾n d' ˜tšran;
IWN. Na….
SW. ’Ara ésper ™gë tekmairÒmenoj, Ótan ¹ mTn ˜tšrwn
pragm£twn ÃÄ ™pist»mh, ¹ d' ˜tšrwn, oÛtw kalî t¾n
mTn ¥llhn, t¾n dT ¥llhn \ tšcnhn, oÛtw kaˆ sÚ;
IWN. Na….
SW. E„ g£r pou tîn aÙtîn pragm£twn ™pist»mh e‡h tij, t…
¨n t¾n mTn ˜tšran fa‹men e%nai, t¾n d' ˜tšran, ÐpÒte ge
taÙt¦ e‡h e„dšnai ¢p' ¢mfotšrwn; ésper ™gè te gi(
gnèskw Óti pšnte e„sˆn oátoi oƒ d£ktuloi, kaˆ sÚ, è(
sper ™gè, perˆ toÚtwn taÙt¦ gignèskeij: kaˆ e‡ se ™gë
™ro…mhn e„ tÍ aÙtÍ tšcnV gignèskomen tÍ ¢riqmhtikÍ
t¦ aÙt¦ ™gè te kaˆ sÝ À ¥llV, fa…hj ¨n d»pou tÍ aÙ(
tÍ.
IWN. Na….
SW. •O to…nun ¥rti œmellon ™r»sesqa… se, nunˆ e„pš, e„
kat¦ pasîn tîn tecnîn oÛtw soi doke‹, tÍ mTn aÙtÍ
tšcnV t¦ aÙt¦ ¢nagka‹on e%nai gignèskein, tÍ d' ˜tšrv
m¾ t¦ aÙt£, ¢ll' e‡per ¥llh ™st…n, ¢nagka‹on kaˆ
›tera gignèskein.
IWN. OÛtw moi doke‹, ð Sèkratej.
SW. OÙkoàn Óstij ¨n m¾ œcV tin¦ tšcnhn, taÚthj tÁj
tšcnhj t¦ legÒmena À prattÒmena kalîj gignèskein
oÙc oŒÒj t' œstai;
IWN. 'AlhqÁ lšgeij.

42
IONE

SO. E non è stata forse127 concessa dal dio a ciascuna delle


arti la funzione di conoscere un oggetto determinato?
Perché di certo ciò che conosciamo con l’arte del pilota
non lo conosceremo anche con quella del medico.
I. Certamente no.
SO. Né ciò che conosciamo con l’arte del medico con quella
del carpentiere.128
I. No di certo.
SO. E non è forse129 così anche per tutte le arti,130 che ciò che
conosciamo con una non lo conosceremo con un’altra?
Prima di rispondere, però, dimmi questo: tu ammetti che
una determinata arte sia diversa da un’altra?
I. Sì.
SO. Forse come faccio io, che quando un’arte è scienza di
certi oggetti, un’altra di altri, me ne servo come prova per
chiamare l’una in un modo, l’altra in un altro, così fai an
che tu?131
I. Sì.
SO. Infatti se mai vi fosse una qualche scienza degli stessi og
getti di cui è scienza un’altra, come potremmo ammettere
che si tratta di due scienze differenti, dal momento che
sarebbe possibile sapere le stesse cose per mezzo di en
trambe? Ad esempio, io so che queste dita sono cinque, e
tu, come me, conosci le stesse cose su di esse; e se io ti
chiedessi se queste stesse cose tu ed io le conosciamo per
mezzo della stessa arte, quella aritmetica, o se tu le cono
sci per mezzo di un’altra, ammetteresti di certo che è per
mezzo della stessa.
I. Sì.
SO. Rispondi, dunque, ora a ciò che ero sul punto di doman
darti poco fa, se ti sembra che per tutte quante le arti sia
così: con la stessa arte si conoscono necessariamente le
stesse cose, con un’altra non le stesse, ma, poiché è di
versa, si conoscono necessariamente cose diverse.132
I. Così mi sembra, Socrate.
SO. Dunque,133 chiunque non possieda una determinata arte
non sarà capace di conoscere bene le parole o le opere di
quell’arte?134
I. Dici il vero.

43
SW. PÒteron oân perˆ tîn ™pîn ïn e%pej, e‡te kalîj lšgei
“Omhroj e‡te m», sÝ k£llion gnèsV À ¹n…ocoj;
IWN. `Hn…ocoj.
SW. `RayJdÕj g£r pou e% ¢ll' oÙc ¹n…ocoj.
IWN. Na….
SW. `H dT mayJdik¾ tšcnh ˜tšra ™stˆ tÁj ¹niocikÁj;
IWN. Na….
SW. E„ ¥ra ˜tšra, perˆ ˜tšrwn kaˆ ™pist»mh pragm£twn
™st…n.
IWN. Na….
SW. T… dT d¾ Ótan “Omhroj lšgV æj tetrwmšnJ tù Mac£oni
`Ekam»dh ¹ Nšstoroj pallak¾ kukeîna p…nein \
d…dwsi; kaˆ lšgei pwj oÛtwj(

o‡nJ pramne…J, fhs…n, ™pˆ d' a‡geion knÁ turÕn


kn»sti calke…V: par¦ dT krÒmuon potù Ôyon:

taàta e‡te Ñrqîj lšgei “Omhroj e‡te m», pÒteron „a(


trikÁj ™sti diagnînai kalîj À mayJdikÁj;
IWN. 'IatrikÁj.
SW. T… dš, Ótan lšgV “Omhroj(

¹ dT molubda…nV „kšlh ™j bussÕn †kanen,


¼ te kat' ¢graÚloio boÕj kšraj ™mmemau‹a
œrcetai çmhstÍsi met' „cqÚsi pÁma fšrousa:

taàta pÒteron fîmen ¡lieutikÁj e%nai tšcnhj m©llon


kr‹nai À mayJdikÁj, ¤tta lšgei kaˆ e‡te kalîj e‡te
m»;
IWN. DÁlon d», ð Sèkratej, Óti ¡lieutikÁj.
SW. Skšyai d», soà ™romšnou, e„ œroiÒ me: 'Epeid¾ \ to…nun,
ð Sèkratej, toÚtwn tîn tecnîn ™n `Om»rJ eØr…skeij §
pros»kei ˜k£stV diakr…nein, ‡qi moi œxeure kaˆ t¦ toà
m£nteèj te kaˆ mantikÁj, po‹£ ™stin § pros»kei aÙtù
o†J t' e%nai diagignèskein, e‡te eâ e‡te kakîj pe(
po…htai skšyai æj mvd…wj te kaˆ ¢lhqÁ ™gè soi
¢pokrinoàmai. pollacoà mTn g¦r kaˆ ™n 'Odusse…v lš(

44
IONE

SO. Allora, riguardo a quei versi che hai recitato, lo saprai


meglio tu o un auriga se Omero dice bene o no?135
I. Un auriga.
SO. Perché di certo tu sei un rapsodo, ma non un auriga.
I. Sì.
SO. E l’arte del rapsodo è diversa da quella dell’auriga?
I. Sì.
SO. Se, dunque, è diversa, è anche scienza di oggetti diversi.
I. Sì.
SO. E allora, quando Omero dice come Ecamede, concubina
di Nestore, dia da bere il ciceone a Macaone ferito? E di
ce più o meno così:

«…con vino di Pramno», afferma, «vi grattò sopra


formaggio di capra / con una bronzea grattugia; e
accanto una cipolla per accompagnare la bevan
da».136

Queste cose, se Omero le dice correttamente oppure no,


è proprio dell’arte del medico o di quella del rapsodo di
stinguerlo bene?137
I. Di quella del medico.
SO. E ancora, quando Omero dice:

«guadagnò il fondo come un pezzo di piombo


che lungo il corno di un bue selvaggio desideroso
scende di portare sventura tra i pesci voraci»,138

diremo che è proprio dell’arte del pescatore o di quella


del rapsodo giudicare in modo più certo cosa significano
queste parole, e se <Omero> parla bene o no?139
I. Chiaramente, Socrate, di quella del pescatore.
SO. Considera, allora, se fossi tu a interrogare e mi chiedessi:
«Socrate, dal momento che tu scopri, in Omero, le cose
che a ciascuna di queste arti è proprio giudicare, su, tro
vami anche quelle dell’indovino e della sua arte, quali so
no quelle di cui gli è proprio distinguere se sono compo
ste bene o male»;140 considera come ti risponderò con
facilità e verità. Spesso, infatti, <Omero> ne parla nell’

45
gei, oŒon kaˆ § Ð tîn Melampodidîn lšgei m£ntij prÕj
toÝj mnhstÁraj, QeoklÚmenoj(

daimÒnioi, t… kakÕn tÒde p£scete; nuktˆ mTn Ømšwn


e„lÚatai kefala… te prÒswp£ te nšrqe te gu‹a,
o„mwg¾ dT dšdhe, ded£kruntai dT pareia…:
e„dèlwn te plšon prÒquron, ple…h dT kaˆ aÙl¾
ƒemšnwn œrebÒsde ØpÕ zÒfon: ºšlioj dT
oÙranoà ™xapÒlwle, kak¾ d' ™pidšdromen ¢clÚj:

pollacoà dT kaˆ ™n 'Ili£di, oŒon kaˆ ™pˆ teicomac…v:


lšgei g¦r kaˆ ™ntaàqa(

Ôrnij g£r sfin ™pÁlqe perhsšmenai memaîsin,


a„etÕj Øyipšthj, ™p' ¢rister¦ laÕn ™šrgwn,
foin»enta dr£konta fšrwn ÑnÚcessi pšlwron,
zJÒn, œt' ¢spa…ronta: kaˆ oÜpw l»qeto c£rmhj.
kÒye g¦r aÙtÕn œconta kat¦ stÁqoj par¦ deir¾n
„dnwqeˆj Ñp…sw, Ð d' ¢pÕ ›qen Âke cam©ze
¢lg»saj ÑdÚnVsi, mšsJ d' ™nˆ k£bbal' Ðm…lJ:
aÙtÕj dT kl£gxaj pšteto pnoiÍj ¢nšmoio.

taàta f»sw kaˆ t¦ toiaàta tù m£ntei pros»kein kaˆ


skope‹n kaˆ kr…nein.
IWN. 'AlhqÁ ge sÝ lšgwn, ð Sèkratej.
SW. Kaˆ sÚ ge, ð ”Iwn, ¢lhqÁ taàta lšgeij. ‡qi d¾ kaˆ sÝ
™mo…, ésper ™gë soˆ ™xšlexa kaˆ ™x 'Odusse…aj kaˆ ™x
'Ili£doj Ðpo‹a toà m£nteèj ™sti kaˆ Ðpo‹a toà „atroà
kaˆ Ðpo‹a \ toà ¡lišwj, oÛtw kaˆ sÝ ™moˆ œklexon,
™peid¾ kaˆ ™mpeirÒteroj e% ™moà tîn `Om»rou, Ðpo‹a
toà mayJdoà ™stin, ð ”Iwn, kaˆ tÁj tšcnhj tÁj mayJ(
dikÁj, § tù mayJdù pros»kei kaˆ skope‹sqai kaˆ
diakr…nein par¦ toÝj ¥llouj ¢nqrèpouj.
IWN. 'Egë mšn fhmi, ð Sèkratej, ¤panta.

46
IONE

, ad esempio là dove l’indovino Teoclimeno, di


scendente di Melampo, dice rivolto ai pretendenti:

«Infelici, quale male vi ha colto? L’ombra della notte


vi avvolge il capo e il volto e le membra,
un pianto brucia, sono inondate di lacrime le guance;
il portico è pieno di fantasmi – piena ne è anche la
corte – \
di fantasmi che scendono al buio dell’Erebo: il sole
è scomparso dal cielo, è calata una nebbia fune
sta».141

E spesso anche nell’ , ad esempio nella ;


dice infatti anche lì:

«Apparve loro, bramosi di attraversare, un uccello,


un’aquila dall’alto volo, tagliando a sinistra l’armata.
Fra gli artigli stringeva un enorme serpente dal colo
re del sangue, vivo, \
palpitante e ancora pronto alla lotta:
curvatosi indietro, morse al petto, vicino al collo,
l’aquila che lo teneva; trafitta dal dolore essa a terra,
lontano da sé, lo scagliò, lo lasciò cadere in mezzo ai
guerrieri \
e volò via nel vento, con acute strida».142

Queste e altre simili sono le cose – dirò – che spetta


all’indovino esaminare e giudicare.143
I. E dirai il vero, Socrate.
SO. E anche tu, Ione, così dicendo. Su, <fallo> anche tu per
me, come io ho scelto dall’ e dall’ quali cose
sono proprie dell’indovino, del medico e del pescatore,
nello stesso modo anche tu scegli per me – dal momento
che sei anche più pratico144 di Omero di quanto sia io –
quali cose sono proprie del rapsodo, Ione, e dell’arte rap
sodica, le cose che spetta al rapsodo esaminare e giudica
re,145 fra tutti gli uomini.
I. Io affermo, Socrate, che sono tutte.

47
SW. OÙ sÚ ge fÇj, ð ”Iwn, ¤panta: À oÛtwj ™pil»smwn e%;
ka…toi oÙk ¨n pršpoi ge ™pil»smona e%nai mayJdÕn
¥ndra.
IWN. T… dT d¾ ™pilanq£nomai;
SW. OÙ mšmnhsai Óti œfhsqa t¾n mayJdik¾n tšcnhn ˜tšran
e%nai tÁj ¹niocikÁj;
IWN. Mšmnhmai.
SW. OÙkoàn kaˆ ˜tšran oâsan ›tera gnèsesqai æmolÒgeij;
IWN. Na….
SW. OÙk ¥ra p£nta ge gnèsetai ¹ mayJdik¾ kat¦ tÕn sÕn
lÒgon oÙdT Ð mayJdÒj.
IWN. Pl»n ge ‡swj t¦ toiaàta, ð Sèkratej.
SW. T¦ toiaàta dT lšgeij pl¾n t¦ tîn ¥llwn tecnîn sce(
dÒn ti: ¢ll¦ po‹a d¾ gnèsetai, ™peid¾ oÙc ¤panta;
IWN. •A pršpei, o%mai œgwge, ¢ndrˆ e„pe‹n kaˆ Ðpo‹a gu(
naik…, kaˆ Ðpo‹a doÚlJ kaˆ Ðpo‹a ™leuqšrJ, kaˆ Ðpo‹a
¢rcomšnJ kaˆ Ðpo‹a ¥rconti.
SW. ’Ara Ðpo‹a ¥rconti, lšgeij, ™n qal£ttV ceimazomšnou
plo…ou pršpei e„pe‹n, Ð mayJdÕj gnèsetai k£llion À Ð
kubern»thj;
IWN. OÜk, ¢ll¦ Ð kubern»thj toàtÒ ge.
SW. 'All' Ðpo‹a ¥rconti k£mnontoj pršpei e„pe‹n, Ð mayJ(
dÕj gnèsetai k£llion À Ð „atrÒj;
IWN. OÙdT toàto.
SW. 'All' oŒa doÚlJ pršpei, lšgeij;
IWN. Na….
SW. OŒon boukÒlJ lšgeij doÚlJ § pršpei e„pe‹n ¢griai
nousîn boîn paramuqoumšnJ, Ð mayJdÕj gnèsetai
¢ll' oÙc Ð boukÒloj;
IWN. OÙ dÁta.
SW. 'All' oŒa gunaikˆ pršpont£ ™stin e„pe‹n talasiourgù
perˆ ™r…wn \ ™rgas…aj;
IWN. OÜ.
SW. 'All' oŒa ¢ndrˆ pršpei e„pe‹n gnèsetai strathgù
stratiètaij parainoànti;
IWN. Na…, t¦ toiaàta gnèsetai Ð mayJdÒj.
SW. T… dš; ¹ mayJdik¾ tšcnh strathgik» ™stin;

48
IONE

SO. Tu non dicevi affatto che sono tutte, Ione. O sei così
smemorato? Certo non sarebbe conveniente che un rap
sodo fosse smemorato!
I. Ma insomma, che cosa sto dimenticando?!146
SO. Non ricordi che hai detto che l’arte del rapsodo è diversa
da quella dell’auriga?
I. Me ne ricordo.
SO. E non hai forse147 ammesso che essendo diversa conosce
cose diverse?
I. Sì.
SO. Dunque, secondo ciò che tu stesso dici, l’arte rapsodica
non conoscerà affatto tutto, e neanche il rapsodo.148
I. Eccetto, forse, cose di questo genere, Socrate…
SO. Con ‘cose di questo genere’ tu intendi, come credo, ‘tran
ne quelle di tutte le altre arti’: ma allora quali conoscerà,
dal momento che non le conosce tutte?
I. Quali conviene149 a un uomo dire, io penso, e quali a una
donna, quali a uno schiavo e quali a un uomo libero, qua
li a chi è comandato e quali a chi comanda.
SO. Forse, intendi, quali cose conviene dire a chi comanda in
mare, mentre la barca è in preda alla tormenta, lo saprà
meglio il rapsodo del timoniere?
I. No, al contrario, questo lo saprà meglio il timoniere.
SO. Ma quelle che conviene dire a chi comanda150 un malato,
le conoscerà meglio il rapsodo del medico?
I. No, neanche in questo caso.
SO. Allora intendi quali conviene dire a un servo?
I. Sì.
SO. Vuoi dire che, ad esempio, se il servo è un bovaro, le co
se che conviene dire per ammansire i buoi quando sono
infuriati le conoscerà il rapsodo, ma non il bovaro?
I. No di certo.
SO. Ma conoscerà quali cose è conveniente che dica una
donna che tesse la lana151 sulla lavorazione della lana?
I. No.
SO. Allora saprà quali conviene dire a un uomo, a uno strate
ga che esorta i suoi soldati?
I. Sì, questo è il genere di cose che conoscerà il rapsodo.152
SO. Ma allora? L’arte del rapsodo è uguale a quella dello stra
tega?

49
IWN. Gno…hn goàn ¨n œgwge oŒa strathgÕn pršpei e„pe‹n.
SW. ”Iswj g¦r e% kaˆ strathgikÒj, ð ”Iwn. kaˆ g¦r e„
™tÚgcanej ƒppikÕj ín ¤ma kaˆ kiqaristikÒj, œgnwj ¨n
†ppouj \ eâ kaˆ kakîj ƒppazomšnouj: ¢ll' e‡ s' ™gë
ºrÒmhn: Potšrv d¾ tšcnV, ð ”Iwn, gignèskeij toÝj eâ
ƒppazomšnouj †ppouj; Î ƒppeÝj e% À Î kiqarist»j; t… ¥n
moi ¢pekr…nw;
IWN. ‘Hi ƒppeÚj, œgwg' ¥n.
SW. OÙkoàn e„ kaˆ toÝj eâ kiqar…zontaj dieg…gnwskej,
æmolÒgeij ¥n, Î kiqarist¾j e%, taÚtV diagignèskein,
¢ll' oÙc Î ƒppeÚj.
IWN. Na….
SW. 'Epeid¾ dT t¦ stratiwtik¦ gignèskeij, pÒteron Î
strathgikÕj e% gignèskeij À Î mayJdÕj ¢gaqÒj;
IWN. OÙdTn œmoige doke‹ diafšrein.
SW. Pîj; oÙdTn lšgeij diafšrein; m…an lšgeij tšcnhn e%nai
t¾n mayJdik¾n kaˆ t¾n strathgik¾n À dÚo;
IWN. M…a œmoige doke‹.
SW. “Ostij ¥ra ¢gaqÕj mayJdÒj ™stin, oátoj kaˆ ¢gaqÕj
strathgÕj tugc£nei ên;
IWN. M£lista, ð Sèkratej.
SW. OÙkoàn kaˆ Óstij ¢gaqÕj strathgÕj tugc£nei ên,
¢gaqÕj kaˆ mayJdÒj ™stin.
IWN. OÙk aâ moi doke‹ toàto.
SW. 'All' ™ke‹no m¾n doke‹ soi, Óstij ge ¢gaqÕj \ mayJdÒj,
kaˆ strathgÕj ¢gaqÕj e%nai;
IWN. P£nu ge.
SW. OÙkoàn sÝ tîn `Ell»nwn ¥ristoj mayJdÕj e%;
IWN. PolÚ ge, ð Sèkratej.
SW. ’H kaˆ strathgÒj, ð ”Iwn, tîn `Ell»nwn ¥ristoj e%;
IWN. Eâ ‡sqi, ð Sèkratej: kaˆ taàt£ ge ™k tîn `Om»rou ma(
qèn.

50
IONE

I. Io di certo153 saprei quali cose converrebbe dire a uno


stratega…
SO. Forse perché sei anche abile stratega, Ione. Infatti se ti
capitasse di essere nello stesso tempo un abile cavaliere e
un abile suonatore di cetra, sapresti quali cavalli sono ad
destrati bene e quali male. Ma se io ti domandassi: «Con
quale delle due arti, Ione, riconosci i cavalli bene adde
strati? Con quella per cui154 sei cavaliere o con quella per
cui sei citarista?», cosa mi risponderesti?
I. Con quella per cui sono cavaliere, risponderei.
SO. Dunque,155 se tu distinguessi anche i buoni suonatori di
cetra, sei d’accordo che li distingueresti con l’arte per cui
sei citarista, non con quella per cui sei cavaliere.
I. Sì.
SO. E allora, poiché conosci le cose che riguardano la strate
gia, le conosci con l’arte per cui sei un abile stratega o
con quella per cui sei un buon rapsodo?
I. Non penso vi sia alcuna differenza.
SO. In che senso dici che non c’è alcuna differenza? Vuoi di
re che la rapsodia e la strategia sono una sola arte, o sono
due?
I. Una sola, io penso.
SO. Allora, chiunque sia un buon rapsodo, costui si trova ad
essere156 anche un buono stratega?
I. Proprio così, Socrate.
SO. Dunque,157 anche chiunque si trovi ad essere un buono
stratega è allo stesso tempo un buon rapsodo?
I. No, questo non lo penso.158
SO. Ma quello lo pensi, che chiunque sia un buon rapsodo è
anche un buono stratega?
I. Assolutamente.
SO. E tu non sei forse159 il miglior rapsodo fra i Greci?
I. Di molto, Socrate.
SO. E senza dubbio sei anche, fra i Greci, il migliore strate
ga!160
I. Sappilo bene, Socrate, perché questo l’ho proprio impa
rato da Omero.161

51
SW. T… d» pot' oân prÕj tîn qeîn, ð ”Iwn, ¢mfÒtera
¥ristoj ín tîn `Ell»nwn, kaˆ strathgÕj kaˆ mayJdÒj,
mayJde‹j mTn periiën to‹j “Ellhsi, strathge‹j d' oÜ; À
\ mayJdoà mTn doke‹ soi crusù stef£nJ ™stefanmšnou
poll¾ cre…a e%nai to‹j “Ellhsi, strathgoà dT oÙdem…a;
IWN. `H mTn g¦r ¹metšra, ð Sèkratej, pÒlij ¥rcetai ØpÕ
Ømîn kaˆ strathge‹tai kaˆ oÙdTn de‹tai strathgoà, ¹
dT Ømetšra kaˆ ¹ Lakedaimon…wn oÙk ¥n me ›loito
strathgÒn: aÙtoˆ g¦r o‡esqe ƒkanoˆ e%nai.
SW. ’W bšltiste ”Iwn, 'ApollÒdwron oÙ gignèskeij tÕn
KuzikhnÒn;
IWN. Po‹on toàton;
SW. •On 'Aqhna‹oi poll£kij ˜autîn strathgÕn Èrhntai \
xšnon Ônta: kaˆ Fanosqšnh tÕn ”Andrion kaˆ `Hra(
kle…dhn tÕn Klazomšnion, oÞj ¼de ¹ pÒlij xšnouj Ôn(
taj, ™ndeixamšnouj Óti ¥xioi lÒgou e„s…, kaˆ e„j stra(
thg…aj kaˆ e„j t¦j ¥llaj ¢rc¦j ¥gei: ”Iwna d' ¥ra tÕn
'Efšsion oÙc aƒr»setai strathgÕn kaˆ tim»sei, ™¦n
dokÍ ¥xioj lÒgou e%nai; t… dš; oÙk 'Aqhna‹oi mšn ™ste
oƒ 'Efšsioi tÕ ¢rca‹on, kaˆ ¹ ”Efesoj \ oÙdemi©j
™l£ttwn pÒlewj;
____________________________________________
¢ll¦ g¦r sÚ, ð ”Iwn, e„ mTn ¢lhqÁ
lšgeij æj tšcnV kaˆ ™pist»mV oŒÒj te e% “Omhron ™pai(
ne‹n, ¢dike‹j, Óstij ™moˆ ØposcÒmenoj æj poll¦ kaˆ
kal¦ perˆ `Om»rou ™p…stasai kaˆ f£skwn ™pide…xein,
™xapat´j me kaˆ polloà de‹j ™pide‹xai, Ój ge oÙdT
¤tta ™stˆ taàta perˆ ïn deinÕj e% ™qšleij e„pe‹n,
p£lai ™moà liparoàntoj, ¢ll¦ ¢tecnîj ésper Ð
PrwteÝj pantodapÕj g…gnV strefÒmenoj ¥nw kaˆ k£tw,
›wj teleutîn diafugèn me strathgÕj ¢nef£\nhj, †na
m¾ ™pide…xVj æj deinÕj e% t¾n perˆ `Om»rou sof…an. e„
mTn oân tecnikÕj ên, Óper nund¾ œlegon, perˆ `Om»rou
ØposcÒmenoj ™pide…xein ™xapat´j me, ¥dikoj e%: e„ dT

52
IONE

SO. Allora, in nome degli dèi, Ione, com’è che, essendo il mi


gliore dei Greci sia come rapsodo sia come stratega, fai il
rapsodo andando in giro per la Grecia, ma non lo strate
ga? Pensi forse che i Greci abbiano un gran bisogno di
un rapsodo incoronato con una corona d’oro,162 nessun
bisogno invece di uno stratega?
I. Questo perché da un lato, Socrate, la nostra città è sotto
il vostro comando civile e militare,163 e perciò non ha al
cun bisogno di uno stratega; dall’altro, la vostra città e
quella degli Spartani non mi sceglierebbero come strate
ga, perché voi pensate di essere sufficienti a voi stessi!
SO. Mio eccellente Ione,164 non conosci Apollodoro di Cizi
co?
I. Chi è costui?
SO. Un uomo che gli Ateniesi spesso hanno scelto come stra
tega, benché fosse straniero. E Fanostene di Andro, ed
Eraclide di Clazomene, che questa città, benché siano
stranieri, investe con la carica di stratega e con altre cari
che, perché hanno dimostrato di essere degni di conside
razione.165 Forse invece Ione di Efeso non lo sceglierà
come stratega e non lo onorerà, se pensa sia degno di
considerazione? Perché? Non siete ateniesi d’origine voi
di Efeso,166 e non è forse vero che Efeso non è inferiore
a nessuna città?
____________________________________________
Ma il fatto è, Ione, che se tu dici la verità quando affermi
che per arte e conoscenza sei capace di elogiare Ome
ro,167 commetti ingiustizia;168 tu che, pur avendomi di
chiarato di conoscere molte belle cose su Omero e pro
mettendo un’esibizione, mi inganni e sei ben lontano
dall’esibirti; tu che non vuoi nemmeno dire quali siano
queste cose sulle quali sei abile, benché io insista già da
tempo,169 ma proprio come Proteo170 assumi molteplici
forme, volgendoti da ogni parte, finché alla fine, sfuggi
tomi, riappari come stratega, per non esibire come sei a
bile nella <tua> sapienza omerica.171 Se dunque, pur
possedendo un’arte, come dicevo poco fa, promettendo
che ti saresti esibito, mi inganni, allora sei ingiusto; se in

53
m¾ tecnikÕj e%, ¢ll¦ qe…v mo…rv katecÒmenoj ™x
`Om»rou mhdTn e„dëj poll¦ kaˆ kal¦ lšgeij perˆ toà
poihtoà, ésper ™gë e%pon perˆ soà, oÙdTn ¢dike‹j.
˜loà oân pÒtera boÚlei nom…zesqai ØpÕ ¹mîn ¥dikoj
¢n¾r e%nai À qe‹oj.
IWN. PolÝ diafšrei, ð Sèkratej: polÝ g¦r k£llion tÕ
qe‹on nom…zesqai.
SW. Toàto to…nun tÕ k£llion Øp£rcei soi par' ¹m‹n, ð
”Iwn, qe‹on e%nai kaˆ m¾ tecnikÕn perˆ `Om»rou ™painš(
thn.

54
IONE

vece non hai un’arte, ma, posseduto da Omero, per sorte


divina, senza sapere nulla, dici molte belle cose sul poe
ta,172 come io ho detto di te, allora non commetti alcuna
ingiustizia. Scegli, dunque, se vuoi essere considerato da
noi un uomo ingiusto o divino.
I. C’è una grande differenza, Socrate: è molto più bello, in
fatti, essere considerato divino.
SO. E allora, Ione, questa bellezza più grande ti spetta, per
parte nostra: di essere un elogiatore di Omero divino e
non in possesso di un’arte.173

55
56
IONE

1 Secondo la classificazione che Diogene Laerzio (III 57 61) attribuisce a Trasil

lo (astronomo di corte di Tiberio, I sec. a.C./I sec. d.C.) – ma che sembra ormai
certo sia precedente (forse opera dell’Accademia di Arcesilao, IV/III sec. a.C.;
vedi CARLINI [455], pp. 24 30) – lo figura nella settima delle nove tetralogie
in cui è suddiviso il platonico. A ogni opera sono assegnati due titoli – il
primo designante l’interlocutore (ma non vale per , e ), il
secondo tematico – e un genere. Lo è un dialogo di genere peirastico, come
!" , !!, e# (Diogene distingue i dialoghi in tre livelli di
caraktÁrej – tipi, generi e specie – e il carakt¾r peiastikÒj, di terzo livello, è
più propriamente una specie: zhthtikÒj > gumnastikÒj > peirastikÒj; cfr III
49). L’aggettivo peirastikÒj deriva da pe‹ra (prova, saggio) e indica il carattere
saggiatorio del dialogo, un esame , che nel nostro caso mette alla
prova le credenze dell’interlocutore. Ne verificheremo la bontà nel capitolo
2. Per una definizione di lÒgoj peirastikÒj, cfr. Arist. 2, 165b4 8; 8,
169b20 25; 11, 171b4 6; 11, 172a20 b4.
Il sottotitolo tramandato da Diogene Laerzio (Perˆ 'Ili£doj – III 60) non
è attendibile: nel dialogo sono citati brani tratti dall’ come dall’ , ma è
evidente che nessuno dei due poemi ne rappresenta il principale nucleo temati
co. Vedi " , p. 248, nota 93.
2 . keleÚw o eÜcomai. Alla lettera: «<ti> ordino di stare bene» ( $ ;
vedi FICINO [23], p. 169). Formula di saluto solenne (solo i commentatori scola
stici la notano; vedi bibliogr. § 1.1.2.1) che sostituisce il semplice ca‹re («sta’ be
ne») seguito dal vocativo. L’articolo (tÒn) premesso al nome proprio conferisce
alla locuzione un tono enfatico ed è il primo riconoscimento della celebrità di
Ione, che già in ! si presenta come l’« ! Ione» (vedi " , § 1.1.1); è il
latino . Molto diverse le formule di saluto agli amici. Cfr. le prime pa
role del % (’W f…le Fa‹dre), . 126a (Ca‹r', œfh, ð Kšfale), . 17a (ð f…le
T…maie); cfr. ancora l’uso del vocativo semplice in sostituzione di una formula di
saluto (p. es. . 43a; . 2 138a). Con il vocativo semplice si rivolgono a So
crate gli interlocutori nelle prime battute dei dialoghi e, secondo il procedere
delle argomentazioni, il vocativo è talvolta arricchito da qualificazioni come dai(
mÒnie, mak£rie, ecc. Cfr. la coppia di battute di . 44b c, ma anche 531d12
(ð f…le kefal¾ ”Iwn); 532b2 (ð bšltiste), c5 (ð ˜ta‹re); 541c7 (’W bšltiste
”Iwn). Vedi BRUNIUS NILSSON [454].
Le prime parole del dialogo ci informano, dunque, dello ! ! del rapso
do – di quella che, come vedremo fin dal proemio, è la sua fama di sapiente –
così come le ultime (qe‹on e%nai kaˆ m¾ tecnikÕn perˆ `Om»rou ™painšthn, 542b4)
stabiliranno la causa $ di questa (presunta) sapienza.
Le prime due parole – TÕn ”Iwna – danno il titolo al dialogo.
3 pÒqen (poà, qen): avverbio interrogativo, «da dove» (non «verso dove»; Ione

non è di passaggio, è Atene la sua meta – benché temporanea – di rapsodo iti

57
nerante). Il suffisso avverbiale qen indica origine o provenienza («da») (vedi
ALBINI [68], p. 3). Cfr. anche l’o‡koqen del rigo seguente.
Per l’uso di questo avverbio in Platone, cfr. !. 309a1. PÒqen può essere
parte della domanda completa ‘po‹ d¾ kaˆ pÒqen;’ (‘dove vai e da dove vieni?’),
che riecheggia l’omerico ‘t…j pÒqen e„j ¢ndrîn;’ (‘chi sei e donde vieni tra gli
uomini?’). In effetti credo che Socrate si rivolga a Ione come a un eroe omerico.
Cfr. & . 227a, con risposta in chiasmo (Par¦ Lus…ou, ð Sèkratej, toà Kef£(
lou, poreÚomai dT prÕj per…paton œxw te…couj), e '. 203a6. La risposta a questa
domanda (o al solo pÒqen) consente di determinare, in qualche aspetto, il carat
tere del personaggio al quale è rivolta, stabilendone le origini – come nel caso di
Ione – e ricostruendo alcuni tratti della sua personalità dai luoghi che frequenta
e dalle attività che vi svolge (vedi cap. 1).
4 ¹m‹n: dativo etico. Dativo pleonastico, tipico della lingua colloquiale; esprime

interesse, partecipazione affettiva. Qui, ironico.


5 ™pided»mhkaj + compl. di moto a luogo: lett. «ti sei trovato in mezzo al popolo

(d»moj)», «sei venuto a dimorare» (lat. $ ! ; vedi


STALLBAUM [3], p. 293); perf. ind.: azione passata i cui effetti durano nel presen
te. Consente la trad. «arrivi» (CANTO [18], p. 85: «D’où nous arrives tu à pré
sent?»).
Il significato proprio del verbo ™pidhmšw ($ . ¢podhmšw, $ ; vedi
STALLBAUM [3], p. 293) è «stare in patria». Detto di un forestiero, indica il «veni
re ad abitare» (vedi LSJ [469] e ( [470], . $. ™pidhmšw). Cfr. !. 309d3, dove il
verbo è usato per domandare se Protagora ) " ! in città, come suggerisce la
risposta di Socrate (Tr…thn ge ½dh ¹mšran). Conferma il valore del pÒqen prece
dente (vedi nota 3).
6 t¦ nàn (articolo neutro, avverbio; anche tanàn): «ora» ( latino), locuzione
avverbiale di tempo alternata frequentemente a nàn – ma più incisiva di nàn –
nel . Spesso anche al singolare: tÕ nàn. Cfr. . VI 506e1 (tÕ nàn) ed e3 (t¦
nàn).
7 o‡koqen: «da casa» o «dalla patria» (lat. ).
8 À... 'Efšsou: interrogazione disgiuntiva,

<A> o B
¬ B ma C
_______
<A>

con il primo membro sottinteso: «<arrivi forse (pÒteron = ! ) da qualche al


tro luogo> o (À = ) da…». La stessa forma in !. 309a, come nota G. Stal
lbaum ([3], p. 293). Cfr. 531a.
™x 'Efšsou: specifica o‡koqen. Efeso: una delle dodici città che popolava
no l’antica Ionia, patria dell’epica (si ritiene che i primi aedi componessero in
dialetto ionico); sorge in Lidia, alla foce del Caistro, sulla costa occidentale

58
IONE

dell’Asia Minore. Fu luogo d’origine del filosofo Eraclito, dei poeti Ipponatte e
Callino e dei pittori Apelle e Parrasio. Cfr. 541d.
9 OÙdamîj: «the negative might sound unexpectedly emphatic, unless the nuance

is ‘you’ll never guess where I’ve been’. S.’s surprise at a5 indicates that this may
be the case» (MURRAY [44], p. 99).
10 Epidauro: antica città dell’Argolide, nel Peloponneso. Fin dal VI sec. a.C. vi si

praticava il culto di Asclepio, dio della medicina. In suo onore si disputavano le


quadriennali Meg£la 'Asklhp…eia, nove giorni dopo i giochi istmici della vicina
Corinto (cfr. &. Pi. . III 147) e poco prima delle Panatenee (cfr.
530b2 3). Le Asclepiee si svolgevano tra la fine di aprile e i primi di giugno, per
la durata di tre giorni almeno, e comprendevano agoni ginnici e musicali (agoni
poetici e, da quanto ci viene detto qui, anche gare di rapsodi). Cfr. # *. 249b5
ss. Per una testimonianza sugli agoni ginnici ai tempi di Pindaro, cfr. . III 84;
V 52 e . VIII 68. La datazione delle prime gare poetiche alle Asclepiee è invece
incerta. Vedi EDELSTEIN EDELSTEIN [283] e conclusioni, § 4.1.
11 Mîn (= m¾ oân) è una particella interrogativa che corrisponde ad «ra m», co

me commentano i pochi ad avere preso in esame il passo, i quali classificano la


domanda socratica (Mîn... 'EpidaÚrioi;) tra le interrogative retoriche (= che
attendono risposta negativa) – facendone così l’equivalente greco di – ma
non si pronunciano sulla risposta ! !!+ ! & ! $ di Ione (P£nu ge).
È opinione comune che «ra m» attenda risposta negativa, ma si tratta di
una credenza erronea. Come ben argomenta J. D. Denniston ([482], pp. 47 48),
le domande che, * , attendono una risposta di tipo particolare (positiva
o negativa) sono le interrogative retoriche, e «it is significant that the orators
never use «ra m», though they use «r' oÙ very freely». Inoltre, si tratta di una
particella piuttosto rara che, in tutte le sue occorrenze, «does not necessarly im
ply the expectation of a negative reply, but merely that the suggestion made is
difficult of acceptance (though the alternative may be even more difficult, or
actually impossible). It express, in fact, an antinomy, a dilemma, an of
thought, or, at least, a certain hesitancy». D’altro canto, nel platonico 3
occorrenze di «ra m» (su 16) sono seguite da una risposta "" ! $ , e lo stesso
avviene per la particella mîn, che ci interessa qui, nella sua forma contratta (12
occorrenze) e in quella estesa (m¾ oân, una su 3). Inoltre, in 10 occorrenze mîn
vuole risposte che non siano del sì e del no; e nemmeno la distinzione tra mîn
oÙ (per il sì) e mîn m» (per il no) regge: entrambe le particelle ammettono, infat
ti, risposte sia affermative sia negative. Per mîn m», cfr. p. es. l’alternarsi dei due
casi in '. 208c7 ed e3; per mîn oÙ, cfr. &. 253d2 e . VIII 832b4. Possiamo
quindi concludere, con Denniston, che «the force of «ra m» (e – noi aggiungia
mo – di mîn) is, not , but ‘Can it be that…?’», come già aveva commentato
Stallbaum («Doch nicht etwa») a proposito di '. 213d1 ([3], p. 148).
Per l’uso platonico di m» e «ra m», vedi anche HARRY [483], pp. 428 430,
a cui rimanda Des Places ([480], p. 87).
12 mayJdÒj: prima occorrenza. Sulle origini della parola e sull’istituzione degli

agoni rapsodici nell’antica Grecia, vedi app. B.

59
13 P£nu ge: risposta affermativa alla domanda di Socrate (Mîn... 'EpidaÚrioi).

Vedi nota 11; il ge intensivo, come anche il seguente (¥llhj ge), è proprio della
lingua colloquiale (dà enfasi).
14 kaˆ... mousikÁj: sott. ¢gîna tiqšasin oƒ 'EpidaÚrioi. Mousik¾ <tšcnh>: ogni

arte a cui presiedono le Muse: poesia, canto, musica, danza. E la filosofia? Cfr.
& . 60e 61b. Se la filosofia fa parte della mousik» – ne è la forma più alta – per
Socrate (filosof…aj... meg…sthj mousikÁj), ne è però esclusa dal senso comune
(dhmèdh) del termine (61a7). Sul significato platonico di mousik», cfr. anche .
II 673a e VII 795d. L’oscillazione (anche a distanza di poche pagine) dal signifi
cato comune – più ristretto – a uno platonico – più ampio – che include la filo
sofia e ogni cosa che contribuisca alla cura dell’anima non è che apparente (
! BATTEGAZZORE [71], p. 5: «Come scrive il Plebe, il concetto di mousik», pri
vo in Platone di rigore categorico, “assume spesso dei significati intermedi, va
riamente estesi”»). Platone $ $ $ e parlava in greco, nel greco comune del V IV
sec. a.C.; e in , ! lingua ha scritto i dialoghi, una lingua viva (per lui, non solo
per i suoi personaggi), la sola di cui disponeva per salutare un amico come per
fare filosofia, con i suoi luoghi comuni e i suoi pregiudizi semantici. E nei dialo
ghi assistiamo continuamente al tentativo di chiarire, nell’œlegcoj, il significato
di parole importanti e, insieme, all’uso di queste stesse parole nel loro significato
comune, quello (e il solo) da sempre condiviso dall’interlocutore in quanto par
lante di quella lingua.
Cfr. ancora . II 376e sulla mousik» come paide…a dell’anima.
15 T… oân: «Dans certaines interrogations, directes ou indirectes, oân a la valeur

du latin ! , c’est à dire qu’il n’exprime pas tant la conséquence qu’un senti
ment d’impatience, d’étonnement ou d’inquiétude» (DES PLACES [480], p. 40).
Cfr. il caso paradigmatico di . I 123e. Traducibile qui con «ebbene?», «e allo
ra?» (impazienza) o «davvero?» (stupore; ALLEN [8], p. 9: «Really?»).
16 ¹m‹n: dativo etico (ALLEN [8], p. 9: «You competed " ?»). Vedi nota 4. Ma
M. Canto ([18], p. 134) traduce «dis nous» (dativo d’interesse).
17 ºgwn…zou, ºgwn…sw: l’imperfetto esprime il processo (la partecipazione al con

corso), l’aoristo il risultato dell’azione.


ti ¹m‹n: accusativo di relazione, «in any way» (MURRAY [44], p. 100).
pîj [ti]: Stallbaum ([3], .) espunge.
18 T¦ prîta tîn ¥qlwn (gen. part.) per t¦ prîta ¥qla <fšresqai>, lat.

" .
ºnegk£meqa: plurale di falsa modestia, e medio d’interesse che la tradisce.
19 ¥ge d¾: imperativo esortativo.
20 Ópwj... nik»somen: sott. un verbo $ o , p. es. Óra (vedi STALLBAUM
[3], .).
nik»somen: Socrate asseconda il plurale di falsa modestia di Ione, con par
tecipazione ironica. È così che il filosofo interpreta l’ºnegk£meqa, come mostra
la prima persona plurale della sua risposta – se si trattasse di un vero plurale, se
guirebbe un ‘voi’. Con il ‘noi’, Socrate finge di credere alla modestia del rapso

60
IONE

do. Ma potrebbe anche trattarsi di un ! ! a cui semplicemente fa il


verso.
In questo primo scambio di battute, il registro adottato dai due interlocu
tori e le scelte linguistiche di Platone sono per noi la maggior fonte di informa
zioni sul carattere dei personaggi: è attraverso ciò che dicono e – soprattutto qui
– lo dicono che Socrate e Ione si presentano, nelle loro caratteristi
che individuali e – non meno importante – l’uno in rapporto all’altro. L’intero
scambio è condotto in forma colloquiale, fatta eccezione per il saluto solenne
(vedi nota 2) che ne dà l’avvio, e che di conseguenza assume rilievo in virtù del
contrasto, non solo per la posizione incipitaria. La scelta di espressioni collo
quiali non si limita a rifinire la scena con un tocco di realismo: da un lato, l’uso
dei rafforzativi (ge; Kaˆ m¾n) e l’enfasi delle espressioni di assenso (P£nu ge) e di
negazione (OÙdamîj) del proemio, non solo suggeriscono il tono delle battute,
come fossero recitate davanti a noi, ma sono un primo segnale della vanità di
Ione, impaziente e orgoglioso di comunicare le proprie vittorie (T¦ prîta tîn
¥qlwn in posizione di rilievo) – e falsamente disposto a renderne altri partecipi,
condividendone il merito (se ºnegk£meqa è plurale insincero). Dall’altro lato, il
tono esclamativo (TÕn ”Iwna; ¥ge d¾ Ópwj), ora sorpreso (Mîn) ora impaziente
(T… oân), degli interventi di Socrate, e il plurale con il quale asseconda (nik»so(
men) la vanità (o la falsa modestia) del rapsodo vivacizzano il rapido scambio di
domande e risposte, suggerendo un’inflessione ironica nella voce del filosofo.
21 Vedi app. B.
22 ™¦n qeÕj ™qšlV ( ! ! !- $ !): frase fatta (17 occorrenze nel
platonico, di cui 2 – oltre quella dello – della formula completa ‘¢ll' œstai
taàta, ™¦n qeÕj ™qšlV’ o di una sua variante; cfr. anche . 980c4). Vedi " ,
pp. 109 115.
™¦n + cong.: protasi del periodo ipotetico dell’eventualità.
23 La linea tratteggiata indica una suddivisione interna a una parte del dialogo (in

questo caso separa il proemio in due sezioni, che chiameremo e


– vedi " , § 1.1 e in part. p. 121 note 73 74); la linea continua
significa invece un primo livello di partizione del testo nelle sue parti costitutive
(per una rappresentazione grafica, vedi app. A).
Kaˆ m»n progressivo: «this is a very common use, particularly in prose,
where kaˆ m»n often introduces a new argument, a new item in a series, or a
new point of any kind» (DENNISTON [482], pp. 351 352).
24 L’invidia (z»lwj) scandisce e chiude ad anello l’elogio socratico (™z»lwsa, b5;

zhlwtÒn ™stin, c1; zhloàsqai, c6).


25 Prima occorrenza (in posizione di rilievo) del sostantivo tšcnh (sottinteso a

530a7; vedi nota 14), uno dei termini chiave del dialogo.
26 pršpon: prima di 10 occorrenze, le altre concentrate in una pagina Stephanus

(539e 540d). Vedi FLASHAR [25], pp. 28 29 e " , pp. 197 198.
27 Sono 3 le occorrenze di kosmšw nel dialogo: la prima (kekosmÁsqai) e la terza

(kekosmhmšnoj, 535d2) pronunciate da Socrate al passivo a proposito del corpo

61
del rapsodo; la seconda (kekÒsmhka, 530d7), attiva, pronunciata da Ione e riferi
ta al suo poeta, Omero. Cfr. ! 337 s. e vedi " , pp. 159 161.
28 diatr…bein (di£ + tr…bw: lett. consumare – per sfregamento – fino alla fine; è il

consumarsi del tempo in opposizione all’ozio): «trascorrere il tempo», «dedicare


il proprio tempo», «passare la vita». Scelgo quest’ultima traduzione, per analogia
con la valenza che il verbo assume quando è riferito a filosofe‹n (cfr. p. es. .
29c8; . 172c5; . .# . 363a5; & . 63e10; &!. 172c5, 173c7; . VIII 561d2) e
significa «a life spent in philosophy» (MURRAY [44], p. 102).
29 Inizia qui, con la prima occorrenza di ¢gaqÒj, l’attenzione particolare che Pla

tone rivolgerà in questo dialogo – benché quello etico sia tema di fondo del
– ai termini di valore. Lo sarà attraversato, dal proemio fino all’epi
logo, da parole come ¢gaqÒj, eâ, kalÒj, e determinato nel suo senso dal rappor
to che queste avranno con le parole del sapere (dall’™kmanq£nein di 530c1 al tec(
nikÒn di 542b4) e dell’irrazionale (da Omero qeiÒtatoj – 530b10 – a Ione qe‹oj –
542b4). Vedi app. D.
30 kaˆ d¾ kaˆ m£lista: solo 2 occorrenze nel (cfr. . X 888d1). Frequente,
invece, l’uso di kaˆ d¾ ka… (vedi STALLBAUM [3], pp. 295 296) – in entrambi i
casi, ka… «reinforced» (LSJ [469], . $.) con senso di *.
31 ™kmanq£nein (™k , manq£nw): grazie al prefisso ™k può assumere la doppia va

lenza di «imparare » (oggetto proprio: t¦ œph) e «capire (o conoscere)


" » (oggetto proprio: t¾n di£noian). Oltre quella dello , nove occorrenze
nel (compreso l’™kmemaqhkšnai di *. 371a6), tutte col significato di
mandare a mente. Cfr. anche l’™xepist£menoj di & . 228b4, & * nell’opera
platonica.
t¦ œph: «i versi», «le parole» (forma/esterno) $ . t¾n di£noian: «il pensiero»
o «la mente» del poeta (contenuto/interno). Si riferisce " alla mente del
poeta anche la seconda occorrenza (gen. tÁj diano…aj, 530c4; per la differenza
tra il singolare della seconda e il singolare della prima occorrenza, vedi " , pp.
189, 192 194, 193 nota 54); nella terza (diano…aj, d3), i sono invece quelli
(e„pe‹n) da Ione: le sue opinioni (per…) Omero (vedi MURRAY [44], p.
102).
Per il senso dell’espressione t¾n toÚtou di£noian ™kmanq£nein nel conte
sto, vedi " , § 2.2.1.1.
32 Tale = ¢gaqÒj. Seguo Burnet ([1], .) che riprende ( ! MÉRIDIER [2],
.) la lezione del codice : ¢gaqÕj mayJdÒj, decisiva per la comprensione del
passo (vedi " , p. 93). MURRAY [44], p. 102: «mayJdÒj is the subject, ¢gaqÒj
the predicate». Vedi anche CANTO [18], p. 136, nota 12.
33 e„... sune…h: e„ + ottativo: protasi del periodo ipotetico della possibilità (prece

de l’apodosi: ¥n + ottativo).
34 ˜rmhnša: prima di 4 occorrenze (cfr. 534e4 e 535a9, e le 2 occorrenze del ver

bo ˜rmhneÚw a 535a5 e 6): «this key word, like tšcnh, is introduced at a very early
stage in the dialogue» (MURRAY [44], p. 102). Per la traduzione («mediatore» o
«portavoce»), che si discosta da quella comunemente accettata («interprete»; vedi
p. es. MURRAY [44], p. 102), vedi " , pp. 128 ss., 194 196.

62
IONE

35gignèskonta Óti lšgei: «sapere & intende dire (o dice)», diverso da gignè(
skein ¤ lšgei: «conoscere / & dice» (cfr. 531a7: ¨n ™xhg»saio § “Omhroj lšgei).
Vedi " , pp. 191 194.
36 tÕ g¦r... zhlwtÒn ™stin: costruisci così il periodo: g¦r zhlwtÒn ™stin §ma mTn
tÕ pršpon e%nai tÍ Ømîn tšcnV (dat. di causa) kekosmÁsqai ¢eˆ tÕ sîma (acc. di
relazione) kaˆ <Øm©j> fa…nesqai æj kall…stoij §ma dT ¢nagka‹on e%nai <Øm‹n>
diatr…bein ™n pollo‹j ¥lloij kaˆ ¢gaqo‹j poihta‹j kaˆ d¾ kaˆ m£lista ™n `Om»rJ,
tù ¢r…stJ kaˆ qeiot£tJ tîn poihtîn, kaˆ ™kmanq£nein t¾n toÚtou di£noian, m¾
mÒnon t¦ œph. Vedi app. C e " , § 2.2.1.1.
37 ™mo…: «suggests that what follows applies specifically to Ion rather than to

rhapsodes in general» (Murray [44], p. 103).


38 goàn (ge, oân). Vedi DES PLACES [480], p. 140: «II. Goàn au service du répon

dant. Dans cet emploi, très fréquent, goàn marque un assentiment limité à un
point; mais cet assentiment, souvent indirect, est d’autant plus fort qu’il est plus
restreint», e 144 ( 530c7 rientra nel caso 2: 0 ).
39 ple‹ston œrgon (paršsce): «il più gran da fare», lat. ! ( !). Ma
forse «the most important product» (ALLEN [8], p. 9); in tal caso, il risultato più
importante sarebbe proprio il seguente k£llista ¢nqrèpwn lšgein perˆ `Om»rou,
introdotto da un kaˆ epesegetico (vedi ( [470] . $. kaˆ in endiadi, 4a).
40 lšgein perˆ `Om»rou: sono le prime parole con cui è descritta l’attività di Ione

– da Ione stesso. In questo (o ) sembra tradursi la sua conoscenza


(della mente) di Omero e compiersi la funzione di ˜rmhneÚj. Ne ricaviamo
un’indicazione importante sul tipo di attività che il rapsodo svolge: non più – o
non solo – un (o ! ) Omero (o un qualsiasi altro poeta), ma qualcosa
che si preannuncia, in quel per…, ben differente. Quanto segue (a partire dall’e„(
pe‹n poll¦j kaˆ kal¦j diano…aj perˆ `Om»rou di 530d2 3) chiarirà l’espressione
generica. Vedi " , § 1.2.1.2 e app. C.
41 æj: causale («poiché»; ALLEN [8], p. 9: «because»; Murray [44], p. 103: «since»;

CANTO [18], p. 87: «car»), non consecutivo.


42 MhtrÒdwroj Ð LamyakhnÒj (V sec. a.C.): discepolo di Anassagora di Clazo

mene (61 B 2 DK = D.L. II 10 12) – secondo Favorino il primo a sostenere, ™n


PantodapÍ `Istor…v, che Omero scrive i suoi poemi perˆ ¢retÁj kaˆ dikaiosÚnhj
(ma fu Teagene di Reggio Öj prîtoj œgraye perˆ `Om»rou, secondo Porfirio (8 B
2 DK [= Porph. ad Il. (Od.) I 240, 14]), usando l’interpretazione kaq' ØpÒnoian
(morale e naturalistica) con intento apologetico; cfr. &. . XX 67): Metro
doro difende ™pˆ ple‹on questa tesi e nel suo Perˆ `Om»rou interpreta allegorica
mente dèi ed eroi, Greci e stranieri dell’ , come fÚsewj Øpost£seij kaˆ
stoice…wn diakosm»seij; secondo Taziano (61 B 3 DK), ! ! (l…an
eÙ»qwj). Cfr. p. es. Esichio, .$. 'Agamšmnwn (= 61 B 4 DK): 'Agamšmnona tÕn
a„qšra MhtrÒdwroj e%pen ¢llhgorikîj. Porfirio ( . X 252) gli attribuisce un
interesse in questioni grammaticali. Vedi FLASHAR [25], p. 35 e LANATA [316],
pp. 244 247.
43 Sths…mbrotoj Ð Q£sioj: contemporaneo di Erodoto e Ione di Chio. La testi

monianza di Senofonte ( . III 6, 7 [= Antisth. fr. 61 Decleva Caizzi = V


A 185]) non è sufficiente per affermarne la professione di rapsodo (

63
! PFEIFFER [358], pp. 1 15): nel passo del in questione non si dice mai
esplicitamente che Stesimbroto e Anassimandro sono rapsodi, bensì che sono
entrambi maestri di Nicerato. Dal contesto sembra invece probabile che Ste
simbroto, pagato da Nicerato, conosca le ØpÒnoia <dei poemi>, a differenza
dei rapsodi, detti ºliqièteroi proprio perché le ignorano (vedi CANTO [18], p.
137). Stesimbroto è stato, in ogni caso, un conoscitore e un difensore di Omero:
secondo Porfirio ( &. . XI 636) ha tentato di giustificare passi omerici in
apparenza inverosimili e risolto aporie mediante una diversa separazione delle
parole e ipotizzando l’uso omerico della psilosi eolica (interpretazione kat¦
di£noian, con intento apologetico; cfr. anche &. . XV 193). Vedi LANA
TA [358], pp. 240 243.
44 GlaÚkwn: le fonti antiche recano notizia di tre diversi personaggi conosciuti

con questo nome (o con il nome Glaàkoj):

(1) kat¦ t¾n katantikrÝ À æj GlaÚkwn lšgei, Óti œnioi ¢lÒgwj proãpo(
lamb£nous… ti kaˆ aÙtoˆ katayhfis£menoi sullog…zontai, kaˆ æj
e„rhkÒtoj Ó ti doke‹ ™pitimîsin, ¨n Øpenant…on ÃÄ tÍ aØtîn o„»sei.

Arist. . 25, 1461a35 b3

Il Glaucone della ! di Aristotele (altrettanto anonimo) interpre


tava i testi kat¦ di£noian: «anche quando sembra che una parola
significhi qualcosa di contraddittorio, bisogna vedere quanti signifi
cati può avere nel contesto» ( . 25, 1461a31 33). Questo è il con
trario di ciò che, secondo Glaucone, fanno coloro che assumono
premesse senza fondamento, ne traggono deduzioni e le difendono
da tesi contrarie, con la pretesa che siano le parole stesse del poeta.

(2) Il GlaÚkwn di . 25, 1461b1 viene spesso identificato con Glaàkoj


Ð `Rhg‹noj (14 B6 DK = D.L. IX 38) o Glaàkoj Ð ™x 'Ital…aj (Plu.
# . IV 1132e): l’apparato critico riporta la lezione Glaàkoj :
& * ! (versione araba su precedente testo siriano eseguita da
Abu Bishr verso la fine del secolo X), come per lo : Glaàkoj
Sydenham. Glauco di Reggio, contemporaneo di Democrito, scrisse
un’opera Perˆ tîn ¢rca…wn poihtîn te kaˆ mousikîn e probabilmen
te una Perˆ A„scÚlou mÚqwn (vedi LANATA [358], p. 278). Se a lui si
riferisce Porfirio nello scolio . 636, Glauco (Glaàkoj! ma
GlaÚkwn Heitz), come Stesimbroto, si dedicava alla difesa dell’auto
rità di Omero, spiegando le apparenti insensatezze di alcuni passi
problematici dei poemi.

(3) Aristotele nomina, nel terzo libro della ! ( &. III 1, 1403b26),
un Glaàkoj Ð T»ioj che si è occupato di poetica.

64
IONE

Se Platone si riferisca a uno dei tre, e a quale, non possiamo dirlo con certezza,
come non lo potevano gli scoliasti. Che il Glaucone di 530d1 sia o meno
contemporaneo di Socrate non è rilevante: Ione, infatti, si confronta con Me
trodoro, Stesimbroto e Glaucone come rivali di un ! più o meno prossimo
(œscen – ind. aoristo – e„pe‹n), ma concluso: " , nessun’altro ha saputo
esprimere oÛtw poll¦j kaˆ kal¦j dianoˆaj perˆ `Om»rou Ósaj ™gè.
Sull’interpretazione poetica e la critica letteraria nell’antica Grecia, vedi la
sezione 2.2.3.1 della bibliografia.
45 Socrate coglie subito la natura !! del lšgein per… di Ione. Sulla funzione
della retorica epidittica nel e il punto di vista platonico, vedi CONSIGNY
[281], DUFFY [282], e " , pp. 136, 158 159. La " di Ione, come ve
dremo, rientra nella retorica epidittica dell’elogio, che ha lo scopo di dire
su qualcuno o qualcosa (nel caso di Omero, saranno la correttezza epistemica
di ciò che dice e una particolare $ 1 ! , vedi " , § 2.1.2.1); cfr. Arist.
&. I 9, 1367b28.
46 Kaˆ m»n: «In dialogue, expressing, directly or by implication, agreement or

consent, or a generally favourable reaction to the words of the previous speaker.


We sometimes use ‘and’ in English in such case: ‘And so it is’, ‘And I will, cer
tainly’: but often ‘Yes’, ‘Indeed’, will serve better as renderings» (DENNISTON
[482], p. 353).
47 crusù stef£nJ stefanwqÁnai: probabilmente il primo premio, conferito dagli

Omeridi e riservato al migliore dei rapsodi in un agone, secondo quanto Socrate


dice a 541c1, rispondendo con ironia all’enfasi delle parole allitteranti di Ione.
Cfr. anche 535d3 (nota 111), 541c1 (nota 162) e vedi " , p. 68.
48 Sugli Omeridi, vedi app. B.
49 Kaˆ m»n: «A particular variety of the above (vedi nota 46) is the use which we

might call ‘inceptive responsive’ [...]. A person who has been invited to speak
expresses by the particles his acceptance of the invitation: ‘Well’, ‘Very well’,
‘All right’. This use is common in Aristophanes and Plato, and is almost con
fined to them» (DENNISTON [482], p. 355).
Nel nostro caso, Socrate accetta l’invito ad ! (¢kro£sasqai) la
" di Ione in un secondo tempo (™gë œti poi»somai scol¾n), e coglie così
l’occasione per interromperlo (prima mancata ™p…deixij; cfr. !& & . 6c, !& .
275a) ed introdurre con una domanda (nàn dš moi tosÒnde ¢pÒkrinai) il tema
vero e proprio del dialogo. Ritroviamo lo stesso tipo di kaˆ m»n – e lo stesso uso
socratico – nell’espressione parallela di 536d8.
50 Inizia così, con una domanda disgiuntiva (vedi nota 8), l’œlegcoj socratico che

confuterà la tesi di Ione tecn…thj.


tosÒnde: «‘just this’. This small question, on an apparently minor matter,
is in fact the starting point of S.’s elenchus» (MURRAY [44], p. 105); cfr. . .# .
286c, !& . 274d, !& & . 6c, !. 329b5 7. In &!. 145d, «dall’ prende le
mosse il dialogo socratico; definirla “lieve” (mikrÕn dš ti ¢porî) è una forma di
attenuazione ironica (altrove Socrate dichiara di avere ancora soltanto un “pic
colo dubbio” o un “piccolo punto” di disaccordo con il proprio interlocutore:

65
cfr. p. es. !& & . 12e 13a; . 199b, 201c). Si veda anche " [ . &!.] 148c
6 7 (“cosa di lieve importanza”)» (NANNINI [128], .).
deinÒj (sott. lšgein): prima occorrenza: «abile» come sinonimo di tecn…thj
( 0, VERDENIUS [274], p. 242); implica una forma di conoscenza. Diversa la
valenza del deinÒj di 536d2: oÙ tšcnV ¢ll¦ qe…v mo…rv `Om»rou deinÕj («mirabi
le») e% ™painšthj, dove la tšcnh è negata. DeinÒj (< de…dw) significa alla lettera
«che ispira timore», quindi «terribile» (( , [470], .$. a); nel V secolo assume an
che la doppia valenza di «straordinario», «mirabile», «formidabile» da un lato (la
deinÒthj è la cosa notevole, eccezionale, in positivo o in negativo: è tremenda o
magnifica), e «abile», «capace» dall’altro. Vedremo come nello il
dell’esibizione del rapsodo verrà attribuito prima della skšyij all’abilità propria
di un tecn…thj, dopo la skšyij a un intervento divino: Ione sarà qui ! ,
non più , fatto salvo il risultato positivo della sua " . Per l’uso pla
tonico di deinÒj in opposizione ai termini di sapere, cfr. &!. 164d.
Sulla recitazione dei poemi omerici e delle opere di altri poeti (in part.
Esiodo e Archiloco), vedi app. B.
51 Un nuovo verbo compare qui in relazione al secondo quesito socratico: se

Omero ed Esiodo dicano da qualche parte le stesse cose: il verbo ™xhgšomai (6


occorrenze, di cui 4 nella sezione ! – 531a7 b9 – e 2 nella se
zione – 533b2, 8; vedi app. A). Anche qui (come per le prece
denti parole chiave: tšcnh, ˜rmhneÚj...) è Socrate a introdurre il termine. Nel ca
so di ™xhgšomai manca però il sostantivo corrispondente. Per l’etimologia e il
significato del verbo nel dialogo, ben lontano dal moderno " + o !
! , vedi " , § 2.2.1.1.
52 E„ Ãsqa... ¨n ºp…stw: periodo ipotetico dell’irrealtà.
53 Omero, come gli altri poeti, lšgei per…: tšcnai („diwtîn kaˆ dhmiourgîn), etica

(¢nqrèpwn ¢gaqîn te kaˆ kakîn), politica (polšmou te t¦ poll¦), religione (qe(


în... ¹rèwn) – usando categorie moderne. Dei temi omerici si parlerà ancora da
536e (II mancata ™p…deixij che segna l’inizio della sezione $ –
vedi app. A) fino a Ione stratega (taàt£ ge ™k tîn `Om»rou maqèn, 541b5), dove
il tema della guerra rientra in gioco e acquista particolare rilievo.
kaˆ genšseij: «Tipico del discorso parlato l’improvviso mutamento di co
struzione per cui si passa dal per… col genitivo all’accusativo semplice» (ALBINI
[68], p. 13).
54 oÙc Ðmo…wj: Omero ha composto la sua poesia $ dagli altri poeti.
Socrate traduce l’oÙc Ðmo…wj («non nello stesso modo») di Ione in un ¥meinon
(531d10), termine di valore (è usato come comparativo di ¢gaqÒj) e quindi, co
me vedremo ( " , § 1.2.2), riconducibile a criteri di verità e ÑrqÒthj.
55 PolÚ ge, n¾ D…a: locuzioni enfatiche proprie della lingua colloquiale (vedi nota

20).
mšntoi (mšn, toi): «forma asseverativa intensiva, derivata dall’unione di mšn
con toi, originario dativo etico (forma arcaica di soi)» (BARBANTANI [70], p.
30).

66
IONE

56oÙkoàn (oÙk, oân): come ben introduce E. Des Places, «oÙkoàn est un ancien
oÜkoun dont l’accent s’est déplacé» e «son sense propre est ! ; mais l’ac
cent étant passé sur la particule, l’idée de négation a souvent disparu». Si tratta
di una particella che, a differenza di oÜkoun, assume spesso in Platone forza in
terrogativa; e, nello stesso tempo, dà rilievo al valore progressivo dell’oân in essa
contenuto. Ne consegue che «une particule comme celle là devait convenir plus
qu’aucune autre à des entretiens où la pensée procède par questions graduées», e
si adatta, quindi, alla perfezione al dialogo socratico. Des Places ne distingue
due classi d’uso (I, II): ognuna prevede più casi (1, 2, 3a, b, c...), all’interno dei
quali è possibile inquadrare anche le occorrenze dello .
oÙkoàn I («en dehors des réponses. Les cas qui pourraient s’appeler
+ ! *! ), : l’idée introduite constitue par rapport aux idées antérieures
une simple addition, non une conséquence») 2: «amène un fait particulier en vue
ou à l’appui d’une loi. D’ordinaire l’énumération des faits précède l’énoncé de la
loi: c’est proprement l’induction. Mais parfois une vérité d’expérience est for
mulée sans que rien l’ait préparée directement; après coup seulement, un exem
ple vient l’appuyer» (DES PLACES [480], p. 166).
57 ð f…lh kefal¾ ”Iwn: lett. «mia cara testa d’Ione», «Ione, mio diletto capo».

Vedi MURRAY [44], p. 107 («‘may dear chap’, with the use of the proper name
as well, is clearly ironic in tone») e CANTO [18], p. 91 («chère tête d’Ion») e p.
141, nota 27; è espressione iliadica (2 occorrenze: . VIII 281 e XVIII 114), ri
presa in un testo pseudoeuripideo ( &. 903). Cfr. & . 264a8, !& . 293e4, ( .
513c2. Vedi BARBANTANI [70], p. 30: «Vocativo d’intonazione ironico affettiva
[…] equivale al latino o !. ‘Testa’ è metonimia per indicare
l’intera persona: con sfumatura affettiva richiama alla mente un volto amato;
con sfumatura ironica (come qui) un interlocutore dal ragionamento non molto
brillante». Lo stesso dicasi della locuzione qe…a kefal».
58 pollîn... eŒj tij ¥rista lšgV: frequente nel la contrapposizione uno /
molti: l’uno ( . uno solo) che si distingue tra oƒ pollo… è sempre il tecn…thj in
un certo campo (l’esperto) o il sofÒj. Cfr. p. es. . 47b 48a (Ð ™pa wn $ . oƒ
pollo…). Ma uno tra molti è anche il filosofo, basti pensare al rilievo che la figura
di Socrate ¥topoj assume nel .
59 PÒteron... À: interrogazione disgiuntiva con entrambi i membri espressi (cfr.

531e6 7). Vedi nota 8.


60 oÙkoàn I 3: «introduit une idée nouvelle qui n’est ordonnée directement ni à

une conclusion syllogistique ni à l’énoncé d’une loi; ou il ne fait qu’orienter dans


un sens plus ou moins différent la pensée de l’interlocuteur. – L’idée nouvelle
peut d’ailleurs constituer la majeure d’un syllogisme ou d’un enthymème» (DES
PLACES [480], p. 168). Cfr. 532a4, d1, e5; 537c5; 540a3.
61 oÙkoàn II 2: «amène l’énoncé d’une loi obtenue par induction, qui n’est sou

vent qu’une vérité d’expérience» (DES PLACES [480], pp. 185 186). Cfr. 537d1.
62 Anticipazione del !2 della tšcnh (introdotta da oÙkoàn II 2; vedi
nota 61): «he who has knowledge in a given field will know it as a whole»
(MURRAY [44], p. 107). È possibile per qualcuno riconoscere che una certa cosa

67
è detta/fatta solo se sa riconoscere – qualora si dia il caso – che la stessa
cosa è detta/fatta . Allo stesso modo, se non sa riconoscere che una cosa è
detta/fatta , allora non riconoscerà neanche quando è detta/fatta (co
noscenza reciproca dei contrari; cfr. & . 97d); cfr. 532c8 ss. Vedi nota 72.
ge rafforzativo.
™n kefala…J: lat. , .
63 oÙkoàn II 3 c: vedi nota 157.
64 oÙkoàn I 3: vedi nota 60.
65 oÙkoàn conclusivo (II 1): vedi nota 106.
66 ge limitativo; segue (532b8 c4). Cfr. 533c4 8: Ione non può
contraddire l’argomentazione di Socrate (OÙk... ¢ntilšgein), ma non ne è persua
so (cfr. l’¢nape‹sai di 536d5): il suo problema si ripropone (segue la ‘spiegazio
ne’ socratica tramite l’ # ! ). Vedi app. A.
67 oÙkoàn II 4: «L’assertion introduite par oÙkoàn n’est pas provoquée par la ré

ponse de l’interlocuteur; c’est encore une conclusion au sens large et qui résulte
de tout ce qui précède» (DES PLACES [480], p. 199; cfr. pp. 200 201).
«Et l’ , de 531e9 à 532b2, présente cinq oÙkoàn de catégories diverses»
(p. 209).
68 ð bšltiste (superlativo di ¢gaqÒj): «‘excellent fellow’ ironically underlines

Ion’s inability to see where S.’s argument is leading» (MURRAY [44], p. 108). Cfr.
541c7. Le occorrenze del vocativo nel sono 46, di cui 4 al plurale, una
doppia (in coppia con ¥riste), 7 seguite (o precedute) dal nome proprio della
persona (tra queste anche 541c7; in & . 227d6, il vocativo è rivolto a Socra
te): in tutte è usato da un interlocutore stupito di fronte a un’affermazione inat
tesa (perché in apparenza ; cfr. p. es. !& & . 4a7), o di fronte all’inca
pacità di seguire ragionamenti semplici che chiedono il consenso a conclusioni
banali o note (perché già raggiunte in passato; cfr. . 48a5 s.), e che seguono
da quanto concesso nelle premesse; talvolta rivolto anche a chi finge di non ca
pire e, prevedendo le conseguenze 0 negative qualora dia l’assenso, cerca di
sottrarsi. Il bšltiste ironico (finge di riconoscere un’ 1 nel dissenso ingiu
stificato) smaschera l’interlocutore. Cfr. p. es. . 24e1; !. 358b1; ( . 511c4,
515d9.
69 ƒkanÒn: lett. «che giunge alla meta» (< ƒk : «giungere»). Vedi CHANTRAINE

[468], .$. Cfr. ( . 448b1.


toÝj dT (prosecutivo) poiht¦j scedÕn ¤pantaj t¦ aÙt¦ poie‹n: cfr. ,
531c d (nota 53), dove Ione aveva concesso ('AlhqÁ lšgeij) che Omero e gli al
tri poeti trattano argomenti comuni; e le note 123 e 148.
70 dialšghtai: «discute». Benché il verbo dialšgomai assuma un significato tecni

co in altri luoghi del , qui è usato nel senso comune di discutere, e segnala
il tipo di lšgein a cui Ione poteva assistere o partecipare: un lšgein per…. È sin
golare che l’attenzione del rapsodo sia intermittente anche nella ricezione, a cui
d’altra parte si accenna solo per inciso: nella battuta seguente, l’ascolto è di nuo
vo trascurato in favore del ‘parlare’.

