Sei sulla pagina 1di 114

L1-L2

La linguistica acquisizionale è quella parte della linguistica che studia l’apprendimento linguistico (o
meglio, l’acquisizione, che non è la stessa cosa di apprendimento).
L’acquisizione è il processo spontaneo di acquisizione linguistica, di sviluppo di una lingua altra, rispetto a
quella materna, che avviene per immersione all’interno di un contesto nel quale quella è la lingua parlata.
L’apprendimento è quel processo di apprendimento linguistico fatto in un contesto formale e guidato, cioè
con l’aiuto di una o più persone (docente) che fanno da modello di riferimento e possono dare un feedback di
diverso tipo e modo (ne parleremo) e possono far notare gli errori da non commettere.
Acquisizione e apprendimento sono due termini che spesso, in altri contesti meno specialistici, sono
utilizzati come sinonimi. È stata, però, fatta nel corso delle teorie sulla linguistica acquisizionale una
distinzione da Krashen (uno studioso di linguistica acquisizionale che nominerà spesso) tra questi due
fenomeni.
L’acquisizione è il processo spontaneo di acquisizione linguistica, riguarda i bambini che sono calati in un
contesto di L1 e apprendono spontaneamente una lingua. È ciò che avviene a tutti noi con la nostra lingua
materna, ma è anche ciò che avviene a persone (bambini e adulti) che si trovano calati in un contesto di L2,
che non sono più in un contesto di apprendimento linguistico (scuola), ma apprendono la lingua sul posto. I
processi di acquisizione spontanea sono gli stessi anche negli adulti, nel momento in cui si trovano in un
processo di acquisizione che non sia guidato da un insegnante (si apprende per esposizione). Questa
acquisizione spontanea segue gli stessi stadi dell’acquisizione dei bambini, come imparano i bambini la
lingua per esposizione prima della scolarizzazione, così fanno anche gli adulti immersi in un contesto di L2
(argomento che verrà approfondito nelle prossime lezioni).
L’apprendimento è quel processo di apprendimento linguistico fatto in un contesto formale e guidato, in
questo contesto di solito c’è una o più persone (docenti di lingua) che sono sia punti di riferimento durante
l’apprendimento, sia offrono degli esempi di lingua che sono calibrati sulla loro competenza per facilitare
il processo di apprendimento, che sono sempre grammaticalmente corretti e sono in grado di far riflettere su
quello che si apprende.
Questa differenza tra acquisizione e apprendimento, è la stessa che troviamo tra apprendimento spontaneo
che è inconsapevole, inconscio, implicito, tanto che si parla di sviluppo, poiché si va a sviluppare una lingua
in modo inconsapevole e si riesce a comunicare in quella lingua a cui si è esposti; e apprendimento guidato
che è consapevole, intenzionale quindi si decide di fare dei corsi di lingua ed è esplicito poiché si basa sulle
regole e sull’insegnamento.
Molto spesso capita che ci sia un apprendimento misto e cioè che ci sia un processo guidato e a questo si
associa anche l’esposizione esterna, quindi fuori dalla classe. (Per esempio le serie tv ora sono lo strumento
più attuale di esposizione esterna, perché abbiamo una quantità di materiale a cui si può essere esposti).
Chi si occupa di linguistica acquisizionale? Chi studia l’apprendimento linguistico?
La linguistica, come scienza delle lingue che si occupa della descrizione delle lingue naturali (contrapposte
alle lingue artificiali).
La psicolinguistica, o linguistica cognitiva, che parla di quali sono i processi a livello cognitivo (quindi
mentale) che riguardano l’apprendimento linguistico e quindi anche quali sono le strategie mentali che un
apprendente mette in atto nel momento in cui deve capire, ascoltare, deve produrre una lingua straniera o una
lingua seconda. Quindi la psicolinguistica e la linguistica cognitiva si occupano di questo.
Poi c’è un’altra branca ancora della linguistica, che è la neurolinguistica, che invece si occupa dei processi
celebrali, ciò che avviene nel cervello a livello proprio di impulsi elettrici che studiano quali parti del
cervello si attivano quando parliamo di emozioni, di colori, quando lavoriamo sulla lingua ad esempio
utilizzando il metalinguaggio, sono tutti studi di neurolinguistica (che si occupano anche di studiare
fenomeni come l’afasia), studi che possono essere condotti all’apprendimento linguistico.
Inoltre, c’è la sociolinguistica, che si occupa di studiare i fenomeni linguistici all’interno di un contesto
socioculturale, quindi, le teorie e gli strumenti della sociolinguistica ci serviranno nel momento in cui
dovremo capire in che modo l’ambiente esterno influisce sul processo di apprendimento, sull’apprendente
stesso e sulla sua acquisizione linguistica.


La L1 è la lingua materna di ciascun parlante. È possibile avere più di una L1.

La L2 -o lingua seconda- è una lingua appresa nel paese dove essa è abitualmente parlata (es. italiano

appreso dagli studenti Erasmus o dagli immigrati)

La LS – o lingua straniera- è una lingua appresa tipicamente in contesti scolastici, in un paese

dove non è abitualmente parlata (es. inglese appreso nelle scuole italiane)

I criteri che differenziano L1 e L2


● Cronologia→ la L2 si impara generalmente dopo che è completato il processo di

● acquisizione della L1

● Competenza→ generalmente la L2 si conosce meno bene della L1

● Uso→ la L2 si usa meno spesso della L1

Il processo di apprendimento della L2 è diverso da quello della L1:


1. Si impara la L2 quando si è cognitivamente e socialmente più maturi.
2. La presenza della L1 e uso meno frequente della L2 possono rallentare il processo.

● Velocità → nell’acquisizione di L1 – ritardi per la L2 ← DIFFERENZA APPARENTE

● Sforzo → min. per la L1 vs max. per L2.

● Esito → competenza perfetta in L1 e imperfetta in L2.

Che cosa differenzia la lingua materna dalla lingua seconda?


La lingua seconda viene appresa successivamente alla lingua materna, quindi dopo che si è completato, o
meglio, avviato il processo di acquisizione della prima lingua (lingua materna). Cronologia
Generalmente la lingua seconda è la lingua per cui si ha una competenza meno avanzata rispetto alla lingua
materna, che è quella che padroneggiamo meglio.
Inoltre, di solito la lingua seconda si usa di meno rispetto alla L1. La L1 viene utilizzata anche in contesti
familiari, la L2 viene usata spesso in contesti extra familiari.
Questi parametri possono essere sfumati in base alle diverse situazioni della vita reale. Ad esempio, nei
casi di bilinguismo precoce, dove i bambini si trovano davanti a due genitori parlanti lingue diverse e quindi
la distinzione netta tra L1 e L2 si appanna. Un altro caso, è quello dell’emigrazione, dove la lingua imparata
per prima può arrugginirsi col passare del tempo rispetto a quella appresa in un secondo momento; oppure
in un lungo soggiorno all’estero dove si deve usare di più la lingua che si consoce meno

In che cosa il processo di apprendimento della L2 e della L1 è diverso?


Innanzitutto, quello della L2 avviene in un secondo momento, quindi nel momento in cui si è già appresa una
lingua, e quindi si è sia da un punto di vista cognitivo, più maturi, proprio di strutture cognitive, sia da un
punto di vista sociale di conoscenza e padronanza delle norme socioculturali. Questo è molto vero quando ad
esempio la L2 si apprende da adulti, in quanto si proviene già da un’esperienza di carattere socioculturale,
già sono state interiorizzate una serie di norme socioculturali, che riguardano la propria cultura, ma anche
forse la cultura di arrivo, e se siamo persone scolarizzate, sono già stati sviluppati una serie di meccanismi
cognitivi, il metalinguaggio proprio nello studiare e nel riflettere la nostra lingua materna.
Quando si apprende una L2 verrà spiegato che in tedesco per dire una cosa esiste il caso neutro, e se si è già
adulti, già si è a conoscenza di cosa si intende per caso neutro.
Invece da bambino è tutto da apprendere.
La presenza della L1 e uso meno frequente della L2 possono rallentare il processo di apprendimento della
L2, questo è vero soprattutto nel caso del bilinguismo infantile, ma può anche essere vero il contrario, che
può portare ad una perdita della L1. (caso di attrito linguistico).
Un’altra cosa che differenzia L1 e L2 è la velocità, lo sforzo e l’esito.
La questione della velocità è in controversa, sembra che la lingua materna si impari più velocemente, ma in
realtà non è così vero. Basti pensare a quanto tempo un bambino impieghi per imparare a parlare: a 2 anni
dice qualche parolina, a 4 anni già parla.
Ci ha impiegato 4 anni per parlare, che non sono pochi, ma sono 4 anni in cui si è continuamente esposti ad
input dall’esterno perché i genitori passano ore a parlarti, o parlano tra di loro e tu ascolti.
In realtà il tempo che i bambini impiegano nel diventare padroni di una lingua, ovvero saperla parlare in
maniera corretta, è tanto, solo che sembra volerci meno fatica e meno sforzo in quanto viene in maniera
naturale; invece, quanto sforzo e quanto tempo sembra che ci voglia quando da grandi si vuole imparare una
lingua straniera o una lingua seconda. Lì pesa molto di più, perché c’è anche più consapevolezza rispetto agli
errori.
Altro fattore che differenzia L1 e L2 è sicuramente l’esito, perché di solito nella lingua materna si ha una
competenza avanzata, si sente di avere una competenza elevata e di padroneggiare la lingua in tutti i sensi,
mentre nella L2 può non essere così. Anche lì si può raggiungere una competenza che va a quella dei parlanti
nativi, si può tendere ad una competenza tendenzialmente perfetta, ma spesso per le lingue seconde o
straniere, non è così.
ESPERIMENTO - spiegazione:
Abbiamo calibrato la realizzazione di un atto linguistico, abbiamo compiuto un’azione ovvero la richiesta di
chiudere una porta. Ne è venuto fuori che noi che condividiamo l’italiano come L1 abbiamo la capacità di
calibrare l’atto linguistico, calibrarne anche la forza illocutiva (ne riparleremo), cambiare l’enunciato a
seconda dell’interlocutore e della situazione comunicativa. In quanto parlanti nativi noi condividiamo queste
norme. Ma sareste stati in grado di fare lo stesso esperimento nelle lingue che studiate? Questa capacità si è
sviluppata in maniera inconscia, naturale ma anche grazie a delle guide: docenti e genitori, detti care takers
che sommergono di imput e modelli linguistici e di istruzioni (“Sii educato!”, “Si dice grazie”) che sono
insegnamenti di carattere pragmatico che insegnano al bambino ad usare la lingua in un contesto e, nello
specifico, come essere educati nel momento in cui la situazione è più formale. Quindi appuntare dei
comportamenti che si rifanno a certe norme socioculturalmente adeguate.
Il parlante di L1 è:
- Linguisticamente competente quindi conosce le regole della sua lingua e ha anche intuizioni su ciò che è
corretto e sbagliato (sappiamo riconoscere una frase come grammaticale o agrammaticale anche se non ha
senso. Esempio: la parola “gana” in italiano non sappiamo se esiste, però potrebbe essere possibile perché
rispetta le regole fono plastiche della nostra lingua, quindi costruita in un modo vicino alla combinazione di
fonemi di altre parole italiane).
Conosce significati linguistici, cognitivi, affettivi delle forme linguistiche. (sappiamo che la parola “cagna”
è la femmina del cane, ma che se diciamo “cagna” riferendoci a un’attrice, sappiamo che significa che è
un’attrice che non sa recitare).
- Metalinguisticamente competente quindi può riflettere e parlare della propria lingua materna. Questa è
presente nei parlanti scolarizzati. (quindi per esempio gli analfabeti sanno la loro lingua, ma non ne sanno
parlare poiché non hanno imparato ad analizzarla)
- Comunicativamente competente cioè sa quali sono le funzioni sociolinguistiche ed è in grado di usare la
lingua in un contesto comunicativo preciso, di cambiare il proprio tono e le proprie strategie. E riconosce le
forme appropriate in un dato contesto.
Il parlante di L2:
Non ha ancora sviluppato tutte le competenze comunicative. Non ha automatizzato le operazioni mentali per
la comprensione e produzione della nuova lingua, che sono:
Operazioni cognitive – articolazione e udito come appunto l’udito, la capacità di comprensione e di
articolazione.
Operazioni linguistiche – verso le 45.000 parole
Operazioni sociali – contesto comunicativo

Il parlante di L2 sta lavorando per fare in modo che le operazioni linguistiche siano sempre più automatiche,
si automatizzino. (Esempio: Prima volta che si va in un paese straniero si ha una sovraesposizione alla lingua
che risulta una pesante elaborazione cognitiva. Questa sensazione di affaticamento va a scemare perché tutte
le operazioni cognitive diventano sempre più automatiche nella L2. Si parla di operazioni cognitive come
appunto l’udito, la capacità di comprensione e di articolazione. Poi, il parlante di L2 deve ampliare il proprio
lessico, quindi conoscere sempre più parole e deve valutare e sviluppare, anche nella L2 o LS quella
competenza che permette di chiudere la porta in tanti modi diversi.
FATTORI CHE INFLUENZANO
L’APPRENDIMENTO
FATTORI ESTERNI
Ambiente linguistico
- Contesto
Spontaneo
- Contesto
guidato
(insegnamento)
Input
-Foreigner
Talk
FATTORI INTERNI
Lingua materna (L1)
Età
Motivazion
e
Attitudine
Stile
cognitivo

Tra i fattori interni all’individuo, manca quello che riguarda le strategie di apprendimento, cioè il modo e il
tempo dedicato allo studio che influisce sull’apprendimento.
Un fattore di variabilità e la lingua materna (vedremo che può avere delle interferenze con la lingua che
stiamo apprendendo). Ciò che incide sul percorso di apprendimento e anche il proprio bagaglio linguistico
(repertorio linguistico) che comprende la lingua materna, il dialetto locale (termini portoghesi simili al
napoletano), le altre lingue conosciute (Esempio se si vuole apprendere il tedesco, la competenza in inglese
aiuta e influisce), anche le altre competenze sviluppate nei confronti della lingua (Prima di studiare
giapponese ci si è incuriositi riguardo degli aspetti culturali, imparando una serie di parole). Tutto quello che
già sappiamo rispetto alle lingue in generale influisce sul percorso di apprendimento.
A che età si avvia un percorso di apprendimento è un fattore che influisce molto sul percorso di
apprendimento. (vedremo in seguito)
La motivazione ha a che vedere con il perché stiamo imparando una lingua
L'attitudine ha a che vedere con la predisposizione. Ci sono persone molto predisposte all'apprendimento
linguistico in generale, persone predisposte ad avere una pronuncia molto flessibile riuscendo ad imitare le
altre lingue, gli altri accenti. Poi ci sono persone che hanno una predisposizione all' analisi linguistica, cioè
che comprendono subito il meccanismo grammaticale e magari la loro pronuncia è scarsa. Dipende
dall’abilità e dal livello di analisi.
Lo stile cognitivo ha a che vedere con il modo in cui si pensa, si elaborano le informazioni, si organizzano i
pensieri.
Con la personalità e i fattori affettivi, rientra anche l’ansia linguistica. Si fa anche una differenza tra ansia
debilitante, che non permette di essere adeguati nelle produzioni e sfruttare al massimo le competenze, e
l’ansia abilitante
I fattori esterni sono quelli che riguardano l'ambiente linguistico è l'input che arriva dall'esterno.
Acquisizione e apprendimento corrispondono a due input diversi. Nel processo di acquisizione spontanea
l'input è autentico senza alcuna finalità didattica. Nel contesto guidato c’è un’esposizione ad un input
diverso. Il foreigner talk è la varietà che usano, anche involontariamente, i parlanti nativi quando parlano
con uno straniero, che riguarda la semplificazione della lingua, rallentando la velocità del parlato e marcando
con l’intonazione una certa informazione. Nei casi “peggiori” di foreigner talk si arriva a produrre una
varietà sgrammaticata, che non fornisce un modello corretto. Nel caso del teacher talk, il parlato sarà
sempre corretto dal punto di vista formale.
Tutte queste variabili influiscono sul percorso di apprendimento di ognuno.

L’interlingua

Un concetto introdotto da Selinker nel 1972 È la lingua degli apprendenti, cioè il codice linguistico
che usano gli apprendenti quando parlano nella lingua che stanno apprendendo. Si può anche definire come
una lingua che tende ad una competenza native like, ma che è ciò che si possiede attualmente da apprendenti.
Ciascuno di noi ha due o più interlingue (relative alle proprie lingue di studio).

Questa lingua è intesa come sistema-competenza in senso ideale, cioè ciò che l’apprendente conosce
della lingua, e come effettiva esecuzione individuale cioè ciò che l’apprendente fa con la lingua. Quindi è
l’insieme delle competenze e l’effettiva produzione linguistica. E’ un sistema che cambia nel tempo, in
meglio se si approfondiscono gli studi e si pratica la lingua che si sta apprendendo. La competenza può
evolversi e le forme linguistiche utilizzate nella lingua possono complicarsi, quindi iniziare con frasi semplici
fino ad arrivare all’ipotassi, le strutture frasali e testuali più complesse. In questo senso è un sistema
provvisorio poiché l'Interlingua di oggi è diversa da quella che sarà l’interlingua tra sei mesi. Può evolversi
anche in peggio, non essendo esposti alla lingua possono essere perse delle competenze.
L’interlingua ha un aspetto dinamico e idealmente, tende verso la LS che si sta apprendendo nella sua forma
più completa.
Gli stadi dell’interlingua sono uguali per tutti gli apprendenti, ciò che cambia è la velocità con cui si passa da
uno stadio all'altro e l’esito finale. (POSSIBILE DOMANDA ALL’ESAME) Tra l’altro le fasi sono le
stesse anche nell’apprendimento spontaneo e quello guidato dove il tutto procede più velocemente perché
l’apprendente è portato a focalizzarsi sulle forme, in quello spontaneo non è così anche se gli stadi sono
uguali.

