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NOTA INTRODUTTIVA
Tutta l'arte e la letteratura del '900, per essere capita a pieno, deve essere studiata nei suoi primi
trent'anni, trent'anni di originalità assoluta.
Già alla fine dell'800 si notano dei cambiamenti radicali che costituiscono il seme di quello che avverrà nel
XX secolo.
• La tecnica, che nell’ottocento e inizi novecento aveva suscitato grandi speranze è diventata
strumento di morte
• Sfumate le certezze di un mondo di benessere e giustizia
• Il concetto di velocità. Sempre più persone si spostano velocemente da un luogo all'altro. La vita
diventa più frenetica: cambia il concetto di tempo (Futurismo).
Conseguenze
• Valori, prima punto di riferimento assoluto, frantumati (processo già iniziato in epoca
industriale => artista aveva già iniziato questo processo (vedi Pascoli e Ungaretti)
• Profondo senso di ansia, precarietà, disorientamento, insicurezza.
• L’uomo non crede più in se stesso, nella ragione
• Esigenza di elaborare nuove risposte
La letteratura e l'arte
• strumento nuovo di lettura della realtà
• I personaggi sono incerti, insicuri, inetti, deboli
• Non interessano più Verismo o le trasformazioni sociali, ma i ricordi, le paure, i pensieri
(Importantissimo J. Joyce e il suo flusso di pensiero)
• Il linguaggio di prima non è più adeguato: si cercano linguaggi nuovi, essenziali, perché tutti i
discorsi di prima non valgono più
• rottura con il passato già iniziata alla fine dell'800
• NB: Accademie d'arte non sono più valide. Per produrre qualsiasi forma artistica è necessario
uscire dalle stanze chiuse e guardare la realtà così come si presenta (Verismo) o paragonare la
realtà alla propria esperienza o stato d'animo (Decadentismo – Impressionismo)
Mia moglie e il mio naso di Luigi Pirandello
Nel romanzo Uno, nessuno e centomila Luigi Pirandello affronta il tema della dissoluzione dell'io: ciascuno
di noi non sa bene se egli è quello che egli crede di essere o quello che gli altri vedono in lui, perciò in
realtà non è nessuno.
All'inizio del romanzo la moglie, fa notare al protagonista, Vitangelo Moscarda, che il naso gli pende
leggermente verso destra.
La scoperta che il suo aspetto esteriore non corrisponde all'immagine che ha sempre avuto di se stesso
scatena in lui una crisi d'identità.
- Che fai? - mia moglie mi domandò, -vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
- Niente - le risposi, - mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo
dolorino. Mia moglie sorrise e disse:
- Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: - Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
- Ma sì, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente,
come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m'era stato facile ammettere e sostenere quel
che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire' un corpo
deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di
quel difetto -perciò mi stizzì- come un immeritato castigo. Vide forse mia moglie molto più addentro di me
in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d'essere in tutto senza mende, me
ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, così...
- Che altro?
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi,^^, le mie orecchie erano
attaccate male, una più sporgente dell'altra; e altri difetti....
- Ancora?
Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino più
arcuata dell'altra: verso il ginocchio, un pochino. Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti
questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento la maraviglia che ne provai subito
dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m'esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi,
tutto sommato, rimanevo un bell'uomo. Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò
che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo
né d'addolorarmi né d'avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e
straordinaria al fatto che tant'anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle
sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver
conto' che li avevo difettosi.
«Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito».
Ecco, già - le mogli, non nego. Ma anch'io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni
parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi
scavavano dentro e bucheravano' giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza
che di fuori ne paresse nulla. Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito,
nella riflessione che dunque - possibile? - non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie
che più intimamente m'appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele
per rifarne l'esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo
così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato
(come dirò) il rimedio che doveva guarirmene. Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie
la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me. - Mi guardi il
naso? - domandai tutt'a un tratto quel giorno stesso a un amico che mi s'era accostato per parlarmi di non
so che affare che forse gli stava a cuore.
- No, perché? - mi disse quello. E io, sorridendo nervosamente:
- Mi pende verso destra, non vedi?
E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione, come se quel difetto del mio naso fosse un
irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell'universo.