68
IONE

nust£zw, ™gr»gora: inizia qui la metafora del sonno e della veglia (cfr.
533a b, 536b) usata da Platone nel dialogo per indicare l’attenzione selettiva ($ .
il principio di unità della tšcnh; vedi nota 72) e intermittente (oÜte prosšcw tÕn
noàn... prosšcw tÕn noàn) del rapsodo.
nust£zw: colloquiale: «sonnecchio», «ciondolo dal sonno».
eÙqÚj (™gr»gora): «subito», «all’improvviso».
71 Prima occorrenza della coppia tšcnV kaˆ ™pist»mV, un’endiadi secondo la

maggior parte degli interpreti del passo (p. es. PRADEAU [77], p. 42, nota 1). Per
una diversa lettura, vedi VERDENIUS [274], pp. 242 245 e " , § 2.2. Cfr. 536c1
e 541e2.
72 poihtik¾... ™stin tÕ Ólon: dal !2 della tšcnh (vedi nota 62), qui
menzionato, segue un ! !" 1 del tecn…thj, che può essere così
formulato a partire dagli esempi di Socrate nel testo:

data una qualsiasi tšcnh, si può dire di qualcuno che la possiede (= che è
un tecn…thj di quella tšcnh) (condizione necessaria) sa giudicare pa
role e opere (= sa riconoscere se sono dette/fatte /in modo !! o
/ in modo !! – vedi nota 62) di & , agisca nel dominio
della tšcnh.

La mayJdik¾ tšcnh, p. es., si occupa di poesia (dominio); dunque Ione, per esse
re un rapsodo tecnikÒj, dovrà saper giudicare non solo le parole e le opere di
Omero, ma anche quelle di ! !! gli altri poeti. Platone non formula mai il !
!" 1 (quello che Socrate chiama skšyij, suggerendo per stabili
re se il presunto tecn…thj è un (buon) giudice), ma a 532d ne estende la validità a
! !! le tšcnai; il consenso di Ione arriverà soltanto a 533c4 (dopo i tre esempi),
con qualche riserva: il rapsodo dichiarerà di non poter contraddire (¢ntilšgein)
Socrate, ma non sarà persuaso dalle sue parole (cfr. l’¢nape‹sai di 536d5).
73 oÙkoàn I 3: vedi nota 60.
74 mšn pou: «Hence, further, pou is used ironically, with assumed diffidence, by a

speaker who is quite sure of his ground [...]; it suits, * , the ironical
bent of Plato, in whom it is very common» (DENNISTON [482], p. 491). Come
esempio d’uso ironico della particella nel , Denniston (p. 495) cita .
34d3.
75 Naˆ m¦ tÕn D…a... Ólhn tšcnhn l£bV. Naˆ m¦ tÕn D…a: negazione enfatica di Ione

(vedi nota 20), che riconosce a Socrate il titolo di sofÒj; titolo che il filosofo an
cora una volta rifiuta (tra i molti luoghi, vedi la & 1 1 di .
21b) restituendolo, con ironia, ai mayJdoˆ kaˆ Øpokrita… – tra i quali lo stesso
Ione – e ai poeti di cui essi cantano i poemi (cfr. . .# . 286d).
Øpokrita…: prima di 2 occorrenze (cfr. 536a1); in entrambe in coppia con
mayJdÒj (Øme‹j oƒ mayJdoˆ kaˆ Øpokritaˆ; sÝ Ð mayJdÕj kaˆ Øpokrit»j), specifi
ca uno degli aspetti della recitazione, proprio del rapsodo – al quale si riferisce
qui («voi rapsodi e attori») – come dell’attore tragico (Ð Øpokrit»j: figura profes
sionale distinta da quella del rapsodo; cfr. p. es. . III 395a8): la cura della voce,

69
il modo in cui deve essere usata per esprimere e (soprattutto) suscitare emozioni
diverse. Cfr. Arist. &. III 1, 1403b22 ss. e vedi anche ZUCCHELLI [388], pp. 47
49 (cfr. p. 41).
°dete: °dein è alternato a lšgein ed e„pe‹n nel dialogo per indicare la de
clamazione del rapsodo. «Mais la performance du rhapsode et son jeu expressif
n’étaient sans doute accompagnés d’aucune mélodie; le terme ‘chanter’ employé
à propos d’Ion ne doit donc pas être pris littéralement» (CANTO [18], p. 143,
nota 33); vedremo come e perché il verbo °dein sia usato da Platone e proprio
in questo passo ( " . § 3.2.1). Cfr. 535b4 (<eÙ> °dVj alternato ad eÙ e‡pVj) e
536b6 (°dV + mšloj al rigo seguente). Cfr. anche il commento di M. Canto ([18],
p. 155, nota 89) a 536b.
Dopo aver rifiutato il titolo di sofÒj, Socrate rivendica per sé la verità
(t¢lhqÁ: !& ! !&; vedi ALLEN [8], p. 12) dell’uomo comune („dièthn ¥n(
qrwpon), una verità , che qualunque uomo (pantÕj ¢ndrÒj) può conoscere
(il principio di unità della tšcnh e il criterio di identificazione del tecn…thj (vedi
nota 72) sono dunque semplici); qualcosa di faàlon («mediocre» alla lettera,
cioè «alla portata di tutti») che si può capire con un esempio. Cfr. la semplice
verità di . 23d.
Da un lato, dunque, la sapienza " ! ! da Socrate; dall’altro, il celebre
rapsodo di Efeso con la sua ! sapienza omerica, e la sapienza di Omero (la
sapienza dei rapsodi e attori e di coloro di cui cantano i poemi, 532c6 7; cfr.
542a1).
76 oÙkoàn I 3: vedi nota 60.
77 deinÒj ™stin ¢pofa…nein § eâ te gr£fei kaˆ § m»: cfr. 533a4 (nota 79).

PolÚgnwtoj Ð 'Aglaofîn (475 455): tra i più celebri pittori ateniesi della
seconda metà del V sec. a.C., originario di Taso, poi cittadino ateniese; non è
rimasta alcuna delle sue opere. Cfr. Arist. . 2, 1448a5 (PolÚgnwtoj mTn g¦r
kre…ttouj... e‡kazen); 6, 1450a27 28 (PolÚgnwtoj ¢gaqÕj ºqogr£foj); . VIII 5,
1340a37 (de‹ m¾ t¦ PaÚswnoj qewre‹n toÝj nšouj, ¢ll¦ t¦ Polugnètou k¨n e‡
tij ¥lloj tîn grafšwn À tîn ¢galmatopoiîn ™stin ºqikÒj). Vedi PRADEAU [77],
p. 43: «Aristote évoque la manière de Polygnote, en insistant notamment sur
son aptitude à représenter des caractères éthiques édifiants». Cfr. anche . V
472d; &. 234a ss. e ( . 448b.
78 ¢pore‹: lett.: «è in aporia»; $ . il seguente eÙpore‹ (533a5). In coppia anche a

533b4, c2 (¢pore‹, Socrate) e c6 (eÙporî, Ione). Sulla ricezione, vedi nota 70.
79 ¢pof»nasqai gnèmhn: spiega ™xhgeÒmai (nota 51); vedi nota 77, " , § 2.2 e
app. C.
80 OÙ m¦ tÕn D…a, oÙ dÁta: negazione enfatica di Ione. Cfr. 533b4 5 e 535d6; ve

di nota 20.
81 Da…daloj Ð Mht…wn: mitico scultore ateniese dal nome parlante: Da…daloj (<

daid£llw = «lavoro con arte») = «che lavora abilmente»; ma anche Mht…wn <
mÁtij. «Dédale est loué comme le constructeur du labyrinthe qui abritait le Mi
notaure et l’inventeur de statues qui avaient l’apparence de la vie» (CANTO [18],
p. 144, nota 36). Cfr. # . 97d e, «où ces statues sont comparées aux opinions

70
IONE

vraies qui peuvent s’enfuir tant qu’elles ne sont pas retenues par un lien ration
nel». Vedi RICHTER [173] e FRONTISI DUCROUX [400]. Cfr. ancora !& &. 11c
e, 15b9 10; . I 121a4; . .# . 282a1; . VII 529e1; . III 677d3.
'EpeiÒj Ð PanopeÚj: vincitore di una gara di pugilato ai giochi funebri per
la morte di Patroclo ( . XXIII 665 ss.), costruì il cavallo di Troia con l’aiuto di
Atena ( . VIII 493; cfr. XI 523). Cfr. . X 620c1 2 (met¦ dT taÚthn „de‹n t¾n
[ . yuc»n] 'Epeioà toà Panopšwj e„j tecnikÁj gunaikÕj „oàsan fÚsin) e . VII
796a3.
QeÒdwroj Ð S£mioj: «a celebrated craftsman of the middle of the sixth
century B.C.» (MURRAY [44], p. 111). Cfr. Hdt. I 51, III 41.
82 deinÒj ™stin ™xhge‹sqai § eâ pepo…hken: vedi note 51 e 77.
83 OÙ m¦ tÕn D…a...: negazione enfatica di Ione. Vedi nota 20.
84 'OlÚmpou... mayJdoà: «legendary exponents of the four types of mousik» just

mentioned» (MURRAY [44], p. 111): le quattro forme classiche di mousik» oltre a


poesia, pittura e scultura, le ultime due scelte da Socrate negli esempi di 532e
533b. Vedi PRADEAU [77], p. 45, nota 1.
”Olumpoj (aÙlht»j): allievo del satiro Marsia ( . 215c; # . 318b5 –
”Olumpoj Ð FrÚx; cfr. Ar. ,. 9; Paus. X 30, 9; Ps. Plu. # . 1133d6 ss.), Ð mšn
ge di' Ñrg£nwn ™k»lei toÝj ¢nqrèpouj tÍ ¢pÕ toà stÒmatoj dun£mei; o forse con
lui inventore di mousik» ( . III 677d). Chiunque suoni le sue composizioni, che
sia Olimpo, un ¢gaqÕj aÙlht»j o una faÚlh aÙlhtr…j, ottiene lo stesso risultato
in virtù del loro essere divine.
Q£murij (kiqarist»j): leggendario citaredo (kiqarJdÒj), originario di Tra
cia, che per primo suonò lo strumento ( . la cetra; «la cithare était un instru
ment semblable à une lyre, avec une caisse de résonance en bois et des cordes
de longueur égale», CANTO [18], p. 145, nota 39) senza accompagnamento vo
cale, diventando così citarista (kiqarist»j). Vedi . II 595 600; E. &. 924 925;
Pl. . X 620a (nel mito di Er, la sua anima sceglie la vita di un usignolo –
¢hdÒnoj, a7), . VIII 829d e (come Orfeo, canta ¹d…onej Ûmnoi); Ps. Plu. # .
1132b c. Cfr. ancora CANTO [18], .: «la cithare servait surtout à accompagner
un chant; utilisée seule, elle est désignée comme 0 3 !& 4 ( II 669e)».
'OrfeÚj (kiqarJdÒj): «the mythical Thracian musician who charmed na
ture itself with singing, chosen here as the archetype [cfr. Pl. . III 677d3] of
kiqarJd…a» (MURRAY [44], p. 112), e cioè del canto con accompagnamento della
cetra (kiq£ra – o k…qarij – + ¢oidÒj; vedi ( [470], .$.). È ricordato insieme a
Tamiri in Pl. . X 620a4, . VIII 829e1 e Paus. X 30, 8. Vedi anche . 41a6;
. 400c5, 402b6; & . 66c8; . 179d2; !. 315b1 (Protagora incanta con la
voce – khlîn tÍ fwnÍ – come Orfeo, oƒ dT kat¦ t¾n fwn¾n ›pontai kekhlhmš(
noi), 316d8 (Orfeo antico sofista mascherato!); . II 364e3; . II 669d5 (ben 12
occorrenze nel platonico); e Verg. (. IV 454 ss. Cfr. ALBINI [68], pp. 21
22.
F»mioj (mayJdÒj) toà 'Iqakhs…ou: aedo dell’ (¢oidÒj, XXII 330; cfr.
345 ss.), costretto a cantare 11 (met£, 351 352) o $ ! (par£, I 154) ai
pretendenti. Dal primo libro sappiamo che cantava accompagnandosi con la ce

71
tra, a differenza di quanto avviene per l’epica a noi tramandata – l’origine musi
cale dell’esametro, verso recitato, è denunciata dalla sua composizione (k…qa(
rin, 153; ½toi Ð form…zwn ¢neb£lleto kalÕn ¢e…dein, 155; ma in XXII 332 e 340:
fÒrmigga l…geian, fÒrmigga glafur»n; ancora, in XVII 270 271, la fÒrmigx è fat
ta dagli dèi «compagna del pasto»); i vv. 156 324 sono un esempio del contenu
to dei suoi canti (vv. 326 327): Ð d' 'Acaiîn nÒston ¥eide | lugrÒn, Ön ™k Tro…hj
™pete…lato Pall¦j 'Aq»nh (cfr. anche vv. 337 338: F»mie, poll¦ g¦r ¥lla bro(
tîn qelkt»ria o%daj | œrg' ¢ndrîn te qeîn te, t£ te kle…ousin ¢oido…; e il v. 350:
Danaîn kakÕn o%ton ¢e…dein). I pretendenti (e Penelope) ascoltavano in silenzio
(siwpÍ e†at' ¢koÚontej) il canto ispirato (qšspin ¢oid¾n). Vedi anche i vv. 351
352: t¾n g¦r ¢oid¾n m©llon ™pikle…ous' ¥nqrwpoi, | ¼ tij ¢•Òntessi newt£th
¢mfipšlhtai (famosissima, e dibattuta, dichiarazione di poetica).
Qui Femio è chiamato mayJdÒj, come Ione (per differenze e affinità tra
aedi e rapsodi dell’antica Grecia, vedi app. B), e proprio come Ione è celebre
(to‹si d' ¢oidÕj, I 325; Femio è + " , come recita il suo nome parlante).
Cfr. anche . VIII 83: ¢oidÕj ¥eide periklutÒj.
85 ™ke‹no: pronome dimostrativo di cosa lontana, nel nostro caso le parole che

Ione ha pronunciato a 530c8 9 (o%mai k£llista ¢nqrèpwn lšgein perˆ `Om»rou),


le stesse che è sul punto di ripetere qui (™mautù sÚnoida perˆ `Om»rou k£llist'
¢nqrèpwn lšgw).
™mautù sÚnoida (sun + o%da; lat. ; alla lettera: «so con me stes
so <e solo con me stesso>»): Ione è sapevole o sciente (i due termini italia
ni mantengono la radice di ‘sapere’ o ‘scienza’ e il prefisso con , senza specifica
re & questa forma di sapere è divisa – ciò che è espresso dal dativo
greco e latino) di «parlare di Omero meglio di chiunque altro» ( 1
), così come Socrate in . 21b è consapevole di non essere sapiente affatto
(lett. né molto né poco, oÜte mšga oÜte smikrÒn). Solo 4 occorrenze in tutto il
(cfr. & . 92d3 e . 216b3).
kaˆ oƒ ¥lloi... eâ lšgein: «e tutti dicono che io parlo bene» ("
! ; la stessa di Socrate, 0 ). Vedi " , pp. 114 115, 115 nota 53, 134.
86 qe…a dÚnamij: prima occorrenza (cfr. 534c6). La " 1 divina, introdotta da So

crate a spiegazione dell’eâ lšgein di Ione, è così chiamata per analogia alla dÚna(
mij attraente del Magnete. Fuor di metafora, sarà qe…a mo‹ra (!) katokwc» o
™nqousiasmÒj (cfr. p. es. 533e5, 7; 535a4). È evidente l’uso sinonimico delle due
locuzioni ( . qe…a dÚnamij e qe…a mo‹ra) a 534c1 e c6, dove entrambe sono con
trapposte al possesso di una tšcnh.
87 ™n tÍ l…qJ... MagnÁtin... `Hrakle…an: la calamita, pietra ! !! Eraclea
(esempio dell’attenzione rivolta alla lingua d’uso; vedi 535e8), ma chiamata da
Euripide Magnesia (il riferimento è al fr. 567 N.2 – t¦j brotîn | gnèmaj skopîn
éste MagnÁtij l…qoj | t¾n dÒxan ›lkei kaˆ meq…hsin p£lin). M. Canto ([18], pp.
146 147, nota 44) riassume le possibili spiegazioni del doppio nome:

(1) il ritrovamento della pietra allo stato naturale presso le due località
di Magnesia ed Eraclea, difficili da identificare.

72
IONE

(1.1) MAGNESIA:

(1.1.1) regione della Tessaglia, che si affaccia


sul golfo di Salonicco;
(1.1.2) città della Caria (Asia Minore) sulle rive
del fiume Meandro;
(1.1.3) Magnesia dell’Ermo: città della Lidia
(Asia Minore), presso il monte Sipilo
(designata da Sofocle come ludikÕj l…(
qoj – fr. 800 Pearson).

(1.2) ERACLEA:

(1.2.1) città della Caria, a sud di Magnesia sul


Meandro (1.1.2);
(1.2.2) città della Lidia, come Magnesia dell’Er
mo (1.1.3).

La prossimità delle due città della Lidia o della Caria, oppure semplice
mente di due città dell’Asia Minore, potrebbe spiegare il doppio nome
della calamita. Plinio ( !. XXXVI 25, 130) ricorda come luoghi di pro
duzione della pietra la Magnesia tessalica e Magnesia (quale delle due?) in
Asia. Cfr. Lucr. VI 906 909.
Ricordiamo che anche Efeso, patria di Ione, si trova in Asia Mi
nore, al confine tra la Lidia e la Caria (nota 8).

(2) «Pliny ( ! XXXVI 127), citing Nicander, says that the stone was
named after its discoverer, Magnes, a herdsman who found the
nails of his boots sticking to his crook.»
MURRAY [44], p. 113

(3) Il nome di Eracle è attribuito alla calamita come metafora della


sua forza attraente. Vedi . 80c.

Le diverse spiegazioni registrate da Plinio testimoniano una difficoltà già antica


nel tentativo di ricostruire le origini dei due nomi della calamita. Il passo del
sopracitato, dove alla pietra di Eracle (tîn `Hrakle…wn l…qwn) è negato il
possesso della forza d’attrazione ( ! 533e2 3, con ¹ Moàsa... aÙt» in po
sizione di rilievo), mostra come questo nome – probabilmente popolare (cfr.
533d4) – le sia attribuito in modo improprio. Suggestivo il richiamo alla pratica
omerica del doppio nome, quello proprio degli dèi e quello accessibile agli uo
mini.
88 kaˆ g¦r aÛth ¹ l…qoj... ¢n»rthtai: la descrizione della catena di anelli che lette

ralmente dipendono dal Magnete (riassunta e completata – nella versione meta

73
forica – dall’aggiunta dell’ultimo anello tra 535e7 e 536b5) è ripresa negli stessi
termini da Lucrezio (VI 910 916):

Hunc homines lapidem mirantur; quippe catenam


saepe ex anellis reddit pendentibus ex se.
Quinque etenim licet interdum plurisque videre
ordine demisso levibus iactarier auris,
unus ubi ex uno dependet subter adhaerens
ex alioque alius lapidis vim vinclaque noscit:
usque adeo permananter vis pervalet eius.

Vedi anche Plin. !. XXXIV 14: «Sola haec materia [ . ferrum] vires ab eo
lapide accipit retinetque longo tempore, aliud apprehendens ferrum, ut anulo
rum catena spectetur interdum»; e August. XX 4.
ést' aâ dÚnasqai... daktul…ouj: « ! ! & "" !,
. Proposizione consecutiva con l’infinito e l’accusativo perché la conseguen
za è considerata come effetto spontaneo di ciò che indica il verbo reggente»
(BOSIO [73], p. 45), ! la consecutiva seguente: éste... ½rthtai.
½rthtai... ¢n»rthtai... ™xart©tai: nell’ordine allitterante, ind. perf. medio
di ¢rt£w, ind. pres. medio contratto di ¢nart£w e di ™xart£w; verbi della stessa
famiglia con una radice comune per il significato letterale (½rthtai, ¢n»rthtai) e
per quello metaforico (™xart©tai; cfr. a 536a b la sequenza ™x»rthtai, ™xhrthmš(
nwn, ™x»rthtai, ºrthmšnon, tutti metaforici; cfr. anche la $ ! ¢nakremannÚj,
™kkremamšnwn nello stesso passo), modificata dai prefissi ¢n ed ™k . Vedi nota
116.
Con questa descrizione ha inizio l’analogia scelta da Socrate per ‘spie
gare’ – ma di vera spiegazione non si tratta (vedi " , § 3.1.2) – l’eâ lšgein perˆ
`Om»rou di Ione (533d1 ss.), analogia che si chiuderà a 536d3 e che occupa
l’intera seconda sezione del lÒgoj (vedi app. A). Quanto di questa immagine ap
partenga alla tradizione (DELATTE [416] la attribuisce a Democrito, autore di un
trattato Perˆ tÁj l…qou) e quanto invece è platonico, lo vedremo nel terzo capi
tolo del commento ( " , § 3.1).
89 Moàsa: cfr. 534c2, 536b3; . 409d2 (kaˆ kinduneÚei ½toi ¹ toà EÙqÚfronÒj
me Moàsa ™pileloipšnai) e 428c8 (¥llh tij Moàsa p£lai se ™noàsa ™lel»qei).
La Musa alla quale Platone si riferisce qui – come motore della catena di ™nqou(
siasmÒj – nel ! e in altri luoghi del , probabilmente non è una parti
colare Musa, ma un simbolo della forza irrazionale che entra nel poeta, nel rap
sodo o nello spettatore (come in Eutifrone e – ironicamente – nello stesso So
crate) e ne trascina l’anima ovunque voglia (nota 115 e app. D3, .$. yuc»), a
qualunque dio questa forza appartenga. Vedi la specializzazione delle catene di
vine di 536b, ognuna formata da anelli diversi: p. es. Orfeo, Museo e Omero si
alternano in una posizione intermedia.
90 ™nqšouj: prima di 4 occorrenze (cfr. 533e4, 6; 534b5); solo altre 6 nel :
. 179a7, 180b4; & . 244b4, 255b6; . 71e4, 72b1.

74
IONE

™nqousiazÒntwn: prima occorrenza (cfr. 535c2 e 536b3): «preso da entu


siasmo» è qui sinonimo di œnqeoj, termine – appena introdotto – che nella cate
na animata dalla Musa sostituisce il daktÚlioj della catena magnetica. L’etimolo
gia di ™nqousi£zw (o ™nqousi£w, contr.), del sostantivo ™nqousiasmÒj e dell’agget
tivo ™nqousiastikÒj viene fatta risalire a quella di œnqeoj: ™n + qeÒj (vedi (
[470], .$$.). Essere ! o ! significa dunque avere il dio sé,
almeno per Socrate e Platone, che modificano il soggetto dell’ispirazione divina:
non più essere (o essere ! ), come sembra suggerire l’etimo, bensì ave
re il dio 0. In modo analogo, nell’espressione ¹ Moàsa ™nqšouj poie‹ aÙt»
(533e3 4) è la Musa stessa «qui met le divin en certains hommes» (PRADEAU
[77], p. 46, nota 2); «La Mouse fait que le dieu est dans l’artiste» (PERLS [434], p.
263): è il principio di transitività della catena magnetica. Complementare il ter
mine œkfrwn (vedi nota 96).
È però vero, come nota U. Albini ([68], pp. 25 26), che Socrate sembra
distinguere in questo passo tra gli anelli della catena che sono œnqeoi – verosi
milmente i poeti, trattandosi di quegli anelli che dipendono in linea diretta dalla
Musa (cfr. 535e7 ss.) – e gli ™nqousi£zontej che sono direttamente legati:
rapsodi e pubblico, secondo quanto ci dice il seguito dell’analogia. E il verbo
™nqousi£zw nelle altre due occorrenze del dialogo non è mai riferito ai poeti,
bensì in un caso (535c2) a Ione – alla sua yuc» – nell’altro (536b3) a coloro che
dipendono da Orfeo, Museo, Omero: sempre, dunque, ai rapsodi. Non solo:
l’anima di Ione, presa da entusiasmo, crede di trovarsi in mezzo ai fatti di cui
narra (p. es. a Itaca o a Troia), e il suo stato ! ! consiste nel versare lacrime
mentre pronuncia parole pietose e nei sussulti del cuore quando dice cose terri
bili (e tutto questo, osserva Socrate a 535d ss., senza alcuna ragione); effetti,
questi, che produce anche nel pubblico, suscitando in ogni ascoltatore lo stesso
! (535b 536a). Il verbo ™nqousi£zw (sostantivo e aggettivo non com
paiono nel dialogo) sembra dunque usato da Platone per dire gli effetti dell’ispi
razione divina sull’anima degli uomini, la locuzione œnqeoj e%nai per indicarne il
processo: il dio che ! nell’uomo, mentre, vedremo, fr»n e noàj se ne allon
tanano. Per lo stesso uso di ™nqousi£zw, vedi & . 15e1 (Øf' ¹donÁj ™nqousi´) e
& . 249e1, dove la quarta forma di man…a è definita il miglior tipo di
™nqous…asij, variante di ™nqousiasmÒj e & * platonico. Altre occorrenze nel
(in tutto 18) non rispettano invece questa distinzione, ma in alcuni casi
vedono ™nqousi£zw come sinonimo esatto di œnqeoj e%nai, in altri fanno riferi
mento al processo e insieme agli effetti dell’ispirazione divina (vedi § 3.2).
91 p£ntej g¦r o† te tîn ™pîn poihtaˆ oƒ ¢gaqo…: non ! !! i poeti epici (tra i quali

Omero) o melici (il secondo elemento della correlazione che riprende il te è kaˆ
oƒ melopoio…, e8) recitano i loro poemi per ispirazione (œnqeoi) e non in virtù di
una tšcnh, ma soltanto i poeti ¢gaqo… – in posizione attributiva (cfr. 531b6: tîn
m£nteèn tij tîn ¢gaqîn). Vedi nota 92 e " , § 1.2.1.1. Se l’ispirazione divina è
garanzia – o condizione sufficiente – del poeta, vedremo come la tšcnh po
trà essere considerata in un senso condizione necessaria, in un altro ininfluente
– comunque non sufficiente (vedi & . 245a5 8: il poeta per tšcnh è ¢tel»j);

75
infine, in un senso importante ed estremo, risulterà impossibile per l’¢gaqÒj
possederla ( " , § 3.1.2), pur essendo essa stessa , & un dono divino
(537c5 7). E ci troveremo di fronte a una situazione nella quale «paradoxically,
the better the poetry, the less skill the poet has. Ion himself is, of course, a par
ticularly good rhapsode, having carried off first prize at Epidaurus (above 530b,
cf. 530c8 d3)» (MURRAY [44], p. 114); e tuttavia Socrate gli nega la tšcnh insie
me con ogni facoltà razionale, sostenendo – contro il senso comune condiviso
dal rapsodo – che, nell’esercizio della propria attività, Ione è «fuori di senno»
(vedi nota 96).
tîn ™pîn poihta… [& * nel platonico]: lett. «i poeti degli œph [vedi
app. B]» o poeti epici: Omero ed Esiodo; cfr. 534c4: Ð d' œph. I melopoio… di
533e8 sono invece «‘composers of lyric poetry’. This word [...] emphasises the
musical aspects of lyric composition (cfr. Ar. % . 1250)» (MURRAY [44], p.
115), come sembra confermare la seconda e ultima occorrenza del , in !.
326a7; cfr. 534e1, 6 (nota P. Murray che la ripetizione della parola suggerisce
che siano i poeti lirici in particolare ad essere paragonati ai korubantiîntej e alle
Baccanti, «with music providing the link between them»); vedi anche .
187d1 e . III 404d12, dove melopoi a significa alla lettera composizione musi
cale. «Il termine lurikÒj (in Cicerone si trova per la prima volta ' ) è usato
con frequenza solo dal I secolo a.C.» (BARBANTANI [70], p. 42).
92 katecÒmenoi: «posseduti», prima di 11 occorrenze (vedi 534a5, e5; 536a8, b4,

b5 – e nota 116 – c4, d5; 542a4). Il verbo katšcw è usato come sinonimo di
™nqousi£zw e della locuzione œnqeoj e%nai (leggi œnqeoi Ôntej kaˆ katecÒmenoi
come endiadi): nei primi, il prefisso ™n e la radice $ (contiene qeÒj) veicola
no l’idea di un dio ! di sé; il participio medio del verbo katšcw, invece, sug
gerisce il legame di dipendenza (metaforica: il poeta o il rapsodo non , ma )
! <dalla Musa> – a 542d Ione è posseduto da Omero) di ogni anello del
la catena da quelli che lo precedono – e in ultima analisi dalla Musa attraente –
giocando con il verbo di radice comune œcw, usato per indicare la letterale di
pendenza magnetica degli anelli di ferro uniti in una catena. Questa catena è il
primo termine dell’analogia (cfr. le occorrenze di 536b), che descrive l’oggetto
(la calamita) e il processo fisico (il magnetismo) ai quali sono paragonate la Mu
sa e l’ispirazione divina.
«Il participio presente indica la durata della possessione divina, per tutto
il corso della recitazione poetica» (BARBANTANI [70], p. 42).
Cfr. anche l’uso del sostantivo katokwc» a 536c2 (nota 117).
93 Le opere dei poeti ispirati (e dei rapsodi – cfr. p. es. l’eâ e‡pVj œph di 535b2 e

l’eâ lšgeij di 536e2) sono kal£, come i poeti stessi erano ¢gaqo… in e6, 8 (vedi
nota 91) e Ione rapsodo nelle parole di lode spese da Socrate nel proemio, co
me alle pp. 540e e 541a b, dove non solo è detto ¢gaqÒj, ma ¥ristoj.
L’avverbio eâ è usato nel dialogo come sinonimo di kalîj (nota 108).
È già evidente da queste prime righe dell’analogia del Magnete che uno
stesso trattamento è riservato a poie‹n e lšgein, nel suo doppio uso di o
! qualcosa (lšgein + acc.) e o qualcosa/qualcuno (lšgein per… +

76
IONE

gen.): oÙk ™k tšcnhj ¢ll' œnqeoi Ôntej kaˆ katecÒmenoi p£nta taàta t¦ kal¦ lš(
gousi poi»mata [...] oÙk œmfronej Ôntej t¦ kal¦ mšlh taàta poioàsin, detto ri
spettivamente dei poeti epici e lirici, quelli ¢gaqo…; cfr. 534b8 c1: oÙ tšcnV
poioàntej kaˆ poll¦ lšgontej kaˆ kal¦ perˆ tîn pragm£twn... ¢ll¦ qe…v mo…rv,
detto di ! !! i poeti ¢gaqo… (a 534b4 poeti epici e melopoio… lasciano il posto a un
generico poiht»j) e di Ione (ésper sÝ perˆ `Om»rou), dunque dei rapsodi. ! è
qui ognuno capace «di comporre bene [poie‹n kalîj] solo ciò a cui la Musa lo
spinge», che si tratti di poemi epici o di encomi (cose dette o cantate, '. 205e3;
cfr. d6; & . 235e, dove l’encomio è un lÒgoj e i discorsi elogiativi del –
p. es. 214c1), di un poie‹n o di un lšgein per….
94 oƒ korubantiîntej: alla lettera «coloro che coribanteggiano», cioè che si com

portano da (o fanno i) Coribanti; e come i Coribanti, coloro che partecipano ai


riti sono presi da una forma di delirio (la stessa, cfr. 536c: vale il magnetismo
della catena divina). Alcuni (p. es. CANTO [18], p. 100) traducono semplicemen
te «coribanti», trasformando il nome proprio collettivo in un nome comune
come ‘mecenate’, ‘apollo’, ecc. (ma il greco usa il participio del verbo koruban(
ti£w, come noi ci serviamo di locuzioni o sintagmi laddove non esista ancora
l’uso per antonomasia del nome proprio) – conservando però la maiuscola (così
anche C. BOSIO ([73], p. 45), benché riconosca che la traduzione «coribanti» è
corretta solo se il nome è inteso per antonomasia; bene invece ALBINI [68], p.
25; BARBANTANI [70], p. 42; PRADEAU [77], p. 47). La stessa espressione com
pare per la prima volta in Ar. 5. 8 e, nel platonico, in . 54d3; .
215e1; & . 228b7 (sugkorubantiînta).
Ho scelto la traduzione «coloro che partecipano ai riti coribantici» se
guendo DODDS ([418], in particolare pp. 109 110, nota 3) – ! LINFORTH
([423]) – perché Socrate cita nel passo precise figure religiose tradizionali, come
le Baccanti (vedi nota 95), i <qeo>m£nteij e i crhsmJdo… (vedi nota 100) – dun
que è verosimile che nel caso dei korubantiîntej si riferisca proprio al rito dei
Coribanti; tuttavia credo che per il testo platonico sia importante il comporta
mento Coribante, non tanto l’appartenenza ad un rito piuttosto che a un al
tro; e lo stato mentale corrispondente più che il tipo di danza e di delirio provo
cato: chi si comporta da Coribante semplicemente non è in sé (oÙk œmfronej),
come il passo dello non manca di dire (534a1 2): e questo è quanto basta a
Platone per far funzionare la similitudine, di cui oÙk œmfronej è il termine me
dio: ésper oƒ korubantiîntej oÙk œmfronej Ôntej... oÛtw kaˆ oƒ melopoioˆ oÙk
œmfronej Ôntej...). Vedi nota 95.
Per il sostantivo KorÚbaj, vedi !& . 277d7; . VII 790d4. I Coribanti
erano in origine i ministri della dea frigia Cibele ( &. "# Pi. . III 137b;
Verg. . III 111; Hor. . I 16, 5 ss.), distaccatisi poi dal suo culto per for
marne uno indipendente (vedi il rito della qrÒnwsij descritto in !& . 277d e
D.Chr. XXII 33, 387) che ha ereditato dall’antico la funzione risanatrice
(Diog.Ath. I 5, p. 776 N.2; D.S. III 58, 2; cfr. LINFORTH [423], p. 157 e DODDS
[418], pp. 105 106, nota 2), della quale lo stesso Platone ci informa in . VII
790d4 (vedi anche Apollod. III 5, 1); divinità minori – ricordate nel numero di

77
nove – ai Coribanti si attribuiva l’invenzione di danze accompagnate dal suono
di strumenti a fiato, che producevano in chi le ballava stordimento ed estasi
(vedi p. es. E. 6 . 120 ss.).
95 ™peid¦n ™mbîsin; ™mba…nw: entrare in ciò che prima era ¥batoj = ! (cfr. in
E. 6 . 466, l’uso del sinonimo e„sba…nw).
e„j t¾n ¡rmon…an kaˆ e„j tÕn muqmÒn: armonia e ritmo definiscono la meli
ca, insieme al lÒgoj: tÕ mšloj ™k triîn ™stin sugke…menon, lÒgou te kaˆ ¡rmon…aj
kaˆ muqmoà ( . III 398d1 2; vedi anche . 187c d e . II 655a). Cfr. . .# .
285d3 e . .# . 368d4; . III 397b c, 401d5 ss.: ’Ar' oân, Ãn d' ™gè, ð GlaÚkwn,
toÚtwn ›neka kuriwt£th ™n mousikÍ trof», Óti m£lista katadÚetai e„j tÕ ™ntÕj
tÁj yucÁj Ó te muqmÕj kaˆ ¡rmon…a, kaˆ ™rrwmenšstata ¤ptetai aÙtÁj fšronta
t¾n eÙschmosÚnhn, kaˆ poie‹ eÙsc»mona, ™£n tij Ñrqîj trafÍ, e„ dT m», toÙ(
nant…on; . II 653e; 665a: d¾ tÁj kin»sewj t£xei muqmÕj Ônoma e‡h, tÍ dT aâ tÁj
fwnÁj, toà te Ñxšoj ¤ma kaˆ baršoj sugkerannumšnwn, ¡rmon…a Ônoma prosago(
meÚoito, core…a dT tÕ sunamfÒteron klhqe…h (vedi nota 116).
bakceÚousi... ésper aƒ b£kcai: essere «presi da furore bacchico (cfr.
MURRAY [44], p. 115: «broadens frenzied ecstasy» e vedi il suneb£kceusa di
& . 234d5, che richiama il sugkorubantiînta di 228b7; alla lettera, il verbo ba(
kceÚw significa: «baccheggiare», «comportarsi come le Baccanti») e posseduti» –
e cioè essere œnqeoi, per l’endiadi di 533e6 7 (vedi nota 92) – è contrapposto a
uno stato di pieno possesso delle proprie facoltà mentali (oÙk œmfronej... ¢ll'
™peid¦n...); sembra coincidere con quell’assenza di fr»n (oÙk œmfronej; œkfrwn
per la prima e unica volta in b5) che è termine medio del paragone con i koru(
bantiîntej, appena concluso, così come del paragone con le Baccanti che sta
per essere introdotto: ésper aƒ b£kcai ¢rÚontai ™k tîn potamîn mšli kaˆ g£la
katecÒmenai, œmfronej dT oâsai oÜ, kaˆ tîn melopoiîn ¹ yuc¾ toàto ™rg£zetai.
La lunga similitudine doppia ha dunque come estremi, da un lato, i poeti melici
(e la loro anima a 534a6), dall’altro korubantiîntej e Baccanti, accomunati non
tanto dalla frenesia o dall’esaltazione di qualche noto rituale (per l’uso di termini
tradizionali nell’analogia di queste pagine, vedi " , § 3.1.1), quanto dallo stato
mentale, privo di fr»n, in cui si trovano tutti. In . VII 790d e, abbiamo una
testimonianza del legame interno tra l’essere privi di senno e il comportarsi co
me una Baccante (tîn ™kfrÒnwn bakceiîn), o come un Coribante (in d4, le nu
trici sono paragonate alle donne che hanno trovato una cura alla frenesia dei
Coribanti, così come in e3 esse curano i neonati nello stesso modo in cui ven
gono curati «coloro che sono fuori di sé per i furori bacchici»).
aƒ b£kcai: sacerdotesse di Bacco Dioniso, dette anche Menadi, alle quali
Euripide intitolò una tragedia.
d»pouqen: «come il latino ! serve a rafforzare un’affermazione» (BAR
BANTANI [70], p. 44): «certo», «senza dubbio», «appunto», «proprio».
96 kaˆ ¢lhqÁ lšgousi: è riferito al lšgousi di 534a7 – e al contenuto che lo pre

cede – ripreso allo stesso rigo, e spiegato da quanto segue (koàfon g¦r... ™n aÙtù
™nÍ). «Un vero, per altro, che non può essere sottoposto alla œlegxij socratica
perché del tutto indipendente dalla sfera razionale» (BATTEGAZZORE [71], p.
28).

78
IONE

œnqeÒj te... kaˆ œkfrwn kaˆ Ð noàj mhkšti ™n aÙtù ™nÍ: essere œnqeoj impli
ca essere œkfrwn (il dio sé prende il posto delle facoltà razionali, che si allon
tanano – ™k – sé), cioè (il secondo kaˆ è forse epesegetico) avere più sé
il noàj: l’™k è spiegato dalla negazione (mhkšti) dell’™n iterato con enfasi (la se
quenza è ™n kaˆ ™k kaˆ epes. ™n... ™n ). Cfr. Ar. &. 395 400: DI. ”Endon œst'
EÙrip…dhj; |QE. OÙk œndon œndon ™st…n, e„ gnèmhn œceij. | DI. Pîj œndon, e%t' oÙk
œndon; QE. 'Orqîj, ð gšron. | noàj mTn œxw xullšgwn ™pÚllia | oÙk œndon, aÙtÕj
d' œndon ¢nab£dhn poie‹ tragJd…an. Cfr. anche l’uso della locuzione œxw sautoà
come contrario di œmfrwn a 535b7 c1.
Questa è la sola occorrenza del termine œkfrwn nello ; tre nel resto
del : . III 402e5, . VII 790e2, XI 929d4, dove a portare fuori di senno
sono rispettivamente l’amore passionale (¹donÍ ØperballoÚsV) e il dolore, i fu
rori bacchici, malattia, vecchiaia e asprezza dei modi (trÒpwn calepÒthj).
97 ésper sÝ perˆ `Om»rou: dal generale al particolare, come sempre nel dialogo:

l’argomentazione socratica è & . Vedi " , § 2.1.


qe…a mo‹ra: prima occorrenza (vedi nota 86). La mo‹ra è la parte assegnata
di vita, il destino prescritto dal dio (( [470], .$. b), così come me…romai assume
il significato di avere in sorte. «La !& 4 4 désigne le lot ou la part de leur
puissance que le dieux remettent aux hommes (quand, par exemple, ils leur font
le don d’une région, du feu ou d’une technique). C’est une part de puissance
(une faveur en ce sens) qui est ainsi concédée, une !& 4 7 [cfr. nello stesso
passo l’occorrenza del rigo c6, sempre contrapposta alla tšcnh]» (PRADEAU [77],
p. 49, nota 3).
98 ¹ Moàsa... érmhsen: «a reminiscence of Hom. . 8.499 Ð d' [DhmÒdokoj]
Ðrmhqeˆj qeoà ¥rceto, as recognised by Proclus ( . I, p. 184, 27 8 Kroll),
who comments: taÚtV tÕn “Omhron zhlîn» (MURRAY [44], p. 119).
érmhsen: l’aoristo indica qui iterazione.
La dÚnamij concessa dalla Musa è selettiva, come l’attenzione che Ione
rivolge a Omero (nota 70): riguarda uno tra i generi di mousik», che si tratti
di prosa (Gorgia usa ™gkèmion per indicare la sua apologia di Elena, prosastica;
" , § 3.2.1) o poesia (nota 93), ! il principio di unità della tšcnh (nota 99;
cfr. le note 62 e 72); sono qui elencati oltre all’epica, già introdotta con i tîn
™pîn poihta… di 533e6, encomi (alla lettera: canti del kîmoj – la baldoria o la fe
sta, diversa dal banchetto e dal simposio; vedi p. es. Pl. . 212c7 e 223b2);
ditirambi (in origine, canti con acclamazione in forma di ritornello – Archil. fr.
120 Diehl – che accompagnavano le danze in onore di Dioniso; vedi . III
700b4 5. Secondo Erodoto – I 23 – Arione ne fu l’inventore); iporchemi (prima
occorrenza nella letteratura greca e & * platonico – cfr. D.H. . 7 e Lucia
nus !. 16; come i peana, sono canti corali con danze consacrati ad Apollo e
Artemide) e giambi (genere poetico proprio della satira; Aristotele – . 4,
1448b – ne attribuisce l’invenzione a Omero nel # ! , ma è soprattutto ad
Archiloco che dobbiamo lo sviluppo di questo genere; vedi Hdt. I 12 e Arist.
&. III 17, 1418b).

79
faàloj: nel dialogo, contrario di ¢gaqÒj (e di deinÒj: vedi " , p. 108,
nota 167). Cfr. 532e6 e 534e6; a 532e2, Socrate rifiuta il titolo di sofÒj attribui
togli da Ione e giudica faàloj kaˆ „diwtikÒj ($ . dhmiourgÒj; cfr. 531c5 6 e 532e,
dove il filosofo contrappone – dš – ai sofo… l’„dièthj ¥nqrwpoj) quanto ha appe
na detto (vedi . .# . 286d). Cfr. ancora Tinnico di Calcide, poeta faulÒtatoj
che compone per concessione divina tÕ k£lliston mšloj (nota 101).
99 oÙ g£r tšcnV... perˆ tîn ¥llwn ¡p£ntwn (sott. «del dominio»): !2
della tšcnh: vedi note 62, 72; cfr. . 223d. Non credo che per Platone sia im
portante che ogni poeta componga bene genere – come sembra sugge
rire la contrapposizione perˆ ˜nÒj/perˆ tîn ¥llwn ¡p£ntwn – quanto piuttosto
che componga bene ! !! i generi poetici ( ! MURRAY [44], p. 120 e
CANTO [18], p. 151, nota 68). I tragici, ad esempio, componevano drammi sati
reschi e ritenevano che Omero fosse autore anche di epigrammi, del # ! ,
ecc. Quello presentato qui – come prova «più forte» (nota 103) – è il caso e
stremo. L’estremo opposto sarebbe ammissibile solo $ $ , ma non è
considerato qui, forse anche per la mancanza di un esempio da citare (nessun
poeta della tradizione o contemporaneo di Socrate e Platone ha mai composto
opere dei generi conosciuti – e a quanto mi risulta un tale caso manca
tuttora).
100 taàta prolettico.

™xairoÚmenoj toÚtwn tÕn noàn, oŒj noàj m¾ p£restin: entrando nei ! –


intesi nel senso lato di cui abbiamo detto (vedi nota 93) – il dio ne allontana non
solo la fr»n ma anche il noàj (7 occorrenze nel dialogo): l’intera facoltà raziona
le, dunque (vedi b6, dove per la prima volta le assenze di fr»n e noàj sono af
fiancate, e forse la seconda spiega la prima introdotta da un ka… epesegetico:
œkfrwn kaˆ Ð noàj mhkšti). Cfr. 532c1, 3 e 535e4, dove Ione usa la formula pro(
sšcein tÕn noàn per indicare in un caso l’attenzione selettiva (concentrata solo su
Omero), nell’altro quella rivolta al suo pubblico, necessaria per svolgere
(con il successo che porta guadagno) l’attività rapsodica. Vedi " , § 3.1.2.
Øperštaij: predicativo: «come servitori». Nota bene P. Murray ([44], p.
120) che la descrizione del poeta come servitore delle Muse è tradizionale (vedi
p. es. Hes. &. 100; &. . XXXII 20; Thgn. I 769; Ar. $. 909, 913); ma il ter
mine usato, qer£pwn, suggerisce una relazione attiva tra poeta e Musa (MURRAY
[44], p. 97), mentre Øperšthj indica una dipendenza del poeta dal dio. Ne è una
conferma l’uso del sostantivo nel platonico, p. es. in riferimento ai
crhsmJdo… e ai qeom£nteij (in coppia anche in . 22c2 e # . 99c3) citati qui
come esempio. Vedi " , p. 87.
È Ð qeÕj aÙtÒj che parla (come era la Musa ! a esercitare la dÚnamij
attraente a 533e3 4) ! ! (di£) i poeti, semplice mezzo fisico di comunicazio
ne, così come la forza magnetica calamita attraversa gli anelli di ferro e si
trasmette ad essi. Cfr. 534e6 535a2.
di£: preposizione di luogo e di intervallo, che in Platone indica il ruolo di
tramite, con valenza strumentale (per mezzo di) e insieme spaziale (attraverso),
distinguendosi così da met£, che indica unicamente lo strumento; cfr. p. es. l’uso

80
IONE

della particella nella teoria della percezione del ! ! , in part. la descrizione del
modello del cavallo di legno (184b4 186e10), dove l’anima percepisce ! ! gli
organi sensoriali, ma indaga ! ! se stessa. A 534d4 (Ð qeÕj aÙtÒj... di¦ toÚtwn
[ . tîn poihtîn]), e6 (Ð qeÒj... di¦ toà faulot£tou poihtoà) e 536a2 (Ð qeÕj di¦
p£ntwn toÚtwn <daktul…wn>), di£ introduce in genitivo lo strumento del dio: i
poeti. L’occorrenza di 536a2 è seguita dal genitivo di tutti gli anelli della catena
metaforica, come a 533e4 strumento e percorso (ad intervalli) erano gli anelli di
ferro dipendenti dalla calamita.
fqšggetai (onomatopeico): la voce umana dà suono ( . espressione vo
cale) alle parole divine affinché possano essere ascoltate e capite dagli uomini.
Cfr. la traduzione di R. Allen ([8], p. 14): «<is> the god himself who speaks,
3 !! to us through them» [corsivo mio]. Cfr. 536b8.
Øme‹j oƒ ¢koÚontej: per la prima volta sono nominati gli ascoltatori, ulti
mo anello della catena divina. Qui semplicemente coloro che ascoltano (parole
divine per voce umana), più avanti gli spettatori di una pubblica "
(535b3, d8, e7; vedi nota 113).
Taàta... oÛtw polloà ¥xia: il contenuto delle opere dei poeti ¢gaqo…: cose
di alto valore, come i lÒgoi (solo) perˆ `Om»rou di Ione (532c1).
101 TÚnnicoj Ð CalkideÚj: solo due occorrenze nella letteratura greca e latina.

Scrive Porfirio nel ! ! : «Quando gli abitanti di Delfi chiesero a Eschilo


di scrivere un peana, egli rispose che Tinnico lo aveva già fatto alla perfezione»
(II 18). Questo è tutto quanto sappiamo di lui (cfr. STALLBAUM [3], .). Nel
passo è citato come prova decisiva (mšgiston tekm»rion; cfr. 535c4: ™nargšj... tÕ
tekm»rion) a favore della tesi socratica che i poeti non sono tecn…tai (vedi " ,
pp. 86 88 e § 3.1.2).
tÕn pa…wna: canto corale. «Un péan était à l’origine un hymne en
l’honneur d’Apollon, et qui fut ensuite consacré à d’autres divinités» (CANTO
[18], p. 152, nota 72). Già attestato in Omero ( . I 472). Cfr. . 177a7; . II
383b4; . III 700b4, d7; . VII 348b2 (6 occorrenze nel ). Paièn o
Pai£n (Liberatore o Soccorritore) è epiteto di Apollo (p. es. . II 664c7; A. .
146; S. 154; E. . 220).
102 ¢tecnîj... eÛrhm£ ti Mois©n: la forma dorica per Mousîn suggerisce una cita

zione delle parole del poeta (lo stesso Tinnico ha nome dorico, da tunnÒj = pic
colo). Cfr. ROOCHNIK [404], p. 257. L’¢tecnîj, escluso dalle virgolette degli edi
tori, potrebbe essere parte della citazione; tuttavia non è termine poetico, e pare
totalmente ametrico.
¢tecnîj: è la seconda delle tre occorrenze dell’avverbio nel dialogo (cfr.
532c2 e 541e7). I codici sono concordi nel riportare – nei tre casi – l’avverbio
perispomeno ¢tecnîj (< ¢tecn»j, LSJ [469], .$.: «simply, literally». Vedi ROO
CHNIK [404], p. 255, nota 1) che, essendo d’uso comune in Platone e Aristofa
ne, ma del tutto assente dalla tragedia e dall’oratoria, sembra termine colloquiale
(forse un 3 dello stile colloquiale di Platone; vedi THESLEFF [184], p. 86).
È evidente il legame morfologico con il parossitono ¢tšcnwj (< ¥tecnoj)
= ¥neu tšcnhj: «senz’arte», che occorre ™¦n dš tij par¦ t¾n tšcnhn lšgV ti À

81
poiÍ ( &. $ % Ar. . 109h a); e resta compito del lettore stabilire per
ogni occorrenza di ATECNWS (80 nel platonico, di cui 77 sono attesta
zioni dell’avverbio perispomeno, solo 3 del parossitono) il significato più adatto
al contesto, essendo estranea al greco antico la nostra tecnica di accentazione
scritta (vedi TURNER [185], p. 14). Proprio su questo si fonda la tesi di D. L.
Roochnik ([404]) sull’uso platonico di ¢tecnîj:

I shall argue that (frequently) Plato intended ¢tecnîj to have a dual


meaning. In these passages not only is its meaning “really, utterly, sim
ply”, but also ¥neu tšcnhj. In other words, in these passages ¢tecnîj also
means ¢tšcnwj. For Plato himself, who used no written accentuation at
all, there obviously would have been no visible difference between these
two words. It is therefore entirely possible that he intended ATECNWS to
be ambiguous.

pp. 255 256

Roochnik dichiara all’inizio del suo lavoro due «goals»: !


! («I show that Plato did in fact pun on ¢tecnîj in several important pas
sages») e mostrare che «the possibility of a pun should never be discounted and
that as a result every passage in which the word appears should be tested» ( !
!$ ! ). Li condivido entrambi, con una riserva: sono davvero molti i luoghi
del dove Platone ci presenta scambi di battute riguardanti il possesso (ve
ro o presunto) di una tšcnh, non mancano in nessuno dei dialoghi;
mancare, se consideriamo l’importanza che la figura del tecn…thj come analogia
dell’uomo virtuoso e la tšcnh come modello del sapere assumono nella filosofia
platonica. Ed è quindi inevitabile che la maggior parte delle 77 occorrenze di
¢tecnîj ricada in qualcuno di questi luoghi. Lo stesso avviene nel nostro passo,
dove è molto probabile che Platone scrivendo ¢tecnîj, e trattandosi di un con
testo d’ispirazione divina (cioè della ‘spiegazione’ socratica che, come sappiamo,
vuole a Ione il possesso della tšcnh), abbia sorriso all’idea di un lettore
che posa lo sguardo su ATECNWS e, come lui, è attratto da entrambi i signifi
cati. Ma non leggerei qui più di un sorriso intelligente. Per una diversa interpre
tazione, vedi TARRANT [181], p. 114 e lo stesso ROOCHNIK [404].
L’¢tecnîj di d8 potrebbe anche essere segnale introduttivo della citazio
ne – suggerisce la lettura di D. Tarrant ([181], p. 114: «quotation marker»); come
le locuzioni éj ¢lhqîj e tù Ônti, ¢tecnîj ésper può infatti significare «proprio
come», «del tutto come», impiego diffuso nel (ma in questo caso leggerei
¢tecnîj ésper aÙtÕj lšgei, «eÛrhm£ ti Mois©n», non ¢tecnîj, ésper aÙtÕj lš(
gei...). Vedi . 18d6; & . 90c4; . 440c8; . 214b2, 217c7; !. 326d1; .
V 473c7; . IX 858a8; . 2 146e5; !. 408c3. Cfr. anche la variante ¢tecnîj
oŒon nelle (V 732e5, VII 790e1, 793b6, XII 952e).
Il significato è di certo univoco nell’occorrenza di 532c2; discutibile
l’¢tecnîj di 541e7 (vedi nota 170). Vedi " , pp. 117 118, nota 63.

82
IONE

103 ™ndeiknÚmenoj... ™xep…thdej: mostrare o anche dimostrare ( . con intento


probatorio, ! l’uso di ™p…deixij nel dialogo). Tinnico di Calcide è la prova
più forte (mšgiston tekm»rion, d5; ™n toÚtJ g¦r d¾ m£lista, e1) a favore della
tesi socratica che i poeti non per tšcnh ma per concessione divina compongono
bene le proprie opere; tesi che vuole essere una spiegazione del kalîj lšgein di
Ione (533c4 8; cfr. 536d – nota 119). Altra prova evidente (™nargšj... tÕ
tekm»rion, 535c4) quella che Socrate fornisce a Ione a 535b c (vedi nota 109).
Cfr. anche l’ésper ™gë tekmairÒmenoj di 537d5.
™n toÚtJ: «con questo esempio», «in questo caso» (cfr. # . 82b).
d¾: particella intensiva con valore dimostrativo. Qui rafforza m£lista.
¢nqrèpina, qe‹a: «possibili per gli uomini» o «conformi a natura umana»
(BARBANTANI [70], p. 48); «proprie degli dèi». L’aggettivo indica la natura
dell’opera.
¢nqrèpwn, qeîn: lett.: «degli uomini», «degli dèi». Il genitivo indica la pro
venienza: opere fatte rispettivamente da uomini e dèi.
˜rmhnÁj... tîn qeîn: seconda occorrenza di ˜rmhneÚj; seguono la terza e la
quarta in a9 e le due del verbo ˜rmhneÚw tra a5 e a7, tutte con significato di me
diatore (e mediare) o portavoce. Vedi nota 34.
katecÒmenoi... katšchtai: carattere selettivo dell’ispirazione divina e rap
porto privato o esclusivo di dipendenza: gli effetti si trasmettono ugualmente a
tutti gli anelli della catena, ma passando per un canale prestabilito, che si diffe
renzia dagli altri a partire dal primo (dio o Musa) o dal secondo livello (l’anello
intermedio del poeta).
™x Ótou: forma abbreviata per Óstij ¨n Ï Ð qeÕj ™x oá.
104 ¤ptei... tÁj yucÁj: seconda delle 5 occorrenze di yuc» nel dialogo (vedi ,
534a6 e " , 535c2; 536a2, b8). I lÒgoi di Socrate persuadono Ione – la sua a
nima – , & (pèj $ . completamente), un modo che il rapsodo non sa
definire. Cfr. le note 108, 115 e 146.
Sull’anima nello , vedi " , § 3.2.1.
¤ptei: verbo di contatto seguito dal genitivo (partitivo) della parte tocca
ta, in questo caso sia mou sia tÁj yucÁj (alla lettera: «me, nell’anima»).
105 oÙkoàn I 1: «sert à introduire la mineure d’un syllogisme ou d’un enthymème»

(DES PLACES [480], p. 160; cfr. p. 181 e nota 83). Nel nostro caso «la proposi
tion “les bons poètes sont les interprètes des dieux” implique la majeure “les
interprètes des poètes sont des interprètes d’interprètes”» (p. 163; cfr. p. 183 e
nota 83). Cfr. 541b2, caso in cui i due interlocutori non concordano sulla con
clusione.
106 oÙkoàn conclusivo (II 1): «introduit la conclusion d’un syllogisme ou d’un

enthymème» (DES PLACES [480], pp. 181, 183). Cfr. 532a8.


107 ˜rmhnšwn ˜rmhnÁj: i rapsodi, mediatori dei poeti, dunque «mediatori di media

tori», portavoce di secondo grado degli dèi. I rapsodi (in generale) e Ione (in
particolare) sono detti di nuovo ˜rmhnÁj, come nell’elogio socratico del proe
mio. Vedi note 34, 40, 103.

83
108 m¾ ¢pokrÚyV (vedi l’¢pokruy£menoj in risposta – c5): Socrate con un impera

tivo intima a Ione di non nascondergli alcunché perché teme la sua natura sfug
gente, come renderà esplicito a 541e5 542a; ! S. Barbantani ([70], p. 49), che
vede qui un riferimento ironico alla presunta sapienza del rapsodo. Vedi nota
169 e " , § 4.1.
eâ e‡pVj œph: Ione è fuori di senno e la sua anima presa da entusiasmo
quando ! bene i versi omerici; ma a 535b2 e a 536c1 2 è il suo bene
Omero ad essere il risultato di un’ispirazione divina (qe…a mo‹ra e katokwc»).
Vedi nota 117 e " , p. 127, nota 99.
™kpl»xVj: effetto prodotto dalle parole ispirate di Ione sugli spettatori,
rafforzato da m£lista (16 occorrenze nel più 3 del sostantivo œkplhxij, di
cui due nelle " 1 e una in & . 47a8); si manifesta negli stessi comporta
menti di paura e pietà nei personaggi dei poemi omerici (p. es. . VI 370 ss.), nel
rapsodo (nota 110) e nel suo pubblico (cfr. 535e), per transitività divina. Cfr.
& . 66d6 (tÕ d' œscaton p£ntwn Óti, ™£n tij ¹m‹n kaˆ scol¾ gšnhtai ¢p' aÙtoà
[ . toà sèmatoj] kaˆ trapèmeqa prÕj tÕ skope‹n ti, ™n ta‹j zht»sesin aâ pan(
tacoà parap‹pton qÒrubon paršcei kaˆ tarac¾n kaˆ ™kpl»ttei, éste m¾ dÚna(
sqai Øp' aÙtoà kaqor©n t¢lhqšj); & . 250a6 (aátai dš [ . aƒ yuca…], Ótan ti
tîn ™ke‹ Ðmo…wma ‡dwsin, ™kpl»ttontai kaˆ oÙkšt' <™n> aØtîn g…gnontai, Ö d'
œsti tÕ p£qoj ¢gnooàsi di¦ tÕ m¾ ƒkanîj diaisq£nesqai); !. 355b1 (poll£kij
gignèskwn t¦ kak¦ ¥nqrwpoj Óti kak£ ™stin, Ómwj pr£ttei aÙt£, ™xÕn m¾
pr£ttein, ØpÕ tîn ¹donîn ¢gÒmenoj kaˆ ™kplhttÒmenoj); . IX 577a3 ([…] ¢xiîn
kr…nein perˆ aÙtîn ™ke‹non, Öj dÚnatai tÍ diano…v e„j ¢ndrÕj Ãqoj ™ndÝj diide‹n
kaˆ m¾ kaq£per pa‹j œxwqen Ðrîn ™kpl»ttetai ØpÕ tÁj tîn turannikîn prost£(
sewj ¿n prÕj toÝj œxw schmat… zontai, ¢ll' ƒkanîj dior´) e le 3 occorrenze nella
! di Aristotele: 14, 1454a4; 16, 1455a17; e soprattutto 25, 1460b25, in rela
zione all’inseguimento di Ettore da parte di Achille in . XXII, come qui. Se si
raggiunge il fine della poetica (vedi 6, 1449b25 e 1450a18 23), rendendo un pas
so dell’opera ™kplhttikèteroj, Ñrqîj œcei; la d…wxij di Ettore ne è un esempio.
tÕn 'Odussša... tîn podîn: . XXIII, !. «En fait, c’est seulement
après avoir blessé Antinoos, le chef des prétendants, qu’Ulysse se fait reconnaî
tre» (CANTO [18], p. 153, nota 74).
'Acillša... Ðrmînta: . XXII 312 ss.
tîn perˆ 'Androm£chn ™leinîn ti: . VI 370 502 («l’entrevue d’Hector et
d’Andromaque, sa femme, est un des passages les plus pathétique de l’ »,
CANTO [18], p. 153, nota 76); XXII 405 ss., 430 436 («quand Andromaque ap
prend la mort d’Hector», CANTO [18], .); XXIV 723 746.
perˆ `Ek£bhn: . XXII 79 89, 405 ss., 430 436; XXIV 747 760. «Hécube,
femme de Priam, et reine de Troie, vit périr à peu près tous ses enfants et fut
réduit en esclavage. Ce sont ses malheurs que raconte l’.0 d’Euripide»
(CANTO [18], p. 153, nota 77).
perˆ Pr…amon: re di Troia e padre di Ettore, morì quandi i Greci fecero il
loro ingresso nella città. Il riferimento è ai seguenti passi dell’ : XXII 33 78,
408 428; XXIV 144 717.
sou... ¹ yuc¾ ™nqousi£zousa: è l’anima, qui, soggetto dell’entusiasmo di
vino. Essere «fuori di sé» e «presi da entusiasmo» è tutt’uno con il credere il fal

84
IONE

so (senza buone ragioni), e cioè, in questo caso, credere di trovarsi nei luo
ghi e in mezzo ai fatti narrati dai poemi, manifestando gli stessi comportamenti
emotivi dei personaggi (nota 110). Le stesse parole sono rivolte ai poeti a
534b5 6.
109 ™nargšj... tekm»rion: vedi nota 101 e " , § 3.1.2.
110 Ione descrive i comportamenti delle due emozioni di pietà (œleoj) e paura

(fÒboj) con lessico tradizionale: ™leinÒn... dakrÚwn ™mp…mplanta… mou oƒ Ñfqal(


mo…: gli occhi si riempiono di lacrime in . X 247 248 (™n dš oƒ Ôsse | dakruÒ(
fin p…mplanto) e XX 348 349 (Ôsse d' ¥ra sfšwn | dakruÒfin p…mplanto) e, con
altro verbo, in . XVII 695 696, XXIII 396 397 e . IV 704 705 (nei tre casi:
të dš oƒ Ôsse | dakruÒfin plÁsqen). Le lacrime suscitano ( . II 81 d£kru'
¢napr»saj: o%ktoj d' ›le laÕn ¤panta e XXIV 438: ìj f£to d£kru cšwn, o%ktoj
d' ›le p£ntaj 'AcaioÚj) e accompagnano ( . XI 55 tÕn mTn ™gë d£krusa „dën
™lšhs£ te qumù; 87, 395) la pietà. Cfr. in . I 413 416 il pianto di Teti per il do
lore e le lacrime (non per il destino) di Achille. Sulle lacrime come comporta
mento tradizionale della pietà vedi anche . VI 405 ss., VIII 245, XXII 405 409,
XXIII 105 110, XXIV 503 ss., . XVI 213 ss.
foberÕn... ¹ kard…a phd´: vedi . XXIV 358 360 (•Wj f£to, sÝn dT gšronti
nÒoj cÚto, de…die d' a„nîj, | Ñrqaˆ dT tr…cej œstan ™nˆ gnampto‹si mšlessi, | stÁ
dT tafèn) e XXII 460 461 (•Wj famšnh meg£roio dišssuto main£di ‡sh | pallo(
mšnh krad…hn); A. &. 167 (Ñrce‹tai dT kard…a fÒbJ).
Per una descrizione simile delle due emozioni e dei relativi sintomi fisi
ci, cfr. Gorg. . . 9 (fr…kh per…foboj kaˆ œleoj polÚdakruj; forse fonte platoni
ca – vedi FLASHAR [25], pp. 68 72); . 215e, dove Alcibiade, come i koruban(
tiîntej, ha le stesse reazioni emotive (kard…a phd´ kaˆ d£krua ™kce‹tai) sotto
l’influsso dei lÒgoi di Socrate (Ótan g¦r ¢koÚwn... ØpÕ tîn lÒgwn tîn toÚtou [ .
Swkr£touj]); E. 6 . 1288; l’eco letteraria in un passo dell’ !:

Is it not monstrous, that this player here,


But in a fiction, in a dream of passion,
Could force his soul so to his whole conceit,
That from her working, all his visage wanned;
Tears in his eyes, distraction in’s aspect,
A broken voice, and his whole function suiting,
With forms to his conceit? And all for nothing.
For Hecuba!
What’s Hecuba to him, or he to Hecuba
That he should weep for her?

II 2, 557 566

e in un verso del ( (IV 3, 280) di Shakespeare.


Socrate riprende le stesse espressioni nella battuta seguente e l’effetto fi
siologico dell’entusiasmo è trasmesso agli ascoltatori a 535e, per transitività della

85
catena. Sull’identificazione con i personaggi delle opere recitate (o immedesima
zione; m…mhsij per Platone), cfr. . III 393c e Arist. . 17, 1455a30 34: piqanè(
tatoi g¦r ¢pÕ tÁj aÙtÁj fÚsewj oƒ ™n to‹j p£qes…n e„sin, kaˆ ceima…nei Ð ceima(
zÒmenoj kaˆ calepa…nei Ð ÑrgizÒmenoj ¢lhqinètata. diÕ eÙfuoàj ¹ poihtik» ™stin
À manikoà: toÚtwn g¦r oƒ mTn eÜplastoi oƒ dT ™kstatiko… e„sin.
111 kekosmhmšnoj... kaˆ cruso‹si stef£noij: Socrate riprende, ancora una volta, le

parole di Ione (vedi note 27 e 47), moltiplicando con un plurale le corone d’oro
(cruso‹si epico per il corrente cruso‹j). Per l’uso di kosmšw, vedi nota 27.
112 qus…aij: «dalla radice di qÚw, indica i sacrifici in cui si faceva salire al cielo il

fumo delle carni bruciate delle vittime, perché raggiungesse gli dèi» (BARBAN
TANI [70], p. 51); ˜orta‹j: «i sacrifici avvenivano di solito durante solenni feste
religiose […] Il termine è corradicale di œranoj, il banchetto in cui ciascuno con
tribuisce con una quota» (BARBANTANI [70], . !.).
OÙ m¦ tÕn D…a... e„rÁsqai: negazione enfatica. Vedi nota 20.
113 tîn qeatîn toÝj polloÚj: l’ultimo anello della catena: riceve la forza magne

tica dall’anello che lo precede, ma non può esercitarla a sua volta. Cfr. 535b3 ed
e7. `O qeat»j (< qe£omai: «guardare», «osservare» < qša: «visione», poi «spettaco
lo») diventa lo spettatore di una pubblica " . Tîn qeatîn è partitivo di
toÝj polloÚj: molti ma non tutti, dunque, subiscono gli effetti della poesia.
114 ¢pÕ toà b»matoj, ¢rgÚrion: sull’attività rapsodica, vedi app. B. Il composto

sun qambšw è un ¤pax legÒmenon.


Se i versi sono declamati bene, pietà e paura si trasmettono ai rapsodi e
da loro al pubblico. Quando recita bene Omero, Ione allo stesso tempo non è
œmfrwn (piange e si spaventa) e rivolge il suo noàj, presta (tutta la sua) attenzio
ne, alle reazioni del pubblico (riderà se anche il pubblico piange, piangerà se in
vece il pubblico ride): natura ! dell’entusiasmo del rapsodo attore. Vedi
" , § 3.2.1.
115 Anima in balìa di una forza irrazionale, trascinata ovunque dalla parte emoti

va, che prende il sopravvento su quella razionale. Vedi " , § 3.2.1.


116 Ramificazione orizzontale della catena. Gli anelli laterali affiancano gli inter

medi e a loro volta possono trasmettere la dÚnamij al livello inferiore (p. es. il
pubblico particolare degli allievi).
coreutîn: «danzatori e cantanti di cori» (( [470] .$.); sulla danza, vedi
534a b e 536c5. Cfr. . II 373b p£ntej o† te mimhta…... polloˆ dT oƒ perˆ mou(
sik»n, poihta… te kaˆ toÚtwn Øphrštai, mayJdo…, Øpokrita…, coreuta…, ™rgol£boi,
skeuîn te pantodapîn dhmiourgo…, tîn te ¥llwn kaˆ tîn perˆ tÕn gunaike‹on
kÒsmon; . II 654a1, 9, b1 (¹m‹n dT oÞj e‡pomen toÝj qeoÝj sugcoreut¦j dedÒ(
sqai, toÚtouj e%nai kaˆ toÝj dedwkÒtaj t¾n œnruqmÒn te kaˆ ™narmÒnion a‡sqhsin
meq' ¹donÁj, Î d¾ kine‹n te ¹m©j kaˆ corhge‹n ¹mîn toÚtouj, òda‹j te kaˆ
Ñrc»sesin ¢ll»loij sune…rontaj, coroÚj te çnomakšnai par¦ tÕ tÁj car©j œmfu(
ton Ônoma); 665a4, b6 (vedi nota 95).
didask£lwn: per corodidask£lwn (cfr. !& . 276b6 ésper ØpÕ di(
dask£lou corÒj; . II 655a ésper oƒ corodid£skaloi ¢peik£zousin, VII 812
e11; . I 125d3, e3; Ar. . 809): «direttori (o istruttori) di coro».
Øpodidask£lwn: «assistenti degli istruttori di coro» o «sottodirettori». Cfr.
Cic. % . IX 18, 4.