No sistema di arrivo ma continuum
Questo concetto di interlingua ha creato una rivoluzione nel campo della linguistica acquisizionale, perché
prima di questo concetto si riteneva semplicemente che l’apprendente producesse delle frasi sgrammaticate,
deviazioni dallo standard. La prospettiva dell’interlingua, permette di vedere la lingua dell'apprendente come
un sistema in evoluzione, deve gli errori permettono di capire in quale determinato stadio si trovi.
Quindi l’errore, dall’essere considerato come una deviazione dallo standard (da evitare a tutti i costi), diventa
un indice, un segno che mi dice a che punto sta la mia interlingua. Se io commetto un dato errore, significa
che la mia interlingua sta ad un determinato stadio di sviluppo.
Esistono errori: (due esperimenti)
● intralinguistici o evolutivi = errori interni al sistema linguistico che sto apprendendo (interni alla
mia interlingua) e riguardano l’evoluzione stessa della mia interlingua.
● interlinguistici: riguardano la relazione tra: la mia L1 e la lingua che sto apprendendo. Sono errori

chiamati di interferenza o transfer.

La modularità
La modularità spiega la variabilità dei risultati dell’apprendimento a seconda del modulo considerato e
suggerisce che l’intervento, per rendere più efficiente l’apprendimento, possa variare secondo il modulo.
Le diverse prospettive di interpretazione richieste dalla modularità del processo di apprendimento
linguistico interessano discipline diverse:
-La linguistica -> si occupa della costruzione degli elementi concettuali per la descrizione delle lingue
naturali. Nello spiegare i meccanismi che portano all’apprendimento della L2 i linguisti tendono a parlare di
principi linguistici, regole, universali linguistici ecc.
- La psicologia -> cerca di spiegare la dimensione cognitiva dell’apprendimento in generale e la
psicolinguistica i meccanismi mentali dell’apprendimento linguistico in particolare. Gli psicolinguistici
tendono a parlare di processi, strategie, operazioni ecc.
- La sociolinguistica -> cerca di individuare e spiegare i fattori sociali e situazioni che influenzano l’uso
linguistico. Studia anche la formazione e l’uso di sistemi ridotti degli apprendenti in rapporto al contesto
sociale e situazione

La modularità ha anche a che fare con i livelli di analisi linguistica. Come già visto in linguistica generale, si
può passare da livelli più piccoli a livelli più alti (es: fonetica, fonologia, prosodia, lessicologia, morfologia,
sintassi, analisi del discorso, pragmatica, semantica).
Nella prospettiva di chi usa la lingua, quindi dell’esecuzione, si parte dai significati, cioè quello che voglio
dire, per arrivare a come produco quell’enunciato, fino alla forma fonica.
Nella prospettiva dell’analisi invece, si parte dall’aspetto fonico, per poi capire quali significati vogliono
essere espressi.
L’altro aspetto della modularità è quello della differenziazione tra le abilità linguistiche. Es: differenza tra
abilità:
1) Recettive : ascoltare e leggere;
2) Produttive : parlare e scrivere;
3) Interattive : saper gestire una conversazione;
la modularità, rispetto a queste abilità, ci serve per riflettere sul fatto che, a volte, la nostra competenza
linguistica è più sviluppata in alcune abilità piuttosto che in altre.
Poi c’è l’abilità metalinguistica, cioè la capacità di riflettere sulla lingua, l’abilità interattiva, cioè la
capacità di gestire una conversazione e l’abilità di mediazione, cioè la capacità di saper mediare tra lingue e
culture diverse.

INPUT
Per imparare la L2 è assolutamente necessario che l’apprendente abbia a disposizione degli esempi, che
possono essere di vario tipo: orali, in forma di conversazione, di film, di frasette; scritti, in forma di giornali,
mail o esercizi di testo. Questi vengono chiamati input, poiché l’input diventi produttivo, cioè possa
contribuire alla costruzione dell’interlingua e tradursi come output, deve essere capito, cioè deve diventare
intake (l’input deve essere interiorizzato). Non tutto l’input diventa intake, poiché nel caso ci si trovi in luogo
pubblico per apprendere la lingua, fa sì che la confusione non permetta di comprendere e interiorizzare a
pieno la lingua, ossia gli input. L’input è comprensibile perché è situazionalmente contestualizzato e
intrinsecamente strutturato, e perché, nel caso sorgano problemi, è anche modificabile e negoziabile da
parte di tutti e due gli interlocutori, l’ascoltatore e il parlante. L’ascoltatore è coinvolto psicologicamente
come elaboratore di informazione e socialmente come interlocutore che interagisce con il parlante.

L’input è qualunque esempio, pezzo o frammento di una lingua seconda o straniera al quale l’apprendente è
posto, dai cartelloni pubblicitari alla voce degli annunci all’interno della stazione metropolitana, ai volantini
per gli studenti. In un contesto di lingua straniera, l’input è principalmente quello che si riceve nella classe di
lingua, quindi un input fornito di solito da un insegnante. Il principale input è perciò il manuale. Perciò senza
input non può esserci apprendimento. Perché l’input sia assimilabile e perché possa essere realmente efficace
per l’apprendimento deve possedere una serie di caratteristiche.
L’input è contestualizzato, strutturato, modificabile e negoziabile.
Più l’input sarà contestualizzato, strutturato, modificabile e negoziabile, più sarà efficace per la
comprensione e all’apprendimento linguistico.
Che cosa significa che l’input è contestualizzato? La contestualizzazione situazionale dell’input è data da
coordinate sociolinguistiche dell’interazione: situazione comunicativa, ambiente culturale, scena spazio-
temporale, partecipanti, scopo, argomento.
Ogni input possiede due tipi di informazioni: l’informazione contestualizzata, cioè l’informazione che
viene dal contesto, la situazione comunicativa alla quale io sono esposto; l’informazione linguistica, cioè
quella insita all’interno del messaggio linguistico, all’interno dell’enunciato. Sia l’informazione contestuale
che l’informazione linguistica possono essere molto povere o molto ricche.
Naturalmente più si è esposti a input che hanno una ricca informazione contestuale e a sua volta una ricca
informazione linguistica, più il processo di comprensione sarà favorito e quindi anche il processo di
apprendimento stesso. Tuttavia bisogna prestare attenzione: a volte fare troppo affidamento sulle
informazioni extralinguistiche può creare dei fraintendimenti, problemi o degli scontri linguistici e
culturali in particolare se l’ambiente è culturalmente o pragmaticamente opaco, ossia se non ci sono chiare
tutte le norme culturali o pragmatiche di un determinato contesto. A volte fare troppo affidamento su quelle
che noi definiamo essere le norme pragmatiche e culturali della nostra cultura e che riteniamo che anche
l’altra cultura debba condividere può portare a dei fraintendimenti interculturali. Un esempio riportato è di
una studiosa italofona che raccontava di essersi trasferita negli USA, lei parlava inglese e aveva ricevuto un
invito ad un party. Sull’invito c’era scritto “bring a plate” e lei è andata a questa festa portando un piatto,
ossia l’oggetto materiale. In realtà la frase sull’invito voleva significare “porta qualcosa da condividere”, per
cui quello che lei aveva ritenuto potesse essere una norma socio-culturale e pragmatica della cultura d’arrivo
era per lei opaca.
L’input può essere strutturato perché esso è organizzato in strutture in parte comuni a tutte le lingue, in
parte specifiche di singole lingue. Dovendo scoprire le strutture della L2 l’apprendente può far leva, oltre
che sulle conoscenze linguistiche generali e situazionali, anche su numerose conoscenze linguistiche che
già possiede come:
● Conoscenza generale sul linguaggio in generale. In particolare la questione degli universali
linguistici. (La professoressa mostra un testo svedese e vedendo il font/la grafica si capisce che si tratta di
IKEA. Non conosciamo la lingua svedese però la nostra conoscenza degli universali linguistici ci rende in
grado di fare delle ipotesi).
Gli universali linguistici indicano alcune proprietà ricorrenti nelle lingue del mondo: presenza di parole,
sillabe, fonemi, confini di parola, parole grammaticali o dette di funzione (articoli, preposizioni… tutte
quelle parole corte), parole lessicali o di contenuto. Inoltre abbiamo fatte affidamento a delle competenze che
si hanno in altre lingue: parole simili all’inglese, tedesco… Gli universali linguistici riguardano anche la
struttura prosodico dell’enunciato, cioè il modo in cui organizziamo il ritmo e l’intonazione del nostro
enunciato. (accentuare parole di contenuto rispetto a quelle di funzione). Quando un apprendente sta
imparando una lingua straniera, riflette e pensa a tutte le parole che deve usare e infatti l’intonazione di chi
studia è diversa dal ritmo che invece hanno i nativi. Si sente quasi sempre un accento straniero, che non si
rifà solo ai diversi suoni ma anche alla diversa struttura ritmica della pronuncia. Anche la segmentazione tra
una parola e l’altra cambia, per questo, ad esempio, se si inizia a vedere una serie tv in lingua straniera
all’inizio è bene utilizzare i sottotitoli che vanno a riempire quegli spazi nella segmentazione lasciati dalla
rapida successione delle parole, infatti nell’oralità tra di esse non esistono pause. Quindi si possono avere
anche esempi di errata segmentazione legati all’oralità della lingua.
● Conoscenza della L1: sapere che ci sono diversi livelli di analisi, avere sviluppato un
metalinguaggio...
● Le conoscenze parziali della L2: ci aiutano a comprendere maggiormente un input, ma a volte ci
possono anche trarre in inganno. Più si conosce, più si può capire, ma possono esserci ad esempio degli errori
nella segmentazione (come la vagna, lo rologio – invece di lavagna e l’orologio). Questo perché un
apprendente di italiano L2 sa che gli articoli la e lo esistono, e dire la vagna può sembrare qualcosa di
possibile nella lingua italiana.
Un'altra cosa che può trarre in inganno e causare degli errori sono le costruzioni che riguardano i verbi
psicologici, cioè quei verbi che esprimono uno stato psicologico. Se diciamo “Riccardo ama lo sport” oppure
“Mia madre adora l'estate”, questi verbi (ama, piace) funzionano con un soggetto che prova il sentimento e
poi l'oggetto che provoca lo stato d'animo. Se si dice invece “La lezione annoia gli studenti” o “La lezione
piace agli studenti”, notiamo che il verbo piacere ha una costruzione, mentre il verbo annoiare ha una
costruzione totalmente diversa; quello che provoca lo stato d'animo è il soggetto della frase e diventa
soggetto dell’enunciato, poi c’è il verbo e successivamente le persone che sentono la sensazione, che sono
complemento oggetto.
Una frase come “Riccardo piace a Marina” crea confusione nell’apprendente, che non capisce chi è che sente
il sentimento e chi è invece l'oggetto di questo sentimento. Queste costruzioni possono quindi trarre in
inganno l’apprendente di L2 o LS e creare delle confusioni. È vero che più si sa di una lingua più la si
conosce, ma è anche vero che a volte le conoscenze stesse possono indurre a produrre degli errori.
● Conoscenze delle altre lingue: in generale, conoscere tante lingue, aiuta ad imparare di nuove in
quanto abbiamo acquisito un metodo che ci garantisce una certa facilità nell’apprendimento.
-A livello fonologico in ogni lingua naturale, per esempio, le parole sono composte da sillabe.
-A livello sintattico la struttura gerarchica determina la segmentazione degli enunciati in costituenti.
-A livello semantico la denominazione degli utensili non fa riferimento alle loro qualità fisiche, ma
all’attività umana che permettono di compiere. Ad esempio, in italiano macina e in inglese grinder. Le
spiegazioni dell’esistenza degli universali linguistici variano a seconda delle teorie. Potrebbe trattarsi di
monogenesi, cioè di origine comune per tutte le lingue del mondo, di innatismo (generativismo chomskiano)
oppure dei bisogni comunicativi come sostiene il funzionalismo.
Tra i numerosi universali linguistici utili alla decifrazione dell’input Klein (1986) ne elenca alcuni:
- un enunciato è scomponibile in parole, le parole in sillabe e le sillabe in fonemi;
-le vocali e le consonanti tendono ad alternarsi nella sillaba;
-una pausa di solito ricorre a fine parola;
-esistono parole che hanno un significato prevalentemente grammaticale e altre lessicale;
- le parole di funzione tendono ad essere più corte;
- la regola generale è: una parola, un significato.
Klein afferma, inoltre, che ci sono altre proprietà che possono aiutare a decifrare l’input, come: la frequenza
con cui alcune parole ricorrono nell’enunciato, la posizione che occupano nell’enunciato, la struttura
prosodica dell’enunciato.
L’input può essere modificabile. L’input è modificabile in particolare da parte del parlante nativo, quindi
quando il parlante nativo si rivolge a un apprendente, a una persona che reputa straniera usa una specifica
varietà linguistica che si chiama foreigner talk.
Il foreigner talk è quella varietà linguistica che viene utilizzata dal parlante nativo nel momento in cui
interloquisce con una persona che sta apprendendo quella che per il parlante nativo è la lingua materna. Tali
modifiche della forma possono interessare tutti i livelli di analisi.
A livello fonetico si tende a parlare in modo iperarticolato (che comporta un'articolazione accentuata di tutti i
segmenti fonetici, per cui si parla articolando tutti i suoni perché si vuole che il l’interlocutore riconosca tutti
i suoni, tutti i diversi fonemi che si producono, diversamente nel caso dell’ipoarticolazione ci si focalizza sul
trasmettere un messaggio, es. il nostro parlato colloquiale) quindi scandendo tutti i suoni in modo chiaro. Si
tende inoltre a rallentare il ritmo dell’eloquio e ad accentuare i punti più informativi delle produzioni (es.
Potresti passare questa penna a Giuseppe? – penna e Giuseppe sono accentuati dal punto di vista
dell’intonazione). Si evitano anche le forme contratte: se pensiamo a tutte le forme contratte in inglese.
A livello morfologico si usano forme più semplici possibile, si evitano le derivazioni, l’uso di tanti prefissi,
suffissi e così via. Per esempio se di solito si dice “È super facile”, nel caso in cui si parla con uno straniero
si dice “È molto facile”, oppure si evitano i vezzeggiativi e la morfologia derivativa in generale.
A livello sintattico di solito si utilizzano delle frasi e costruzioni semplici.
A livello lessicale si cerca di utilizzare molti iperonimi (è preferibile dire “Hai capito questa cosa?” piuttosto
che “Hai capito questo argomento?”). Se si deve parlare di un fiore è preferibile usare il termine “fiore”, un
termine generale piuttosto che “ciclamino”.
Il foreigner talk spesso è anche sgrammaticato: es. non vengono utilizzati gli articoli (“Mi passi penna?”).
Questo fenomeno in realtà non è efficace, può essere efficace al fine della comprensione però se questa
persona è sempre esposta a questo tipo di input non imparerà mai. Quindi è sempre meglio cercare di fornire
un input che sia corretto e il più semplice possibile.
I processi di foreigner talk riguardano sia la semplificazione che l'elaborazione, perché a volte per
evitare delle forme complicate bisogna riformulare il messaggio, che diventa ridondante, con molte
ripetizioni ma con il fine di fornire un input che sia il più facilmente comprensibile, quindi anche più utile
all'apprendimento linguistico.
Le caratteristiche principali sono: - L’eloquio è più enfatico e rallentato -> la pausa piena: prendere tempo
con sospiri, espressioni come ‘’mmmh,eehh’’; la gestualità (elemento paralinguistico) è di rinforzo e
supporto al colloquio orale. - Utilizzo di vocaboli più brevi, comuni e dal significato generale, - Prevalenza
della paratassi sull’ipotassi, - Uso di concetti basilari rispetto a quelli più complessi.
Esiste anche il teacher talk, cioè il modo di parlare degli insegnati in classe. È stato introdotto da Henzl nel
1972 e Brown nel 1994. Le caratteristiche principali sono: non è mai sgrammatico, è iperarticolato, più lento,
l’intonazione serve a sottolineare le cose che interessano, c'è un uso semplificato della morfologia, della
sintassi, risulta calibrato su bisogni dell’apprendente, difatti la complessità si basa sulle competenze degli
apprendenti.
L’altra forma di parlato modificato invece è il baby talk, cioè quello che si usa con i bambini, in cui
troviamo sempre un’iperarticolazione, un parlato più lento e così via. Anche con i bambini di solito, dal
punto di vista grammaticale, si è scorretti. Questo perché si sa e si dà per scontato che il bambino in futuro
parlerà correttamente la grammatica. Inoltre, viene usato un lessico diverso, come la pappa, la ciccia e la
nanna, parole con determinate consonanti che si ripetono (p, c, n) che servono a far riconoscere le parole al
bambino.
L'entità e la quantità delle modifiche che si apportano dipendono da una serie di valutazioni che i parlanti
nativi possono fare di fronte allo straniero. Si può valutare (spesso inconsapevolmente) quale sia il livello di
competenza linguistica dell'interlocutore e si parla di conseguenza. La valutazione include anche il contesto
sociale dell’interlocutore, delle cose che può o non può conoscere.
La valutazione riguarda anche il tipo di interazione, per cui se si ha un'interazione docente-studente si
parlerà in un certo modo, se invece si è per strada come turisti si parlerà in un altro modo, con una maggiore
attenzione verso certi aspetti o altri a seconda dell’interazione. Queste modifiche sono utili perché aiutano il
processo di comprensione, ma questo non vale per le forme sgrammaticate.
Più l’input è modificato ai fini della comprensione, più quell'input sarà utile e così può essere compreso, può
essere trasformato in intake, potrà essere interiorizzato e si auspica che diventi anche un output, cioè che si
potrà essere utilizzato anche in maniera produttiva.
L'ultima caratteristica (che verrà ripresa anche successivamente) è quella della negoziabilità.
La negoziazione consiste in una negoziazione di significato di forme relative all’input tra il nativo e il non-
nativo in un’interazione conversazionale. Le strategie di negoziazione sono la riformulazione e le
ridondanze. Se si dice di non aver capito, il nostro interlocutore ripeterà articolando meglio o dovrà
riformulare, quindi dire la stessa cosa con altre parole o potrà dislocare, es. “Puoi portare il libro a
Giovanni?” o “Il libro, lo puoi portare a Giovanni?” (dislocazione a sinistra) oppure “Lo puoi portare a
Giovanni, il libro?” (dislocazione a destra)). Inoltre si può scomporre, dicendo “Questo è il libro, lo puoi
portare a Giovanni?” creando due enunciati diversi ed essere più ridondanti. Si possono evitare avverbi o dei
pronomi per semplificare, fare domande dirette piuttosto che giri di parole e proporre delle risposte possibili
senza aspettare che sia l’interlocutore a darle.
Gli studi di linguistica dicono che più un apprendente chiede spiegazioni, più interagisce, più si facilita il
processo di attenzione selettiva per cui l'attenzione dell’apprendente è posta su determinate forme che prima
non si erano capite o che non si conosceva bene. Mettiamo il caso che durante una conversazione venga
usato un verbo che l’interlocutore non conosce. A questo punto, l’interlocutore chiede spiegazioni e una volta
ricevute tenderà a non dimenticare il significato di quel verbo, che diventerà parte del lessico produttivo, cioè
l’insieme di parole che si è in grado di utilizzare. Ci sono casi in cui è fuori luogo la non-comprensione,
come ad esempio durante un esame, in cui non è il caso di chiedere una negoziazione perché bisogna
mostrare quello che si sa fare.

