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IL DISAGIO DELL’ESISTERE

NOTA INTRODUTTIVA
Tutta l'arte e la letteratura del '900, per essere capita a pieno, deve essere studiata nei suoi primi
trent'anni, trent'anni di originalità assoluta.
Già alla fine dell'800 si notano dei cambiamenti radicali che costituiscono il seme di quello che avverrà nel
XX secolo.

Presupposti: la perdita dei punti di riferimento

• La tecnica, che nell’ottocento e inizi novecento aveva suscitato grandi speranze è diventata
strumento di morte
• Sfumate le certezze di un mondo di benessere e giustizia
• Il concetto di velocità. Sempre più persone si spostano velocemente da un luogo all'altro. La vita
diventa più frenetica: cambia il concetto di tempo (Futurismo).

• Affetti: molte perdite di vite umane a causa della guerra


• Principi di democrazia: calpestati e sostituiti con concetti di dominio del più forte.
• Sorgono regimi autoritari => atteggiamenti irrazionali, violenti, aggressivi (due guerre mondiali,
Fascismo e Nazismo)
• Conoscenza della realtà e Sigmund Freud
• La razionalità non controlla più totalmente ogni aspetto della nostra realtà: c'è una dimensione
nascosta dell’individuo: l'inconscio => I punti di vista sono frantumati (Freud - Cubismo);
• nasce il RELATIVISMO MODERNO: le cose non sono mai vere o false, ma diverse a seconda del
punto di vista
• Non influenza solo il pensiero scientifico, ma tutta la cultura
• Salute: l'influenza Spagnola di tipo A
• Ciò che si possedeva (case, lavoro) => spazzato via dalla guerra

Conseguenze
• Valori, prima punto di riferimento assoluto, frantumati (processo già iniziato in epoca
industriale => artista aveva già iniziato questo processo (vedi Pascoli e Ungaretti)
• Profondo senso di ansia, precarietà, disorientamento, insicurezza.
• L’uomo non crede più in se stesso, nella ragione
• Esigenza di elaborare nuove risposte

La letteratura e l'arte
• strumento nuovo di lettura della realtà
• I personaggi sono incerti, insicuri, inetti, deboli
• Non interessano più Verismo o le trasformazioni sociali, ma i ricordi, le paure, i pensieri
(Importantissimo J. Joyce e il suo flusso di pensiero)
• Il linguaggio di prima non è più adeguato: si cercano linguaggi nuovi, essenziali, perché tutti i
discorsi di prima non valgono più
• rottura con il passato già iniziata alla fine dell'800
• NB: Accademie d'arte non sono più valide. Per produrre qualsiasi forma artistica è necessario
uscire dalle stanze chiuse e guardare la realtà così come si presenta (Verismo) o paragonare la
realtà alla propria esperienza o stato d'animo (Decadentismo – Impressionismo)
Mia moglie e il mio naso di Luigi Pirandello
Nel romanzo Uno, nessuno e centomila Luigi Pirandello affronta il tema della dissoluzione dell'io: ciascuno
di noi non sa bene se egli è quello che egli crede di essere o quello che gli altri vedono in lui, perciò in
realtà non è nessuno.
All'inizio del romanzo la moglie, fa notare al protagonista, Vitangelo Moscarda, che il naso gli pende
leggermente verso destra.
La scoperta che il suo aspetto esteriore non corrisponde all'immagine che ha sempre avuto di se stesso
scatena in lui una crisi d'identità.