86
IONE

Si noti il gioco di forma e significato – proposto da Socrate – tra katšce(


tai (metaforico) ed œcetai (letterale), che prosegue nel katšconta… te kaˆ œcon(
tai di b4 e si chiude nel solitario katšcV di b5. Vedi nota 88.
117 ™x 'Orfšwj: vedi nota 84. «Il incarnait aussi la tradition d’une littérature mys

tique se rattachant à des rites dits orphiques» (CANTO [18], p. 155, nota 87).
™k Mousa…ou: leggendario vate di Tracia, figlio o seguace di Orfeo ( . II
364e3; Ar. . 1032 1033), iniziatore dei misteri di Eleusi. A lui sono attribuiti
canti e poemi religiosi (p. es. Hdt. VII 6 e VIII 96), forse spuri (Pausania – I 22,
7 – ne riconosce l’autore in un certo Onomacrito, ma sembra da altre fonti –
Hdt. . e Ar. . – che quest’ultimo sia stato bandito da Atene da Ippolito
con l’accusa di avere interpolato gli oracoli di Museo), fatta eccezione per l’
! . «Mais il est aussi possible que Musée soit un nom autour duquel on
ait rassemblé des vers oraculaires» (CANTO [18], p. 155, nota 88).
kaqeÚdeij te kaˆ ¢pore‹j $ . eÙqÝj ™gr»goraj... kaˆ eÙpore‹j: cfr. ,
532c e nota 70. KaqeÚdeij (dormire, anche nel senso traslato di restare inattivo)
sostituisce nelle parole di Socrate il nust£zw colloquiale di Ione, e la locuzione
Ñrce‹ta… sou ¹ yuc» il suo prosšcei tÕn noàn: un’espressione metaforica (in con
testo coribantico) e una frase fatta che tradiscono la natura dell’attività rapsodica
per il filosofo (irrazionale: non si può parlare propriamente di un’attività, ma di
sorte divina e possessione – passiva) e per il rapsodo (razionale: implica un sa
pere e coinvolge dunque abilità umane). Cfr. A. &. 167 Ñrce‹tai dT kard…a fÒbJ
(nota 110).
Seconda occorrenza di tšcnh ed ™pist»mh in coppia (tšcnV oÙd' ™pist»(
mV), contrapposte a qe…v mo…rv kaˆ katokwcÍ (tšcnV $ . qe…v mo…rv; ™pist»mV $ .
katokwcÍ). Vedi note 71 e 166, e " , § 2.2. Katokwc» designa in & . 245a2 la
terza forma di man…a, ispirata dalle Muse. Sono le due sole occorrenze del so
stantivo nel .
perˆ `Om»rou lšgeij § lšgeij: è di nuovo il lšgein per… di Ione il prodotto
dell’ispirazione divina. Cfr. , 533d2 ($ . 535b2), le note 75, 93 e 108 e " , §
3.1.2. Omero stesso lšgei (narra) e lšgei per… (parla di o su): vedi nota 53.
118 Su KorÚbantej e korubantiÒntej, vedi , 533e ss. e nota 94.
™ke…nou mÒnou... katšcwntai: i korubantiÒntej sentono acutamente
canto (ognuno quello del dio che lo possiede) e questo impedisce loro di ascol
tare qualsiasi altra voce o suono, come suggerisce Socrate che a essi si paragona
in . 54d – sentono (su privatezza e soggettività dell’ispirazione divina, ve
di " , § 3.1.1) un solo canto (PRADEAU [77], p. 55, nota 2). Nel caso di Socra
te, è il rimbombare del suono nelle orecchie a impedirgli di udire alcunché di
diverso; nel caso dei coribanti dello , è invece l’alta frequenza raggiunta dal
suono. Cfr. #*. 235b c.
schm£twn kaˆ mhm£twn: schm£twn: schemi (o figure) di danza che accom
pagnano il canto (e„j ™ke‹no tÕ mšloj); «gesti ritmici (lat. " ) con i quali il rap
sodo asseconda la voce, seguendo il suo istinto mimetico rappresentativo»
(BATTEGAZZORE [71], pp. 37 38) – ma qui non si sta parlando di rapsodi. Cfr.
Arist. . 1, 1447a27: oátoi [ . oƒ Ñrchsta…] di¦ tîn schmatizomšnwn muqmîn mi(

87
moàntai kaˆ ½qh kaˆ p£qh kaˆ pr£xeij; e 17, 1455a29 ss., dove il g£r del rigo 30
lascia credere che le figure siano espressioni facciali che esprimono le emozioni
(come la voce di Ione Øpokrit»j – nota 75) – ma l’interpretazione del passo è
controversa.
mhm£twn: formule (cfr. !. 343b).
119 Questa nuova similitudine (la seconda a coinvolgere i coribanti) ha come ter

mine medio il carattere selettivo: di figure e formule per i korubantiÒntej, delle


parole da dire (eÙpore‹j) per Ione.
toÚtou d' ™stˆ tÕ a‡tion, Ó m' ™rwt´j... oÜ: il toÚtou prolettico si riferisce a
quanto segue, l’intera frase alla richiesta di 532b c (T… oân pote tÕ a‡tion...), ripe
tuta a 533c (ka…toi Óra toàto t… œstin), con la quale Ione dà l’avvio alla spiega
zione socratica che occupa la sezione centrale del dialogo (vedi app. A). Quanto
segue è la conclusione di Socrate sulla causa dell’eâ lšgein (solo) perˆ `Om»rou
del rapsodo: oÙ tšcnV ¢ll¦ qe…v mo…rv `Om»rou deinÕj e% ™painšthj. Cfr. ,
533d, 534c e 536c.
™painšthj: «elogiatore» (prima di 2 occorrenze – cfr. 542b4 – + 2 del
verbo ™painšw – 536d6, 541e2). Ha finalmente un nome il lšgein per… del rap
sodo omerico e acquistano senso le espressioni generiche che Ione aveva impie
gato nel proemio per descrivere la propria attività di ˜rmhneÚj dei pensieri di
Omero. Il sostantivo chiude in posizione di rilievo la spiegazione socratica del
magnetismo divino, così come chiude l’intero dialogo (è l’ultima parola dello
e parola chiave). Vedi " , § 1.2.1.2.
deinÒj: qui «formidabile», «straordinario», non tecnikÒj. Vedi nota 50.
120 Cfr. 533c4 ss. (nota 66). Ione non sa confutare il ragionamento di Socrate

(SÝ mTn eâ lšgeij; a 533c4 OÙk œcw soi perˆ ¢ntilšgein), tuttavia non ne è per
suaso (qaum£zoimi ment¨n... éste me ¢nape‹sai...): è consapevole di non essere
posseduto e folle quando elogia Omero, come a 533c era consapevole di parlare
del poeta meglio di chiunque altro.
katecÒmenoj (vedi nota 92) kaˆ mainÒmenoj: le similitudini introdotte da
Socrate nel lungo passo sull’ispirazione divina puntavano sul comune stato
mentale di Baccanti, coribanti, indovini, oracoli e poeti, tutti privi di senno. Sol
tanto qui, con questo mainÒmenoj (unica occorrenza nel dialogo), Ione dice qual
cosa di ! $ sulla condizione della mente che Socrate gli attribuisce: essere
$ di sé equivale nell’immaginario religioso dell’antica Grecia a essere folli. Non
compare nello il sostantivo man…a. Vedi " , § 3.1.2.
121 Kaˆ m¾n ™qšlw... ¢pokr…nV tÒde: seconda mancata ™p…deixij di Ione (vedi app.

A e note 49, 169).


¥n moi ¢pokr…nV tÒde (cfr. 531a1): con questa domanda, Socrate dà inizio
al secondo esame della tšcnh rapsodica e di Ione in particolare.
ïn “Omhroj lšgei: vedi 531c2 ss. (nota 53).
perˆ t…noj eâ lšgeij: è ancora una volta il a essere oggetto
d’indagine. Ione parla (o ) temi omerici, !! ! come Omero parla (o
) guerra, etica, tšcnai (cfr. " , 537a: perˆ tecnîn... lšgei), ecc.

88
IONE

oÙ g¦r d»pou perˆ ¡p£ntwn ge: . non per tšcnh ($ . principio di unità –
note 62, 72, 99).
122 sÝ... oÙk e„dèj (cfr. l’oÙk o%da di e7): Socrate nega (per la prima ed unica volta
in modo esplicito) a Ione la 1 di (almeno) alcune delle cose di cui parla
Omero, conoscenza necessaria al suo eâ lšgein (e2), come sappiamo dalla tesi
formulata nell’elogio socratico del proemio. Vedi " , § 2.1.2.1 e app. D.
123 Le tšcnai sono argomento omerico (e, pare, di tutti i poeti: À “Omhroj perˆ

¥llwn tinîn lšgei À ïnper sÚmpantej oƒ ¥lloi poihta…), come Socrate ricorda a
531c: Omero lšgei perˆ... Ðmiliîn prÕj ¢ll»louj ¢nqrèpwn... „diwtîn kaˆ dh(
miourgîn (nota 53), in molti luoghi dei poemi e a lungo. E di nuovo seguono
esempi di tecn…tai: qui l’auriga (che si distingue dal medico, a sua volta diverso
nelle proprie competenze tecniche dal pilota e dal carpentiere); più avanti il ma
tematico, seguito da pescatore e indovino; e ancora il timoniere, il medico
(menzionato più volte), il bovaro, la tessitrice, e infine lo stratega. Nel primo
esame socratico della presunta tšcnh di Ione gli esempi riguardavano il matema
tico, il medico e l’indovino, come qui (sulla figura del m£ntij vedi " , p. 130 e
nota 110); e scultori, pittori, auleti, citarodi e citaredi bravi e mediocri. Lo
platonico menziona l’intera gamma delle attività greche comprese sotto il nome
generico di tšcnh: quelle che per noi sono arti, tecniche (o mestieri) e scienze.
Siamo alle origini del ! di un Omero ‘enciclopedia’, ! che tanta influenza
avrà sui commentatori alessandrini.
124 Avere buona memoria è indispensabile per svolgere l’attività rapsodica, dalla

recitazione dei poemi alla loro che, qualunque cosa sia ( " , § 2.2.1.1), di
certo non può prescindere dalla citazione dei testi (vedi app. B). Ione è orgo
glioso di poter dare a Socrate un saggio della propria abilità mnemonica: la vani
tà del rapsodo trova finalmente modo di esprimersi (grazie alla memoria di So
crate, difettosa & ...), dopo che per ben due volte gli era stata negata un’esibi
zione del suo eâ lšgein (note 49 e 121) – ma, ricordiamo, in entrambi i casi non
si trattava di un saggio di declamazione, bensì di un lšgein perˆ `Om»rou, di un
(o ) qualcuno, con tutto ciò che l’uso di questa locuzione comporta
( " , § 1.2.1.2); Ione, dunque, non ci sta dando qui alcun esempio di quella che
il proemio presenta come l’attività del rapsodo, e in particolare del rap
sodo omerico ( ! CANTO [18], p. 156, nota 98 e LABARBE [315], p. 89). La
memoria di cui si vanta sembra però anch’essa difettosa: le sue citazioni omeri
che non corrispondono esattamente al testo tradito (vedi note 125, 136, 138,
141, 142).
™gè... ™gè: ripetuto due volte nell’arco di un breve intervento, esprime
l’urgenza di dare un saggio della propria bravura, e insieme la vanità del rapsodo
(vedi BARBANTANI [70], p. 58).
Cfr. le tre occorrenze del verbo ™pilanq£nw a 539e7, 8 e 540a1 e le due
seguenti di mimn»skw (540a2, 3) (nota 146).
125 . XXIII 335 340: con buona probabilità, Aristotele avrebbe delle riserve su

questo libro, a causa del mutamento di carattere di Achille, che rompe l’unità del
personaggio. L’eroe assume infatti una sorta di funzione di giudice di pace e

89
sembra dimenticare l’ira per la morte di Patroclo; sorride – e il sorriso è degli
dèi. Seguiranno le citazioni di altri 4 passi (sempre riguardanti le tšcnai), in tutto
25 esametri completi (vedi le note 136, 138, 141 e 142).
Come nota M. Canto ([18], p. 156, nota 100; cfr. anche MURRAY [44], p.
126), ‘Corsa equestre in onore di Patroclo’ è forse il titolo con il quale gli antichi
si riferivano a una sottosezione dell’ ; il nostro passo, che ne fa parte, men
ziona i giochi celebrati dagli Achei dopo i funerali di Patroclo, ucciso da Ettore
sotto le mura di Troia. Di certo Platone conosceva i nomi assegnati agli episodi
principali dei poemi omerici in base al tema, come testimoniano alcuni riferi
menti del : p. es. . .# . 364e8 e . 428c3 (Lita…); . X 614b2 ('Alk…nou
¢pÒlogoj), 539b2 (Teicomac…a – nota 142). La divisione in 24 canti è opera
dei critici alessandrini. Nel , Platone si riferisce a Omero e ad altri autori
della tradizione o suoi contemporanei in due modi: l’ , citazione diretta o
indiretta ( . testimonianza) che arricchisce il contesto, completa e dà un nuovo
senso al quadro nel quale è inserita; e il ! , citazione che semplice
mente attinge a un patrimonio comune e non arreca vantaggio al testo.
Per un’analisi sistematica delle citazioni omeriche nel platonico,
vedi LABARBE [315]. Sull’Omero di Platone cfr. anche BENARDETE [293], DA
VIES [298] e MADHU [323]; sulle citazioni platoniche di poeti e altri pensatori:
DEMOS [299], HALLIWELL [309], TARRANT [338].
Alcuni dei versi qui citati (335 337) sono anche in X. . IV 6, dove
Nicerato afferma di sapere molte cose (taàta p£nta ™p…stamai) , Ome
ro nelle sue opere (“Omhroj Ð sofètatoj pepo…hke scedÕn perˆ p£ntwn tîn
¢nqrwp…nwn), per averle imparate dal poeta – come Ione ha appreso dai poemi
l’arte della strategia; e di poter rendere migliori coloro che si comporteranno
come lui e ne seguiranno i consigli (™moà § œsesqe belt…onej, ¨n ™moˆ sunÁte).
Tra le cose di cui Nicerato presume di avere conoscenza, sono menzionati la
strategia, l’arte di regnare, l’essere simili (Ómoioj) ad Achille, Aiace, Nestore, O
disseo.

. XXIII 335 340 Pl. 537a8 b5 X. . IV 6, 13 15


335 aÙtÕj dT klinqÁnai KlinqÁnai dš, fhs…, aÙtÕn dT klinqÁnai
™ãplšktJ ™nˆ d…frJ kaˆ aÙtÕj ™uxšstJ ™nˆ ™uxšstou ™pˆ d…frou
d…frJ
336 Ãk' ™p' ¢rister¦ to‹in: Ãk' ™p' ¢rister¦ to‹in: Ãk' ™p' ¢rister¦ to‹in,
¢t¦r tÕn dexiÕn †ppon ¢t¦r tÕn dexiÕn †ppon ¢t¦r tÕn dexiÕn †ppon
337 kšnsai Ðmokl»saj, kšnsai Ðmokl»saj, kšnsai Ðmokl»sant'
e%xa… tš oƒ ¹n…a cers…n e%xa… tš oƒ ¹n…a cers…n e%xa… tš oƒ ¹n…a cers…
338 ™n nÚssV dš toi †ppoj ™n nÚssV dš toi †ppoj
¢risterÕj ™gcrimfq»tw ¢risterÕj ™gcrimfq»tw
339 æj ¥n toi pl»mnh ge æj ¥n toi pl»mnh ge
do£ssetai ¥kron ƒkš( do£ssetai ¥kron ƒkš(
sqai sqai
340 kÚklou poihto‹o: l…qou kÚklou poihto‹o: l…qou
d' ¢lšasqai ™paure‹n d' ¢lšasqai ™paure‹n

90
IONE

I vv. 336 340, in entrambe le citazioni, coincidono esattamente con l’originale di


cui disponiamo; il v. 335 presenta invece alcune differenze, in entrambi gli emi
stichi:

(1) nel testo platonico, fhs… è un’inserzione del personaggio, che


rompe la metrica del verso adattandolo al contesto;
(2) è dovuta a un adattamento al contesto anche la variazione
nell’ ! (kaˆ aÙtÒj); fedele la citazione senofontea, che coincide
con la lezione della vulgata omerica e di Eustazio.
(3) ™uxšstJ/™uxšstou per ™ãplšktJ è uno scambio formulare sempli
ce: entrambi gli aggettivi possono essere predicati dei carri, nel ri
spetto metrico dell’esametro. 'EãplšktJ è attestato un’unica volta
nell’ , proprio nel XXIII libro (v. 115), dove compare inoltre
una sua variante (™ãplekšaj), al v. 436; anche ™uxšstJ è voce ilia
dica, usata in riferimento ai carri in XVI 402 e, con ™p…, in .
XVII 602 e XXIV 408;
(4) nel verso citato da Senofonte, varia la preposizione (™p… per ™n…);
(5) aÙtÒn per aÙtÒj è il solo adattamento al contesto della citazione
senofontea; non mantiene il valore imperativo, ma dipende
dall’impersonale de‹, costituendo una proposizione completiva.

Sull’¥n del v. 339, vedi LABARBE [315], pp. 100 101: «Platon avait écrit ¥n [
! &]. La variante m» a été créée par un lecteur de l’ [...] l’indecision était
ordinaire entre do£zein et doi£zein».
Sono quattro le possibili cause di varianti nelle citazioni:

(1) una memoria difettosa (errore involontario);


(2) la fonte è una copia del testo omerico che tramanda la va
riante citata;
(3) modificazione volontaria dell’autore;
(4) errore dei copisti.

Nel nostro caso, è probabile che Platone citi fedelmente la sua copia del testo
omerico. Senofonte richiama, infatti, gli stessi passi, ma talora riportando va
rianti identiche, talora compiendo evidenti errori mnemonici (p. es. sbaglia le
particelle) – il che parrebbe escludere che stia citando di seconda mano dal testo
platonico, e suggerisce invece l’ipotesi che entrambi disponessero di una fonte
comune. Nulla impedisce poi che Platone citi a memoria, ricordando , fon
te (vedi nota 136).
126 'Arke‹: Socrate interrompe bruscamente la recitazione, che Ione altrimenti

prolungherebbe " ! , ritardando così oltre misura il ristabilirsi dei ruoli


dialogici, che sempre, nel , vedono Socrate interrogante.
Le attività citate da Socrate come esempi di tšcnai (qui l’arte dell’auri
ga, del pilota, del medico e del carpentiere) sono tali per tradizione. Cfr. .

91
XVII 383 385, dove tra i demioergo… sono menzionati il medico, il falegname, il
m£ntij e il qšspij ¢oidÒj: di nuovo l’intera gamma (vedi nota 123). Cfr. anche
Cic. $. I 24.
Ñrqîj lšgei, gno…h ¥meinon: il lšgein (+ e„pe‹n e poie‹n) che interessa
Socrate è stato fino ad ora qualificato da eâ e kalîj. Incontriamo qui, per la
prima volta, l’avverbio Ñrqîj, che li sostituisce entrambi e ne precisa il significa
to ( " , § 1.2). Anche il sapere, la cui grammatica prevede gradazioni, è qui raf
forzato da un ¥meinon (vedremo come, in un senso importante, i gradi del sape
re ! finiranno per perdere di valore – " , p. 142). Cfr. " 538a d (note
134, 135, 137, 139).

'$ ( $ ) $
eâ/kalîj/¥rista Ñrqîj kalîj / m©llon
kakîj ¥meinon
531e1 (2) ¥rista lšgV
tÕn eâ lšgonta
(gnèsetai)
532a1, 2 Óstij te eâ lšgei
kaˆ Óstij kakîj
(gnèsetai)
7, 8 tÕn eâ lšgonta
gignèskeij
e9 ¢pofa…nein § eâ
te gr£fei kaˆ §

533b3 ™xhge‹sqai § eâ
pepo…hken
c3 sumbalšsqai ¤ te
eâ mayJde‹ kaˆ §

537c1, 2 e‡te Ñrqîj gno…h ¥meinon
lšgei... e‡te m»
538a7 kalîj gi(
gnèskein
b2 e‡te kalîj lšgei... k£llion
e‡te m» gnèsV
c4, 5 e‡te Ñrqîj diagnînai
lšgei... e‡te m» kalîj
d5, 6 ¤tta lšgei kaˆ m©llon
e‡te kalîj e‡te m» kr‹nai
e4 e‡te eâ e‡te kakîj
pepo…htai
(diagignèskei)
540e1, 2 œgnwj ¨n... eâ kaˆ
kakîj ƒppazomš(
nouj
(la seconda volta,
gignèskeij)

127 oÙkoàn I 3: vedi nota 60.

92
IONE

128 Anticipazione del 11 1 (nota 131).


Le tšcnai, con il loro ! , qui esemplificato (vedi
nota 132), sembrano dunque tali per concessione divina: è concesso loro dal dio
l’œrgon che ne determina il limite ! , – " , § 2.1.2. Cfr. nota 91; BAR
BANTANI [70], pp. 59 60; CANTO [18], p. 157, nota 105; PRADEAU [77], p. 58,
nota 1.
129 oÙkoàn II 2: vedi nota 61.
130 kat¦ pasîn tîn tecnîn: Socrate esemplifica – non formula – i principî in

gioco nel dialogo, ma ne estende la validità a ! !! le tšcnai. Cfr. 538a2 (nota


132).
131 t¾n mTn ˜tšran fÊj... t¾n d' ˜tšran; ésper ™gë tekmairÒmenoj... t¾n dT ¥llhn

tšcnhn: 11 1 della tšcnh: ogni tšcnh è specializzata in un solo


dominio di oggetti ( " , § 2.1.2).
Quando traduco ™pist»mh con «scienza», in mancanza di un termine mi
gliore, mi riferisco in realtà al significato di tšcnh come competenza richiesta per
svolgere una certa attività, distinto da quello di tšcnh come attività o professio
ne.
132 tÍ mTn aÙtÍ tšcnV... kaˆ ›tera gignèskein: $ 1 (segue dal
principio di specializzazione – nota 131): ogni tecn…thj di una determinata tšcnh
conosce (con quella tšcnh – cfr. nota 154) solo il relativo dominio di oggetti.
Questo principio è noto anche come ! (p. es. KAHN
[165], pp. 109 110), perché stabilisce una corrispondenza biunivoca tra la tšcnh
e il suo dominio. Il rapporto 1 a 1 garantisce l’individuazione di ogni specifica
tšcnh (E„ g£r pou tîn aÙtîn pragm£twn ™pist»mh e‡h tij, t… ¨n t¾n mTn ˜tšran
fa‹men e%nai, t¾n d' ˜tšran, ÐpÒte ge taÙt¦ e‡h e„dšnai ¢p' ¢mfotšrwn – 537 e1
4); se non valesse, non avremmo ragione di distinguere tra tšcnai diverse, né,
quindi, di ricorrere a nomi diversi per riferirci ad esse.
kat¦ pasîn tîn tecnîn: cfr. , 537d1 (nota 130).
133 oÙkoàn II 3 c: vedi nota 157.
134 kalîj gignèskein: di nuovo Socrate ritiene necessario qualificare la cono

scenza. Vedi nota 126.


135 «Reprise & de 537d» (CANTO [18], p. 158, nota 111).
perˆ tîn ™pîn ïn e%pej: sapere !.
e‡te kalîj lšgei... e‡te m» (ma a 537c1 e 538c4 e‡te Ñrqîj lšgei... e‡te m»):
vedi nota 126.
k£llion gnèsV: vedi nota 126.
136 . XI 639 640: famosa preparazione del ciceone (bevanda destinata agli dèi),

per scopi terapeutici; «le terme signifie littéralement “mélange”, “boisson com
posite”, “potion” [...]; selon certains auteurs, le vin de Pramnos était ainsi dési
gné du nom d’une montagne dans l’île d’Icaros, qui donnait un vin rude et sec;
en revanche, d’après Didyme, 4 était une espèce particulière de vigne; en
fin, selon d’autres auteurs, le vin de Pramnos provenait des environs d’Ephèse»
(CANTO [18], p. 159, note 113 e 114). Macaone era figlio di Asclepio (vedi nota

93
10) e medico dell’armata greca (518); Ecamede, sua compagna, fu data in pre
mio a Nestore per la presa di Tènedo (624 627).

. XI Pl. 538c2 3 X. . IV 7, 2 3
639 o‡nJ Pramne…J, ™pˆ d' o‡nJ pramne…J, fhs…n,
a‡geion knÁ turÕn ™pˆ d' a‡geion knÁ tu(
rÕn
640 kn»sti calke…V, ™pˆ d' kn»sti calke…V
¥lfita leuk¦ p£lune
630 c£lkeion k£neon, ™pˆ […] par¦ dT krÒmuon 'Epˆ dT krÒmuon potù
dT krÒmuon potù Ôyon potù Ôyon Ôyon

639: il verso è citato correttamente (il testo di cui disponeva Platone coincide
qui con quello della vulgata); fhs…n è semplice di Socrate per adatta
mento al contesto.
640: solo il primo emistichio è citazione fedele del verso, completato nel testo
platonico dalla seconda parte del v. 630, introdotta da par¦ dš per ™pˆ dš.
Quest’ultimo emistichio è citato in modo esatto da Senofonte. L’ipotesi più
plausibile è l’errore mnemonico (è Platone stesso a suggerirlo: «e dice
(pwj) così...»), dovuto a uno scambio di formule – errore che doveva essere fre
quente tra gli stessi rapsodi, essendo la formula costitutiva del verso anche per
facilitarne la memorizzazione (già nel testo iliadico il passo crea difficoltà: gli
ingredienti ! non coincidono con quelli ! per la preparazione della be
vanda – cfr. i vv. 630 31 con 639 40). Ma in . III 405e 406a, Platone ricorda
perfettamente la composizione del medicamento: vino di Pramno, farina e for
maggio grattato – benché poi lo faccia bere ad Euripilo.
137 Ñrqîj lšgei, diagnînai kalîj: vedi nota 126. In . VIII 599c1 5, è a Omero

stesso che Socrate nega la tšcnh riconosciuta al medico.


138 . XXIV 80 82: Iris, messaggera di Zeus, scende nel mare alla ricerca di Teti,

perché essa possa calmare il cuore del figlio Achille e questi restituire il corpo di
Ettore.

. XXIV 80 82 Pl. 538d1 3


80 ¿ dT molubda…nV „kšlh ™j bussÕn ¹ dT molubda…nV „kšlh ™j bussÕn
Ôrousen †kanen
81 ¼ te kat' ¢graÚloio boÕj kšraj ¼ te kat' ¢graÚloio boÕj kšraj
™mbebau‹a ™mmemau‹a
82 œrcetai çmhstÍsin ™p' „cqÚsi kÁra œrcetai çmhstÍsi met' „cqÚsi pÁma
fšrousa fšrousa

80: †kanen è variante non attestata nei codici dell’ , compatti.


81: ™mmemau‹a per ™mbebau‹a (concorrenziali in V 199): variante – attestata tardi
– di significato del tutto diverso, ma di facile scambio paleografico (il desiderio è
anche in una parallela similitudine attribuita a Era). Di norma riferito a un essere
umano, ™mmemau‹a è qui predicato di un filo, oggetto inanimato al quale si attri
buisce il desiderio di colui che lo lancia (nei poemi esistono punte che si immer
gono desiderandolo nel corpo dei nemici).

94
IONE

82: met£ per ™p…; pÁma per kÁra: compare in 3 codici del testo platonico; uno
riporta kÁra, su cui concordano i codici di Omero. Aristarco, nel suo commen
to all’ , segnala la variante pÁma in una edizione kat¦ pÒlin – con buona
probabilità quella di Atene, la stessa che doveva avere in mente (o davanti agli
occhi) Platone.
I poemi ripropongono questa similitudine in momenti di estremo dolore
o durante scene di battaglia, che contrastano con il mondo tranquillo del pesca
tore (cfr. p. es. . XVI 406 408 e . XII 251 253): la tecnica mnemonica
dell’aedo non è solo una memorizzazione meccanica dei versi, ma procede per
associazione di idee; segue il gusto di un particolare pubblico, che deve immagi
narsi la morte e gli altri elementi cruenti narrati, non rappresentati – e il pubbli
co di questo periodo verosimilmente gradiva il linguaggio della pesca, associa
zione insolita per la nostra sensibilità. La similitudine, tra l’altro, riusciva difficile
da comprendere agli Alessandrini: Platone sceglie brani davvero controversi.
Devo queste riflessioni a un’analisi del passo di S. Nannini, in occasione del se
minario sullo tenuto nell’a.a. 1998 1999.
139 m©llon kr‹nai, lšgei kalîj: vedi nota 126.
140 diakr…nein: cfr. , 532b5, 538d4, e " , 539d3, e4.
diagignèskein (semplice – vedi " , p. 149) e‡te eâ e‡te kakîj pepo…htai:
vedi nota 126.
141 Melampodidîn: leggendario indovino che lasciava in eredità i suoi poteri pro

fetici. Per la genealogia di Teoclimeno, vedi . XV 225 256.


. XX 351 357: primo ed unico passo citato dall’ , menzionata
anche a 535b3 e 539d6; «pollacoà... ™n 'Odusse…ai is balanced by pollacoà... ™n
'Ili£di at 539b2» (MURRAY [44], p. 128).

. XX Pl. 539a1 6
351 « deilo…, t… kakÕn tÒde p£scete; daimÒnioi, t… kakÕn tÒde p£scete;
nuktˆ mTn Ømšwn nuktˆ mTn Ømšwn
352 e„lÚatai kefala… te prÒswp£ te e„lÚatai kefala… te prÒswp£ te
nšrqe te goàna nšrqe te gu‹a,
353 o„mwg¾ dT dšdhe, ded£kruntai dT o„mwg¾ dT dšdhe, ded£kruntai dT
pareia… pareia…
354 a†mati d' ™rr£datai to‹coi kala…
te mesÒdmai
355 e„dèlwn dT plšon prÒquron, ple…h e„dèlwn te plšon prÒquron, ple…h
dT kaˆ aÙl» dT kaˆ aÙl¾
356 ƒemšnwn œrebÒsde ØpÕ zÒfon: ºšlioj ƒemšnwn œrebÒsde ØpÕ zÒfon: ºšlioj
dT dT
357 oÙranoà ™xapÒlwle, kak¾ d' oÙranoà ™xapÒlwle, kak¾ d'
™pidšdromen ¢clÚj ™pidšdromen ¢clÚj

351: « deilo… significa «sciagurati», «infelici». Atena sta impedendo ai Proci di


capire: sono davvero obnubilati. Il daimÒnioi platonico (rivolto ai pretendenti da
Antinoo in IV 774 e da Telemaco in XVIII 406) può invece assumere una sfu
matura sia positiva (visitati da un elemento divino) sia negativa (oscurati, resi
ciechi dal dio che si impossessa di loro). Socrate gioca spesso con la doppia va
lenza del termine, con il quale apostrofa l’interlocutore che si sente bravo e sta

95
invece dicendo qualcosa di stupido o ingenuo (cfr. l’uso di bšltiste – nota 68).
La variante, dunque, è giustificata insieme dal testo dell’ e da un particola
re vezzo linguistico di Platone.
352: gu‹a per goàna: «La variante platonicienne repose sur une confusion. En
effet, la leçon originelle, goàna, n’était pas soutenue, en v. 352, par un groupe de
mots qui, constituant avec elle une formule d’usage !, l’auraient mieux pré
servée de la corruption. Accidentellement, elle c’est effacée devant gu‹a, nom
sept fois plus fréquent à la catalexe, et dont l’intrusion ne troublait le vers en
aucune manière» (LABARBE [315], p. 127).
354: è riportato da tutti i codici dell’ , manca nello Pseudo Plutarco e, in
sieme con il v. 353, in Porfirio (Ps. Plu. 5 !.. . II 108; Porph. . 271, 22).
Due sono le ragioni possibili dell’omissione: l’esistenza di edizioni ridotte nelle
quali questi versi non figuravano; un’eliminazione volontaria dovuta, p. es.,
all’eccesso di particolari orrifici, che potrebbero aver turbato la sensibilità di al
cuni autori. Una sensibilità diversa da quella dell’VIII secolo, con un gusto del
patetico più sviluppato, spiegherebbe in effetti ampliamenti successivi soprattut
to nei canti che dovevano essere considerati i più famosi (di certo il XX) e,
all’interno di questi, nei brani recitati più spesso.
355: te plšon ( & ) per dT plšon ( + Ps. Plu. 5 !.. . II 108 + vulgata): per
un commento, vedi LABARBE [315], pp. 128 130.
142 ™pˆ teicomac…v: probabile titolo del XII libro dell’ (vedi nota 125), come
& lo è del IX.
. XII 200 207: profezia sulla presa del muro acheo da parte dei troiani.

. XII Pl. 539b4 d1


200 Ôrnij g£r sfin ™pÁlqe perhsšmenai Ôrnij g£r sfin ™pÁlqe perhsšmenai
memaîsin memaîsin
201 a„etÕj Øyipšthj ™p' ¢rister¦ laÕn a„etÕj Øyipšthj, ™p' ¢rister¦ laÕn
™šrgwn ™šrgwn
202 foin»enta dr£konta fšrwn ÑnÚces( foin»enta dr£konta fšrwn ÑnÚces(
si pšlwron si pšlwron
203 zwÕn œt' ¢spa…ronta, kaˆ oÜ pw zJÒn, œt' ¢spa…ronta: kaˆ oÜpw
l»qeto c£rmhj l»qeto c£rmhj
204 kÒye g¦r aÙtÕn œconta kat¦ stÁ( kÒye g¦r aÙtÕn œconta kat¦ stÁ(
qoj par¦ deir¾n qoj par¦ deir¾n
205 „dnwqeˆj Ñp…sw: Ö d' ¢pÕ ›qen Âke „dnwqeˆj Ñp…sw, Ð d' ¢pÕ ›qen Âke
cam©ze cam©ze
206 ¢lg»saj ÑdÚnVsi, mšsJ d' ™nˆ ¢lg»saj ÑdÚnVsi, mšsJ d' ™nˆ
k£bbal' Ðm…lJ k£bbal' Ðm…lJ
207 aÙtÕj dT kl£gxaj pšteto pnoiÍj aÙtÕj dT kl£gxaj pšteto pnoiÍj
¢nšmoio ¢nšmoio

Lunga citazione esatta (la seconda sulla mantica): coincide con il testo della vul
gata. Per un commento, vedi LABARBE [315], pp. 130 136.
143 skope‹n kaˆ kr…nein: ripetuto a proposito del rapsodo a 539e4 (nota 145). Cfr.

anche , 532b5 (krit¾n ƒkanÕn), 538d4 (m©llon kr‹nai), e2 (diakr…nein), e la


nota 126. Vedi " , § 2.2.1.1.

96
IONE

144kaˆ sÝ ™mo… ésper ™gè soi ™xšlexa: espressione ripresa e completata a 539e1:
oÛtw kaˆ sÝ œklexon ™mo…. Cfr. 537d5 7 (ésper ™gë... oÛtw kaˆ sÚ); e4 8 (ésper
™gè... kaˆ sÚ, ésper ™gè...).
™mpeirÒteroj (comp. di œmpeiroj): in bocca a Socrate, la parola tradisce la
vera natura dell’attività rapsodica, ! l’ironico sofo… restituito a rapsodi e po
eti a 532d6: è la voce di Platone a farsi sentire qui.
145 skope‹sqai kaˆ diakr…nein par¦ toÝj ¥llouj ¢nqrèpouj: vedi le note 126 e
143, e " , § 2.2.1.1.
146 ¤panta: «with this one word Ion refutes himself, as S. demonstrates at 540a»

(MURRAY [44], p. 129).


™pil»smwn... ™pil»smona... ™pilanq£nomai: secondo ed ultimo riferimento
alla memoria del rapsodo (cfr. , 537a4 – nota 124). L’abilità mnemonica di
Ione, garantita dall’esercizio (il rapsodo è œmpeiroj – nota 144) e facilitata dalle
formule poetiche, è difettosa nel ragionamento dialettico, quando viene meno la
comprensione (Ione non sa confutare Socrate, ma non è nemmeno persuaso da
quanto dice; il suo problema si ripropone – nota 66; e la sua anima è toccata so
lo , & dai lÒgoi del filosofo – un modo che non sa spiegare). Cfr.
. .# . 369a, dove anche il sofista Ippia, noto per la sua tecnica mnemonica,
dimentica la sua tesi iniziale. Ione, dunque, come Ippia, non è un buon interlo
cutore dialettico (più avanti non lo sarà perché ¥dikoj – " , 542a3 7 e nota
168): in lui è superficiale una delle qualità ( . la memoria) necessarie al buon
allievo; la sua si direbbe una memoria senza capacità critica: o meglio, la memo
ria di qualcosa di fissato, che sa solo ripercorrerlo, senza dare risposte. Al con
trario, Teeteto, allievo perfetto, le incarna tutte: è mite, coraggioso, acuto e per
spicace, e di buona memoria ( &!. 144a1 d7).
pršpoi: «conviene» o «è proprio» dell’arte rapsodica avere una buona
memoria, come lo era avere il «corpo sempre adorno» a 530b7: entrambe qualità
superficiali. Vedi nota 149.
147 oÙkoàn I 3: vedi nota 60.
148 «The moment when Socrates, having obtained his premisses separately, ex

plicitly brings them together so that their joint implication becomes evident to
the answerer» (ROBINSON [174], p. 21).
149 Il pršpon ritorna a partire da 540b3 (fino a d5) ed è spia della particolare con

venienza retorica di Omero, oggetto dell’elogio di Ione insieme alla correttezza


epistemica – vedi nota 45.
150 Traduco «comanda», affinché non si perda il legame lessicale e semantico

con gli esempi che precedono. In senso proprio, il medico non «comanda», ben
sì «fornisce prescrizioni» al malato.
151 talasiourgù: unica occorrenza del verbo talasiourgšw («lavorare – o filare

– la lana») nel ; cfr. le 6 del sostantivo talasiourg…a ( !. 282b6, c5, 8;


283a5; . I 126e6; '. 208d6), le 2 di talasiourgik¾ <tšcnh> ( !. 282a9, b1),
e l’aggettivo talasiourgikÒj («che riguarda la lavorazione della lana») in !. 282
c10.

97
Socrate esemplifica ogni tipo di personaggio elencato da Ione a 540b3 5.
Il ‘chi comanda’ è doppio: prima il timoniere (che ‘comanda’ in mare) e il medi
co (che ‘comanda’ i malati); infine, più onestamente, lo stratega.
152 gnèsetai: il rapsodo ha 1 dei temi omerici (vedremo di quali – " , §
2.1.2.1), e ha appreso questo sapere direttamente dal poeta (vedi nota 158). Cfr.
l’uso dei termini di sapere in questa sezione ( $ – vedi app. A;
sempre gnèsetai, nelle sue 6 occorrenze tra 540b2 e d3), la tabella riassuntiva
della nota 126, e l’appendice D.
153 goàn (+ œgwge rafforzativo): vedi DES PLACES [480], p. 143 (II b: 0

! ), e nota 38. «Ion’s does not answer S.’s question, but defiantly in
sists that he knows what sort of things a general would say. He chooses this
particular expertise because of the prominence of warfare in Homer’s poetry
[ma non solo – vedi " , § 2.1.2.1]» (MURRAY [44], p. 130). Cfr. 531c4 (Omero
lšgei perˆ polšmou – nota 53); . X 599c7 8; Ar. . 1034 1036.
154 Î (dat. fm. sg. del rel. Ój ¼ Ó) ha qui valore strumentale e non limitativo, !
M. Canto ([18], p. 163, nota 139): «C’est une des premières fois, semble t il,
qu’est employée cette expression technique &8 , fréquemment utilisée par Aris
tote avec le sens de “en tant que” [«in quanto», lat. , ]».
155 oÙkoàn II 3 c: vedi nota 157.
156 tugc£nei: cfr. , 540d7 (™tÚgcanej): «on remarque le même emploi du
verbe pour exprimer un coïncidence, fortuite, aux yeux de Socrate» (CANTO
[18], p. 163, nota 141).
157 oÙkoàn II («seconde classe des cas de oÙkoàn en dehors des réponces; une

idée unit les catégories, l’idée de 0, : oÙkoàn marque, plus ou moins ri


goureusement, un progrès dû à ce qui précède») 3 («oÙkoàn marque une conclu
sion tirée de la réponse de l’interlocuteur») c: «L’interlocuteur a approuvé l’opi
nion émise, ou du moins répondu qu’il n’y était pas contraire» (DES PLACES
[480], p. 192). Nel nostro caso «Socrate tire de la réponse d’Ion une conclusion
inacceptable pour le rhapsode» (p. 193). Cfr. 532a3, 538a5 e 540e4.
158 La relazione tra rapsodia e strategia (cfr. . X 599c ss.) non è dunque
un’identità per Ione – che si contraddice (a 541a si trattava per lui di una sola
arte; cfr. !& & . 12b, !. 350c, . I 116b) – ma una semplice implicazione:
¢gaqÕj/¥ristoj mayJdÒj → ¢gaqÕj/¥ristoj strathgÒj, come conclude ironi
camente Socrate a 541b3 4 ( ! BATTEGAZZORE [71], p. 53 ( .): «Il prin
cipio socratico di non contraddizione, in base al quale se il rapsodo è stratego,
lo stratego è rapsodo» [ ?!]). Ione, che non coglie l’ironia, replica con orgoglio
che , ! ( . la strathgik¾ tšcnh) lo ha proprio imparato da Omero (nota
161).
159 oÙkoàn I 1: vedi nota 105.
160 Vedi nota 156.
161 `Om»rou maqèn: Ione (bene) la strategia per averla ! da Omero.
Vedi nota 53 e " , p. 181 e nota 131.

98
IONE

162 periièn: carattere itinerante costitutivo dell’attività rapsodica (Ione non arriva
dalla sua patria, Efeso, bensì dai giochi di Epidauro – tappa del suo peregrinare).
Vedi " , § 4.1.
crusù stef£nJ ™stefanwmšnou: Socrate riprende, ancora una volta (cfr.
535d3 – nota 111), le parole allitteranti di Ione (530d8 – nota 47).
163 Sulle coordinate spazio temporali del dialogo, vedi " , conclusioni, § 4.1.
164 bšltiste ironico: cfr. , 532b2 (nota 68).
165 aÙtoˆ... o‡esqe ƒkanoˆ e%nai: allusione del rapsodo alla propria estraneità (Ione

xšnoj). Cfr. la risposta di Socrate a 541d1 2; e vedi " , § 4.1.


'ApollÒdwron tÕn KuzikhnÒn: quanto detto qui è tutto ciò che sappiamo
di lui – ripetuto da Eliano (5. XIV 5), che ricorda anche Eraclide, e da Ate
neo (II 506a), che cita il passo come un esempio di malignità platonica: «Che
Platone sia, in effetti, ostile verso chiunque è evidente dallo , dove prima
parla male di tutti i poeti, poi anche degli uomini promossi dalla gente». Su Fa
nostene di Andro ed Eraclide di Clazomene, vedi " , conclusioni, § 4.1.
¥xioi lÒgou: riferito a Ione in d5. Cfr. l’uso della stessa espressione a
532c1 e 534d3.
166 'Aqhna‹oi... oƒ 'Efšsioi tÕ ¢rca‹on: «On peut comprendre différemment cette

formule !/ 3& 9 qui peut vouloir dire aussi “au principe”, “d’abord”, “par
vieille tradition”. En fait, la date de fondation d’Ephèse est inconnue. Il semble
que la plupart des cités ioniennes d’Asie Mineure, dont Ephèse, ont été fondées
par des colons venant d’Athènes. Mais, d’après la tradition, Ephèse aurait dû sa
fondation à Androclos, fils de Codros, roi d’Athène [Str. XIV 1, 3; Paus. VII 2,
5] dont on montrait encore le tombeau [Paus. VII 2, 6]» (CANTO [18], p. 165
166, nota 149).
167 ¢ll¦ g¦r sÚ: «“but the fact is that you”. S. here breaks off the discussion,

and we move towards the final denouement of the dialogue» (MURRAY [44], p.
131).
Terza e ultima occorrenza della coppia tšcnV kaˆ ™pist»mV; vedi le note
71 e 117.
™paine‹n: seconda e ultima occorrenza del verbo (vedi , 536d6 – nota
119).
168 ¢dike‹j: «commetti ingiustizia»; nell’uso di questa parola c’è un riferimento

preciso ai doveri dell’interlocutore in uno scambio dialettico (cfr. 542a3 – ¥dikoj


e%; 6 – oÙdTn ¢dike‹j; 7 – ¥dikoj ¢n¾r e%nai; vedi nota 146.
169 ™moˆ ØposcÒmenoj... ™p…stasai: Socrate richiama la dichiarazione di conoscen

za del rapsodo (vedi nota 85 e soprattutto " , pp. 134 137).


f£skwn ™pide…xein... e„pe‹n: sull’™p…deixij (due volte mancata) di Ione, vedi
530d5 531a; 536d4 e1 (note 49, 121). Noi sappiamo che l’esibizione, in
entrambi i casi, è stata impedita e rimandata da Socrate; ma Ione è accusato qui
di inganno (™xapat´j me) e di essere «ben lontano dall’esibirsi»: la !2 del
saggio che tanto avremmo voluto ascoltare, per scoprire finalmente in che cosa
consiste il lšgein per… e dunque l’attività propria del rapsodo omerico, sembra
legata alla !2 di dire le cose in cui si è abili. Se manca questa capacità, la

99
" non può essere un saggio di competenze tecniche (se non vocali, ritmi
che o mnemoniche), né la dimostrazione pratica di un sapere: se Ione non $
dire in quali cose è deinÒj, è ingiusto (¥dikoj, vedremo in che senso – " , §
4.1); se non / dirle, semplicemente non possiede alcuna tšcnh.
p£lai ™moà liparoàntoj: a partire dalla domanda disgiuntiva di 531a1 2
(pÒteron perˆ `Om»rou mÒnon deinÕj e% À kaˆ perˆ `HsiÒdou kaˆ 'ArcilÒcou;); più
esattamente, dalla domanda semplice di 536d8 e1 (ïn “Omhroj lšgei perˆ t…noj
eâ lšgeij;). Entrambe seguono una mancata ™p…deixij.
170 ¢tecnîj: vedi nota 102

Ð PrwteÚj: «vecchio uomo del mare» con potere profetico, che sfuggiva
alla cattura per non essere interrogato, assumendo forme diverse ( . IV 384
461; Verg. (. IV 387 414); la sua capacità di metamorfosi divenne provverbiale
(vedi " , § 4.1).
171 deinÕj e% t¾n perˆ `Om»rou sof…an: il presunto sapere di Ione è dunque la pre

tesa di una 1 riguardante Omero e i temi di cui tratta (non tutti, però: il
rapsodo non sembra interessato a rivendicare le competenze tecniche dei me
stieri o di scienze come la medicina – , 540b8, c2 3, 6, d1). Vedi " , §
2.1.2.1.
t¾n... sof…an: acc. di relazione.
172 m¾ tecnikÕj... perˆ toà poihtoà: «this sentence summarises the main argument

of the dialogue, resuming its key terms» (MURRAY [44], p. 132).


mhdTn e„dèj: vedi " , § 2.2.
poll¦ kaˆ kal¦ lšgei perˆ toà poihtoà: cfr. 530d3 (e„pe‹n... poll¦j
kaˆ kal¦j diano…aj perˆ `Om»rou) e 541e3 4 (poll¦ kaˆ kal¦ perˆ `Om»rou ™p…(
stasai).
173 PolÝ... nom…zesqai: «Ion’s vanity remains unassailable. Right to the end he is

simply concerned with appearances, and seems to have learnt nothing from S.’s
cross questioning [vedremo perché – " , § 3.2.1 ]» (MURRAY [44], p. 132).
par' ¹m‹n: agli occhi di Socrate e del lettore ( . il lettore greco del IV
sec.), a Ione può essere concesso l’appellativo qe‹oj, non nel significato tradi
zionale, ma, come suggerisce il seguente m¾ tecnikÒn, nel senso che Socrate at
tribuisce alla parola nell’analogia tra il magnetismo della calamita e l’ispirazione
divina, come sinonimo di œnqeoj. Vedi " , § 3.1.
m¾ tecnikÕn ™painšthn: è la conclusione ! $ del dialogo: Socrate, a
questo punto, $ aver confutato ( " , § 3.2.1) la tesi iniziale che vedeva
Ione rapsodo tecnikÒj.
™painšthn: la parola chiave del dialogo, " assente dal proemio,
chiude l’epilogo (cfr. le note 119 e 167); ™painšthj indica, come già ˜rmhneÚj e le
locuzioni con lšgein/e„pe‹n per…, l’attività del rapsodo omerico, secondo
Platone.

100
Chiunque si prepari a commentare un testo in prosa, con l’obiettivo di
stabilirne l’argomento e di scoprire con quale intenzione l’autore lo ha
scritto e per quale pubblico, sa che il luogo destinato a queste informa
zioni è il prologo:1 un’introduzione più o meno breve dove chi scrive si
rivolge in prima persona al lettore – talvolta presentandosi – per guidare
la sua lettura, anticipando possibili fraintendimenti, giustificando la scelta
del tema trattato e spesso dichiarando lo scopo del proprio lavoro.2 Tut
to questo non lo possiamo dire del prologo di un dialogo che, in quanto
del dialogo stesso, è pronunciato dai personaggi, non dall’autore, e
non ammette l’intervento diretto di alcuna voce esterna;3 dunque non lo
possiamo dire nemmeno dei proemi4 platonici.

1 All’interno del prologo (prÒ , lÒgoj; alla lettera: tutto ciò che precede il lÒgoj), noi di
stinguiamo, a differenza degli antichi, una e un’ ; ed è la prefazione
( , < ) il luogo proprio delle dichiarazioni dell’autore, vere o fittizie che siano:
dall’ (che cosa lo ha portato a scrivere quest’opera, in questa forma e con questi
contenuti) ai ringraziamenti (cfr. Arist. . III 4, 1414b19 21, dove Aristotele chiama
proo…mion [vedi nota 5] l’inizio del discorso per distinguerlo dal prÒlogoj, l’inizio in poe
sia; e I 2, 1095a12 14). L’introduzione è invece divisa in tre parti riguardanti il lÒgoj:
un breve esordio, una nella quale l’autore presenta il tema di cui tratterà, una
che ne segue l’articolazione. Può aggiungersi a queste un’anticipazione della tesi
sostenuta nella trattazione, qualora sia non comune (prolessi). Questa distinzione retori
ca tra ciò che riguarda l’autore (le ragioni del suo lavoro) e ciò che riguarda in modo più
specifico il testo (vedi p. es. LESINA [485], pp. 53 54) non appartiene alla nostra lingua
d’uso comune (vedi ! [467], ."". prefazione e introduzione).
2 Vedi FEHLING [153], pp. 61 75 e HAZEBROUCQ [124], pp. 75 76. Sono numerosi e

complessi gli studî dedicati alle forme introduttive della letteratura antica e moderna; e,
in alcuni casi, è stata messa in discussione la # con la quale l’autore informa il letto
re nel prologo di un’opera in prosa (vedi p. es. PELLICCIA [456], sul prologo delle $
di Erodoto). Ciò che, comunque, resta a differenziare l’introduzione di un testo narrati
vo da quella di un testo dialogico è la % & # dell’autore di parlare in prima persona di
se stesso e dell’opera (vedi nota 1); ed è pertanto questo il primo luogo dove cercare in
formazioni sul senso e lo scopo del suo lavoro.
3 Non voglio sollevare qui la questione, ampiamente dibattuta, del rapporto tra i perso

naggi e l’autore di un dialogo (della possibile coincidenza tra la voce di Socrate, figura
dominante del platonico – ma non sempre presente – e quella di Platone); né allu
dere ad una impossibilità dell’autore di dire qualcosa tra le righe, cioè di in senso
proprio, ma di ' qualcosa (questo è non solo possibile, ma fondamentale in un
dialogo platonico, come vedremo). Mi interessa semplicemente stabilire che, nelle battu
te di un dialogo, l’autore, alla lettera, non può alcunché – a meno che non sia egli
stesso uno degli interlocutori (Platone non lo è mai; è nominato solo tre volte in tutto il
[ . 34a, 38b; . 59b], in una per dirne l’assenza) – non può rivolgersi diretta
mente al lettore.

103
((

Per secoli gli interpreti hanno creduto che il proemio platonico,


privato di questa funzione informativa, non avesse un ruolo nella ricerca
delle intenzioni dell’autore, che fosse solo lo scenario di una ) , una '
) realistica dei personaggi che dà vita alle battute del dialogo, ma
che non ha alcun legame con le argomentazioni che seguono;5 e si sono
dedicati alle peripezie del dialogo e ai movimenti argomentativi, trascinati
dal vento del lÒgoj… Neanche lo studio sinottico più recente (ultimo di
due)6 si allontana molto da questa lettura, attribuendo ai proemi il valore
di documento storico, la funzione biografica di «faire l’histoire de Socra
te: éviter que ses œrga, comme ailleurs ceux des Grecs et des Barbares, ne
tombent dans l’oubli par l’effet du temps».7 È innegabile che i proemi
siano per noi una fonte importante dove cercare la voce di Socrate; ma
anche ammettendo che sia questo il luogo, che sia qui che possiamo tro
varla,8 delle informazioni, per quanto esatte, sulla vita di Socrate (del So
crate storico) non ci direbbero nulla della mente di Platone. Credere che
sia questa la funzione dei proemi significa non riconoscere che i dialoghi

Sull’anonimato platonico vedi EDELSTEIN [152]. Cfr. ora anche A. Laks, *+ '
, & -$ & .' & // , in Cl. Calame e R. Chartier (a cura
di), / & , / & / / , Grenoble: Gérôme Millon,
2004, pp. 99 117.
4 Platone non parla mai di prÒlogoj (nemmeno un’occorrenza in tutto il ), ma di
proo…mion. Cfr. p. es. . 266d7 8 e 0. IV 722d 724a.
5 Il primo (per noi) ad occuparsi seriamente dei proemi platonici è Proclo, in particolare

nell’ ' ' (658 659), dove si sofferma sulle interpretazioni che ne hanno dato gli
antichi. Dopo il suo intervento non conosciamo altri tentativi fino alla scuola americana
di Leo Strauss (vedi p. es. STRAUSS [180] e BLOOM [110]) e al saggio di M. L. Desclos
([205]).
È con questo nome (proo…mion: prÒ , o‡mh: «prima del racconto, canto, traccia» –
vedi CHANTRAINE [468], .".) che l’esordio nella prosa greca si tramanda: «Exordiorum
duo sunt genera: principium, quod Graece prohemium appellatur, et insinuatio, quae
epodos nominatur» (Cic. .1. I 4, 6).
6 Gli studî che riconoscono ai proemi platonici un carattere peculiare e che di conse

guenza cercano di determinarne la funzione sono due, entrambi francesi: il già citato
DESCLOS [205] e SOLÈRE QUEVAL [179], tesi di dottorato inedita.
7 DESCLOS [205], p. 28.
8 La forma del dialogo – e quindi della finzione letteraria – scelta da Platone non consen

te alcuna conclusione positiva. Possiamo riconoscere nel personaggio platonico dei tratti
verosimilmente socratici, in accordo con quanto dicono gli altri testimoni (Aristofane,
Eschine, Senofonte, Aristotele); ma questo non ci autorizza a sovrapporre l’uomo e il
personaggio. Resta vero che il Socrate che conosciamo meglio è in fondo quello della
finzione, anche se possiamo ben credere che qualche volta parli con la voce dell’uomo. I
proemi platonici sembrano inoltre ripercorrere i luoghi che Socrate frequentava abitual
mente (p. es. la palestra di Taurea – '. 153a) e non sono mai ambientati in quelli che
invece il filosofo non amava (p. es. l’¢gor£ e qualsiasi luogo oltre le mura di Atene – a
parte . 227a, 228a 229e; cfr. . 173c d).

104
platonici – e quindi anche i proemi che li introducono – sono opere di
finzione letteraria, 2 3 per dirla con Michael Frede,9 ma anche e
soprattutto prosa filosofica, e che il legame tra questi due aspetti merita
di essere approfondito prima che lo si dichiari accidentale. Il dialogo è la
forma che Platone ha scelto per la sua filosofia, così come il suo So
crate filosofia dialogando e come possiamo immaginare facesse lui
stesso, ogni giorno, nell’Accademia. Questo di sicuro non è accidentale,10
come credo non lo sia la cura con la quale Platone decide ogni volta la
messa in scena, sceglie i personaggi e fa pronunciare loro le prime battu
te, a ciascuno con la propria voce e i propri vezzi linguistici, fin
dall’inizio, fin dal proemio. Lo spazio dedicato ad alcuni proemi, come
nel caso del ' (un quarto dell’intero dialogo),11 l’articolazione
complessa di altri ($ ' , ' e ,12 ad esempio), e la densità
di informazioni e dettagli, come vedremo essere anche il caso dello ,
sono dei buoni esempi di questa cura. Se, dunque, è con piena consape
volezza – non solo artistica – che Platone scrive e struttura i proemi per
farli diventare quelli che conosciamo, con le loro differenze e i tratti co
muni, la funzione che svolgono per noi forse non è così diversa da quella
del prologo tradizionale; ma di certo è diverso il ' di adempierla.
Uno degli obiettivi del mio lavoro sarà mostrare come il proemio
dello sia decisivo per capire il senso del dialogo, per rispondere alla
domanda ‘Con che intenzione Platone lo ha scritto e per chi’. Questo
proemio, come altri13 (forse tutti), contiene informazioni senza le quali la
parte più importante del pensiero di Platone, quella relativa al senso, sa
rebbe inaccessibile. Ma questa chiave di lettura Platone ha scelto di non
& , bensì di ' & a quel lettore che, vedremo, avrà in un senso im
portante ‘pensato i suoi pensieri’. Ed è in questo mostrare, anziché dire,

9 FREDE [155], p. 201.


10 «The idea, just briefly, is this: Plato has certain views about the value and status of phi
losophical theses and philosophical arguments, as a result of which he thinks that the
only responsible way to put forth such views and arguments is writing in the form of a
fictional dialogue, more precisely the kind of dramatic dialogue he writes» (FREDE [155],
p. 202).
11 Cfr. anche il proemio del . Ma pari importanza ha la scelta di introduzioni '
' & al tema del dialogo, come sembra essere il caso del ( e delle 00 , che subito si
occupano dell’argomento principale; o la scelta di iniziare ' , nel mezzo di una
discussione già avviata, alla quale si aggiungerà un interlocutore, come per il & e il
4&% .
12 Del proemio al abbiamo addirittura una diversa versione. Si vedano al riguardo
CARLINI [114] e SEDLEY [129].
13 Marie France Hazebroucq lo ha definitivamente dimostrato per il proemio del '
([124], pp. 75 150).

105
((

che consiste il modo dei proemi platonici di svolgere la propria funzione.

Diogene Laerzio, nel terzo libro delle sue 5 & dedicato a Plato
ne, riporta una dia…resij tripartita dei dialoghi – distinti in drammatici,
narrativi e misti – attribuendola a «certe persone» (tinej generico) e ne
gandole qualsiasi valore filosofico:14
OÙ lanq£nei d' ¹m©j Óti tin j ¥llwj diafšrein toÝj dialÒgouj fas… lš%
gousi g¦r aÙtîn toÝj m n dramatikoÚj, toÝj d dihghmatikoÚj, toÝj d
meiktoÚj ¢ll' ™ke‹noi m n tragikîj m©llon À filosÒfwj t¾n diafor¦n tîn
dialÒgwn proswnÒmasan.15

Non è difficile capire in cosa consiste la distinzione: già ad un primo


sguardo ci rendiamo conto che alcuni dialoghi hanno la forma di )
teatrali di cui noi siamo spettatori diretti; vale a dire che fin dal principio
(fin dal proemio) ci pongono di fronte alla discussione dialettica che sarà
il vero oggetto del dialogo. Altri, al contrario, allontanano questo oggetto
da noi, collocandolo nel passato e presentandocelo attraverso una narra
zione, che diventa così l’oggetto a noi più vicino, benché non il più inte
ressante.16 Altri ancora alternano le due forme, inserendo (narrazione) o
eliminando (dialogo) dal testo indicazioni narrative (come «io dissi» o «e
gli consentì»).17
Secondo questa partizione, lo è un dialogo '' a due
voci,18 le sole che ascolteremo fino all’epilogo: la voce di Socrate e quella

14 Con questo giudizio, Diogene Laerzio si schiera con gli altri che non riconoscono al

cun legame tra la forma letteraria e la filosofia dei dialoghi.


15 «Non ci sfugge che alcuni affermano che i dialoghi si distinguono in modo diverso;

essi dicono infatti che gli uni sono '' , altri " , altri ancora ' . Ma costoro,
certo, operano la distinzione tra i dialoghi in termini propri della tragedia più che della
filosofia» (D.L. III 50). La prima distinzione ricordata da Diogene è quella tra dialoghi
Øfhghtiko… e zhthtiko… (49).
16 La differenza tra una mimesi drammatica e una mimesi dieghematica è stata ben scan

dita da Aristotele nella ( . 3, 1448a19 24; cfr. anche 24, 1460a5 ss.). Della forma
mista ci informa Platone stesso nel terzo libro della %%& ( . III 394b), dove oppo
ne alla «semplice narrazione senza mimesi» quella che «tolte le parole del poeta intercala
te ai discorsi, lascia solo lo scambio di battute».
Su questi temi, vedi ANDRIEU [141] e RYLE [176].
17 Platone non solo fa uso di entrambe le forme, ma ne conosce bene le differenze, co

me provano le riflessioni di . III 394b, cit. ,e . 143b c sugli .


18 Benché spesso in altri dialoghi intervenga un terzo interlocutore – e talvolta più d’uno

– il dialogo in senso proprio è sempre tra due. E diversamente dal significato che la pa

106
del suo interlocutore, Ione; e il proemio ci pone subito di fronte a uno
scambio di battute tra i due, senza alcun tipo di mediazione. Possiamo
facilmente riconoscere le due sequenze di battute, separate dal kaˆ m»n19
di 530b5, di cui è composto:

(1) L’incontro tra Socrate e Ione (530a b4)


(2) L’invidia di Socrate (530b5 531a1)

Questa scansione interna20 individua due sezioni distinte nel contenuto.


Le informazioni che ricaveremo da entrambe saranno decisive per de
terminare il senso del dialogo, quel «cuore nascosto del problema»21 che
si cela dietro la figura sfuggente di Ione, interpretata fino ad oggi nei
modi più vari.
Chi è, dunque, Ione? Nessun altro luogo della letteratura greca e
latina – platonico incluso – lo nomina;22 e se consideriamo che fin
dalle primissime parole del dialogo Socrate si rivolge a lui come a un per
sonaggio famoso, e che quindi se fosse esistito altri lo ricorderebbero,
possiamo concludere che, con ogni probabilità, Ione appartiene alla fin
zione letteraria. Di conseguenza, tutto ciò che ci è dato sapere di lui è
contenuto nelle pagine di questo dialogo, e in particolare nella parte di
dialogo che Platone riserva alla caratterizzazione dei personaggi: il proe
mio, luogo privilegiato (e unico) dove Ione prende vita per noi.

rola ha assunto per noi nell’uso comune: «conversazione tra due 6 persone» ( !
[467], ." dialogo 1a – corsivo mio; ma in qualsiasi dialogo, anche per noi, lo scambio di
battute è sempre e solo di volta in volta tra due interlocutori all’interno di un gruppo,
anche se possono variare e scambiarsi i ruoli – STATI [457]), per Platone e per Socrate la
dialettica " riguardare due voci – quella dell’interrogante e quella del rispondente – e
nessun’altra, affinché l’œlegcoj possa svolgere appieno la propria funzione.
19 La locuzione kaˆ m»n indica qui il passaggio ad un nuovo argomento (vedi trad., p. 11,

nota 23). Cfr. l’uso della stessa nei due passi paralleli di 530d9 e 536d8 ( , trad., pp.
15 16, nota 49), dove segna una rapida interruzione in favore dell’argomentazione se
guente, e dove separa per noi due delle sezioni tematiche in cui è suddiviso il dialogo.
Vedi app. A.
20 Si tratta di una semplice distinzione di argomenti (segnalata da kaˆ m»n), non di una

vera e propria bipartizione come è invece il caso di articolazioni più complesse, caso in
cui talvolta si parla di ' . Cfr. p. es. $' . 172a 174a, 174a 178a.
21 «Il n’est pas très facile de découvrir ce cœur caché du problème» (VERDENIUS [274], p.

239).
22 È curiosa l’attribuzione a Socrate di un lÒgoj, presumibilmente scritto, intitolato ”Iwn

(ma riferito a Ione di Chio) da parte di uno scolio aristofaneo: kaˆ Swkr£touj d toà
filosÒfou ™stˆn e„j aÙtÕn lÒgoj legÒmenoj ”Iwn ( . " Ar. 7 835 837a14).

107
((

#$ # % $ #

La prima sezione del proemio (530a b4) presenta quattro coppie di bat
tute contigue, le prime tre a domanda e risposta; la quarta (a chiusura del
lo scambio preliminare) è un’esortazione di Socrate a darsi da fare per
vincere anche alla Panatenee, seguita dalla conferma di Ione, ™¦n qeÕj
™qšlV.
Da questo scambio ricaviamo che Ione:

(a) è un celebre rapsodo itinerante di Efeso.

Il tÒn individuante della formula di saluto solenne in («+ && Ione –


vale a dire && – salve!») indica già la celebrità del rapsodo. Ione ne è
consapevole – come mostrerà la sua risposta alla battuta socratica all’ini
zio della seconda sequenza (o<mai k£llista ¢nqrèpwn lšgein, 530c8 9) –
ed entrambi faranno più volte riferimento a questa fama nel corso del
dialogo. Socrate si rivolgerà in modo esplicito a Ione come al migliore
dei rapsodi a 541b2 e b7;

(b) ha ottenuto recentemente il primo premio (una corona d’oro?) agli


agoni rapsodici di Epidauro.

La vittoria di un primo premio non può che confermare la celebrità e ac


crescerla. La corona d’oro, di cui Ione ci informa a 530d8, sembra essere
il più ambito dei premi, quello conferito dagli Omeridi,23 forse il premio
riservato in ogni agone al migliore dei rapsodi, come suggeriscono le pa
role che Socrate rivolge a Ione a 541b, dove essere incoronato con una
corona d’oro è segno distintivo dell’¥ristoj tîn >ayJdîn.

Allora, in nome degli dèi, Ione, com’è che, essendo il migliore dei Greci
sia come rapsodo sia come stratega (¢mfÒtera ¥ristoj ín tîn `Ell»nwn,
kaˆ strathgÕj kaˆ >ayJdÒj), fai il rapsodo andando in giro per la Grecia,
ma non lo stratega? Pensi forse che i Greci abbiano un gran bisogno di
un rapsodo incoronato con una corona d’oro (crusù stef£nJ ™stefanw%
mšnou), nessun bisogno invece di uno stratega?

(c) Gareggerà prossimamente alle Panatenee,24

23 Sugli Omeridi e sul loro rapporto con i rapsodi, vedi app. B.


24 Su Efeso, Epidauro, feste Asclepiee e Panatenee, vedi le note della trad. & .

108
dove possiamo presumere che riporterà una nuova vittoria. All’esorta
zione di Socrate a darsi da fare per vincere anche questa gara, Ione ri
sponde: «se un dio lo vorrà» (™¦n qeÕj ™qšlV), frase fatta a cui Platone nel
corso del dialogo restituirà il significato letterale.25
La formula ™¦n qeÕj ™qšlV, con le sue varianti,26 compare già
nell’ ,27 dove è pronunciata con sincerità da chi ricorda a se stesso
o ad altri che il volere degli dèi supera in potenza quello dei mortali – an
che se eroi valorosi o uomini astuti – e porta sempre a compimento ciò
che alle facoltà umane è impossibile realizzare (senza un intervento divi
no); unico impedimento il volere di un dio più potente o della ( ( .
V 169, III 210 238). Nessun uomo 8 muovere con le sue sole forze il
letto che Odisseo ha scavato in un tronco d’olivo, «sarebbe difficile an
che a chi è esperto <in quest’arte>, a meno che un dio venisse di perso
na e facilmente, volendo, lo spostasse in un altro luogo. Tra gli uomini,
no, nessuno, vivo, mortale, neanche in pieno vigore, lo smuoverebbe
senza fatica» (XXIII 184 188). E la letteratura, fino a Platone, è piena del
senso di superiorità del volere divino, sempre vincente, accompagnato da
un sentimento di timore e reverenza per non essere sopraffatti dalla Û%
brij, suscitando la collera degli dèi, sentimento di cui questa formula di
venta il paradigma.28 La cultura greca ha un cuore divino di cui troviamo
traccia in quelle espressioni della lingua che poco a poco perdono la par
te viva del loro significato e si cristallizzano nell’uso comune. E tuttavia
non sono propriamente ' , ma riflettono un modo di pensare, un abi
to della mente – in questo caso la credenza tradizionale in un mondo di
uomini diretto dal volere degli dèi; e allo stesso tempo hanno la forza di
imporre confini al pensiero, perché permeano di sé la lingua comune,
quella che per ogni uomo è la lingua in cui nasce, vive, parla; e che può
aiutarlo a pensare, ma anche ostacolarne nuovi pensieri.29
È proprio così che Ione, a chiusura dello scambio preliminare,

25 «Ion’s conventionally pious phrase is given a quite literal interpretation by S. during


the course of the dialogue» (MURRAY [44], p. 101), ma la tesi non è argomentata. Vedi
anche FLASHAR [25], p. 20.
26 ¨n (o Àn) qeÕj qšlV; e„ qeÕj qšloi (o ™qšloi); e il plurale Àn qeoˆ qšlwsi.
27 In tutto sette occorrenze: . III 228, 231; V 169; X 573; XVI 197; XXI 280; XXIII
185 186.
28 Vedi FLASHAR [25], p. 20, nota 1, sul riferimento della formula all’eÙsšbeia.
29 Il Socrate dei dialoghi è consapevole di questo potere della lingua, e dal suo interno ne

combatte gli effetti negativi tentando di chiarire i significati delle parole, talvolta con una
esplicita ricerca della definizione, talvolta mostrandone l’uso corretto; ma sempre tramite
un ragionamento elenchico, che ha lo scopo di ottenere il consenso dell’interlocutore.
Sull’importanza dell’Ðmolog…a vedi , pp. 179 180.