MODELLO PSICOLINGUISTICO DI LEVELT


Per spiegare il processo di comprensione viene utilizzato il modello psicolinguistico di Levelt. Questo
modello è del 1989, principalmente è nato come modello che servisse per spiegare il processo della
produzione nelle lingue materne (L1), successivamente è stato ripreso e rielaborato per adattarsi anche alle
seconde lingue (L2) e al processo di ascolto e comprensione. Il modello di levelt per l’ascolto e la
comprensione cerca di rispondere ad una domanda ossia: in che modo la nostra mente elabora quella
informazione?
Il modello di Levelt si struttura in diverse componenti ma anche in diversi tipi di conoscenze, che vengono
dette procedurali, e quindi delle conoscenze che si rifanno a dei processi e i processi che sono messi in atto
sono portati avanti dai cosiddetti elaboratori, e poi ci sono delle conoscenze dichiarative, fattuali, ossia
coloro che corrispondono a dei magazzini di conoscenze. Questi sono le varie componenti del modello di
ascolto, tra gli ELABORATORI abbiamo:
- L’uditore (in basso)
- Il decodificatore (al centro)
- L’interprete (sopra)
Questi elaboratori sono collegati alle CONOSCENZE DICHIARATIVE che sono di due tipi:
1) Conoscenze lessicali
2) Conoscenze generali
Secondo modello di Levelt, un messaggio acustico (es. la porta è chiusa) viene recepito in primo luogo
dall’UDITORE, ossia colui che ascolta il messaggio e lo recepisce per primo. Il compito dell’UDITORE è
quello di trasformare un messaggio acustico che è caratterizzato prettamente da onde sonore in una stringa
fonetica; cioè riconoscere all'interno del flusso del parlato i suoni che corrispondono ai diversi fonemi ideali
di una lingua o meglio corrispondono alla realizzazione concreta dei fonemi ideali, quindi ha il compito di
individuare questi suoni e trasformare qualcosa che fisicamente arriva alle nostre orecchie come onda sonora
in una stringa fonetica.
L’UDITORE passa l’informazione al DECODIFICATORE che fa prima una analisi fonologica, cioè
trasforma quella stinga fonetica in una fonematica o fonologica, quindi riconosce i fonemi relativi a quei
suoni realmente prodotti, quest’analisi ha come prodotto il RICONOSCIMENTO DELLA STUTTURA
SUPERFICIALE DI UN ENUNCIATO. (es. la porta è chiusa si configura come un insieme di fonemi e
anche al riconoscimento della diversa struttura sillabica ossia dell’alternanza di C e V o anche
l’individuazione degli accenti).
Successivamente si fa un’analisi grammaticale e semantica che avviene sempre all’interno del
DECODIFICATORE. Questo tipo di analisi consiste nel riconoscimento delle diverse caratteristiche delle
parole individuate all’interno di un enunciato e delle loro relazioni. (es la porta è chiusa il
DECODIFICATORE capirà che porta è un sostantivo ma anche che è un soggetto in quanto abbiamo anche
un’analisi funzionale). I significati in questa fase vengono riconosciuti grazie al legame che il
DECODIFICATORE ha con il MAGAZZINO DI CONOSCENZE LESSICALI, ossia banalmente il
nostro dizionario. È come se pescasse all’interno del magazzino le parole che riconosce, già lo fa a livello
fonologico perché se non conosciamo una parola non riusciamo neanche a percepirla. Normalmente questa
analisi è possibile perché abbiamo un dizionario di parole che ci permette di capirle ed a individuarle nella
stringa fonetica ma anche a capire facilmente quali siano le relazioni tra le parole stesse. Una volta che si
compie questa DECODIFICA FORMALE, dunque ho compreso il significato da un punto di vista letterale,
l’ho compresa da un punto di vista grammaticale e ho capito le funzioni dei diversi elementi all’interno della
frase, devo capire il SENSO DELLA FRASE ALL’INTERNO DELLA SITUAZIONE
COMUNICATIVA, quindi dovrò INTERPRETARE QUELL’ENUNCIATO, e a farlo sarà
l’INTERPRETE, che decodifica tutta una serie di significati differenti da quello dell’enunciato stesso, si
concentrerà su tutti:
- i FATTORI CONTESTUALI (fanno riferimento al contesto dell’enunciato) e CO-TESTUALI (altri testi
che gli sono intorno);
- CONTESTI FATTUALI ossia relative ai fatti che sono avvenuti intorno a noi;
- CONOSCENZE SOCIO-CULTURALI che hanno a che vedere con le norme socio-culturali condivise in
uno stesso gruppo culturale;
- REGOLE DELLA CONVERSAZIONE, anche queste sono proprie di una determinata lingua e di una
determinata cultura.
Quindi, per individuare tutte queste caratteristiche dell’enunciato, l’interprete, secondo il modello di Levelt, è
legato ad un altro magazzino di conoscenze che sono le CONOSCENZE GENERALI, le conoscenze del
mondo, le conoscenze che riguardano tutto ciò che è extra-linguistico, che riguardano il contesto della nostra
cultura, il contesto del “qui ed ora”, di ciò che sta avvenendo intorno a noi.
IL MODELLO DEL PARLATO, adattato alla L2 da Levelt, 1989
Ci sono due magazzini di conoscenze, le conoscenze lessicali e generali e tre elaboratori:
● Uditore, ascolta il messaggio acustico e lo trasforma in una stringa da passare al decodificatore
● Decodificatore che fa un’analisi fonologica a partire da questa stringa e poi grammaticale e
semantica e poi questa decodifica passa all’interprete
● Interprete, ne capisce il significato.
Questo modello si conclude con il parlato, molto semplice. Le due conoscenze sono le stesse e sono al centro
del modello. Ci sono poi gli elaboratori del parlato (si parte dall’alto):
1. Concettualizzatore:
viene selezionata, ordinata e preparata tutta l’informazione del magazzino delle conoscenze generali che
serve per comunicare le intenzioni del parlante, per essere convertita in lingua. L’output del
concettualizzatore non è ancora il messaggio verbalizzato che lo diventa quando passa nel formulatore.
2. Formulatore: viene selezionata, grammaticalizzata e fonologizzata l’informazione lessicale pertinente al
messaggio concettuale. Nelle conoscenze dichiarative lessicali delle due lingue si trovano in un unico
magazzino in modo veloce grazie ad una complessa organizzazione interna che li divide e li lega in
sottogruppi. L’attivazione delle parole avviene in due tempi: prima semanticamente, poi formalmente. Nel
caso del parlante bilingue l’organizzazione di un unico lessico prevede un’ulteriore suddivisione che crea
due sottogruppi linguisticamente omogenei: uno è costituito dagli elementi lessicali della L1, l’altro da quelli
della L2. Invece, i formulatori sono due: uno per ogni lingua. Sia l’unicità delle conoscenze dichiarative sia la
separazione delle conoscenze procedurali del formulatore dipendono tutte e due da certi parametri: la
distanza tra le due lingue e il livello di competenza linguistica nelle due lingue. Così un parlante che
conosce l’italiano e lo spagnolo quando parla l’una o l’altra lingua potrà usare molte delle stesse
conoscenze. Nel caso di lingua diverse, ovviamente tutto ciò non accade (italiano – vietnamita). È
importante quindi il fatto che gli elementi lessicali vengano selezionati per primi e che sono le loro proprietà
che determinano l’applicazione delle regole grammaticali e fonologiche.
3. Articolatore: il piano fonico viene eseguito come una serie di istruzioni neuromuscolari. La propria
produzione viene auto-monitorata nel decodificatore; qui il monitoraggio può avvenire sia silenziosamente
prima dell’articolazione che dopo.
Ogni elaboratore riceve un input e produce un output, e l’output di una componente diventa l’input della
successiva.
La centralità del lessico
Il lessico in questo modello ha un ruolo centrale perché senza conoscenze non si può ne comprendere e ne
elaborare.
<< La formulazione è determinata lessicalmente. Questo vuol dire che la codifica grammaticale e quella
fonologica sono mediate dall’elemento lessicale. La supposizione che il lessico funga da mediatore
essenziale tra la concettualizzazione e la codifica grammaticale e fonologica viene chiamata ipotesi
lessicale.>>
Il lessico funge da ponte e da mediatore. Questo modello del parlato possiede le stesse caratteristiche del
modello dell’ascolto.

(Lo SPETTOGRAMMA è una rappresentazione grafica della nostra voce. Le parti più scure rappresentano
le parti più sonore, quelle che corrispondono ai suoni più intensi e sonori come ad esempio nelle vocali,
intorno ci sono le consonanti che hanno una rappresentazione differente. Ci sono anche delle zone bianche, in
cui abbiamo l’assenza di suono, queste corrispondono alle varie occlusive sorde (“c”, “t”). l’uditore non
ascolta parole scritte, ma arriva un flusso di parlato che è continuo, ed ha il compito di selezionare e
riconoscere i diversi suoni che siano significativi di quella lingua. Quando ascoltiamo qualcuno che non parla
la nostra lingua, per noi è tutto un flusso, ovviamente per tutte le lingue è così.)

Ci sono delle caratteristiche di questo modello che sono proprie dei diversi elaboratori.
Per l’autonomia: ogni componente dell’elaborazione lavora in modo specializzato e specifico. Implica anche
che la gerarchia delle procedure di elaborazione può alterarsi.
1) Alcune procedure possono essere saltate. A volte si può capire un parlante prima che abbia parlato. A
volte è prevedibile il secondo turno della sequenza (Grazie. Prego). Si pensi, per esempio, a quei casi in cui
la persona con cui si sta interagendo comincia una frase e già sappiamo come finirà: che cosa significa
questo? Ciò significa che l’interprete, la nostra conoscenza del mondo, si impone sull’uditore, anche sul
decodificatore, e in qualche modo ci fa arrivare a quella che è l’interpretazione ultima dell’enunciato. Questo
avviene nelle formule di routine, in cui chiediamo in maniera abitudinaria “come stai?” “tutto apposto?”.
2) L’ordine attraverso le procedure non è fisso. A volte per riconoscere una parola bisogna prima
identificare tutti i singoli fonemi, altre volte il riconoscimento fonologico precede quello fonetico.
3) Un livello di analisi può imporsi sull’altro, per esempio in questa frase:
questo è il buco che il topo, che il nostro gatto, che il cane ha ,morso, ha fatto, ha preso. La frase sarebbe:
Questo è il buco che il topo ha preso, che il nostro gatto ha fatto, che il cane ha morso.
Dunque sulla decodifica sintattica si è imposta la semantica, cioè il significato delle parole.
Questo è ciò che avviene spesso quando parliamo con uno straniero; quindi facciamo in modo che
l’interprete si imponga sul decodificatore.

Un’altra caratteristica degli elaboratori è l’incrementalità, è una componente che può incominciare a
lavorare sull’output ancora incompleto della procedure precedente.
Dunque i tre processi funzionano sempre in parallelo. Per cui, nell’ascoltare una frase del tipo: Domani a
Napoli piove, la parola Domani, una volta che è stata ascoltata e che quindi è passata all’uditore, passa subito
al decodificatore; quando Domani è al decodificatore e quindi si capisce che è un avverbio che si riferisce al
giorno successivo, io sto ascoltando a Napoli, che è il pezzo successivo della frase che sta all’uditore.
Quando Domani sarà all’interprete e a Napoli al decodificatore, io starò ascoltando piove. Quindi i tre
elaboratori funzionano contemporaneamente e ciascuno comincia a lavorare su quello che sta ascoltando o su
quello che arriva nel processo anche se è un enunciato parziale. Una volta completato l’enunciato, ci sarà
un’interpretazione completa.
Questo significa che gli elaboratori hanno la caratteristica dell’incrementalità, cioè che l’informazione si
incrementa, si aggiunge nei diversi elaboratori man mano che viene recepita e assorbita.
E quindi si creano nella nostra testa dei file temporanei.
La presenza di file temporanei è molto visibile, molto concreta, quando facciamo i dettati.
L’altra caratteristica degli elaboratori è l’automaticità: nel parlante nativo si intende il processo dell’ascolto,
il quale è velocissimo e non richiede molta attenzione, poiché gli sono familiari sia le conoscenze
dichiarative lessicali e generali, sia le conoscenze procedurali di elaborazione.
Come cambia il modello dell’ascolto in L2? Per un apprendente di una lingua straniera o seconda, invece,
il processo avviene molto più lentamente e con molto più sforzo. A volte, invece, può succedere che il
processo di una lingua seconda o straniera si interrompa. Quando l’uditore non riesce a cogliere i segmenti
all’interno del flusso, la decodifica non può avvenire. (Esperimento: visione del video con “conversazione
numerica”).

Formule fisse, basiche, lessemi


In contesto comunicativo neutrale, la prima produzione del parlato spontaneo è costituita di solito da
formule fisse e da alcune parole organizzate secondo principi semantici e pragmatici, piuttosto che
sintattici.
ESEMPIO
Se vado per la prima volta in Inghilterra, non avendo studiato l’inglese, mi reco al MCDONALD e esordisco
dicendo parole del tipo MCCHICKEN 🡺 sto semplicemente usando delle parole con una funzione
pragmatica, cercando di comunicare qualcosa che sia pragmaticamente efficace (in questo caso sto
provando a fare un ordine) non facendo ricorso alla sintassi della lingua, che non conosco.
- Secondo un principio logico (riguardo il significato delle parole stesse)
In situazioni del genere mi capita magari di mettere assieme un numerale e una parola (2 menù) senza
neanche metterlo al plurale
- Secondo un principio pragmatico
Metto l’informazione più importante alla fine, pongo un accento intonativo maggiore per far capire al mio
interlocutore che quello è il fulcro dell’informazione che sto trasmettendo.