- Che fai? - mia moglie mi domandò, -vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
- Niente - le risposi, - mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo
dolorino. Mia moglie sorrise e disse:
- Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: - Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
- Ma sì, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente,
come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m'era stato facile ammettere e sostenere quel
che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire' un corpo
deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di
quel difetto -perciò mi stizzì- come un immeritato castigo. Vide forse mia moglie molto più addentro di me
in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d'essere in tutto senza mende, me
ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, così...
- Che altro?
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi,^^, le mie orecchie erano
attaccate male, una più sporgente dell'altra; e altri difetti....
- Ancora?
Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino più
arcuata dell'altra: verso il ginocchio, un pochino. Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti
questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento la maraviglia che ne provai subito
dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m'esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi,
tutto sommato, rimanevo un bell'uomo. Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò
che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo
né d'addolorarmi né d'avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e
straordinaria al fatto che tant'anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle
sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver
conto' che li avevo difettosi.
«Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito».
Ecco, già - le mogli, non nego. Ma anch'io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni
parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi
scavavano dentro e bucheravano' giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza
che di fuori ne paresse nulla. Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito,
nella riflessione che dunque - possibile? - non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie
che più intimamente m'appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele
per rifarne l'esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo
così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato
(come dirò) il rimedio che doveva guarirmene. Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie
la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me. - Mi guardi il
naso? - domandai tutt'a un tratto quel giorno stesso a un amico che mi s'era accostato per parlarmi di non
so che affare che forse gli stava a cuore.
- No, perché? - mi disse quello. E io, sorridendo nervosamente:
- Mi pende verso destra, non vedi?
E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione, come se quel difetto del mio naso fosse un
irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell'universo.
L'amico mi guardò in prima un po' stordito; poi, certo sospettando che avessi così all'improvviso e fuor di
luogo cacciato fuori il discorso del mio naso perché non stimavo degno né d'attenzione né di risposta
l'affare di cui mi parlava, diede una spallata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappai per un braccio,
e:
- No, sai, - gli dissi, - sono disposto a trattare con te codest'affare. Ma in questo momento tu devi
scusarmi. - Pensi al tuo naso?
- Non m'ero mai accorto che mi pendesse verso destra. Me n'ha fatto accorgere, questa mattina, mia
moglie.
- Ah, davvero? - mi domandò allora l'amico; e gli occhi gli risero d'una incredulità ch'era anche derisione.
Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina, cioè con un misto d'avvilimento, di stizza e di
maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo
se n'era accorto? E chi sa quant'altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendolo, credevo d'essere per
tutti un Moscarda col naso dritto, mentr’ero invece per tutti un Moscarda col naso storto; e chi sa quante
volte m'era avvenuto di parlare, senz'alcun sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Cajo e quante volte
perciò non avevo fatto ridere di me e pensare: «Ma guarda un po' questo pover'uomo che parla dei difetti
del naso altrui!». Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il
mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti
altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio
spirito e non potei consolarmi con questa riflessione. Mi si fissò invece il pensiero ch'io non ero per gli altri
quel che finora, dentro di me, m'ero figurato d'essere.

Da Uno, nessuno, centomila di Luigi Pirandello

Il fumo di Italo Svevo


Il dottore al quale ne parlai mi disse d'iniziare il mio lavoro con un'analisi storica della mia propensione
al fumo:
- Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero.
Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz'andar a sognare su quella poltrona. Non so
come cominciare e invoco l'assistenza delle sigarette tutte tanto somiglianti a quella che ho in mano.
Oggi scopro subito qualche cosa che piú non ricordavo. Le prime sigarette ch'io fumai non esistono piú
in commercio. Intorno al '70 se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in scatoline di
cartone munite del marchio dell'aquila bicipite. Ecco: attorno a una di quelle scatole s'aggruppano subito
varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a
commovermi per l'impensato incontro. Tento di ottenere di piú e vado alla poltrona: le persone
sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.
Una delle figure, dalla voce un po' roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, e l'altra, mio
fratello, di un anno di me piú giovine e morto tanti anni or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto
denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di piú a mio fratello