L'amico mi guardò in prima un po' stordito; poi, certo sospettando che avessi così all'improvviso e fuor di
luogo cacciato fuori il discorso del mio naso perché non stimavo degno né d'attenzione né di risposta
l'affare di cui mi parlava, diede una spallata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappai per un braccio,
e:
- No, sai, - gli dissi, - sono disposto a trattare con te codest'affare. Ma in questo momento tu devi
scusarmi. - Pensi al tuo naso?
- Non m'ero mai accorto che mi pendesse verso destra. Me n'ha fatto accorgere, questa mattina, mia
moglie.
- Ah, davvero? - mi domandò allora l'amico; e gli occhi gli risero d'una incredulità ch'era anche derisione.
Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina, cioè con un misto d'avvilimento, di stizza e di
maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo
se n'era accorto? E chi sa quant'altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendolo, credevo d'essere per
tutti un Moscarda col naso dritto, mentr’ero invece per tutti un Moscarda col naso storto; e chi sa quante
volte m'era avvenuto di parlare, senz'alcun sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Cajo e quante volte
perciò non avevo fatto ridere di me e pensare: «Ma guarda un po' questo pover'uomo che parla dei difetti
del naso altrui!». Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il
mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti
altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio
spirito e non potei consolarmi con questa riflessione. Mi si fissò invece il pensiero ch'io non ero per gli altri
quel che finora, dentro di me, m'ero figurato d'essere.
Il commesso viaggiatore Gregor Samsa scopre improvvisamente un mattino al suo risveglio di essersi
trasformato in uno scarafaggio che desta la ripugnanza dei suoí familiari. Segregato nella sua camera,
dorme sotto il letto ed è nutrito degli avanzi della tavola dalla domestica che, sola, riesce a sopportare la
sua vista. Ormai rassegnato a rimanere chiuso per sempre nella sua stanza, un giorno, attirato dal suono
del violino della sorella, ne esce seminando il panico tra i familiari. Ferito da una mela scagliatagli contro
dal padre, muore e viene gettato dalla domestica nella spazzatura. Di questo lungo racconto ti diamo le
pagine iniziali.
Quando Gregor Samsa si risvegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò nel suo letto trasformato
in un insetto gigantesco. Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo
poteva vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la
coperta, pronta a scivolar via, si reggeva appena. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se
paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi. «Che cosa mi è successo?»,
pensò. Non era un sogno. La sua stanza, una vera stanza - sia pure piccola - per esseri umani, era
tranquillamente racchiusa tra le quattro pareti così familiari. Sopra il tavolo, sul quale era sparso un
campionario di stoffe - Samsa era un commesso viaggiatore - era appesa la figura che aveva
recentemente ritagliato da un giornale illustrato e sistemato in una bella cornice dorata. Rappresentava
una signora seduta tutta impettita con un cappellino e un boa' di pelliccia, che ostentava a chi la
guardasse un ampio manicotto nel quale scomparivano i suoi avambracci.
Lo sguardo di Gregor si rivolse poi alla finestra e il cattivo tempo - si udiva la pioggia picchiettare sulle
pareti metalliche della finestra - lo rattristò completamente. «Che accadrebbe se continuassi a dormire un
altro po' dimenticando queste sciocchezze?», pensò, ma non era proprio fattibile perché era abituato a
dormire sul fianco destro e nelle condizioni in cui si trovava non poteva assumere quella posizione. Per
quanto si sforzasse di buttarsi verso destra ripiombava sempre nella posizione supina.' Ci provò un
centinaio di volte, chiuse gli occhi per non vedere le zampe annaspanti, e rinunciò solo quando cominciò a
sentire sul fianco un dolorino sordo, mai provato prima d'allora. «Oh Dio», pensò, «che mestiere faticoso
mi sono scelto! Sempre in giro, un giorno dopo l'altro. L'affanno per gli affari è molto maggiore che nel~
l'azienda, inoltre devo sopportare anche questa piaga del viaggiatore, i crucci per le coincidenze, i pasti
irregolari e cattivi, rapporti umani sempre mutevoli, mai costanti, mai cordiali. Che vada tutto al diavolo!»