Le formule fisse sono pezzi di lingua memorizzati tali e quali senza che vengano scomposti nelle parti che li
compongono, così il carico dell’apprendimento è ridotto a memorizzazione; corrispondono dunque ai saluti,
alle forme di presentazione che sono dei pezzi di lingua che vengono definiti NON analizzati, ciò significa
che quando in una classe di italiano L2 di livello A1, si cominciano a imparare le forme di presentazione del
tipo “come ti chiami?” “mi chiamo samantha” l’apprendente impara “mi chiamo Samantha”, ma ancora non
sa cosa che quel mi rientra nella classe dei pronomi ed è una prima persona singolare. L’apprendente ha
imparato una formula e non la sa analizzare nei suoi costituenti. Anche con il verbo chiamare, l’apprendente
non è a conoscenza che la o è la desinenza della prima persona singolare.
Queste formule che si apprendono sono importantissime perché hanno un forte valore pragmatico e una forte
importanza comunicativa, perché servono molto nell’interazione quotidiana nel momento in cui si è in un
contesto di lingua straniera o di lingua II. Le formule fisse non sono produttive, sebbene si possa assistere a
una evoluzione delle stesse. Una forma è produttiva quando morfologicamente ne può generare altre: es.
casa -> conosco il plurale e il verbo: case, rincasare, casina, accasarsi. Le formule fisse non generano ciò,
poiché sono imparate a memoria. Tuttavia, possono subire un’evoluzione, cioè dei casi in cui l’apprendente
anche un po’ per fortuna riesce magari ad utilizzare la stessa forma in un altro contesto ed è questo il caso di
“Waduyu kam from” scritta con una pronuncia intuitiva perché molto spesso quando c’è apprendimento
spontaneo queste formule vengono memorizzate come se fossero un CONTINUUM nella varietà e non si
riescono neanche a segmentare in varie porzioni.
E’ possibile che l’apprendente utilizzi questo “Waduyu” anche in altri contesti riuscendo come nei casi di
“Waduyu sei”
Questo è uno dei casi di evoluzione quasi fortunata delle formule o magari, al contrario, di errata
interpretazione, per cui le formule vengono interpretate in maniera scorretta.
Es. piccola produzione, un esempio di uso di:
- Formule corrette (io mi chiamo/ vengo da Mali)
- Formule non ancora memorizzate (io no sposato)
- Formule usate in maniera scorretta (da quanto tempo sei qua) formula formalmente corretta, ma usata in
maniera errata in questo contesto
Oltre che dalle formule, la produzione iniziale è caratterizzata anche da brevi pezzi analizzati, lessemi.
Ancora scorretti formalmente, ancora non equivalenti allo standard dell’italiano, ma sono comunque dei
piccoli pezzettini di lingua nella quale c’è già un piccolo accenno di analisi linguistica . Questo vuol dire che
le parole:
- non sono sempre facilmente assegnabili a una classe morfologica,
- presentano minima o nulla flessione morfologica,
- sono prevalentemente di contenuto, piuttosto che di funzione,
- seguono un ordine pragmatico-discorsivo più che sintattico
Esempi di produzione ai primi stati di apprendimento:
Es. clean floor o non hai lavora: È difficile riuscire a stabilire la classe morfologica a cui “clean” e “lavora”
appartengono. È inoltre difficile stabilire le desinenze utilizzate, poiché nella lingua italiana, i morfemi
utilizzati sono sempre gli stessi. Non sappiamo se Clean floor significhi “pavimento pulito” o “pulire il
pavimento”
-“non hai lavora” non sappiamo se significa “non hai lavorato” o “non hai lavoro” “non lavora”

La forma basica è, tra le forme flesse di un lessema presente nell’input, quella scelta dall’apprendente
come neutra poiché rappresenta meglio le altre. I criteri della scelta sono:
- La frequenza con cui una forma ricorre nell’input -> ad esempio, nel caso dell’italiano L2, per forma basica
di un lessema come chilometro – chilometri, la desinenza –i è migliore candidata di –o poiché è quella che
nell’input ricorre più spesso. Il plurale è la forma marcata e il singolare è la forma base, poiché ricorre solo
in determinati casi e l’apprendente potrebbe ascoltarlo se ad esempio, si interessa di ‘’cibo a chilometro
zero’’.
- La facilità articolatoria -> la forma basica dell’articolo italiano invece sarà difficilmente gli, non solo perché
ricorre meno frequentemente nell’input, ma anche per la sua minore facilità articolatoria rispetto ad altre
forme come lo o la. La facilità articolatoria dipende dalla lingua materna: ad esempio, i cinesi hanno
difficoltà nel pronunciare la ‘’r’’ poiché nel loro alfabeto non esiste e dunque dicono ‘’l’’, la pronunciano come
un allofono laterale.
- La lunghezza -> per i verbi della prima coniugazione la forma basica più probabile, piuttosto dell’infinito, è
quella in -a, per tre motivi: 1. ricorre frequentemente non da sola nell’effettiva forma mangia della terza
persona dell’indicativo, 2. come anche alla seconda singolare dell’imperativo, 3. anche in altre forme come
mangiano, mangiato, mangiavo ecc. E’ facile da ricordare ed è corta.
- La specificità -> ha a che vedere col fatto che le forme basiche sono di solito molto generiche,
l’apprendente utilizza spesso parole come coso, fatto e roba, ovvero degli iperonimi, invece gli iponimi non
sono in prima battuta molto considerati, per esempio si tenderà a utilizzare la parola animale e non
camaleonte.

LESSICO
è stato per molti anni e continua ad essere uno dei livelli di analisi centrali nell'apprendimento linguistico.
Nel modello di Levelt, il cerchio che corrisponde al magazzino lessicale è centrale e anche nel modello del
parlato, possiamo ritrovare il magazzino del modello lessicale al centro dello schema completo. Facendo
l'esperimento dei numeri, le parole di contenuto sembravano quasi superflue e quindi la centralità del
lessico può essere messa anche in discussione da chi studia gli altri canali di comunicazione, ad esempio
il linguaggio del corpo ma anche gli aspetti intonativi e prosodici. Negli studi tradizionali il lessico ha un
posto centrale, in particolare in alcune teorie che si sono sviluppate verso la fine del 900 che sono definite
"approccio lessicale". È un approccio lessicale all'apprendimento ma anche con risvolti nella didattica delle
lingue e in questo approccio lessicale, il lessico è così centrale che si ritiene che la lingua sia una sorta di
lessico grammaticalizzato, cioè tutto parte dal lessico e intorno a queste parole si costruisce la grammatica
nell'interlingua, quindi si riescono ad unire insieme le parole e a creare i nessi morfologici e sintattici tra le
diverse parole.
L'approccio lessicale è la teoria che più enfatizza il ruolo del lessico nel processo di apprendimento e in
seguito nella didattica. Il lessico è importante a causa degli errori, se un apprendente parlando con un nativo
commette un errore grammaticale, molto probabilmente una forma sgrammaticata risulta ancora
comprensibile e non compromette l'efficacia comunicativa del messaggio, invece, se c'è un errore di carattere
lessicale, si possono creare dei fraintendimenti concreti e possono essere più pericolosi degli errori di
carattere grammaticale e ancora più pericolosi potrebbero essere gli errori di carattere pragmatico. Quindi, gli
errori lessicali non sono solo molto comuni ma anche pericolosi. Il lessico a differenza della morfologia,
della sintassi, della grammatica, è un barattolo di elementi che è sempre aperto ed è in continua
trasformazione, quindi accogliamo sempre nuove parole. Il sistema morfologico, nonostante sia un sistema
aperto, si evolve di meno e più lentamente rispetto al lessico, nello studio del lessico sono state evidenziate
delle regolarità che riguardano l'apprendimento delle parole, quindi quali sono i criteri che influenzano
l'apprendimento delle parole.
Quante parole dobbiamo conoscere? Quante parole conosciamo di una lingua? Gli studi dicono che un
parlante nativo di una lingua conosce circa ventimila famiglie di parole della propria lingua materna.
Nella lingua inglese, esistono cinquantaquattromila famiglie di parole, le famiglie di parole sono quelle
parole che sono accomunate e che vanno insieme come delle famiglie, ad esempio: studio, studente e
studentessa sono parole che rientrano in una determinata famiglia. Un parlante nativo sembra conoscere
meno della metà di famiglie di parole che sono presenti in una lingua.
Il primo obiettivo dell'apprendente è quello di apprendere un numero minimo di parole che ci permettono di
affrontare una comunicazione in ambito quotidiano, qualcosa che riguarda al dominio personale e di ampliare
il lessico anche in altri ambiti al di fuori dello stretto dominio personale.
L'apprendente deve apprendere 3000 parole più frequenti della lingua che sta apprendendo, il livello lessicale
è quello che si può sviluppare tanto e da subito, anche se ci sono dei criteri per quanto riguarda
l'apprendimento del lessico.
Come si traducono queste 3000 parole più frequenti in italiano? Come farebbe un insegnante di italiano L2
o una persona che deve scrivere un manuale di italiano L2 a scegliere quali sono le parole più frequenti? Il
riferimento che ci fa capire quali sono le prime parole da apprendere è il vocabolario di base della lingua
italiana di De Mauro (un linguista molto importante, si è occupato di linguistica educativa ed è stato
ministro dell'istruzione). Nel vocabolario di base della lingua italiana sono comprese 7000 parole e questo
vocabolario si costituisce attraverso un corpus vastissimo di testi sia scritti che orali in lingua italiana e di
qualsiasi genere. Da questo corpus hanno stilato le cosiddette "liste di frequenza", che indicano quanto sono
frequenti alcune parole in un determinato corpus e da queste liste hanno estratto le prime 7050 parole, di cui
2000 rappresentano il vocabolario fondamentale, quelle parole che l'apprendente dovrebbe imparare per
prima perché sono quelle più frequenti. In seguito troviamo il vocabolario di alto uso, che comprende circa
2750 parole e poi un vocabolario di alta disponibilità, che è la terza fascia in termini di frequenza.

Idealmente il vocabolario fondamentale comprende le parole più frequenti e poi si va a scendere di


frequenza, dal vocabolario ad alto uso che sono quelle meno frequenti fino ad arrivare al vocabolario di alta
disponibilità. Il vocabolario di alta disponibilità è molto particolare, ci sono parole che non vengono
quasi mai nominate e possiamo vedere che c'è una fascia di lessico che nei dati non è presente ma che
sentiamo come fondamentali, al vocabolario di alta disponibilità corrispondono tutte quelle parole che
vengono scritte e pronunciate poco, ma che pensiamo con frequenza perché fanno parte della nostra
quotidianità quindi per l'apprendente quelle parole sono poco presenti nell'input e non può
apprenderle. Quando si lavora sull'insegnamento di una lingua e sul lessico di alta disponibilità è molto
importante perché fornisce un input all'apprendente.
Cosa significa conoscere una parola? Significa conoscerne la forma, cioè come si scrive e come si
pronuncia; conoscerne la struttura morfologica e quindi come si compone dal punto di vista morfologico,
qual è la desinenza che ci indica il genere e il numero di una parola; conoscerne il pattern sintattico,
conoscere in quali strutture sintattiche quella parola si può trovare, ed è facilmente comprensibile se ci
riferiamo ai verbi, un esempio potrebbe essere Tesnière e le sue valenze verbali. Inoltre bisogna conoscere
anche il significato, quello letterale, di base ma anche affettivo e pragmatico, cioè quali significati può
assumere quella parola in determinati contesti; bisogna conoscerne le relazioni lessicali, ad esempio le
relazioni di sinonimia, antonimia o omonimia, per cui ci sono sinonimi, contrari, omonimi (cioè parole che
hanno la stessa forma ma significati che non hanno relazione tra di loro) e poi le collocazioni. Le
collocazioni sono delle combinazioni di parole che stanno bene insieme, ad esempio: ho condotto una
ricerca, fare una promessa, mantenere una promessa. Conoscere una parola significa anche sapere con quali
altre parole questa data parola si trova in combinazione. Per quanto riguarda il ridimensionamento
dell'importanza del lessico che avviene in alcuni studi, come ad esempio la prosodia o l'intonazione, alcune
parole possono arrivare a significare anche il loro contrario. Conoscere davvero una parola significa avere
una competenza che riguarda tutti gli aspetti di una parola.
Nella seconda lingua (o nella lingua straniera) possiamo avere a che fare subito con la forma di una parola e
imparare a pronunciarla, a scriverla, e pian piano impareremo tutti gli altri diversi aspetti, ad esempio
scopriremo come si struttura quella parola dal punto di vista morfologico; come si collega ad altre parole in
una struttura sintattica; quali sono le sue collocazioni; quali sono le relazioni lessicali, e poi pian piano
scopriamo i diversi significati, cioè i significati secondari, non letterali, quelli connotati (o pragmatici), cioè
quelli che vengono appresi piano piano. Per primo si apprende il significato letterario di una parola, per
cui se in italiano se apprendo la parola “collo” apprenderò che questa parola riguarda una parte fisica del
corpo; solo successivamente aggiungerò a quella informazione, a quella competenza quella che riguarda il
significato di collo come “collo della bottiglia” (significato metaforico).
dicotomie GASS E SELINKER

Negli studi sul lessico si fanno delle differenze: sono indicate tre dicotomie, tre coppie di tipologie di
conoscenza rispetto al lessico: Gass e Selinker parlano di una conoscenza potenziale e di una
conoscenza reale —> quest’ultima è la conoscenza vera del lessico, cioè le parole che realmente
conosciamo, mentre la conoscenza potenziale  riguarda tutte quelle parole che potenzialmente potremmo
utilizzare e capire facilmente con gli strumenti a nostra disposizione, ma che ancora non abbiamo conosciuto.
Un esempio con il portoghese: il suffisso -ione italiano, come in televisione —> in portoghese è televisao —
> noi non conosciamo questa parola perché non l’abbiamo mai incontrata, ma se la incontriamo, una volta
che abbiamo capito più o meno questa regola morfologica e anche per l’affinità con la controparte italiana,
questa diventa una parola che potenzialmente possiamo comprendere facilmente, quindi c’è una parte della
conoscenza del lessico che rientra in una possibilità di comprensione (secondo Gass e Selinker). Un’altra
differenza che si fa è tra lessico passivo e lessico attivo —> questo è quello che usiamo concretamente nelle
nostre produzioni, sia nella lingua materna che nella lingua seconda/straniera, e quindi quello che fa parte del
nostro lessico in produzione, mentre il lessico passivo è quello che noi riusciamo a comprendere, parole che
riusciamo a comprendere senza che per forza facciano parte del nostro repertorio lessicale che realmente
utilizziamo. Ci sono parole (come, per esempio, francamente) che si capiscono, ma che non fanno parte del
nostro repertorio, non le utilizziamo così spesso. Nell’apprendimento di una seconda lingua ci sono tante
parole che di solito riusciamo a capire, che riusciamo a decodificare, che non abbiamo problemi a capire, ma
che ancora non fanno parte del nostro vocabolario attivo (del lessico attivo). Le competenze passive sono più
sviluppate di quelle attive, per tutti i livelli di analisi, tra cui il lessico, per cui (ad esempio) leggiamo un
testo, capiamo le parole, ma non è detto che siamo capaci di usare tutte quelle parole. La stessa cosa ha a che
vedere con la conoscenza e il controllo: la conoscenza è la conoscenza ideale di una parola, la conoscenza
astratta; il controllo è la capacità di saperla utilizzare in una produzione, in un enunciato davvero realizzato.
Quindi la conoscenza è la conoscenza del lemma in astratto, il controllo è l’utilizzo di quella parola in un
contesto sintattico, pragmatico, più in generale in una situazione comunicativa. Per cui, si può conoscere una
parola ma non averne il pieno controllo, non sapere in quale contesto può essere utilizzata.

Può essere lessico attivo la conoscenza, nel senso che la conoscenza si può tradurre in uso, però può essere
anche un uso fuori controllo. La conoscenza si può tradurre in un uso concreto di una determinata parola: la
si può conoscere, ma si può anche non saperla controllare del tutto.

Nonostante sia una classe aperta, nonostante sia una classe dai contorni sfumati, sono state comunque
riscontrate delle regole di apprendimento, come la questione dei significati. Ci sono una serie di criteri che
guidano l’apprendimento del lessico, cioè quali parole si apprendono per prime in una lingua straniera.

Innanzitutto, si fa una distinzione tra criteri esterni e criteri interni:

●I criteri esterni  sono criteri esterni alle parole stesse

●I criteri interni sono le caratteristiche delle parole, insite nelle parole

Tra i criteri esterni rientrano:

● L’utilità —> si imparano le parole che effettivamente servono: se sono uno studente imparerò a dire come
si dice “scuola”, tutte le parole relative alla classe…; se sono un lavoratore, imparerò le parole relative al mio
ambito professionale, come per esempio i nomi degli oggetti di un determinato tipo di fabbrica, gli oggetti in
un ufficio, gli oggetti in una cucina…
● La disponibilità —> qui rientrano le parolacce, perché possono essere ricorrenti in un certo tipo di input,
sia nel parlato nativo che nelle serie TV (ad esempio)

● Lapreferenza —> ha a che vedere con ciò che piace ad un parlante: se quest’ultimo è appassionato di
moda, imparerà prima le parole che riguardano quest’ambito.

Tra i criteri interni rientrano:

I criteri formali, in cui rientrano:

● la pronunciabilità —> se si è in grado di pronunciare una parola, allora diventerà più semplice da
imparare, mentre se si incontrano difficoltà, si eviterà quella parola o si tenderà a non utilizzarla.

● la similarità
con altre parole —> come nell’esempio di televisione-televisao, la parola portoghese
funziona morfologicamente e quindi diventa facile da memorizzare.

● la corrispondenza suono-grafia —> ha a che vedere con la pronunciabilità, cioè se si riesce ad identificare
senza troppi problemi la corrispondenza tra grafemi e fonemi questo favorirà l’apprendimento di una parola.
Se invece c’è una pronuncia strana, un’associazione strana tra grafema e fonema, quella stessa parola
diventerò ovviamente più difficile da apprendere —> questo accade spesso in inglese, dove ci sono tanti
esempi di strane corrispondenze tra suono e grafia.

● la morfologia e la lunghezza —> sono delle caratteristiche che fanno sì che si apprendano prima certe
parole piuttosto che altre: per esempio, se io devo dire “delle persone che studiano” e sono un apprendente di
lingua italiana, sicuramente dirò “studenti” e non “studentesse” come prima parola, anche perché
“studenti”  è morfologicamente più semplice e più breve come parola.

Tra i criteri semantici (che riguardano il significato) rientrano:

● la polisemia e l’omonimia —> la presenza di parole polisemiche od omonime può mettere in difficoltà
l’apprendimento di una parola stessa, quindi se c’è una relazione chiara tra forma e significato, più questa
relazione è chiara, più quella parola sarà comprensibile, e poi dopo si potranno apprendere i significati altri,
secondari, ma se sussiste questa relazione chiara favorirà l’apprendimento della parola stessa.

● la specificità
—> ha a che vedere con quanto è specifica una parola: per esempio, “bambino” si impara
abbastanza presto; in inglese la parola “toddler” (bambino di 2/3 anni) si imparerà molto più tardi rispetto
a “child” o “kid”, si apprendono prima.