109
((

pronuncia queste parole: come una formula entrata nell’uso,30 che certo
non vuole sminuire l’abilità di cui il rapsodo è fin troppo consapevole, né
tantomeno alludere a una sua eventuale fonte divina.31 Il tono di questo
primo scambio di battute, l’enfasi delle forme colloquiali che lascia tra
sparire la vanità, e la scelta del & & ' (o c’è falsa modestia die
tro le parole di Ione?)32 fanno sospettare che ‘¢ll' œstai taàta, ™¦n qeÕj
™qšlV’ sia piuttosto la formula rituale di un professionista, che promette
di essere ancora una volta il migliore; e lo fa non tanto di ot
tenere il benestare (e magari l’aiuto) degli dèi che governano il suo mon
do, ma quasi abbia già la di ottenerlo – nonostante il valore even
tuale della formula – come è sempre avvenuto in passato; e soprattutto di
' la vittoria, in virtù di una propria partecipazione del divino.33 Io
ne si mostrerà compiaciuto quando Socrate lo definirà ˜rmhneÚj34 degli
dèi (pant£pas… ge, risponderà a 535a10); e vedremo che non gli dispiace
rà essere chiamato qe‹oj35 (o œnqeoj), quando alla parola non troverà as
sociato il termine negativo œkfrwn, che la riveste di una sfumatura di si
gnificato per lui insolita, facendo coincidere la divinità che il rapsodo è
orgoglioso di riconoscere (™n ) sé con una " (™k ) di capacità
che è anche la negazione di qualunque merito, e che pertanto rifiuta. Po
trebbe trattarsi, dunque, di una formula svuotata di (parte del suo)36 sen
so e pronunciata qui con falsa modestia – cioè in modo insincero – solo
perché l’occasione lo richiede. Diverso è però l’uso che sembra farne Pla

30 Cfr. p. es. Ar. . 533.


31 Per questo, vedi cap. 3.
32 Vedi trad., p. 11, nota 20.
33 Omero stesso è noto, non solo in questo dialogo (¢r…stJ kaˆ qeiot£tJ tîn poihtîn,

530b10), come poeta " (p. es. Ar. . 1034 1036), e tradizionalmente qe‹oj è qualifi
cazione riservata a chi eccelle in determinate abilità; quindi, come vedremo ( , §
3.1.1), tutt’altro che incompatibile con il presunto possesso di una tšcnh.
34 Portavoce o mediatore. In realtà, il rapsodo è definito mediatore dei poeti, che a loro

volta sono mediatori degli dèi (mediatore di mediatori, quindi), ma il contesto (l’analogia
del Magnete; vedi , § 3.1) consente di attribuire anche a Ione il ruolo di ˜rmhneÚj
divino, sia pure di secondo grado.
35 Nell’epilogo, Ione sceglie senza esitare di essere qe‹oj in alternativa ad ¥dikoj, perché

per lui qe‹oj è non solo l’attributo più bello (k£llion) tra i due, bensì il più alto ricono
scimento delle proprie capacità (nello stesso senso del qeiÒtatoj che Socrate concede a
Omero nel proemio, e con cui Ione concorda); e di certo non condividerebbe la conclu
sione socratica qe‹on... kaˆ m¾ tecnikÒn (542b4) se potesse aver voce per pronunciare
un’ultima battuta.
36 La parte tradizionale, quella che, a partire dall’ , vuole che la formula indichi il
riferimento al potere della volontà divina, la quale supera l’umana e interviene laddove
questa ha raggiunto i propri limiti; , dunque, delle capacità (fisiche o mentali)
dell’uomo.

110
tone nelle restanti occorrenze, e altra la sua consapevolezza di ciò che
essa racchiude. Quale sia questo uso e quale la funzione che la frase svol
ge nel nostro passo, risulterà quindi più chiaro da un’analisi di ™¦n qeÕj
™qšlV e delle sue varianti nel .37
Vorrei soffermarmi, in particolare, su tre passi significativi:

SW. `H d yuc¾ ¥ra, tÕ ¢idšj, tÕ e„j toioàton tÒpon ›teron


o„cÒmenon genna‹on kaˆ kaqarÕn kaˆ ¢idÁ, e„j “Aidou æj
¢lhqîj, par¦ tÕn ¢gaqÕn kaˆ frÒnimon qeÒn, oŒ, ¨n qeÕj
qšlV, aÙt…ka kaˆ tÍ ™mÍ yucÍ „tšon [...]

SO. Invece l’anima, la parte invisibile, se ne va verso un altro


luogo a lei simile, nobile, puro e invisibile, verso l’Invisibile
propriamente detto, presso il dio buono e saggio, là dove
presto, & & " & , anche la mia anima dovrà andare [...]

. 80d5 8

L’espressione ¨n qeÕj qšlV, in questo contesto, si riferisce chiaramente al


potere del dio (di qualunque dio si tratti)38 in un ambito precluso all’in
tervento umano: il destino dell’anima dopo la morte – ma la morte è cer
ta; e rientra, quindi, ' nell’uso greco tradizionale. In altre occor
renze, invece, la formula non si limita a riconoscere la possibilità divina
di compiere ciò che eccede il limite delle forze umane, bensì chiama in
causa l’intervento del dio affinché l’uomo esercitare le forze
(fisiche o intellettuali), forze che – alcune espressioni ce lo ricordano39 –
gli sono state ; e, ancora, chiede il favore del dio 00 all’impiego
delle facoltà dell’uomo, per portare a termine l’impresa.40 Tra questi pas
si, uno in particolare può esserci utile per capire l’uso platonico di ™¦n
qeÕj ™qšlV:

37 Sedici occorrenze, oltre quella dello . Segnalo anche due espressioni sinonimiche in
. 19a (‡tw ÓpV tù qeù f…lon) ed . 980c4 (”Estai taàta, ¨n aÙtÕj Ð qeÕj ¹m‹n
ØfhgÁtai).
38 Nell’espressione ™¦n qeÕj ™qšlV, qeÒj può riferirsi a una divinità non meglio identifica

ta (ed è questa la traduzione che ho scelto («se lo vorrà»), essendo Ione a pronun
ciare la frase nel dialogo), tanto quanto al dio cui si rivolge (in modo determinato) Socra
te – chiamandolo Ð qeÒj – quando è lui a pronunciare la formula, il che accade per un
numero significativo di occorrenze ( , p. 114, nota 50).
39 Cfr. p. es. . VI 323c (Óson ¨n dunèmeqa kaˆ ˜k£stJ pare…kV) e 0. VIII 841c d
(t£ca d' ¥n, e„ qeÕj ™qšloi, k¨n duo‹n q£tera biasa…meqa perˆ ™rwtikîn).
40 Cfr. 0. IX 859b3 ¢gaqÕn d' e‡h te, kaˆ ¨n qeÕj ™qšlV, g…gnoit' ¨n taÚtV.

111
((

& SW. p£lin d¾ oân ™x ¢rcÁj, ð Qea…thte, Óti pot' ™stˆn ™pist»mh,
peirî lšgein: æj d' oÙc oŒÒj t' e<, mhdšpot' e‡pVj. ™¦n g¦r
qeÕj ™qšlV kaˆ ¢ndr…zV, oŒÒj t' œsV.

SO. Su, ricomincia allora da capo, Teeteto, e prova a dire cosa


sia mai conoscenza. Che non sei capace, non dirlo mai:
& " #, ' ' , ne sarai capace. 41

. 151d3 6

Le condizioni da rispettare affinché Teeteto sia capace di rispondere alla


domanda socratica del t… ™sti sembrano due: il favore del dio (™¦n qeÕj
™qšlV) e insieme (ka…) un comportamento da vero uomo (¢ndr…zV), lo
stesso a cui Teeteto sarà esortato a 157d4, dove ci viene detto qualcosa di
più di quell’¢ndre…wj, e cioè che comportarsi da uomo significa cercare di
rispondere bene alle domande di Socrate, con coraggio e pazienza (qar%
rîn kaˆ karterîn), così come il coraggio e la mitezza erano due delle
qualità dell’allievo modello (cfr. 144a b), e quindi compiere uno sforzo
personale.
Come nota S. Nannini,42 ¢ndr…zV potrebbe però essere una terza
persona e riferirsi al dio, caso più lineare in cui avremmo due verbi legati
da un ka… con uno stesso soggetto: «se un dio vuole, #& ,43
ne sarai capace». A conforto di questa lettura, il fatto che «sin dai testi più
arcaici sono gli dèi ad infondere la forza necessaria a portare a termine
un’impresa, come dimostrano le frequenti formule iliadiche ed odissiache
[...] applicate alle divinità». Ma Socrate, a 150c7, «ha affermato che è il dio
che lo 0 a fare da levatrice, e che solo quelli fra i giovani ai quali il
dio lo hanno fatto progressi [150d4], avendo scoperto essi stessi in
sé molte cose, ma tramite l’intervento di Socrate e del dio (“dell’ostetricia
siamo responsabili il dio e io”): tutto ciò deporrebbe a favore di uno
sforzo personale di Teeteto, valido solo per concessione del dio».
Qualunque sia la lettura corretta di questo passo, credo che il sen
so dell’¢ndre…wj all’interno del dialogo sia quello di una partecipazione
attiva di Teeteto, al quale è riferito, di un suo sforzo intellettuale, come è
dimostrato dalle sessantacinque pagine Stephanus di domande e risposte,
dove sarebbe impensabile il solo intervento divino: di certo è la ragione
umana ad essere chiamata in gioco dalla prova dell’œlegcoj socratico. È
comunque interessante per noi che Socrate chiami il dio a responsabile
ultimo dei progressi e delle scoperte del ragionamento «dei giovani»
41 Traduzione di S. Nannini ([128], & .), modificata.
42 NANNINI [128], nota & .
43 Corsivo mio.

112
(150c7), che sia il dio a guidare l’ostetricia e che per sua volontà Socrate
vi si dedichi (150d4). È infatti a questo dio44 che sembra rivolgersi, per sé
come per gli altri, nel pronunciare la formula ™¦n qeÕj ™qšlV:

SW. O<sq' oân pîj ¢pofeÚxV toàto tÕ perˆ s nàn; [...]


AL. ”Egwge.
SW. Pîj;
AL. 'E¦n boÚlV sÚ, ð Sèkratej.
SW. OÙ kalîj lšgeij, ð 'Alkibi£dh.
AL. 'All¦ pîj cr¾ lšgein;
SW. “Oti ™¦n qeÕj ™qšlV.
AL. Lšgw d»...

SO. Allora sai come uscire da questa tua condizione presente?


[...]
AL. Sì, lo so.
SO. In che modo?
AL. Se lo vuoi tu, Socrate.
SO. Non dici bene, Alcibiade.
AL. Ma come bisogna dire?
SO. $ & & " #.
AL. Allora dico così…
& . I 135c12 d7

Alcibiade, per migliorarsi, confida nella 45 di Socrate, nel ruolo di

sofÒj e di maestro che, nonostante i suoi ripetuti tentativi di negarlo, gli


è costantemente attribuito.46 Ma anche in questa occasione, Socrate nega
che il miglioramento dell’amato – dell’™rèmenoj – (uscire dalla condizione
di schiavitù in cui si trova, poiché douloprep j ¥r' ¹ kak…a, 135c4) di
penda da lui, se non in quanto esecutore della volontà del dio: è il dio che
44 Non sappiamo niente di certo sull’identità del dio a cui si rivolge Socrate chiamandolo
Ð qeÒj, e al quale, vedremo, appartiene la voce demonica che lo dissuade dal compiere
certe azioni. La maggior parte della critica (vedi bibliogr. § 2.2.4.4) lo identifica con A
pollo, sulla base del dio delfico dell’ & 0 (Apollo è il dio delfico per eccellenza), ma in
nessun luogo il dio che a Delfi pronuncia il suo oracolo di fronte a Cherefonte è associa
to esplicitamente al nome di Apollo.
45 La traduzione standard di sof…a è , benché questa parola abbia nella nostra
lingua un significato che, solo in determinati casi, può coincidere con quello del termine
greco, più ampio. Vedi ! [467] " sapienza 1a; 1b, «sommo grado di conoscenza
delle cose. Es.: la sapienza di Salomone [comparativo e superlativo sono privi di senso]»;
«& ' & delle conoscenze intellettuali e delle doti morali, che dà capacità di discerni
mento nel giudizio e nell’azione» [corsivo mio]. Il sapiente di questa sapienza [1a, 1b] è
l’ ' & ). Per un’analisi semantica di sof…a e sofÒj vedi , pp. 172, nota 8 e 181
182.
46 Socrate è chiamato sofÒj anche nello (532d5). Cfr. . 23a2 3 éste poll¦j dia%
bol¦j ¢p' aÙtîn gegonšnai, Ônoma d toàto lšgesqai, sofÕj e<nai.

113
((

decide. Come commenta H. Flashar,47 ™¦n qeÕj ™qšlV richiama qui il dai%
mÒnion, quel qualcosa di divino e demonico (qe‹Òn ti kaˆ daimÒnion, .
31c d) di cui Socrate parla nell’ & 0 , una voce (fwn») che interviene
per distoglierlo dal fare ciò che sta per fare (31d) e che, verosimilmente, è
la voce del dio – Ð qeÒj – che incontriamo, ancora una volta, nelle pagine
dell’ & 0 .48 Il passo dell’ & % sopracitato ( ) fa parte della con
clusione del dialogo, che, in effetti, si era aperto con una confessione di
Socrate, il quale dichiarava ' la natura del suo comportamento nei
confronti di Alcibiade (103a4 6), l’allontanarsi da lui per poi riavvicinar
glisi, ora che la voce ha smesso di opporsi (oÙkšti ™nantioàtai). E Socra
te promette ad Alcibiade che avrà modo di conoscere la forza negativa
del daimÒnion (103a6). Fra questi due estremi, il motivo infatti ritorna e, a
105d e, il filosofo spiega le ragioni del divieto " , questa volta riferen
dosi in modo esplicito al dio (tÕn qeÒn, 105d5; ™moà, met¦ toà qeoà, e5; Ð
qeÒj, e7).49 Un’analisi delle occorrenze nel mostra che è sempre Ð
qeÒj a celarsi dietro la formula ™¦n qeÕj ™qšlV, quando questa è pronun
ciata da Socrate,50 e sempre per dire la sapienza del dio quando l’interlo
cutore confida nella propria (presunzione di sapere) o nella sua (fama di
sapiente, cfr. p. es. ).51 È stato il dio ad affidare a Socrate il compito di

47 «Lach. 201 C 5. Sokrates will Hipp.Mai. 286 C 3 zu dem Vortrag des Hippias kom

men, “wenn Gott will”. Hier denkt man an das daimÒnion, auf das die Worte ™¦n qeÕj
™qšlV Alcib. 1, 135 D 6 deutlich bezogen sind» (FLASHAR [25], p. 20).
48 Cfr. i passi relativi al daimÒnion (oltre a 31c d, 40a c); 23a b («reco aiuto al dio»); 28e

29a («il dio stabilisce [...] che debba vivere filosofando e interrogando me stesso e il
prossimo»); e, soprattutto, 33c: «Ma ripeto, a me questo compito [ &. esaminare quelli
che presumono di essere sapienti] è stato affidato dal dio tramite oracoli e sogni, e in
& ' in cui il volere divino può mai affidare un compito a un individuo», forme tra
le quali è verosimile che rientri la voce demonica ammonitrice.
49 Cfr. anche 124c8 (e, , il riferimento al delfico gnîqi sautÒn); 127e6 (seconda oc
correnza della formula – ¨n qeÕj qšlV – nel dialogo); 133c5, 10, 13, sul dio come spec
chio della parte " dell’anima, quella dove risiedono il sapere e l’intelligenza (e„dšnai
te kaˆ frone‹n).
50 È il caso di 7 occorrenze su 17: sono escluse l’occorrenza dello , una nelle
(di Platone stesso?), e le 8 delle 00 , dove Socrate non compare (7 dette per voce
dell’Ateniese, una da Clinia).
Il dio di Socrate, dopo avergli affidato il compito di esaminare se stesso e gli al
tri, si fa dio impediente (la voce demonica trattiene, non comanda); al contrario, il dio di
Ione, nell’uso tradizionale della formula, come nell’interpretazione letterale che ne dà
Platone, è un dio che consente, e non impedisce, di fare qualcosa: sono due diversi piani
di fede.
51 Vedremo qual è l’oggetto di questa sapienza ( , § 2.1.2.1). Per il momento mi inte
ressa solo contrapporre i due diversi atteggiamenti, del filosofo e del rapsodo, nel pro
nunciare la formula: il primo, , è espressione di una consapevolezza di non sapere;

114
esaminare coloro che presumono di essere sapienti (e ne hanno la fama),
come leggiamo nelle pagine dell’ & 0 ; è stato il dio a stabilire che
debba vivere filosofando e interrogando se stesso e il prossimo,52 a usar
lo come esempio, con lo scopo di smascherare l’insipienza e di mostrare
– è Socrate stesso a dircelo – che il più sapiente fra gli uomini «è colui
che, come Socrate, si sia reso conto che quanto a sapienza non vale nul
la» (23b), e che «davvero sapiente è il dio». Dietro la formula si cela,
quindi, in ultima analisi, una consapevolezza di non sapere.53 Tutto
l’opposto di quello che le stesse parole nascondevano quando era Ione a
pronunciarle; un’identica frase fatta detta ora in un contesto di presun
zione, ora con coscienza di non sapere, una prima distinzione (per noi
lettori del ) tra il rapsodo (Ione) e il filosofo (Socrate).
Ma ritorniamo al proemio, e vediamo ora quale senso può avere
™¦n qeÕj ™qšlV nella battuta conclusiva di Ione54 in relazione agli sviluppi
del lÒgoj. Mi sembra forzato voler leggere qui un’anticipazione del trat
tamento letterale che Socrate riserverà all’espressione nella parte centrale
del dialogo.55 Se fosse Socrate stesso a pronunciarla, allora forse una let

il secondo, che il contesto stilistico e il carattere del personaggio lasciano supporre


, nasconde una presunzione di sapere.
52 È stato, ancora una volta, il dio a 0 Socrate ad esercitare l’arte maieutica ( .
150c7).
53 A Socrate è in effetti riconosciuta sof…a ¢nqrwp…nh che lo distingue dagli altri
( . 20d), una sof…a di grado superlativo – è detto & 6 tra gli uomini; ma que
sta particolare forma di sapienza è tutt’uno con la sua consapevolezza (sÚnoida) di non
essere sapiente (23b) ed è quindi una 0 " (= un di essere sa
piente). Devo questa & ' & (ma sconosciuta alla letteratura sull’argomento)
dell’enigma dell’oracolo di Delfi alle lezioni tenute dal prof. W. Cavini nell’a.a.
1999/2000.
Enigma della Pizia:

(1) Cherefonte: Qualcuno è più sapiente di Socrate?


(2) Pizia: Nessuno è più sapiente di Socrate
(2a) * Socrate è il più sapiente <di tutti> (interpretazione di Socrate)
(3) * Socrate non è sapiente affatto (consapevolezza di Socrate)

54 Battuta rematica (= la seconda di una coppia, che costituisce l’unità dialogica – STATI
[457]): chiude lo scambio preliminare.
55 «Es wird also hier schon angedeutet, daß Ion, der sich Sokrates gegenüber als der Wis

sende zeigt, “auf den Panathenäen”, d. h. hic et hunc, nur “wenn Gott will”, d. h. qe…v
mo…rv “siegen”, d. h. bestehen kann. Es kam darauf an, am Proömium des Ion ein Stück
platonischer Dialogtechnik zu zeigen, die sich in gleicher Weise an den Proömien ande
rer Dialoge aufweisen ließe» (FLASHAR [25], p. 21). Per questa interpretazione, H. Fla
shar si riferisce all’occorrenza di ™¦n qeÕj ™qšlV in 0. VI 752a b, dove il favore del dio
richiesto (e ottenuto) durante la fase preparatoria fa ritenere verosimile che lo si ottenga

115
((

tura # % lascerebbe cogliere un richiamo (ironico) a quanto segue,


ma non è questo il caso.56 È più probabile, invece, che si tratti di una
semplice frase fatta pronunciata nel momento esatto in cui è attesa, per
attenuare il buon auspicio appena espresso ('All' œstai taàta), per ag
giungere una nota di modestia (ma genuina?) alla dichiarazione (piena di
entusiasmo) dei propri successi; una frase pronunciata, però, in un conte
sto dove prevalgono espressioni di & modestia (se così possiamo leg
gere l’ºnegk£meqa di 530a9), dove Ione " degli eccellenti risultati
raggiunti (primo premio), e dove comincia a delinearsi un aspetto impor
tante del suo carattere – l’aspetto fondamentale, direi – la sua presunzio
ne di sapere;57 ‘sapere’ che verrà smascherato da Socrate nella sezione
centrale del dialogo, dove assisteremo a un trattamento pressoché lettera
le della formula: il successo delle ' di Ione, il suo essere formi
dabile (deinÒj) nell’elogiare Omero, non sarà dovuto a # divine,
bensì a un divino assegnato (qe…a mo‹ra), a una forza (dÚnamij) che si
impadronisce di lui, che agisce in assenza delle sue facoltà razionali di
giudizio. Il suo successo dipenderà quindi, & &' ( & '), dal vole
re del dio.
Se la tradizione pone l’accento sul dio come responsabile ultimo
del successo di un’impresa compiuta dall’uomo (cfr. p. es. . I 320 s. e
XXIV 520), l’uso platonico di ™¦n qeÕj ™qšlV non esclude lo sforzo per
sonale. Il passo del sopracitato ( &) e il contesto in cui è inserito,
ad esempio, sono una prova di come l’appello al favore divino non im
plichi una resa o un annullamento delle facoltà razionali dell’uomo, bensì
si riconosca la necessità dell’intervento di un dio affinché queste possano
essere esercitate, o perché ne siano affiancate. Questo vale per la maggior
parte delle occorrenze platoniche della formula, che sia Ione, Socrate o
chiunque altro a pronunciarla, e a chiunque essa sia riferita.58 In un altro
passo del (150d e), Socrate dice esplicitamente che coloro ai quali
il dio lo ha concesso «avendo scoperto / (aÙtoˆ par' aØtîn)

anche in quella conclusiva. Non mi sembra che il passo dello si possa considerare un
& ' & , se non ammettendo una lettura ironica delle parole pronunciate dal rapsodo:
il favore divino è qui (forse) condizione necessaria per il buon esito della ' , più
avanti sarà condizione necessaria e sufficiente e non lascerà spazio ad alcuna abilità u
mana. È evidente che non può trattarsi di un’ironia del personaggio – come saremmo
disposti a credere se fosse Socrate a pronunciare la formula; e non ritengo plausibile
nemmeno un’ironia dell’autore, che rimarrebbe incompresa da qualsiasi lettore giunto
fin qui e ignaro di quanto seguirà.
56 Resta naturalmente vero che Socrate darà un’interpretazione letterale della formula.
57 Vedi , pp. 114 115 e nota 51, , p. 157.
58 Cfr. in particolare – oltre a . 151d5 – le occorrenze di & . I 127e6, 0. VI 752a8 e
IX 859b3 (¢gaqÕn d' e‡h te, kaˆ ¨n qeÕj ™qšlV, g…gnoit' ¨n taÚtV).

116
molte belle cose, le hanno generate».59 Ritengo pertanto inverosimile che
la formula, pronunciata da Ione, possa anticipare il contenuto della parte
centrale del dialogo, dove parole come ™nqousi£zw (il sostantivo ™nqou%
siasmÒj non compare) e katokwc» implicano, al contrario, l’annullamen
to di ogni facoltà razionale.
L’esempio di «tecnica platonica del dialogo»60 che Flashar vede
nell’uso di queste parole – e che condivido – non è quindi dovuto
all’anticipazione (nel ' ' )61 di un tema del lÒgoj,62 ma alla cura
di Platone nella caratterizzazione del personaggio;63 e vedremo come le

59 L’occorrenza di 0. VI 752a8, inoltre, non solo affianca all’intervento divino lo sforzo


umano (”Estai taàt', ¨n qeÕj ™qšlV kaˆ g»rwj ™pikratîmen tÒ ge tosoàton), ma è se
guita da un 'All' e„kÕj ™qšlein/E„kÕj g¦r oân che testimonia come talvolta l’eventualità
della formula sia per chi la pronuncia più una verosimiglianza che una mera possibilità.
60 «Platonischer Dialogtechnik» (FLASHAR [25], p. 21).
61 Possiamo chiamare così la parte di proemio che va da 530a1 a 530b4.
62 L’anticipazione sarebbe riconoscibile come tale solo in seguito a una lettura approfon

dita del dialogo. Vedi, sull’argomento, BURNYEAT [145].


63 La &0 3 platonica, che l’analisi delle parti strutturali dell’opera – il proemio
' – mostra in tutta la sua ricchezza di dettagli (e questo talvolta conduce alla pretesa
– ingiustificata – che ogni singola parola scritta da Platone assuma nel contesto un signi
ficato & ), è in opera fin dalle primissime parole del dialogo; ed è innanzitutto una
tecnica letteraria, l’ % & # && che si appresta a perfezionare i dettagli di un’opera
finita, con l’opera stessa, in tutta la sua complessità, davanti agli occhi. Può capitare,
quindi – e nel caso di Platone capita spesso – che questi dettagli siano visibili soltanto a
quel lettore che si è già soffermato sull’opera in ogni sua parte e si sta ora dedicando a
un approfondimento (vedi BURNYEAT [145]). Questa padronanza della tecnica letteraria
e l’uso sottile della scrittura a cui Platone ci ha abituati non vanno però confusi con
l’ % & # & & – né sono sempre sovrapponibili ad essa. Non voglio suggerire con
questa distinzione che si possa operare una rigida separazione tra l’aspetto letterario e
quello più strettamente filosofico dell’opera platonica: la forma dialogica e l’uso partico
lare che ne fa Platone non lo consentono; propongo una semplice distinzione & " ,
utile per non dimenticare che di fronte a un dialogo platonico sono sempre due gli a
spetti da considerare. Come vedremo ( , pp. 196 ss.), sono probabilmente riconduci
bili alle due diverse abilità quelle che ' sembrano identiche anticipazioni nel
proemio di contenuti del dialogo; e che si scoprono, poi, differenti: in alcuni casi (abilità
dello scrittore) – vedi gli esempi portati da M. Burnyeat nel saggio sopracitato – il signi
ficato di una parola o di un’espressione pronunciata nel proemio è comprensibile in tutte
le sue sfumature soltanto a una seconda lettura; ed è quindi il dialogo a chiarire parte del
proemio. In altri casi (abilità del filosofo), invece, è solo grazie a una lettura attenta di
quanto viene detto nel proemio che riusciamo a capire il vero significato del dialogo. È
evidente che le due letture (dal dialogo al proemio e dal proemio al dialogo) non posso
no valere entrambe per una stessa espressione; possono tuttavia essere richieste da parti
diverse dello stesso proemio (vedi , pp. 198 199).
Rientra nel primo gruppo l’occorrenza di ™¦n qeÕj ™qšlV nel proemio dello :
è l’abilità di Platone scrittore a mettere in bocca al rapsodo parole che, pur essendo così
note e comuni da sembrare banali, richiamano con forza nel loro significato letterale uno

117
((

notizie che le prime battute ci forniscono su Ione saranno impiegate da


Socrate nello svolgimento delle sue argomentazioni. Se la formula ™¦n
qeÕj ™qšlV – nell’uso tradizionale come in quello platonico – richiama
l’attenzione su un intervento divino (questo è il senso generale dell’e
spressione, benché – come abbiamo visto – l’accento sia posto in un ca
so sulla necessità di questo intervento per il successo dell’impresa, nell’al
tro su una collaborazione uomo dio che lascia spazio alle facoltà umane);
e se l’uso che ne fa Ione deve essere compatibile con la sua consapevo
lezza di avere capacità che in senso diverso giudica ‘divine’,64 vedremo
come Socrate mostrerà che, riferita al rapsodo, la formula dice invece
una verità letterale, che è tutto l’opposto di quanto egli intendeva dire:
l’accento sarà posto esclusivamente sul volere divino e il sapere vantato
da Ione – l’aspetto che primo fra tutti caratterizza il personaggio –65 re
stituito alla sua vera natura di presunzione e infondatezza.
Riassumendo, possiamo individuare almeno tre diversi usi di ™¦n
qeÕj ™qšlV nella letteratura greca fino a Platone:

(1) USO TRADIZIONALE: il volere divino supera in potenza quello


dell’uomo e può, ha successo, laddove questo si scontra con i li
miti della condizione umana (è necessario e sufficiente per portare
a termine l’impresa);

(2) USO PLATONICO: l’espressione si è cristallizzata nella lingua d’uso


comune del V/IV secolo a.C.66 diventando frase fatta. Nei dialo
ghi, la formula è inserita spesso in contesti che si riferiscono, nelle
scelte linguistiche di Platone, a una collaborazione uomo dio, del
la quale le argomentazioni socratiche valorizzano il lato umano;

(3) USO SOCRATICO: quando è Socrate a pronunciare la formula, essa


fa riferimento, in ultima analisi, alla sua consapevolezza di non
sapere e al riconoscimento che ad essere davvero sapiente è solo il
dio.

Il contesto nel quale queste parole sono inserite quando è Ione a pro

dei più importanti contenuti del dialogo; e nessun lettore che per la seconda volta si con
fronti con queste battute rimane insensibile al richiamo. E tuttavia, pur arricchendosi di
significato una volta che sia evidente il legame, la formula resta del tutto comprensibile
fin dall’inizio, nel suo significato tradizionale e nell’uso che ne fa Ione. Cfr.
l’uso di ¢tecnîj a 532c2 e vedi trad., pp. 81 83, nota 102.
64 Vedi , § 3.1.1.
65 Vedi , pp. 95 96.
66 D’ora in avanti si intenda sempre, quando non diversamente indicato, a.C.

118
nunciarle, uno scambio di battute di tono colloquiale che tradisce la sua
vanità, esclude la valenza tradizionale così come l’uso socratico di ™¦n
qeÕj ™qšlV. D’altro canto, lo stesso contesto e l’uso dell’espressione nel
suggeriscono che si tratti di una frase fatta – della quale Ione ha
perso il significato letterale originario, ma ha ben presente il contesto
d’uso appropriato – pronunciata con falsa modestia; o quanto meno con
la consapevolezza che una concessione divina a favore del successo
dell’impresa non impedisce che il merito di questo successo sia dovuto, e
attribuito, ad abilità umane.
Ma ritorniamo ora allo scambio di battute iniziale. Il primo aspetto
del carattere relativo alla figura di Ione che ne abbiamo ricavato è la cele
brità: Ione è un famoso rapsodo, un professionista della recitazione67
che, verosimilmente, ha confermato di essere il migliore agli agoni delle
più (e meno) celebri feste greche: tutte quelle che prevedono gare di rap
sodi. Sono proprio i luoghi menzionati in questa sezione del proemio a
dirci ancora qualcosa di lui. Un secondo indizio della sua celebrità (dopo
il TÕn ”Iwna dell’ ) è contenuto infatti nella domanda doppia che su
bito Socrate gli rivolge: pÒqen t¦ nàn ¹m‹n ™pided»mhkaj; À o‡koqen ™x 'E%
fšsou; Con queste parole, Socrate dimostra di conoscere le origini di Io
ne e ne informa il lettore (al secondo rigo della prima pagina Stephanus):
d’ora in avanti sarà con Ione di Efeso che avremo a che fare. Cosa que
sto significhi e quale importanza abbia per noi, lo vedremo quando il
rapsodo ci avrà mostrato qualcosa in più di sé e del tipo di attività che
svolge.
Ione non è arrivato direttamente da Efeso, bensì – e lo dice con
enfasi (OÙdamîj) – dalla città di Epidauro, dove ha partecipato (e vinto)
alle Asclepiee;68 ed è venuto fin qui, ad Atene, per partecipare (e vincere)
anche alle Panatenee, dove sono previsti altri agoni rapsodici. È verosi
mile che anche Atene sia una meta temporanea, nient’altro che una tappa
nel peregrinare di Ione, " dell’attività che svolge. Un secondo a
spetto della figura del rapsodo come ci è presentata qui è, dunque, il ca
rattere itinerante della sua professione.69 Ed è un aspetto che subito lo
allontana da ciò che ci è più familiare della figura di Socrate, così come

67 Questo è quanto sappiamo di certo della figura professionale del rapsodo nell’antica
Grecia dalle poche testimonianze giunte fino a noi. Vedi app. B.
68 Proprio dalla seconda battuta di Socrate, dopo che Ione ha dichiarato di essere stato a

Epidauro in occasione delle Asclepiee, siamo informati che il suo interlocutore è un rap
sodo (530a5).
69 Per le testimonianze sulla partecipazione dei rapsodi alle feste dell’antica Grecia, come

prova del carattere itinerante " della loro professione, vedi app. B. Cfr. Pl. . X
600d6.

119
((

Platone lo caratterizza nei dialoghi: un uomo che raramente (e solo per


dovere o sotto l’effetto di un f£rmakon a cui non sa resistere) si è allon
tanato dalla città di Atene.70
Celebrità e carattere itinerante, dunque, i due aspetti che danno
uno spessore a questo personaggio e che, vedremo, saranno me
glio definiti nel corso del dialogo; e avranno un ruolo decisivo nel tipo di
esame a cui Socrate sottoporrà Ione, e nel suo modo di rispondere.

& #' % $

Gli elementi del proemio che ci forniscono informazioni importanti per


capire i contenuti e i modi del dialogo sono tre:

(1) le prime parole;


(2) le coordinate spazio temporali;
(3) il carattere dei personaggi.

Da questi dipenderà strettamente lo svolgimento delle argomentazioni.71


Nel ' ' abbiamo ricavato informazioni dai primi due e
lementi: la celebrità di Ione, già contenuta nell’ , e il carattere itine
rante della sua professione, dal percorso (Efeso Epidauro Atene)72 com
piuto per prendere parte agli agoni rapsodici. Entrambi gli aspetti contri

70 Socrate oltrepassa le mura della città di Atene solo cinque volte nella sua vita: per re
carsi ai Giochi Istmici ( . 52b) e per partecipare a spedizioni militari (a Potidea, Anfi
poli e Delio, . 28e; cfr. $' . 219e ss., 221a ss. e . 181b); infine, Fedro lo conduce,
' &0 / & , sotto un platano non lontano dalla città ( . 230c e), tentandolo con la pro
messa di lÒgoi ™n bibl…oij.
71 Gli aspetti da considerare sono in realtà quattro: a spazio tempo, 2 (BURNYE
AT [145]) e carattere dei personaggi, va aggiunto lo stile del dialogo (drammatico, narra
tivo o misto; vedi , pp. 106 107), riconoscibile fin dalle prime battute; ma parlarne
qui ci porterebbe troppo lontano. Benché la divisione in base allo stile introduttivo sia
stata talvolta adottata (primi gli anonimi tinej di Diogene Laerzio, III 50), e sia di fatto
la meno arbitraria (ogni testo scritto " avere uno stile d’inizio, subito " a qualun
que lettore), non esiste ancora un tentativo di chiarire le implicazioni filosofiche di una
particolare scelta stilistica; e, di conseguenza, di spiegare il ritorno di Platone allo stile
drammatico dei primi dialoghi, in quelli scritti molto più tardi, dopo una fase intermedia
narrativa.
72 Non sappiamo di preciso dove avvenga l’incontro tra Socrate e Ione: verosimilmente

lungo una delle strade di Atene, non lontano dall’ingresso della città (Ione è appena arri
vato). Le informazioni temporali saranno completate nell’epilogo e vedremo allora tutto
quello che ' del dialogo hanno da dirci ( , conclusioni, § 4.1).

120
buiscono a delineare il carattere del personaggio (terzo elemento),73 che
sarà ben definito in questa seconda parte del proemio ( " $
),74 dove scopriremo in che cosa Ione è celebre.
Anche se sappiamo già dalla seconda battuta di Socrate (530a5 6)
che Ione è un rapsodo (I occorrenza), è soltanto a partire da 530b4 (kaˆ
m¾n...) che il proemio introduce il tema del dialogo (la >aywdik¾ tšcnh e
Ione rapsodo tecnikÒj), all’interno di un dettagliato elogio75 della tšcnh
rapsodica; e lo fa nel modo più completo: formulando & che sarà og
getto d’esame nelle pagine seguenti.

T S I: (1) 9 rapsodo → (% )76 conoscitore


(2) Ma Ione è un % rapsodo
(3) Dunque Ione è un (% ) conoscitore77

L’elogio di Socrate è :

(a) perché introduce la tesi di cui Socrate e Ione si occuperanno da


qui fino all’epilogo; 78

(b) perché serve a Socrate per anticipare uno degli argomenti che co
stringeranno Ione al primo esame della tšcnh:
¢nagka‹on e<nai <Øm‹n >ayJdo‹j> œn te ¥lloij poihta‹j diatr…bein
pollo‹j kaˆ ¢gaqo‹j kaˆ d¾ kaˆ m£lista ™n `Om»rJ, tù ¢r…stJ kaˆ
qeiot£tJ tîn poihtîn, kaˆ t¾n toÚtou di£noian ™kmanq£nein, m¾
mÒnon t¦ œph, zhlwtÒn ™stin.
530b8 c1

73 Dal ' ' ricaviamo informazioni anche sul carattere di Socrate e sulla con
trapposizione tra il filosofo e il rapsodo; ma ce ne occuperemo più avanti.
74 Chiameremo la parte di proemio che va da 530b5 a 531a ' ' 00 .
75 Anche il proemio del ' introduce il tema della discussione, la swfrosÚnh, grazie
all’elogio di Crizia del suo pupillo (154a ss.).
76 La qualificazione del sapere sarà sempre indicata tra parentesi tonde (vedi , pp.
181 182).
77 A 530c7, Ione concorda con la tesi di Socrate ('AlhqÁ lšgeij) e la fa propria (™mo…).

Con ‘T S I’ intendo la tesi che Socrate ' & tra 530b4 e c6 (alla quale è Ione a dare
l’assenso), il che non implica necessariamente che la " ; ma lo vedremo.
78 Alla fine del dialogo:

T S: (1) 9 rapsodo → (% ) conoscitore


(2) Ma Ione non è un (% ) conoscitore
(3) Dunque Ione non è un % rapsodo

Vedi , § 4.1.

121
((

Dovere (¢nagka‹on e<nai) del rapsodo è passare la vita in compa


gnia di ' & poeti ¢gaqo…, ma & di Omero, che fra tutti è
il migliore. Socrate anticipa, con quel pollo‹j, il
del tecn…thj79 (vedi trad., p. 69, nota 72 e , § 2.1.1) a cui
sottoporrà Ione nel primo esame delle sue credenze; e nello stesso
tempo mostra di conoscere bene il proprio interlocutore: il kaˆ d¾
kaˆ m£lista ™n `Om»rJ e il singolare con cui si riferisce &
(Omero o il poeta di cui di volta in volta il rapsodo si sta occupan
do, quale che sia?) nel seguito dell’elogio (toÚtou; toà poihtoà; Ð
poiht»j) non sfuggiranno all’attenzione selettiva del rapsodo (come
invece avviene per il pollo‹j); Ione risponderà al richiamo di O
mero (cfr. 532c2 4, 533c4 7, 536c6 d3) con un enfatico ™moˆ goàn...
e sarà pronto a dichiararsi deinÒj & perˆ `Om»rou (531a3 4).
Con l’anticipazione di questo argomento, Platone indica an
che a quale tipo di analisi Socrate sottoporrà Ione: un esame
' ' (tipicamente socratico), un’argomentazione
che si fonda su ciò che l’interlocutore è disposto a concedere, che
riguarda le sue credenze (nel nostro caso, ), e saggia la coerenza
del presunto sapere.80 Il dialogo si preannuncia dunque peira%
stikÒj, secondo il genere che gli è stato attribuito dagli antichi (cfr.
D.L. III 49; vedi trad., p. 57, nota 1).81

Il ' ' 00 82 ci fornisce, inoltre, informazioni aggiuntive sul carat


tere dei personaggi; nel caso di Socrate, queste informazioni non trove
ranno sviluppo, ma, vedremo, saranno decisive per determinare il senso
del dialogo.83 Nel caso di Ione, invece, saranno riprese e determineranno
il procedere dell’argomentazione. Questa seconda sezione del proemio
può essere suddivisa in tre parti:

79 Se vale il # della tšcnh (vedi , § 2.1.1), il criterio in base al quale


un tecn…thj (= riconoscerlo come tale) è quello esemplificato da Socrate a 532e
533c: un tecn…thj deve saper giudicare chiunque agisca (bene o male) nel dominio della
propria tšcnh.
80 Vedi CAVINI [280], pp. 8 9.
81 Per una verifica, vedi , § 2.1.
82 È composto da 3 coppie di battute contigue – la prima è un elogio di Socrate della

tšcnh rapsodica, seguito dalla conferma di Ione – e da una replica socratica alle ultime
parole dell’interlocutore, che ha lo scopo di interromperlo per introdurre un nuovo ar
gomento (a Socrate spettano qui, nella stessa battuta, la funzione rematica, di chiusura, e
quella tematica, di apertura della coppia). Con il nàn dš di 531a1 inizia senza dubbio una
nuova sezione del dialogo: l’interruzione di un nucleo argomentativo nel mezzo di una
battuta non è rara in Platone (cfr. p. es. . 44b5).
83 Vedi , §§ 2.2.1 e 2.2.2.

122
A. L’elogio di Socrate:84

( SW. (a) Kaˆ m¾n poll£kij ge ™z»lwsa Øm©j toÝj >ayJdoÚj,


ð ”Iwn, tÁj tšcnhj:
(b) tÕ g¦r
(ba) ¤ma m n tÕ sîma kekosmÁsqai ¢eˆ pršpon Ømîn
e<nai tÍ tšcnV kaˆ æj kall…stoij fa…nesqai,
(bb) ¤ma d ¢nagka‹on e<nai
(bba) œn te ¥lloij poihta‹j diatr…bein pollo‹j kaˆ ¢gaqo‹j
kaˆ d¾ kaˆ m£lista ™n `Om»rJ, tù ¢r…stJ kaˆ
qeiot£tJ tîn poihtîn,
(bbb) kaˆ t¾n toÚtou di£noian ™kmanq£nein, m¾ mÒnon t¦
œph,
(c) zhlwtÒn ™stin.
(d) oÙ g¦r ¨n gšnoitÒ pote ¢gaqÕj >ayJdÒj,
(e) e„ m¾ sune…h t¦ legÒmena ØpÕ toà poihtoà.
(f) tÕn g¦r >ayJdÕn ˜rmhnša de‹ toà poihtoà tÁj dia%
no…aj g…gnesqai to‹j ¢koÚousi:
(g) toàto d kalîj poie‹n m¾ gignèskonta Óti lšgei Ð
poiht¾j ¢dÚnaton.
(h) taàta oân p£nta ¥xia zhloàsqai.

530b4 c6
B. La dichiarazione di conoscenza di Ione:

IWN. (a) 'AlhqÁ lšgeij, ð Sèkratej:


(b) ™moˆ goàn toàto ple‹ston œrgon paršscen tÁj tšcnhj,
(c) kaˆ o<mai k£llista ¢nqrèpwn lšgein perˆ `Om»rou,
(ca) æj oÜte MhtrÒdwroj Ð LamyakhnÕj oÜte Sths…m%
brotoj Ð Q£sioj oÜte GlaÚkwn oÜte ¥lloj oÙdeˆj
tîn pèpote genomšnwn œscen e„pe‹n oÛtw poll¦j kaˆ
kal¦j diano…aj perˆ `Om»rou Ósaj ™gè.

530c7 d3
C. La natura epidittica dell’ 0 di Ione:85

) SW. (a) Eâ lšgeij, ð ”Iwn:


(b) dÁlon g¦r Óti oÙ fqon»seij moi ™pide‹xai.
IWN. (a) Kaˆ m¾n ¥xiÒn ge ¢koàsai, ð Sèkratej, æj eâ kekÒ%
smhka tÕn “Omhron:
(aa) éste o<mai ØpÕ `Omhridîn ¥xioj e<nai crusù stef£%
nJ stefanwqÁnai.

530d4 8

84 Per la complessa struttura dell’elogio socratico, vedi trad., p. 63, nota 36 e app. C.
85 Vedi app. A.

123
((

In queste due coppie di battute sono contenute le parole chiave del dia
logo (zÁloj, tšcnh e relativi termini di sapere; ˜rmhneÚj, ¢gaqÒj e kalÒj,
qe‹oj, kosmšw, ™p…deixij), parole ' di una lingua molto lontana
dalla nostra. Cercheremo, per quanto possibile, di restituirle al tempo al
quale appartengono, liberandole delle sfumature di significato improprie
che hanno assunto a causa dei moderni pregiudizi semantici; e di distin
guere, nei singoli casi, il significato comune dall’uso filosofico. Il primo
nucleo di cui ci occuperemo è quello dei ' " & .86
In (, Socrate assume che la rapsodia sia una tšcnh – opinione
comune87 condivisa da Ione ('AlhqÁ lšgeij, 530c7) – e che il rapsodo sia
invidiabile per questa forma di sapere. Perché possieda la tšcnh, è neces
sario che il pensiero del poeta di cui si occupa (bbb), che
le cose dette da quel poeta (e), che che cosa egli intende dire
(g). Questa è (m¾ gignèskonta... ¢dÚnaton) al rapsodo
per svolgere % la propria funzione (g): diventare un (% ) ˜rmhneÚj dei
pensieri del poeta per gli ascoltatori (f); solo così potrà essere, infine, un
% rapsodo (d). Ma se compito del rapsodo non è più (solo) recitare le
opere del poeta (mandandone a memoria i versi, [bbb]), bensì essere
˜rmhneÚj dei suoi pensieri, la prima domanda che dobbiamo porci per
capire in cosa consiste questa " 88 funzione è una domanda sul signifi
cato: che cosa voleva dire per un greco del V/IV sec. essere ˜rmhneÚj di
qualcuno – dei suoi pensieri – per altri? E l’uso che Platone filosofo fa di
questo termine rispecchia l’uso comune del suo tempo?
I commentatori dello traducono con ‘interprete’,89 e attribui

86 Le parole dell’etica: ¢gaqÒj, eâ, kalÒj, ma anche zÁloj, kosmšw ed ™painšthj (I oc

correnza a 536d3).
87 È la lingua a determinarlo, denominando la rapsodia >ayJdik¾ tšcnh anche in un

contesto dove è in discussione proprio la sua natura di tšcnh (cfr. 538b4; 540a2, d4),
perché non conosce altre parole.
88 Vedi app. B.
89 Vedi bibliogr., § 1.1.2.

Tabella comparativa delle traduzioni di ˜rmhneÚj ed ˜rmhneÚw in 530c3 e


534e4 535a9 (campione rappresentativo dalla prima all’ultima traduzione del dialogo):

˜rmhneÚj *$# %, - 01 * , #
˜rmhneÚw + ../ + +) +.+
530c3 interpretari interpreting interprète 5 ' & interprète
534e4, interpretes interpreters interprètes ( & interprètes
535a9
535a5, 6 interpretari to interpret interpréter " ' & interpréter

124
scono a ˜rmhneÚj lo stesso significato che la parola italiana – come quella
inglese, francese o tedesca – assume per noi nell’uso comune: è interpre
te «chi intende e spiega il senso di ciò che risulta oscuro o dubbio»; e
l’interpretazione è l’attività e il risultato di questo chiarimento.90 E poiché
Ione è interprete dei pensieri di un poeta, la sua attività ‘ermeneutica’ è
stata subito tradotta in una forma di esegesi del testo91 e giudicata un
primo esempio di critica letteraria. Così M. Canto ([18], p. 36): «Le rhap
sode, personnalité poétiquement douée pour interpréter les vers du
poète, se trouvait il chargé de réciter, d’ 7 & , , de les textes
poétiques à la fois dans une sorte de continuation et d’achèvement de ce
qui aurait été à l’origine l’auto interprétation du poète et pour répondre
aux exigences d’ 7 & de son public»; P. Murray ([44], p. 97): «Pla
to’s dialogue [ &. ] suggests that rhapsodes not only recited the works
of poets, but also '' on them»; R. E. Allen ([8], p. 3): «He [ &.

# 0 - 22 2 #
++) ++) ++. & &
530c3 to interpret interpret interprete spiegare interprète
534e4, ' 0 ' interpreti interpreti interprètes
535a9
535a5, 6 % 0 3 interpretare interpretare interpréter
' 0

I traduttori sono per lo più concordi nel rendere tutte le occorrenze con ‘interprete’ e
‘interpretare’, senza distinzioni (cfr. anche [470], .". ˜rmhneÚj 1 ed 4 [474], .".
interpretazione). Alcuni commentatori inglesi degli anni ’90 (p. es. R. Allen e P. Murray)
segnalano una differenza di significato tra la prima occorrenza e le altre cinque, riunite in
un’unica sezione ( &0 & ( 0 , vedi app. A); e riconoscono il ruolo (passivo) di
' che il poeta e il rapsodo assumono in quest’ultima. Soltanto H. Flashar ([26],
& .) attribuisce il significato di ' anche all’˜rmhnša di 530c3. Si discosta da tutte la
traduzione di P. Woodruff ([66], & .) della prima occorrenza: «to represent». F. Tra
battoni senza dubbio intende l’˜rmhnša di 530c3 nel significato moderno di interprete e
lo esplicita traducendo con ‘spiegare’; così anche l’ultimo tentativo, francese: «Ils [ &. les
récitants professionnels] ne se contentaient pas de donner des extraits [ &. des textes
homériques], mais ils [les] présentaient et [les] commentaient. La récitation et l’explica
tion des poèmes leur conféraient ainsi pour double mission la diffusion et l’interpréta
tion ( ' : ) des textes» (PRADEAU [77], pp. 12 13).
90 ! [467], ."". interpretare 1a; interpretazione 1a; interprete 1a.
91 Se i rapsodi disponessero o meno di una copia personale del testo scritto dei poemi

che recitavano è questione discussa; ma è certo che vi fossero nel V sec. copie comuni
da consultare p. es. durante gli agoni (vedi app. B). In ogni caso, quando uso l’espressio
ne ‘interprete (o esegeta) & ’ mi riferisco alla % & # dei rapsodi del V sec. di in
terpretare in senso moderno testi , non importa se dalla scrittura o nella memoria
personale (del rapsodo) e collettiva (p. es. nelle scuole, i bambini mandavano a mente
brani dei poemi omerici, sui quali imparavano a leggere e a scrivere; cfr. . 325e 326a).

125
((

Ion] not only interprets Homer as an actor interprets a part but also 7
& his meaning, both actor and '' »; e molti altri.92
Le occorrenze di 534e 535a non confermano, però, questo si
gnificato di spiegazione o commento (del testo omerico); al contrario,
fanno parte di un contesto dove è evidente il ruolo passivo e strumentale
riservato a poeti e rapsodi. L’esempio di Tinnico di Calcide,93 appena in
trodotto da Socrate come prova a favore della tesi che i poeti non sono
tecn…tai, contiene una violazione del # della tšcnh: se Tin
nico di Calcide (poeta faulÒtatoj) ha composto % & canto (il più
bello – k£lliston – fra tutti quelli degni di essere ricordati), allora questo
% & canto non è «opera umana o possibile da realizzare per un uomo ( &.
tšcnV), ma divina e propria degli dèi»;94 e (dš conclusivo) il poeta sempli
ce (oÙd n ¢ll' ½) ' : è sempre un dio a cantare un % & poema, "
(cfr. 534c8: Ð qeÕj crÁtai toÚtoij [ &. to‹j poihta‹j] Øperštaij) della
voce umana come mezzo (di£, 534e6) di comunicazione. Allo stesso
modo, i rapsodi mediatori dei poeti (che mediano gli dèi) (˜rmhnšwn
˜rmhnÁj, 535a9), sono " di secondo grado del pensiero divino.95
Ione non comprende appieno la gravità delle conseguenze della
funzione di mediatore sulla sua ambizione di tecn…thj; concorda con en
fasi e convinzione (Naˆ m¦ tÕn D…a, œmoige, 535a3; Kaˆ toàto ¢lhq j lš%
geij, a8; Pant£pas… ge, a10), ma senza cogliere il lato " di ˜rmhneÚj
ed ˜rmhneÚw nell’uso che Socrate ne fa in questo passo. Concorda con
96

92 Corsivi miei. Vedi anche MERIDIER [2], p 9: «Mais l’ ne touche qu’accessoirement


(535b e) à ce qui est la fonction essentielle du rhapsode: la récitation des poèmes homé
riques. Ion se flatte aussi de '' Homére [...]. Cette tâche d’ 7/0) lui semble faire
partie de son art [...]. Et c’est sur elle que s’engage la discussion dont est fait le dialogue»;
FLASHAR [25], pp. 26 27; BATTEGAZZORE [71], p. 8. «Commento», «parafrasi» e «spiega
zione» sono da intendersi qui come sinonimi di «esegesi» o «interpretazione del testo» in
senso lato, senza ulteriori distinzioni. In senso tecnico, si tratta di operazioni ben diver
se; vedi per es. PFEIFFER [358].
93 Vedi trad., p. 81, nota 101.
94 Infatti e„ [ &. oƒ poihta…] perˆ ˜nÕj tšcnV kalîj ºp…stanto lšgein, k¨n perˆ tîn

¥llwn ¡p£ntwn, 534c6 7.

(1) Parlare % di cosa per tšcnh → Saper parlare % di tutte <nel do


minio della tšcnh>.
(2) Ma Tinnico di Calcide non sa parlare % di tutte <nel dominio della
tšcnh>.
(3) Dunque, Tinnico di Calcide non parla % di quell’una per tšcnh.
95Per i concetti di mediazione, vedi , pp. 128 ss.
96Non solo Ione dà il proprio assenso all’affermazione che i poeti (e i rapsodi, in virtù
del legame fra gli anelli della catena divina) sono ˜rmhnÁj di œrga par¦ tîn qeîn; accetta

126
lo stesso slancio con il quale aveva risposto all’elogio socratico del proe
mio (™moˆ goàn), e proprio all’affermazione che dovere del rapsodo è «di
ventare ˜rmhneÚj dei pensieri del poeta per gli ascoltatori» ( a, b).97 La
differenza è che qui l’oggetto non è tÁj diano…aj, ma t¦ <poi»mata>
(535a6), ed è al rapsodo mediatore " del poeta – portavoce delle
sue esatte parole per un pubblico che non vi ha accesso –98 che Ione dà il
proprio assenso. Che il passo si riferisca al , nel suo aspetto composi
tivo e insieme recitativo, è suggerito da quanto Socrate riferisce dell’atti
vità di Tinnico: si tratta di un poie‹n po…hma, non di un lšgein per…, e da
quanto segue le cinque occorrenze di verbo e sostantivo ( &. ˜rmhneÚw
ed ˜rmhneÚj) a 534e s.: Socrate paragona lo stato mentale di Ione '
Omero (Ótan eâ e‡pVj œph... e< À œxw sautoà g…gnV) a quello dei po
eti a cui il dio ha tolto la mente (noàj m¾ p£restin, 534d3) per usarli co
me " – come to‹j crhsmJdo‹j kaˆ to‹j m£ntesi to‹j qe…oij; e tra
questi Tinnico di Calcide, ' il quale il dio il più bello dei poemi.
Ione, di nuovo, si dichiara d’accordo: `Wj ™nargšj moi toàto, ð Sèkratej,
tÕ tekm»rion e<pej (cfr. 535d6 7 ed e1 ss.); ciò di cui non si accorge è
che, benché Socrate scelga qui un esempio tratto dall’aspetto recitativo
della sua attività (probabilmente perché di maggiore impatto emotivo;
vedi l’uso dei termini di pietà e paura a 535c ss. e l’™kpl»xVj di 535b2),
l’analogia del Magnete è stata introdotta per spiegare la ragione del suo
essere deinÒj & per… `Om»rou, e cioè in relazione al & , non al reci
tare: riguarda Ione in quanto fine dicitore Omero, non Omero; e in
fatti la sezione si apre (533d2) e si conclude (536c1 2; cfr. d3) con esplici
ti riferimenti al lšgein per… del rapsodo omerico (vedi anche 534b7 ss.,
dove è chiaro il legame tra i due aspetti, posti sullo stesso piano: entram
bi, Tinnico e Ione, devono il successo alla sorte divina, non ad una
tšcnh).99 E quando Socrate riassumerà l’analogia, richiamando il &
e concludendo che non per tšcnh, ma qe…v mo…rv Ione è un mirabile elo

anche che lo siano qe…v mo…rv (moi dokoàsi qe…v mo…rv ¹m‹n par¦ tîn qeîn taàta oƒ
¢gaqoˆ poihtaˆ ˜rmhneÚein, 535a4 5).
97 Per il riferimento del toàto epanalettico di 530c7, vedi , p. 133.
98 Il pubblico non ha accesso diretto ai poemi omerici per due ragioni: non può più a

scoltarli dalla voce di Omero, né leggerli con facilità. La cultura greca è ancora in preva
lenza orale; e nonostante la diffusione di testi scritti delle opere dei poeti e dei filosofi sia
un processo già avviato (è possibile acquistarli nei mercati), il numero delle copie a di
sposizione è ancora esiguo e la lettura destinata perlopiù ai commenti di gruppo delle
scuole. Nella vita quotidiana del greco adulto prevale ancora la recitazione pubblica di
professionisti come il rapsodo omerico. Vedi su questi temi TURNER [185]).
99 MURRAY [44], p. 126. L’eâ lšgein di Ione, che l’analogia della calamita vuole
spiegare, è sia un bene sia un & bene (doppia valenza di lšgein: q.sa o
& – o – q.no/q.sa). Di questo ci occuperemo nel cap. 3 ( , § 3.1.2).

127
((

giatore di Omero (536d1 3), l’assenso verrà a mancare (d4 7).


Ione, dunque, si considera un ˜rmhneÚj a 535a – in quanto decla
matore dei versi di Omero –100 come a 530c, dove diventare ˜rmhneÚj
dei pensieri del poeta è lo scopo della (presunta) tšcnh rapsodica (cfr. (
f); e dove è chiaro che non si tratta di recitazione.101 Rimane la possibilità
che debba «conoscere a fondo il pensiero» di Omero, «capire le cose che
ha scritto», «sapere che cosa intende dire» per 0 & al suo pubblico, e
che ˜rmhneÚj abbia qui il significato moderno di . Se così fosse,
non vi sarebbe alcun legame semantico tra la prima occorrenza e le altre,
bensì una contrapposizione tra l’ " # di Ione interprete dei pensieri e il
ruolo " del rapsodo che presta la propria voce al poeta, a sua volta
come canale di comunicazione dal dio.102 Tuttavia, nella risposta di
Ione all’elogio, l’attività di ˜rmhneÚj viene riformulata in altri termini; e
l’˜rmhnša [...] toà poihtoà tÁj diano…aj g…gnesqai è spiegato da un e„pe‹n
poll¦j kaˆ kal¦j diano…aj perˆ `Om»rou a 530d2 3 e da un eâ kekÒ%
smhka tÕn “Omhron a 530d6 7. Qualunque cosa vogliano dire queste due
espressioni,103 non sembra abbiano nulla a che vedere con l’attività critica
o esegetica.
Il significato originario di ˜rmhneÚj è stato ben ricostruito da G.
Most,104 a partire dall’analisi di alcuni versi delle & ' di Pindaro,105
dove troviamo la prima occorrenza del dorico ˜rmaneÚj (˜rmanšwn, . 2,
85), 7 nell’opera del poeta. Un esame dei passi della letteratura greca
del V sec. in cui il termine ricorre ha portato Most alla conclusione che
«in that period, it [ &. the word ˜rmhneÚj] never designates someone who
performs literary interpretation or explanation, that is, someone who ex
plains poetic utterances to the less intelligent masses»; e che «all the ex
100 In quanto % & declamatore Ione è orgoglioso di saper trasmettere con la voce le e

mozioni giuste agli spettatori (535c4 d7) e deve (tÕn noàn prosšcein,
e4) alle reazioni del pubblico, perché da queste dipende il suo successo di rapsodo e, di
conseguenza, il guadagno che ne otterrà (d8 e6). Si tratta, dunque, di una finzione da
attore: è l’aspetto ‘ipocrita’ della sua ' . Vedi trad., pp. 69 70, nota 75, p. 86, nota
114 e , § 3.1.2.
101 L’™kmanq£nein t¾n toÚtou di£noian m¾ mÒnon t¦ œph di 530b10 c1 distingue due a

spetti dell’attività del rapsodo: mandare a memoria i versi del poeta, ' cono
scerne a fondo il pensiero. Ed è quest’ultima la condizione necessaria (riformulata in altri
termini a c1 2 e 5; vedi , (e , § 2.2.1.1) per diventare un buon ˜rmhneÚj.
102 Si tratterebbe dei due significati ' di ˜rmhneÚj: da un lato il mezzo (passivo) di
comunicazione o espressione; dall’altro l’interprete del testo (esegeta); il primo coinci
dente con il % ' 0 della parola, il secondo & & ' dei gruppi di significato che G.
Most ([391] – , nota 107) ha individuato a partire da questo.
103 Vedi , § 2.2.1.1.
104 MOST [391].
105 Pi. . 2, 83 90.

128
tant passages can be organised into a small number of rationally related
groups [five] once the basic meaning of the word has been grasped». E il
significato di base, comune a tutti, è il seguente:

It [ &. the word ˜rmhneÚj] designates the agent that performs any act of
& 0 from one kind of language in which it is invisible
or entirely unintelligible into another kind in which it is visible and intel
ligible [corsivo mio].

MOST [391], p. 308

È evidente come da questo si possa arrivare al significato di spiegazione


o interpretazione del testo, nel quale, in effetti, la parola presto si specia
lizzerà: è sufficiente pensare ai nostri ‘ermeneuta’ ed ‘ermeneutica’,
nell’uso comune come in quello tecnico dell’opera di F. Schleiermacher e
H. G. Gadamer e, molto prima, all’˜rmhneutik¾ tšcnh nel significato che
assume proprio a partire dal V sec. a.C. 106 Il % ' 0 formulato da
Most ha però il vantaggio di comprendere un più ampio raggio di casi in
cui l’˜rmhneÚj può trovarsi a dover rendere accessibile a qualcuno un lin
guaggio che per qualche ragione non lo è: Most ne individua cinque
([391], pp. 308 311),107 e li esemplifica citando passi della letteratura del

106 Vedi SCHLEIERMACHER [394]; GADAMER [389]; ! [467], .".; 4 [474], .". er
meneutica: «termine che nella filosofia greca designa l’arte o la tecnica dell’interpretazio
ne ( ' 3) )». Questo vale forse per le prime occorrenze del nome && " #
(ma, p. es., il Perˆ `Ermhne‹aj di Aristotele non tratta di interpretazione!), ma non per il
nome && , alle sue origini: l’˜rmhneÚj non nasce interprete. Si veda FOLENA
[495], pp. 5 8, il quale riconosce un’origine non tecnica al greco ˜rmhneÚj così come al
latino : «Per i Greci il concetto culturale del tradurre è pressoché inesistente fino
all’età alessandrina e la terminologia rimane generica e scarsamente tecnicizzata [tra i
termini generici il primo è proprio ˜rmhneÚw]». «Il latino è originale elabora
zione di materiali latini (il secondo elemento del composto è certo connesso con
'), proveniente dalla sfera economico giuridica, cioè in origine ‘mediatore, sensale,
arbitro del prezzo’, e l’estensione alla ‘mediazione linguistica’ appare autonoma, anche se
in seguito sulla evoluzione semantica di , , ha pesato l’equa
zione con ˜rmhneÚj, ˜rmhneÚw, ˜rmhne…a, ecc.».
107 I cinque gruppi di significato che Most individua a partire dal % ' 0 di ˜rmhneÚj
sono i seguenti:

(1) expounder of divine will;


(2) expounder of divine will, in which the realm of the divine is replaced by
natural phenomena;
(3) translation involving in transferring meaning from the language of silent
thought to that of spoken discourse (expression, pronunciation);

129
((

V secolo. Per le occorrenze di ˜rmhneÚj ed ˜rmhneÚw di 534e4 535a9


vale il significato del primo gruppo: «the ˜rmhneÚj can translate from the
language of gods to the language of men», prestando la propria voce al
dio: «as an ‘expounder of divine will’, he transfers a message from the
realm of the gods [...] to that of ordinary mortal», ma non necessariamen
te ne 0 il significato, almeno non in quanto ˜rmhneÚj.
Ione mediatore del poeta e il poeta mediatore del dio sono para
gonati da Socrate agli oracoli (to‹j crhsmJdo‹j) e ai profeti divini (to‹j
m£ntesi to‹j qe…oij).108 Il (presunto) tecn…thj di 531b6 ss., detto m£ntij,
si dedicava alla moderna mantik» (tšcnh) – che investiga il futuro «attra
verso gli uccelli e altri segni» ( . 244c6 7; cfr. 538d7 539d7) – ed
era quindi in pieno possesso della mente (œmfrwn, c5); al contrario, l’an
tica manik» alla quale Platone intende riferirsi qui, come in . 244c1 4,
nasce da un dono divino (qe…v mo…rv) e il m£ntij che la esercita non lo fa
in virtù di una tšcnh: è œkfrwn (534b5); nello e nel 4 , troviamo
dunque uno stesso nome (m£ntij) per due figure contrapposte. Platone ci
spiega, nel ' (72a b), come questo sia dovuto alla cattiva abitudine di
alcuni che, impropriamente, chiamano m£ntij il prof»thj, vero
( &. esegeta) delle predizioni divine (ta‹j ™nqšoij mante…aij). Nell’occor
renza di 531b6, dove oggetto d’esame sono l’abilità e la tšcnh, m£ntij
vale dunque prof»thj; mentre nell’occorrenza di 534d1, i m£nteij, detti
qe‹oi,109 sono indovini dell’antica manik» per qe…a mo‹ra: oracoli di parola
degli dèi, che attraverso la loro voce inviano messaggi agli uomini. E Io
ne, paragonato a , m£nteij divini, è ˜rmhneÚj nello stesso senso di
' '.110

(4) translating: mediating from the language of one nation to that of an


other;
(5) herald (¥ggeloj).
MOST [391], pp. 308 311
108 534d1.
109 Cfr. . 22c2 e ( . 99c3 (& ' & ). Platone qualifica i m£nteij di 534d1 con
l’aggettivo qe‹oi proprio per evitare una confusione linguistica della quale è consapevole;
non chiama il m£ntij di 531b6 prof»thj per rispettare, dove possibile, la lingua d’uso
comune all’interlocutore e al lettore. Sulla distinzione m£ntij/prof»thj cfr. S. 390
ss., dove in entrambi i casi si parla di mantica, dunque di una tšcnh, e si dice che l’arte
profetica può essere conosciuta per averla appresa o dagli uccelli (prof»thj) o dagli dèi
(m£ntij). Sull’uso dei verbi di sapere in relazione all’ispirazione divina vedi , § 3.1.1.
110 Si rivela utile la distinzione del 4 (244c) tra manik» e mantik¾. La prima, praticata
dagli antichi m£nteij, consisteva nell’interpretazione del futuro per sorte divina, ed era
giudicata «l’arte più bella» (c1). La seconda, invece, è propria dei moderni prof»tai, «as
sennati» tecn…tai che interpretano il futuro mediante il volo degli uccelli e altri segni del
cielo; e poiché gli uomini d’oggi sono «inesperti del bello», hanno aggiunto un t al nome
originario, rendendolo cacofonico.

130
Most non riconosce l’occorrenza di 530c3 come appartenente
a una delle sue classi; sostiene che ˜rmhneÚj si riferisce in questo caso al
& . 7 0 ([865], p. 311) – nuovo significato introdotto da Platone –
citando a conforto un passo del (163c2) dove oƒ ˜rmhne‹j sono af
fiancati a oƒ grammatista…. Ma il significato della parola qui è semplice:
gli ˜rmhne‹j sono i nostri interpreti linguistici,111 e compiono di mestiere
proprio quella trasposizione di una lingua straniera (inaccessibile) in una
familiare (intelligibile) che è il % ' 0 della parola ˜rmhneÚj nella ri
costruzione di Most. Allo stesso modo, Ione può svolgere la funzione
112

di ˜rmhneÚj dei pensieri del poeta ' & a un pubblico che non vi
ha accesso diretto,113 ed essere mediatore delle di£noiai come lo è dei
versi di Omero a 535c6 7. In favore di questa lettura, l’e„pe‹n poll¦j kaˆ
kal¦j diano…aj (530d2 3) e l’eâ kekÒsmhka (530d6 7) con cui Ione ri
formula i termini della propria attività;114 e l’esame con il quale Socrate
intende saggiare Ione deinÒj (da 531a). Vedremo che tale esame non ver
terà sull’interpretazione poetica ( MÉRIDIER [2], p. 9), ma sull’ 0
in cui il rapsodo deve dimostrarsi abile per essere riconosciuto un ˜rmh%
neÝj ¢gaqÒj; in un senso di ‘esegesi’ per noi non comune, che non con
cerne la critica letteraria, ma richiama i verbi di conoscenza introdotti nel
proemio: Ione non deve il senso dei versi di Omero per 0 & ad
un pubblico di profani, bensì 0 (cfr. il krit¾n ƒkanÒn di 532b5 e
l’¢pof»nasqai gnèmhn di 533a4) la mente (t¾n di£noian, 530b10 c1) del
poeta per essere un % " del suo pensiero (tÁj diano…aj, c4).115
Capire in che cosa consiste l’attività di Ione – il migliore dei
rapsodi – è importante per non fraintendere le ragioni dell’esame al quale
Socrate lo sottopone, un’analisi che occupa due delle tre sezioni in cui è
articolato il lÒgoj (vedi app. A) e ben 8 delle 12,5 pagine Stephanus
dell’intero dialogo. Ho introdotto qui l’ipotesi che l’˜rmhneÚj non sia il
nostro esegeta del testo (ma gli argomenti a favore, in parte anticipati,
saranno oggetto del secondo capitolo),116 per liberare questa parola anti
111 Per noi: se si tratta di lingua orale, se di lingua scritta. Cfr. &. 16a2
3.
112 I traduttori di una lingua <straniera> in un’altra costituiscono per Most il quarto
gruppo di significato della parola ˜rmhneÚj. Vedi , pp. 129 130, nota 107.
113 Vedi , p. 127, nota 98.
114 Vedi , § 1.2.1.2.
115 Il del poeta è l’insieme delle sue opinioni sulle cose importanti della vita, risul
tato della sua attività mentale. Possiamo dunque considerare oggetto della mediazione
del rapsodo sia il pensiero come insieme delle opinioni omeriche, sia i singoli pensieri o
le singole opinioni del poeta (pensiero e opinione sono qui sinonimi). Vedi , §
2.2.1.1.
116 , § 2.2.

131
((

ca dal pregiudizio moderno che le attribuisce senza distinzioni il signifi


cato del suo calco latino: se è vero che l’ ' nasce interprete,117 non
si può dire lo stesso dell’˜rmhneÚj, come Most ha dimostrato. E se, alme
no per il momento, ci liberiamo della figura dell’ermeneuta, sarà più faci
le cercare di tracciare i contorni dell’attività del rapsodo; un’attività della
quale il dialogo non ci offre esempi,118 ma che Ione e Socrate riformula
no in termini ogni volta diversi (a partire da 530c), usando parole che
non incoraggiano la lettura esegetica di ˜rmhneÚj, ma al contrario fanno
difficoltà a questa interpretazione moderna del proemio; e suggeriscono,
prese nel loro insieme, una precisa funzione dell’attività rapsodica, che
non ha niente a che vedere con il 119 obiettivo di restituzione di un

testo o della voce di un autore.