che a me. Donde la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Cosí avvenne che rubai.
D'estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano
sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo
una dopo l'altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del
furto.
Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che
potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l'origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono
già guarito. Perciò, per provare, accendo un'ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine
che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande
importanza nella mia cura) gli dissi che m'era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle
mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non s'avvide che avevo le dita nel taschino del suo
panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand'essa non esisteva
piú, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè... rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la
casa dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli
via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li buttasse via. Andavo a fumarli di
nascosto. Già all'atto d'impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere
m'avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio
stomaco si contorcesse.
Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.
So perfettamente come mio padre mi guarí anche di quest'abitudine. Un giorno d'estate ero ritornato a
casa da un'escursione scolastica, stanco e bagnato di sudore. Mia madre m'aveva aiutato a spogliarmi e,
avvoltomi in un accappatoio, m'aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa sedette occupata
a certo lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia pieni di sole e tardavo a
perdere i sensi. La dolcezza che in quell'età s'accompagna al riposo dopo una grande stanchezza, m'è
evidente come un'immagine a sé, tanto evidente come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che
piú non esiste.
Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che ora, in questi tempi avari di spazio,
è divisa in due parti. In quella scena mio fratello non appare, ciò che mi sorprende perché penso ch'egli
pur deve aver preso parte a quell'escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia
dormito anche lui all'altro capo del grande sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto. Non vedo che
me, la dolcezza del riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui sento echeggiare le parole. Egli era entrato
e non m'aveva subito visto perché ad alta voce chiamò:
- Maria!
La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale accennò a me, ch'essa credeva
immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi piaceva tanto che il babbo dovesse
imporsi un riguardo per me, che non mi mossi.
Mio padre con voce bassa si lamentò:
- Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz'ora fa su quell'armadio un mezzo
sigaro ed ora non lo trovo piú. Sto peggio del solito. Le cose mi sfuggono.
Pure a voce bassa, ma che tradiva un'ilarità trattenuta solo dalla paura di destarmi, mia madre rispose:
- Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza.
Mio padre mormorò:
- È perché lo so anch'io, che mi pare di diventar matto!
Si volse ed uscí.
Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s'era rimessa al suo lavoro, ma continuava a
sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse per ammattire per sorridere cosí delle sue paure. Quel
sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie.
Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio vizio, ma le proibizioni
valsero ad eccitarlo.
Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico,
ricordo un soggiorno prolungato per una mezz'ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui
non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: Due paia di calzoncini che stanno in piedi
perché dentro c'è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne
sapesse bruciare di piú nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo
strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all'aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito.
Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:
- A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m'occorre.
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch'essa che a me doveva essere rivolta in
quel momento.
Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi
metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent'anni circa. Allora soffersi per
qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e
l'assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferí e la febbre la colorí: Un vuoto
grande e niente per resistere all'enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.
Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in
bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente
la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse:
- Non fumare, veh!
Mi colse un'inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò mai piú, ma prima voglio
farlo per l'ultima volta». Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall'inquietudine ad onta che la
febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state
toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l'accuratezza con cui si compie un voto. E,
sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col
suo sigaro in bocca dicendomi:
- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch'egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di
correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate
finirono coll'essere piene di sigarette e di propositi di non fumare piú e, per dire subito tutto, di tempo in
tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent'anni, si muove tuttavia. Meno
violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si
sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette...
che non sono le ultime.
LA METAMORFOSI di Franz Kafka1