● l’opacità —> ha a che vedere con un significato non sempre chiaro: se il significato di una parola è
ambiguo, è opaco, non si riesce davvero a coglierne il senso e il significato, e quindi questo non favorirà di
certo l’apprendimento di quella parola stessa, oppure ne favorirà la conoscenza ma non il controllo: la si
riesce a decifrare, ma non si è in grado di utilizzarla, non entrerà a far parte del lessico attivo. L’opacità
riguarda anche casi di intraducibilità di una determinata parola, come nel caso di saudade in portoghese che
è difficilmente traducibile in italiano, il suo significato è appunto opaco. In questi casi c’è bisogno di una
nuova concettualizzazione della lingua materna, cioè bisogna formare un nuovo concetto che non esisteva
nella lingua materna, ma che viene formato ex-novo, che viene lessicalizzato.

● l’idiomaticità
—> i significati idiomatici non sono appresi subito: la comprensione e l’uso delle forme
idiomatiche compare in un livello intermedio di competenza (livello B1-B2). Non si riescono ad utilizzare
sicuramente nelle prime fasi di apprendimento di una lingua straniera, quindi anche questa è una competenza
che si apprende pian piano, cioè la gestione delle idiomaticità.

Infine, abbiamo la questione delle classi di parole e contrastività con la L1:

● Perquanto riguarda le classi di parole, degli studi hanno dimostrato che ci sono alcune classi di parole che
vengono apprese prima, e c’è chi sostiene che i nomi siano più semplici da imparare, mentre gli avverbi si
apprendono più difficilmente, in mezzo ci sono gli aggettivi e i verbi.

● Per quanto riguarda invece la contrastività con la L1, se c’è una similarità con la lingua materna, a volte
quest’ultima può essere d’aiuto per l’apprendimento delle parole (come nel caso di televisao), altre volte
invece ci può essere un inganno da parte della lingua materna, come nel caso dei cosiddetti falsi amici che
possono creare degli errori nella lingua che si sta apprendendo perché si fa riferimento al lessico della propria
lingua materna, ma non c’è una reale corrispondenza. Quindi, il confronto con la L1 in alcuni casi può essere
positivo, quindi fa sì che non si commettano degli errori ma anzi agevolare l’apprendimento del lessico,
mentre in altri casi può essere ingannevole.

Riconcettualizzazione

 ha a che vedere con un modello, quello dei concetti e dei significati di Appel (1996).

Secondo questo modello, nella nostra mente esistono due “cassetti”: un cassetto ha a che vedere con il nostro
lessico mentale, cioè le parole che sono nella nostra testa, le parole in quanto funzione di significato e forma,
e poi c’è l’enciclopedia mentale, all’interno del quale ci sono i concetti. Le diverse lingue selezionano quali
sono i concetti da lessicalizzare: ciò significa che nelle diverse lingue possiamo trovare dei concetti a cui
corrispondono parole diverse, o gli stessi concetti ai quali corrispondono una stessa parola. Un esempio è la
parola “cognato”  in italiano: se parlo di mio cognato, posso parlare sia del fratello di mio marito, ma anche
del marito di mia sorella. Sono due persone diverse, eppure utilizzo la stessa parola. Quindi, si hanno due
concetti nel lessico mentale, lessicalizzati con la stessa parola. Questa selezione che esiste in italiano di
lessicalizzazione non esiste in altre lingue, per cui in altre lingue si troveranno questi due concetti per due
persone nello specifico che sono lessicalizzati con due parole diverse. Talvolta, quando si apprende il lessico
della lingua straniera, semplicemente si imparerà una nuova lessicalizzazione (come nel caso di “cognato”,
dove in italiano abbiamo un’unica parola, mentre in inglese ne abbiamo due).

Altre volte, imparare una lingua straniera comporterà una nuova concettualizzazione: non solo bisognerà
imparare una parola nuova, ma nella testa dell’apprendente si formerà anche un nuovo concetto: è il caso
della saudade, che è un qualcosa che non è presente nella nostra testa prima di incontrarlo nella lingua
portoghese; è il caso delle parole intraducibili, come il concetto di cazzimma  nell’italiano regionale
campano; è il caso anche di nankurunaisa o hakuna matata. —> sono termini che presuppongono appunto
una nuova concettualizzazione. In linguistica generale, per parlare di questa relazione tra concetti, referenti,
parole, lessico… si fa riferimento al caso delle lingue eschimesi, dove ci sono tante parole per indicare i
diversi tipi di neve, come la neve sciolta, più acquosa, più dura… questi sarebbero casi di nuove
concettualizzazioni, ampliare la nostra enciclopedia mentale, e quindi in questo caso notare che ci sono vari
tipi di neve, e quindi concettualizzarli. Mentre per un inglese la distinzione tra il blu, il celeste, l’azzurro…
nell’italiano sicuramente non sarà una nuova concettualizzazione, perché l’inglese riconosce queste diverse
sfumature di colore, ma costituisce una nuova lessicalizzazione. Quindi, imparare una nuova parola della L2,
vuol dire imparare tutti i significati, anche se questo non implica necessariamente una nuova
concettualizzazione, anzi spesso non c’è, ma piuttosto c’è una nuova lessicalizzazione: si nota nella lingua
straniera un nuovo modo di lessicalizzare dei concetti che già si conoscono, in altri casi invece possono
venire a crearsi dei nuovi concetti.

Un altro modello per spiegare come funziona il legame tra lessico della seconda lingua e concetti è quello di 

KROLL E DE GROOT

del 1997.

Ipotizzano l’esistenza di tre piccoli modelli:

1. Associazione lessicale: secondo questo modello, la L2 non avrebbe un contatto diretto con
l’enciclopedia mentale, quindi con i concetti nella nostra testa, ma si passerebbe sempre attraverso dei legami
di tipo lessicale con la L1, e solo la L1 ha dei contatti con i concetti stessi. Questo è in realtà quello che
avviene soprattutto ai primi stadi dell’apprendimento: qui si passa per forza dall’italiano (ad esempio), da
una traduzione mentale, abbozzata, ma si passa sempre dalla lingua materna. è questo ciò che significa avere
dei legami lessicali con la lingua materna, cioè tradurre dalla lingua materna, ed è la lingua materna che lega
i concetti a quello che si vuole dire, quindi si pensa nella lingua materna, si capisce ciò che si vuole dire in
italiano, si cerca di tradurlo nella lingua che si sta apprendendo.

Pian piano, sempre di più si rinforzano e si creano anche i legami tra i concetti e la L2, quindi si comincia a
pensare nella lingua seconda; con tanta esposizione e tanta pratica si ha ad un certo punto un cambiamento,
quando ci si rende di conto di star pensando nella lingua seconda. In termini teorici, c’è un legame che si
instaura e si rafforza tra la L2 e i concetti nella nostra testa. Infatti, Kroll e de Groot parlano del modello in
cui c’è il passaggio dalla L1 che si chiama associazione lessicale;

2. l’altro modello, quello della mediazione culturale, è l’estremo opposto in cui entrambe le lingue
sono collegate ai concetti,
3. e poi c’è un altro modello, molto originale, che si chiama di associazione lessicale e mediazione
concettuale che media tra i due estremi e ci dice che certamente la L1 ha un legame privilegiato con
i concetti, con il modo di pensare di un parlante, e che sicuramente esistono dei legami lessicali tra
la L1 e la L2, ma anche viceversa, ma il legame lessicale tra la L2 e la L1 è quello più forte. Con lo
svilupparsi dell’interlingua, con il processo di apprendimento, si instaurano dei legami concettuali
anche tra la L2 e i concetti stessi, si incomincia a pensare anche direttamente nella L2 e si
instaurano dei legami lessicali fra la L1 e la L2. —> questo significa che a volte è possibile che ci
sia bisogno di una parola nella lingua seconda o si traduce una parola della lingua seconda per
esprimere un concetto nella lingua materna. —> quello che si faceva inizialmente nei primi stadi
dell’apprendimento, ovvero passare dalla lingua materna per forza, è possibile che accada anche
nella direzione inversa con lo sviluppo di una competenza avanzata.
Come si apprendono le parole?

● Inprimo luogo si apprende la fonologia, cioè la pronuncia delle parole stesse. Per cui, sulla fonologia, sulla
capacità di saper pronunciare dei suoni avrà un grande influsso il repertorio di suoni della lingua materna di
un apprendente, per cui all’inizio una lingua prevede dei suoni che nella lingua materna di un apprendente
non ci sono, egli si troverà chiaramente in difficoltà.
● Seguendogli stadi di acquisizione, un apprendente riuscirà a ricostruire con queste parole anche la
loro grammatica (la morfologia e la sintassi)

● Impareràla semantica della parola, ovvero il suo significato, però prima imparerà il suo significato non
metaforico, letterale, e poi successivamente i significati connotati, quindi quelli metaforici, affettivi, di
polisemia…

● Infine, imparerà la pragmatica di una parola: svilupperà il controllo di quella parola, cioè sarà in grado di
utilizzarla in maniera appropriata nei giusti contesti e in maniera efficace per poter comunicare
efficacemente.

La centralità del lessico è messa in discussione ed è superata da chi studia tutto il resto che riguarda la
comunicazione, attraverso la prosodia o il linguaggio del corpo.

Il lessico è centrale, basti pensare al “lexical approach”, che è una teoria che vede l’apprendimento
linguistico e lo sviluppo dell’interlingua come una grammaticalizzazione del lessico, cioè ci sono prima gli
elementi lessicali (le parole) e poi intorno a questi elementi lessicali si sviluppa la grammatica (la sintassi e la
morfologia).

La grammatica
Con il tempo, ma soprattutto con più input, il lessico viene grammaticalizzato ed emerge la grammatica.
L’apprendimento della grammatica avviene principalmente per stadi comuni a tutti/e gli/le apprendenti.
*Domanda esame: L’apprendimento della grammatica (gli stadi dell’interlingua) sono uguali in tutti gli
apprendenti? Sì, quello che varia sono l’esito finale (relativo al livello di competenza che si raggiunge) e la
velocità con cui si passa da uno stadio all’altro (dipende da una pluralità di fattori, come la predisposizione,
la motivazione, la quantità di studio che fanno si che si passi da uno stadio all’altro più velocemente).

Le strutture emergono attraverso diversi stadi sia morfologici che grammaticali (quindi con uno sviluppo
progressivo):

- Alcuni morfemi grammaticali inglese,

- Il genere italiano,

- La negazione inglese,

- La relativizzazione, ossia dello sviluppo delle frasi relative,

- L’ordine delle parole tedesco,

- Una serie di sequenza parallele inglesi.

Gli ultimi due sono delle esemplificazioni di quello che la linguistica acquisizionale e lo studio
dell’interlingua, è riuscito a spiegare cercando di superare le singole lingue muovendosi verso discorsi di
carattere più generale.

Morfología

I primi studi sulle sequenze di apprendimento in realtà riguardavano la L1, ovvero l’apprendimento
dell’inglese come lingua materna, questi studi erano di carattere soprattutto descrittivo e andavano a cercare
di capire quali fossero i morfemi inglesi che emergevano per primi nelle produzioni dei bambini anglofoni di
lingua materna inglese (Brown) e da ciò è stata delineata una sequenza di morfemi:
1) -ing
2) Il suffisso -s del plurale
3) Il verbo essere be copula
4) Il verbo essere be ausiliare
5) Articolo

(Questi sono i primi cinque, ma sul manuale c’è anche il passato regolare, la -s della terza persona dei verbi,
il suffisso -s del possessivo)

Successivamente con i Morpheme Studies degli anni ’70 del ‘900, si è applicata la stessa metodologia alla
L2, ovvero la lingua seconda inglese e si è constatato che la sequenza è la stessa, ovvero che c’è la stessa
sequenza di apparizione dei morfemi, quindi una coincidenza tra L1 e L2 (ipotesi dell’identità). Gli stessi
morfemi compaiono nelle stesse sequenze dell’apprendimento sia nell’inglese L1 che nell’L2.
Questo studio è di carattere descrittivo, cioè si limita a descrivere che cosa avviene e quali sono le forme che
compaiono, invece successivamente con lo svilupparsi delle teorie cognitiviste, si è cercato di concentrarsi di
più sul perché compaiono delle forme e non altre e quali fossero le strategie mentali di elaborazione
linguistica che permettessero l’apparizione di certe forme in una determinata sequenza, cioè certe forme
prima di altre, in altre parole c’è una analisi del processo e non del prodotto che sta alla base di questo
prodotto.
Un altro studioso successivo, chiamato Rod Ellis, studiò gli stadi di emersione di alcune strutture.
Nello schema nelle slide, la struttura in questione è quella dei verbi in inglese, si tratta del passaggio del
verbo inglese to eat e come viene reso il passato? Anche qui Ellis individua cinque stadi.
1. Nel primo stadio di apprendimento vengono utilizzati per i verbi le forme basiche per indicare qualsiasi
tempo verbale.
2. Al secondo stadio compare già una forma che noi diremmo corretta, ovvero Ate, però Ellis dice di fare
attenzione perché la presenza di questa forma irregolare al secondo stadio, quindi in un momento molto
iniziale e precoce di una interlingua, non è un segnale di un avvenuto apprendimento, piuttosto è una
ripetizione pappagallesca, cioè una ripetizione di una forma che è stata asportata e sentita, cioè un individuo
ha sentito la parola Ate, ma non ha consapevolezza del fatto che io sto usando effettivamente una forma
irregolare del verbo Eat, quindi questo è un caso di forma irregolare non analizzata, ovvero usata
inconsapevolmente senza una reale cognizione.
3) Al terzo stadio l’apprendente sta invece iniziando a notare le forme della L1 e sta cominciando a
ragionarci e nota un nesso che il suffisso -ed viene utilizzato per formare il passato dei verbi e quindi produce
una forma regolare sovraestesa, cioè applica la regola anche nei casi in cui non si dovrebbe estendere
quella regola, ovvero nei casi eccezionali e quindi forma un passato corretto che è eated.
4) Al quarto stadio, abbiamo anche capito che c’è una forma irregolare, però ancora non sappiamo gestirla e
formiamo una forma ibrida, che è una forma mista.
5) Al quinto stadio invece utilizziamo la forma irregolare corretta e viene usata consapevolmente e in
maniera analizzata, infatti si parla di irregolare analizzata, perché è usata con cognizione di causa, ovvero
che l’apprendente ha interiorizzato questa regola e quindi la usa in maniera corretta.
GENERE IN ITALIANO

Un altro esempio che viene riportato è quello che riguarda l’italiano e in particolare l’apprendimento del
genere nella lingua italiana. Quest’ultimo è caratterizzato dall’accordo e quindi per capire di che genere è la
parola mano, lo capiamo attraverso la presenza dell’articolo. Il genere si individua attraverso l’accordo che
ha risvolti sintattici a livello sintagmatico, ovvero che l’accordo funziona a livello di sintagma, ad esempio
“la mia mano” appartiene allo stesso sintagma, ma funziona anche a livello sintattico, ovvero mette in
relazione e funziona anche con sintagmi diversi, ad esempio “la tua mano è calda” mette insieme sintagmi
diversi e supera il confine sintagmatico.
Es: Quei tuoi bellissimi capelli biondi. -> Si rimane sempre all’interno di uno stesso sintagma (tutte le parole
sono accordate alla parola capelli).
Le ortensie erano cresciute rigogliose. Le ha tagliate il giardiniere. -> Ci sono due sintagmi diversi,
ovvero un sintagma nominale e uno verbale, all’interno del quale ce n’è uno aggettivale, ma la parola “le”,
costituisce l’accordo che va oltre l’unità frasale, supera la frase cioè si trova un pronome che è accordato con
un sostantivo della frase precedente.

Come si assegna un genere ai sostantivi? Come fa un apprendente a dire che un sostantivo è maschile o non
femminile?
Marina Chini, che è una studiosa molto importante delle sequenze acquisizionali di italiano L2, individua tre
criteri: fonologici, semantici e morfologici.
Nel primo dei criteri, ovvero i criteri fonologici, le desinenze nominali non vengono riconosciute come indizi
per risalire al genere dei sostantivi, cioè ancora non si sa che -a solitamente è associato ai sostantivi
femminili, oppure -o utilizzata per sostantivi maschili, ma contribuiscono a stabilire la tipica forma
fonologica della parola italiana a fine vocalica. Questa mancanza di analisi grammaticale non preclude
affatto che i sostantivi risultino spesso prodotti con la corretta desinenza, cioè in questo caso, la vocale
assegnata alla parola, nel caso delle forme basiche ad esempio, c’è una vocale, perché l’apprendente sa che di
le parole italiane di solito finiscono con una vocale, ma la scelta della vocale non è dettata da criteri di
genere, ovvero non sa che quella parola è femminile o maschile, non ne conosce ancora il genere e
sicuramente non lo sa attribuire ad una determinata desinenza e quindi ci mette una vocale, e molto spesso è
anche la vocale corretta però non ha ancora costituito i nessi forma-desinenza-funzione (ovvero -o =
maschile, -a = femminile) e nemmeno le eccezioni.

Successivamente entrano in gioco dei criteri semantici che fanno capo alla relazione genere-sesso del
referente e si basano su precise desinenze, per cui le cose maschili -o e le cose femminili -a e questo tipo di
criterio funziona nel momento in cui hanno un sesso e un genere le cose di cui parliamo, ad esempio ragazz-
o, ragazz-a, cioè si associa facilmente il sesso maschile con la -o e il sesso femminile con la -a.