Il rapsodo deve diventare ˜rmhneÚj dei pensieri del poeta per gli
ascoltatori: questa è la sua funzione; e in questa ' consiste la base
della sua attività: la mediazione è il , ' ' che l’˜rmhneÚj deve
soddisfare, dal portavoce di Pindaro al nostro esegeta.120 L’elogio di So
crate dice però qualcosa in più, e proprio in quanto elogio: l’invidia (zÁ%
loj) che lo introduce (530b5), lo scandisce (c1) e lo chiude ad anello (c6),
vuole come oggetto un’¢ret» o una bellezza.121 La bellezza è quella del
corpo sempre adorno del rapsodo (530b6 8), l’¢ret» il grado di eccellen
za nel compiere la funzione di ˜rmhneÚj, svolgendo % la propria attivi
tà. In ( ( , p. 83), Socrate si riferisce in modo esplicito a questa ec
cellenza e introduce i termini di valore che svolgeranno un ruolo fonda
mentale nel dialogo:

(d) oÙ g¦r ¨n gšnoitÒ pote ¢gaqÕj >ayJdÒj,


(e) e„ m¾ sune…h t¦ legÒmena ØpÕ toà poihtoà.
(f) tÕn g¦r >ayJdÕn ˜rmhnša de‹ toà poihtoà tÁj diano…aj g…gnesqai
to‹j ¢koÚousi:
(g) toàto d kalîj poie‹n m¾ gignèskonta Óti lšgei Ð poiht¾j ¢dÚna%
ton.

117 Cfr. p. es. 4 [474], .". interpretazione. G. Vattimo, che ha firmato la voce nell’en
ciclopedia, giudica invece l’uso di ˜rmhneÚj nelle occorrenze della sezione & %& '
(vedi app. A) «più vicino al senso moderno» ( ).
118 «Le texte même n’offre que quelques indices, mais en l’observant de près, nous au

rons peut être quelque chance de faire du chemin» (VERDENIUS [274], p. 245).
119 È del tutto estraneo a Platone l’interesse per la ricostruzione del pensiero o delle esat

te parole di qualcuno quando questi, non essendo presente, non può né confermare né
smentire, rispondendo alle domande dell’interprete. Vedi l’epigrafe; , p. 125, nota 91
e il § 4.2.3 delle conclusioni.
120 Il % ' 0 di Most è esattamente questo requisito minimo.
121 O entrambe. Per una definizione di elogio e un’analisi dei verbi elogiativi vedi ,§
2.1.

132
In (f) troviamo la formulazione del compito che il rapsodo deve svolge
re; ma , compito (il toàto epanalettico che introduce (g) si riferisce
all’˜rmhnša g…gnesqai precedente) non deve solo essere svolto, bensì es
sere svolto % (kalîj poie‹n) e il rapsodo diventare, quindi, ˜rmhneÝj
¢gaqÒj dei pensieri del poeta.122 La proposizione (g) dice inoltre che è
impossibile (¢dÚnaton) diventarlo senza «sapere che cosa il poeta intende
dire» e riformula così (in modo più debole) il sune…h t¦ legÒmena ØpÕ toà
poihtoà di (e), condizione necessaria per essere un rapsodo, secondo L.
Méridier ([2]); per essere un % rapsodo, se, con J. Burnet ([1]), leggia
mo in (d) l’¢gaqÒj tramandato dal codice *. Dato il g£r esplicativo che
introduce (f) e (g), il kalîj poie‹n riferito al toàto anaforico, e conserva
to senza eccezione dai codici, non si spiegherebbe senza l’¢gaqÒj. Se, in
fatti, leggiamo (d) ed (e) con i codici 4 («nessuno potrebbe essere un
senza capire le cose dette dal poeta»), e cioè senza l’¢gaqÒj, la
spiegazione a seguire dovrebbe essere la seguente: « / (g£r) il rapsodo
deve diventare mediatore dei pensieri del poeta per gli ascoltatori, e
(poie‹n) questo senza sapere che cosa il poeta intende dire è impossibile».
Il kalîj presente nel testo non solo perderebbe di importanza, ma sa
rebbe usato in modo improprio e fuorviante: lascerebbe ad intendere che
la rapsodia è un’attività eccellente / e che chiunque sia rapsodo è an
che, in virtù di questo e nello stesso tempo, un % (¢gaqÒj) rapsodo – il
che è smentito dall’uso, nel dialogo, di attributi quali ¢gaqÒj (p. es.
540e8; 541a3, 6) e ¥ristoj (541b2, 7) riferiti a Ione rapsodo; attributi
gradabili, che presuppongono una scala dalla mancanza del valore alla
sua eccellenza.123 La traduzione corretta di 530c1 3 è dunque la seguente:

(d, e) un (>ayJdÒj, soggetto) non potrebbe mai essere <un>


% <rapsodo> (¢gaqÒj, predicato) se non comprendesse le cose
dette dal poeta.

Dovere di Ione non è solo diventare ˜rmhneÚj dei pensieri di Omero,


bensì un % ˜rmhneÚj; ed essendo questa (e non più la declamazione dei
poemi) la funzione del rapsodo (cfr. 530b10 c5), farsi buon me
diatore è tutt’uno con l’essere un buon rapsodo. E condizione necessaria
(¢nagka‹on e<nai, 530b8; cfr. oÙ g¦r ¨n... e< m¾..., c1 2 e ¢dÚnaton, c5) per

122 Nella lingua greca antica, dalle origini, fare qualcosa kalîj in un certo ambito signifi

ca essere ¢gaqÒj in quell’ambito (anche per noi chi fa cose % && è % " ). Per il rapporto
tra i due termini nel platonico, vedi , § 1.2.1.1.
123 Vedi , § 1.2.1.1. 'AgaqÒj è l’aggettivo che qualifica il soggetto dell’¢ret» (cfr. ( .
87d).

133
((

raggiungere questa eccellenza nella mediazione, suscitando lo zÁloj dell’


elogio, è la conoscenza di Omero; più esattamente, si tratta di un:

(1) t¾n toÚtou di£noian ™kmanq£nein (m¾ mÒnon t¦ œph) (530b10 c1),

riformulato in un:

(2) sune…h t¦ legÒmena ØpÕ toà poihtoà (530c2 3),

e in un:

(3) gignèskonta Óti lšgei Ð poiht»j (530c5).

Qualunque cosa significhino queste espressioni (vedi , § 2.2.1.1),


sembra che il rapsodo omerico sia noto per una qualche forma di sapere,
secondo la tesi presentata qui da Socrate; tesi che verosimilmente espri
me l’opinione comune sull’¢ret» del rapsodo: la sua ' .

T S I:124 (1) 9 rapsodo → (9 ) conoscitore <di Omero>.


(2) Ma Ione è un % rapsodo.
(3) Dunque Ione è un (% ) conoscitore <di Omero>.

Essere un % rapsodo è condizione sufficiente per essere un conoscito


re di Omero, dunque un tecn…thj125 (l’¢gaqÒj è condizione sufficiente
della tšcnh): questa è l’opinione comune espressa dall’elogio socratico.
Ione è noto come & ' 0& dei rapsodi (cfr. 541b) e la sua celebrità126 ne
implica la fama di sapiente.127
In ( , p. 123), Ione si dichiara d’accordo con questa cre
denza comune ('AlhqÁ lšgeij, ð Sèkratej, [a]) e, in particolare (™moˆ
goàn), con l’affermazione di Socrate che il rapsodo deve farsi ˜rmhneÚj
dei pensieri di Omero per gli ascoltatori. Il toàto epanalettico di 530c7
non è riferito al lontano ™kmanq£nein di c1, come vuole gran parte della
critica,128 bensì al vicino toàto kalîj poie‹n (c4), dove il pronome in a
nafora si riferisce a sua volta all’˜rmhnša g…gnesqai che lo precede. L’a

124 Vedi , p. 121, note 77 78.


125 Il t¾n toÚtou di£noian ™kmanq£nein di 530b10 c1 è l’¢nagka‹on della tšcnh.
126 Vedi , § 1.2.1. Il successo dell’attività di Ione implica il possesso di un sapere; la
celebrità che ne deriva, dunque, finisce per coincidere con una certa fama di sapiente.
127 Con ‘fama di sapiente’ intendo qui ‘fama di una certa forma di sapere’; vedremo più

avanti ( , § 2.1.2.1) di che tipo di sapere si tratta e quali ne sono i contenuti.


128 Vedi p. es. BATTEGAZZORE [71], p. 8.

134
spetto della tšcnh che «ha dato più da fare» (ple‹ston œrgon paršscen) a
Ione è dunque il tentativo di diventare ˜rmhneÚj dei pensieri di Omero
di farlo % (kalîj poie‹n), cioè Óti lšgei Ð poiht»j; tentativo che
giudica del tutto riuscito: o<mai k£llista ¢nqrèpwn lšgein perˆ `Om»rou
(c7 8). È la del rapsodo: il successo della sua atti
vità di mediatore (k£llista ¢nqrèpwn lšgein) implica, per TS I, il pos
sesso di una forma di sapere. E causa (æj) di questo parlare di Omero
meglio di chiunque altro è il fatto che nessuno ha mai saputo esprimere
così tanti bei pensieri sul poeta (oÜte... œscen e„pe‹n oÛtw poll¦j kaˆ
kal¦j diano…aj perˆ `Om»rou Ósaj ™gè).
Indubbiamente Ione è consapevole del successo della propria atti
vità – e lo dichiara qui con queste parole – come ricorderà a Socrate a
533c5 7, riformulando la stessa espressione (¢ll' ™ke‹no ™mautù sÚnoida,
Óti perˆ `Om»rou k£llist' ¢nqrèpwn lšgw; l’™ke‹no, pronome dimostrati
vo di cosa lontana, si riferisce al passo parallelo di 530c8 9; il sÚnoida ne
rafforza l’o<mai) e confermando così la propria consapevolezza di essere
un buon rapsodo – data dal successo – e insieme la celebrità di cui gode
(kaˆ oƒ ¥lloi p£ntej mš fasin eâ lšgein), già contenuta nell’elogio socra
tico.129 Che Socrate intenda questo assenso di Ione alla tesi dell’elogio
come una dichiarazione di conoscenza è confermato da quanto afferma
nell’epilogo, dove accusa l’interlocutore di ingannarlo, in quanto «ben
lontano dall’esibirsi» nonostante gli abbia «dichiarato di molte e
belle cose su Omero»; e riformula l’e„pe‹n poll¦j kaˆ kal¦j diano…aj
perˆ `Om»rou del proemio, sostituendo con un verbo di sapere (™p…sta%
sai) il verbo di dire. Che Ione stesso riconosca nelle proprie parole una
dichiarazione di conoscenza è quanto possiamo ragionevolmente sup
porre sulla base di alcuni comportamenti verbali (o silenziosi) che assu
me nel dialogo:

(1) dà il proprio assenso all’elogio socratico e all’opinione comune


sulla sua fama di sapiente in esso formulata;

(2) la consapevolezza di possedere una certa sapienza omerica è im


plicita nel suo uso di termini di sapere – o nell’assenso all’uso che
ne fa Socrate – nel corso del dialogo; cfr. p. es. 536e (oÙk e„dèj,
oÙk o<da) e 541b4 5 (taàt£ ge ™k tîn `Om»rou maqèn);

129 Cfr. trad., p. 72, nota 85.

135
((

(3) nell’epilogo, pur disponendo di un’ultima battuta prima della re


plica conclusiva di Socrate che lo lascia letteralmente senza parole,
non smentisce l’attribuzione di conoscenza che il filosofo gli ri
volge.

È inverosimile che Ione, in quanto parlante greco, non abbia colto


l’aspetto conoscitivo della tesi sostenuta nell’elogio, sul quale peraltro
Socrate insiste (t¾n toÚtou di£noian ™kmanq£nein, sune…h t¦ legÒmena
ØpÕ toà poihtoà, gignèskonta Óti lšgei Ð poiht¾j).130 Tuttavia, la sua ri
sposta mostra chiaramente, nella scelta delle parole,131 come l’attenzione
del rapsodo sia volta al della propria attività – piuttosto che al
che le è necessario – al suo aspetto di ' , come Socrate non
manca di notare: «Ben detto, Ione. È evidente (dÁlon) che non rifiuterai
di esibirti (™pide‹xai) davanti a me» (530d4 5). In modo simile, oggetto
(o primo) della fama di cui gode è il suo eâ lšgein, non il sapere
omerico necessario per quell’eâ secondo la tesi dell’elogio: tutti (oƒ ¥lloi
p£ntej) dicono di Ione che parla bene di Omero, non che ne ha cono
scenza (cfr. 533c6 7).132
Obiettivo del prossimo paragrafo sarà scoprire / Ione insista
sulla natura epidittica della propria attività di rapsodo (condizione suffi
ciente in TS I) piuttosto che sul sapere (condizione necessaria), come –
vedremo – farà Socrate nella prima e nella terza sezione del lÒgoj; e capi
re infine in che cosa consista questa attività rapsodica di % mediatore
che il proemio ci presenta. Per raggiungere questo doppio obiettivo leg

130 Lo stesso vale per l’uso di espressioni di sapere nel corso del dialogo e dell’epilogo (p.

es. il t¾n `Om»rou sof…an di 542a1).


131 Benché la si traduca di solito con un ‘credo di parlare di Omero ' 0& di chiunque

altro’, la locuzione o<mai k£llista ¢nqrèpwn lšgein perˆ `Om»rou può significare anche
‘credo di dire su Omero & 6 % && tra gli uomini’: k£llista è infatti il grado superla
tivo – in acc. neutro pl. – dell’aggettivo (kalÒj) sostantivato, non solo dell’avverbio (ka%
lîj). Ho preferito la prima versione per analogia al & parallelo di 533c5 7, dove il lš%
gein oggetto della fama è preceduto da un eâ avverbiale.
132 In realtà, la tesi dell’elogio esprime solo in parte l’opinione comune ai Greci e a Ione

sull’attività del rapsodo omerico: ad attirare l’attenzione selettiva di Ione, causata dalle
confusioni della lingua (che a loro volta riflettono quelle della vita), è solo la condizione
sufficiente del condizionale: essere un % rapsodo ' & possedere una forma di co
noscenza. Quando si tratterà di negare la propria ¢ret» perché il suo ‘sapere’ non è quel
lo delle tecniche, Ione non sarà affatto persuaso; e # esserlo, da nessun argomen
to, perché la tesi (e quella comune) è molto più forte:

buon rapsodo ↔ (buon) conoscitore

136
geremo lentamente il dialogo alla luce dei termini di valore133 che vi
compaiono.

& 5 ¢ret»

Il verbo zhlÒw, che racchiude la lunga battuta pronunciata da Socrate


all’inizio del proemio maggiore, ne indica la natura elogiativa. Lo zÁloj è
infatti il sentimento proprio dell’elogio, l’invidia positiva, che suscita e
mulazione, o l’ammirazione dell’oggetto elogiato da parte del suo elogia
tore – se sincero:134 invidia che l’elogio suscita anche in chiunque lo a
scolti o legga, e che in virtù di questo è la base della paide…a greca.
In un celebre passo del 0 , il sofista ricorda a Socrate come i
did£skaloi si prendono cura (™pimeloàntai) dei pa‹dej, costringendoli
(¢nagk£zousin) ad imparare a memoria (™kmanq£nein) le opere dei poeti
¢gaqo…, «nelle quali sono contenute molte ammonizioni, descrizioni, elo
gi ed encomi (œpainoi kaˆ ™gkèmia) di antichi uomini ¢gaqo…, affinché
(†na) il pa‹j, ammirandoli (zhlîn), <li> imiti (mimÁtai) e desideri (Ñrš%
ghtai) diventare come loro» ( . 325e1 326a4).135 Lo zÁloj porta dunque
con sé un desiderio o una tendenza all’imitazione che ne determina il po
tere paideutico,136 e insieme il potere dell’elogio che lo suscita. Questo è
quanto ' l’uso del verbo zhlÒw nel platonico. In più occorren
ze, esso è accompagnato dal riferimento all’emulazione (o al desiderio di
emulazione) dei comportamenti o degli atti della persona invidiata. In un
passo del $ ' , per esempio, la sacerdotessa Diotima si dice persuasa,
per voce di Socrate, che ognuno preferirebbe che gli nascessero figli «più
belli e più immortali» di quelli umani ( &. toÝj lÒgouj), «volgendo lo
sguardo» ad Omero ( &. usandolo come modello)137 e invidiando (zhlîn)

133 Vedi , pp. 124 (nota 86) ss.


134 Vedremo che nel platonico è il contesto nel quale il termine è impiegato a mo
strarlo. Cfr. p. es. . VII 516c8, e in particolare il testo . ( , p. 138).
135 Cfr. g. VII 811a.
136 Il termine greco zÁloj può significare esso stesso emulazione. Vedi [470], .". e
cfr., p. es., Pl. 0. 486c8, . VIII 553a9 e X. ( '. II 1, 20.1. In ogni caso, nell’uso co
mune della parola, chi elogia qualcuno è disposto a comportarsi di conseguenza (p. es.
. 180a, . VIII 562d). Cfr. anche 0. III 688d LÒgJ m n to…nun se, ð xšne, ™paine‹n
™pacqšsteron, œrgJ d sfÒdra ™painesÒmeqa: proqÚmwj g¦r to‹j legomšnoij ™pako%
louq»somen, ™n oŒj Ó ge ™leÚqeroj ™painîn kaˆ m¾ m£list' ™stˆn katafan»j. Sul valore
paradigmatico degli 7 ' & mitici nella prosa encomiastica greca, cfr. almeno GENTILI
[305].
137 'Apoblšpw è usato spesso con questa valenza nel : p. es. in . 6e4 (TaÚthn
to…nun me aÙt¾n d…daxon t¾n „dšan t…j potš ™stin, †na e„j ™ke…nhn ¢poblšpwn kaˆ [epe

137
((

Esiodo e gli altri poeti ¢gaqo… per le opere che procurano loro ¢q£naton
klšoj kaˆ mn»mhn (209c7 d4). In una pagina del 0 , Socrate afferma
che, se dovesse trovarsi in tribunale, non potrebbe citare ai giudici piaceri
(¹don£j) da lui procurati, quel genere di piaceri che essi giudicano eÙer%
ges…aj kaˆ çfel…aj; mentre egli non invidia (zhlî) – e , non ha
imitato – né coloro che li procurano né coloro ai quali sono procurati
(522b3 6). Ancora, in un secondo passo del 0 e in tre della %%&
, l’invidia è accompagnata dal riferimento al desiderio di agire e com
portarsi come colui che si invidia, o da parole che indicano direttamente
l’agire come.

/ PWL. `Wj d¾ sÚ, ð Sèkratej, oÙk ¨n dšxaio ™xe‹na… soi poie‹n Óti
doke‹ soi ™n tÍ pÒlei m©llon À m», oÙd zhlo‹j Ótan ‡dVj
tin¦ À ¢pokte…nanta Ön œdoxen aÙtù À ¢felÒmenon cr»mata
À d»santa.

0. 468e6 9

. SW. Timaˆ d kaˆ œpainoi e‡ tinej aÙto‹j Ãsan tÒte par' ¢ll»%
lwn kaˆ gšra tù ÑxÚtata kaqorînti t¦ pariÒnta, kaˆ mnh%
moneÚonti m£lista Ósa te prÒtera aÙtîn kaˆ Ûstera e„èqei
kaˆ ¤ma poreÚesqai, kaˆ ™k toÚtwn d¾ dunatètata ¢poman%
teuomšnJ tÕ mšllon ¼xein, doke‹j ¨n aÙtÕn ™piqumhtikîj
aÙtîn œcein kaˆ zhloàn toÝj par' ™ke…noij timwmšnouj te
kaˆ ™ndunasteÚontaj, À tÕ toà `Om»rou ¨n peponqšnai kaˆ
sfÒdra boÚlesqai ™p£rouron ™Ònta qhteušmen ¥llJ ¢ndrˆ
par' ¢kl»rJ kaˆ Ðtioàn ¨n peponqšnai m©llon À 'ke‹n£ te
dox£zein kaˆ ™ke…nwj zÁn;

. VII 516c8 d7

+ SW. ”Epeit£ ge o<mai ¥lloj ¥llon Ðrîn kaˆ e„j zÁlon „ën tÕ
plÁqoj toioàton aØtîn ¢phrg£santo.

. VIII 550e1 2

SW. [...] k¥n potš tinaj polemikoÝj zhlèsV, taÚtV fšretai, À

segetico] crèmenoj aÙtÍ parade…gmati, Ö m n ¨n toioàton ÃÄ ïn ¨n À sÝ À ¥lloj tij


pr£ttV fî Ósion e<nai, Ö d' ¨n m¾ toioàton, m¾ fî); . 237d1; & . I 120b1, 122c1, 5;
( . 72c8; . V 466a5, 484c9 (’H oân dokoàs… ti tuflîn diafšrein oƒ tù Ônti toà Ôn%
toj ˜k£stou ™sterhmšnoi tÁj gnèsewj, kaˆ mhd n ™narg j ™n tÍ yucÍ œcontej par£%
deigma, mhd dun£menoi ésper grafÁj e„j tÕ ¢lhqšstaton ¢poblšpontej k¢ke‹se ¢eˆ
¢nafšrontšj te kaˆ qeèmenoi æj oŒÒn te ¢kribšstata, oÛtw d¾ kaˆ t¦ ™nq£de nÒmima
kalîn te pšri kaˆ dika…wn kaˆ ¢gaqîn t…qesqa… te, ™¦n dšV t…qesqai, kaˆ t¦ ke…mena
ful£ttontej sózein;); VII 540a8 ([...] ¢nagkastšon ¢nakl…nantaj t¾n tÁj yucÁj aÙg¾n
e„j aÙtÕ ¢poblšyai tÕ p©si fîj paršcon, kaˆ „dÒntaj tÕ ¢gaqÕn aÙtÒ, parade…gmati
crwmšnouj ™ke…nJ, kaˆ pÒlin kaˆ „diètaj kaˆ ˜autoÝj kosme‹n tÕn ™p…loipon b…on ™n
mšrei ˜k£stouj, tÕ m n polÝ prÕj filosof…v diatr…bontaj). Cfr. anche . 390e4; & .
2 149e7; . 354c1, d2, 8; 0. 474d5, 503e1; 1 .( . 299e2; (7. 240e4.

138
crhmatistikoÚj, ™pˆ toàt' aâ.

. VIII 561d4 5

Un altro passo, infine, oltre quello già citato del 0 , non solo asso
cia l’invidia all’emulazione e al desiderio di diventare come la persona in
vidiata,138 ma ne suggerisce la forza educativa: nel 0 , il figlio di De
modoco lo tormenta (pr£gmata paršcei, 121d4) affinché paghi qualche
sofista capace di renderlo sofÒj, ' i coetanei del demo che invidia e
vuole imitare: questo è il suo desiderio (™piqum…a; cfr. 121c6 d).
Alcuni dei testi citati presentano casi 0 " , cioè casi nei quali
l’invidia è negata ( 0. 522b3 6; .) o ci si stupisce del fatto che lo sia
( /) e che, di conseguenza, non si soffermano sull’oggetto dello zÁloj.139
Al contrario, sia il passo paideutico del 0 sia quello del $ '
presentano con cura gli oggetti d’invidia, del pa‹j in un caso, dell’adulto
nell’altro; oggetti curiosamente identici: i poeti ¢gaqo… – e Omero
' . Non semplicemente i poeti, dunque, ma i poeti ¢gaqo…, e insieme gli
«antichi uomini ¢gaqo…» da quelli elogiati;140 così come oggetto dello zÁ%
loj di Socrate nel nostro proemio è il rapsodo ¢gaqÒj.
Quanto la lingua greca mostra nell’uso platonico dei dialoghi è te
matizzato da Aristotele nella . Nel primo libro troviamo una defi
nizione di œpainoj:141 œstin d' œpainoj lÒgoj ™mfan…zwn mšgeqoj ¢retÁj (I
9, 1367b28). L’elogio è un lÒgoj che ha come oggetto l’¢ret», e più esat
tamente l’¢ret» nel compiere azioni (d' ™k tîn pr£xewn Ð œpainoj, b22).
Secondo questa definizione aristotelica, l’elogio di un uomo, per essere
efficace (il punto di vista è chiaramente retorico), deve porne in risalto la
proa…resij (b23), essendo proprio (‡dion) dell’uomo spouda‹oj agire con

138 B. Centrone ([115]) traduce l’™z»lwken di 0. 122d3 con «li vuole imitare».
139 Lo stesso vale per le brevi formulazioni di + e , i cui termini semplicemente
suggeriscono un legame tra zÁloj e imitazione.
140 Nel passo del 0 , l’invidia dei poeti ¢gaqo… è però indiretta e passa attraverso il
loro elogio degli «antichi uomini ¢gaqo…».
141 Elogio o lode, parola che non compare nel proemio dello . Aristotele ( . I 9,
1367b28 ss.) distingue tra œpainoj (elogio) ed ™gkèmion (encomio), indicando gli œrga (e
non le pr£xeij) come oggetti propri di quest’ultimo. Non me ne occuperò qui dal mo
mento che Platone, pur facendo uso di entrambi i termini e impegnandosi, in tal modo,
su una qualche differenza familiare al parlante greco (o forse solo al parlante colto; cfr.
p. es. 0. VII 801e, . 326a2, . 303c3, (7. 237a b: si tratta di un œpainoj di uomi
ni ¢gaqo…, ma quando la lode diventa kat¦ fÚsin, l’™paine‹n è seguito da un t¾n eÙgš%
neian... ™gkwmi£zwmen), spesso li rende sinonimi (forse proprio seguendo l’uso comune
della lingua; p. es. $' . 223a2, ( . 319b d, (7. 234c 235a, . X 607a4). Di solito lode e
biasimo sono ' di trattare un soggetto; l’encomio è già un di componimento (ap
partiene a un genere).

139
((

una intenzione e l’azione intenzionale segno di ¢ret».142 Non si elogia


qualcuno per gli œrga compiuti, perché gli œrga sono shme‹a tÁj ›xewj e
potremmo quindi «lodare anche chi non ha compiuto opere, se lo rite
nessimo tale da compierne»143 (b33 34). In un precedente passo dello
stesso libro, quello che ho chiamato oggetto dell’œpainoj è meglio defini
to come il suo skopÒj (o tšloj):
met¦ d taàta lšgwmen perˆ ¢retÁj kaˆ kak…aj kaˆ kaloà kaˆ a„scroà:
oátoi g¦r skopoˆ tù ™painoànti kaˆ yšgonti.

1366a23 25

L’elogio è dunque elogio di una ¢ret»144 o di una bellezza, tende a una


forma di eccellenza o ha come fine l’esaltazione di qualcosa di bello (per
converso, lo yÒgoj è condanna della kak…a e della bruttezza).
Dopo aver trattato dei tre generi di lÒgoi retorici (deliberativo,
giudiziario, epidittico145), nel secondo libro Aristotele descrive i senti
menti e le relative disposizioni d’animo (pîj œcontej) di oratore e ascol
tatori, necessari affinché un lÒgoj sia persuasivo. Lo zÁloj è uno di que
sti, e alcuni uomini oggetto d’invidia e imitazione sono i seguenti:
kaˆ oŒj polloˆ Ómoioi boÚlontai e<nai, À polloˆ gnèrimoi, À f…loi pollo…,
À oÞj polloˆ qaum£zousin, À oÞj aÙtoˆ qaum£zousin. kaˆ ïn œpainoi kaˆ
™gkèmia lšgontai À ØpÕ poihtîn À ØpÕ logogr£fwn.

II 11, 1388b18 22

Si invidiano e si imitano gli uomini ai quali si desidera somigliare, quelli


che sono oggetto dell’ammirazione di molti ma anche soltanto della pro
pria, quelli dei quali poeti e prosatori compongono & 0 ed encomi. An
che per Aristotele, allievo di Platone e autore di un di retorica, il
lÒgoj elogiativo suscita zÁloj ed emulazione. 146

142 Per Aristotele, l’uomo spouda‹oj è il mštron del bene e del male ( III 6, 1113a29
33).
143 Traduzione di M. Dorati ([118]), modificata.
144 Cfr. anche 11, 1388b5 ss.
145 Il genere epidittico comprende la lode (œpainoj) e il biasimo (yÒgoj).
146 Anche la trattazione aristotelica dello zÁloj nella (II 11, 1388a31 b22) mostra
come la parola greca zÁloj possa essere usata per indicare direttamente l’emulazione, o
si specializzi in quest’uso (p. es. 1388b8 10). L’invidia rimane in tal caso implicita nell’e
mulazione, e coincide con la forma di sofferenza (lÚph) che deriva dal constatare, in
persone simili a noi per natura, la presenza di beni tenuti in grande considerazione
(¢gaqîn ™nt…mwn) e che anche per noi è possibile ottenere; questa sofferenza è descritta
da Aristotele all’inizio del capitolo, come derivante non dal fatto " che un altro pos

140
La parola zÁloj (primo termine di valore del dialogo) può dunque
considerarsi spia della presenza di un elogio: il discorso articolato con il
quale Socrate apre il proemio maggiore è senza dubbio elogiativo – ve
dremo se sia anche sincero. Se riconosciamo all’œpainoj un qualche pote
re paideutico, in virtù della tendenza all’emulazione che suscita; e se, co
me sembra, l’elogio del proemio esprime l’opinione comune sui rapsodi
(e sul rapsodo omerico in particolare), diventa ancora più urgente capire
in che cosa consista l’attività che Ione svolge di fronte a un pubblico così
numeroso,147 e quale influenza positiva o negativa possa avere sugli Ate
niesi che tanto stanno a cuore a Socrate.148 La pretesa dell’elogio di un
ruolo fondamentale – la paide…a, come la nostra , si cura del
pa‹j affinché possa crescere nel miglior modo possibile, sviluppando al
meglio le proprie potenzialità umane149 – esige un’indagine sulla storia e
sul legame tra questa forma di lÒgoj e il modo di vivere degli uomini: i
comportamenti, le azioni, l’atteggiamento mentale. Solo così sarà possibi
le capire fino a che punto sia forte e determinante l’œpainoj greco nella
formazione dell’uomo ¢gaqÒj,150 e quanto sia urgente un esame – l’esa
me socratico – della sua attendibilità.

& $ 6 # œpainoj

«In primo luogo esamineremo 0 , e le voci a queste connesse: in


quanto sono le più elevate parole di lode che si possano dire di un uomo,
implicano il possesso, da parte della persona cui si riferiscono, di tutte le
qualità in ogni tempo più altamente valutate dalla società greca»: così ini

siede tali beni, ma dal fatto 0 " che noi non li possediamo; ed è per questo sentimen
to «onesto (™pieikšj) e proprio di uomini onesti», teso ad ottenere beni, distinto dallo
fqÒnoj, «sentimento spregevole (faàlon) e proprio di uomini spregevoli», volto ad im
pedire che qualcun altro conservi quegli stessi beni. Nel passo del 0 citato nel te
sto, Platone, diversamente, separa lo zÁloj dalla m…mhsij che ne consegue. Cfr. , pp.
161 ss. e nota 202.
147 Non il pubblico di una ' recitativa, comunque numeroso (cfr. 535d), ma il
pubblico indifferenziato, da Efeso a Epidauro ad Atene.
148 Vedi p. es. . 29d3, 7; . 53a3.
149 Paide…a < paideÚw < pa‹j. Come si coltiva una pianta per farla crescere bene, affin

ché dia tutto quanto può dare di buono per natura (lo stesso vale per l’allevamento degli
animali), paideÚein, educare qualcuno, significa fare in modo che quell’essere umano
cresca dando il meglio di sé, coltivando la propria umanità fino in fondo. In modo ana
logo, educazione < , «portare fuori da», «ricavare dal profondo». Cfr. NUSSBAUM
[172], cap. I.
150 L’uomo che ha raggiunto l’eccellenza nello sviluppo della propria umanità.

141
((

zia l’attenta analisi di A. W. Adkins in ( % & .,151 con


un’osservazione che riassume quanto abbiamo stabilito fin qui: oggetto
dell’œpainoj152 è l’uomo ¢gaqÒj, e lo è «in ogni tempo», fin dalle origini
della cultura e della lingua greca a cui la parola appartiene. Cosa sia l’ec
cellenza per un greco e in cosa consista l’eccellenza di Ione rapsodo sa
ranno oggetto dei prossimi paragrafi, a partire da un esame dell’uso di
queste voci nella loro lingua antica, esame che ha ancora una volta lo
scopo di allontanarle da noi e dai pregiudizi semantici della lingua.
Per cominciare, una distinzione semplice: ¢gaqÒj può essere attri
buito sia all’uomo sia al tecn…thj;153 e, se in quest’ultima attribuzione
' assume lo stesso significato del nostro ‘buon’ anteposto al nome,
non si può dire lo stesso nel caso della prima. Lo „atrÕj ¢gaqÒj è forse il
nostro buon medico (ma non il medico buono!); l’¢gaqÕj ¥nqrwpoj non
ha niente in comune con il nostro uomo buono, ma al contrario è privo
di connotazione morale – traduzione più corretta e ormai comune del
termine greco è ‘eccellente’. Stabilito questo, resta da indagare il significa
to di tale eccellenza, dalle origini – e le origini sono per noi i poemi ome
rici. Adkins presenta un’analisi ampia e dettagliata di ¢gaqÒj e delle voci
affini in Omero, quindi mi limiterò a mostrare con alcuni esempi come
l’aggettivo greco, nelle due attribuzioni, si differenzi in modo fondamen
tale dal nostro ‘buono’:154 non solo l’uomo ¢gaqÒj non è buono (non in
quanto ¢gaqÒj), ma nemmeno il medico ¢gaqÒj è ' compe
tente come il nostro buon medico.
I venti ¥ristoi scelti dai corteggiatori di Penelope per tendere
un’insidia a Telemaco ( . IV 778); l’¢ret» dei soldati «più chiaramente
visibile» nell’imboscata ( &. XIII 277); le unità di combattimento ordinate
che mostrano ad Agamennone chi tra gli uomini è ¢gaqÒj e chi kakÒj,
perché scoprono il contributo personale di ognuno alla battaglia ( &. II

151 ADKINS [138], p. 53. Cito dalla trad. it. di R. Ambrosini.


152 «Elogio» o «lode»: è la parola chiave dello (vedi trad., p. 88, nota 119 e ,§
1.2.1.2). Cfr. . 419a4.
153 In questo secondo caso, «le bon est... % a quelque chose» (MÉRON [171], p. 21). Ad
accomunare i due usi, con Aristotele, il fatto che anche l’¥nqrwpoj ¢gaqÒj deve svolgere
una certa funzione, e cioè realizzare la propria umanità e ' la felicità ( I 7 e 10).
Esiste una terza funzione della parola nel greco antico, che svolge un ruolo im
portante nei testi platonici, soprattutto in quelli più maturi: «d’abord 0 désigne le
sommet de l’échelle des valeurs, et, de ce point de vue, la traduction par “bon” est tout à
fait satisfaisante. Nous lison dans le 1 (296c 297b) que l’ 0 est la fin des
actions humaines, et la référence des autres termes laudatifs tels qu’utilité ou beauté;
nous en dirion autant du “bien”; comme valeur suprême, par quoi se justifient toutes les
autres, l’ 0 est sans aucun doute le “bien”, ou le “bon”» (MERON, & . .).
154 E dagli aggettivi corrispondenti nelle altre lingue moderne: % , 0 , ecc.

142
365; cfr. . VIII 512), sono alcuni esempi (e i poemi ne sono pieni) di
ciò che i termini di valore celebravano in origine: «il coraggio bellico e
l’ % & # che promuove successi in guerra, insieme con il stesso [...],
indistinguibile in Omero dall’abilità che ad esso contribuisce» (ADKINS
[138], p. 54; corsivi miei). 'AgaqÒj è dunque il guerriero abile che ha suc
cesso, & ha successo: il successo è condizione necessaria e suffi
ciente dell’¢ret», come l’insuccesso lo è dell’a„scrÒn e del biasimo che lo
accompagna, in guerra e in pace. È a„scrÒn rimanere lontani per lungo
tempo e tornare in patria a mani vuote ( &. II 284 ss.; cfr. 119 ss.); Eumeo
avrebbe subìto ™legce…h se i suoi cani da guardia avessero attaccato O
disseo mendicante che vagava nel suo recinto ( . XIV 37 ss.); e ancora,
nelle parole di rimprovero di Penelope, Telemaco avrebbe ricevuto a<%
scoj e disonore se, sotto il suo tetto, Odisseo fosse stato oggetto d’ingiu
rie da parte dei pretendenti ( . XVIII 223 ss.), anche se contro la sua
volontà e nonostante vi si opponesse con tutta la forza e l’astuzia di cui
disponeva.
In altri casi, ¢gaqÒj è usato per caratterizzare una precisa posizio
ne sociale (elevata): Odisseo, mendicante solo in apparenza, afferma che
nessuno potrebbe costringerlo ad abbassarsi a compiti servili, come quel
li che i cšrhej svolgono per gli ¢gaqo… ( . XV 324; cfr. &. I 80). Allo
stesso modo, i pretendenti, benché il loro non sia il modo conveniente di
corteggiare, rimangono pur sempre ¢gaqo…. Sembra che in occorrenze
simili a queste, a meritare il titolo di ¢gaqÒj sia un’/& sociale e il metro
dei valori aristocratico. Ma Adkins ([138], p. 54) mette in guardia dal
mantenere distinti due usi della parola che fanno parte della stessa forma
di vita greca di quei secoli: l’uomo ¢gaqÒj deve infatti possedere le quali
tà che portano un buon condottiero al successo in guerra, ma anche, in
pace, il potere ereditario e la disponibilità economica (per un buon equi
paggiamento, p. es. un’armatura completa e un carro), «che insieme costi
tuiscono le condizioni necessarie per lo sviluppo di queste abilità».155 E le
ragioni che portano la società a esaltare con la lode il successo (non
l’abilità – se per caso o fortuna il guerriero vincesse la battaglia restereb
be ¢gaqÒj) e a biasimare fortemente l’insuccesso (non l’ignoranza o la
mancanza di abilità – se queste non impediscono di portare a termine
l’impresa) sono alla lettera ragioni di vita o di morte:156

155 E neppure Tersite, «il solo “uomo dappoco” di cui si oda la voce, nega la convenien

za di tali valori» (ADKINS [138], p. 56).


156 Se l’eroe è disposto a morire per evitare il disonore ( &. XVIII 96, 98, 104; cfr. .
28b ss.), o per ottenere la gloria ( &. IX 410 416), l’uomo continua a considerare la vita il
bene più prezioso ( &. % ., . XI 488 491).

143
((

In guerra l’insuccesso di uno solo può ben contribuire all’insuccesso dei


suoi compagni: un insuccesso che, nel mondo omerico, deve risolversi
nella schiavitù o nella morte. Il successo è così indispensabile che soltan
to i risultati concreti hanno valore: le intenzioni non contano. Egualmen
te, o per ragioni simili, è non riuscire in tempo di pace a proteg
gere la propria famiglia ed i propri ospiti, per buone che siano le inten
zioni. Se il capo famiglia non può proteggerli, non c’è altri che lo faccia.

ADKINS [138], p. 58

È il successo dell’azione, dunque, a determinare la lode, indipendente


mente dall’abilità umana che può o meno averlo prodotto, ma che viene
comunque riconosciuta al vincitore in virtù del buon risultato raggiunto:
l’abilità si appiattisce sul successo dell’impresa ed è confusa con esso.157
Dire158 di qualcuno che ha successo – chiamarlo ¢gaqÒj – significa, nel

157 Si veda comunque &. XXIII 206 ss. e si confronti sul tema la posizione di H. Lloyd
Jones ([169]), più sfumata rispetto a quella di Adkins. La tesi che intendo sostenere è che
nella letteratura greca, a partire dai poemi omerici, numerose testimonianze permettono
di ricostruire quella che definirei «un’etica dell’elogio», secondo la quale, appunto, abilità
e sapere sono appiattiti sul risultato di successo di una certa impresa o attività. Indub
biamente si troveranno anche testimonianze contrastanti, come l’esempio del XXIII li
bro dell’ & dimostra; e credo che questo sia ovvio per la semplice ragione che l’espe
rienza di apprendere un mestiere, un’arte, una tecnica, di imparare (a fare) qualcosa è
comune agli uomini di ogni tempo. La cultura dell’elogio non nega la possibilità di otte
nere successi in virtù delle proprie capacità, né che l’autore di tali successi, e talvolta an
che il suo pubblico, ne siano consapevoli. Ciò che questa ipotesi culturale vuole rilevare
è la consuetudine dannosa di attribuire alle lodi di un pubblico numeroso un’importanza
maggiore rispetto a quella che risiede nelle proprie conoscenze e capacità; e questa con
suetudine è tanto più dannosa in quanto si traduce in un atteggiamento mentale e in uno
stile di vita " , in una eccessiva dipendenza dal giudizio degli altri. Ritengo questa tesi
plausibile, inoltre, in riferimento alla lettura platonica delle testimonianze della tradizione
sul tema: che vi sia o meno una & && & 0 soggiacente, mi sembra che Platone sia
persuaso di averne rintracciato il filo conduttore dalle origini omeriche fino alle
' dei suoi contemporanei. È soprattutto questo che vorrei dimostrare nei prossimi
paragrafi.
158 Quanto abbiamo detto fin qui è reso possibile, nel mondo omerico, dal riconosci

mento della ' (quello che il popolo dirà), come metro di valutazione e sanzio
ne più temuta. Così i pretendenti in . XI 323 ss.:

No, noi ci vergogneremo di quanto diranno uomini e donne, nel timore che un
giorno qualche compagno tra i Greci dica: «Certamente degli uomini assai dap
poco corteggiano la moglie di un uomo eccellente, perché non riescono a tende
re l’arco; e invece un mendico errabondo è giunto, ha teso l’arco con facilità e ha
mirato attraverso la fila delle asce». Così diranno: e queste cose diverranno &
per noi.

144
mondo omerico, attribuirgli le migliori qualità e abilità umane, in base a
un criterio esterno ad esse: nessuno pronuncerà la sua lode sulla base di
un esame onesto e scrupoloso di competenze e saperi, bensì dopo aver
osservato un successo che non segue necessariamente da questi. Allo
stesso modo, biasimo e vergogna colpiranno senza indugio l’insuccesso
dell’uomo abile e valoroso, magari dovuto a una sorte avversa o all’in
tervento di un dio. Tale criterio impedisce, inoltre, il confronto tra due
prestazioni: successo e insuccesso le rendono uniformi, nel bene e nel
male, o le contrappongono in modo estremo, annullando ogni possibile
merito dell’una ed esaltando l’altra per ragioni esterne.
Da Omero a Platone, il rapporto tra elogio, ¢ret» e sapere159 si
complica, ma conserva, nell’uso che poeti, storici e pensatori fanno dei
termini di valore, la medesima priorità etica dell’elogio: non si elogia
qualcuno perché è ¢gaqÒj – e ha raggiunto questa eccellenza grazie a co
noscenze e competenze esaminate; al contrario, qualcuno è ¢gaqÒj per
ché lo si elogia – sulla base del criterio esterno del successo: questo ri
mane l’uso comune della parola. Alcune azioni o attività cosiddette ‘di
successo’ implicano necessariamente un risultato positivo – pena la loro
stessa esistenza: p. es. non posso tagliare o bruciare un foglio di carta
senza che questo sia tagliato o bruciato (con successo, dunque). Se il fo
glio è integro, l’operazione semplicemente non è stata compiuta: non ho
tagliato né bruciato alcunché. In modo simile, il successo dell’artigiano o
dell’operaio moderno consiste nella fabbricazione di un oggetto funzio
nale ( &. che sia in grado di svolgere la propria funzione): ruota che gira,
mestolo che raccoglie, vaso che contiene, forbice o coltello che taglia... –
pena il suo mancato riconoscimento come tale.160 Diversamente, in altre

E ADKINS [138], pp. 75 76: «L’eroe omerico [...] può arrogarsi soltanto quel valore che
gli altri gli attribuiscono. Il coraggio di Diomede non servirebbe a niente se i suoi com
pagni non credessero che egli è valoroso; quello che gli altri credono a proposito delle
sue azioni è affatto indipendente dalle sue intenzioni personali, e può essere anche in
disaccordo con queste»; «L’ & può derivare anche da un insuccesso nei giochi, non
perché i giochi siano un allenamento per la guerra, ma perché l’eroe prova vergogna di
fronte all’insuccesso /, e gli altri criticheranno ciò /»; «Non c’è ragione di spiegare
l’esistenza di questo sistema valutativo, perché deriva da quanto è primitivo ed origina
rio: sarebbe meglio dire che la società non è ancora abbastanza bene organizzata da
permettere quella riflessione (o quella coercizione) che potrebbe produrre un sistema
diverso».
159 Ad esempio, per chi affronta una guerra, tecnica di combattimento e nozioni di stra

tegia – ma vedremo che a quest’ultima Platone negherà lo statuto di sapere.


160 Il & && 0& , sempre presente in occasione di pranzi e cene con commensali
numerosi, non è un vero controesempio: è soltanto un coltello che non taglia % come
vorremmo (o come una volta), o che letteralmente non taglia, ma a causa di una lama
che, se affilata, gli restituirebbe immediatamente la dignità di coltello.

145
((

attività non abbiamo un criterio di successo legato al semplice compi


mento, ma possiamo portarle a termine senza che questo coincida con
un esito positivo: p. es. possiamo recitare un poema, rappresentare un
dramma, pronunciare un discorso, senza successo, vale a dire senza rag
giungere lo scopo di ognuna di queste attività. Le azioni e attività dei
passi omerici sopracitati sono di questo tipo: è possibile combattere una
guerra con coraggio e abilità, senza vincerla.
La cultura tradizionale ci presenta, dunque, un’etica dell’elogio, che
attribuisce la massima importanza all’opinione degli altri (di quelli che,
con Platone, abbiamo imparato a conoscere come oƒ pollo…), alla fama
positiva o negativa, che ha il potere di determinare con la lode di un suc
cesso o il biasimo di un fallimento l’¢ret» o l’a„scrÒn di qualcuno.161 Re
sta da vedere se anche nel platonico l’uso di ¢gaqÒj segue la stessa
direzione. Di nuovo, l’indagine è stata compiuta nel dettaglio – e non so
lo da Adkins;162 dunque sarà sufficiente ripercorrerla in breve, con atten
zione anche a kalÒj, che svolge nella lingua dei dialoghi – e più in gene
rale nel greco di quel periodo – un ruolo altrettanto importante per il
rapporto tra le parole dell’etica – in un senso di ‘etica’ diverso dal nostro
–163 e il discorso elogiativo. Da alcuni esempi è subito evidente come
l’¢gaqÒj sia riflessivo (mentre la nostra bontà è transitiva):164 in due passi
del 0 , Socrate afferma che la presenza di un bene (t¢gaq¦ o ¢gaqÒn)
rende ¢gaqÒj & (498d); ed è un bene più grande (me‹zon
¢gaqÒn) &% ( &. confutati) dal male peggiore ( &. ti m¾ ¢lhq j
lšgein) che non liberarne altri (458a). Un passo del dice qualcosa di
simile del poeta ¢gaqÒj:

SW. ka…toi o<mai ™gë ¥ndra poi»sei bl£ptonta ˜autÕn oÙk ¥n


se ™qšlein ÐmologÁsai æj ¢gaqÒj pot' ™stˆn poiht»j, blabe%
rÕj ín ˜autù.

SO. E d’altra parte io credo che un uomo che 00


con la poesia, tu vorrai ammettere che sia un % ,

161 «Le sens originel d’¢gaqÒj n’est pas celui de bonté morale, mais d’excellence [...] le

mot n’exprime aucun jugement moral. Il s’agit d’une qualité physique ou intellectuelle
que l’on admire» (FESTUGIERE [154], p. 46).
162 E. Méron ([171]) dedica uno studio alle idee morali degli interlocutori di Socrate, e

saminando le occorrenze dei termini di valore nei cosiddetti «dialoghi socratici».


163 Vedremo quale ( , p. 153).
164 «L’homme bon aime à faire du bien, c’est à dire à faire plaisir à son prochain. Bref,

l’ 0 , homme accompli, est au service de soi même; l’homme bon, généreux,


bienveillant, est au service d’autrui. L’ 0 est réfléchi, la bonté est transitive» (MERON
[171], p. 22).

146
" ) .165

.. 206b6 8

Il riferimento è a Ippotale, che, non sapiente (sofÒj) in t¦ ™rwtik£,166


poie‹ te kaˆ lšgei della stirpe e delle nobili origini dell’amato Liside,
compiendo un tradizionale encomio del giovane, dannoso a se stesso: è
infatti rischioso – lo mette in guardia Socrate – elogiare (™paine‹, 206a2)
qualcuno che ami prima di averlo conquistato, perché potresti renderlo
superbo e quindi sfuggente; e in questo caso quelle stesse parole che sa
rebbero state il encomio (°deij e„j sautÕn ™gkèmion, 205d6), perché
strumento di vittoria, ti farebbero apparire ridicolo. Inoltre, falliresti nel
portare a termine il fine di questi lÒgoi te kaˆ òda…, cioè khle‹n (206
b2);167 e, come un cacciatore che nel cacciare spaventi la preda, e la renda
più difficile da catturare, saresti faàloj (b1).168

165 Trad. di B. Centrone ([115]).


166 L’unica sapienza " (cfr. nota 53) che Socrate riconosce a se stesso ($' . 177d8,
198d1; .. 204b c; cfr. 193e5, 201d5, 207c3, 7, 209e5, 210e2, 211c1; '. 155d5 e ..
206a1 – dove la conoscenza d’amore non è di Socrate), oltre a un sapere pratico e rive
dibile (p. es. . 29b6 7) che guida le sue azioni e i suoi comportamenti (vedi ,§
2.2.1). La tšcnh socratica nelle cose d’amore è un dono divino ( . 257a8; .. 204c1) –
sul contenuto di questo sapere, vedi p. es. . 249d 250a; «dans le ' , c’est le
remède (les beaux discours) contre le mal de tête qui appartient au champ de l’™pist»mh
proprement socratique (™pist£mhn, 155e2): il y a donc un lien entre l’érotique et la thé
rapeutique socratiques» (HAZEBROUCQ [124], p. 27).
167 Il passo è interessante per noi anche perché in esso compare la parola di£noia

(205b2), presente con ben tre occorrenze nel proemio dello (vedi trad., p. 62, nota
31), e di non facile traduzione. A Socrate interessa la di£noia, non versi e melodie (tîn
mštrwn [...] oÙd mšloj), perché vuole sapere , & ' (t…na trÒpon) Ippotale si ri
volge a Liside; e questo trÒpoj è l’encomio cantato, in ultima analisi t¾n po…hsin (206b6)
– è sempre Socrate a dircelo. Dunque, diventare sapienti in cose d’amore non significa
soltanto correggere i contenuti, ma anche il modo (l’esempio che Socrate dà a Ippotale
su sua richiesta è un lÒgoj – e un lÒgoj dialettico, fatto, come sua abitudine, di doman
de e risposte brevi). Sospetto che in questo passo la di£noia non sia semplicemente il
senso come sinonimo di contenuto e che abbia molto più a che fare con lo , il suo
proemio e le esibizioni negate, di quanto sia stato riconosciuto fino ad oggi.
168 Il termine faàloj è usato nello come contrario di ¢gaqÒj (532e6), ma anche per
qualificare un oggetto alla portata dell’uomo comune " . il tecn…thj o il dhmiourgÒj
(532e2); e nelle ultime due occorrenze (534c4, e6) non è chiaro se si riferisca alla man
canza di successo o di abilità (ma il contesto dell’analogia del Magnete lascia supporre
che si tratti del primo; Tinnico, il più mediocre dei poeti, è colui che non ha composto
canti degni di essere ricordati – che non ha avuto successo, dunque – se non quell’unico
peana, opera non sua, ma dell’ispirazione delle Muse). L’uso platonico della lingua, lad
dove possiamo crederlo più inconsapevole, dunque non controllato, mostra, ancora una
volta, come fosse ampio e sfumato il campo di applicazione di alcune parole e come, in

147
((

È chiaro da questi esempi come l’¢gaqÒj, l’uomo e il tecn…thj, sia


definito dalla propria funzione: ciò che la parola loda è il successo dell’
agente più che dell’azione (così come faàloj biasima l’insuccesso di Ip
potale e del cacciatore), come nota E. Méron ([171], p. 22); e l’azione
non è buona in sé, ma per chi la compie – ¢gaqÒn designa l’azione utile
all’agente (il % poeta non nuoce a se stesso – nessuno sarebbe dispo
sto a chiamarlo ¢gaqÒj, se lo facesse):

Donc, le mot 0 doit être compris ainsi: appliqué à des objets, il en


marque l’utilité pour le propriétaire; appliqué à des actions, l’utilité pour
l’agent; appliqué à une personne, il signale la réussite de cette personne.

MÉRON [171], p. 23

Il poeta ¢gaqÒj è dunque il poeta ( &. che ottiene il successo rea


lizzando il fine della poesia).169
Ancora più estraneo alle nostre categorie – in questo caso estetiche
– è kalÒj, che non sempre si lascia tradurre con «bello»,170 pena la man
cata comprensione letterale del passo in cui ricorre. Nota Méron che è
facile essere fuorviati dalla somiglianza d’uso tra questo kalÒn e il suo
% (il «bello» delle lingue moderne) nei contesti estetici, in riferimento a
corpi e opere d’arte. Ma ciò che anche in tali contesti la parola evoca è

questo caso, la lingua stessa abbia contribuito a confondere l’abilità con il successo che
(non sempre) ne consegue.
169 Questa lettura di ¢gaqÒj, che ne isola i caratteri distintivi rispetto agli equivalenti in

gannevoli delle lingue moderne, ha il pregio di impedire a categorie estranee alla lingua,
o limitate per essa, di falsare alla base l’interpretazione dei testi antichi; d’altro canto ha
però il limite di non spiegare gli usi e le occorrenze della parola nella letteratura gre
ca giunta fino a noi, essendo, come è ovvio, il pensiero di ogni autore complesso e svi
luppato nel tempo (non solo da un’opera all’altra, per uno stesso pensatore, ma nei seco
li per poeti e prosatori diversi), e la lingua stessa in evoluzione da un secolo all’altro. Se a
questo si aggiunge che la riflessione filosofica può forzare e ridefinire l’uso delle parole
della lingua, restituire loro senso (magari risalendo all’etimo), o coniare un nuovo signifi
cato tecnico, diventa evidente che la questione è complessa e richiederebbe un’analisi
sistematica del lessico, della grammatica e della sintassi – analisi comunque penalizzata
dalla mancanza della lingua orale, che purtroppo ci è irrimediabilmente negata. Nel caso
di Platone, l’¢gaqÒj riflessivo non spiega ' perché gli ¢gaqo… siano gli amici mi
gliori – e su questo convengono senza difficoltà Socrate e i suoi interlocutori (cfr. ..
214c 216e; . I 335a).
170 Nello questo è possibile, ma solo perché kalÒj è calato in un contesto che noi
definiremmo estetico (poesia e letteratura fanno parte, per noi, di quest’ambito). Vedre
mo come l’avverbio kalîj, nei due usi di Socrate e Ione, consenta la traduzione uni
forme «bene», ma nasconda, dietro una forma identica, due sfumature di significato pro
fondamente diverse ( , §§ 1.2.1.1 e 1.2.2).

148
l’ammirazione suscitata dal piacere dei sensi – in particolare la vista e
l’udito –171 nel descrivere la perfezione di forme o aspetti. Ed è proprio
questa ammirazione il tratto comune agli usi di kalÒn. È kalÒn «ce qui
plaît au jugement d’autrui» (Méron [171], p. 24), e dal momento che que
sto passa i confini della categoria estetica, Méron propone una nuova
traduzione, che sia appropriata in ogni contesto d’uso della parola: kalÒn
non significa bello,172 ma «admirable».173 Vede inoltre una divergenza di
orientamento tra il kalÒn così definito e l’¢gaqÒj riflessivo: quest’ultimo
è rivolto al soggetto di cui è attributo, ne esprime il successo e l’interesse
personale; kalÒn tende ad essere usato anche per approvare un gesto che
noi definiremmo disinteressato, mosso da carità o altruismo. Ed è Socra
te a proporci un esempio tipico di quest’uso, citando il soldato che ri
schia la vita per soccorrere un amico in difficoltà ( & . I 115b). Tuttavia –
e anche Méron ha delle riserve – non credo che si possa parlare di una
vera e propria divergenza, per due ragioni: in primo luogo, l’esistenza
nella lingua greca di una parola come kalokagaq…a (nelle
pseudoplatoniche: ›xij proairetik¾ tîn belt…stwn, 412e8), che fonde i
due predicati in una armonia ideale, incarnata dall’uomo al quale è tocca
ta la sorte (perché di molto altro non si tratta) di riunire in sé la bellezza
fisica e «une % / “à l’aspect moral avec des nuances sociales et mondai
nes”»: vale a dire, un dono di natura insieme con una nobile linea di di
scendenza sono i privilegi del gentiluomo e l’oggetto dell’encomio tradi
zionale.174 Questo ideale aristocratico, tutt’altro che superato nel V e IV

171 Comunemente diciamo di un quadro o di una musica che sono belli, difficilmente di

un cuscino o di una poltrona (sono piuttosto morbidi o comodi), mai, in senso proprio,
di un gelato (è buono, gustoso, ecc., ma non bello). Però diciamo «E adesso mi mangio
un % & gelato!», nel senso di 0 e con sottinteso «molto desiderato».
172 Se non in un senso di «bello» come sinonimo di «positivo», che deriva forse più

dall’uso che gli addetti ai lavori ne fanno da sempre per tradurre kalÒn (come fosse un
calco che non ha altra funzione nella lingua ospite), che non da un’evoluzione della sua
lingua d’origine.
173 «La place considérable réservée à 3 & dans la terminologie morale [io direi –
vedi , p. 153] marque combien le Grec recherche et apprécie l’approbation d’autrui,
l’une des meilleurs justifications à sa conduite» (MERON [171], p. 24). Cfr. GOULDNER
[157]. Méron nota come nella lingua francese il bello sia definito da ammirazione, piace
re, perfezione, ma ristretto a quanto riguarda forme e apparenze: «un % & , entre au
tres, est superficiel; un % ne l’est pas [corsivi miei]». Diversamente, la lingua italia
na conserva un uso etico, nel quale ‘bello’ è sinonimo di ‘buono’ o di un altro termine di
valore. Noi usiamo espressioni come: ‘una bella [= buona] azione’; «un bel [= dignitoso]
morir tutta la vita onora» (Petrarca); ‘giovane di belle speranze’ = promettente; ‘fare una
bella riuscita’ = riuscire bene; ‘un bel lavoro’ = un lavoro fatto bene (anche iron.).
174 HAZEBROUCQ [124] cita MARROU [170], pp. 136 137. Cfr. il passo del sopraci
tato ( , p. 107), nel cotesto adiacente.

149
((

secolo, è arricchito e in parte modificato dalla nuova educazione propo


sta dai sofisti, che sostituisce all’importanza che l’antica riservava alla gin
nastica, un allenamento completo di anima e corpo: cultura generale per
la prima, esercizio fisico per il secondo. Carmide è elogiato da Crizia per
ché «filosofo ed esperto in poesia» ( '. 155a): all’uomo di qualità,
«beau et bien né»175 («le contraire d’un vilain»), il sofista sostituisce
«l’esprit sain, c’est à dire cultivé et du coup bel esprit, dans un corps sain
bien entraîné et rendu beau par là même» (HAZEBROUCQ [124], p. 101).
‘Filosofo’, tuttavia, non indica qui l’imperativa e faticosa tendenza al sa
pere che caratterizza il Socrate dei dialoghi platonici, ma la semplice di
sposizione del giovane di buona famiglia ad accumulare fin dall’infanzia
quelle nozioni che la società giudica il vanto dell’uomo colto. E l’essere
esperto di poesia, vedremo, ne è una conferma.
In secondo luogo, non un solo passo del platonico176 pre
senta l’uomo ¢gaqÒj e kalÒj come eccellente nello svolgere la propria
attività particolare (o nel realizzare ciò che è proprio dell’uomo, se, con
Aristotele, è questo che vuole indicare ¢gaqÒj predicato dell’¥nqrwpoj o
dell’¢n»r), e insieme generoso e altruista. L’uso di kalÒj è perfettamente
in linea con il valore riflessivo di ¢gaqÒj:

¢gaqÒj kalÒj
persona riuscita, successo (1) bellezza fisica
Tra i passi più famosi: .
143e6, 8; $' . 174a5, 9; che Al
cibiade sia & % && per eccellenza
è luogo comune – p. es. & . I
113b9.

(2) condotta ammirevole


1 . 228c6; '. 154e4;
ecc.
oggetto utilità per il possessore piacere suscitato
p. es. &%. 51b2
azione utilità per l’agente approvazione/persuasione
&%. 58b; $' . 178d, 198b c;
ecc.

175 Vedi, p. es., '. 154d e, dove Socrate, con ironia, richiama all’attenzione di Crizia
l’appartenenza a una buona famiglia come ovvia (e tradizionale) garanzia di un’anima
ben formata (t¾n yuc»n [...] eâ pefukèj).
176 Un’indagine più estesa sarebbe gravosa: è Platone che ci interessa qui – e un dialogo

in particolare.

150
Méron, volendo qualificare l’¢gaqÒj con un aggettivo, lo ha descritto
come / & , centrato sul soggetto di cui è attributo: l’uomo ¢gaqÒj è
‘buono’ per se stesso (non verso gli altri), un uomo che rende ciò che fa
utile (e non dannoso) per sé. È, ad esempio, l’architetto, l’indovino, il
medico && . Ma anche questa traduzione, benché si adatti bene ad
ogni contesto in cui occorre ¢gaqÒj – o forse proprio a causa di questa
perfetta adattabilità – a un esame più attento risulta ingannevole; o me
glio, mostra una confusione già insita nell’uso dell’aggettivo nel greco
comune (lo stesso che i dialoghi platonici fanno rivivere per noi) e, sem
bra, nella lingua stessa, fin dalle sue origini. Ciò che l’incalzare delle do
mande di Socrate (che ogni volta pretende l’onestà dell’interlocutore)177 e
la cura (di Platone) di quelle spie linguistiche che scoprono i caratteri dei
personaggi ci permettono di osservare, è l’appiattirsi, nell’uso di ¢gaqÒj,
dell’abilità sul risultato. Capita spesso che l’interlocutore sia convinto, in
buona fede, di possedere competenze, ma soprattutto una qualche forma
di sapere, perché uomo . L’elogio di un pubblico che decreta, p.
es., la vittoria di un rapsodo agli agoni, o acclama un oratore nell’assem
blea, perché persuaso dalle sue belle parole (incisive, musicali o ipnoti
che) – non dagli argomenti – si trova ad essere giudice della sua ¢ret»
(sempre!), benché non sempre possa esserlo del suo sapere. È evidente
come abilità e successo coincidano quando si tratta di competenze tecni
che ben delimitate: una recitazione che piace al pubblico è verosimilmen
te una buona recitazione, che richiede l’abilità del rapsodo: il giusto tono
di voce, il senso del ritmo, la conoscenza di una lingua antica, p. es. quel
la omerica. Le stesse competenze che sono richieste oggi a un attore di
teatro che si appresti a mettere in scena l’ di Dante o l’ '& di
Shakespeare, per riempire la sala. In modo simile, il medico, che nel suo
demo o nella pÒlij ha fama di essere ¢gaqÒj, è un medico che guarisce i
propri pazienti (di nuovo, che ha successo); ed è in virtù di questi esiti
positivi che è ritenuto tale; tuttavia è difficile credere che se non fosse
competente (se non avesse, cioè, quanto meno un sapere pratico) riusci
rebbe ugualmente nei propri intenti; e, di certo, le competenze di cui è
possibile che si vanti (p. es. in quali situazioni e in che misura un certo
medicamento va somministrato)178 sono quelle condivise dagli altri me
dici e confermate tali dall’esperienza – dunque, controllabili. Ma quando

177 Ad essere esaminate nell’œlegcoj sono sempre e solo le credenze dell’interlocutore.


Nel caso in cui egli voglia sostenere, p. es., la tesi di un maestro, deve farlo perché la
condivide e difenderla in prima persona, rispondendo con sincerità alle domande di So
crate (p. es. '. 166d8: ¢pokrinÒmenoj tÕ ™rwtèmenon ÓpV soi fa…netai).
178 Vedi, p. es., . 268a ss.

151
((

entrano in gioco quei saperi (presunti) che hanno per oggetto cose kal¦
k¢gaq£ ( . 21d4) o t¦ mšgista (22d7),179 tutto si complica. Un poeta, o
un retore, che pretende di essere sapiente nelle cose di cui tratta, p. es.
l’arte della guerra o il governo di una città, o l’etica,180 perché ha succes
so, giustifica la propria credenza in base a un criterio di giudizio sbaglia
to; tuttavia, nel farlo, è in qualche modo legittimato dall’uso comune del
la sua stessa lingua. Si tratta, io credo, di un errore profondamente radi
cato nella ' ' del greco antico, di un errore costitutivo della lin
gua e del tipo di rapporti sociali che essa riflette. In un mondo dove la
retorica, dunque la pubblica ' , ha un potere decisivo in t¦ poli%
tik£ – può decidere la vita e la morte di un uomo, la migliore strategia in
guerra, l’educazione dei giovani – l’approvazione della maggioranza (oƒ
pollo…), il consenso di un pubblico numeroso, è non solo importante da
un punto di vista pratico, ma diventa fondamentale nella definizione dei
valori etici. E la persuasione vince la verità:

& SW. OÙkoàn, Óper nàn prouqšmeqa skšyasqai, tÕn lÒgon ÓpV
kalîj œcei lšgein te kaˆ gr£fein kaˆ ÓpV m», skeptšon.
FAI. DÁlon.
SW. ’Ar' oân oÙc Øp£rcein de‹ to‹j eâ ge kaˆ kalîj >hqhsomš%
noij t¾n toà lšgontoj di£noian e„du‹an tÕ ¢lhq j ïn ¨n ™%
re‹n pšri mšllV;
FAI. OØtwsˆ perˆ toÚtou ¢k»koa, ð f…le Sèkratej, oÙk e<nai ¢%
n£gkhn tù mšllonti >»tori œsesqai t¦ tù Ônti d…kaia man%
q£nein ¢ll¦ t¦ dÒxant' ¨n pl»qei o†per dik£sousin, oÙd t¦
Ôntwj ¢gaq¦ À kal¦ ¢ll' Ósa dÒxei: ™k g¦r toÚtwn e<nai tÕ
pe…qein ¢ll' oÙk ™k tÁj ¢lhqe…aj.

SO. Dunque, come ci siamo appena proposti di fare, dobbiamo


esaminare la ragione per cui un discorso o uno scritto sono
belli o no.
FE. Certo.
SO. Un discorso ben fatto e che susciti ammirazione non deve
forse presupporre nella mente di chi lo dice la conoscenza
della verità sull’argomento di cui intende parlare?
FE. Su questo punto, caro Socrate, ho sentito dire che non è
necessario che chi vuole essere un retore impari ciò che )
giusto, ma ciò che è ritenuto giusto dalla folla che giudi

179 TÕ g¦r kef£laion aÙtîn ™stin À gignèskein À ¢gnoe‹n Óstij te eÙda…mwn ™stˆn kaˆ

Óstij m» ( 0. 472c8). Cfr. anche . X 599c d perˆ d ïn meg…stwn te kaˆ kall…stwn


™piceire‹ lšgein “Omhroj, polšmwn te pšri kaˆ strathgiîn kaˆ dioik»sewn pÒlewn, kaˆ
paide…aj pšri ¢nqrèpou [...]; kaˆ oŒÒj te Ãsqa gignèskein po‹a ™pithdeÚmata belt…ouj
À ce…rouj ¢nqrèpouj poie‹ „d…v kaˆ dhmos…v.
180 Le relazioni tra gli uomini ¢gaqo… e kako… ( 531c5).

152
ca;181 né <è necessario che impari> ciò che ) buono o bel
lo, ma quanto è ritenuto tale, perché è da queste opinioni
che nasce la persuasione, non dalla verità.

. 259e1 260a4182

Apro una breve parentesi per chiarire in che senso quanto detto
fin qui a proposito dell’elogio e della semantica di ¢gaqÒj e kalÒj sia una
riflessione sull’etica. Il termine greco ºqikÒj, da cui il nostro aggettivo ‘e
tico’, deriva da Ãqoj ed è alla lettera «ciò che riguarda il carattere»; nasce
da una modificazione di œqoj,183 che significa abitudine, e conserva con
questa parola un legame non solo morfologico: quella che Aristotele
chiama ¢ret¾ ºqik» nasce dall’abitudine (™x œqouj perig…gnetai), esatta
mente come il nome che porta dalla parola ‘abitudine’: non è in noi per
natura. Nelle 00 (VII 792e; cfr. . VII 518e), Platone osserva che,
formandosi grazie all’abitudine e con rapidità, fin dai primi istanti di vita,
il carattere deve essere oggetto di attenzioni da parte degli adulti, affinché
si ‘abitui’ ( &. si formi) alla virtù e non al vizio. L’uomo ¢gaqÒj (l’¥n%
qrwpoj, non il tecn…thj) comincia ad essere tale fino dalla nascita, secon
do il modello di ¢ret» che la società in cui vive gli offre nella paide…a e
che, una volta adulto, è tutt’uno con la sua stessa forma di vita, con il suo
modo di essere nel mondo e di cui, dunque, non è consapevole.184
Riassumendo, il modello di ¢ret» che abbiamo delineato fin qui
presenta l’uomo ¢gaqÒj come colui che riesce o ha successo ed è ,
elogiato dai più come tale. Il termine kalÒj, nel significato di ciò che
gli altri giudicano piacevole e che suscita la loro ammirazione, completa
la descrizione del rapporto tra il modo di vivere e comportarsi degli uo

181 Rende perfettamente l’idea il verbo giuridico dik£zw (tradotto con «giudica», non con
un semplice «decide»): in una cultura dell’elogio, la folla, il pubblico della maggioranza,
ha il potere di giudicare anche questioni della massima importanza, come la vita o la
morte di un uomo (Socrate ne è un esempio indimenticabile). Cfr. 261a ss.
182 Cfr. 273a b.
183 ’Hqoj nasce per modificazione (paregkl‹non, con Burnet) da œqoj, come precisa Ari

stotele ( II 1), non " da esso (non c’è legame etimologico).


184 È consapevole della scelta che può compiere tra virtù e vizio, ma non del particolare

modello di virtù offerto dal suo mondo, perché non ne conosce altri. Lo assorbe dalla
lingua stessa, in cui non solo parla ma ) e da sempre " " , e non ne è cosciente finché
qualcuno o qualcosa non lo spinge a una riflessione, linguistica ed etica insieme – e que
sto può anche non accadere mai. L. Wittgenstein era consapevole del potere che ha su di
noi la nostra immagine del mondo: il modo più forte, forse l’unico, di persuadere qual
cuno su questioni importanti come il giusto modello etico o l’esistenza di Dio è «me
diante una certa educazione, formando la sua vita in un certo modo» ( & 5 & ,
p. 158 della trad. italiana, p. 85 dell’originale inglese).

153
((

mini e il lÒgoj elogiativo. Il poeta ¢gaqÒj, p. es., porta a compimento il


fine della poesia, cioè procurare piacere al pubblico;185 ha successo, per
ché le opere che compone sono kal£ – piacciono al giudizio degli spet
tatori, suscitano la loro ammirazione; e , è ¢gaqÒj – in modo in
dipendente da qualsiasi forma di sapere (abilità tecnica o conoscenza),
che può possedere o meno (è da verificare); ma che, in ogni caso, '
di possedere in virtù del riconoscimento pubblico dei propri successi.
L’elogio ha questa responsabilità.