Il commesso viaggiatore Gregor Samsa scopre improvvisamente un mattino al suo risveglio di essersi
trasformato in uno scarafaggio che desta la ripugnanza dei suoí familiari. Segregato nella sua camera,
dorme sotto il letto ed è nutrito degli avanzi della tavola dalla domestica che, sola, riesce a sopportare la
sua vista. Ormai rassegnato a rimanere chiuso per sempre nella sua stanza, un giorno, attirato dal suono
del violino della sorella, ne esce seminando il panico tra i familiari. Ferito da una mela scagliatagli contro
dal padre, muore e viene gettato dalla domestica nella spazzatura. Di questo lungo racconto ti diamo le
pagine iniziali.

Quando Gregor Samsa si risvegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò nel suo letto trasformato
in un insetto gigantesco. Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo
poteva vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la
coperta, pronta a scivolar via, si reggeva appena. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se
paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi. «Che cosa mi è successo?»,
pensò. Non era un sogno. La sua stanza, una vera stanza - sia pure piccola - per esseri umani, era
tranquillamente racchiusa tra le quattro pareti così familiari. Sopra il tavolo, sul quale era sparso un
campionario di stoffe - Samsa era un commesso viaggiatore - era appesa la figura che aveva
recentemente ritagliato da un giornale illustrato e sistemato in una bella cornice dorata. Rappresentava
una signora seduta tutta impettita con un cappellino e un boa' di pelliccia, che ostentava a chi la
guardasse un ampio manicotto nel quale scomparivano i suoi avambracci.
Lo sguardo di Gregor si rivolse poi alla finestra e il cattivo tempo - si udiva la pioggia picchiettare sulle
pareti metalliche della finestra - lo rattristò completamente. «Che accadrebbe se continuassi a dormire un
altro po' dimenticando queste sciocchezze?», pensò, ma non era proprio fattibile perché era abituato a
dormire sul fianco destro e nelle condizioni in cui si trovava non poteva assumere quella posizione. Per
quanto si sforzasse di buttarsi verso destra ripiombava sempre nella posizione supina.' Ci provò un
centinaio di volte, chiuse gli occhi per non vedere le zampe annaspanti, e rinunciò solo quando cominciò a
sentire sul fianco un dolorino sordo, mai provato prima d'allora. «Oh Dio», pensò, «che mestiere faticoso
mi sono scelto! Sempre in giro, un giorno dopo l'altro. L'affanno per gli affari è molto maggiore che nel~
l'azienda, inoltre devo sopportare anche questa piaga del viaggiatore, i crucci per le coincidenze, i pasti
irregolari e cattivi, rapporti umani sempre mutevoli, mai costanti, mai cordiali. Che vada tutto al diavolo!»
Provò un leggero prurito sulla pancia; si trascinò lentamente sul dorso verso la testata del letto per poter
sollevare meglio il capo; localizzò la parte che gli prudeva e che era cosparsa di puntini bianchi, di cui non
riusciva a spiegarsi la causa; volle toccare la parte con una zampa, ma la ritirò subito perché il contatto lo
fece rabbrividire. Scivolò nuovamente nella posizione di prima. «Queste continue levatacce», pensò,
«finiscono per rincitrullire. Ogni essere umano ha bisogno delle sue giuste ore di sonno. (…)
Intanto, però, devo alzarmi, il mio treno parte alle cinque.»
E guardò la sveglia che ticchettava sul cassettone. «Santo Cielo!», esclamò tra sé. Erano le sei e mezza
e le lancette proseguivano tranquillamente il loro cammino, anzi era ancora più tardi, mancava poco ai tre
quarti. Forse la sveglia non aveva suonato? Si vedeva benissimo anche dal letto che era stata fissata sulle
quattro; aveva suonato sicuramente. Sì, ma era mai possibile continuare a dormire pacificamente con
quel frastuono che scuoteva i mobili? In verità, non aveva dormito proprio pacificamente, però forse per
questo il sonno era stato più pesante. Che cosa doveva fare ora? Il prossimo treno partiva alle sette; per
prenderlo avrebbe dovuto sbrigarsi come un matto, il campionario non era ancora sistemato e lui stesso
non si sentiva particolarmente sveglio e attivo. E anche se avesse preso quel treno una sfuriata del
principale sarebbe stata inevitabile, perché l'usciere della ditta aveva atteso al treno delle cinque e aveva
già riferito la sua mancanza. Era una creatura del padrone, senza spina dorsale né comprendonio. E se si
fosse dato per malato? Ma ciò sarebbe assai penoso e sospetto, perché durante i suoi cinque anni di
servizio Gregor non era mai stato malato. Sicuramente il principale sarebbe venuto con il medico della
cassa malattia, avrebbe rimproverato i genitori per la pigrizia del loro figlio e avrebbe troncato qualsiasi
obiezione rimettendosi al parere del medico della cassa malattia, per il quale esistono soltanto persone
sanissime o pelandroni. E gli si poteva poi dare torto nel suo caso? Gregor, a parte il sopore eccessivo
dovuto al lungo sonno, si sentiva veramente bene e aveva persino una gran fame. Mentre questi pensieri
gli turbinavano per la mente, e senza che si decidesse a lasciare il letto - proprio in quel momento la
sveglia faceva le sei e tre quarti - venne bussato lievemente alla porta che si trovava vicino alla testata
del letto. «Gregon, mormorò una voce - era la mamma -<sono le sette meno un quarto. Non dovevi
partire?» La dolce voce! Gregor sussultò udendo la propria voce mentre rispondeva, che era
indubbiamente ancora quella di prima, in cui si mescolava però, dal basso, un insopprimibile frinire
fastidioso, che solo in un primissimo momento lasciava alle sue parole un suono integro, ma poi lo
deformava al punto da far credere di aver udito male. Gregor avrebbe voluto rispondere fornendo tutti i
particolari, ma in simili condizioni si limitò a dire: «Sì, sì, grazie mamma, mi sto alzando». La porta chiusa