Infine ci sono i criteri morfologici, ovvero quando l’apprendente ha capito come funziona la morfologia del
genere in italiano e sa attribuire il genere secondo cui siano dei sostantivi che si comportano in maniera
regolare ma anche irregolare, ovvero che sa che esiste la desinenza -o per i maschili però non è detto perché
ci sono delle eccezioni, quindi sa ragionare sulla morfologia, per esempio sa che ci sono dei nomi che
terminano in -e che possono essere sia maschili che femminili.

Anche per l’accordo Marina Chini individua delle sequenze di apprendimento dell’accordo. Cioè cosa si
accorda per prima? E come funziona l’accordo in italiano?
Lei individua una sequenza a 6 stadi.
1) Al primo stadio, il primo elemento che si riesce ad accordare in maniera corretta è il pronome anaforico di
terza singolare.
Esempio: Vado da Maria per vedere lei.
Vado da mia madre per cercare il passaporto, per vedere se lo è a casa. -> è scorretto in italiano perché è
una costruzione sintattica che non utilizzeremo, però quel lo è un pronome anaforico di terza persona
singolare che è effettivamente accordato alla parola passaporto.
2) Al secondo stadio viene accordato l’articolo determinativo, troveremo parole come la casa, la mamma.

3) Al terzo stadio troviamo l’articolo indeterminativo.


4) Aggettivo attributivo, cioè quello che viene prima del nome come tutta la sera.
5) Aggettivo predicativo, quello che viene dopo il verbo essere.
6) Il participio passato.

Perché si accorda prima l’aggettivo attributivo e poi l’aggettivo predicativo? Perché l’aggettivo attributivo è
nello stesso sintagma del nome, invece l’aggettivo predicativo è nel sintagma verbale ed è quindi più distante
dal punto di vista sintattico e ancora più distante è la forma del participio passato.
Infatti Chini parla di questo criterio della distanza sintattica che influenza l’emersione dell’accordo.

Paragonando descrizione e narrazione il compito più semplice da svolgere è la narrazione ma entrambi


hanno delle difficoltà differenti. La descrizione è complessa perché ci sono più accordi, se non si conoscono
le parole è più difficile e si è più vincolati. Invece nella narrazione si può raccontare di solito ciò che si vuole,
ma dipende anche dal tipo di narrazione. Nella narrazione invece c’è il problema dei tempi verbali, mentre
nella descrizione di solito compare solo il presente. Ci sono quindi differenze formali tra le due. La
descrizione limita il lessico, la narrazione spesso è al passato. Però da un punto di vista cognitivo la
narrazione è più semplice perché nella narrazione si ha già uno schema, già si sa come presentare gli eventi.
Lo schema è solitamente quello temporale se non si introducono ad esempio dei flashback. Già c’è quindi
uno schema cognitivo dato che è quello della sequenza temporale. Poi il saperla utilizzare dipende dal
proprio livello di interlingua. Anche solo il mettere una dopo l’altra le cose fatte funziona nella narrazione
perché è scontato ci sia questo schema cognitivo sia in chi legge che chi scrive. Nella descrizione invece lo
schema cognitivo non c’è perché ognuno descrive un qualcosa a modo suo, in maniera differente. Ognuno lo
fa in modo diverso e partendo da un punto differente verso un punto ancora differente. Lo schema cognitivo
è da decidere e quindi lo sforzo cognitivo è maggiore. Inoltre di solito si parte da ciò che attrae di più e
ognuno ha chiaramente interessi differenti. Quindi se nella narrazione, una volta imparato ad esempio come
si dice ‘poi’, lo si può facilmente usare per creare una narrazione corretta (tralasciando un’eventuale
ripetizione del ‘poi’ che sarebbe meglio evitare), nella descrizione la difficoltà può essere maggiore perché
giustapporre frasi come ‘C’è una cucina. C’è un bagno’ non rende il testo coeso. È molto più difficile da
strutturare un testo descrittivo, che sia coeso e coerente.

RELATIVIZZAZIONE

Altra sequenza da considerare è la relativizzazione.

Le proposizioni relative sono presenti in tutte le lingue del mondo ma possono variare secondo diversi
parametri, tra cui:

● punto di attacco (elemento/sintagma nominale a cui si riferisce, a cui si attacca)


● elemento relativizzato (il caso del pronome relativo, la sua funzione di soggetto, complemento
oggetto e così via. Esempio: il ragazzo che ho chiamato ieri 🡪 ‘che’ è complemento oggetto/ il ragazzo ‘di
cui’ ho segnato l’email è un altro caso ancora.)
● ripresa pronominale non sempre presente (in italiano non è presente ma la traduzione letterale
(dall’arabo ad esempio in cui è presente) potrebbe essere ‘il gatto che LUI sta mangiando’ / ‘il ragazzo che
l’ho visto ieri’)🡪 il che è ripreso ulteriormente con un pronome)
● forma del pronome relativo (unica o varia) 🡪 in inglese è molto varia con that, which, ecc
● profondità dell'incasso 🡪 ha a che vedere con quante proposizioni relative possono essere incassate
una nell’altra. In italiano è profondo ma a un certo punto si corre il rischio di non comprendere quanto detto e
quindi risulta inefficace a livello di comunicazione. La profondità dipende da lingua a lingua.

La lingua cinese ad esempio ha preposizioni relative ma sono mascherate quasi come aggettivi resi come
proposizioni relative. In russo le proposizioni relative funzionano come in italiano ma il pronome relativo va
declinato per caso, numero e genere. Un po’ come in inglese con ‘who’, ‘whom’, ecc. In tedesco, nelle
proposizioni in generale e quindi anche nelle relative, il verbo è posto a fine frase.

Rispetto a tutti questi parametri si è cercato di individuare anche qui delle sequenze di apprendimento e
rispetto al punto di attacco è emerso che compaiono prima nelle interlingue, in tutte le lingue, le relative che
modificano l’oggetto diretto e si trovano dopo il verbo. Ad esempio ‘ho visto il ragazzo che lavora con te’.
Piuttosto che ‘il ragazzo che lavora con te oggi non è venuto’. Questo perché nella 2° frase bisogna
sospendere una frase e poi riprenderla ed è più difficile cognitivamente. La 1° frase è più lineare come
struttura e più facilmente elaborabile dal punto di vista cognitivo.
Per quanto riguarda invece l’elemento relativizzato, cioè il caso del pronome relativo, è emersa una sequenza
implicazionale poiché le prime relative che emergono son quelle in cui il ‘che’ è soggetto. Poi oggetto diretto
(il ragazzo che ho visto ieri), oggetto indiretto (il ragazzo cui fai riferimento), oggetto preposizionale (il
ragazzo per il quale hai una cotta), genitivo (il ragazzo di cui ti parlavo) e infine l’oggetto di comparazione
che in italiano non esiste. In inglese c’è il than. Ciò significa che l’apprendente imparerà in questa sequenza
le diverse strutture della relativa e i diversi elementi relativizzati.

La sequenza implicazionale implica a sua volta che se si sa relativizzare l’oggetto preposizionale,


sicuramente si saprà relativizzare anche l’oggetto indiretto, diretto e tutti gli elementi precedenti.
È interessante notare che questa sequenza implicazionale è la stessa che si trova e riguarda la presenza di
queste possibilità nelle lingue del mondo. L’inglese che ha anche oggetto di comparazione potrà relativizzare
anche tutte le sue altre forme. Funziona quindi la sequenza sia per descrivere le modalità possibili della
relativizzazione nelle lingue naturali (alcune lingue relativizzano fino all’oggetto diretto, altre fino
all’indiretto e così via), sia anche per l’apprendimento e per le interlingue in cui l’elemento relativizzato
apparrà in quest’ordine preciso in una sequenza implicazionale. Arrivare a un determinato stadio presuppone
la competenza anche degli stadi precedenti

Infine la ripresa pronominale proprio perché ridondante, per una ridondanza di informatività, esplicitata in
arabo proprio nel nome della categoria grammaticale, è usata la ripresa pronominale spesso anche in casi in
cui non è prevista. Anche in italiano a volte emerge pur non essendo parte della grammatica italiana. Un
esempio può essere ‘il gatto che l’ho visto ieri’.
Rispetto alla profondità dell’incasso è anche intuitivo capire poi che maggiore è la profondità di incasso,
maggiore sarà la difficolta sia di comprensione anche dei nativi, che per l’apprendente nella comprensione e
gestione della relativa.
PROGETTO ZISA
(ripresa nell’ipotesi dell’insegnabilità, modello multidimensionale, teoria della processabilità)

Il progetto ZISA è un progetto che si sviluppa tra gli anni ‘70/’80 del 900 che intende osservare in che modo
si sviluppa la sintassi tedesca all’interno di un gruppo di migranti spagnoli e italiani in Germania (si sa che in
quegli anni c’è stato un massiccio spostamento dall’Italia verso tanti Paesi europei ed extraeuropei e molti
sono andati in Germania). Qui si parla di acquisizione spontanea, cioè persone che erano immerse in un
ambiente di L2, un ambiente germanofono, e apprendevano in maniera spontanea la sintassi delle frasi.
Anche il progetto Zisa, come i Morpheme Studies, in un primo momento era un progetto descrittivo,
raccoglie semplicemente dati dagli apprendenti e si ‘’limita’’ (tra virgolette perché in realtà è una massiccia
raccolta di dati e per questo motivo, come vedremo, sarà ripreso più volte in studi successivi come banca
dati) a descrivere cosa accade nello sviluppo dell’interlingua dal punto di vista sintattico.
Emergono delle sequenze di acquisizione che sono delle sequenze implicazionali*, per cui se si arriva ad
esempio al quarto stadio vuol dire che si sono già sviluppate le strutture del terzo, del secondo e del primo, se
arrivo al quinto stadio vuol dire che so gestire le sequenze precedenti ecc.
*un ordine preciso in cui tutti gli elementi che sono alla destra della sequenza >, includono gli elementi
precedenti.
La prima sequenza è quella dell’ordine canonico e cioè uno stadio in cui gli apprendenti utilizzano la
struttura tipologica/sintattica prevalente della propria lingua materna: sia l’italiano che lo spagnolo hanno
come struttura sintattica prevalente quella SVO, quella standard, quindi gli apprendenti producono
semplicemente questa struttura nel tedesco e ne vengono fuori frasi come questa dell’esempio, che significa
‘’I bambini giocano con la palla’’, ordine canonico/ standard.
Al secondo stadio, all’ordine canonico si aggiunge la presenza di un avverbio. L’avverbio viene messo
all’inizio della frase, una posizione topicalizzata, cioè una posizione importante: l’avverbio non è messo tra
due elementi ma in una posizione ben precisa e cioè all’inizio della frase stessa. In questo secondo stadio
sappiamo che normalmente nella sintassi tedesca quando c’è un avverbio all’inizio c’è bisogno
dell’inversione del soggetto e del verbo nella frase, qui però non c’è l’inversione: da significa lì, quindi è un
avverbio, e la struttura della frase dopo l’avverbio rimane la stessa (SVC), ciò che avviene nel secondo stadio
è solo il posizionamento dell’elemento all’inizio della frase. (Traduzione dell’esempio: lì giocano i bambini).
Al terzo stadio avviene un altro fenomeno, cioè la separazione del verbo. Quando ci sono i verbi composti, in
questo caso modale + verbo, muss e machen, (devono fare), sono separati, uno rimane al centro della frase e
l’altro viene spostato dall’apprendente: anche in questo caso non avviene uno spostamento tra gli elementi
ma c’è un solo elemento che viene spostato e posto in una posizione topicalizzata, a fine frase.
Al quarto stadio avviene ciò che doveva avvenire sostanzialmente (nella maniera corretta) al secondo stadio,
cioè l’inversione del soggetto e del verbo nel momento in cui c’è un avverbio. Dann è avverbio, sie è il
soggetto e hat verbo, quindi qui c’è inversione del soggetto e del verbo: l’apprendente non solo è in grado di
mettere un elemento all’inizio della frase, ma è anche in grado di spostare gli elementi all’interno della frase
stessa, in qualche modo di toccare l’ordine degli elementi all’interno della frase e quindi scambia la
posizione del verbo e del soggetto.
Al quinto stadio l’apprendente riesce ad applicare un’altra regola della lingua tedesca, che è quella di porre il
verbo alla fine nel momento in cui c’è una subordinata. Qua il verbo è kommt , (traduzione dell’esempio: lui
disse che sarebbe tornato a casa) che è posto alla fine.
Quindi, in un primo momento il progetto ZISA si limitava ad individuare questi stadi e questa prima
sequenza implicazionale. Successivamente, poco più tardi, si cominciò a ragionare piuttosto di quali fossero
le forme emerse, quali fossero invece le strategie di elaborazione del parlato, cioè quali potessero essere i
meccanismi cognitivi alla base dell’emersione di queste forme. Ci si cominciava a chiedere perché
emergessero queste forme in questa sequenza e come funzionava l’interlingua da un punto di vista cognitivo
per permettere l’emersione di queste determinate sequenze in questo determinato ordine.
Clahsen nel 1986, quindi, comincia ad interpretare psicolinguisticamente i dati del progetto ZISA e ad
individuare tre strategie di elaborazione del parlato. Queste strategie sono:
- la strategia dell’ordine canonico (SVO), che quando è attiva ci dice ‘’lascia tutto nell’ordine standard,
nell’ordine che ti è più semplice, ordine non marcato (Soggetto-Oggetto-Complemento)’’.
- La seconda è la strategia di inizializzazione e finalizzazione (SIF) e dice dal punto di vista cognitivo
all’apprendente, ‘’se devi spostare o aggiungere qualcosa nella frase, dato che l’ordine canonico non devi
alterarlo, lo aggiungi all’inizio o alla fine’’.
- La terza è quella delle proposizioni subordinate (SPS) che dice di non ‘’toccare ciò che c’è nelle
proposizioni subordinate, lascia l’ordine canonico’’. Impedisce lo spostamento degli elementi all’interno
delle proposizioni subordinate.
La prima strategia dunque è quella che propone di lasciare l’ordine canonico, lasciare ‘’così com’è’’, mentre
la seconda è quella che permette il posizionamento di un nuovo elemento rispetto all’ordine canonico, o
all’inizio o alla fine dell’enunciato, non in mezzo. La terza è quella che dice di ‘’non toccare niente’’, non
stravolgere gli elementi, nelle proposizioni subordinate. Queste strategie sono più o meno attive nei diversi
stadi individuati nel progetto ZISA.
● Strategie di elaborazione del parlato nei 5 stadi:
1. Ordine canonico – SVO + SOC (+SIF) (+SPS)
2. Avverbio all’inizio – AVV + SOC +SIF (+SPS)
3. Separazione del verbo – SEP -SOC +SIF +SPS
4. Inversione – INV -SOC -SIF +SPS
5. Verbo in fondo – V-FON -SOC -SIF -SPS
● Le strategie sono universali.
-Al primo stadio è attiva la strategia dell’ordine canonico, quella che dice di non stravolgere l’ordine
standard della struttura. Sono attive anche le altre due, ma sono tra parentesi perché in realtà non ci sono tutte
le subordinate nei primi stadi dell’apprendimento e magari l’apprendente non riesce ad utilizzare neanche un
avverbio quindi è come se fossero attive, ma sono latenti, non funzionano ancora.
-Al secondo stadio è attiva la strategia dell’ordine canonico e la strategia di inizializzazione e finalizzazione
perché si inserisce l’avverbio come ‘’novità’’, cioè come nuovo elemento e si mette all’inizio.
- Al terzo stadio la strategia dell’ordine canonico viene meno in qualche modo, perché l’apprendente sta
separando i due componenti del verbo e quindi la struttura della frase non sarà più Soggetto-Verbo-
Complemento Oggetto, ma sarà Soggetto-Verbo-Complemento Oggetto e ancora Verbo, in qualche modo sta
modificando l’ordine canonico; è ancora attiva anche la strategia di inizializzazione e finalizzazione, perchè
quando l’apprendente separa il verbo, la parte interessata non la mette in un posto a caso, ma in uno preciso,
ovvero alla fine dell’enunciato.
-Al quarto stadio abbiamo lo stadio dell’inversione. In questo stadio l’apprendente ha sicuramente stravolto
l’ordine canonico della frase (dunque questa strategia non è attiva) poiché inverte soggetto e verbo, ma viene
disattivata anche la strategia di inizializzazione e finalizzazione perché in questo caso sta facendo uno
spostamento degli elementi interni alla frase stessa: c’è sempre l’avverbio all’inizio, però lo spostamento che
l’apprendente opera non porta ad uno spostamento degli elementi solo all’inizio o alla fine della frase, ma è
uno spostamento tra gli elementi all’interno della frase stessa.
-All’ultimo stadio, quando nelle proposizioni subordinate l’apprendente è capace di mettere il verbo alla fine,
viene meno anche la terza strategia che diceva di non ‘’toccare’’ l’ordine dei costituenti, di seguire anche in
quel caso l’ordine canonico, dunque si disattiva da un punto di vista psicolinguistico quando l’apprendente
riesce nelle subordinate a mettere il verbo alla fine. Ovviamente questa sequenza va da una minore
complessità psicologica ad una sempre maggiore: si pensi cioè, che all’inizio non vengono toccati gli
elementi rispetto alla struttura marcata, la struttura è molto semplice e rispecchia la struttura tipologicamente
più importante delle proprie lingue materne, vengono aggiunti elementi solo all’inizio o alla fine e solo nella
parte finale si comincia ad operare all’interno della frase e a saper costruire anche delle strutture più
complesse come delle subordinate.
Con questo passaggio alle strategie di elaborazione del parlato di carattere psicolinguistico, si individuano
delle strategie che sono universali, che possono essere potenzialmente applicate ad altre lingue: si passa da
dei dati empirici, dunque raccolti sul campo, all’individuazione di strategie e/o regole, che possono essere
applicate a lingue diverse. In effetti si è tentato di applicare queste stesse strategie di elaborazione del parlato
anche in altre lingue, soprattutto con l’inglese.
Si è cercato di ricomporre la stessa sequenza di stadi e di capire se questa sequenza rispetto alla sintassi
emergesse anche nella lingua inglese ed è uno studio del 1987 condotto da

STADI INGLESE Pienemann e Johnston.