Provò un leggero prurito sulla pancia; si trascinò lentamente sul dorso verso la testata del letto per poter
sollevare meglio il capo; localizzò la parte che gli prudeva e che era cosparsa di puntini bianchi, di cui non
riusciva a spiegarsi la causa; volle toccare la parte con una zampa, ma la ritirò subito perché il contatto lo
fece rabbrividire. Scivolò nuovamente nella posizione di prima. «Queste continue levatacce», pensò,
«finiscono per rincitrullire. Ogni essere umano ha bisogno delle sue giuste ore di sonno. (…)
Intanto, però, devo alzarmi, il mio treno parte alle cinque.»
E guardò la sveglia che ticchettava sul cassettone. «Santo Cielo!», esclamò tra sé. Erano le sei e mezza
e le lancette proseguivano tranquillamente il loro cammino, anzi era ancora più tardi, mancava poco ai tre
quarti. Forse la sveglia non aveva suonato? Si vedeva benissimo anche dal letto che era stata fissata sulle
quattro; aveva suonato sicuramente. Sì, ma era mai possibile continuare a dormire pacificamente con
quel frastuono che scuoteva i mobili? In verità, non aveva dormito proprio pacificamente, però forse per
questo il sonno era stato più pesante. Che cosa doveva fare ora? Il prossimo treno partiva alle sette; per
prenderlo avrebbe dovuto sbrigarsi come un matto, il campionario non era ancora sistemato e lui stesso
non si sentiva particolarmente sveglio e attivo. E anche se avesse preso quel treno una sfuriata del
principale sarebbe stata inevitabile, perché l'usciere della ditta aveva atteso al treno delle cinque e aveva
già riferito la sua mancanza. Era una creatura del padrone, senza spina dorsale né comprendonio. E se si
fosse dato per malato? Ma ciò sarebbe assai penoso e sospetto, perché durante i suoi cinque anni di
servizio Gregor non era mai stato malato. Sicuramente il principale sarebbe venuto con il medico della
cassa malattia, avrebbe rimproverato i genitori per la pigrizia del loro figlio e avrebbe troncato qualsiasi
obiezione rimettendosi al parere del medico della cassa malattia, per il quale esistono soltanto persone
sanissime o pelandroni. E gli si poteva poi dare torto nel suo caso? Gregor, a parte il sopore eccessivo
dovuto al lungo sonno, si sentiva veramente bene e aveva persino una gran fame. Mentre questi pensieri
gli turbinavano per la mente, e senza che si decidesse a lasciare il letto - proprio in quel momento la
sveglia faceva le sei e tre quarti - venne bussato lievemente alla porta che si trovava vicino alla testata
del letto. «Gregon, mormorò una voce - era la mamma -<sono le sette meno un quarto. Non dovevi
partire?» La dolce voce! Gregor sussultò udendo la propria voce mentre rispondeva, che era
indubbiamente ancora quella di prima, in cui si mescolava però, dal basso, un insopprimibile frinire
fastidioso, che solo in un primissimo momento lasciava alle sue parole un suono integro, ma poi lo
deformava al punto da far credere di aver udito male. Gregor avrebbe voluto rispondere fornendo tutti i
particolari, ma in simili condizioni si limitò a dire: «Sì, sì, grazie mamma, mi sto alzando». La porta chiusa
1
trad. di L. Coppò, Newton Compton
impediva che fuori si notasse il cambiamento nella voce di Gregor, perciò la mamma rassicurata se ne
andò strascicando i piedi. Ma il breve dialogo aveva rivelato agli altri membri della famiglia che contro
ogni aspettativa, Gregor si trovava ancora in casa, e il padre si era già messo a bussare alla porta,
debolmente ma col pugno. «Gregor, Gregor», gridò, «che cosa c'è?» E dopo un breve intervallo tonò con
voce più profonda: «Gregor! Gregor!». Dietro l'altra porta la sorella bisbigliava: «Gregor? Non ti senti
bene? Hai bisogno di qualcosa?». Gregor rispose in entrambe le direzioni: «Sono già pronto», e si sforzò
di eliminare ogni suono strano dalla sua voce scandendo le parole con molta cura e separandole con
lunghe pause. Infatti il padre tornò alla sua colazione, ma la sorella mormorò: «Gregor, apri, te ne
supplico». Gregor non pensava proprio di aprire, anzi si compiaceva dell'abitudine presa nel corso dei suoi
viaggi di chiudere a chiave le porte durante la notte anche quando si trovava in casa propria. Per prima