1
trad. di L. Coppò, Newton Compton
impediva che fuori si notasse il cambiamento nella voce di Gregor, perciò la mamma rassicurata se ne
andò strascicando i piedi. Ma il breve dialogo aveva rivelato agli altri membri della famiglia che contro
ogni aspettativa, Gregor si trovava ancora in casa, e il padre si era già messo a bussare alla porta,
debolmente ma col pugno. «Gregor, Gregor», gridò, «che cosa c'è?» E dopo un breve intervallo tonò con
voce più profonda: «Gregor! Gregor!». Dietro l'altra porta la sorella bisbigliava: «Gregor? Non ti senti
bene? Hai bisogno di qualcosa?». Gregor rispose in entrambe le direzioni: «Sono già pronto», e si sforzò
di eliminare ogni suono strano dalla sua voce scandendo le parole con molta cura e separandole con
lunghe pause. Infatti il padre tornò alla sua colazione, ma la sorella mormorò: «Gregor, apri, te ne
supplico». Gregor non pensava proprio di aprire, anzi si compiaceva dell'abitudine presa nel corso dei suoi
viaggi di chiudere a chiave le porte durante la notte anche quando si trovava in casa propria. Per prima
cosa voleva alzarsi indisturbato, vestirsi e soprattutto fare colazione e soltanto dopo avrebbe pensato al
resto, ormai s'era reso conto che riflettendo a letto non sarebbe mai giunto a nessuna conclusione. Si
rammentava di aver sentito più volte mentre era ancora coricato una fitta forse provocata da una
posizione sbagliata, che poi - una volta alzato - si era dimostrata pura immaginazione e ora era curioso di
vedere come le sue odierne fantasie sarebbero sfumate a poco a poco. Non aveva alcun dubbio che il
mutamento della voce non fosse altro che il prodromo d'un bel raffreddore, una malattia professionale dei
viaggiatori di commercio. Buttar via la coperta era molto semplice; bastò che egli si gonfiasse un poco ed
essa cadde da sola. Ma, dopo, le cose si fecero più difficili, soprattutto perché era così largo. Avrebbe
avuto bisogno di braccia e di mani per sollevarsi; invece aveva solo quelle numerose zampette, che si
agitavano continuamente e che non riusciva a dominare. Se voleva piegarne una, accadeva invece che la
prima si drizzasse e quando riusciva a fare il movimento che si era proposto con una zampa le altre
lavoravano come se fossero indipendenti con una turbolenza dolorosissima. «Basta non trattenersi a letto
senza scopo», disse tra sé Gregor. Prima volle scendere dal letto con la parte inferiore del corpo, ma
questa parte inferiore, che egli d'altronde non aveva ancora visto e di cui non riusciva neppure a farsi
un'immagine esatta, si rivelò assai impacciata; tutto andava così lentamente; e quando alla fine, ormai
furente, si spinse in avanti senza alcun riguardo, dopo aver chiamato a raccolta tutte le sue forze, sbagliò
direzione e batté violentemente sulla spalliera inferiore del letto, accorgendosi che proprio la parte
inferiore del suo corpo era attualmente la più sensibile.
Perciò tentò d'uscire dal letto con la parte superiore del corpo e girò cautamente il capo verso la
sponda. Questo gli riuscì facilmente e, nonostante la larghezza e il peso, la massa del corpo seguì
lentamente la direzione della testa. Ma quando la testa sporse, finalmente libera, fuori dal letto egli ebbe
paura di continuare a quel modo, perché se si fosse lasciato cadere in terra in una simile posizione
sarebbe stato un vero miracolo non ferirsi alla testa. E ora non doveva assolutamente perdere i sensi;
preferiva restare a letto.
Ma quando riuscì a giacere come prima, ansimando per aver compiuto una fatica pari alla prima, e vide
le sue zampette lottare fra loro in maniera persino più violenta e non riuscì a trovare alcun mezzo per
mettere un po' d'ordine in quel bailamme,' si convinse che non era possibile restare a letto e che
bisognava affrontare qualsiasi sacrificio pur d'uscirne fuori. Inoltre si ricordò che una riflessione serena,
anzi più che serena, era di gran lunga migliore di una decisione presa in un momento di disperazione. In
simili momenti usava fissare la finestra, ma purtroppo la vista della nebbia mattutina, che nascondeva
persino il lato opposto della stretta via, non poteva infondere fiducia e allegria. «Già le sette», disse tra sé
al nuovo scattare dell'ora, «già le sette e c'è ancora una nebbia simile.» E per un poco rimase tranquillo
respirando debolmente come se si attendesse dalla quiete assoluta il ritorno delle condizioni normali.