-Nello stadio ‘’zero’’ che non c’era nel progetto ZISA, pre-basico, ci sono solo formule e lessemi. Questi
sono i primi stadi dell’apprendimento, quindi ‘’how are you?’’ o enunciati del tipo ‘’Bread’’ o
‘’McChicken’’ per dire ‘’vorrei un McChicken Menù’’ al McDonald: enunciati olofrastici, cioè composti da
una sola parola che sta ad indicare invece un interno enunciato, non c’è sintassi.
-Al primo stadio di sviluppo della sintassi ci sono delle strutture che rimandano all’ordine SVO come ‘’I like
Sidney’’, oppure delle strutture in cui c’è la negazione + SVO, ‘’No me live here’’ oppure ancora
interrogative con SVO, cioè le prime interrogative che compaiono nell’interlingua in inglese L2, sono delle
interrogative in cui non viene stravolto l’ordine degli elementi all’interno della frase, ma l’idea
dell’interrogazione e della domanda è data solo dall’intonazione o dal punto interrogativo nella scrittura, del
tipo: ‘’you live here?’’.
-Al secondo stadio c’è attiva, non più latente, la strategia dell’inizializzazione e della finalizzazione, cioè
della topicalizzazione: l’elemento importante che io aggiungo e su cui io voglio imporre l’attenzione, viene
posto o all’inizio o alla fine della frase ‘’Cheese I like it’’ (l’elemento topicalizzato viene messo all’inizio),
l’avverbio all’inizio ‘’Today he stay here’’ o anche qui l’avverbio interrogativo messo all’inizio della frase,
compaiono delle forme di domande non più semplici, ma per esempio con il -wh: ‘’Why she go there?’’
Dove l’ordine canonico è ancora attivo come strategia.
-Al terzo stadio troviamo l’inversione tra copula e ausiliare: “have you seen him?”, lo spostamento delle
particelle o l’inversione possessiva “my friend house”.
-Al quarto stadio si inizia a mettere l’ausiliare al secondo posto del tipo “why didi she eat that?”, il do al
secondo posto e la negazione al secondo posto, opero sulla struttura interna della frase stessa.
-Al quinto stadio riesco secondo questo studio a utilizzare le interrogative senza inversione: “I asked him
where he is from”. Al quinto stadio l’operazione che si compie sulla subordinata è quella di rendere
l’interrogativa indiretta senza l’inversione. In questo stadio viene anche rilevata la presenza di un avverbio
interno alla frase “he has never met Her”.

Progresso e variabilità
● I progressi dell’interlingua non sono sempre graduali (si può inceppare l’apprendimento ma la
frequenza non può essere alterata) e lineari ma, in ogni processo di apprendimento, vi è una grande
variabilità.
La variazione può essere sia evolutiva o diacronica ovvero progresso nel tempo, sia una variazione di
carattere sincronico ovvero in un dato stadio dell’interlingua. Questa variazione di carattere sincronico può
essere sia tra persone diverse, quindi intersoggettiva (interessa la velocità dell’apprendimento, la L1,
l’ambiente sociale). Quella che adesso ci interessa è la variabilità intrasoggettiva, forme diverse all’interno
dello stesso momento. Questa variabilità intrasoggettiva può essere libera (riguarda la coesistenza in un dato
momento di più forme alternative che hanno la stessa funzione), o sistematica, che può dipendere da vari
fattori: contesto sociale, psicologico, linguistico. Ma è anche vero che molta della variabiltà intrasoggettiva
dell’interlingua è sistematica.
⮚ La difficoltà di chi studia l’interlingua è quella di stabilire qual è il momento esatto in cui si
apprende una determinata forma. Difficoltà nell’individuare il punto di apprendimento. L’ipotesi più
plausibile è che quando quella forma compare nel 90% dei casi allora è una forma realmente appresa.

L’instabilità dell’interlingua
● La complessità dei fattori coinvolti nell’instabilità è rilevata dallo studio di Young (1991) il quale
esamina la produzione di -s plurale da parte di apprendenti cinesi di inglese L2. Ha osservato che ci sono
tanti fattori che influenzano la presenza o l’assenza di questa -s:
⮚ Il contesto situazionale, con chi parlo e dove, identità culturale
⮚ Livello di competenza, elementare o media
⮚ Il contesto linguistico:
-fattori semantici, il significato della parola. Se la parola viene usata spesso al plurale allora questo faciliterà
l’uso di questa parola
-fattori sintattici, la struttura sintattica della parola
-fattori pragmatici
-fattori fonologici

La variabilità dell’interlingua
Gli stati di apprendimento sono comuni a tutti gli apprendenti, ma c’è una notevole variabilità
intersoggettiva. Questa variabilità interessa 3 caratteristiche della lingua, tre elementi del percorso verso la
L2, e quindi 3 elementi dell’interlingua. Le forme che si presentano ai singoli stadi: non nel senso che le
forme si possono eguagliare, che possono prescindere dalle sequenze già viste, ma nel senso che delle forme
possono co-occorrere nel passaggio da uno stadio all’altro. Poi la velocità dei passaggi da uno stadio all’altro
è sicuramente qualcosa che varia, c’è chi va più veloce e chi va più lento, ed in realtà anche la velocità è
influenzata da tutta una serie di altri parametri. E poi quello che varia è l’esito finale, ciascuno avrà
inevitabilmente una competenza diversa da quella del suo collega. Quali sono i fattori che determinano la
variabilità? Ce ne sono 5 che vengono presi in considerazione sul manuale:
-la L1, cioè la lingua di partenza, la lingua materna;
-l’ambiente linguistico: cioè tutto ciò che è intorno all’apprendente;
-le caratteristiche individuali dell’apprendente stesso;
-le caratteristiche culturali;
-le strategie di apprendimento.

TRANSFER
La L1 inevitabilmente rappresenta il nostro punto di partenza, il nostro filtro con cui guardiamo alle altre
lingue. È chiamato anche lo strumento euristico, cioè lo strumento di conoscenza che noi già possediamo in
quanto parlanti di almeno una lingua materna. Il fenomeno che indica il trasferimento di un elemento
dalla lingua materna alla L2 o straniera, è il transfer. I transfer possono essere positivi o negativi. Un
transfer negativo è un transfer facilmente riconoscibile, perché produce un errore nella lingua straniera
rispetto allo standard della lingua che si sta apprendendo. Quindi produce una forma deviante rispetto allo
standard della lingua che si sta apprendendo. Quindi quando la ragazza anglofona ha scritto “io ho spenduto”
invece di “speso”, quel transfer lessicale era sicuramente negativo perché produceva una forma errata in
italiano standard. I transfer positivi sono tutti quei casi di transfer in cui un trasferimento non produce una
forma errata. Quando abbiamo parlato del progetto ZISA, cioè il progetto di acquisizione della sintassi
tedesca, abbiamo detto che al primo stadio di acquisizione della sintassi tedesca, gli immigrati italofoni e
ispanofoni che stavano apprendendo il tedesco, tendevano a produrre l’ordine tipologico della lingua
materna, quindi l’ordine meno marcato, quello della lingua standard SVO. Questo fenomeno di transfer non
produceva errori, forme sbagliate nella L2 che si stava apprendendo. In tal caso, si aveva un transfer positivo.
I transfer positivi, tutti quei casi in cui trasferiamo elementi ma non producendo forme scorrette nella lingua
che stiamo imparando, avvengono continuamente, ma pongono un problema di rilevazione, perchè sono
invisibili. La frase è corretta perché si sta riproducendo una forma corretta della lingua che si sta imparando,
o è questa la regola della lingua materna?
Nel progetto ZISA, il transfer è positivo solo nel primo stadio, poi negli stadi successivi parleremo di transfer
negativi. Quando avviene un transfer positivo, inserisco qualcosa nella L2 o straniera senza che questo porti
problemi formali, si verifica un problema di rilevazione, perché il transfer positivo è invisibile, non si vede. E
quindi chi osserva l’interlingua può ipotizzare che ci sia un transfer ma non potrà mai saperlo se è avvenuto o
meno, a meno che non interroghi l’apprendente stesso, a meno che l’apprendente non venga messo alla
prova. Però di fatto sono invisibili nell’interlingua. Nei primi studi della linguistica acquisizionale, nei quali
si cominciava a ragionare sui processi di apprendimento, sui processi cognitivi, si pone molta attenzione sul
ruolo del transfer. Infatti negli anni 50 del ‘900 si afferma la “posizione/ipotesi massimalista”, che è quella
dell’analisi contrastiva. Secondo questa ipotesi, il transfer sarebbe alla base del 90% degli errori, quindi una
grandissima percentuale degli errori commessi dagli apprendenti. L’analisi contrastiva è una teoria
dell’apprendimento che pone l’accento sul contrasto, il confronto tra lingua materna e quella che si sta
apprendendo. Nella teoria si afferma che l’uso delle abitudine linguistiche acquisite nella lingua materna,
causano interferenze nell’apprendimento linguistico. Si parla in termini di abitudini linguistiche. All’inizio si
dava tanto peso al transfer, negli anni 50 del ‘900: siamo un po’ prima della costituzione del concetto di
interlingua, ma l’ambiente culturale già incominciava a pensare a dei termini di elaborazione cognitiva
nell’apprendimento linguistico. Viene in questo momento fuori la questione del transfer, il quale viene visto
ovunque. Successivamente invece si impone una posizione minimalista, quindi l’esatto opposto, che dice
che esistono tali fenomeni ma che sono limitati e corrispondono al 3%, massimo 15% delle deviazioni che
compaiono nelle forme di interlingua dell’apprendente.
Come si manifesta un fenomeno di transfer? Nel caso di “Ha spenduto” c’è un transfer a livello lessicale.
L’apprendente mette il verbo inglese col suffisso del participio passato italiano. Usando una forma
morfologica dell’italiano, sostituisce l’elemento lessicale. In tal caso il transfer viene descritto usando il
termine di sostituzione lessicale. La sostituzione avviene anche nei casi in cui stiamo imparando una lingua
che ha una serie di fonemi che noi non conosciamo e soprattutto nei primi stati di apprendimento linguistico,
noi sostituiamo quei fonemi che non padroneggiamo perché non fanno parte del repertorio della nostra lingua
materna, con altri fonemi del nostro repertorio, quelli che ci riescono più facili nella pronuncia. A livello
fonetico/fonologico, nelle lingue che stiamo studiando, ci sono suoni che non appartengono al nostro
repertorio linguistico. Oltre alla
sostituzione, un’altra strategia è quella dell’omissione. Un esempio fatto molto spesso riguarda la lingua
russa,o comunque in generale gli studenti slavofoni di italiano come L2, che omettono spesso l’articolo
determinativo poiché l’articolo determinativo non c’è in russo. Un altro esempio è il momento invece nel
quale si aggiungono cose che appartengono alla propria L1 e che non dovrebbero esserci nella lingua che si
sta apprendendo. È il caso per esempio di quando si aggiunge l’articolo in inglese nonostante non debba
esserci, anche davanti agli aggettivi possessivi (“the mine”). In inglese, un altro esempio è dato dall’uso
eccessivo del pronome relativo, che in inglese può essere omesso ma che da italiani tendiamo a usarlo
sempre. Oppure il transfer si può manifestare attraverso un evitamento, cioè l’evitare di usare delle forme
perché esse non sono presenti nella propria L1 e quindi vengono evitate poiché non possono essere elaborate
dall’apprendente. Un altro caso è quello dell’uso eccessivo: si usa una forma presente nella propria L1 e
perciò viene usata in maniera eccessiva, sovraestendendola anche dove non dovrebbe essere usata (ritorna
l’esempio del “the”). Tale uso eccessivo non rappresenta una forma scorretta ma ridondante, che potrebbe
essere evitata. Altri esempi di transfer sono:

Il transfer però è limitato, nel senso che se l’ipotesi massimalista diceva che era dovunque, poi gli studi
hanno dimostrato che in realtà il fenomeno del transfer è circoscritto e che è limitato da una serie di
costrizioni, cioè che non è pervasivo, non può avvenire sempre e dovunque, ma che è appunto circoscritto.
Innanzitutto è circoscritto secondo il livello di analisi, vedete sotto, e qui la progressione del livello di
analisi in realtà si intreccia con un altro fattore che è il livello di competenza linguistica. I primi fenomeni
di transfer appaiono a livello fonetico (“evve” italofono con ingL2), poi ci sono a livello pragmatico,
(quando un parlante non nativo ricorre ad una strategia pragmatica nella convinzione che sia appropriata in
quel contesto perché nella propria cultura lo è “come sei ingrassata” per fare un complimento), a livello
lessicale, (anglofona di itaL2 “spenduto”) a livello sintattico (I take always the train o I them see) possono
avvenire fenomeni di transfer, a livello morfologico (ispanofono con ingL2 “too manys cars”) invece i
transfer sono molto rari, avere un transfer a livello morfologico vorrebbe dire che io trasferisco un morfema
della mia lingua materna in inglese, tedesco o in russo, non è una cosa che faccio, è una cosa un po’ più
strana che non faremmo e infatti i transfer a livello morfologico sono quelli che si trovano più a destra perché
sono quelli che avvengono molto raramente.
Rispetto al livello di competenza questi primi tre tipi di transfer (a livello fonologico, grammatico e lessicale)
sono quelli che compaiono ai primi stadi di apprendimento, mentre con l’avanzare dell’interlingua quindi io
risolvo spesso i transfer a livello fonologico, imparo a capire pian piano la pragmatica della lingua seconda o
della lingua straniera, a livello intermedio quelli che si vedono di più sono i transfer a livello sintattico,
perché a un livello intermedio finalmente c’è una sintassi un po’ più complessa (ci sono le subordinate,
relative, causali, oggettive..) ed è più facile che emergano i transfer di questo tipo.

(La marcatezza)
Cosa significa dire che un elemento è marcato? Un elemento è marcato sempre in relazione a un elemento
che non è marcato, questo vuol dire che la marcatezza non è un concetto assoluto, non è che c’è un qualcosa
di per sé marcato, per sua natura, è sempre un concetto relativo, cioè c’è sempre qualcosa che è marcato in
relazione a qualcos’altro che non è marcato. Quindi c’è sempre bisogno di una coppia di elementi per
definire quale dei due è marcato e quale no. Per esempio la marcatezza può essere legata a una maggiore
complessità in termini di lunghezza, cioè tra la parola professore in italiano e la parola professoressa il
termine più marcato è professoressa perché è il termine tra i due più lungo, che ha più foni o più grafemi
nella scritta.
La marcatezza può essere legata al concetto di complessità per esempio alla presenza di un tratto in più, vi
ricorderete forse la storia dei tratti nella fonetica e nella fonologia e per esempio in questa coppia minima
[p]/[b] (le coppie minime ricordate sono quegli elementi che differiscono solo per un fonema del tipo
canale/banale, qui però la coppia è diversa, il confronto è tra [p] e [b], l’elemento marcato tra i due è la [b]
perché presenta in più il tratto della sonorità, presenta un maggiore numero di tratti, a differenza della [p] che
è una consonante sorda, quindi gli altri tratti che sono gli stessi sono bilabiali, occlusive..
Un altro concetto a cui può essere legata la dimensione della marcatezza è la frequenza, per cui tra bambino
e fanciullo il termine più marcato è fanciullo perché è meno frequente, le cose di solito marcate diremmo in
termini superficiali sono i termini più strani, che hanno qualcosa di particolare rispetto a un elemento più
standard (solo per capirci ma non è la definizione corretta).
Un altro criterio è quello dell’estendibilità (alto – basso), qua ci sembra strano che basso sia più marcato di
alto, ma è più marcato perché è meno estendibile, significa che io posso dire Luigi è alto/Luigi è basso, però
se io devo chiedere “quanto sei alto?” uso alto, non dico quanto sei basso a meno che non ti sto prendendo in
giro; oppure dico Luigi è alto un metro e settanta, non dico Luigi è basso un metro e settanta, significa che
alto è più estendibile, nel senso che si può utilizzare in più contesti come quello della domanda o quello della
costruzione è alto un metro etc.. rispetto all’aggettivo basso diciamo che è meno estendibile, questa minore
estendibilità lo rende marcato nel confronto tra i due. Qual è la regola, in che senso la marcatezza incide sul
transfer? La regola diciamo più importante che dobbiamo capire è che gli elementi meno marcati (cioè
quelli meno strani) sono più trasferibili rispetto a quelli più marcati, cioè a livello lessicale è più facile
che io trasferisca la parola bambino, non so mettiamo che io non sappia come si dice in spagnolo e dico
“bambinos” (per dire un’assurdità) meno facile che io dica fanciullo, non lo trasferisco fanciullo. Poi c’è
un’ulteriore specifica che ci manda in crisi, e cioè specialmente se gli elementi della L2 sono marcati, e qua
ci sembra uno scioglilingua e non ci capiamo più niente. L’esempio che viene riportato nel libro è quello dei
pronomi clitici (sono quelli che appaiono in enunciati del tipo “Tu li vedi Maria e Pasquale? Sì, io li vedo”.