& 'AgaqÒj eâ kalÒj

Un’analisi delle occorrenze dei termini di valore nello mostra la stes


sa confusione semantica a cui la lingua greca si presta; tanto da permet
terci di riconoscere nel testo due usi diversi di queste parole:

(1) TRADIZIONALE: la lingua comune, condivisa dai Greci del V e IV


secolo, legittima un uso di ¢gaqÒj e kalÒj per il quale compe
tenze e sapere si appiattiscono sul successo decretato dall’appro
vazione di un pubblico;

(2) SOCRATICO: la riflessione consapevole sui significati delle parole


importanti della lingua (e queste di certo lo sono) consente di
sciogliere la fusione e di distinguere il risultato positivo dalla
conoscenza.

Seguiamo il percorso che queste parole compiono, a partire dall’uso tra


dizionale:

Proemio LÒgoj Epilogo


530a 531a1 Il pro Il problema di La mera 541e1 542b4
blema di Ione viglia di
Socrate 532b7 536d4 Ione
531a1 536d4
532b7 541e1

185 A scapito della verità e utilità di ciò che dice (di ciò parla – lšgei per…). Cfr. p.
es. 0. 502b. Riprenderemo più avanti questo passo e i luoghi della %%& dove en
tra in gioco il problema della verità dei contenuti poetici.

154
¢gaqÒj 530b8 9 (S) 533e6 (S)
poihta‹j... tîn ™pîn poihtaˆ
pollo‹j kaˆ oƒ ¢gaqo…
¢gaqo‹j
533e8 (S)
530b10 (S) oƒ melopoioˆ oƒ
™n `Om»rJ, tù ¢gaqo…
¢r…stJ kaˆ
qeiot£tJ186 tîn 535a5 (I)
poihtîn oƒ ¢gaqoˆ poihta…

530c2 (S)
¢gaqÕj
>ayJdÒj
kalÒj187 530d3 (I) 533e7 (S) 542b1(I)
e„pe‹n... poll¦j p£nta taàta t¦ polÝ g¦r
kaˆ kal¦j dia% kal¦ lšgousi k£llion tÕ
no…aj perˆ poi»mata qe‹on
`Om»rou nom…zesqai
534a2 (S)
t¦ kal¦ mšlh 542b3 (S)
taàta poioàsin tÕ k£llion...
qe‹on e<nai
534b8 (S)
poioàntej [ &. o„
poihta…] kaˆ
poll¦ lšgontej
kaˆ kal¦ perˆ
tîn pragm£twn,
ésper sÝ perˆ
`Om»rou

534d8 (S)
p£ntwn melîn
k£lliston

534e3 (S)
t¦ kal¦ taàta
poi»mata

535a1 (S)
tÕ k£lliston
mšloj
eâ/ 530c8 (I) 533c5 7 (I)
kalîj o<mai k£llista ™mautù sÚnoida,
¢nqrèpwn lš% Óti perˆ `Om»rou
gein perˆ k£llist'
`Om»rou ¢nqrèpwn lšgw
kaˆ eÙporî kaˆ oƒ
¥lloi p£ntej mš
fasin eâ lšgein

533d2 (S)

Sul rapporto tra ¢gaqÒj e qe‹oj, vedi


186 , § 3.1.1.
187La prima occorrenza è il superlativo kall…stoij di 530b7, riferito all’aspetto dei rap
sodi che si preparano alla pubblica ' . Cfr. 535d.

155
((

perˆ `Om»rou eâ
lšgein

534c2 (S)
poie‹n kalîj

534c6 (S)
kalîj [...] lšgein

535b2 (S)
eâ e‡pVj œph

Possiamo subito notare che i casi significativi si concentrano nel proemio


e nella sezione centrale del dialogo, riservata all’esposizione dell’analogia
del Magnete ( , § 3.1; app. A). Vediamone le ragioni:

(1) in primo luogo, le occorrenze del proemio che si prestano alla confusio
ne di cui abbiamo detto ' l’opinione comune sul rapsodo omerico
e, nell’uso che se ne fa qui, ' le credenze condivise sui poeti in ge
nerale e su Omero in particolare.

In tutto tre occorrenze, nella battuta tematica di Socrate. La prima è un


plurale riferito ai poeti, la seconda un superlativo rivolto ad Omero; nella
terza ¢gaqÒj è predicato del rapsodo in generale, del rapsodo omerico in
particolare (scelto come esempio proprio perché diatr…bei [...] ™n `Om»rJ,
tù ¢r…stJ kaˆ qeiot£tJ tîn poihtîn), e dunque di Ione.188 Come abbia
mo già avuto modo di osservare ( , pp. 134 136), la risposta del rap
sodo all’elogio è il suo assenso alla tesi che in esso viene formulata: l’opi
nione comune per cui essere un rapsodo ¢gaqÒj implica il possesso di un
sapere (nel caso di Ione, un sapere omerico), cioè ne è condizione suffi
ciente. Le scelte lessicali di questa risposta mostrano chiaramente come
Ione attribuisca la propria fama di ¢gaqÒj al successo ottenuto nel tem
po: nessuno più di lui ha saputo esprimere pensieri così belli e numerosi
su Omero (tanto che ha ottenuto di recente un primo premio e merita di
riceverne un altro dagli stessi Omeridi); e non vede l’ora di dare a Socrate
un saggio (™p…deixij) di come ha abbellito (eâ kekÒsmhka) il poeta. Di
certo, la sua attenzione selettiva si è soffermata su alcune parti dell’elogio
più che su altre,189 ma non può non aver capito che i Greci, e Socrate nel
pronunciare la battuta, gli attribuiscono un sapere – sapere di cui sembra
invece del tutto consapevole quando, più avanti nel dialogo, gli viene

188 Sul passaggio di Socrate dal plurale al singolare, che trova pronta la risposta di Ione

(™moˆ goàn toàto, 530c7), vedi , p. 122.


189 Vedi trad., pp. 68 69, nota 70 e pp. 80 81, nota 100.

156
domandato in quale delle cose di cui Omero parla è deinÒj, ) di quali ha
conoscenza; risponde, infatti, che sono tutte, poiché di ciò di cui Omero
parla non c’è nulla che lui non (536e). Tuttavia, le parole che prefe
risce per descrivere l’attività rapsodica e giustificarne190 l’eccellenza ri
mangono le parole della ' , del successo, dell’approvazione del
pubblico e di una giuria d’eccezione come gli Omeridi – nessuna traccia
del lessico del sapere. La sua stessa dichiarazione di conoscenza (vedi
, pp. 123 s., 134 136) è espressa in questi termini: o<mai k£llista
¢nqrèpwn lšgein perˆ `Om»rou. Sembra, dunque, che per Ione e per
l’uomo comune siano i ripetuti successi di fronte ad un pubblico a deci
dere che qualcuno è ¢gaqÒj, e a legittimarne in qualche modo la presun
zione di sapere.191

(2) In secondo luogo, il contesto dell’analogia del Magnete, il cui scopo è


negare tšcnh ed ™pist»mh all’attività rapsodica, in favore della qe…a mo‹ra
e della katokwc», esclude che ¢gaqÒj e kalÒj, nel passo in questione,
abbiano a che fare con il sapere.

I poeti epici, quelli ¢gaqo…, «non per tšcnh, ma perché ispirati e possedu
ti» recitano i loro bei poemi; così come i poeti melici, quelli ¢gaqo…, «non
compongono in senno i loro bei canti», ma «presi da furore bacchico e
posseduti». Allo stesso modo, le opere che compongono e recitano, i %
canti e poemi, non sono il risultato di un sapere, ma non per questo
smettono di essere belli; e così le «molte belle cose» che poeti e rapsodi
dicono (per…) loro argomenti. Il più bello di tutti i canti è un’opera
della Musa espressa per voce di Tinnico di Calcide, poeta faulÒtatoj; e i
bei poemi in generale «non sono cose umane né possibili agli uomini, ma
divine e proprie degli dèi». Tutto questo per spiegare perché Ione parla di
Omero meglio di chiunque altro (530c8 9 e 533c5 6), senza negare mai
questo ' 0& : Socrate non nega il successo, peraltro innegabile, del 6
' dei rapsodi (è questo, io credo, il significato dell’¥ristoj che gli
concede a 541b).192 Quello di Ione rimane sempre, in tutto il dialogo, un
parlare bene di Omero (eâ/kalîj lšgein – p. es. 533d2) e insieme un re

190 Vedi l’æj causale di 530c9.


191 Ai vv. 1205 ss. delle " & di Aristofane, p. es., Strepsiade recita per il pubblico il
probabile encomio che amici e paesani gli rivolgeranno (moÙgkèmion), per invidia del suo
successo (zhloàntej ¹n…k' ¨n sÝ nik´j lšgwn t¦j d…kaj; cfr. vv. 1204 1205); e conse
guenza di questa invidia, come il coro anticipa ai vv. 463 ss., sarà che molti uomini desi
dereranno (boulomšnouj, v. 471) consigliarsi con lui sulle questioni nelle quali sarà giudi
cato sofÒj (cfr. v. 1207), in virtù del successo ottenuto.
192 Ione è il migliore dei rapsodi proprio come Omero è il migliore dei poeti (530b9 10).

157
((

citare bene (eâ e„pe‹n, p. es. 535b2) i suoi versi; così come i poeti com
pongono bene i loro canti e parlano bene dei (per…) loro argomenti, ben
ché siano privi di senno.
Se la riflessione filosofica di Platone (nel caso specifico, la spiega
zione socratica che si avvale dell’immagine e del funzionamento della ca
lamita) che qui, vedremo, sta assecondando la lingua comune, testimonia
un uso di ¢gaqÒj e kalÒj che esclude ogni forma di sapere (il soggetto di
cui il primo si predica è œkfrwn e privo di noàj), l’uso non controllato
della stessa lingua mostra come scopo dell’eâ/kalîj lšgein (eâ e kalîj
sono qui sinonimi) o e„pe‹n sia persuadere l’ascoltatore – non dire qual
cosa di vero:

IWN. SÝ m n eâ lšgeij, ð Sèkratej: qaum£zoimi ment¨n e„ oÛtwj


eâ e‡poij, éste me ¢nape‹sai æj ™gë katecÒmenoj kaˆ mai
nÒmenoj “Omhron ™painî.

536d4 6

Il lÒgoj kalÒj è il lÒgoj che persuade, che si tratti di una lusinga o della
forza argomentativa del discorso, di parole che toccano l’anima perché
inconfutabili, o che la trascinano ovunque vogliano in balìa della sua par
te irrazionale: ancora una volta la lingua si presta ad una ambiguità.
E di nuovo l’appiattimento del sapere sul risultato (positivo) è mo
strato a 536e 537a, dove per Socrate il sapere è condizione necessaria
dell’eâ lšgein e va verificato, per Ione è l’ovvia conseguenza del proprio
successo: non dubiterebbe mai di avere conoscenza dei temi omerici, in
parte per le abilità tecniche che, in effetti, un rapsodo doveva possedere
per svolgere quel mestiere, in parte perché acclamato da un pubblico
sempre numeroso, e preceduto dalla fama di cui gode (al suo arrivo ad
Atene, Socrate si rivolge a lui come all’illustre Ione – ).193 Fin dai
tempi di Omero, nessuno che abbia successo mette in discussione la
propria intelligenza e il merito delle proprie conoscenze e abilità nel con
seguirlo, senza che vi sia in qualche modo costretto (p. es. perché sotto
posto all’œlegcoj socratico – ma nel caso di Ione, vedremo, non funzio
na).194 Qui non si tratta della vittoria dell’eroe in guerra, ma della
' riuscita del rapsodo: di un successo epidittico, dunque, comune a
sofisti, poeti e rapsodi, attori tragici o comici, retori. Come Ippia dichiara

193 Anche nelle due occorrenze dell’epilogo (ironica quella di Socrate) è kalÒn (anzi
k£llion) essere 0 divini. Sul significato tradizionale di qe‹oj predicato degli uomini
e di poeti e aedi in particolare, vedi , § 3.1.1.
194 Vedi , § 2.2.1.1.

158
di preparare discorsi (lÒgoi)195 per dare un saggio (™p…deixin) di quello
che il pubblico dei giochi olimpici sceglierà (1 . ( . 363c d), così
l’epidissi di Ione non riguarda solo la declamazione dei versi omerici, ma
anche (e soprattutto) il suo œpainoj di Omero: un lÒgoj dunque. E come
Ippia, anche Ione si ritiene capace di rispondere a qualsiasi domanda
sull’argomento della propria & (perché verosimilmente di questo si
tratta) – ma, vedremo, dovrà cedere all’œlegcoj socratico (come Ippia,
del resto). Tuttavia, il dialšgesqai di cui si parla qui (532b9), come forse
anche nell’ ( ( ),196 non è il discorso breve fatto di doman
de e rapide risposte del sì e del no che Socrate predilige; somiglia piutto
sto a quanto Protagora % nel dialogo omonimo (vedi tutta la sezione
centrale), quando accetta di cambiare forma al lÒgoj e di sottoporsi
all’interrogazione socratica, o quando è lui stesso a interrogare Socrate: le
sue risposte e le sue domande sono piccole ' che ben presto si
allontanano dal punto e prendono il volo.

& & # ™painšthj

Abbiamo risposto alla prima delle due domande che ci eravamo posti,
vale a dire perché Ione punta sull’aspetto epidittico della propria attività
e non risponde con il lessico (che per noi sarebbe) appropriato all’elogio
di Socrate: l’etica tradizionale, riflessa nella lingua d’uso, è un’etica dell’e
logio; il giudizio sui valori etici dell’uomo è affidato alla maggioranza che,
conquistata da una ' , ne sancisce il successo e ne legittima, di
conseguenza, la presunzione di sapere. A questo punto, non ci resta che
ricomporre gli indizi e i suggerimenti del dialogo per tentare di ricostruire
l’attività epidittica del rapsodo omerico – la sua attività , che, come
sappiamo dal proemio, non è la declamazione dei poemi (non per Plato
ne, quanto meno).197
La prima descrizione, data dal rapsodo stesso a 530d, è la seguen
te: compito di Ione è «esprimere molti bei pensieri su Omero» (e„pe‹n [...]
poll¦j kaˆ kal¦j diano…aj perˆ `Om»rou), i migliori che siano mai stati

195 Sui discorsi già pronti come pratica comune nella retorica epidittica, cfr. (7. 234c e
235d.
196 Come ci fa notare Eudico (363a), quando si tratta di Socrate, l’alternativa alla lode di

una ' ( &. di un lÒgoj, non di una recitazione) è la sua confutazione (À sune%
paine‹j [...] À kaˆ ™lšgceij): da lode/biasimo a lode/confutazione. Lo ne sarà un
altro esempio.
197 O non all’epoca di Platone, MERIDIER [2], p. 9: «La fonction essentielle du
rhapsode: la récitation des poèmes homériques». Vedi app. B.

159
((

espressi – Ione, come sappiamo, si considera, ed è giudicato dai Greci e


da Socrate, il migliore dei rapsodi. Da queste parole ricaviamo un caratte
re importante della sua funzione ' : comunicare o mediare i pen
sieri di Omero è qualcosa che si realizza in un parlare (o ) Omero.
Quanto alla qualificazione di questo ‘parlare di’, è di nuovo Ione a chia
rirla, a una battuta di distanza: dire cose belle su Omero equivale ad ab
bellire (eâ kekÒsmeka)198 il poeta. ' può sembrare una semplice
riformulazione di quanto detto, con parole diverse; e certo è facile che il
lettore moderno intravveda in questa traduzione letterale un riferimento
allo stile poetico, che con belle parole incornicia il contenuto di un’opera.
Ma non si tratta di questo. Con l’eâ kekÒsmeka di 530d, Ione ribadisce e
precisa la natura epidittica del suo lšgein per…, che Socrate aveva subito
colto (™pide‹xai, 530d5). Il verbo greco kosmšw consente, infatti, un uso
metaforico: «abbellire» (o «infiorare», PARRINELLO [47]) può significare
anche «celebrare», «esaltare», «rendere onore», ed essere quindi sinonimo
(enfatico) di ™painî,199 come p. es. in 0. VIII 829c:

( AQ. ™gkèmi£200 te kaˆ yÒgouj poie‹n ¢ll»loij, Ðpo‹Òj tij ¨n


›kastoj g…gnhtai kat£ te toÝj ¢gînaj ™n pant… te aâ tù
b…J, tÒn te ¥riston dokoànta e<nai kosmoàntaj kaˆ tÕn m¾
yšgontaj,

e . 245a:

SW. tr…th d ¢pÕ Mousîn katokwc» te kaˆ man…a, laboàsa ¡%


pal¾n kaˆ ¥baton yuc»n, ™ge…rousa kaˆ ™kbakceÚousa
kat£ te òd¦j kaˆ kat¦ t¾n ¥llhn po…hsin, mur…a tîn pa%
laiîn œrga kosmoàsa toÝj ™pigignomšnouj paideÚei,201

MERIDIER [2], p. 11: «Son [ &. di Ione] commentaire doit être une
paraphrase élogieuse, par où il s’attache à faire ressortir les beautés
d’Homère». In seguito Ione parlerà espressamente di elogio (“Omhron

198 Il verbo kosmšw, che compare già a 530b6 al passivo a proposito del corpo del rapso
do (e, nello stesso uso, a 535d2 – questa volta pronunciato da Socrate), significa alla let
tera «ornare» o «adornare» – e ha già valenza positiva; eâ semplicemente lo rafforza: or
nare bene = abbellire, qui attivo e riferito ad Omero (vedi trad., pp. 61 62, nota 27).
199 Si completa così, con l’eâ kekÒsmeka che fa le veci del verbo ™painî, la lista delle pa

role chiave dello , tutte presenti nel proemio ( , p. 124).


200 Sull’uso di ™gkèmion ed œpainoj come sinonimi, vedi , pp. 137 138, nota 137.
201 In entrambi i passi, vedremo tra breve, c’è un esplicito riferimento al potere paideuti

co dell’elogio. Per un uso enfatico di ™painî, non solo platonico, vedi anche (7. 239b c
(Ømn»santej [...] kosme‹n) e, p. es., Pi. . VI 46: tÒn [...] t¾n ™ke…nwn ¢ret¾n kosm»son%
ta.

160
™painî, 536d6; cfr. 541e2): il problema affrontato nel dialogo sarà se il
rapsodo è un formidabile ™painšthj di Omero per tšcnh ed ™pist»mh o
qe…a mo‹ra – e la conclusione che Ione qe‹on e<nai kaˆ m¾ tecnikÕn perˆ
`Om»rou ™painšthn.
Ma cosa significa essere un ™painšthj di Omero?202 Abbiamo visto
chiaramente le implicazioni educative dell’elogio, œpainoj o ™gkèmion che
sia, segnalato dallo zÁloj o enfatizzato dal verbo kosmšw. Lo stesso vale,
come è ovvio, per le occorrenze di ™painî ed œpainoj nel platonico
(più di 300!).203 In primo luogo, troviamo testimonianze di come l’elogio
domini i rapporti sociali: grazie a una dimenticanza di Fedro, impariamo
da Socrate che i politikoˆ oƒ mšgiston fronoàntej «amano moltissimo
comporre discorsi e lasciare propri scritti; almeno quelli che, quando
scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in
testa, per primi, i nomi di quelli che devono elogiarli, in ogni singola oc
casione» ( . 257e).204 Si tratta del pubblico che ha il potere di decidere

202 I commentatori si dividono nell’attribuire un significato preciso alla parola: G. Nagy

([286], VI 6, nota 4), che nel suo lavoro omerico sfiora tangenzialmente il problema,
spiega la locuzione “Omhron ™paine‹n come «the technical word used by for the
notion of “recite Homer” (Pl. 536d, 541e)», significato attestato dal LSJ [469], .".
™painî (cfr. anche œpainoj ed ™painšthj). F. Càssola ([369], p. 98) giustifica questa scel
ta: «che œpainoj possa essere sinonimo di inno – inteso come canto di lode di un dio
(cfr. p. XI) – è certo: in questo senso lo usano i retori Alessandro e Menandro (
, ed. Spengel, II p. 558, III pp. 331, 343); in Teocrito 16, 2 e 14 15, a„ne‹n è paral
lelo a Ømne‹n, “esaltare col canto”. È forse per questo che il verbo ™paine‹n acquista il
significato di “recitare carmi epici” (Platone, 536d, 541e)». Non è d’accordo R. Ve
lardi ([446], pp. 32 s.): «Il LSJ [469] fornisce anche il significato di “recite, declaim pu
blicly (of Rhapsodists)”, proprio sulla base delle due occorrenze del termine nello ,
ma questa traduzione appare poco fondata; il sostantivo viene invece solitamente reso
con i termini “lodatore”, “estimatore”, “custode”. In realtà ci sono elementi sufficienti
per affermare che i due termini, almeno in riferimento ad Omero, hanno un preciso va
lore tecnico [...]. Il significato di risulta essere “esperto”, “attento conoscitore”»;
il primo a sostenere questa interpretazione è stato G. Stallbaum ([3], p. 331): «Nempe
videntur Homeri ™painštai non tam ii dicti esse, qui Homerum laudabant, quam potius
illi, qui unice eius sapientiam probabant eamque commendabant, ut inde etiam vitae rec
te sapienterque regendae ac moderandae praecepta haurienda esse arbitrarentur». Dello
stesso parere P. Murray ([44], p. 125), ma un po’ meno fiduciosa: «Clearly this word
must signify more than simply an ‘admirer’ or ‘praiser’ of Homer (the same in which it
seems to be used at . 309a6; . X 606e1 and Xen. ( '. 1.3.3). Presumably, like
kosme‹n at 530d7, it relates to Ion’s combined activity of reciting and commenting on
Homer, on which see Velardi (1989) 31 6. But the vagueness of P.’s description makes it
impossible for us to be more specific». Non commenta M. Canto ([18]).
203 Si noti, da quanto segue, come percorrere il platonico seguendo il filo dell’œpai%
noj porti ad incontrare esempi perfetti di quell’etica dell’elogio che abbiamo ipotizzato.
204 A seguire: «All’inizio del discorso di un uomo politico, per primo viene scritto il no

me del suo elogiatore» ( . 257e).

161
((

per ognuno di loro se potrà continuare a scrivere discorsi: se sì, l’uomo


politico «esce di scena lieto»; se invece non viene ritenuto degno, «pian
gono lui e i suoi compagni». Proseguendo con t¦ politik£, in . II 363a
ss. Adimanto riferisce che «i padri e tutti coloro che si prendono cura di
qualcuno [e qui siamo già in pieno ambito educativo] sostengono con
tono di ammonimento che bisogna essere giusti, ma non elogiano la giu
stizia in sé, bensì la buona fama che ne deriva, per ottenere, grazie
all’apparenza di persone giuste, cariche pubbliche, matrimoni illustri e [...]
altri vantaggi [...] che spettano al giusto in virtù della sua buona reputa
zione»; e citano Omero ed Esiodo come testimoni205 dei beni che anche
gli dèi concederebbero loro. Ancora, a 366e:

Mirabile uomo [ð qaum£sie], di tutti voi che asserite di elogiare la giusti


zia, a cominciare dagli eroi delle origini, di cui sono rimasti i discorsi, fino
ai contemporanei, nessuno ha mai biasimato l’ingiustizia o lodato la giu
stizia se non per la fama, gli onori e i doni che ne derivano.

Ognuno ha elogiato sempre e solo l’apparenza di giustizia, per il vantag


gio che avrebbe arrecato a sé (367b c).206 E, di nuovo, in IV 426b d, i
governanti credono di essere tali perché elogiati dai pollo… – in generale,
tutti hanno cura di ciò che viene elogiato (nei discorsi, nei comportamen
ti, nel modo di vivere), e disprezzano ciò che non lo è (VIII 551a). E
poiché l’approvazione del volgo, il quale loda ciò che gli piace, non ciò
che è buono (593d7), assume la massima importanza in guerra, in politica
e nell’educazione dei giovani (in t¦ mšgista), in ogni ambito è la persua
sione,207 non la tšcnh, ad essere tenuta nella massima considerazione
(vedi p. es. VI 488d): si cercano parole che scatenino «l’applauso e la lode
di molti» ( . 339d10);208 e l’anima, che si nutre di conoscenze, può esse
re ingannata con facilità dai sofisti che, elogiandole, fanno apparire tali
( &. conoscenze) cose che invece non lo sono (313d). Questo è il rischio
maggiore per l’adulto che vive in una cultura dell’elogio;209 ma ancora più

205 Vedi , § 3.2.1.


206 «Bisogna elogiare la vita più bella (tÕn k£lliston b…on ™paine‹n), non solo perché
grazie alla sua forma esteriore ha il potere di procurarci buona fama», ma anche perché
ci procura il piacere e ci permette di soffrire il meno possibile ( 0. V 732e). Sull’elogio di
ciò che è utile per sé, vedi anche . II 361e.
207 L’eâ/kalîj lšgein è un parlare persuasivo (cfr. p. es. la risposta di Callicle che, in

0. 510a11, esprime un’opinione comune; e (7. 234c 237c).


208 Cfr. i fischi, le grida scomposte della folla e gli applausi che assegnano lodi in 0. III

700c.
209 In una società di questo tipo, persino i giudici dei tribunali, talvolta, urlano commenti

di lode e biasimo come fossero a teatro ( 0. IX 876b). E la pÒlij stessa elogia e biasima i

162
gravi ( 0. VII 798d) sono le conseguenze in ambito educativo, dove si
loda qualcuno perché sia modello di comportamento ( . III 386b c)210 –
e, come abbiamo visto, il carattere comincia presto a formarsi e mantiene
quella forma originaria per il resto della vita; è possibile che non la cambi
mai, se non con grande fatica, e solo grazie a una riflessione consapevole
sul modello etico imposto dalla società e che l’uomo, tramite la paide…a,
incarna fin da bambino. Lo assorbe dalla lingua madre.
In un passo del , Platone ci dice qualcosa di importante sugli
™painštai di Omero. Vediamolo:

) SW. OÙkoàn, e<pon, ð GlaÚkwn, Ótan `Om»rou ™painštaij ™ntÚ%


cVj lšgousin æj t¾n `Ell£da pepa…deuken oátoj Ð poiht¾j
kaˆ prÕj dio…khs…n te kaˆ paide…an tîn ¢nqrwp…nwn prag%
m£twn ¥xioj ¢nalabÒnti manq£nein te kaˆ kat¦ toàton tÕn
poiht¾n p£nta tÕn aØtoà b…on kataskeuas£menon zÁn, fi%
le‹n m n cr¾ kaˆ ¢sp£zesqai æj Ôntaj belt…stouj e„j Óson
dÚnantai, kaˆ sugcwre‹n “Omhron poihtikètaton e<nai kaˆ
prîton tîn tragJdopoiîn, e„dšnai d Óti Óson mÒnon Ûmnouj
qeo‹j kaˆ ™gkèmia to‹j ¢gaqo‹j poi»sewj paradektšon e„j
polin: e„ d t¾n ¹dusmšnhn Moàsan paradšxV ™n mšlesin À
œpesin, ¹don» soi kaˆ lÚph ™n tÍ pÒlei basileÚseton ¢ntˆ
nÒmou te kaˆ toà koinÍ ¢eˆ dÒxantoj e<nai belt…stou lÒgou.

. X 606e1 607a8

Tratto distintivo dell’™painšthj di Omero è l’elogio della sua eccellenza


come educatore di una civiltà. Come abbiamo visto, il semplice uso del
verbo ™painšw e del lessico greco dell’elogio (zÁloj, kosmšw, ™gkwmi£zw,
ecc.), nella lingua comune, ' & un’attenzione che potremmo definire
‘educativa’ alla risposta che ne seguirà – al comportamento di vita di chi
tende all’emulazione propria dell’elogio. La differenza risiede nella lode
& , formulata dall’™painšthj, del valore paideutico di Omero e del
modello di vita che propone.211 Effetto di questo tipo di elogio è il rico

cittadini tramite le leggi (I 632a): «L’azione educativa della lode e del biasimo rende ogni
persona docile e ben disposta alle leggi che stanno per essere fissate» (V 730b). Dannoso
è invece elogiare la propria anima ( 0. V 727b c) o quella dei figli (III 694d) lasciandole
fare ciò che vuole.
210 I lÒgoi delle 00 , almeno fino a VII 811c (si concludono con un’osservazione sui
poeti, di cui i giovani educati rettamente devono mandare a memoria i passi più impor
tanti, se aspirano a diventare buoni e saggi) «simili a un’opera di poesia» (æj m n ™moˆ
fainÒmeqa, oÙk ¥neu tinÕj ™pipno…aj qeîn), sono per l’Ateniese un par£deigma di cosa
(e come) si dovrebbe insegnare ai giovani e di cosa, dunque, i maestri dovrebbero elogia
re (tutti i lÒgoi che siano «come fratelli di questi»).
211 Questo potrebbe far credere che la locuzione `Om»rou ™painšthj designi una precisa

figura professionale o, quanto meno, l’esercizio di una funzione ben ricostruibile che, dal
punto di vista platonico, doveva svolgere un ruolo insidioso nella vita della pÒlij. Se il

163
((

noscimento del poeta come autorità in ambito etico, politico, sociale – in


t¦ mšgista, dunque; e il comportamento degli uomini è giustificato sulla
base di questa autorità. Ne sono un perfetto esempio le battute che So
crate e l’amico anonimo si scambiano nell’esordio del 0 :

/ ET. PÒqen, ð Sèkratej, fa…nV; À dÁla d¾ Óti ¢pÕ kunhges…ou


toà perˆ t¾n 'Alkibi£dou éran; kaˆ m»n moi kaˆ próhn „dÒn%
ti kalÕj m n ™fa…neto ¢n¾r œti, ¢n¾r mšntoi, ð Sèkratej, éj
g' ™n aÙto‹j ¹m‹n e„rÁsqai, kaˆ pègwnoj ½dh Øpopimpl£me%
noj.
SW. E<ta t… toàto; oÙ sÝ mšntoi `Om»rou ™painšthj e<, Öj œfh
cariest£thn ¼bhn e<nai toà <prîton> Øphn»tou, ¿n nàn
'Alkibi£dhj œcei;

AM. Da dove salti fuori, Socrate? Ma non è chiaro? Dalla caccia


al bell’Alcibiade! Eppure, l’ho visto l’altro ieri e mi è parso
ancora un bell’uomo, sì, ma senza dubbio proprio un uo
mo, Socrate – per dirla tra noi – e con il mento ormai quasi
coperto dalla barba.
SO. E con questo? Non sei forse un & 0 ' , il quale
ha detto che la giovinezza più amabile è quella di chi mette
la prima barba? Che è appunto l’età di Alcibiade!212

. 309a b2

E le parole che Platone rivolge al poeta nel X libro della %%& : «Caro
Omero, se davvero [...] sei stato capace di conoscere quali attività rendo
no migliori o peggiori gli uomini nella vita privata e pubblica, puoi dirci
quale città è stata amministrata meglio grazie a te, come Sparta grazie a
Licurgo [...]? Quale città rivendica il fatto che tu sei stato un buon legisla
tore e le hai giovato?» (599d). La risposta è: nessuna, «neppure gli stessi
Omeridi ne parlano»; né si ricorda una guerra «ben combattuta sotto il
suo comando o grazie al suo consiglio», non viene citato come sofÕj
¢n»r nelle tšcnai o in altri campi d’azione. E nemmeno nella sfera priva
ta, «Omero ha fama di aver diretto l’educazione di alcuni che abbiano
amato la sua compagnia [sunous…a] e tramandato ai posteri un modo di

rapsodo (soprattutto il rapsodo omerico) era famoso per le sue declamazioni pubbliche,
non è necessario che lo fosse per frequenti discussioni (cfr. il dialšghtai di 532b9)
con altri ‘esperti’ di Omero di fronte a un uditorio meno numeroso. Di questa possibile
attività sappiamo poco o niente (vedi app. B), ma di certo è nella vita quotidiana, negli
incontri con pochi lungo la strada o in una piazza, che l’™painšthj aveva una buona oc
casione per esibire il suo sapere, di città in città – e questa sarebbe ragione sufficiente
della critica platonica.
212 Trad. di M. Dorati ([119]), corsivo mio.

164
vita omerico [ÐdÒn tina [...] b…ou `Omhrik»n]», come Pitagora. Ancora:
«Ma i contemporanei di Omero ed Esiodo, se essi fossero stati veramen
te capaci di giovare agli uomini indirizzandoli all’¢ret», li avrebbero forse
lasciati andare in giro a fare i rapsodi [>ayJde‹n ¨n periiÒntaj] invece di
tenerseli stretti più dell’oro e costringerli a dimorare nella loro casa; o,
qualora non fossero riusciti a persuaderli, non li avrebbero seguiti <come
maestri> [™paidagègoun] ovunque andassero, fino ad avere partecipato a
sufficienza della loro paide…a?».213 Insomma, si tratta di quello che il no
stro testo , citato a proposito del valore enfatico di kosmšw ( , pp.
159 160), sintetizza perfettamente: «celebrando le innumerevoli opere
degli antichi si educano i posteri». Ma Platone non è il solo a testimoniare
l’autorità educativa ed etica di Omero214 nel V secolo: quando Eschilo
domanda perché si ammira (qaum£zein) un poeta, Aristofane fa risponde
re così Euripide: «per la sua abilità [dexiÒthtoj] e i suoi ammonimenti
[nouqes…aj], e perché rendiamo migliori [belt…ouj] gli uomini nelle loro
città» ( . 1009 1010). E parodia ed esagerazioni di una commedia sono
un’ottima testimonianza di quella che doveva essere una tendenza della
società.
Se lo ci nega l’™p…deixij dell’elogio di Omero, è l’oratore Licur
go a darcene un esempio, in perfetta sintonia con le indicazioni di . X
606e:

. Voglio " anche Omero " & œpainoj. Infatti a tal pun
to i vostri padri compresero che si tratta di un poeta eccellente,
che promulgarono la legge che ad ogni ricorrenza delle Panatenee
quadriennali fossero rappresentati soltanto i suoi versi tra quelli
degli altri poeti, dimostrando ai Greci che preferivano le azioni
migliori. È evidente: le leggi, per la loro concisione, non insegna
no ma stabiliscono ciò che bisogna fare, mentre i poeti, rappre
sentando la vita umana, dopo avere scelto le azioni migliori, per
213 Gli Omeridi citati da Glaucone sembrano proprio degli ™painštai di Omero, come

Ione e gli anonimi di . X 606e – e verosimilmente lo erano: gli Omeridi, i rapsodi, O


mero ed Esiodo che recitavano di città in città essi stessi come rapsodi, fanno parte di
una stessa ' 0& (vedi app. B). La città lascia liberi i poeti di girovagare recitando invece
di prendersi cura della paide…a, proprio come Ione va in giro facendo il rapsodo incoro
nato piuttosto che lo stratega a Efeso o ad Atene. E ancora, se Omero ed Esiodo fosse
ro davvero capaci di migliorare la vita degli uomini, ognuno li seguirebbe e vorrebbe imi
tarli, come Apollodoro trascorre la vita (sundiatr…bw) con Socrate per sapere ogni gior
no ciò che dice e fa ($' . 173c d); e Ione, da buon rapsodo omerico, passa il suo tempo
(diatr…bein) con Omero, «il migliore e il più divino dei poeti» (5308 9).
214 Che nel V secolo Omero sia considerato un’autorità nelle cose più importanti della

vita naturalmente non implica che Omero stesso avesse un’intenzione paideutica.

165
((

suadono gli uomini sia attraverso i discorsi, sia attraverso la trama.


Ettore, infatti, incitando i troiani alla difesa della patria, pronunciò
queste parole:

Combattete senza tregua contro le navi. Chi fra voi


ferito o colpito debba trovare destino di morte
muoia. Bello per lui difendendo la patria
morire. Salva sarà la sua sposa e i teneri figli,
e intatto il patrimonio e la casa, se gli Achei
fuggiranno con le navi nella loro patria.215

Tali versi ascoltando, cittadini, e tali azioni emulando, i vostri pro


genitori furono tanto valorosi da essere disposti a morire non solo
per la loro patria, ma per tutta la Grecia, come patria comune. Co
loro che fronteggiarono i barbari a Maratona vinsero un esercito
che veniva da tutta l’Asia procurando, a prezzo del proprio ri
schio, la sicurezza per tutti i Greci, senza andare orgogliosi per la
fama, ma piuttosto per il fatto di compiere azioni degne di questa,
diventando campioni dei Greci e dominatori dei barbari; perché
non coltivarono la virtù a parole, ma la indicarono a tutti con
l’azione.216

. 102 104

R. Velardi ([446], pp. 34 35) ha il merito di avere scoperto l’importanza


di questo passo per lo , mantenendo nel testo dell’ '
la lezione tràdita ™painîn, emendata da molti editori in ™pîn, senza che
questo sia necessario per la comprensione del testo. Il verbo parascš%
sqai (< paršcw), che precede ™pîn (lezione di Molshe), è termine tecni
co del linguaggio giuridico e significa «produrre prove, testimoni» (LSJ
[469], .". paršcw B II): introduzione perfetta per un œpainoj omerico,
secondo tutte le testimonianze che abbiamo! Tuttavia non credo come
Velardi che questo brano suggerisca il significato di «esperto» o «attento
conoscitore» che egli propone, riprendendo un commento di G. Stal
lbaum.217 Di certo questo è quanto l’™painšthj credeva di sé, come ab
biamo visto a proposito di Ione, ed è possibile che la struttura218 propo

215 &. XV 494 499.


216 Trad. di R. Velardi ([446], p. 34).
217 La nota di Stallbaum al passo riconosce giustamente che già la declamazione pubblica

dei versi è una forma di elogio di Omero; ma ciò che costituisce l’attività propria dell’™%
painšthj sta piuttosto nel suo % '' , con il quale è probabile volesse ren
dere il verbo ™xhgšomai.
218 Struttura dell’œpainoj:

166
sta da Velardi nel tentativo di ricostruire «un genere ben definito di di
scorso» sia attendibile; ma non possiamo dire più di questo. Ciò che in
vece vale la pena di notare è che l’esempio, come la descrizione di ),
mostra un elogio esplicito del potere paideutico di Omero, e
&& ' – ma lo vedremo più avanti ( , § 3.2.1).219

Per concludere, se questa è l’attività svolta da Ione, cominciano ad


essere chiare le ragioni della critica socratica: Ione ™painšthj di Omero
implica Ione conoscitore, per la tesi del proemio; e il sapere che vanta,
possiamo leggerlo nei testi citati fin qui, sembra lo stesso per il quale il
rapsodo elogia Omero: t¦ mšgista. Una conoscenza, dunque, delle cose
più importanti della vita e del modo di rendere gli uomini migliori.
L’esame a cui Socrate lo sottoporrà nelle due parti argomentative del dia
logo (vedi app. A), e le informazioni sull’attività rapsodica che ricavere
mo dalla sezione centrale (l’esposizione e il commento dell’analogia del
Magnete), ne daranno una conferma.

& & 7# $ !

Vediamo ora l’uso socratico ( , § 1.2.1.1) di ¢gaqÒj, eâ, kalÒj nel


dialogo:

Proemio LÒgoj Epilogo


530a 531a1 Il problema Il problema La meravi 541e1 542b4
di Socrate di Ione glia di Ione
531a1 532b7 532b7 536d4 541e1
536d4

¢gaqÒj/ 531b6 (S) 532e6 7 (S) 540e8 (S)


¥ristoj tîn grafÁj >ayJdÕj
m£nteèn... polloˆ... ¢gaqÒj
tîn ¢gaqîn ¢gaqoˆ kaˆ

(1) un breve discorso di carattere generale finalizzato a introdurre i versi,


una sorta di prologo contenente anche informazioni storiche sull’istitu
zione dell’agone rapsodico delle Panatenee e probabilmente, nel caso di
una recitazione rapsodica vera e propria, notizie biografiche su Omero
( . 102);
(2) la declamazione dei versi ( . 103);
(3) un commento teso a sottolineare il valore e l’attualità sul piano paideuti
co del brano recitato ( . 104).

219 Cfr. . 181b, dove Lisimaco riconosce nelle parole di Lachete l’œpainoj di Socrate; e,
come esempio di retorica elogiativa, l’intero ( .

167
((

faàloi 541a3, 4, 5,
6, 7, b1, 2, 4,
7 (S)
kalÒj 541e3 (S)
poll¦ kaˆ
kal£220
eâ/ 531a7; b5 6 532e9 (S) 538b2 (S)
kalîj/ (S) § eâ te e‡te kalîj
k£llion ¨n gr£fei kaˆ lšgei “Omh%
¥rista " . § m» roj e‡te m»
™xhg»saio
kakîj/
ce‹ron 533b3 (S) 538d5 (S)
531d13, e1,
eâ lšgei kaˆ
2, 5, 6, 7; pepo…hken e‡te kalîj
532a1, 2, 7, e‡te m»
8 (S) 533c3 (S)
¤ te eâ 538e4 (S)
>ayJde‹ kaˆ e‡te eâ e‡te
§ m» kakîj pe%
po…htai

540e1, 2 (S)
eâ kaˆ ka%
kîj ƒppazo%
mšnouj

540e4 5 (S)
eâ kiqar…%
zontaj
¥meinon " . 531d8, 10
k£kion (S)221

Solo un’osservazione: è evidente, dalla scelta dei sinonimi che Socrate al


terna ad eâ/kalîj e dalle parole che li affiancano nel contesto, come la
valenza che gli avverbi di valore (e, di conseguenza, gli aggettivi che qua
lificano la persona) assumono in queste occorrenze sia conoscitiva. A
537c, Socrate chiede a Ione chi saprebbe riconoscere meglio se Omero
parla ' nei versi appena recitati oppure no: l’avverbio Ñrqîj,
usato nella prima di una serie (vedi tabella) di domande simili (formulate
tutte nello stesso modo), dove spesso sarà sostituito da eâ o da kalîj,222
indica un dire % che di certo non ha molto a che vedere con

220 Al contrario, l’uso del poll¦ kaˆ kal£ di 542a5 (qui un lšgein, a 541e3 un ™p…sta%
sai) è tradizionale.
221 Per Ione Omero parla ' 0& , gli altri poeti 00 in riferimento al successo che hanno
avuto, alle lodi del pubblico (Omero è «il migliore e il più divino dei poeti» – 530 b9 10);
per Socrate, se Omero parla ' 0& , allora dice cose vere o corrette, gli altri poeti no o
non sempre (la verità non è gradabile: più vero è ciò che è vero più spesso).
222 'Orqîj e kalîj si alternano, p. es., a 538c4 (Ñrqîj lšgei) e d5 (lšgei... kalîj).

168
l’approvazione di un pubblico, ma con qualcosa di molto vicino (se non
identico) alla verità. Dire qualcosa Ñrqîj sulla pesca – correttezza che il
pescatore sa giudicare meglio di chiunque altro (forse è il solo a poterla
davvero giudicare),223 significa, p. es., descrivere un procedimento che
richiede competenze tecniche: la descrizione sarà corretta se parlerà di un
filo di giusta lunghezza e spessore, ecc.224 In modo simile, il significato di
¢gaqÒj in tali contesti sembra lo stesso di tecn…thj, o almeno lo presup
pone. A 540e, p. es., sullo stesso piano troviamo il rapsodo ¢gaqÒj e lo
strathgikÒj; a 541a, il rapsodo e lo stratega ¢gaqÒj sono rispettivamente
l’uomo che conosce la tšcnh rapsodica e l’uomo che conosce la strategia.
Benché quello osservato sia un contesto dove si tratta di tšcnai, di
mestieri (ma anche di rapsodia e strategia, il cui è sotto esame), e
dunque a tšcnai e tecn…tai siano riferiti i termini di valore, possiamo a
spettarci che essi vengano usati da Socrate nello stesso modo quando ri
feriti all’¥nqrwpoj, o a chi ha la pretesa di essere ¢gaqÒj nelle cose im
portanti della vita (è questo, in fondo, ciò a cui mirano rapsodo e strate
ga). Un esame delle parole del sapere che incontriamo nel dialogo e del
rapporto che esse intrattengono con i termini di valore mostrerà che è
così, e ci permetterà di rintracciare i tratti distintivi di un’etica socratica
del sapere.

223 Vedremo che i verbi di sapere in questa sezione ( ' " 0& – app. A) sono
quasi sempre qualificati da eâ o kalîj, lasciando supporre che per Platone la conoscen
za sia gradabile ( , pp. 181 182).
224 Cfr. & . I 108b: Ñrqîj d d»pou œcei tÕ kat¦ t¾n tšcnhn gignÒmenon.

169
tecn…thj

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f£laion, œfh, prosanagk£zein tÕn Swkr£th Ðmologe‹n aÙtoÝj toà
aÙtoà ¢ndrÕj e nai kwmJd…an kaˆ tragJd…an ™p…stasqai poie‹n,
kaˆ tÕn tšcnV tragJdopoiÕn Ônta <kaˆ> kwmJdopoiÕn e nai. taàta
d¾ ¢nagkazomšnouj aÙtoÝj kaˆ oÙ sfÒdra ˜pomšnouj nust£zein,
kaˆ prÒteron mDn katadarqe‹n tÕn 'Aristof£nh, ½dh dD ¹mšraj gi>
gnomšnhj tÕn 'Ag£qwna.

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prÕj ¢ret¾n kaˆ kak…an, kaˆ t£ ge qe‹a: ¢n£gkh g¦r tÕn ¢gaqÕn
poiht»n, e„ mšllei perˆ ïn ¨n poiÍ kalîj poi»sein, e„dÒta ¥ra
poie‹n, À m¾ oŒÒn te e nai poie‹n.

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e‡te cr¾ aÙtÕ Øpale…fesqai e‡te m», pÒteron o‡ei tÒte e nai
t¾n boul¾n perˆ toà farm£kou À perˆ tîn Ñfqalmîn;
NI. Perˆ tîn Ñfqalmîn.
SW. OÙkoàn kaˆ Ótan †ppJ calinÕn skopÁta… tij e„ prosoistšon
À m», kaˆ ÐpÒte, tÒte pou perˆ toà †ppou bouleÚetai ¢ll' oÙ
perˆ toà calinoà;

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NI. 'AlhqÁ.
SW. OÙkoàn ˜nˆ lÒgJ, Ótan t…j ti ›nek£ tou skopÍ, perˆ ™ke…nou
¹ boul¾ tugc£nei oâsa oá ›neka ™skÒpei, ¢ll' oÙ perˆ toà Ö
›neka ¥llou ™z»tei.
NI. 'An£gkh.

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g¦r tšcnV oŒÒj te Ãsqa, kaˆ perˆ tîn ¥llwn poihtîn ¡p£n>
twn lšgein oŒÒj t' ¨n Ãsqa.

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™ntaàqa ™p' aÙtofèrJ katalhyÒmenoj ™mautÕn ¢maqšste>
ron ™ke…nwn Ônta. ¢nalamb£nwn oân aÙtîn t¦ poi»mata ¤
moi ™dÒkei m£lista pepragmateàsqai aÙto‹j, dihrètwn ¨n
aÙ toÝj t… lšgoien, †n' ¤ma ti kaˆ manq£noimi par' aÙtîn.
a„scÚnomai oân Øm‹n e„pe‹n, ð ¥ndrej, t¢lhqÁ: Ómwj dD 'h>
tšon. æj œpoj g¦r e„pe‹n Ñl…gou aÙtîn ¤pantej oƒ parÒntej
¨n bšltion œlegon perˆ ïn aÙtoˆ ™pepoi»kesan. œgnwn oân
aâ kaˆ perˆ tîn poihtîn ™n Ñl…gJ toàto, Óti oÙ sof…v po>
io‹en § poio‹en, ¢ll¦ fÚsei tinˆ kaˆ ™nqousi£zontej ésper
oƒ qeom£nteij kaˆ oƒ crhsmJdo…: kaˆ g¦r oátoi lšgousi mDn
poll¦ kaˆ kal£, ‡sasin dD oÙdDn ïn lšgousi.

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pÍ. éj ge m¾ e„dèj soi ¢pofa…nomai. toàto g£r moi „nd£lletai
dianooumšnh oÙk ¥llo ti À dialšgesqai, aÙt¾ ˜aut¾n ™rwtîsa
kaˆ ¢pokrinomšnh, kaˆ f£skousa kaˆ oÙ f£skousa. Ótan dD
Ðr…sasa, e‡te bradÚteron e‡te kaˆ ÑxÚteron ™p®xasa, tÕ aÙtÕ
½dh fÍ kaˆ m¾ dist£zV, dÒxan taÚthn t…qemen aÙtÁj. ést' œgwge
tÕ dox£zein lšgein kalî kaˆ t¾n dÒxan lÒgon e„rhmšnon, oÙ
mšntoi prÕj ¥llon oÙdD fwnÍ, ¢ll¦ sigÍ prÕj aØtÒn: sÝ dD t…;
QEAI. K¢gè.

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Fin dal proemio, le parole dell’etica ( , , ...) che ci siamo


proposti di analizzare – in effetti, le parole chiave del dialogo (
) – sono determinate nel loro significato dal rapporto con le pa
role del sapere (cap. 2), ma anche con le parole dell’irrazionale: da Ome
ro oj (530b9 10 – è la seconda occorrenza significativa,1 la prima
dell’aggettivo) a Ione qe‹oj (542b4, ).2 Scopo di questo capitolo è in
primo luogo chiarire il legame tradizionale che unisce i tre nuclei seman
tici: vedremo come siano tutti presenti nella sezione centrale del dialogo,
dove, nonostante Socrate tenti di separarli tramite l’analogia del Magnete,
l’uso comune della lingua greca ne tradisce le intersezioni. In secondo
luogo, ci occuperemo dell’uso che Socrate fa del lessico (qui e in
altri luoghi del )3 per rintracciare eventuali novità platoniche, quan
to a immagini e metafore della sfera irrazionale e alla valenza (ora positi
va ora negativa) che queste parole assumono nei dialoghi. Un confronto
tra i due usi ( . tradizionale e socratico) mostrerà da un lato la contrap
posizione tra il filosofo (Socrate) e il rapsodo (Ione) – chiave di lettura
custodita dal proemio per il lettore che ha familiarità con la filosofia e il
modo platonico di fare filosofia;4 dall'altro, scopriremo che di filosofi e
rapsodi (con tutto ciò che si nasconde dietro questa figura – sapremo fi
nalmente chi è Ione) sono predicati nel gli stessi termini
e ; e vedremo cosa questo significhi – da cosa dunque essi
sono accomunati e cosa, nonostante il lessico comune, li mantiene essen
zialmente distinti.

1 Sulla formula precedente ™¦n qeÕj ™qšlV, vedi , pp. 109 115.
2 Fanno parte di questo nucleo semantico tutti i termini riferiti al divino (qe‹oj, œnqeoj,
<qeo>m£ntij, ecc.) e appartenenti alla sfera emotiva (™kpl»ssw, ma…nw, ™leinÒj, fobe!
rÒj, sunqambšw, ecc.). La yuc» troverà posto al confine, in virtù del suo lato irrazionale.
Vedi app. D 3.
3 E in quanto gli altri testimoni ricordano di Socrate (vedi, p. es. VLASTOS [186], pp. 330

331, su Eschine Socratico, fr. 11 D.).


4 Vedi , pp. 196 ss.

207
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La parte di dialogo che va da 533c9 a 536d4 ( $ " $ – app.


A) è la spiegazione socratica dell’ di Ione, su richiesta del rap
sodo stesso ( …toi Óra toàto t… œstin; 533 c7 8):5

[...] œrcoma… ge soi ¢pofanoÚmenoj Ó moi doke‹ toàto e+nai.

La locuzione ¢pofanoÚmenoj Ó moi doke‹ toàto e+nai richiama l’espres


sione parallela ¢pofa…nomai t¾n ™mautoà gnèmhn: «manifestare la propria
opinione».6 La traduzione non deve tuttavia sviare dal corretto significato
della voce: ‘manifestare la propria opinione’ non ha il valore % , atte
nuativo che noi attribuiamo a opinioni e credenze rispetto alla conoscen
za come verità dimostrata. Il lÒgoj ¢pofantikÒj, con Aristotele, è l’enun
ciato o il discorso che asserisce il vero o il falso ( . 4, 17a2 ss.), un e
nunciato dunque con un preciso valore epistemico, sulla verità del quale
chi lo asserisce si impegna. In questo senso & va intesa l’espressione
pronunciata da Socrate in una fase decisiva del dialogo; vediamone le ra
gioni.
I termini della domanda di Ione (il toàto t… œstin con cui è formu
lata qui e il T… oân pote tÕ a‡tion di 532b8)7 e il lessico dimostrativo usato
da Socrate in queste tre pagine Stephanus ne presentano il contenuto
come spiegazione: (tÕ a‡tion, 536d1) del parlare (e del dire) meglio
del rapsodo omerico è, vedremo, una dÚnamij dono degli dèi; e
(tekm»rion, 534d5, 535c4) della natura irrazionale di questo successo epi
dittico l’intermittenza (Tinnico di Calcide che compone peana de
gno di essere ricordato) e il carattere selettivo ( genere poetico per
ogni poeta ¢gaqÒj) dell’oggetto del suo lšgein (ed e„pe‹n). & , una
spiegazione regolare. Vediamola più nel dettaglio.
Causa dell’eâ lšgein di Ione è dunque una dÚnamij divina, che So
crate paragona alla forza magnetica di una calamita: come la pietra attra
ente attira a sé gli anelli di ferro di una catena, servendosi di ognuno per
catturare il successivo, così la Musa (o il dio) attira a sé le anime degli
™nqousi£zontej, trasmettendo a ognuno la forza necessaria per attrarne

5 Vedi trad., p. 88, nota 119.


6 «'Apofa…nein (à l’actif et au moyen) “montrer, déclarer”» (DES PLACES [492], . .).
7 Vedi nota 5 e cfr. la conclusione di Socrate a 536d: toÚtou d' ™stˆ tÕ a‡tion, Ó m'
™rwt´j...

208
un altro, fino a formare una lunga catena.8 Questa forza che $ anello
può esercitare è garanzia della bontà del prodotto: la calamita ad at
trarre la sua lunga catena di pezzi di ferro; e fuor di metafora, $ œnqeoj
ed ™nqousi£zwn che sia ¢gaqÒj realizza % opere in virtù della Musa, va
le a dire per effetto di una ispirazione divina: la dÚnamij gli è concessa in
dono dagli dèi. Come il seguito dell’analogia chiarisce, il buon rapsodo,
come il buon poeta, è mezzo e strumento passivo tramite il quale un dio
o una Musa parla agli uomini comuni; una voce per trasmettere il pensie
ro degli dèi: questo il senso dell’ispirazione divina nella spiegazione so
cratica.
Poeti e rapsodi, dunque, non hanno alcun merito che non sia pu
ramente tecnico9 per il successo della loro attività, che non è dovuta
all’esercizio di un sapere. Come prova a dimostrazione di questo caratte
re passivo della poetica (nei due momenti della composizione e della re
citazione)10 Socrate produce due esempi: da un lato Tinnico di Calcide,
che compone una sola opera davvero bella (intermittenza del successo),11
dall’altro l’incapacità dei poeti di comporre bene in più di un genere (ca

8 Mi limiterò qui a una descrizione dell’analogia del magnetismo, senza entrare nel detta
glio del lessico greco, alquanto vario e sfumato. Per un’analisi più approfondita, rimando
alle note della traduzione . e al § 3.1.2.
9 Sono innegabili, ma non sembrano suscitare l’interesse platonico, le competenze tecni

che di poeti e rapsodi: dalla conoscenza della metrica dei versi all’abilità mnemonica.
Vedi p. es. le note 138 e 169 alla traduzione. Non credo che il passo dell’ $ nel
quale si considerano insieme ai poeti i ceirotšcnai (22c) distingua un interesse socratico,
del quale Platone non si occuperà. È vero che Socrate predilige gli artigiani nei suoi e
sempi e considera la loro attività una forma certa di sapere pratico (vedi , § 2.1); tut
tavia, il passo in questione prosegue chiarendo che spesso anche i lavoratori manuali
credono di possedere, in virtù della loro tecnica, anche un sapere su «materie della mas
sima importanza», sbagliandosi (22d e). Questa osservazione socratica non è affatto in
contraddizione con quanto Platone riferisce della sola attività poetica nel resto del .
Semplicemente, gli artigiani sono accomunati ai poeti nella loro presunzione di sapere,
nonostante siano in possesso di vere conoscenze tecniche, delle quali però non si accon
tentano per la loro ansia di apparire sofo…. Platone, nella sua critica, li assimila ai poeti
sulla base di questa ¢maq…a, della quale rende ragione proprio nelle pagine dell’ $
' . Per quanto concerne i testi platonici, non abbiamo dunque motivo di dubitare
che i due filosofi concordassero al riguardo.
10 Per l’uso di poie‹n, lšgein ed e„pe‹n nel dialogo, vedi trad. note 75 e 93.
11 Il caso di Tinnico, che compone nell’intero arco della vita bel poema, è più
propriamente un ; tuttavia, se estendiamo l’esempio ai poeti che nella loro carriera
hanno composto opere belle, altre meno, diventa legittimo parlare di intermitten
za. Ad essere importante nell’esempio di Socrate è l’assoluta estraneità del successo alle
capacità e alla volontà del poeta, che si tratti di un successo che più volte o –
caso estremo – di un successo che una sola volta: i due casi restano indistinti
fino alla fine.

209
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rattere selettivo del successo). È interessante notare che per Socrate que
sti esempi sono una prova conclusiva ( m»rion . shme‹on)12 di quanto
intende dimostrare, vale a dire che il successo epidittico (eâ lšgein) di
poeti e rapsodi è dovuto a una tšcnh nella quale sono abili, % ( a una
dÚnamij divina che scorre in loro usandoli come canali passivi.13 Da un
lato, dunque, la prova agisce per negazione, confutando la tesi di Ione
conoscitore: intermittenza e carattere selettivo ne sono due controesem
pi, in quanto non rispettano il principio di unità della tšcnh.14 Dall’altro,
sembra agire in modo positivo, come prova sufficiente dell’ispirazione
divina del buon poeta (vedi & , § 3.1.2).
Fin dall’inizio dell’analogia, Socrate presenta la dÚnamij divina co
me causa dell’eâ lšgein poetico; ma è solo a 534a b che ne rende esplici
to il carattere passivo, in riferimento prima ai melopoio…, poi al poeta in
generale.15 Le espressioni oÙk œmfronej, œkfrwn e Ð noàj mhkšti ™n aÙtù
™nÍ non lasciano adito ad alcun dubbio, così come la coppia œnqeÒj te
kaˆ œkfrwn (534b5), nella quale il primo elemento riempie (™n ) il vuoto
lasciato dal secondo (™k ). Presenza del dio e assenza della ragione, ispi
razione e irrazionalità vanno dunque insieme, di pari passo, nelle parole
di Socrate: la prima implica la seconda.
Stando così le cose, ci aspetteremmo già al termine di questa parte
introduttiva dell’analogia il dissenso di Ione; ma il dissenso non arriva. Al
contrario, sembra che il rapsodo sia addirittura entusiasta16 delle parole
socratiche, che ) * (pèj, vedi trad., nota 104) gli hanno «tocca
to l’anima»: crede davvero che i buoni poeti siano mediatori degli dèi per
sorte divina (535a). È evidente che il valore passivo di ˜rmhneÚj nel con

12 I due esempi che costituiscono la prova sono detti rispettivamente mšgiston (534d5;

cfr. l’™n toÚtJ g¦r d¾ m£lista di e1) ed ™narg>j tekm»rion (535c4). Vedi trad., note 101
e 103. La prova che Ione stesso dice «evidente» (™nargšj) è il suo immedesimarsi nei
personaggi dei poemi omerici durante la recitazione. La conclusione di Socrate a 536b c
chiarisce dove questo secondo esempio voleva condurre l’interlocutore: la partecipazio
ne emotiva condivisa da Ione e il suo pubblico è in virtù del canale selettivo
dell’entusiasmo poetico: ogni volta la dÚnamij divina attraversa poeta, ispirando a un
tempo chi ne recita e chi ne ascolta i versi; nel nostro caso, scorre dalla Musa a Omero a
Ione, e da questi al suo pubblico. Si completa così la catena magnetica, che giustifica il
carattere selettivo dell’attività di poeti e rapsodi (vedi trad., note 70, 98, 100, 103, 119).
13 Per differenze e somiglianze nel trattamento platonico di poeti e rapsodi, vedi trad.,

note 91 93 e & , § 3.2.1.


14 Ricordiamo la tesi di Ione conoscitore: buon rapsodo ↔ (buon) conoscitore (vedi

, p. 136, nota 132). Sul principio di unità della tšcnh vedi , § 2.1.1.
15 Cfr. anche 534d, dove soggetto dell’eâ lšgein è Ð qeÕj aÙtÒj.
16 L’anima di Ione è toccata dalle * dell’esposizione socratica, così come
l’anima dei poeti colpiti da entusiasmo è trascinata dal dio ovunque voglia (vedi & , pp.
241 242, nota 81).

210
testo sfugge a Ione proprio come la valenza privativa di œkfrwn, e con
essi il senso generale delle parole di Socrate. La stessa reazione a
535c, in risposta a un œxw sautoà e a una yuc¾ ™nqousi£zousa, accolti –
niente meno – come ™narg>j tekm»rion.17 E tuttavia il dissenso non tar
derà a manifestarsi – a questo punto inatteso – al termine della seconda
parte dell’analogia (536d4 6).18
Cosa impedisce a Ione di accorgersi con noi dell’evidente senso
della spiegazione socratica, e cosa poi, , determina la sua resi
stenza? Cosa distingue a tal punto le due parti in cui è suddivisa l’esposi
zione dell’analogia? Come già anticipato nelle note alla traduzione (in
part. p. 88, nota 120), il mainÒmenoj dell’ultima risposta di Ione (536d6) è
forse la parola chiave del suo dissenso. Nei prossimi paragrafi ne vedre
mo le ragioni, analizzando le differenze tra il linguaggio religioso della
tradizione condiviso dal rapsodo, e il linguaggio socratico che Platone
costruisce, attribuendo nuovi significati alle parole del divino.

"" # $ % $ &

Sono due i principali nuclei semantici dell’ispirazione divina:19 il primo è


legato nell’etimo a qeÒj e comprende l’aggettivo œnqeoj e la famiglia di
™nqousi£zw ed ™nqousiasmÒj. Il prefisso ™n ne determina la valenza: es
sere œnqeoi o assume in Platone il significato letterale di «avere il
dio in sé». Il secondo nucleo è composto dal verbo katšcw e dal sostan
tivo katokwc», da kat£ ed œcw: «comme tous les verbes “avoir” il expri
me un rapport de possession et constitue un “être à” renversé. [...] Le

17 Cfr. anche le battute di Ione a 535d e.


18 Possiamo dividere l’analogia del Magnete in due parti:

(1) 533c9 535a5;


(2) 535a6 536d7.

Benché fin dall’inizio poeti e rapsodi siano accomunati dalla trattazione (vedi 533d1 3 e
trad., nota 90), nella prima parte l’esposizione socratica riguarda principalmente i poeti,
come la risposta conclusiva di Ione non manca di far notare; nella seconda, invece, è
reso esplicito il passaggio tra i due anelli della catena (535a6 10), e Socrate si rivolge di
rettamente ai rapsodi, Ione (535b1 ss.). Vedremo nei prossimi paragrafi (in part.
il § 3.2.1) l’importanza di questa seconda formulazione dell’analogia con l’aggiunta
dell’anello conclusivo (il pubblico) e uno spostamento di attenzione dal primo al secon
do: il rapsodo.
19 Vedremo come tutte le figure religiose della tradizione greca siano legate ad essa e, a

partire da un certo momento, accomunate da questi stessi nuclei semantici.

211
! "" #

verbe s’est largement utilisé avec des préverbes qui en déterminent le


sens: [...] “tenir, se retenir, occuper, aborder”» (CHANTRAINE [468],
. . œcw). Nello sono presenti entrambi;20 ed entrambi, analizzati e
ricondotti da Socrate al loro etimo, contribuiscono a dare senso alla sua
interpretazione & & dell’ispirazione divina.
La difficoltà di Ione di fronte al significato letterale di questi ter
mini lo porta, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, a risponde
re in modo contraddittorio alla spiegazione socratica del suo successo
epidittico: prima con entusiasmo (535a3, c4, d6, e1), poi manifestando il
proprio dissenso (536d4). Per capire le ragioni non superficiali21 di questa
difficoltà, è necessario ripercorrere brevemente la storia dell’ispirazione
divina e del suo lessico.
Armand Delatte dedica uno studio accurato all’entusiasmo nei fi
losofi presocratici, inserendo l’ispirazione divina di cui si occupa nel giu
sto quadro generale:

Certains phénomènes particulièrement étonnants s’imposèrent à l’atten


tion des premiers philosophes grecs qui se sont intéressés aux problèmes
de la psychologie: tels l’exaltation des poètes, la faculté prophétique,
l’extase mystique, certaines maladies mentales ou nerveuses. La concep
tion courante les attribuait à des influences surnaturelles: le devin et le
poète étaient “inspirés” par la divinité ou par la Muse, les adeptes des
mystères étaient “possédés” de leur dieu, des divinités malignes ou des
démons fantasques assaillaient les hommes et, pénétrant en eux, produi
saient le délire et les convulsions. Bref, tous ces phénomènes étranges
étaient expliqués par l’«enthousiasme» ou possession divine.

DELATTE [416], p. 5

Tentiamo di ricostruirlo, percorrendo la storia dei nostri termini dalle o


rigini letterarie al delinearsi di figure religiose ben distinte nella tradizio
ne. Vedremo poi come la riflessione filosofica si inserisca in questo qua
20 Con delle limitazioni: una sola occorrenza del sostantivo katokwc» (536c2 – due

nell’intero platonico; cfr. * . 245a2), nessuna di ™nqousiasmÒj. Difficile a questo


punto condividere la scelta ficiniana del sottotitolo: «Ion vel de furore poetico» (FICINO
[24]). Il primo nucleo semantico è rappresentato da tre sole occorrenze del verbo ™nqou!
si£zw (533e5, 535c2, 536b3).
21 Sono convinta che, di fronte a un qualsiasi interlocutore dei dialoghi, l’atteggiamento

corretto non sia banalizzarne le risposte in nome di una pretesa stupidità o superficialità
del personaggio, contrapposta alla saggezza del Socrate che conduce lo scambio di battu
te. Al contrario, ritengo che la scelta platonica degli interlocutori di un dialogo non sia
mai casuale, bensì ne determini l’andamento argomentativo e ne delimiti già in partenza
le possibili soluzioni, escludendone irrevocabilmente alcune.

212
dro, allo scopo di chiarire il rapporto tra il successo dell’ispirazione divi
na e l’attività conoscitiva dell’uomo nella sua ricerca della verità.
Sia œnqeoj ed ™nqousiasmÒj sia il verbo katšcw sono termini sco
nosciuti ai poemi omerici e a Esiodo.22 Vedremo tra breve come l’ispira
zione divina dei poeti sia un tema già iliadico e sempre presente nella sto
ria della letteratura greca; tuttavia, all’origine, essa è del tutto indipenden
te dal lessico che la caratterizzerà a partire dal V secolo, soprattutto con
Platone. È un frammento attribuito a Eschilo (10 A 76 b2 B.) che riuni
sce i due nuclei semantici nella loro prima occorrenza:
™nqousi©i ØpÕ ™nqšou katšcetai pneÚmato.

Purtroppo possiamo ricavarne solo l’attestazione di un legame tematico,


riguardo al meccanismo dell’ispirazione divina. Nulla che lasci scorgere
un rapporto tra questa e la poesia. Lo stesso accade per le altre fonti del
VI e del V secolo, riducibili a una testimonianza su Epimenide (3 A 4
DK – lo vedremo) e a poche occorrenze nei tragici: Eschilo conosce
l’aggettivo œnqeoj in relazione all’«arte divinatrice» ( . 1209 Co. ½dh tšc!
naisin ™nqšoij ¹irhmšnh, . 17 tšcnhj dš nin ZeÝj œnqeon kt…saj frš!
na) e al furore guerresco (#*. 497 œnqeoj d' ”Arei), paragonato all’invasa
mento delle Baccanti (498 bakc´ [...] qui¦j éj); Euripide lo riferisce alla
possessione divina, prima congettura del Coro sulle cause del turbamen
to di Fedra (+ . 141 144 Ã g¦r œnqeoj, ð koÚra, e‡t' ™k PanÕj e‡q'
`Ek£taj À semnîn Korub£ntwn foit©ij À matrÕj Ñre…aj;). Fa eccezione
l’occorrenza gorgiana in un passo dell’ , significativa per
ché legata al potere dei lÒgoi, qui «ispirati incantesimi di parole» (œnqeoi
di¦ lÒgwn ™pwida…, 10) che portano gioia e liberano dalle pene. «Infatti, la
forza dell’incantesimo, accompagnandosi all’opinione dell’anima, l’affa
scina e la persuade e la fa mutare con la stessa malia» (trad. CÀFFARO
[113]) .23
In un frammento attribuito a Democrito incontriamo la prima oc
correnza del sostantivo ™nqousiasmÒj.

' kaˆ Ð DhmÒkritoj Ðmo…wj: poiht¾j d> ¤ssa m>n ¨n gr£fhi met'
™nqousiasmoà kaˆ ƒeroà pneÚmatoj, kal¦ k£rta ™st…n...

22 Unica eccezione il k£tecen di #*. 700: «Un ardore prodigioso (kaàma qespšsion)
chaos» (trad. di G. Arrighetti; corsivo mio).
23 Sull’importanza del passo per l’ispirazione poetica vedi & , § 3.2.1. Nei numerosi e
approfonditi studî sulle origini e sul significato dell’entusiasmo poetico è stata tuttavia
trascurata l’analisi dell’aggettivo œnqeoj; dunque luoghi come questo di Gorgia sono pas
sati del tutto inosservati.

213
! "" #

E Democrito allo stesso modo <disse>: «Qualunque cosa il


poeta scriva sotto l’influsso dell’entusiasmo e del soffio sacro è
molto bella...»

Democr. 68 B 18 DK (= Clem.Al. ' . VI 168)

L’entusiasmo è riferito al poeta, da un filosofo.


Credo che il contributo di questa testimonianza alla ricostruzione
di una teoria filosofica dell’entusiasmo sia stato sopravvalutato, come al
cuni studî sul tema non mancano di osservare.24 Isolato da un contesto, il
frammento non può dirci nulla di preciso sull’uso che Democrito inten
deva fare del termine ousiasmÒj, né sul significato che attribuiva ad
esso in rapporto all’attività poetica.25 Inoltre, trattandosi dell’unica occor
renza, è difficile persino attribuirla con certezza a Democrito. Le parole
di Clemente Alessandrino riecheggiano forse troppo le pagine platoniche
dello e del , , in cui si dice chiaramente che l’ispirazione divina è
garanzia della bellezza poetica. In base a questa somiglianza è stato attri
buito a Democrito un giudizio di tipo estetico sulla poesia divina: non
più vera, come per tradizione, ma bella.26 Anche in questo caso, l’acco
stamento tra i due filosofi si fonda su un fraintendimento del testo pla
tonico: la bella poesia, o meglio la poesia kal£, è in greco quella che ha
successo. Indubbiamente è % – kalÒj contiene anche questa sfumatu
ra di significato – ma soprattutto * && , raggiunge il suo obiettivo.27
È dunque possibile che il kal¦ k£rta sia una variante del poll¦ kaˆ
kal£ platonico, ad opera di Clemente stesso, che in qualche modo forza
il testo democriteo a noi purtroppo sconosciuto. È in dubbio anche l’uso
di gr£fhi, al quale molto probabilmente un greco del V secolo avrebbe
preferito lšghi.
Le testimonianze latine non fanno che confermare questi sospetti:
sia Cicerone sia Orazio leggono Democrito con Platone, e a entrambi
sembrano attribuire una teoria dell’entusiasmo poetico della quale in real

24 Vedi in particolare TIGERSTEDT [441].


25 ! la tesi di Delatte ([416]), che si serve delle pagine platoniche sull’entusiasmo per
colmare le lacune della teoria democritea – dovute alla mancanza di fonti – accomunan
do il pensiero dei due filosofi.
26 Vedi LANATA [316], .
27 Per questa lettura di kalÒj vedi , § 1.2. La stessa difficoltà nel tradurre il termine
secondo i diversi contesti mostra quanto il suo significato sia ampio e sfumato rispetto
agli equivalenti delle lingue moderne. Platone non nega mai che la poesia sia % , e am
mette che solo quella ispirata lo è; la combatte perché la ritiene pericolosa: il
suo non è un problema estetico.