5- Franz Kafka, Lettera al padre


Non sostengo naturalmente di essere divenuto quello che sono soltanto per la tua influenza.
[...] Probabilmente sarei stato egualmente deboluccio, pauroso, titubante, inquieto, [...] ma comunque
diversissimo da quello che sono davvero, e ci saremmo intesi alla perfezione. Sarei stato felice di averti
come amico, come principale, come zio, come nonno e persino (pur con qualche titubanza) come suocero.
Solo come padre eri troppo forte per me, [...] Tu invece sei un vero Kafka, per forza, salute, appetito,
intensità vocale, capacità oratorie, autocompiacimento, senso di superiorità, resistenza, presenza di
spirito, conoscenza degli uomini. […] Ero un bimbo pauroso, ma ero anche testardo, come lo sono i bimbi;
sicuramente la mamma mi ha anche un po' viziato, ma non posso credere che fosse così difficile
indirizzarmi, non posso credere che una parola gentile, un tacito prendermi per mano, uno sguardo buono
non avrebbero potuto ottenere da me tutto quel che si voleva. [...]
Direttamente di quei primi anni ricordo soltanto un episodio. Forse lo ricordi anche tu. Una volta, di notte,
frignavo perché volevo un po' d'acqua, certo non per sete, ma probabilmente in parte per farvi arrabbiare,
in parte per divertirmi. Dopo che alcune severe minacce non erano servite a niente, mi prendesti dal letto,
mi portasti sul ballatoio e mi ci lasciasti per un po' , in camicia da notte, davanti alla porta chiusa. Non
voglio dire che sia stato ingiusto, forse davvero non c'era modo di ripristinare altrimenti la quiete
notturna, voglio soltanto caratterizzare i tuoi metodi educativi e il loro effetto su di me. In seguito fui
certo più arrendevole, ma ne riportai un danno interiore. [...] Per molti anni ancora patii pene strazianti
all'idea che quel gigante, mio padre, l'istanza ultima, poteva venire quasi senza motivo e, di notte,
portarmi dal letto sul ballatoio, e che quindi io per lui ero una tale nullità. Questo fu soltanto un piccolo
inizio, ma questa sensazione di nullità che spesso mi domina (sensazione da altri punti di vista anche
nobile e feconda) deriva abbondantemente dalla tua influenza. lo avrei avuto bisogno di un po'
d'incoraggiamento, un po' di gentilezza, di qualcuno che mi lasciasse un po' aperta la mia strada: invece
me la sbarrasti, sicuramente con le migliori intenzioni, quelle di farmene imboccare un'altra. Ma io non ne
ero capace. Mi incoraggiavi, ad esempio, quando ero bravo a fare il saluto militare e a marciare, ma io
non ero un futuro soldato. Poiché da bambino stavo con te soprattutto durante i pasti, le tue lezioni erano
in massima parte lezioni su come ci si comporta a tavola. Quel che si metteva in tavola doveva essere
mangiato, sulla bontà del cibo non si discuteva; ma tu spesso lo trovavi immangiabile, lo chiamavi
«mangime» e affermavi che la «bestia» (la cuoca) l'aveva rovinato. [...] e a tavola regnava un cupo
silenzio, interrotto dalle esortazioni: «Prima mangia, poi parla», Oppure: «Più alla svelta, più alla svelta»,
oppure: «Vedi, io ho già finito da un bel pezzo».
Gli ossi non si potevano rosicchiare, ma tu lo facevi; l'aceto non si poteva sorbire, ma tu lo facevi. La cosa
più importante era tagliare il pane diritto; che tu però lo facessi con un coltello grondante di sugo era
indifferente. Si doveva fare attenzione a non lasciare cadere avanzi di cibo sul pavimento; di solito erano
tutti sotto di te. A tavola ci si doveva occupare solo del pasto, tu però ti tagliavi le unghie, facevi la punta
alle matite, ti pulivi le orecchie con uno stuzzicadenti. Ti prego, padre, non fraintendermi, sarebbero stati
di per sé particolari completamente insignificanti: per me divennero schiaccianti soltanto perché tu,
misura assoluta di tutte le cose, personalmente non ti attenevi ai comandamenti che mi imponevi. [...]

• Quali caratteristiche dell'Esistenzialismo trovi in questo testo? Ci sono pensieri, monologhi interiori?
• Ora leggi questo brano tratto dall'Ulisse di James Joyce

[…] Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da
quando eravamo al City Armas hotel quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il
pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d'essere nelle sue grazie e
lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l'anima sua spilorcia […] aveva paura di tirar fuori
quattro soldi […] mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti i discorsi di politica
e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero
come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere
addosso a lei […]

• Qual è la prima caratteristica grammaticale che risulta evidente?


• Perché l'autore decide di scrivere così?
• Cosa significa quindi monologo interiore (o stream of consciousness)
• Partendo dalle caratteristiche dell'Esistenzialismo, cerca nei brani letti di Pirandello, Svevo, Kafka
e Joyce esempi che confermino le caratteristiche elencate

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