cosa voleva alzarsi indisturbato, vestirsi e soprattutto fare colazione e soltanto dopo avrebbe pensato al
resto, ormai s'era reso conto che riflettendo a letto non sarebbe mai giunto a nessuna conclusione. Si
rammentava di aver sentito più volte mentre era ancora coricato una fitta forse provocata da una
posizione sbagliata, che poi - una volta alzato - si era dimostrata pura immaginazione e ora era curioso di
vedere come le sue odierne fantasie sarebbero sfumate a poco a poco. Non aveva alcun dubbio che il
mutamento della voce non fosse altro che il prodromo d'un bel raffreddore, una malattia professionale dei
viaggiatori di commercio. Buttar via la coperta era molto semplice; bastò che egli si gonfiasse un poco ed
essa cadde da sola. Ma, dopo, le cose si fecero più difficili, soprattutto perché era così largo. Avrebbe
avuto bisogno di braccia e di mani per sollevarsi; invece aveva solo quelle numerose zampette, che si
agitavano continuamente e che non riusciva a dominare. Se voleva piegarne una, accadeva invece che la
prima si drizzasse e quando riusciva a fare il movimento che si era proposto con una zampa le altre
lavoravano come se fossero indipendenti con una turbolenza dolorosissima. «Basta non trattenersi a letto
senza scopo», disse tra sé Gregor. Prima volle scendere dal letto con la parte inferiore del corpo, ma
questa parte inferiore, che egli d'altronde non aveva ancora visto e di cui non riusciva neppure a farsi
un'immagine esatta, si rivelò assai impacciata; tutto andava così lentamente; e quando alla fine, ormai
furente, si spinse in avanti senza alcun riguardo, dopo aver chiamato a raccolta tutte le sue forze, sbagliò
direzione e batté violentemente sulla spalliera inferiore del letto, accorgendosi che proprio la parte
inferiore del suo corpo era attualmente la più sensibile.
Perciò tentò d'uscire dal letto con la parte superiore del corpo e girò cautamente il capo verso la
sponda. Questo gli riuscì facilmente e, nonostante la larghezza e il peso, la massa del corpo seguì
lentamente la direzione della testa. Ma quando la testa sporse, finalmente libera, fuori dal letto egli ebbe
paura di continuare a quel modo, perché se si fosse lasciato cadere in terra in una simile posizione
sarebbe stato un vero miracolo non ferirsi alla testa. E ora non doveva assolutamente perdere i sensi;
preferiva restare a letto.
Ma quando riuscì a giacere come prima, ansimando per aver compiuto una fatica pari alla prima, e vide
le sue zampette lottare fra loro in maniera persino più violenta e non riuscì a trovare alcun mezzo per
mettere un po' d'ordine in quel bailamme,' si convinse che non era possibile restare a letto e che
bisognava affrontare qualsiasi sacrificio pur d'uscirne fuori. Inoltre si ricordò che una riflessione serena,
anzi più che serena, era di gran lunga migliore di una decisione presa in un momento di disperazione. In
simili momenti usava fissare la finestra, ma purtroppo la vista della nebbia mattutina, che nascondeva
persino il lato opposto della stretta via, non poteva infondere fiducia e allegria. «Già le sette», disse tra sé
al nuovo scattare dell'ora, «già le sette e c'è ancora una nebbia simile.» E per un poco rimase tranquillo
respirando debolmente come se si attendesse dalla quiete assoluta il ritorno delle condizioni normali.
• Quali caratteristiche dell'Esistenzialismo trovi in questo testo? Ci sono pensieri, monologhi interiori?
• Ora leggi questo brano tratto dall'Ulisse di James Joyce
[…] Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da
quando eravamo al City Armas hotel quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il
pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d'essere nelle sue grazie e
lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l'anima sua spilorcia […] aveva paura di tirar fuori
quattro soldi […] mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti i discorsi di politica
e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero
come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere
addosso a lei […]