214
tà le fonti ci dicono ben poco.28 L’ & e l’ & )
& di Cicerone non sono diversi dal met' ™nqousiasmoà kaˆ ƒeroà pne!
Úmatoj; il % o $ riecheggia l’¢gaqÕj poiht»j platonico
così come il kal¦ k£rta di Clemente Alessandrino non era che una va
riante del poll¦ kaˆ kal£. Va aggiunto che la testimonianza ciceroniana
è indiretta ( , ), e nulla sappiamo con certezza della sua attendi
bilità.29 I versi dell’ di Orazio, d’altro canto, sembrano quasi
citare un passo del , .30
Posto che i testimoni abbiano presente il testo platonico e non
quello democriteo, in qualche modo assimilato ad esso, restano di diffici
le interpretazione le versioni latine: l’ & è certo un effetto dell’i
spirazione, che non rivela nulla del suo processo; e se l’ & richiama lo
ƒeroà pneÚmatoj di Clemente, allora il ) & che lo specifica è vero
similmente traduzione di ™nqousiasmÒj. La resa italiana più corretta di
venta dunque «entusiasmo», non «follia», come si ritiene comunemente.31

28 ' Saepe enim audivi poetam bonum neminem (id quod a Democrito et
Platone in scriptis relictum esse dicunt) sine inflammatione animorum
existere posse et sine quodam adflatu quasi furoris.

Cic. . II 46, 194 (= Democr. 68 B 17a DK)

' ( Negat enim sine furore Democritus quemquam poetam magnum esse
posse, quod idem dicit Plato.

Cic. . I 38, 80 (= Democr. 68 B 17b DK)

' Ingenium misera quia fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone
poetas / Democritus etc.

Hor. 295 297 (= Democr. 68 B 17c DK)

Cfr. anche D.Chr. II 109, 21 (= Democr. 68 B 21 DK), dove entra in gioco la fÚsij;
Democr. 68 B 16 DK e D.L. IX 48 sull’attestazione degli interessi poetici del filosofo –
scrisse un’opera intitolata Perˆ poi»sioj.
29 Sembra, anzi, che Cicerone si riferisca a un’opinione tanto diffusa da essere ormai di

ventata una sorta di luogo comune sulla poesia.


30 * . 245a Öj d' ¨n ¥neu man…aj Mousîn ™pˆ poihtik¦j qÚraj ¢f…khtai, peisqeˆj æj
¥ra ™k tšcnhj ƒkanÕj poiht¾j ™sÒmenoj, ¢tel¾j aÙtÒj te kaˆ ¹ po…hsij ØpÕ tÁj tîn
mainomšnwn ¹ toà swfronoàntoj ºfan…sqh.
31 Marsilio Ficino ([24]) traduce le tre occorrenze di ™nqousi£zw dello rispettivamen
te con: & (preceduto da un , che rende il greco œnqeoj);
&& (yuc»... ™nqousi£zousa) e & .! LANATA [316] p. 255.
Che quel & , ripetuto dal & al rigo seguente, sia man…a o ™nqousiasmÒj, resta
comunque difficile stabilirne la valenza – positiva o negativa – al di fuori di un contesto.
Basti pensare al doppio uso di questi termini nel platonico; e in particolare al valo

215
! "" #

Nel passaggio dal greco al latino va persa la sfumatura del prefisso , e


con essa il valore passivo dell’entusiasmo nell’interpretazione religiosa32
dello . Di conseguenza l’italiano si trova nell’imbarazzo di scegliere se
restituire la valenza greca con parole come ‘indiato’ o ‘entusiasta’, oppure
seguire la direzione del lessico latino – dal processo agli effetti dell’i
spirazione – optando per ‘follia’, ‘furore’, ‘esaltazione’. In ogni caso, è ri
schioso fare affidamento sul latino, il cui & rende indistintamente sia
ousiasmÒj sia man…a, annullando la sensibilità del traduttore. È indica
to per dire a un tempo il processo e gli effetti dell’intervento divino –
come del resto il nostro ‘ispirazione’, ormai neutro.33
I passi sulla poetica preplatonica raccolti da G. Lanata mostrano in
modo chiaro come le riflessioni dei poeti stessi sull’arte di comporre ver
si siano attinte fin dalle origini omeriche a una fonte divina. Dall’
agli di Bacchilide, dèi e Muse intervengono sempre nell’attività dei
poeti di successo. Le differenze, dovute a un dibattito interno alle opere
poetiche che attraversa quattro secoli, benché significative in seno al di
battito, sono tuttavia trascurabili di fronte ad alcune costanti, che ci per
mettono di tracciare un’unica visione tradizionale della poesia. Vediamo
le.

(1) Innanzitutto, fin dall’inizio è chiaro che l’intervento divino non pregiudi
ca la partecipazione attiva del poeta alla creazione dell’opera. Per tradi
zione, i poeti sono lo strumento passivo degli dèi.

È la dea a cantare l’ira di Achille ( . I 1), e la Musa narra l’uomo politro


po, Odisseo ( . I 1); ma questo solo perché sono dèe, vale a dire esseri
superiori sempre presenti, che sanno ogni cosa ( . II 485 Øme‹j g¦r qea…
™ste, p£restš te, ‡ste te p£nta). L’invocazione contenuta nell’ dei
poemi omerici può essere fraintesa: il ruolo della divinità è quello di sup
plire a una mancanza dovuta ai limiti fisici dell’uomo, a un’impossibilità
umana del poeta, che ode solo la fama e nulla sa propriamente (486 ¹me‹j
d> klšoj o+on ¢koÚomen oÙdš ti ‡dmen); e ha una memoria finita, come è
proprio della sua natura mortale (487 492; cfr. p. es. Ibyc. fr. 1 P. [= .

re positivo che assumono nel , , in contrapposizione alla dura critica dello , dove
essere in preda all’entusiasmo equivale a uno stato passivo nel quale si è privati dell’in
telletto.
32 Sull’entusiasmo religioso vedi & , § 3.2.2.
33 Al contrario, per Platone la distinzione è sottile ma netta: l’entusiasmo è un tipo parti

colare di man…a ( * . 245a c, 259d ss.).

216
-. 1790]). Non si tratta di una sostituzione.34 Demodoco, l’aedo divino
( ‹on ¢oidÒn, . VIII 43), riceve dal dio il dono35 del canto (44 tîi g£r
]a qeÕj per… dîken ¢oid¾n), con la libertà di allietare gli uomini «come
l’animo suo lo spinge a cantare» (tšrpein Ópphi qumÕj ™potrÚnhisin
¢e…dein; cfr. . I 346 347, dove è detto lo stesso di Femio, qe‹on ¢oi!
dÒn). E ancora, canta il fato degli Achei kat¦ kÒsmon, lui stesso
fosse stato presente o ne avesse udito il racconto da un altro. Come se
fosse un dio o una Musa, dunque. L’aedo, l’unico poeta conosciuto dai
poemi omerici, è qe‹oj (cfr. . XVIII 604; . I 336; IV 17; VIII 87, 539;
XIII 27; XVI 252; XVII 359; XXIII 133, 143; XXIV 439)36 perché nella
sua attività poetica, compositiva e recitativa,37 si comporta come un dio;
ne eredita il successo e la conoscenza, come vedremo al punto seguente.
Il g£r di . VIII 44 spiega lo qe‹on ¢oidÒn precedente: Demodoco è di
vino (1) *. un dio gli ha concesso il canto, (2) && *. possa allietare gli
uomini Ópphi qumÕj ™potrÚnhisin ¢e…dein. L’uso del dono divino è in
qualche modo subordinato a una libera scelta del cantore che lo riceve
nell’esercizio della sua attività, per un fine preciso: tšrpein. Ricordiamo
che il qumÒj è la sede del pensiero (p. es. . I 193).38

34 ! LANATA [316], p. 2, a commento di . I 1: «Secondo la concezione omerica, il


poeta non è l’inventore della materia che narra [e fin qui potremmo almeno in parte
concordare], ma solo lo strumento, il ricevitore di ciò che gli detta una divinità, la Musa».
Smentisce . VIII 43 45. Se non altro, è d’obbligo una distinzione tra i due poemi. È
stata ipotizzata una fase arcaica, di cui nell’ troveremmo residui fissati nelle formule,
in cui davvero il dio era la mente che comunicava pensieri agli uomini attraverso la voce
umana, mero strumento passivo. L’ , con il mo… dell’ , e il passo dell’VIII libro
sopracitato, rappresenterebbe una successiva fase mista, di collaborazione; e la direzione
sarebbe dunque quella di una progressiva emancipazione del poeta dalla divinità, grazie
allo sviluppo di una tšcnh poetica (terza fase).
35 LANATA [316], pp. 7 8: «L’espressione qeîn dîron nella poesia epica non indica, come

il nostro “dono di natura”, qualche cosa che venga concessa all’uomo ed entri a far parte
della sua natura, ma è una specie di prestito su cui l’uomo non ha potere di scelta, e che
rimane sempre legato al donatore, che può riprenderlo ad ogni momento: cfr. ad es. G
165 s.». Tuttavia, nulla è detto sull’eventuale passività di chi riceve questo dono; al con
trario dell’™nqousiasmÒj, il dîron non implica l’annullamento delle facoltà mentali, ben
ché entrambi siano accomunati dallo stesso carattere intermittente. Vedi & , note 47,
49.
36 ! LANATA [316], pp. 6 7: «Attributo costante dell’aedo, che è qe‹oj perché ispira
to dal dio, perché una divinità interviene nell’atto della creazione poetica». Ma questa è
solo una parte della spiegazione. Cfr. le occorrenze della variante qšspij: . II 599 600;
. I 328, VIII 498, XVII 385. Divino è anche il canto, in quanto ha successo; vedi p.
es. il qšspin ¢oid»n di . I 328, che affascina i mortali.
37 In origine non vi è alcuna distinzione significativa tra i due aspetti. Vedi & , app. B.
38 Vedi comunque LANATA [316], p. 9: «QumÒj: non volizione razionale, ma piuttosto

stato di eccitazione psichica, trasporto passionale (J. Böhme, ' * *

217
! "" #

Fra le tracce dei canti – tutti quelli possibili – che l’aedo riceve dal
dio, è suo compito scegliere di volta in volta quale intonare; T macoj
pepnumšnoj lo ricorda a Penelope addolorata: Femio è libero di allietare il
suo pubblico come il cuore lo muove, senza alcuna responsabilità se pro
cura dolore a chi è troppo coinvolto nelle vicende cantate. Non dipende
da lui la sorte infelice dei Danai e di Odisseo; e non ha colpa né respon
sabilità (a‡tioj)39 nella scelta di questo tra tutti i racconti, perché compito
di un buon aedo è proporre il canto che sarà più celebrato dagli uomini,
vale a dire il più nuovo, il più originale, quello che nessuno o pochi han
no udito.40
L’ della # $ è ancora più esplicito: Esiodo, con una for
mula diversa, ma equivalente a quella omerica nel senso, invoca le Muse
per ringraziarle del canto % e che gli hanno «versato sulla lingua»
(vv. 183 184); un re che lo possieda è saggio (basilÁj ™cšfronej, 88),
perché «con facilità agli uomini offesi [lui stesso, in prima persona] re
stituire nell’adunanza i diritti, persuadendoli con miti parole» (trad. di G.
Lanata). Archiloco e Alcmane proseguono sulla stessa linea: e„mˆ d' ™gë...
(Archil. fr. 1 W. [= Ath. XIV 627c]), ™gën d' ¢e…dw / 'Agidîj tÕ fîj
(Alcm. fr. 3 C. [= . . E 3320]).41 Così anche la sfrhg…j di Teognide
( $. v. 19; cfr. 22 23: QeÚgnidÒj ™stin œph toà Megaršwj: p£ntaj d> kat'
¢nqrèpouj ÑnomastÒj); e Pindaro, che in canto l’ispirazione delle
Pieridi ( . VI 6 ¢o…dimon Pier…dwn prof£tan; cfr. il fr. 150 [= Eust.
. IX 45]).42 L’autonomia del poeta ne percorre l’opera con espressioni
come ™qšlw... gegwne‹n ( . IX 1 3), ™peÚxasqai ™gën ™qšlw (III 77), boÚ!

* , Berlin 1929, pp. 53 e 75 76). Il canto del poeta non è quindi strettamente
condizionato dal dîron del dio; ma, una volta ricevuto l’impulso dall’alto, il poeta può
seguire liberamente le sollecitazioni della propria volontà. La comunione col divino non
annulla la libertà del poeta, ma anzi la esalta [...]; e proprio quando, come i suoi eroi, en
tra in comunione con la divinità, il poeta omerico esprime più compiutamente se stesso.
Non c’è alcun bisogno di pensare – e in nessun luogo dei poemi omerici se ne trovano
tracce – a una dottrina dell’estasi o del poetico [...]: l’aedo omerico è ben conscio
del carattere * umano della creazione poetica».
39 «Fuori dal tempo il poeta è fuori dalla colpa [...]. L’aedo non serve interessi contingen

ti, non entra con una sua intenzione di colpire e ferire nelle vicende delle nostre passioni,
ma canta per dilettare» (LANATA [316], pp. 17 18).
40 Il canto che al momento riscuote il maggior successo, il canto , o come so
stiene Lanata «qualcosa di profondamente nuovo rispetto alla tradizione aedica prece
dente» ([316], p. 19)? Propenderei per la lettura platonica: nuovi canti, non un nuovo
modo di cantare ( . IV 424b c).
41 Cfr. ancora Solone (fr. 2 G. P. [= Plu. ' . VIII 2]), Saffo (fr. 160 L. P. [= Ath. XIII

571d]), Stesicoro (fr. 33 P. [= Ar. 775 ss.] Moàsa, sÝ m>n polšmouj ¢pwsamšna met'
™meà kle…ousa qeîn te g£mouj ¢ndrîn te da…taj kaˆ qal…aj mak£rwn).
42 Sulla collaborazione tra il poeta e il dio in Pindaro, vedi LANATA [316], p. 76.

218
omai (fr. 118 S. M.), ecc. Cfr. ancora ad es. . I 3 4; III 38; VII 20 21;
. VII 57 e particolarmente III 26 28 qumš, t…na prÕj ¢llodap¦n |
¥kran ™mÕn plÒon parame…beai; | A„akîi se famˆ gšnei te Mo‹san fšrein
(LANATA [316], p. 77).
Infine, Bacchilide «con l’aiuto delle Cariti altocinte ha tessuto un
inno» e a questo canto si aprono «infinite vie, in ogni direzione» ( . V
9 10; 184 186).

(2) In secondo luogo, il poeta merita il successo della sua opera, non solo in
virtù di una competenza tecnica affinata, bensì in quanto sapiente cono
scitore dei temi trattati.43

Già nei poemi omerici, all’ispirazione divina sono associati verbi di sape
re: agli aedi la Musa «insegna le storie» (o‡maj Moàs' ™d…daxe, . VIII
481; cfr. l’™d…daxe di 488), affinché possano cantarle fossero stati
presenti o ne avessero udito il racconto da altri. La Musa o il dio (Apollo
al v. 488) $ ai poeti qualcosa di invidiabile, qualcosa che procura lo
ro le più alte lodi e onori fra tutti i mortali, perché è una prerogativa di
vina conoscere ogni canto kat¦ kÒsmon (troppo – l…hn – per un uomo...).
Nessuno dubita che si tratti di un sapere; così Penelope è certa che Fe
mio molti canti (poll¦... o+daj, I 337), non che presti la voce
all’onniscienza di qualche dio; si rivolge all’aedo divino, non come a un
cantore ispirato, ma come a un artista al quale gli dèi hanno concesso in
dono di condividere un potere superiore. L’aedo partecipa della cono
scenza degli dèi, che diviene anche sua. Dei canti di cui dispone può fare
l’uso che sceglie il suo «cuore»: è lui – non il dio – a decidere quale into
nare e in che forma; da lui dipendono dunque sia la scelta del contenuto,
divino nella sua accuratezza,44 sia la configurazione del canto.45 Femio è

43 Cfr. DURANTE [347], [348]. La conoscenza fattuale dell’aedo omerico ovviamente non

è il tipo di conoscenza che Platone nega ai poeti; cfr. LEDBETTER [317], pp. 9 39.
44 Un canto è divino nel suo ordine, nella sua completa perfezione, senza lacune, prima

che senza errori. Cfr. Odisseo, che espone «con arte, come un aedo, il racconto» (màqon
d' æj Ót' ¢oidÕj ™pistamšnwj katšlexaj), perché dei versi con una forma (soˆ d' œpi m>n
morf¾ ™pšwn) non possono che essere il risultato di un sapere. L’ordine, la forma, la
completezza sono tali da conferire alle parole, al canto, al racconto parvenza di verità
(«non ci sembri davvero, guardandoti, un imbroglione e un bugiardo [™p…klopon, uno
che nasconde], come ne alleva tanti la terra nera, uomini sparsi in gran copia, costruttori
di storie false, che uno non riesce a vedere», . XI 363 369; trad. di G. A. Privitera). Ma
l’astuto Odisseo può mentire e nascondere – e lo fa – perché % un aedo, in virtù
dell’abilità di cantore, e invece è soltanto un uomo; e la sua intelligenza umana, benché
egregia (fršnej ™sqla…), non può fargli conoscere le tracce dei canti come se fosse

219
! "" #

Ùtod…daktoj proprio *. (così leggerei il dš di XX 347, con valore e


splicativo) il dio ha «connaturato nel suo animo storie di ogni genere»
(o‡maj panto…aj ™nšfusen); le trova dentro di sé, dunque, senza bisogno
di da qualcuno.46 Ovvero le impara da se stesso *. un dio
gliele ha insegnate; e l’insegnamento di un dio, come lascia intendere
l’™nšfusen, non può essere altro che un dono di natura, dal quale l’inse
gnamento in senso proprio – quello umano – rimane ben distinto.47

stato presente a ognuna delle vicende narrate, vale a dire come se fosse un dio (cfr. . II
485). La chiave è nel , dote naturale per l’aedo, astuzia e finzione per Odisseo.
45 ! LANATA [316], p. 14.
46 Sul rapporto tra qe…a mo‹ra e fÚsij in relazione all’ispirazione divina, vedi la nota se

guente.
47 Credo abbia lo stesso significato il fÚsei tinˆ kaˆ ™nqousi£zontej di . 22c, con la
differenza che Platone scinde l’intervento divino, separando l’insegnamento – ovvero il
dono di natura – dall’entusiasmo – l’ispirazione o invasione del dio, intermittente. Di
stinguerà poi, all’interno del , tra dono divino connaturato (p. es. una disposizione
naturale, indicata dalla parola fÚsij) e sorte assegnata (la qe…a mo‹ra, revocabile come il
qeîn dîron dell’epica). Il valore stesso del «dono di natura» sembra dunque mutare sen
sibilmente da Omero a Platone: l’™nšfusen di . XXII 347 non può che indicare un
dono divino revocabile, in linea con il significato del qeîn dîron. Diversamente, nel
platonico fÚsij e qe…a mo‹ra sono distinte in modo netto. La prima è costante, in
termini odierni diremmo che fa parte del patrimonio genetico; la seconda è revocabile,
soggetta a volontà divina. In senso lato, entrambe possono dirsi «dono divino», se ricon
dotte a una visione religiosa ( . materialista) del mondo – tesi platonica che rimane sullo
sfondo della sua opera: l’origine delle cose è divina, non procede dal caso.

oƒ qeo…

fÚsij qe…a mo‹ra ™nqousiasmÒj

costante revocabile improvviso e


intermittente

indica l’origine indica il processo


(da dove) (come)

La presenza di aÙtod…daktoj accanto a ™nšfusen è proprio la spia del valore che


si vuole dare al successo dell’aedo: benché nessuno ( . nessun essere umano) glielo ab

220
Nella # $ , le Muse Eliconie «camminavano nella notte, facen
do risuonare un canto stupendo» (vv. 9 10), finché un giorno lo insegna
rono a Esiodo (v. 22 † Ú ' `Hs…odon kal¾n ™d…daxan ¢oid»n), ovvero
gli ispirarono quel canto (v. 31 ™nšpneusan). Il passo conferma la compa
tibilità tra ispirazione e conoscenza.48 Divino nella sua completezza an
che il sapere poetico di Alcmane: o+da d' Ñrn…cwn nÒmwj p£ntwn (Alcm.
fr. 140 C. = Ath. IX 374d). Commenta Lanata ([316], p. 43): «[il termine
nÒmwj] è scientificamente esatto, perché indica le melodie particolari di
ogni uccello, anzi delle singole specie di uccelli che sono immutabili,
giacché gli uccelli cantano sempre allo stesso modo». E Solone è «un al
tro cui le Muse Olimpie insegnarono i loro doni [¥lloj 'Olumpi£dwn
Mousšwn p£ra dîra didacqe…j, 13.51 West]» (cfr. il v. seguente: ƒmertÁj
sof…hj mštron ™pist£menoj, e il fr. 3 G. P. v. 30 (= D. & $ . 255): il
poeta che riceve l’insegnamento divino può diventare a sua volta did£!
skaloj). Ancora, «chi è ministro [qer£ponta] e messaggero [¥ggelon] del
le Muse possiede», nei versi di Teognide, «una qualche eccezionale cono
scenza della poesia» (e„de…h sof…hj, I 769 772). Qer£pwn, per la prima
volta in Archiloco (fr. 1.1 Diehl), indica l’origine (non l’intero carattere –
Lanata [316], p. 64) soprannaturale della poesia, il contenuto
dei canti garantito dalla memoria infallibile di un dio; ¥ggeloj insiste

bia insegnato, il suo è un sapere che in virtù del carattere speciale dell’insegnamento di
vino non si differenzia da ciò che noi diciamo un talento o una dote naturale. Niente di
più lontano da una possessione divina che non è possibile controllare. Dono di natura è
il sapere stesso; dunque l’aedo non può che averlo appreso da sé, attingendo alla propria
mente come a una fonte, vale a dire imparando ciò che sa già. Analogo il sapere che So
crate ed Eraclito derivano solo da se stessi; cfr. Pl. #* . 180b, 198e; Heraclit. 22 B 101
DK; D.L. IX 5; Epicur. fr. 123 U.; '/ [472] H 471.1. In particolare, Socrate rinnova il
motivo dell’aÙtod…daktoj aggiungendo una terza possibilità conoscitiva: si conosce qual
cosa per averlo appreso da qualcuno, in seguito a una scoperta personale o come risulta
to di una scepsi comune.
48 ‘Insegnare’ è senz’altro un verbo di sapere, e presuppone l’esercizio delle facoltà men

tali tanto di chi insegna quanto di chi apprende; è infatti un verbo di successo: propria
mente non si può insegnare altro che ciò di cui si ha conoscenza; e se qualcuno insegna
qualcosa, allora qualcun altro deve apprenderla, vale a dire l’effetto è la trasmissione di
un sapere, o quanto meno di una verità: non si può insegnare qualcosa di falso, ma si
può insegnare il falso, e secondo Aristotele Omero ne è maestro ( . 24, 1460a18
ss.). Platone ritiene, al contrario, che le menzogne di Omero ed Esiodo siano non solo
tra i più gravi miti falsi, perché riguardano argomenti della massima importanza, ma an
che % (kaˆ ™£n tij m¾ kalîj yeÚdhtai); e nega così l’abilità di Omero nel mentire:
le sue rappresentazioni non sono verosimili ( . II 377d 378e).
Sul rapporto tra verità e conoscenza tra l’età arcaica e il IV secolo, vedi & , §
3.1.2.

221
! "" #

sul compito del poeta di condividere questa conoscenza con gli altri uo
mini.
Pindaro non potrebbe essere più esplicito: i poeti sono ¢gaqoˆ kaˆ
sofo…, per concessione delle Muse.49

(3) Infine, la poesia, da Omero a Pindaro, ha successo, anche quando


è menzognera.

Nel dibattito tra l’VIII e il VI secolo gli effetti sul pubblico sono pro
gressivamente giudicati negativi. Già a partire da Esiodo, i due temi in
trecciati del vero e del falso, e del potere positivo o negativo che i poeti
esercitano sul pubblico, vengono trattati con urgenza. L’esame dei testi
omerici non sembra coinvolgere la natura divina della poesia, o mettere
in discussione lo epistemico degli autori; ciò che i poeti stessi av
vertono come un problema è il valore di verità della loro opera in rap
porto agli effetti su un uditorio. Si tratta dunque di un problema etico,
non gnoseologico.
Punto di partenza, i poemi omerici. La perfezione degli dèi, come
abbiamo visto, non è da ricercare nel dire sempre il vero, bensì nella loro
% 0 di dire il falso, e di dirlo bene. Gli dèi sanno mentire abilmente,
con successo, se vogliono; basti pensare al sogno ingannatore nel secon
do libro dell’ . L’aedo dunque è divino perché canta con precisione e
in modo compiuto le molte vicende degli uomini – verosimilmente an
che con verità; con la verità e la precisione di molti testimoni oculari o di
una mente onnisciente come quella di un dio.50 Odisseo è simile a un ae
do per la perfezione e l’ordine dei suoi racconti, in virtù dell’abilità di
cantore. Non sembra mentire, eppure lo fa. Sospetto che, come le Muse
di Esiodo, possa mentire così bene perché conosce la verità completa,
perché ha vissuto in prima persona le vicende che narra. La sua è men
zogna, non ignoranza; rimane, dietro le sue parole, un sapere in qualche
modo , come quello di un aedo. Così, commenta Lanata ([526], p.
48), «la poesia non è menzognera in sé e in ogni caso» (Solone la defini

49Un nuovo riferimento alla fÚsij nella prima : ™k qeîn g¦r macanaˆ p©sai bro!
tšaij ¢reta‹j,| kaˆ sofoˆ kaˆ cersˆ biataˆ per…glwsso… t' œfun (vv. 41 42). E in . II
85 sofÕj Ð poll¦ e„dëj fu©i, non chi ha imparato (maqÒntej); è chiaro che l’ $
divino è ancora una volta , ed è «insegnamento» in un senso per noi improprio.
Sul problema del vero e del falso poetico in Pindaro, vedi LANATA [316], pp. 93 94.
50 Ma è sufficiente che sia con verosimiglianza che i poeti cantano le loro storie. La vero

simiglianza è tale in tutta la sua forza quando raggiunge la compiutezza della verità – e
allora è forse impossibile smascherarla, se falsa. Questo il caso di Odisseo politropo.

222
sce ƒmert¾ sof…h), ma «i poeti possono mentire poll£» (cfr. Hes. #*. 27
yeÚdea poll£). Dunque il problema è etico.
In origine, gli effetti della poesia sono positivi.51 Scopo dell’aedo è
tšrpein (prima occorrenza in . VIII 45), compito che non fallisce mai
– altro beneficio di cui gode la poesia in virtù dell’origine divina. I suoi
canti «affascinano i mortali» (brotîn qelkt»ria, I 337; cfr. il v. 347), così
come le Muse stesse, con i loro inni, «allietano» (tšrpousi) il cuore di
Zeus (Hes. #*. 37). E i re che hanno il dono delle dolci parole placano gli
animi con la persuasione (malako‹si paraif£menoi ™pšessin).52 Un pote
re incantatorio, dunque, che affascina a fini benefici: alleviare dolori e
sofferenza distraendo (vv. 53 55; 98 103 – ma è già in Omero),53 o cal
mare ire, ingiustizie e insoddisfazioni (vv. 80 ss.); una forza che ottiene il
rispetto dovuto agli dèi (vv. 91 92).
Secondo potere della poesia, quello di rendere eterna la fama di
coloro che celebra, «anche in futuro [...] oggetto di canto per gli uomini a
venire» ( . VI 357 358). Lo stesso F»mioj è aedo famoso – nel nome – e
insieme polÚfhmoj ( . XXII 376); è «colui che conserva, per il diletto
degli uomini, la f»mh del klšoj che sopravvive eternamente nel canto»
(LANATA [316], p. 15).54 «Il grande ardire è avvolto di molta tenebra se
manca degl’inni» (Pi. . VII 13 14). In negativo, si veda il frammento 55
L. P. di Saffo (= Stob. IV 12): «Tu morta giacerai, e mai ricordo di te vi
sarà neppure in futuro, perché non hai parte delle rose della Pieria; ma
anche nella casa di Ade ignota ti aggirerai volando tra gli oscuri morti»
(trad. Lanata, rivista). Con Teognide, infine, la fama è anche dell’aedo,
p£ntaj d> kat' ¢nqrèpouj ÑnomastÒj (vv. 22 23).
Se Esiodo per primo pone il problema del vero e del falso, in po
lemica con il testo omerico, è Pindaro a connotarlo di una sfumatura eti
ca:

' [...] ™gë d> plšon' œlpomai


20 lÒgon 'Odussšoj À p£qan
di¦ tÕn ¡duepÁ genšsq' “Omhron:

51 Le lacrime di Penelope non sono causate da Femio, ma da Zeus; non dal canto, ma da
1 * esso narra.
52 È importante questo legame tra poesia e retorica, che condividono il potere di affasci

nare l’uditorio. Del resto, già nell’ l’oratore è simile all’aedo (IX 363 369), e nell’
le parole di Odisseo «come fiocchi di neve» incantano l’assemblea degli Achei (III
216 224). Vedi & , § 3.2.1.
53 . VIII 45. Cfr. Archil. fr. 253 W. (= Phld. " . 44 van Krevelen) kel[e‹]tai d' Ð!
tij[™stˆ]n ¢oida‹j; Alcm. fr. 84 C. (= Syrian. + $. I 61, 14 R.); Sol. fr. 24 G. P.;
Sapph. fr. 160 L. P. (= Ath. XIII 571d).
54 Vedi anche Ibyc. fr. 1 P. (= . -. vv. 46 ss.)

223
! "" #

ˆ yeÚdes… oƒ potan´ <te> macan´


semnÕn œpest… ti: sof…a
d> klšptei par£goisa mÚqoij. tuflÕn d' œcei
Ãtor Ómiloj ¢ndrîn Ð ple‹stoj.

. VII 19 25

Gli effetti della poesia conservano il successo, ora avvertito come un pe


ricolo: gli uomini rischiano l’inganno di parole false. Potere degli aedi è
travolgere il cuore cieco della folla, persuadendolo a credere il falso; peri
colo per gli uomini il contenuto dei canti, il cui valore di verità inganne
vole rimane nascosto nei dolci versi.
Sono molto più complesse e sfumate le osservazioni di poetica
contenute nelle opere letterarie dell’antichità, dall’epica alla lirica. Uno
studio approfondito, tuttavia, si allontanerebbe dallo scopo di questo
commento e, credo, non modificherebbe nella sostanza quelli che ho in
dicato come elementi costanti della poesia tradizionale. Il dibattito dei
poeti, che per primi riflettono sulla propria opera, nasce come critica più
o meno esplicita dei poemi omerici; una critica che si muove apparente
mente in due direzioni diverse: da un lato il problema del vero e del fal
so, dall’altro la dÚnamij poetica e i suoi effetti di sulle emozioni di
un uditorio. In realtà, abbiamo visto, non sono che due aspetti di uno
stesso problema: il vero e il falso in poesia assumono importanza in virtù
della forza irrazionale che la rende potente e pericolosa.
Di questi stessi aspetti sembra occuparsi la critica di retori, sofisti e
filosofi, da Teagene di Reggio (in part. *. ) . XX 67) a Platone; dal
progetto di Senofane che propone una nuova «poesia filosofica» sulle vir
tù ( . le inutili battaglie e finzioni degli antichi – 21 B 1 2 DK = [Ath. IX
462f; X 414a]), alla polemica di Eraclito: il filosofo si rivolge con pungen
te ironia a un Omero sofèteroj, che trae in inganno gli uomini sulla co
noscenza delle cose evidenti (22 A 56 DK [= Hippol. IX 9]). Infine di
stingue i colti dai sofo… (polumaq…h nÒon œcein oÙ did£skei, B 40 DK [=
D.L. IX 1]), annoverando tra i primi lo stesso Esiodo; e anticipa così la
posizione che Socrate assumerà nel platonico: «Qual è infatti la lo
ro intelligenza [nÒoj] e la loro capacità di giudizio [fr»n]? Si lasciano in
cantare dagli aedi popolari [d»mwn ¢oido‹si pe…qontai] e prendono a mae
stra la folla, senza sapere che “i molti sono dappoco, solo i pochi valgo
no” [oƒ polloˆ kako…, Ñl…goi d> ¢gaqo…]» (22 B 104 DK [= Procl. .
525, 21]; trad. Lanata). Dunque, accanto a una visione tradizionale del
poeta sofÒj, comincia a imporsi tra i pensatori un nuovo atteggiamento
critico: accumulare informazioni, anche vere, non è sufficiente per essere

224
sapienti: intelligenza e capacità di giudizio sono avvertite come qualcosa
di sensibilmente diverso.
Platone fa confluire nelle pagine dei suoi dialoghi le diverse sugge
stioni di questo dibattito allargato sulla poetica: il problema della cono
scenza è tanto più urgente quanto più viene distorto dalla tradizione, ra
dicata nelle menti dei Greci; e, naturalmente, a causa del potere irraziona
le di persuasione e incantamento che i oi poetici vantano da sempre.
Bastano le poche parole dei frammenti, strappate al contesto, per capire
qual è lo sfondo sul quale si muove la critica platonica, per sentire gli echi
delle analogie e del lessico divino di cui fa uso. Nelle pagine centrali dello
, i poeti ispirati sono paragonati ai crhsmJdo… e ai m£nteij divini, di
cui Platone si interessa ancora in . 22c e " . 99d – & , § 3.2.1. E se
per noi lettori moderni è chiaro il senso dell’analogia, altrettanto chiara
doveva esserne la polemica con la tradizione per il lettore del V/IV seco
lo. Una testimonianza su Epimenide, breve ma significativa, si riferisce
all’™nqousiastik¾n kaˆ telestik¾n sof…an (3 A 4 DK [= fr. 3b, 457, T.
40.17 Jacoby]). E frequenti, oltre che antichi, sono gli accostamenti tra
poesia e mantica, da Esiodo (#*. 36 39, «dove il v. 38 è una variante
formulare di . I 70, riferito alle attitudini profetiche di Calcante», VE
LARDI [1144], p. 109, nota 41) a Pindaro ( . VI 6, fr. 150 S. M.), a Bac
chilide ( . IX 3).55 Dunque è comprensibile che Ione non consideri
entusiasmo e conoscenza come due termini contraddittori, in virtù
dell’accostamento tra parole poetiche e divine ( & , § 3.1.1).
Platone attinge al repertorio tradizionale anche per il lessico divino
e le immagini rappresentative del poeta e della sua opera. Tutti i termini
della lunga e articolata similitudine, dal Magnete ai Coribanti, sono ben
noti ai suoi contemporanei.56 Aristofane ha rappresentato il noàj di Eu
ripide trascinato fuori dal corpo in cerca di versi ( *. 395 400), e famosa

55 Come osserva Velardi ([446], p. 109, nota 42), questi versi sono significativi fra i tanti
perché i due poeti si riferiscono in modo esplicito a se stessi come indovini o profeti.
56 «Tutto il discorso centrale dello utilizza dati culturali noti e familiari per arrivare
all’elaborazione di contenuti nuovi» (VELARDI [446], p. 106). Cfr. le note alla trad. su
Coribanti e Baccanti. Su miele e latte come contenuto poetico vedi p. es. E. 2 . 142 143
e Aeschin.Socr. fr. 11c D.; sul miele e la parola, . I 247 249, . XII 187, *. XI 18,
*. . III 518 519, Hes. #*. 83 84, ecc. (VELARDI [446], p. 107, nota 33); sul miele sim
bolo della poesia, Pi. . VII 7 9, . III 76 78 (miele e latte, come in Platone, Euripide e
Bacchilide – . III 97 ss.), . VI 58 59. Sulle api, si vedano i versi 748 750 e 1373
1374 degli / di Aristofane; e ancora . 1299 1300 e fr. 581 K. A. Le api sono sim
bolo del poeta in B. . X 10 e della poesia in Pi. . X 53 54. Per l’associazione tra
miele, api e divinazione, anch’essa antica: *. + . IV 526 568, Pi. . IV 59 60, . VI 45
47, Plu. - *. . 402d. Confronta ancora le note 37 e 38 e le pagine 109 111 dello
studio di Velardi.

225
! "" #

è la sua parodia dei poeti ditirambici che «volano nell’aria per acchiappa
re preludi» ( 827 831). E cosa dire di Socrate, sospeso a mezz’aria
nelle ? Dunque anche i termini negativi, come œkfrwn, apparten
gono in qualche modo a un patrimonio culturale comune ai Greci del V
secolo, e il lessico dello non stupisce il rapsodo, che in un primo
tempo acconsente entusiasta. Si riconosce nell’immagine del poeta tradi
zionale, di un poeta oggetto delle parodie della commedia, che ne accre
scono la fama e ne confermano il ruolo d’autorità, più che minarne
l’immagine. Ione tutto questo lo sa bene. La «sensazione di un’atmosfera
nota e familiare» prodotta dal riuso platonico di un materiale di tradizio
ne e dai suoi echi linguistici non è un modo per confondere l’interlocu
tore ingenuo, come sembra credere Velardi ([446], p. 110). Al contrario,
il rapporto di Platone con la tradizione poetica è senz’altro di dichiarata
rottura. È ovvio che non possa evitare di riferirsi a essa, soprattutto se
consideriamo che sta discutendo con uno dei suoi massimi rappresentan
ti: il più famoso dei rapsodi omerici! Inoltre, e questa credo sia la ragione
fondamentale, non può non farvi riferimento, perché scopo di queste
pagine di critica è mostrare ai contemporanei, e ai futuri giovani allievi
della sua filosofia, come le metafore e gli attributi divini che caratterizza
no i poeti siano vuoti di significato, accolti per veri senza giudizio; come
anche solo restituendo a queste parole il significato etimologico, l’imma
gine tradizionale della poesia sia destinata a sfaldarsi lentamente. Quello
di Socrate sembra un gioco linguistico che ammicca al lettore, antico e
moderno, ma le pagine poetiche che lo contengono sono tutt’altro che
«leggere», come illustri interpreti le hanno giudicate.57 Ciò che Platone
mostra nel dialogo è lo scarto netto tra il filosofo e il rapsodo della tradi
zione, uno scarto che vuole rappresentare incolmabile: non è per inge
nuità o stupidità che Ione non riesce a seguire il ragionamento socratico.
La sua è più di un’incapacità dovuta alla mancanza di doti intellettuali, è
una vera impossibilità.58

57 Quando Socrate attribuisce ai poeti stessi le parole che li condannano al ruolo di


strumenti passivi ( 534a), da un lato cogliamo l’ironia con la quale è solito prendere le
distanze da luoghi comuni e opinioni dei più; ma dall’altro non possiamo che leggere
una verità nelle sue parole, e Ione con noi. Come abbiamo visto, è vero che i poeti si
descrivono alati, intenti ad attingere miele a una fonte divina, ministri degli dèi presso gli
uomini. Quello che non credono vero è ciò che si nasconde dietro le metafore di cui
fanno uso, e che Platone intende smascherare; vale a dire che gli uomini possono essere
divini in due sensi: in virtù del loro intelletto, o perché posseduti, come gli oracoli. Dun
que se non sanno dimostrare di essere sapienti, la loro divinità è passiva: non sono
dèi, bensì % un dio che li priva dell’aspetto più divino della loro umanità.
58 Ne vedremo le ragioni nel § 3.2.1.

226
Sono quindi chiare le ragioni dell’entusiasmo di Ione di fronte alle
parole poetiche pronunciate da Socrate. Vediamo ora le ragioni del suo
dissenso finale. L’esposizione della seconda parte dell’analogia si distin
gue perché completa la catena magnetica inserendovi l’anello di chiusura:
il pubblico. Inoltre, l’attenzione scende dal primo (il poeta) al secondo (il
rapsodo), l’anello centrale.59 E per finire, Socrate sposta l’accento dall’en
tusiasmo di Ione declamatore di versi allo stato mentale dell’ .
Con il mainÒmenoj di 536d6, unica occorrenza nel dialogo, Ione finalmen
te capisce il senso delle parole socratiche, che non è più quello tradizio
nale e d’uso comune. Benché dall’inizio dell’analogia Socrate si rivolga sia
all’aspetto recitativo sia a quello elogiativo, è soltanto qui, in conclusione,
che isola il secondo. La reazione del rapsodo è immediata. Ione natural
mente conosce il significato comune di parole come katecÒmenoj; e ac
cetta con orgoglio di essere fuori di sé quando recita Omero, perché se
ne attribuisce il merito: l’immedesimazione, le lacrime, il * sono
l’effetto di un’abilità, di una tecnica esperta – come è subito chiaro dalla
rivelazione del suo lato , di interesse al guadagno; e come sarà opi
nione condivisa a partire da Aristotele.60 Ma quando il katecÒmenoj è ri
ferito al suo lšgein per…, Ione subito lo associa alla follia, all’irrazionalità,
alla perdita di controllo; e nella risposta lo rifiuta affiancandolo a un chia
ro mainÒmenoj. Nessun dubbio sul valore negativo della man…a in queste
parole: è la follia propria delle bestie che il , contrappone all’entusia
smo divino.
Infine, la lingua stessa in cui il dialogo è scritto – il greco letterario
che imita il parlare comune – contiene tracce del legame semantico tra i
nuclei dell’etica, del sapere e dell’irrazionale; quello stesso legame che
abbiamo ricostruito da un’analisi delle fonti antiche è visibile nel luogo
più insospettato: Platone non può opporsi alla tradizione se non usando
ne il linguaggio, dall’interno dunque. Non ogni parola può essere con
trollata, i significati filosofici che Socrate attribuisce ad alcuni termini,
forzandoli, vanno infine inseriti in una lingua condivisa dal lettore.
A 535d e lo scambio di battuta tra Socrate e Ione merita di essere
osservato più da vicino: alla domanda «Tu [o+sqa; cfr. 535e7] che voi
rapsodi producete anche sulla maggior parte degli spettatori questi stessi
effetti?», il rapsodo risponde «Lo so [o+da], e molto bene». Quanto segue
è il famoso passo sull’atteggiamento ipocrita della recitazione: se il pub
blico piange, Ione riderà per il guadagno di un buon lavoro; se al contra

59L’anello intermedio ( & , § 3.2.1).


60L’entusiasmo è uno appropriato alla poesia: œnqeon g¦r ¹ po…hsij ( *. III 7,
1408b19 ss.).

227
! "" #

rio il pubblico ride ( . ride di lui, della sua incapacità di attore), allora
sarà lui a versare lacrime per il guadagno mancato. L’espressione comune
ˆ m£la kalîj o+da, in risposta all’o+sqa socratico, è rinforzata dal se
guente tÕn noàn prosšcein, tanto comune da essere considerato frase fat
ta. Che il greco antico, come le lingue moderne, per esempio l’italiano,
non conosca altro modo per dirlo non è casuale. Se il rapsodo quali
sono gli effetti della sua recitazione sul pubblico e impegna il suo noàj
per appurarli, allora è difficile anche per noi credere che sia folle e posse
duto... Eppure sarebbe un errore voler leggere in queste parole più di
quanto esse dicono, semplicemente perché non possono fare altrimenti.
Socrate e Ione «non hanno altro modo per dirlo», alla lettera: l’o+sqa del
filosofo non concede nulla all’interlocutore, così come con il tÕn noàn
prosšcein il rapsodo non si accorge di contraddire la tesi socratica; di più:
1 farlo, non sarebbe sufficiente. Queste parole d’uso irriflesso non
possono entrare nell’argomentazione senza divenire oggetto d’analisi; e
tuttavia non possono nemmeno esserne escluse, pena la mancata com
prensione del dialogo. In virtù di questo loro statuto intermedio esse so
no una spia attendibile dei movimenti della lingua, dei suoi pregiudizi
semantici, di quel lato cristallizzato dall’uso che Platone si impegna a
sgretolare, per riportarne in vita ogni singola parte.
Il dialogo è pieno di simili spie linguistiche, evidenti soprattutto
nella sezione centrale, perché è qui che Ione si allontana irrimediabilmen
te dalla posizione socratica, muovendosi come su una strada parallela; ed
è sempre qui che Platone mostra l’impossibilità di stabilire un contatto,
nonostante la lingua comune, che invece di unire separa. I poeti ispirati
sono ¢gaqo… anche per bocca di Socrate, perché il greco non gli viene in
aiuto quando vuole distinguere il successo della tšcnh da quello dell’ispi
razione. Restano ¢gaqo… come le loro opere sono kal£, chiunque ne ab
bia il merito – uomo o dio. Ancora, nell’ Ione è qe‹oj m¾ tecnikÒj,
perché qui conduce l’argomentazione filosofica; ma nel proemio Omero
era qeiÒtatoj secondo tradizione.61
Per concludere, la lingua comune in cui è scritta l’analogia del Ma
gnete lascia intravedere l’intersezione fra i tre nuclei semantici: Ione ac
cetta con entusiasmo le parole divine che Socrate gli attribuisce, perché
per tradizione i poeti divini sono ¢gaqoˆ kaˆ sofo…. E il rapsodo non
negherà mai, fino alle estreme conseguenze filosofiche, di essere qe‹oj.62

61 Anche se forse lo è con orgoglio per Ione, con ironia per Socrate.
62 Sull’uso irriflesso della lingua, vedi le sezioni intitolate / nell’appendice D.

228
"* + ,- .

Riassumendo quanto detto nel paragrafo precedente, possiamo conclu


dere che la poesia, divina per tradizione, è giudicata dai poeti una forma
di sapere che ha successo. L’origine divina garantisce la sof…a del poeta e
gli effetti positivi della sua opera: questo è quanto giunge da Omero fino
a Ione . Non dobbiamo dimenticare che per un rapsodo
omerico la tradizione 1 essere diversa; è inevitabile che Ione non
dia la dovuta importanza al dibattito interno tra poeti, assumendo in mo
do incondizionato la difesa di Omero. E del resto i Greci hanno formato
le proprie menti seguendo, dall’infanzia, lo stile di pensiero e gli inse
gnamenti morali contenuti nell’epica.63
È dunque su questi aspetti che si concentra la critica platonica, nel
lo come nel resto del . Un luogo, in particolare, merita di essere
ricordato, per il legame tra l’antica visione poetica e le novità filosofiche
di Platone.

'/0 AQ. PalaiÕj màqoj, ð nomoqšta, ØpÒ te aÙtîn ¹mîn ¢eˆ legÒme!
nÒj ™stin kaˆ to‹j ¥lloij p©sin sundedogmšnoj, Óti poiht»j,
ÐpÒtan ™n tù tr…podi tÁj MoÚshj kaq…zhtai, tÒte oÙk œm!
frwn ™st…n, oŒon d> kr»nh tij tÕ ™piÕn ]e‹n ˜to…mwj ™´,
kaˆ
tÁj tšcnhj oÜshj mim»sewj ¢nagk£zetai, ™nant…wj ¢ll»loij
¢nqrèpouj poiîn diatiqemšnouj, ™nant…a lšgein aØtù pol!
l£kij, o+den d> oÜt' e„ taàta oÜt' e„ q£tera ¢lhqÁ tîn le!
gomšnwn.

$. IV 719c d1

Il passo è controverso, per la difficoltà di rintracciare nelle fonti l’«antico


mito». Se consideriamo l’intera sezione c, in effetti il «mito» ci appare
quanto di più estraneo alla tradizione si possa rintracciare nel testo plato
nico. Questo mi sembra chiaro dall’analisi dei paragrafi precedenti. Tut
tavia, le parole platoniche devono avere un senso, comprensibile quanto
meno al destinatario reale della sua opera: il mito è antico, dobbiamo
crederlo. Si tratta ora di capire in cosa consista esattamente, e perché il
passo suoni a noi così stonato; per questo propongo la divisione
che, per chiarezza, ho indicato in '/0. Innanzitutto, in contesto poetico,
màqoj è di certo usato con accezione negativa; e dubito che Platone defi
nirebbe una & – dunque qualcosa di essenzialmente falso – la propria
critica della poesia. In secondo luogo, la semplice del poeta i

63 Vedi , § 1.2, e & , § 3.2.1.

229
! "" #

spirato (da P Õj màqoj fino a ™´) non si allontana poi tanto dalle im
magini tradizionali viste fin qui, e solo modificate dalla sensibilità filoso
fica di Platone. È naturale che un filosofo in atteggiamento critico usi pa
role diverse da quelle che sceglierebbe il poeta in difesa del suo ruolo (la
tradizione è sempre rielaborata); e tuttavia, l’immagine platonica resta ri
conoscibile – Clinia non interrompe la narrazione dell’Ateniese: il mito è
conosciuto (¢eˆ legÒmenÒj ™stin) e condiviso (to‹j ¥lloij p©sin sunde!
dogmšnoj).
Il poeta sul tripode della Musa è l’aedo ispirato, amato dagli dèi,
quello stesso aedo cinto d’alloro prima che possa ricevere il canto divino
(Hes. #*. 30 31); è l’immagine del rapporto privilegiato, dell’investitura,
della consegna di un potere superiore. Quanto al lessico, anch’esso è lo
stesso delle origini: l’aedo che «come una fonte lascia scorrere ciò che gli
affluisce» riecheggia luoghi famosi. In un celebre passo della # $ , le
Muse versano sulla lingua del prescelto una dolce rugiada «e dalle sue
labbra le parole scorrono dolci come miele» (vv. 84 85); e ancora, è «feli
ce chi è amato da esse: dolce dalla sua bocca scorre la voce» (vv. 96 97).
La metafora del fluire torna poi con una variante in Pi. . VI 58 59 œ!
ra[tai] dš moi | glîssa mšlitoj ¥witon glukÝn, e nelle «correnti delle
Muse» di . VII 12 13. Infine, per quanto riguarda l’uso di oÙk œmfrwn,
abbiamo già visto come lo stesso Ione non ne sia particolarmente colpi
to; anzi, il rapsodo giudica con orgoglio lo stato mentale alterato, parte
essenziale della sua abilità recitativa.
C’è dunque una trasmissione, una sorta di versamento di contenuti
veri dal dio all’aedo nell’età arcaica, e questa immagine sopravvive nella
visione tradizionale della poesia. Conoscenza e verità sono un’unica cosa,
un dono divino di cui il poeta prescelto può disporre a sua discrezione. E
il fluire di questa conoscenza non comporta l’annullamento delle facoltà
mentali, se non per l’abile tecnica di un attore. Nei poemi omerici i con
tenuti trasmessi sono veri, nella # $ di Esiodo possono talvolta esse
re falsi. Per Platone, veri o falsi che siano,64 sono comunque destinati ad
alterarsi nel passaggio allo strumento umano, imperfetto.
Se leggiamo oltre l’aspetto mimetico trattato nelle $$ e in alcuni
luoghi della %% ,65 possiamo capire perché le falsità poetiche diven
tino oggetto dell’aspra critica platonica. Innanzitutto, sappiamo già dallo
in cosa consistono: l’aedo, immedesimandosi in ognuno dei perso
naggi di un poema, si trova a dire cose incompatibili, talvolta persino
contraddittorie. Dunque di queste affermazioni, alcune saranno vere, al

64 Presumibilmente veri, in virtù dell’origine divina.


65 Si vedano in particolare . III 396c ss. e X 599c ss.

230
tre false. Platone le condanna tutte senza distinzione, a causa del potere
dei oi poetici; qualunque sia il valore di verità dei contenu
ti, né l’aedo né il suo pubblico sapranno giudicarlo, perché le loro menti
subiranno il fascino ipnotico del , che addormenta le facoltà intellet
tive. Con Platone cambia sensibilmente il concetto di sapere. Prima della
figura di Socrate e dell’attività filosofica che nasce con lui, conoscenza e
opinione vera si distinguevano solo per completezza e ricchezza di parti
colari – la perfezione del kat¦ kÒsmon garantita dalla provenienza divina.
Socrate separa le informazioni vere dal sapere connesso, restringendo di
conseguenza il campo semantico di sofÒj – lo ne è un chiaro esem
pio.66
Altro caso di immagine tradizionale rielaborata, il paragone tra
Musa e Magnete. Come osserva Velardi ([1144], p. 100), l’attenzione dei
Greci al fenomeno del magnetismo risale al VI secolo (vedi Arist. .
I 2, 405a20),67 dunque fa parte di un patrimonio culturale comune. Per
quanto riguarda il rapporto con la poesia, sembra invece che si tratti di
un parallelo filosofico. Quale filosofo ne sia la fonte è questione dibattu
ta; sono almeno tre le tesi al riguardo: Delatte ([416]) giudica la pagina
dello sulla catena magnetica uno sviluppo della teoria delle sensazio
ni di Democrito, e la usa per integrare le poche notizie che abbiamo sulla
tesi democritea. Flashar ([25], pp. 55 ss.) ritiene invece che l’immagine sia
stata suggerita a Platone da un passo euripideo (fr. 567 N.2 t¦j brotîn |
gnèmaj skopîn éste MagnÁtij l…qoj | t¾n dÒxan ›kei kaˆ meq…hsin p£!
lin). Infine, Velardi ([446], p. 101), che legge entrambi, assume una posi
zione più cauta: «L’ipotesi più probabile è che Platone, verosimilmente a
conoscenza del trattato democriteo, attingesse a un 3 ormai ben atte
stato sia nella letteratura scientifica che nell’immaginario collettivo». Cre
do che questa sia senz’altro la posizione più plausibile, tutto quanto pos
siamo dire di vero in base alle poche fonti disponibili. Non condivido,
invece, la conclusione di Velardi: «In ogni caso non sembra che si possa
no nutrire dubbi sulla paternità platonica del paragone tra poesia e ma
gnetismo». I versi di Euripide, che lui stesso cita, ne sono un controe
sempio: al potere di attrazione della calamita è paragonato il potere di at
trazione delle opinioni umane. Vedremo come questo faccia parte del
potere più generale della , nel senso lato di cui abbiamo detto com
mentando la traduzione, e di cui ci occuperemo ancora nel § 3.2.1.

66Vedi il commento delle parti dialettiche (cap. 2).


67 Le fonti principali sono: Emp. 31 A 89 DK, Diog.Apoll. 64 A 33 DK e le testimo
nianze sul Perˆ tÁj l…qou di Democrito: 68 B 11k DK, confrontato con A 165 (= A
lex.Aphr. 4 . II 23).

231
! "" #

Torniamo infine all’analogia del Magnete nella formulazione pla


tonica. In primo luogo, mi sembra che l’aspetto originale non sia da ri
cercare nel paragone tra poesia e magnetismo, bensì nell’uso che Platone
ne fa per giustificare il valore passivo del legame tra poesia ed entusiasmo
– vera novità.68 La calamita da sola non è più sufficiente, dunque l’imma
gine si arricchisce di nuovi elementi: gli anelli di ferro che compongono
la catena. La transitività della dÚ mij, che dalla calamita si trasmette a
ogni anello usandolo per attrarre il successivo, è un meccanismo sempli
ce, osservabile, che ne spiega uno simile ma non visibile. Il potere di at
trazione trasmesso a ogni anello resta della calamita, così come è sempre
la Musa a possedere rapsodi e pubblico, benché per farlo si serva dei po
eti, semplici strumenti. E come la forza magnetica scorre lungo la catena,
così la voce del dio parla agli uomini servendosi delle corde vocali di una
scala di mediatori.
Per spiegare a Ione le ragioni del suo eâ lšgein, Socrate usa dun
que un’immagine , che non riesce a essere persuasiva; in effetti
– vedremo – 1 esserlo. Di fronte alle prove presentate da Socrate
come dimostrazione della mancanza di tšcnh poetica, è stata avanzata
un’obiezione: si tratta soltanto di & , di indizi non decisivi per
dimostrare la tesi. È vero che se Ione fosse fuori di senno (ma lui non lo
crede) quando parla di (o recita) Omero, questo stato mentale potrebbe
giustificare le lacune (intermittenza e carattere selettivo) della sua attività,

68 Se riconosciamo all’ $ platonica il valore di una testimonianza attendibile sul So


crate storico (Platone tiene a sottolineare di essere stato ai fatti di cui narra,
* . 59b), allora dobbiamo riconoscere che il nucleo essenziale della teoria sull’ispirazio
ne divina esposta nello è socratico, come sostiene Vlastos ([186], pp. 381 382; cfr.
pp. 224 ss.). In . 22c si dice che i poeti «fanno ciò che fanno», non per sof…a, ma fÚ!
sei tinˆ kaˆ ™nqousi£zontej (vedi anche , pp. 220 221, nota 47), i profeti divini
e i vaticinatori, «i quali dicono molte belle cose, ma non sanno nulla di ciò che dicono».
È evidente che si tratta della stessa teoria dell’ispirazione $ che troviamo nello
. Due prove a favore, benché non conclusive, della paternità socratica di questa teo
ria: in primo luogo, l’intimo legame che essa intrattiene con la pratica del filosofo di in
terrogare i presunti sapienti, di cui sia Platone sia Senofonte ci riferiscono. In secondo
luogo, i dell’ $ : se ci si sofferma a considerare chi essi siano, ci si rende conto
con facilità che non si tratta dei grandi poeti della tradizione, tra cui Omero (Socrate non
potrebbe interrogarli), bensì di quei celebri contemporanei che compongono e recitano
versi in occasione di grandi feste come le Panatenee. Qualcosa di molto simile, dunque,
ai rapsodi dello : ciò che li accomuna è il contatto diretto con il pubblico. Questo
potrebbe peraltro far dubitare della paternità platonica anche per quanto riguarda l’arti
colazione della teoria attraverso il paragone con il magnetismo. Per contro, l’attribuzione
della teoria a Platone non ne giustificherebbe il breve accenno nell’ $ , in un conte
sto di ricostruzione storica più che di elaborazione teorica. In ogni caso possiamo senza
dubbio concludere che si tratta di una novità socratico platonica.

232
che a questo punto non sarebbe più il risultato proprio del sapere con
nesso di una c . Tuttavia, gli stessi difetti sono giustificati anche
dall’opinione: non è necessario che Ione sia fuori di sé e posseduto se
sbaglia una citazione o si interessa solo di Omero; forse la sua è una tec
nica difettosa, o, banalmente, un insieme non strutturato di credenze ve
re.
L’obiezione non tiene conto dello della critica che Platone
muove alla poesia, ne manca l’essenza. T c (T) e …a mo‹ra (QM) sono
trattate come una coppia di contraddittori,69 dei quali uno è necessaria
mente vero. Dunque, se l’intermittenza esemplificata da Tinnico di Cal
cide è prova della falsità di T, è prova anche della verità di QM, che coin
cide con 1 T. Ciò che porta Socrate, e Platone con lui, a escludere una
terza possibilità è l’eâ che qualifica il lšgein poetico. Il successo epiditti
co,70 la bellezza della poesia e il fascino che esercita sullo spettatore non
sono mai in discussione; e se non sono dovuti ad abilità umane,
(non possono non) essere divini: serve qualcosa a garanzia di quell’eâ.
L’opinione, se presentata onestamente come tale, non è dannosa, non
affascina, non nel senso forte in cui Platone usa il termine. Noi oggi di
remmo che un’opinione può essere suggestiva; ma se chi la ascolta è
consapevole che si tratta solo di un’opinione (vera o falsa che sia, questo
è ancora da dimostrare), allora non la accetta in modo incondizionato e
acritico, non la subisce, non la assorbe come verità indiscutibile.
Diversamente, le parole di Omero, che hanno già il potere della
tradizione, di ciò che da sempre è giudicato un modello di vita e la base
della paide…a, assumono in aggiunta il potere ipnotico della voce di Ione:
parole ritenute da sempre vere, pronunciate con la forza assertoria della
verità, come parole divine (la voce, nella bella immagine platonica, è
quella del dio), pericolosamente divine, perché l’uomo – mezzo imperfet
to – ne altera la verità. Sul piano epistemico, sono dunque opinioni (al
cune vere, altre false, mai giustificate), pronunciate però con dÚnamij di
vina, vale a dire fossero verità.

69 Si legga qe…a mo‹ra kaˆ ™nqousiasmÒj come fosse un’endiadi di cui il primo termine

assume la sfumatura semantica del secondo. Qe…a mo‹ra è espressione di ampio signifi
cato, che può indicare tanto una concessione divina improvvisa quanto una disposizione
connaturata (la stessa tšcnh è regolata da principî per qe…a mo‹ra, 537c).
70 Platone distingue il successo epidittico dal successo epistemico: il primo non implica

necessariamente il secondo.

233
! "" #

* 2 #$ $3

Non resta che da porsi una domanda: chi è Ione di Efeso? Da


quanto detto fin qui credo sia sufficientemente chiaro che ritengo l’inter
locutore di Socrate un rapsodo omerico suo contemporaneo: Ione non è
un semplice portavoce dei poeti, né la maschera di un sofista famoso.
Platone vuole discutere Omero, e certo non vi è interlocutore che sia
preferibile al migliore dei suoi rappresentanti, se non Omero stesso.
Quanto vale la pena di aggiungere riguarda da un lato l’importanza dei
poemi omerici nel V/IV secolo, dall’altro il ruolo dei loro rappresentanti.
Il primo punto chiarirà le ragioni della critica platonica di Omero, il se
condo la scelta del rapsodo come interlocutore.
Infine vedremo come il dialogo, mettendo in scena il rapsodo, ca
ratterizzi la figura del filosofo e ne rappresenti l’essenziale
incompatibilità. Alcuni luoghi del ne daranno conferma, mostran
do come, malgrado l’apparente identità di ruolo e il lessico comune che
le descrive, le due figure restino distinte.

*" + # $ & -

Sull’importanza dei poemi omerici al tempo di Platone è sufficiente ri


chiamare i passi citati nel I capitolo a testimonianza del loro valore pai
deutico.71 Alcuni sono il luogo di una riflessione educativa esplicita. In
%% X 598e, è noto che degli anonimi vanno dicendo di O
mero che ha un sapere relativo a tutte le c , alle umane conoscenze
sulla virtù e sul vizio e persino a quelle divine; ed è evidente che si tratta
di quegli stessi che poco più avanti «dicono che [Omero] è sta
to l’educatore della Grecia, e che per il governo e l’educazione delle fac
cende umane è degno di essere letto e imparato, e che ognuno organizzi
e viva tutta la propria vita secondo questo poeta» (606e).72 E ancora, si
tratta dei filopoihta… di 607e, gli amici che difendono in prosa la causa
di Omero, sostenendo che la sua poesia non è solo piacevole, ma anche
utile per il governo della città e il modo di vivere degli uomini.

71 Mi limiterò a richiamare i passi più significativi del platonico, sufficienti per in


trodurre le ragioni della critica che Platone muove a Omero. Per i luoghi non platonici,
testimonianza necessaria del ruolo educativo svolto dai poemi omerici nel V/IV secolo,
rimando al I capitolo e al saggio di Verdenius ([274]).
72 Vedi anche 599c ss., dove Omero si accinge a parlare perˆ ïn meg…stwn te kaˆ kal!

l…stwn: guerre e comandi di eserciti (strathgiîn), governi di città e l’educazione dell’uo


mo.

234
Altri passi mostrano la pratica comune di riferirsi a Omero come a
un’autorità in materia di etica, in una conversazione banale (vedi l’
del $ ), o con espliciti riferimenti al suo ruolo di testimone autore
vole. È il caso di . 201b, 5 $. 525d (cfr. 526d), . IV 441b c, " . 318e
e $. III 680c d. Sono infine numerose, nel , le locuzioni d’uso co
mune che implicano l’autorità del poeta: ' “Omhron (' . 174c; . V
468c d), Ö œfh “Omhroj (179b), æj œfh “Omhroj (5 $. 516c3; cfr. ' .
180a e " . 100a), kaˆ “Omhroj ( . VI 501b), ésper “Omhroj (VIII 545d,
X 612b), ecc.
Questo secondo gruppo di passi mostra come la riflessione plato
nica sul ruolo educativo di Omero e sui valori morali imposti dalla sua
autorità non sia pura speculazione, ma risponda all’esigenza attuale di
modificare i costumi di vita dei contemporanei, che Platone non condi
vide. E mentre %% e $$ sono il luogo destinato alla riflessione
speculativa sul tema etico – ne vedremo le ragioni – gli altri dialoghi
sembrano svolgere un compito diverso. In essi Platone mette in scena la
quotidianità ateniese, rappresentando incontri unici e irripetibili tra uo
mini giovani e vecchi, concittadini o stranieri, personaggi famosi o gente
comune, e una voce estranea a questa quotidianità di valori e abitudini di
vita – la vera straniera. Il tempo che scandisce le battute dei dialoghi è
veloce, incalzante, ritagliato tra un impegno politico e un agone; lo spazio
è scomodo, l’angolo di una strada o un vestibolo; gli interlocutori non
ancora disposti all’ascolto, malgrado a un livello superficiale lo scambio
di battute lasci credere il contrario. È la rappresentazione fedele di uno
stile di vita, e tutto quanto la voce straniera può fare per scalfire l’abito
mentale dell’interlocutore è insinuare un dubbio sulla sua coerenza, mo
strandone conseguenze contraddittorie o assurde così evidenti da essere
innegabili. Questo il compito di Socrate o dell’Ateniese: vincere la credu
lità ignorante del profano e la presunzione di sapere dell’esperto, allo
scopo di risvegliare un interlocutore che sia davvero disposto all’ascolto
e a una comune ricerca della verità. Questo, vedremo, il compito del filo
sofo.
La critica dei dialoghi socratici, e dello , non è dunque
un corollario o un’appendice della critica successiva basata sulla mimesi,
né il tentativo acerbo e incompleto di un giovane Platone, bensì il nucleo
fondante della critica platonica della poesia. Per capirne appieno le ragio
ni, è necessario a questo punto porsi una domanda: perché Platone non
si rivolge direttamente a Omero? Il tentativo di rispondere ha dato origi
ne a due diverse interpretazioni del nostro dialogo, e in particolare
dell’identità del rapsodo Ione. Da un lato, si è voluto vedere dietro la sua

235
! "" #

figura il poeta, vero bersaglio della critica; dall’altro, Ione non sarebbe
che il travestimento di un sofista o di un retore famoso. Insomma, i
commentatori non hanno ritenuto il rapsodo omerico Ione di Efeso, il
migliore dei rapsodi omerici, degno dell’interesse filosofico di Platone; e
nel tentativo di catturarne la vera identità, hanno moltiplicato le varianti
delle due interpretazioni principali, che negli ultimi decenni si sono alter
nate con una regolarità sorprendente, senza che l’una riuscisse a prevale
re in modo definitivo sull’altra. È stata questa mancanza di un argomento
vincente a farmi dubitare di entrambe, anche nelle loro formulazioni più
accurate e profonde.73 L’impossibilità di pronunciarsi in favore dell’una o
dell’altra, a parità di accuratezza, mi sembra una prova sufficiente se non
della loro completa falsità, quanto meno di una difficoltà che rimane irri
solta. Non credo, tuttavia, in un’incapacità di coloro che se ne sono oc
cupati di andare a fondo del problema. Al contrario, la tesi che intendo
sostenere è che le due interpretazioni sviluppano uno stesso nucleo di
verità, dal quale finiscono per divergere, andando & . Si tratta
dunque di un eccesso di profondità, non di superficialità: entrambi i ten
tativi di attribuire un’esistenza reale alla figura di Ione, forzandone il ca
rattere sfuggente, , non possono che condurre all’errore. Vedia
mone le ragioni.
Sono due gli elementi che accomunano la critica platonica di Ione
poeta e Ione sofista.

(1) Che si tratti di Omero o dell’attività interpretativa di un sofista


famoso, Platone ne mette in dubbio, in primo luogo, la % 0 dei
.

Non la verità, non siamo su un piano epistemico, bensì la legittimità del


valore che questi contenuti assumono qui oggi, nell’Atene del V/IV se
colo: come abbiamo visto, il valore di un modello di comportamento
corretto. Di più: il valore di un modello autorevole, indiscusso. Omero o
i sofisti che ne interpretano i versi sono l’autorità chiamata a testimo
nianza della bontà di azioni e comportamenti. Nella pagina conclusiva
del (201c), Socrate cita un verso di Omero a sostegno della tesi che
ognuno di noi, giovane o vecchio, ha bisogno di cercarsi un buon mae
stro, per diventare migliore («La vergogna non è buona in un uomo bi

73 Si veda per esempio il dettagliato commento di Flashar ([25]). Le ragioni avanzate sulla

scelta platonica di Ione come interlocutore fittizio sono inoltre piuttosto superficiali: si
tratterebbe in ultima analisi della debolezza dialettica del rapsodo, o del timore di rivol
gere critiche meno velate a una qualche celebrità del momento. Sui diversi orientamenti
della critica, si veda l’introduzione.

236
sognoso», . XVII 347). In negativo, il biasimo omerico, per esempio
quello dell’Ade, è condannato da Platone perché frena le azioni coraggio
se e induce, al contrario, il timore della morte ( . III 386a ss.). Ancora,
nel IV libro delle $$ , Omero è il primo a mostrare che «non bisogna
mai abituarsi a costumi di vita malvagi»;74 per voce di Odisseo, rimprove
ra Agamennone quando, con l’esempio, suggerisce ai guerrieri in batta
glia il debole comportamento della fuga (706d ss.). Infine, il VII libro ci
presenta un passo che merita di essere osservato più da vicino:

'/" AQ. [...] Ósa d> perˆ t¦ tîn ºqîn ™pa…nou te kaˆ yÒgou pšri
pukn¦ metap…ptei, p£ntwn, o‡omai, mšgist£ te kaˆ ple…sthj
eÙlabe…aj deÒmena ¨n e‡h.

AT. [...] quei frequenti mutamenti che riguardano l’elogio o il


biasimo dei costumi di vita sono, io credo, i più gravi di
tutti, e richiedono la più scrupolosa cautela.

798d3 5

La prima informazione che ne ricaviamo riguarda qualcosa che ormai ci è


chiaro: elogio e biasimo dei comportamenti di vita degli uomini sono lÒ!
goi importanti, strumenti delicati da maneggiare, in quanto veicolo di va
lori morali. Ma il cotesto adiacente in cui il passo è calato aggiunge qual
cosa che ci aiuta a capire perché la critica alla poesia formulata nei primi
dialoghi sia il cuore di tutta la critica platonica, mostrandocene infine le
ragioni. Vediamo di cosa si tratta.
Poiché l’elogio, in virtù dell’emulazione che suscita, è uno stru
mento tanto potente, la scelta dei contenuti da elogiare è di grande re
sponsabilità, e dovrebbe spettare solo a chi, in virtù di un sapere etico, è
capace di distinguere con successo tra uomini buoni e cattivi – sapere at
tribuito allo stesso Omero in " . 318e ss.75 Non solo: mutare di fre
quente costume di vita, perché muta il modello cui ci si adegua, è rischio
so, sia perché le nuove abitudini potrebbero essere peggiori delle vecchie,
per una mancata competenza di chi impone il cambiamento con la sua
falsa autorità, sia perché – ed è questo l’aspetto interessante – il muta
mento stesso, per di più frequente, suggerisce uno incostante,
adottato per emulazione del in cui il modello autorevole si presenta.

74 «E soprattutto non deve agire così [ . in modo ponhrÒj] la parte migliore dei cittadi
ni.»
75 Che sia o meno opera platonica, resta una testimonianza importante sulla ricezione e il

ruolo paideutico di Omero nell’antica Grecia.

237
! "" #

Il passo è dunque molto più complesso di quanto non sembri a una pri
ma lettura, e ci introduce ai diversi livelli di critica a cui Platone sottopo
ne la poesia. Questa prima differenza tra il piano della verità o falsità dei
contenuti trasmessi dall’elogio e il modo della loro trasmissione (stabile o
incostante) tocca esattamente il rapporto tra la critica dei dialoghi prece
denti e quella matura di %% e $$ . L’analogia tra il cambiamento
dei contenuti elogiati e quello dei giochi infantili ( $. VII 798c) mostra
con chiarezza come il pericolo maggiore non sia la trasmissione di falsità,
quanto piuttosto il rischio che l’abitudine al cambiamento porti a forma
re un carattere irrequieto, sensibile a ogni innovazione, un carattere che
essendo diverso cerca ogni volta una vita diversa, guidata da nuove leggi
e nuovi principî.
Il rischio nasce dall’apparente innocenza dei cambiamenti, simili a
quelli dei giochi infantili. Se procediamo nella lettura del cotesto, sco
priamo infine quali siano le forme più insidiose dell’elogio: ritmi, musica,
danze e canti sono tanto più pericolosi quanto più sfuggono a un con
trollo rigoroso, in virtù del loro carattere di intrattenimento piacevole e
all’apparenza innocuo. Il primo pericolo nasce dunque dal di comu
nicare della forma poetica, insidioso perché mascherato d’innocenza. Ora
non resta che rintracciare nei dialoghi il filo conduttore di questo nucleo
essenziale di critica platonica che, come abbiamo visto, non è estraneo
nemmeno alle opere mature. Quanto mi sembra già chiaro, dall’analisi di
quest’ultimo passo e dei testi presentati nel I capitolo, è infatti il rapporto
di dipendenza della critica epistemica da quella elogiativa o poetica in
senso lato – vedremo di cosa si tratta. Nel X libro della %% , piani
ficando la città e il cittadino ideali, Platone dà la sua soluzione radicale al
pericolo delle forme poetiche, riflettendo su due modi possibili di neutra
lizzarlo: la poesia sarà accolta nella città solo se il suo potere poetico si
volgerà al servizio di contenuti veri ed elogi di uomini buoni; nel caso in
cui questo non sia possibile, semplicemente ne resterà esclusa.76 La
%% è il luogo di una riflessione che prende le distanze dal mondo
reale, e sembra condotta in un tempo sospeso, nel quale viene meno l’ur
genza del momento presente. I poeti cessano di costituire una minaccia e
attendono fuori dalle porte della città come stranieri in attesa di un la
sciapassare. Solo questa atemporalità narrativa consente a Platone il pas
saggio dal valore etico alla bontà epistemica dei versi di Omero; solo la

76Il carattere mimetico dell’epica le renderà difficile l’ingresso nella nuova città, perché è
essenziale per questo genere poetico dare voce a una varietà di personaggi, i cui compor
tamenti non saranno sempre impeccabili, e i cui oi risulteranno talvolta in contraddi
zione – e dunque alcuni di essi necessariamente falsi.

238
finzione di un distacco dal presente, infine, lascia spazio al giudizio filo
sofico sulla verità o falsità dei contenuti poetici.
Il passo delle $$ ha già introdotto il secondo elemento che
caratterizza la critica platonica del rapsodo, nelle due interpretazioni do
minanti: Ione poeta e Ione sofista:

(2) il di trasmissione dei valori morali, che siano contenuti nei


versi omerici o nella & esegetica di qualche sofista.

Cerchiamo di definire meglio questo . Innanzitutto è necessario


chiarire * esattamente è il modo, andando un po’ più a fondo del
problema. Un primo suggerimento lo dobbiamo ancora una volta al VII
delle $$ : il passaggio da elogio e critica degli ½ alla rappresentazione
poetica (m…mhsij) dei costumi migliori e peggiori (798d) istituisce implici
tamente un parallelo tra l’œpainoj e le forme musicali o poetiche. Bene, in
base a quanto sappiamo dell’attività di Ione ™painšthj e del valore elogia
tivo che Platone riconosce alle parole omeriche,77 possiamo concludere
che un elogio può essere formulato in versi come in prosa; è possibile,
cioè, che sia lo strumento di un poeta come di un sofista. Dunque ci tro
viamo ancora all’interno di quel nucleo di verità che accomuna le due in
terpretazioni dominanti: il che cerchiamo di definire appartiene a
questo elogio esteso.
Come ho già anticipato, è proprio un passo dello a sciogliere
la difficoltà interpretativa che ci lascia sospesi tra le due posizioni, mo
strandoci un uso non stretto del greco poiht»j.

'/* SW. Koàfon g¦r crÁma poiht»j ™stin kaˆ pthnÕn kaˆ ƒerÒn, kaˆ
oÙ prÒteron oŒÒj te poie‹n prˆn ¨n œnqeÒj te gšnhtai kaˆ
œkfrwn kaˆ Ð noàj mhkšti ™n aÙtù ™nÍ: ›wj d' ¨n toutˆ œcV
tÕ ktÁma, ¢dÚnatoj p©j poie‹n ¥nqrwpÒj ™stin kaˆ crh!
smJde‹n. ¤te oân oÙ tšcnV poioàntej kaˆ poll¦ lšgontej
kaˆ kal¦ perˆ tîn pragm£twn, ésper sÝ perˆ `Om»rou, ¢l!
l¦ qe…v mo…rv, toàto mÒnon oŒÒj te ›kastoj poie‹n kalîj ™f'
Ö ¹ Moàsa aÙtÕn érmhsen, Ð m>n diqur£mbouj, Ð d> ™gkè!
mia, Ð d> Øporc»mata, Ð d' œph, Ð d' „£mbouj: t¦ d' ¥lla
faàloj aÙtîn ›kastÒj ™stin.

534b3 c5

77 In particolare ai versi nei quali Omero mostra o descrive le azioni e i comportamenti


etici dei suoi personaggi.

239
! "" #

Ne ricaviamo che:

(1) (universale che sta per «tutti i poeti») è incapace di ( oie‹n


specifico: comporre e/o recitare versi) prima di essere ispirato e fuori di
senno;

(2) nessun uomo può essere un poeta (o un oracolo) finché mantiene il pos
sesso della propria mente.

Questo secondo periodo si occupa solo in apparenza dell’¥nqrwpoj,


mentre non fa che esplicitare le condizioni di possibilità del poie‹n prece
dente. Pur trattandosi di opposti che esprimono rispettivamente posses
so e privazione, i due termini (‘con senno’/‘privo di senno’) sono trattati
come predicati contraddittori (‘essere in senno’/‘non essere in senno’):
dall’impossibilità dell’uno (‘con senno’) si può concludere la necessità
dell’altro (‘privo di senno’). Dunque la mancanza di senno è
per essere un poeta.

(3a) I plurali poioàntej e lšgontej, infine, riformulano il poiht»j universale di


(1): i sono coloro che ( . compongono e/o recitano versi) e
molte belle cose loro argomenti, come Ione Omero.

Sembra che secondo Platone i poeti si esprimano sia in versi sia in prosa,
e che rapsodi ed ™painštai rientrino a pieno titolo nella categoria.78
Quanto segue ne dà immediata conferma:

(3b) ognuno di essi ( . dei poeti) compone (poie‹n con significato generico
di «fare») le proprie opere all’interno di un genere preciso, che spazia dal
poema epico all’encomio.

Gli encomi sono cose dette o cantate in -. 205e3 (cfr. d6), lÒgoi in
* . 235e, discorsi elogiativi nel ' , p. es. 214c1.
Questo significato ampio di poiht»j è confermato, nell’uso plato
nico, da un passo del 5 $ , dove la poesia privata di mšloj, ]uqmÒj e mš!
tron mostra il suo più intimo carattere di lÒgoj retorico rivolto al popolo
(502b ss.). Il discorso di piazza del retore e la & teatrale del poeta
tragico sono entrambi forme di dhmhgor…a, che parlano ad un tempo a
tutti i membri eterogenei di un composito $ % ) : fanciulli, donne,

78 Se il passo delle $$ ci insegnava che l’elogio può essere composto anche in versi, qui
si dice in aggiunta che la poesia, qualunque cosa questo significhi, può essere composta
anche in prosa. Elogio ed encomio sono dunque a pieno titolo forme poetiche.

240
schiavi e uomini liberi. Ciò che accomuna versi e prosa retorica sembra
essere dunque questo intimo qualcosa, che assume le più svaria
te forme del ; per esempio Omero, dicendo, narrando o recitando in
esametri le gesta eroiche di Achille e le astuzie di Odisseo, parla del co
raggio, della guerra e del giusto comportamento degli uomini. E più an
cora il di questo parlare: 79 è chi comunica a un pubblico vasto

e indifferenziato contenuti di una certa importanza, nel modo o


– se vogliamo dirlo con il 5 $ – che abbiamo cominciato a deli
neare.
È interessante notare come questa comunanza di modo tra poesia
e retorica non sia esclusiva della sensibilità platonica, ma appartenga alla
sua tradizione letteraria. Senza dimenticare il paragone di Odisseo con un
aedo, e le sue parole «come fiocchi di neve» in un celebre passo dell’
, la prima testimonianza linguistica la troviamo nella # $ . Le nove
Muse, figlie di Mnemosine, «che nel loro cuore sempre pensano al canto
[Â sin ¢oid¾ mšmbletai ™n st»qessin]», quando onorano un re, alla nasci
ta gli versano sulla lingua una dolce rugiada, «e dalle sue labbra le parole
scorrono dolci come miele [toà d' œpe' ™k stÒmatoj ]e‹ me…lica]»; questo
uomo politico, in virtù del potere irrazionale della persuasione (v. 90),
che condivide con $ poeta, rende giustizia e placa le contese «con miti
parole». «Tale è per gli uomini il sacro dono delle Muse», un unico dono
comune, in grazia del quale «sulla terra vi sono cantori e citaredi [¥ndrej
¢oidoˆ kaˆ kiqarista…]»: il re prescelto dal dio è uno di questi .80 An
cora, in un frammento di Gorgia, il lÒgoj retorico e quello poetico, che
si distingue soltanto per la presenza del mštron, sono accomunati dagli
stessi effetti sull’uditorio. Gorgia sembra attribuire questi effetti alla pa
rola più che alla musicalità del verso, e che riecheggiano pagine platoni
che dello :81 tutta la poesia, in virtù dei suoi lÒgoi, infonde in chi

79 Ha poca importanza che il nome scelto per la categoria sia o . In un dialogo


come il 5 $ , che tratta principalmente di retorica, mi sembra ovvio che Platone mostri
come il poeta può essere assimilato al retore; mentre nello prevale il movimento
contrario, ed è il retore (nel significato ampio di chi si rivolge in prosa a un vasto pubbli
co) che diventa infine poeta, in virtù del modo del suo parlare.
80 Cfr. LANATA [316], pp. 29 33.
81 L’anima è influenzata con molta facilità e intensità dai lÒgoi poetici. Quella del pub

blico è attirata dal dio «ovunque voglia» attraverso gli anelli intermedi di poeti e rapsodi
(536a); quella di Ione rapsodo è toccata ) * dalle parole di un Socrate che si fa
poeta per l’occasione (535a), e, presa da entusiasmo per i versi che lui stesso declama,
crede di trovarsi nel mezzo dei fatti narrati: gli occhi si riempiono di lacrime, i capelli si
rizzano in testa e il cuore sobbalza (535c). Le occorrenze di yuc» nello (ben 5! –
vedi , trad., note 104, 108, 115 e 146) sono significative in rapporto alla contrappo
sizione tra filosofi e rapsodi. Socrate è il primo filosofo che riconosce l’anima dell’uomo

241
! "" #

l’ascolta «un brivido di timore e una compassione carica di pianto e una


bramosia che indulge al dolore [...], perché l’incanto divino che opera in
essi [ ƒ ¦r œnqeoi di¦ lÒgwn ™pwidaˆ] avvicina il piacere e allontana il
dolore: insinuandosi infatti nell’opinione dell’anima, il potere dell’incanto
[¹ dÚnamij tÁj ™pwidÁj] la ammalia e la persuade e la trasforma con il suo
fascino» (+ . 9 10, trad. it. di Lanata, rivista).
A questo punto siamo in grado di definire il del lÒgoj poeti
co, delineandone i caratteri:

(1) In primo luogo, come abbiamo visto nel passo delle $$ , per il sentire
comune si tratta di un’innocua forma di intrattenimento, con le conse
guenze di cui si è detto.

(2) Si tratta, ancora, di un elogio – e anche di questo abbiamo parlato a lun


go (vedi il cap. 1).

(3) Infine, la persuasione irrazionale: il lÒgoj poetico ha carattere di lusin


ga,82 come Platone non manca di affermare nelle pagine di critica più ac
cesa nella %% e nelle $$ .

Il parlare poetico fa leva su emozioni e credenze, mira a compiacere l’u


ditorio, indipendentemente da quale sia il bene per ognuna delle persone
che lo ascoltano. È il tema platonico del & , se così possiamo chia
marlo: un filo sottile che attraversa gran parte dei luoghi del nei
quali Platone rivolge la sua critica a retorica e poesia. Gli adulti che non
fanno uso delle propria ragione sono come pa‹dej che ancora non hanno
imparato a distinguere i piaceri dal bene, e perseguono sempre i primi,
ascoltando ed elogiando – e dunque imitando – coloro che sono in grado
di procurarli. Calzante l’esempio del 5 $ di una giuria di piccoli pazien
ti chiamati a giudicare l’operato di un medico e di un cuoco (521d ss.).
Il lÒgoj persuasivo, da cui lo stesso Socrate si dice colpito nel ,
, è lo stesso parlare che nello trascina l’anima degli ascoltatori o
vunque voglia, un parlare che ha dalla sua parte una sorta di potere divi
no, già con Gorgia, e di cui possiamo elencare le costanti: si tratta innan

come sede della sua coscienza intellettuale e morale, e se ne prende cura (è già chiaro
dietro la parodia delle di Aristofane, senza ricorrere a Platone). La centralità della
yuc» così intesa nella filosofia socratica e platonica (non entro nel merito delle distin
zioni importanti tra i due filosofi) giustifica la lotta contro poeti e retori, che la colpisco
no con tanta facilità e, nell’opinione comune, le recano benefici.
82 P. es. 5 $. 522d7 kolakikÁj ]htorikÁj.

242
zitutto di un discorso $ e :83 la lunghezza provoca l’effetto ip
notico, di addormentamento dell’anima; la continuità impedisce le do
mande, e dunque una partecipazione attiva e costruttiva dell’interlocutore
a quanto si sta dicendo. Di fatto, finisce per impedire qualsiasi progresso
del discorso, immobilizzandone i contenuti in una sorta di & ri
petitiva perché di successo presso un vasto pubblico.84 In secondo luogo,
il oj persuasivo è % , vale a dire ornato, impreziosito, enfatico,85 e
. La musicalità, come abbiamo visto con Gorgia e nelle pagine
centrali dello , dove la declamazione e l’elogio ricevono una descri
zione e un trattamento comuni, è propria dei versi come di un certo ge
nere di prosa. E si tratta appunto della prosa retorica, persuasiva, di lun
ghi discorsi preparati ad arte o improvvisati da voci ispirate; si tratta di
ritmo, scorrevolezza, uso di parole forbite o * nel significato comu
ne del termine.
Infine, il lÒgoj persuasivo è , deve esserlo per avere effi
cacia. Ed è proprio in rapporto a quest’ultimo carattere della persuasione
che si colloca il nostro discorso, poetico nel modo oltre (e più) che nei
contenuti, e acquista la sua singolarità. È qui che comincia a chiarirsi la
scelta del tema (Omero) e dell’interlocutore (Ione). A essere giudicato
autorevole, in un ambito qualsiasi, è colui che possiede il relativo sapere,
le conoscenze e competenze necessarie affinché ciò che dice sia vero.
L’autorevolezza acquista dunque un peso notevole quando le cose di cui
si parla sono materie importanti come l’educazione degli uomini e i valori
morali. E diventa pericolosa in una cultura come quella che abbiamo cer
cato di presentare nei capitoli precedenti, in cui il sapere è attribuito co
me un’ovvia conseguenza del successo decretato dagli elogi di un vasto
pubblico, senza attendibilità né controlli competenti. Quando si tratta di
Omero, inoltre, c’è di più: è Omero ad avere introdotto in Grecia questa
cultura dell’elogio, o meglio i suoi versi sono stati la base educativa sulla
quale i Greci del V e del IV secolo hanno costruito, interpretandone con
tenuti e forma, la cultura dell’elogio. Dunque, rivolgere una critica
proprio a Omero significa attaccare questa cultura dell’autorità su più li
velli, che coinvolgono il poetico, la recitazione o declamazione dei
versi, e il contenuti e forma in cui questi versi si presentano al
pubblico.

83 È materia di tutta l’opera platonica la distinzione tra forme brevi e forme lunghe del

discorso, in particolare la contrapposizione tra la dialettica socratica e i lÒgoi retorici di


molti dei suoi interlocutori, dai celebri sofisti ai loro giovani promettenti allievi.
84 Il tema del lÒgoj poetico sembra dunque intrecciarsi a quello dei pollo….
85 Cfr. l’uso del verbo kosmšw nel proemio, e la nota della traduzione .

243
! "" #

Nei versi recitati, il cui veicolo sono poeti e rapsodi, l’autorità resta
implicita: tema del dire non sono i valori morali, bensì i racconti delle ge
sta di eroi e la narrazione di viaggi e avventure. Nel caso dell’elogio rap
sodico, un r…, la stessa autorità si trova comunque in secondo
piano rispetto al carattere di intrattenimento e spettacolo della pubblica
& . Ma non è implicita, ed è questo a determinarne il pericolo:
come abbiamo visto, il carattere peculiare dell’elogio di un ™painšthj o
merico, rispetto a una qualsiasi altra lode, è proprio la dichiarazione e
splicita del valore educativo ed etico di Omero, modello di vita per i Gre
ci di ogni tempo e luogo. Come Omero elogiando i suoi contenuti (p. es.
le azioni o i comportamenti di un eroe) spinge a emularli, così gli ™pai!
nštai del poeta, chiunque essi siano (anche quei sofisti che nell’interpre
tare i suoi versi lo difendono), con il loro elogio ne rafforzano l’autorità,
e insieme rafforzano l’autorevolezza di quei contenuti già familiari, che in
tal modo possono continuare ad essere un modello di vita. Nasce, io cre
do, dall’esigenza di mostrare questo contrasto tra l’apparenza innocua e
la natura pericolosa della poesia il carattere estremo della critica di Plato
ne, che non gli permette di lasciarsi andare alla bellezza poetica, che pure
lo colpisce profondamente, se non per brevi istanti e – come abbiamo
visto – in luoghi sicuri come la %% , perché lontani dalla realtà mi
nacciata del presente.
Fin qui sembra indifferente che l’interlocutore e l’obiettivo della
critica platonica sia un poeta o un retore: li accomuna il modo autorevole
in cui trasmettono valori morali. Si noti che le distinzioni interne alle due
categorie sono esse stesse alquanto sfumate per Platone, o meglio per il
tipo di sguardo che rivolge loro, un’unica prospettiva etica e paideutica.
La differenza tra epica e tragedia non è così netta come lo sarà per noi:
Omero è il dei poeti tragici86 – assimilazione dovuta forse alla co
mune & pubblica, che si tratti dell’interpretazione teatrale o della
declamazione di piazza. In modo simile, retore è il sofista come l’uomo
politico. Solo osservando con attenzione la figura fittizia del rapsodo di
Efeso, e cercandovi profondi significati nascosti, possiamo capire che
qui non si tratta affatto di alternative indifferenti o indistinte. Se così fos
se, *. la scelta del rapsodo, e del rapsodo omerico, come interlocuto
re? Perché la scelta del rappresentante migliore di una categoria che si
presenta come quanto di più & possiamo rintracciare in ambito poe
tico? Se lo scopo fosse stato la critica indifferenziata di poeti e retori, in
virtù dei caratteri che – abbiamo visto – li accomunano, Platone non a
vrebbe avuto ragione di rivolgersi a un rapsodo omerico. Avrebbe prefe

86 . X 599d e.

244
rito parlare con Omero, come in %% X 599d ss., o con poeti con
temporanei; e insieme con Protagora o un giovane sofista e con uomini
politici ateniesi. Avrebbe creato come interlocutore di Socrate il migliore
dei poeti, dei retori o degli uomini politici del suo tempo o di un tempo
passato. Forse avrebbe addirittura avuto più interlocutori, uno per ogni
categoria, per mostrarne e vincerne l’affinità.
Vediamo dunque chi è il nostro rapsodo. Il nome (Ione),87 il luogo
di provenienza (Efeso), il riferimento della calamita alla città di Magne
sia,88 sono tracce evidenti di ciò che simboleggia questo personaggio
dall’identità sfuggente: quella cultura , lontana da Atene, che acco
muna Omero e i filosofi naturalisti, i poeti e i retori, la cultura passiva del
màqoj, del discorso lungo che impedisce di migliorare se stessi imparan
do, perché non lascia spazio a domande e risposte, e al parlare semplice
di chi ricerca onestamente la verità. Sul tema è stato scritto un breve arti
colo che riscopre alcuni luoghi importanti del platonico e ne sugge
risce per la prima volta il legame con lo . Sono debitrice a J. C. Ha
den89 del suggerimento, ma ritengo che anche la sua lettura, al pari delle
due interpretazioni dominanti, ecceda in profondità, allontanandosi dal
senso del dialogo: se Ione nascondesse i filosofi naturalisti, rivali della
dottrina platonica, di nuovo non si spiegherebbe la scelta – mirata – della
sua attività peculiare: Ione è un rapsodo omerico, non un filosofo. È
questa attività che deve essere giustificata perché l’interpretazione risulti
quanto meno plausibile, ed è questa attività che i commentatori hanno
trascurato, verosimilmente perché di difficile ricostruzione.90
Ma veniamo ai passi significativi, che da soli confutano la tesi di
Haden: «[Plato’s ] is a disguised and indirect critique of Ionian natura
lism» (p. 172).

'/ SW. œsti m>n g¦r oÙdšpot' oÙdšn, ¢eˆ d> g…gnetai. kaˆ perˆ toÚ!
tou p£ntej ˜xÁj oƒ sofoˆ pl¾n Parmen…dou sumferšsqwn,
PrwtagÒraj te kaˆ `Hr£kleitoj kaˆ 'EmpedoklÁj, kaˆ tîn
poihtîn oƒ ¥kroi tÁj poi»sewj ˜katšraj, kwmJd…aj m>n
'Ep…carmoj, tragJd…aj d> “Omhroj, <Ös> e„pèn 'WkeanÒn te
qeîn gšnesin kaˆ mhtšra ThqÚn p£nta e‡rhken œkgona ]oÁj
te kaˆ kin»sewj: À oÙ doke‹ toàto lšgein;

87 Non dimentichiamo che Ione è anche l’eroe mitologico greco, eponimo della stirpe

ionica.
88 Vedi trad., nota 87.
89 HADEN [219].
90 Sulle poche testimonianze, vedi app. B. Sfuggente è soprattutto l’aspetto elogiativo,

che affianca la declamazione e caratterizza la figura del rapsodo nella rappresentazione


platonica: di questo aspetto determinante non abbiamo alcuna testimonianza esterna allo
. I soli a riconoscerne l’importanza sono VELARDI [446] e VERDENIUS [274].

245
! "" #

QE. ”Emoige.
SW. T…j oân ¨n œti prÒj ge tosoàton stratÒpedon kaˆ strathgÕn
“Omhron dÚnaito ¢mfisbht»saj m¾ oÙ katagšlastoj genš!
sqai;
QE. OÙ ]®dion, ð Sèkratej.

#* . 152e 153a

'// XE. EÙkÒlwj moi doke‹ Parmen…dhj ¹m‹n dieilšcqai kaˆ p©j Ós!
tij pèpote ™pˆ kr…sin érmhse toà t¦ Ônta dior…sasqai pÒsa
te kaˆ po‹£ ™stin.
QE. PÍ;
XE. MàqÒn tina ›kastoj fa…neta… moi dihge‹sqai paisˆn æj oâ!
sin ¹m‹n, Ð m>n æj tr…a t¦ Ônta, poleme‹ d> ¢ll»loij ™n…ote
aÙtîn ¥tta pV, tot> d> kaˆ f…la gignÒmena g£mouj te kaˆ
tÒkouj kaˆ trof¦j tîn ™kgÒnwn paršcetai: dÚo d> ›teroj
e„pèn, ØgrÕn kaˆ xhrÕn À qermÕn kaˆ yucrÒn, sunoik…zei te
aÙt¦ kaˆ ™kd…dwsi: tÕ d> par' ¹m‹n 'EleatikÕn œqnoj, ¢pÕ
Xenof£nouj te kaˆ œti prÒsqen ¢rx£menon, æj ˜nÕj Ôntoj
tîn p£ntwn kaloumšnwn oÛtw diexšrcetai to‹j mÚqoij.
'I£dej d> kaˆ Sikela… tinej Ûsteron Moàsai sunenÒhsan Óti
sumplškein ¢sfalšstaton ¢mfÒtera kaˆ lšgein æj tÕ ×n
poll£ te kaˆ ›n ™stin, œcqrv d> kaˆ fil…v sunšcetai.

' *. 242c e

In '/ , Omero $ è a capo di un eterogeneo (stratÒpedon) di


sostenitori della teoria del divenire (œsti m>n g¦r oÙdšpot' oÙdšn, ¢eˆ d>
g…gnetai): tra di essi, oltre all’enunciatore Eraclito, filosofo ionico, un na
turalista (Empedocle), un sofista (Protagora) e i migliori poeti, comici e
tragici. In '//, molteplici schieramenti ontologici, tra i quali spiccano gli
eleati (primo Senofane, poeta, filosofo e rapsodo omerico itinerante...) e
le «Muse di Ionia e Sicilia» – tutti accomunati dal di comunicare le
loro dottrine: il màqoj dei racconti infantili.
Due osservazioni: in primo luogo, la teoria del divenire, negli esiti
estremi cui Platone la conduce nel # (assenza di qualsiasi forma di
stabilità e conseguente impossibilità di conoscenza e comunicazione), è la
sintesi teorica, la formula che meglio riassume l’atteggiamento poetico
delineato fin qui, atteggiamento che è insieme intellettuale e morale – lo
vedremo tra breve ( & , § 4.1).91 In secondo luogo, la forma che
questo esercito di pensatori condivide nel comunicare le proprie idee e i
propri valori morali è contrapposta poco più avanti alla mšqodoj filosofica
di chi interroga l’interlocutore illustre fosse presente, chiedendogli
che cosa intende dire (' *. 243d), per imparare ) (= qualcosa di

91 Un’analisi più approfondita del passo ci porterebbe lontano. Gli esiti estremi a cui Pla
tone conduce la teoria eraclitea del divenire sono comunemente riconosciuti. Per i detta
gli, si veda ad es. BURNYEAT [112].

246
vero) da lui qualora dimostri di essere sapiente, o ricercare insieme la ve
rità qualora ne sia smascherato il falso sapere. Mi sembra evidente che
entrambi i passi accomunano i membri dell’«esercito» omerico sulla base
di un modo di comunicare pensieri, di uno stile intellettuale, che è insie
me metodo di lavoro (del poeta, del retore, del filosofo naturalista) e at
teggiamento di vita.
Certo i pensatori ionici fanno parte di questa schiera, e dunque la
posizione di Haden è in parte corretta: «My thesis is that [Plato] saw na
turalism as a species of poetry or rhetoric». Tuttavia, si allontana dalla ve
rità quando pretende che il naturalismo sia il bersaglio della criti
ca platonica dello : «[Plato] chose a discussion of poetry as the vehicle
of his critique of naturalism» (p. 173). E commette così, a mio avviso, lo
stesso peccato di profondità delle interpretazioni dominanti, cercando un
significato recondito dietro la figura di Ione. Ciò che neanche lui vede è
qualcosa che i nomi propri del dialogo ci mostrano & , a partire
dal nome parlante del rapsodo di Efeso. In perfetta sintonia con la
6 dialogica, Platone non quale sia l’obiettivo della sua critica, né lo
(di certo non è qui che la sua opera si fa esoterica); semplicemen
te lo , usando una tecnica – quella dei nomi parlanti – per niente
estranea al mondo antico, e rivolgendosi a un pubblico ben consapevole
che Ione di Efeso, il più famoso dei rapsodi omerici, in realtà non è mai
esistito.92 Il suo nome e la sua attività – non quella storica dei rapsodi,
bensì l’elogio che Platone gli attribuisce come peculiare – richiamano una
cultura che si è fatta tradizione perché racchiusa nei versi dei poemi ome
rici, versi sui quali i giovani ateniesi sono educati, imparando a leggere e a
scrivere, e di fronte ai quali gli adulti si commuovono negli agoni.
92 Le ragioni che secondo Haden dovrebbero giustificare la scelta platonica di nasconde

re il vero obiettivo della sua critica non sono persuasive: in primo luogo, la forma dialo
gica è stata adottata da Platone per ragioni filosofiche (e credo che questa sia ormai opi
nione condivisa), non come espediente per raggiungere un vasto pubblico, che non sa
rebbe stato interessato al dialogo con un filosofo naturalista. In secondo luogo, se è vero
che l’etica è il tema privilegiato dei dialoghi socratici, l’obiettivo di un buon commento
dovrebbe essere mostrare come anche il tema dello sia etico, non nascondersi dietro
l’affermazione che il vero bersaglio della critica, la filosofia naturalista, è stato dissimula
to perché non rientrava in un qualche schema generale – schema che, per quanto ci ri
guarda, è peraltro descrittivo, non prescrittivo. Inoltre, Platone avrebbe potuto scegliere
di occuparsi esplicitamente della filosofia ionica, per contrapporla alla filosofia socratica,
per esempio mostrando che si dedicava a questioni lontane dalla cura dell’anima, interes
se primario degli uomini, secondo l’insegnamento di Socrate. Infine, mi sembra alquanto
superficiale sostenere che Platone abbia taciuto la vera identità dell’interlocutore ionico
di Socrate perché più interessato alla contrapposizione tra il filosofo e i sofisti (cfr. HA
DEN [219], p. 172).
Su Ione personaggio fittizio, vedi , § 1.1.

247
! "" #

Dunque la tradizione è nell’atteggiamento mentale che pro


muove, sul modello omerico. Ione ne è l’incarnazione simbolica. In molti
luoghi il dialogo lascia il lettore incredulo per le sue mancate reazioni a
quelle che sembrano forzature del Socrate più scaltro; bene, l’incredulità
nasce qui: Ione non è reale, in un senso più importante della mancata re
altà storica; è il concentrato di tutti i caratteri della tradizione che Socrate
nel suo girovagare ha conosciuto nell’atteggiamento di poeti, oratori, po
litici e sofisti. E in quanto tale, 1 rispondere alla critica che il filoso
fo gli muove, né capirne le ragioni. Questo è, infine, quanto Platone ha
voluto mostrare con la sua breve rappresentazione scenica: il torpore e il
sonno della mente in cui è destinato a cadere chiunque continui ad assu
mere l’atteggiamento poetico. Risvegliarsi è difficile, perché la tradizione
omerica è ormai un abito mentale, qualcosa di naturale e non più perce
pito. Per Ione, tradizione in persona, il risveglio è ovviamente impos
sibile – l’incomprensione dell’ , senza possibilità di appello, ne sarà
la prova conclusiva.93

** #% %3 4 % 4

Non resta che un chiarimento: perché tema dello sarebbero dunque


& & e , insieme? Cosa li accomuna e cosa, infine, li contrappone?
Un primo elemento comune alle due figure è il ruolo di
che entrambe assumono nel platonico: Ione di Efeso, voce della
tradizione poetica alla quale Platone vuole contrapporre il dialogo socra
tico, è un ˜rmhneÚj, un anello della catena magnetica dell’entusiasmo di
vino che assume una posizione privilegiata: l’anello del rapsodo, pur es
sendo intermedio come quello del poeta, ha in più il privilegio e la re
sponsabilità del contatto diretto con il pubblico: per questa ragione il
rapsodo e non il poeta è l’interlocutore scelto da Platone per contrappor
re la tradizione e la sua filosofia. Omero, non solo non può essere inter
rogato e dunque non è l’interlocutore ideale per i dialoghi, ma soprattut
to non è un contemporaneo, non comunica direttamente con il popolo
ateniese; per farlo ha bisogno di una .
D’altro canto, molti luoghi del predicano del filosofo termini
che appartengono alla sfera del divino e dell’irrazionale, facendogli assu

93Ma per questo vedi il § 4.1 delle Conclusioni. Mi sembra evidente che i sottotitoli tra
mandati sono estranei all’intima essenza del dialogo, non solo il Perˆ 'Ili£doj di Dioge
ne Laerzio (vedi , trad., nota 1), ma anche «Su Omero» o «Sui poeti» – quest’ultimo
troppo generico – e il & di Marsilio Ficino ([24]).

248
mere caratteristiche apparentemente non dissimili da quelle del rapsodo
Ione. Anzi, in virtù della posizione intermedia tra gli uomini e gli dèi di
Eros, demone filosofico del ' , le due figure sembrano ambire allo
stesso ruolo. Quanto dobbiamo fare, ancora una volta, è prestare la mas
sima attenzione al significato che Platone attribuisce alle parole chiave di
un lessico di lunga tradizione letteraria e filosofica come quello del divi
no. In particolare, un passo del , , se bene interpretato, chiarisce quel
la che nonostante tutto rimane la differenza essenziale tra filosofi e rap
sodi. L’entusiasmo del filosofo, in particolare di Socrate, cui si accenna in
molti luoghi del , ha il tono ironico con il quale il nostro ama pren
dere le distanze dall’interlocutore. Ciò che invece contraddistingue l’entu
siasmo filosofico presentato nel , , è la sua contrapposizione a quello
stesso lessico divino che caratterizza l’ ousiasmÒj dello e degli altri
dialoghi. Il passo in questione (249c d),94 come commenta Giordano
Bruno nei suoi , , contrappone due diversi tipi di entusiasmo:
quello che lui chiama «religioso», vale a dire il nostro entusiasmo divino o
tradizionale, e l’entusiasmo «intellettuale» o «naturale», che potremmo de
finire anche filosofico, o platonico. La differenza è la seguente: l’entusia
smo religioso è proprio di coloro che «per esserne fatti stanza di dèi o
spiriti divini, dicono ed operano cose mirabili senza che di quelle essi o
altri intendano la ragione»; nel caso dell’entusiasmo intellettuale, invece,
alcuni uomini «per aver innato un spirito lucido ed intellettuale, da uno
interno stimolo e fervor naturale, suscitato dall’amor della divinitate, del
la giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’in
tenzione, acuiscono gli sensi; e nel solfo della cogitativa facultade accen
dono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente; e questi
non vengono, al fine, a parlar ed operar come vasi ed instrumenti, ma
come principali artefici ed efficienti» (III).
Il filosofo entusiasta, dunque, è acceso da uno stimolo innato ra
zionale, che risponde all’amore della divinità; è l’intelletto, la parte più
divina della sua umanità, a rispondere . E stimolo è l’amore, in
tutta la sua complessa funzione di mediatore tra l’umano e il divino, tra i
limiti della mortalità e l’aspirazione alla sapienza, così come ce lo presen
ta il ' . Al contrario, l’entusiasmo poetico è irrazionale, viene
; non stimola, ma addormenta. Infine, la funzione mediatrice si di
stingue in virtù della sua direzione: dal basso verso l’alto per il filosofo,
nella sua tensione alla perfezione divina; dall’alto verso il basso per
il rapsodo , che nulla sa di ciò che pronuncia la sua voce posseduta.

94 In questo passo, come nello , compare il verbo ™nqousi£zw, non il sostantivo ™n!
qousiasmÒj.

249
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m£lista ¢perg£zhtai; de‹ g¦r d», ™pe…per ¢fe…meq£ ge pa…zein ™n to‹j toioÚtoij, tÕn
ple…stouj kaˆ m£lista ca…rein poioànta, toàton m£lista tim©sqa… te, kaˆ Óper e9pon
nund», t¦ nikht»ria fšrein. «r' oÙk Ñrqîj lšgeta… te toàto kaˆ pr£ttoit' ¥n, e„ taÚtV
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`RayJdÒj
`RayJdÒj

Scopo di questa appendice è mostrare come, nonostante sia possibile rin


tracciare il significato originario di ayJdÒj risalendo all’etimo – sia pure
solo in modo approssimativo – questo non abbia alcuna rilevanza per
l’uso che Platone ne fa nel nostro dialogo e più in generale nel .1
Come abbiamo visto, compito proprio del rapsodo, per Platone, è farsi
mediatore del pensiero di un poeta, dare voce per esempio ad Omero,
assumendosi la responsabilità epistemica di ciò che dicono i versi che re
cita.2 Qualcosa di diverso, dunque, sia dalla semplice declamazione dei
poemi, riconosciuta dalle fonti antiche come l’attività principale del rap
sodo, sia dal commento esegetico delle parole del poeta, che si tratti dei
chiarimenti lessicali di una lingua arcaica ormai estranea al greco comune,
o di una vera e propria interpretazione dei contenuti – per esempio lad
dove un passo risulti oscuro a causa della diversa sensibilità dell’autore
che lo ha pensato e scritto. Ritengo comunque fondamentale delineare la
figura tradizionale del rapsodo, perché siano evidenti le ragioni del potere
paideutico che assume e le modalità nelle quali questo potere si esplica; e
perché ne risulti ad un tempo legittimata la critica platonica, in apparenza
così lontana dalla moderna3 sensibilità poetica.
Le prime attestazioni del sostantivo ayJdÒj risalgono al V secolo
a.C.:
4 Kleisqšnhj g¦r 'Arge…oisi polem»saj toàto m n ayJdoÝj œpause
™n Sikuîni ¢gwn…zesqai tîn `Omhre…wn ™pšwn e†neka, Óti 'Arge‹o…
te kaˆ ”Argoj t¦ poll¦ p£nta Ømnšatai:

Hdt. V 67, 3 6

1 Nessuna delle ricostruzioni etimologiche ( , pp. 214 218) di ayJdÒj, p. es., sembra
ammettere la recitazione dei versi di Archiloco (trimetri giambici), le cui opere, stando
allo , sono oggetto delle rapsodiche, accanto a quelle di Omero ed Esio
do. Tuttavia i vesi di Archiloco venivano recitati durante il simposio: potremmo forse
ammettere, in via ipotetica, che si potesse istruire una ‘catena’ anche in questo caso.
2 Nel della recitazione è sempre contenuto un qualcosa, ed è a questo lš5
gein per… che Platone muove le sue critiche. Interessante, in proposito, un recente arti
colo di S. Halliwell ([309]), del quale non condivido però le conclusioni.
3 La sensibilità artistica moderna ha in realtà radici antiche: se già Platone, scrivendo i

dialoghi, tradisce il fascino che la ! "" poetica esercita su di lui, è alla # $ di Aristo
tele che dobbiamo il riconoscimento della funzione autonoma della poesia e dell’arte: il
privo di qualsiasi intento educativo.
4 La numerazione progressiva dei testi citati non segue quella del commento, ma rico

mincia da .

263
## %&

O. [...] pîj oÙc, Óq' ¹ ayJdÕj ™nq£d' Ãn kÚwn,


hÜdaj ti to‹sd' ¢sto‹sin ™klut»rion;

S. 391 392

Nel testo di Erodoto ( ) è Clistene, in guerra contro gli Argivi, a impe


dire ai rapsodi di recitare i poemi omerici, nei quali Argo e gli Argivi so
no continuamente elogiati. Il passo testimonia l’attività recitativa dei rap
sodi in competizioni pubbliche, ma non dice nulla sul significato del ter
mine. È rischioso considerarlo una prova dell’attestazione di ayJdÒj già
nel VI secolo, come suggerisce F. Càssola ([369], p. XXVI), perché è pa
rola erodotea (non si tratta di una citazione diretta), dunque del V secolo.
Ciò non toglie che Clistene potesse riferirsi agli aedi come ayJdo… e che
Erodoto riproducesse un lessema già in uso. Ma su questo non possiamo
pronunciarci in maniera definitiva. Nei versi di Sofocle ( ) ayJdÒj è
una sorta di epiteto della Sfinge, qui alla lettera «la cagna rapsodo»5. Al v.
36 la Sfinge è nominata per la prima volta come «inflessibile aedo»
(sklhr©j ¢oidoà), e al v. 130 ricompare come ¹ poikilJdÕj Sf…gx, facen
dosi «aedo ambiguo». Sembra che ¢oidÒj, qualifica essenziale della Sfin
ge, sia di volta in volta specificato, riflettendo il carattere peculiare della
Sfinge che canta: non solo un aedo, ma un aedo che si esprime per enig
mi e un rapsodo.6 Cosa questo significhi esattamente il contesto non ci
aiuta a capirlo, ma è verosimile che dipenda dalla composizione del so

5 Cfr. JEBB [125], .: «Esp. because the Sphynx was the watchful agent of Hera’s
wrath: cp. 36. Ar. . 1287 has a line from the Sf…gx of Aesch., Sf…gga dusameri©n
[Dindorf: …an codd.] prÚtanin kÚna pšmpei, ‘the watcher who presides over evil days’
(for Thebes) [fr. 236 Rodt; cfr. ' . . ( . 120, 1 Hansen Sf…x, ` [a]o kÚon]».
6 Cfr. KAMERBEEK [126], p. 39: «Sklhr©j ¢oidoà: The phrases designating the Sphinx

are noteworthy throughout the play: 130 ¹ poikilJdÕj Sf…gx, 391 ¹ ayJdÕj kÚwn, 508
pterÒessa kÒra, 1199 t¦n gramyènuca parqšnon crhsmJdÒn [...]. This periphrases are
suggestive of the monster’s uncanny nature, they come on the one hand near to ) *
' , on the other to ‘Decknamen’».
Il poikilJdÒj del v. 130 (( + ' ) è tematizzato ai vv. 390 ss., dove si
tratta dell’a‡nigma della Sfinge (qui ¹ ayJdÕj kÚwn), dell’arte profetica insufficiente per
scioglierlo e della gnèmh di Edipo, mhd n e„dèj, vincente senza avere appreso alcunché
dagli uccelli (oÙd' ¢p' o„wnîn maqèn). Si noti come il lessico usato da Sofocle coincida
con il lessico socratico dello (vedi app. D) e del , nell’attribuire un’intelligenza
vincente, un successo epistemico, a chi non possiede la tšcnh così come la si intende
tradizionalmente e ci si riferisce ad essa nella lingua comune. Questo passo è un’impor
tante testimonianza di come, nel V secolo, si attribuisse uno statuto conoscitivo a quelle
pratiche (p. es. la mantica) alle quali Platone lo negherà con forza, e di quanto questo
fosse radicato nella lingua stessa. Vedi , p. 84, nota 107 e § 3.1.1.

264
`RayJdÒj

stantivo, dunque dall’etimologia di ayJdÒj, per analogia con poikil5


JdÒj.7
Due perifrasi più antiche, di cui la seconda ( ) di dubbia attribu
zione, hanno dato origine ai molteplici tentativi di ricostruire l’etimo di
questo nome composto, prestandosi a interpretazioni diverse:

A “Oqen per kaˆ `Omhr…dai


aptîn ™pšwn t¦ pÒll' ¢oido…
¥rcontai, DiÕj ™k prooim…ou, kaˆ Ód' ¢n»r
katabol¦n ƒerîn ¢gènwn nikafor…aj dšdektai
prîton, Nemea…ou
5 ™n poluãmn»tJ DiÕj ¥lsei.

Pi. . II 1 5

FilÒcoroj d (328 F 212) ¢pÕ toà suntiqšnai kaˆ £ptein t¾n òd¾n
oÛtw fhsˆn aÙtoÝj (sc. toÝj ayJdoÚj) proskeklÁsqai. dhlo‹ d Ð
`Hs…odoj lšgwn:
™n D»lwi tÒte prîton ™gë kaˆ “Omhroj ¢oidoˆ
mšlpomen, ™n nearo‹j Ûmnoij £yantej ¢oid»n,
Fo‹bon 'ApÒllwna crus£oron, Ön tške Lhtè.

Hes. fr. 357 M. W.

Gli Omeridi di Pindaro ( ) sono «aedi di canti [o versi] $ <insie


me>», così come gli aedi di Esiodo ( ) « il <loro> canto in nuovi
inni» (versi testimoniati dallo (. Pi. . II 1 5). Gli interpreti si sono
impegnati nel tentativo di specificare il senso di questo e, come no
ta bene Càssola ([369], p. XXVII), le sfumature interpretative sono ormai
tante da non lasciare che l’imbarazzo della scelta. Nell’esaminarle seguirò
un percorso un po’ diverso da quello tracciato da Càssola, il cui scopo è
stabilire che i rapsodi «non sono gli epigoni degli aedi», bensì sono essi
stessi aedi che compongono, e non solo recitano, versi.8 Questo potreb

7 Cfr. JEBB [125], .: «Singing poik…la, !$ $ , a„n…gmata: cp. Plat. , . 182 A Ð


perˆ tÕn œrwta nÒmoj ™n m n ta‹j ¥llaij pÒlesi noÁsai ®dioj, ¡plîj g¦r éristai: Ð
d' ™nq£de kaˆ ™n Lakeda…moni poik…loj. Her. 7. III prÒmantij d ¹ cršusa, kat£per ™n
Delfo‹si, kaˆ oÙd n poikilèteron, ‘the chief prophetess is she who gives the oracles, as
at Delphi, and in no wise of darker speech’»; KAMERBEEK [126], .
8 Il lavoro di Càssola ([369]), di ampio respiro (è l’introduzione all’edizione italiana degli

), è tra gli ultimi di cui disponiamo sul tema, in ordine cronologico; ha dun
que il vantaggio di potersi avvalere dei risultati e delle analisi dettagliate degli esperti in
materia, ma anche il merito di una ricostruzione globale chiara ed accurata. È a questa
ricostruzione che farò per lo più riferimento nell’appendice, con poche riserve e distac
candomene in ragione dei diversi scopi. La teoria di Càssola riprende GENTILI [305].

265
## %&

be essere vero, come vedremo, ma credo sia un’ovvia conseguenza del


significato originario di ayJdÒj, se ben ricostruito. Dunque sarà questa
ricostruzione, per quanto possibile, l’obiettivo minimo della seguente a
nalisi.
Il composto ayJdÒj si forma dall’unione del verbo £ptw («cuci
re») con il sostantivo ¢oid» («canto»): questo nelle morfologie, concordi.
Le analisi etimologiche degli esperti sono giunte grosso modo a questa
conclusione, ma le loro indagini storiche testimoniano come la parola
abbia avuto fin dalle origini una singolare $ . Il termine ayJdÒj è
stato assorbito dalla lingua d’uso, che lo ha privato troppo presto del le
game etimologico con le sue parti componenti, rendendo arduo già per i
commentatori antichi ricostruirne il significato originario. Ci occuperemo
di entrambi gli aspetti: cercheremo da un lato di chiarire il senso di quel
‘cucire’ che traduce il verbo £ptw; e vedremo, dall’altro, le conseguenze
della fortuna di ayJdÒj sul significato che la parola assume ai tempi di
Platone.
Fin dalle prime occasioni d’uso, doveva essere chiaro a quale por
tatore il composto si riferisse: un aedo che recitava davanti ad un pubbli
co, durante un agone. Che cosa facesse meritare a quell’aedo il titolo di
rapsodo, ad un certo punto deve essersi perso, provocando l’esigenza di
glossare ayJdÒj, come testimoniano gli scoliasti. Dai loro tentativi glos
sografici ricaviamo la paretimologia £bdoj + ¢oidÒj, formata su base
analogica dei composti di ¢oidÒj, a partire dallo strumento con il quale il
cantore si accompagnava. È verosimile che si tratti di un’etimologia po
polare, nata dall’osservazione dei rapsodi agli agoni, dove sembra ac
compagnassero la declamazione dei versi con i movimenti ritmici di una
sorta di bastone, detto appunto £bdoj.9 Questa spiegazione intuitiva del

9 Cfr. CÀSSOLA [369], p. XXIII: «È noto che i poeti epici, quando abbandonarono la ce

tra, adottarono come nuova insegna professionale la ( ! : cioè un lungo bastone da


pellegrino, simbolo, come hanno osservato vari studiosi, della loro vita vagabonda. Que
sta insegna era così familiare per i Greci che alcuni di essi interpretavano la parola rap
sodo, certamente a torto, come “aedo con la ( ! ”». I principali scolī che, mostrando
la difficoltà già antica di ricostruire il significato etimologico di ayJdÒj, si soffermano
su questa paretimologia sono i seguenti: (. Pi. . II 1d [ ] ¥llwj. toÝj
ayJdoÝj oƒ m n abdJdoÝj ™tumologoàsi di¦ tÕ met¦ £bdou dhlonÒti t¦ `Om»rou
œph diexišnai. Kall…macoj: kaˆ tÕn ™pˆ £bdJ màqon ØfainÒmenon ºnek j ¢e…dw dedeg5
mšnoj; (. Pi. . IV 63a ¢ll' “OmhrÒj toi tet…maken di' ¢nqrèpwn CrÚsippoj
¢mf…bolÒn fhsi toàto e[nai, pÒteron ™p' A‡antoj À ™p' 'Odussšwj lšgei: p£ntote g¦r Ð
P…ndaroj tÕn A‡anta qaum£zei, nàn d Ð lÒgoj sun®dei 'Odusse‹. kaˆ g¦r tÕ lšgein, Öj
aÙtoà p©san Ñrqèsaij ¢ret¦n kat¦ £bdon œfrasen, ™p' 'Odussšwj sumfwne‹, ™peˆ
kaˆ m©llon tÁj 'Ili£doj ¹ 'OdÚsseia ayJde‹tai; (. Pl. 530a ayJdoÚj
fasi toÝj t¦ `Om»rou œph ™n to‹j qe£troij ¢paggšllontaj. ™kl»qhsan d oÛtwj, ™peˆ
£bdouj œcontej dafn…naj ¢p»ggellon. ayJdÁsai lšgetai kaˆ tÕ fluarÁsai, À tÕ
¡plîj labe‹n (l. lale‹n) kaˆ ¢pagge‹lai cwrˆj œrgou tinÒj. Cfr. (. Pl. . II

266
`RayJdÒj

la parola doveva poi risultare ovvia, se confrontata p. es. con la composi


zione di kiqarJdÒj (da kiq£ra, la cetra) e aÙlJdÒj (da aÙlÒj, il flauto).
Una seconda spiegazione si rifà al verbo £ptw, ed è la prima inte
ressante per noi: ayJdÒj è un composto di £ptw + ¢oid» e significa
qualcosa come «cucitore di canti». Questa locuzione si presta a sua volta
a interpretazioni diverse: alcuni vi leggono un cucire carmi preesistenti,
propri o altrui, fino a formarne uno nuovo, come sembra suggerire
l’occorrenza di £ptw in ; altri vedono nel composto così sciolto un
riferimento preciso alle modalità della recitazione pubblica negli agoni,
che, secondo le poche fonti di cui disponiamo, avveniva ™x Øpol»yewj:
ogni aedo - il proprio canto in una serie di esibizioni prodotta dal
succedersi dei concorrenti.10
Quest’ultima interpretazione non spiega l’occorrenza dell’
( ), che più di ogni altra merita attenzione, perché ayJdÒj predicato
della Sfinge si trova in un contesto che gli è estraneo: nel passo non si
tratta di aedi, né di pubbliche competizioni. Dunque è verosimile che
‘rapsodo’ sia predicato della Sfinge in virtù del suo significato letterale.
La Sfinge non è paragonata a un semplice aedo, ma a un rapsodo, con il
quale deve condividere almeno un carattere, che di certo non può riguar
dare le modalità dell’esibizione pubblica dei cantori: la Sfinge non si esi
bisce in un agone poetico. Fa difficoltà a questa occorrenza anche la
prima interpretazione di £ptein come un cucire canti già esistenti, di re
pertorio, in altri nuovi. Chi la sostiene11 riconosce negli enigmi della
Sfinge l’uso di formule tradizionali; ma questo non spiega ayJdÒj più di
¢oidÒj: fin dalle prime testimonianze, il cantore si serve di materiale della
tradizione per le sue composizioni. È ormai noto come gli stessi poemi

373b; Heraclit. 22 B 42 DK; Pi. IV 63; Call. fr. XXVI 5 Pfeiffer. Si veda anche la bella
immagine che riproduce il rapsodo dell’anfora a figure rosse conservata al British Mu
seum, con tanto di £bdoj e bÁma. Per un commento, HERINGTON [351], pp. 12, 14 15 e
CÀSSOLA [369], pp. XXIII XXIV.
10 Pl. . (. 228b c SW. Pol…tV m n ™mù te kaˆ sù, Peisistr£tou d Øe‹ toà ™k
Filacdîn, `Ipp£rcJ, Öj tîn Peisistr£tou pa…dwn Ãn presbÚtatoj kaˆ sofètatoj, Öj
¥lla te poll¦ kaˆ kal¦ œrga sof…aj ¢pede…xato, kaˆ t¦ `Om»rou œph prîtoj
™kÒmisen e„j t¾n gÁn tauthn…, kaˆ ºn£gkase toÝj ayJdoÝj Panaqhna…oij ™x
Øpol»yewj ™fexÁj aÙt¦ diišnai, ésper nàn œti o†de poioàsin, kaˆ ™p' 'Anakršonta tÕn
T»ion penthkÒntoron ste…laj ™kÒmisen e„j t¾n pÒlin, Simwn…dhn d tÕn Ke‹on ¢eˆ perˆ
aØtÕn e[cen, meg£loij misqo‹j kaˆ dèroij pe…qwn; D.L. I 57 T£ te `Om»rou ™x ØpobolÁj
gšgrafe ayJde‹sqai, oŒon Ópou Ð prîtoj œlhxen, ™ke‹qen ¥rcesqai tÕn ™cÒmenon.
m©llon oân SÒlwn “Omhron ™fètisen À Peis…stratoj, éj fhsi Dieuc…daj ™n pšmptJ
Megarikîn. Ãn d m£lista t¦ œph taut…: o‰ d' ¥r' 'Aq»naj e[con kaˆ t¦ ˜xÁj. Si noti
bene: un dialogo pseudo platonico e una fonte tarda.
11P. es. TARDITI [381], p. 144.

267
## %&

omerici poggino su una base formulare più arcaica, appartenuta a un’ora


lità di cui conservano le tracce.12
Una terza interpretazione scompone ayJdÒj in £ptw + ¢oidÒj,
sulla base dell’accentazione, comune a quella dei composti di ¢oidÒj; e
traduce: «aedo che cuce». Cucire equivale in questo caso ad accumulare,
allineare versi uno accanto all’altro, «in riferimento all’uso degli esametri,
cioè di versi che hanno tutti lo stesso schema e si succedono in serie illi
mitata, contrapposti alle strofe liriche» (CÀSSOLA [369], p. XXVII); oppu
re, più semplicemente, l’aedo $ il filo del racconto e non è altri che
il narratore.13 Questa interpretazione nasce dall’esigenza di spiegare con
maggiore chiarezza come si svolgesse l’attività del cucire. È evidente dalle
ricostruzioni etimologiche che proprio questa attività doveva rappresen
tare il carattere peculiare del rapsodo, la caratteristica che lo distingueva
da ogni altro aedo, giustificandone il nuovo nome. Gli interpreti di
ayJdÒj formato da £ptw + ¢oid» hanno posto l’accento sul canto, de
scrivendolo come la composizione di parti cucite insieme, ma senza riu
scire a rendere conto di alcune delle prime occorrenze. Di fronte a que
sto scacco, si è pensato che l’errore derivasse dall’aver posto l’accento sul
termine sbagliato, e che sull’aedo e la sua attività di cucire, più che sul
prodotto finale, dovesse fondarsi la spiegazione di ayJdÒj. Non credo
sia necessaria una distinzione così netta, né l’ipotesi di una formazione di
ayJdÒj per analogia con i composti di ¢oidÒj. `R£ptw + ¢oid» rende già
conto dell’attività del cucire, senza bisogno di aggiunte o modificazioni.
Si tratta di una attività del tutto nuova, come è segnalato dall’uso di un
verbo insolito, estraneo all’ambito poetico tradizionale. La metafora co
mune per la composizione poetica non è il cucire, ma il tessere (Øfa…nw):
il poeta lirico $ i suoi canti, come in Pindaro e Bacchilide. Commenta

12 Cfr. CÀSSOLA [369], pp. XXXVIII XLII (§ 9: # $ ) e p. LII. Non


discuterò qui l’interpretazione che vede in ayJdÒj predicato della Sfinge un richiamo
ironico al ruolo passivo dei rapsodi, ripetitori di canti altrui. Questo significato della pa
rola è tardo e nasce insieme dall’uso del verbo ayJde‹n per indicare la recitazione, e
dalla sorte dei rapsodi, che nel IV secolo perdono il carattere creativo e divengono sem
plici ripetitori. Dunque non può essere applicato alla prima occorrenza. Si veda comun
que JEBB [125], p. 63: «The word [ . ayJdÒj] is used with irony: the baneful lay of the
Sphinx was not such as the servant of Apollo chants».
13 Per l’interpretazione di ayJdÒj come composto di £ptw + ¢oidÒj, si veda PATZER

[377], in part. p. 323: «Der ayJdÒj ist der Gesänger in der Weise des “Reihens”
dichtende Sänger, der “Reihsänger”, dessen Dichtart sich durch den reihenden Vers (das
“monostichische” Prinzip) am sinnfälligsten kennzeichnet»; PAGLIARO [376], pp. 58 60;
e per una sua semplificazione, DURANTE [347] e [348]. C. Pavese ([378], p. 21) dà a en
trambi gli elementi compositivi un valore verbale, traducendo: «“cantore cucitore”: colui
che cucendo canta, cioè compone i suoi canti cucendo».

268
`RayJdÒj

C. Pavese ([378], p. 21): «Con questa metafora i lirici volevano forse e


sprimere la complessa struttura dell’ode, che era composta di tanti fili
(parole e musica intessute nella strofe cantata da molte voci) come l’ordi
to e la trama nel telaio. Al contrario la metafora del cucire fa probabil
mente riferimento a una tecnica lineare». Credo, però, che questa lineari
tà fosse qualcosa di più costitutivo del semplice giustapporre formule e
temi narrativi, come sostiene Pavese (p. 22), qualcosa che si avvicina di
più alla paratassi dello stile epico, alla tecnica della composizione mono
stica dell’interpretazione di Patzer ([377]). Qualcosa che ha a che fare con
il verso più che con i temi dell’epica: l’esametro, nella sua composizione
interna, prima ancora che nella struttura lineare a cui dà luogo la sua ripe
tizione in un componimento. L’esametro è di per sé un verso $ , for
mato dall’unione di versi lirici tradizionali: ( , , ; tutti
versi nei quali, notoriamente, si distribuiscono le formule.14 A fondamen
to di questa costituzione composita, la teoria di B. Gentili e P. Giannini
([349]) sulla formazione del verso a partire dalle formule:15 «In rapporto
[...] [alla] prassi compositiva siano da valutare le concordanze nel lessico,
negli stilemi, nelle espressioni formulari, nelle forme metriche tra il lin
guaggio dell’ , dell’elegia e il linguaggio delle iscrizioni. Di qui l’uso
dell’esametro, dell’elegiaco, dei giambi, dei trochei e di quei metri kat'
™nÒplion, quali l’( e l’ , che costituirono le linee portanti della
più antica lirica greca e insieme gli elementi compositivi dell’esametro»
(p. 22). E «se [...] [gli] schemi metrici, nei quali si erano cristallizzate le
più antiche formule dell’ , sono reperibili sia nella lirica arcaica, sia nel
le iscrizioni, l’ipotesi più corretta è che essi siano anteriori alla fissazione
di quel composto metro epico che è l’esametro» (p. 27).
È in virtù di questa sua natura che l’esametro è verso lineare, para
tattico, narrativo. In , i aptîn ™pšwn non sono altro che gli esametri,
versi cuciti tra loro (/ ognuno lo è al suo interno; e gli ¢oido…, aedi che
cantano in esametri. Allo stesso modo, in £yantej ¢oid»n ™n nearo‹j

14 «Per quanto riguarda il concetto di occorre precisare: sul piano sincronico, ogni
espressione ritenuta in una determinata condizione metrica (secondo l’ormai classica de
finizione di Parry [ . PARRY (357)], che tecnicamente adempia alla funzione di facilitare
la versificazione, è una formula; sul piano diacronico, invece, bisogna distinguere le for
mule vere e proprie dagli $ . Le prime sono espressioni ripetute che hanno una unità
semantica e una struttura ritmica corrispondente a uno degli schemi [...] [prototipi]. Gli
stilemi, invece, sono quelle locuzioni, ugualmente ripetute, che però non coincidono con
gli schemi metrici prototipi: esse sono di formazione più recente perché non possono
aver avuto origine che nell’ambito dell’esametro già costituito» (GENTILI GIANNINI
[349], p. 25, nota 47).
15 La tesi contraria (prima il verso, poi la formula), che non discuterò qui, è sostenuta e

argomentata in NAGY [374].

269
## %&

Ûmnoij significa cucire canto (¢oid»n è singolare! non si tratta di $


pronti da comporre insieme) e cucendolo formare nuovi inni, vale a dire
componimenti di stile diverso. Il canto di questi componimenti è $,
cioè composto di esametri, non di versi lirici; e per questo è nuovo. E la
Sfinge è un rapsodo semplicemente perché i suoi enigmi nella versifi
cazione esametrica degli oracoli, la stessa del nuovo canto epico, non
perché si avvalga di formule e temi epici; e certo non per le sue doti nar
rative: un a‡nigma può concentrarsi in pochi versi, insufficienti per qua
lunque narrazione.16 Il rapsodo è dunque un aedo che cuce, e non tesse,
il suo canto; e un canto cucito non è altro che un componimento in esa
metri, con tutto ciò che la nuova musicalità di questo verso comporta.
È stato ipotizzato, sulla base della sua formazione, che ayJdÒj sia
termine molto antico; è dunque possibile che in alcune attestazioni del V
secolo – le prime per noi – il significato etimologico sia già andato per
duto. Se così fosse, l’interpretazione più plausibile della Sfinge rapsodo
di sarebbe quella sostenuta da Jebb (vedi , nota 10). E la spiega
zione di (di dubbia attribuzione) parrebbe leggere i aptîn ™pšwn di
Pindaro come $ (e non versi) cuciti; dunque formule o brevi carmi
tradizionali uniti a formare nuovi inni.17 Anche posto che entrambe que
ste testimonianze ( . e ) non la confermino, l’interpretazione dei
versi cuciti come esametri risulta comunque credibile. E se c’è una ragio
ne per preferirla alle altre, credo consista nel suo carattere " : è
l’esametro, cucito al suo interno e insieme con altri esametri, che, in virtù
di questa sua particolare costituzione, garantisce l’unione di formule tra
dizionali nella linearità di una narrazione; e determina la modalità dell’esi
bizione agonale dei nuovi cantori ™x ØpobolÁj.
La formazione di ayJdÒj, come di kiqarJdÒj e aÙlJdÒj, mostra
chiaramente che la distinzione tra cantori non avveniva separando il
compositore dall’esecutore, bensì secondo il genere. Erano tutti ¢oido…, e
in quanto tali componevano e recitavano i propri canti;18 la differenza
stava nella musicalità del verso e nell’accompagnamento degli strumenti
(cetra, flauto...); talvolta con qualche sovrapposizione – se il rapsodo può
accompagnarsi con uno strumento musicale e il citaredo compone in e
sametri, la distinzione non è più così netta; talvolta con una certa libertà
d’uso, dovuta per esempio al rispetto della metrica – l’esametro omerico

16 ”Epoj è insieme la parola dell’aedo (tradizionalmente divino) – t¦ œph sono i versi epi

ci, gli esametri (p. es. ) – e dell’oracolo (p. es. . XV 536) o del m£ntij; quindi del dio
stesso.
17 Così PAGLIARO [376], pp. 58 60.
18 Cfr. PAVESE [378], pp. 15 16 e CÀSSOLA [369], pp. IX XXV.

270
`RayJdÒj

lascia Femio aedo indistinto, perché non può contenere la forma estesa
ayaoidÒj.19 Omero ed Esiodo sono dunque rapsodi (Pl. . X 600d, '.
II 658b d) esattamente come Femio di Itaca ( 533b c) e Ione di Efeso,
perché cantano in esametri.20
Se i rapsodi sono degli aedi particolari, e formano dunque un sot
toinsieme degli antichi cantori greci, a partire dal V secolo si suddividono
a loro volta in gruppi. Il verbo ayJde‹n assume già in questo secolo il
significato di recitare, che dal tecnico $ $ (alla lettera: «cucire
i canti») si riduce a un semplice versi; e per lo più versi di poeti
della tradizione come Omero, dunque composti da altri. Il sostantivo
ayJdÒj avrà la stessa fortuna, e il rapsodo presterà la propria voce ai
grandi poeti del passato, recitandone le opere. È proprio in base al poeta
di cui cantano i versi che alcuni rapsodi sono identificati, per esempio,
come Omeridi. In Pindaro li definisce «cantori di versi cuciti», dicen
do, come nota bene Càssola ([369], p. XXX), «che gli Omeridi sono rap
sodi, non che i rapsodi sono (tutti) Omeridi». Secondo alcune testimo
nianze, gli `Omhr…dai21 erano in origine un ' di Chio, discendente dallo
stesso Omero, ma oggi si dubita dell’esistenza di un simile gruppo genti
lizio (si veda, al riguardo, l’analisi dettagliata di Càssola – [369], pp.
XXIX XXXVIII). Non credo sia esistito, nel V e IV secolo, un distinto
gruppo di Omeridi, contemporanei di Platone. Gli `Omhr…dai ai quali si
riferisce il nostro dialogo sono i leggendari Omeridi di Chio; e depositari
‘moderni’ del sapere omerico, i rapsodi che cantano i versi del poeta. È
in questo senso che rapsodi ed Omeridi vengono infine a sovrapporsi: il
rapsodo omerico del V e IV secolo (Platone lo chiama Omeride, #( .
252b, . X 599e 600b) è l’esperto di Omero per eccellenza, l’esperto uf
ficiale, erede della tradizione di Chio. La sua perizia è tale che persino i
leggendari Omeridi non potrebbero esimersi dall’incoronarlo con una
corona d’oro ( 530d) – il premio più ambito.
Ione di Efeso, come gli Omeridi del e della !! , è rap
sodo nel suo significato etimologico, perché recita gli esametri di Omero
in occasione di pubblici agoni; ma è rapsodo (il migliore dei rapsodi o
merici) nel significato moderno, che la parola assume tra il V e il IV se
colo, perché è il massimo esperto della sof…a omerica tramandata dalla

19 Cfr. PAGLIARO [376], p. 58.


20 Per l’uso di ¢e…dein (come di ¢oid» e ¢oidÒj) in riferimento alla recitazione e non solo
al canto, vedi , § 3.2.1.
21 L’`Omhr…dhj non è l’Ðmhrist»j, o non solo: non è un semplice «attore che rappresenta

scene di Omero» ( [470], .-.). Vedi % [472], .-. e la testimonianza platonica (oltre
allo , #( . 252b e . X 599e 600b).

271
## %&

tradizione.22 Ed è famoso in tutta la Grecia, in virtù del carattere itineran


te della sua attività, che lo spinge da una regione all’altra in occasione di
giochi e feste dove esibirsi. Eventi come le Grandi Panatenee23 lo pon
gono in contatto con un pubblico numeroso e ne segnano la fama: una
voce viva, musicale, incantatrice24 ha il potere di diffondere non solo i
versi di Omero (ciò che il poeta ), ma i suoi insegnamenti, il suo sape
re (ciò ); e con esso il potere paideutico di cui una lunga tradi
zione lo ha investito.

22 Il giudizio negativo di Senofonte (X. . IV 2, 10 11; . III 6) non rispecchia il


senso comune sulla figura del rapsodo e, di conseguenza, non ne testimonia il decadere
nell’opinione pubblica. Quelle che Senofonte muove ai rapsodi sono le critiche di una
/ $ intellettuale e, peraltro, non toccano il ruolo educativo di questi antichi cantori, bensì
il loro presunto sapere. La critica senofontea si muove, dunque, anch’essa su un piano
epistemico, benché si differenzi in modo sostanziale da quella platonica. Mentre Platone
nega ai rapsodi il possesso di una tšcnh sulle cose importanti della vita, coniugando così
etica e conoscenza, Senofonte li accusa di non saper esercitare l’esegesi allegorica dei
testi, pratica sofistica oggetto di insegnamento e apprendimento, così in voga a quei
tempi. Il fatto che attribuisca a Socrate l’affermazione: «[i rapsodi] non conoscono i si
gnificati nascosti [t¦j Øpono…aj] dei versi che recitano» è dovuto, probabilmente, ad un
fraintendimento (il primo di una unga serie...) dello platonico, e in particolare della
di£noia di cui si tratta nel proemio.
23 Gli ateniesi festeggiavano ogni anno le Panatenee, in onore di Atena, loro dea protet

trice; ma ogni quattro anni istituivano agoni speciali, a imitazione dei giochi quadriennali
di Olimpia, Delfi, Nemea e Corinto. Le Grandi Panatenee – così erano chiamate – in
cludevano gare di rapsodi omerici. Sull’origine, vedi MURRAY [44], pp. 100 101. J. He
rington ([351], pp. 167 176) raccoglie in appendice tutte le testimonianze significative sui
rapsodi, e dedica una sezione a «Places and occasions of rhapsodic performance» (pp.
175 176). Il passo del senofonteo sopracitato e il rapsodo dell’anfora a figure
rosse ( , nota 9), vestito con abiti comuni, testimoniano inoltre lo svolgersi di
un’attività rapsodica quotidiana, nelle piazze delle città. Verosimilmente questa attività
era diversa dalla declamazione dei versi omerici negli agoni, rivolta ad un pubblico meno
numeroso, e lasciava spazio a domande e commenti dei versi recitati; e, sotto questo a
spetto, non doveva essere poi così lontana dall’attività dei sofisti, Ippia p. es. (vedi .. .
363c). Con la differenza che, almeno dalla testimonianza dell’ , sembra che
per i sofisti sia la recitazione del lÒgoj sia il commento ad esso relativo avessero luogo
nel contesto agonale. Nessuna fonte documenta invece che questo avvenisse durante le
gare di rapsodi, anzi la modalità della recitazione rapsodica (™x ØpobolÁj) lascia supporre
il contrario.
24 Vedi , § 3.2.1.

272
`RayJdÒj

273
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perˆ `Om»rou 542b4 cf. 541e2
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