L’IPOTESI DI MARCATEZZA DIFFERENZIALE. 1977


Abbiamo capito che gli elementi meno marcati sono quelli che sono più facilmente sono trasferibili, sono
oggetto di transfer. Eckmann aggiunge un altro elemento in più: non solo gli elementi meno marcati in
generale sono più soggetti al transfer ma in quei casi in cui c’è una gradualità di marcatezza, cioè ci sono
diversi livelli di marcatezza, gli elementi meno marcati sono quelli più facilmente apprendibili e quindi
trasferibili. Lui dice “al grado di marcatezza degli elementi corrisponde anche il grado di difficoltà nel
loro apprendimento” e per farci capire questa cosa che dice a pag. 127 fa un esempio che riguarda le
opposizioni fonologiche, in particolare fa l’esempio dell’opposizione [k]/[g] in inglese e tedesco, e
dell’opposizione tra [ʃ] e [ʒ] in inglese e francese. L’esempio che viene fatto ci dice che rispetto
all’opposizione tra [k] e [g] questa opposizione è presente in inglese in posizione iniziale come coat/goat, è
presente in inglese in posizione mediana, cioè all’interno delle parole esistono delle coppie minime che
differiscono per questa opposizione all’interno della parola come backing/bagging, è presente in posizione
finale quindi sack/sag. Eckmann ci dice che ci sono diversi livelli di marcatezza, tutto ciò che è in posizione
iniziale in realtà è secondo lui meno marcato di ciò che si trova in posizione media ma mentre gli elementi
più marcati sono quelli che sono in posizione finale. Quindi la posizione iniziale è meno marcata in generale,
la posizione finale è più marcata e tutto ciò che è in posizione finale secondo Eckmann è più difficilmente
apprendibile, tutto ciò che sta alla fine (l’opposizione finale di parola o anche di un enunciato) si impara con
maggiore difficoltà. Detto questo, data questa gradualità di marcatezza (posizione iniziale meno marcata, in
mezzo, posizione finale più marcata) secondo Eckmann riprendendo l’esempio di prima per un tedesco sarà
molto più difficile imparare l’opposizione tra [k] e [g] in posizione finale di parola in inglese, quindi non
riuscirà con facilità un tedescofono a imparare questa opposizione alla fine della parola tra [k] e [g], a
riconoscerla e ad apprenderla piuttosto che per un inglese, un anglofono che deve imparare l’opposizione tra
[ʃ] e [ʒ] quindi lo stesso fenomeno (produzione fonologica non presente nella propria lingua materna) però
che è in posizione iniziale. In questo caso quindi c’è una difficoltà che però deriva dalla propria lingua
materna, perché il punto è che nelle proprie lingue materne non ci sono delle opposizioni fonologiche però la
capacità di superare questa difficoltà secondo Eckmann dipende dal grado di marcatezza dell’elemento, se
l’elemento si trova in posizione iniziale (in questo caso di parola) sarà molto più facile per un apprendente
anglofono superare questa difficoltà che viene dalla lingua materna e apprendere in opposizione fonologica a
inizio di parola, se invece l’elemento si trova alla fine e quindi per un apprendente tedescofono apprendere
un’opposizione tra [k] e [g] alla fine della parola sarà molto più difficile perché si trova in una posizione che
di per sé è più marcata. Questo sta dicendo, cioè: a diversi gradi di marcatezza corrisponde un diverso
grado di difficoltà di apprendimento.
Abbiamo detto che la marcatezza incide perché se un elemento è marcato nella lingua materna probabilmente
non sarà trasferito; un altro fattore che incide è la prototipicità: pensiamo al verbo rompere in italiano,
quante cose può significare?
Il primo significato letterale, naturalmente idiomatica per dire “rompere il silenzio” altro modo per usare il
verbo rompere, “rompere le acque”, etc..
È più facile che io trasferisca il significato di rompere letterale in una lingua seconda rispetto a quello
idiomatico, non prototipico. Mettiamo il caso che in inglese si dice “to break”, vi sembra una cosa realistica
se io dico “to break the waters”? Potrei anche farlo azzardandomi però non è un significato prototipico, non è
il primo transfer che avviene, più facile che avvenga un significato di tipo letterale, che riguarda il significato
prototipico di una parola e non i significati connotati o idiomatici; quindi in questo senso la prototipicità può
limitare il fenomeno del transfer.
Altre costrizioni/meccanismi che limitano il fenomeno del transfer, cioè fanno in modo che questo avvenga
in maniera più limitata riguardano la distanza tipologica tra le lingue, cioè le differenze tipologiche che ci
sono tra la lingua materna e la lingua seconda o la lingua straniera che si sta apprendendo, vi ricordate che si
fa una distinzione tra lingue flessive, agglutinanti e lingue isolanti, per cui se io so che sto apprendendo una
lingua isolante (la lingua cinese ad esempio) è difficile che io trasferisca dei morfemi o il meccanismo della
morfologia italiana che è una lingua flessiva alla lingua seconda perché io so che lì il meccanismo è diverso e
che la morfologia funziona in tutt’altro modo, quindi la distanza tipologica in qualche modo influisce sul
fenomeno del transfer; se invece sto imparando il francese è molto più probabile che avvengano dei fenomeni
di transfer anche sintattico, morfologico, nel senso di meccanismi di morfologia che io prendo dalla mia
lingua materna e li passo alla lingua seconda perché so che è una lingua flessiva anch’essa.
E poi i principi naturali dello sviluppo della l2: questo ha a che vedere con come funziona e come si
sviluppa in maniera naturale l’interlingua stessa. Emergono delle strategia isolanti (es. uso di una forma
basica non flessa IO PARLA), strategie agluttinanti (aggiunta di morfemi trasparenti CHIEDATA e non
chiesta) e strategie fusive (uso correttamente flesso della L2).
Altra cosa riguarda la coerenza stessa dell’interlingua, cioè la ricerca dell’apprendente stesso a delle
regolarità, per cui utilizzo per esempio delle forme regolari sovraestese, come per esempio lo stesso
“spenduto”, cose che avvengono anche in italiano L1 del tipo “aprito” o “bevere”, queste forme sono indici
di una ricerca di regolarità che fa parte proprio del processo di apprendimento, cioè nel mio processo di
apprendimento di L1 ma anche delle lingue seconde io ricerco una coerenza, non prevedo all’inizio delle
eccezioni, tutte le eccezioni mi sembrano molto strane e poco accettabili all’inizio; e questa ricerca di
regolarità può limitare i fenomeni di transfer, è quello che in realtà riguarda anche la marcatezza, cioè io non
dico “I them see” perché cerco una regolarità (in questo caso di carattere tipologico-sintattico, cioè una
struttura che sia sempre uguale, cioè S-V-O).

L’ambiente linguistico
L’ambiente linguistico più vicino a noi è quello della classe, ambiente in cui la formazione è guidata e quindi
si mettono in atto diversi scenari che corrispondono ad input ben precisi che provengono maggiormente dal
prof.
Sembrerebbe lecito a questo punto chiedersi quale strategia di apprendimento si possa ritenere la più efficace,
quella dell’immersione o quella dell’apprendimento guidato?
Non esiste una sola strategia giusta, essa va calibrata in base a innumerevoli fattori, ma è possibile dire che il
connubio delle due offre un’alternativa molto soddisfacente a tale problema
Lo sviluppo dell’interlingua beneficia di entrambi i modelli, l’immersione richiede un tipo molto
approfondito di apprendimento e avviene principalmente sul posto fornendo l’opportunità al parlante tramite
il dialogo di fissare bene vari tipi di concetti mentre invece l’apprendimento guidato fornisce spiegazioni
esaustive circa lo standard, la perfezione della forma, il sillabo e allontana l’apprendente dalla possibilità di
commettere errori derivanti magari proprio dagli input esterni quali slang e forme abbreviate (apprese
durante l’immersione)
Questi modelli di lingua possono essere raggruppati in tal modo:
-evidenza positiva-> interlocutori offrono un modello di quello che c'è da imparare
-evidenza negativa-> interlocutori indicano ciò che non va nella produzione del parlante
Questo può avvenire esplicitamente con la correzione degli errori o la spiegazione delle regole, oppure
implicitamente con la segnalazione di incomprensione, la richiesta o l'offerta di riformulazione, e così via.
L’ambiente linguistico viene a formarsi da vari tipi di input, principalmente ne individuiamo tre
Tali input sono:
-Input monologico /dialogico-> una lezione o un telegiornale, una evidenza positiva a cui il parlante si
rapporta passivamente, leggendo o ascoltando
-Input (non) modificato-> Teacher Talk, audio dei lettori, momenti in cui la conversazione viene modellata
sulle capacità dell’apprendente
-Input (non) interattivo-> momento dinamico, un’interazione in cui il parlante si fa partecipante attivo,
questi possono influenzare l’apprendimento e renderlo diverso?

Gass e Varonis
nel ’94 cercano di dare un tentativo di risposta tramite un’esperimento, gli apprendenti devono compiere
delle azioni seguendo le istruzioni dei parlanti nativi: spostare delle figurine su uno sfondo disegnato.
Quindi, l’attenzione selettiva è il meccanismo che viene innescato dall’interazione. Piuttosto che un
insegnante che dice monologicamente: “Attenzione, è questa la forma corretta”, un parlante nativo o un
insegnante che ci fa notare questa forma in un’interazione, questa rimane molto più impressa
Sulla base del progetto ZISA viene portato avanti un altro studio ossia quello di Pienemann e Johnston i
quali riescono a provare tramite esperimenti su 34 parlanti che l'interazione conversazionale favorisce lo
sviluppo della L2. Infatti solo i due gruppi che partecipano all'interazione progrediscono inequivocabilmente
in tutte e due le dimensioni del progresso cioè sia passando allo stadio successivo, si producendo abbondanti
strutture dello stadio superiore. I risultati confermano anche l'ipotesi secondaria, secondo cui la misura del
progresso dipende dalla natura dell'interazione e dal ruolo dell'apprendente.
Se guardiamo l’immagine possiamo procedere ponendoci una serie di domande che ci aiutano a comprendere
questo studio:
Qual è il contesto dell’interazione?
Loro stanno facendo un gioco, una specie di Task extralinguistico, sono giochi che si usano molto spesso per
registrare parlato di apprendenti o parlanti nativi. Qui c’è Jane, la parlante nativa, che deve dare delle
istruzioni all’apprendente sul posizionamento di oggetti su un disegno; lei dà istruzioni su dove sono dei
disegni. In questo caso lei doveva mettere lo scoiattolo sopra il sole in un disegno.
Che cosa accade?
Hiroshi non capisce la parola “squirrel”, per questo chiede spiegazioni. Jane pensa che non abbia capito la
parola “sun” ma lui chiede l’altra parola, ovvero scoiattolo. Jane chiede se Hiroshi sappia cosa sia uno
“squirrel” e lui dice di no. Jane tenta di spiegarglielo dicendo che li ha visti correre intorno al campus,  che
sono piccoli animali pelosi marroni e mangiano tante noccioline. E quindi fa una descrizione dell’animale
che permette all’apprendente di capire sul momento a che cosa si sta riferendo. Quindi, il parlante nativo
riformula in qualche modo spiegando che cos’è questo animale.
Cosa succede nella seconda fase?
Adesso c’è lo stesso gioco con i ruoli invertiti, cioè Hiroshi deve dare indicazioni alla parlante nativa.          
Dopo un tot di tempo intercorso tra la prima e la seconda fase, questo ripetere il gioco con i ruoli invertiti fa
in modo che si possa avere un’idea di quello che ha imparato l’apprendente nell’interazione precedente.
Second trial
Hiroshi: The second thing  will be … put here. This place  is… small animal which eat nuts.
Jane: Oh,  squirrel?
Hiroshi: Yeah(laughter).
Hiroshi non si ricorda ancora la parola esatta, però ha imparato a spiegarla, ci ha girato intorno, ha imparato
la riformulazione, questa è una strategia che viene usata da tutti quando non si ricorda una parola persino
nella lingua materna e poi nelle L2. L’interazione precedente ha favorito un processo di riformulazione
nell’apprendente, che sebbene non abbia acquisito la parola esatta, è stato in grado di essere
comunicativamente efficace, cioè di produrre un’istruzione completa usando una riformulazione
completa. E’ lo stesso materiale linguistico a cui era stato esposto nell’interazione precedente.                              
E’ questo che è importante nell’interazione, ed è questo il processo che favorisce veramente
l’apprendimento, il fatto che se si chiede qualcosa, di approfondirla, di riformularla, questa cosa viene
ricordata, perché questo favorisce il processo di attenzione selettiva, un’attenzione che seleziona le
informazioni che si devono percepire.                                                                                                                          
In questo caso l’attenzione non è stata posta non tanto sulla parola “squirrel”, che non è nemmeno facile da
decifrare, è una parola breve ma non si capisce bene quali fonemi la compongono o come si scrive.                        
Invece quello che si è capito bene è il fatto che questo animale mangia noccioline. “Nuts” è più facile da
capire anche per come si scrive e quindi può rimanere più facilmente in mente.

Altri studi rilevanti in questo campo sono:


Loschy (1994) occupandosi del giapponese sottolinea come l’input negoziato sia il migliore ai fini della
comprensione ma non garantisce un effettivo intake da parte dell’apprendente come “squirrel”. Ma anche
in Gass e Varonis, “squirrel” non è diventato intake, non è diventata una parola di cui Hiroshi ha padronanza
ma l’interazione ha favorito sicuramente il processo di comprensione.
Mackey (1999),
L’interazione conversazionale favorisce lo sviluppo della L2 e la misura del progresso dipende dalla
natura dell’interazione e dal ruolo dell’apprendente.
Se ho un ruolo realmente partecipe e se è un’interazione tra pari nella quale io mi percepisco come
pari, percepire una simmetria è molto meglio che sentire un’asimmetria e quindi una distanza con
l’interlocutore.
Più l’insegnante riesce a mettervi a proprio agio nell’interazione, meglio è. 
Più l’apprendente si sentirà a proprio agio, avrà abbassato il cosiddetto filtro affettivo, cioè non avrà il filtro
dell’ansia, dell’agitazione o dell’emozione e più sarà facile per lui o per lei interagire e quindi tutto ciò
indirettamente favorirà il processo di apprendimento linguistico.
Più l’insegnante è super severo, super arcigno, rimprovera per ogni cosa, più questo produrrà inevitabilmente
ansia, agitazione, emozione e delle volte un’ansia che addirittura diventa debilitante, che può bloccare nella
produzione orale.
Tutto quello detto finora riguardava ed i tipi di input ai quali si può essere esposti.
L’insegnamento all’interno di questo discorso ha un ruolo assai controverso perché sblocca si il parlante
rispetto alle difficoltà che incontrerebbe apprendendo la lingua solo in contesti informali ma esistono diversi
interrogativi circa l’insegnabilitá e l’effetto che i docentx hanno sugli apprendenti, difatti il feedback è
importantissimo.
Poiché l'insegnamento è identico per tutti, il diverso effetto dell'insegnamento deve dipendere dal diverso
stadio dell'interlingua degli apprendenti(esempio bambini tedeschi)
L’insegnante restituisce qualcosa all’alunno in vari modi, correggendolo prima o dopo l’orazione, avviando
dialoghi sugli errori o potenziare l’apprendimento tramite l’inserimento ad hoc degli stessi nelle
conversazioni future ma in linea di massima così come esistono diversi modi di insegnare un concetto base
esistono diversi modi per correggere un apprendente e spesso si preferisce assecondare le inclinazioni di
quest’ultimo piuttosto che imporre forzatamente la regola interrompendo la conversazione (esempio ragazza
B1in italiano che sbagliando dice “scrivere una multa” e non fare, cosa che la professoressa ha messo in
dubbio prima di correggere drasticamente l’apprendente)
C’è un saggio molto interessante di Marina Chini , una studiosa che ritroviamo spesso nel manuale perché è
italiana, venuta a mancare poco fa che è stata una dei pilastri della linguistica acquisizionale in Italia e fa una
bella riflessione proprio sui feedback negli insegnanti. In realtà ne propone tre, parla soprattutto di feedback
nelle produzioni orali:
- Recast (ripetizione della forma corretta) , quello meno analitico ed è un tipo di feedback che in qualche
modo fa molto affidamento sulla capacità dell’apprendente nel notare poi in maniera autonoma la forma
corretta. Per esempio si può accentuare la forma corretta con l’intonazione però si fa affidamento sulle
capacità dell’apprendente di notare e di apprendere la forma corretta.
 
- Prompt, consiste per esempio nel fare in modo che sia l’apprendente a riflettere sullo sbaglio che ha fatto
in maniera molto diretta. Per esempio c’è un apprendente che dice “Io di Italia”, il prompt consiste nel dire
qualcosa del tipo: “Io vengo? (intonazione) in modo che l’apprendente capisca che ha fatto un errore, rifletta
da solo su quello che ha detto e che cerchi di correggersi da solo, in questo caso cambiando la preposizione
- Feedback esplicito, il riflettere, la riflessione metalinguistica, “Hai usato questa forma ma non è
esattamente corretta, andiamo a vedere la forma corretta, che errore hai commesso?”, cioè la spiegazione di
carattere metalinguistico sull’errore.
Anche Marina Chini si chiede quale sia il feedback più corretto e la risposta che lei ci dà è che non esiste un
unico feedback corretto, naturalmente. Il modo di correggere e di inviare feedback da parte dell’insegnante
deve dipendere anche dalla sensibilità dei propri studenti, cioè da quello che si percepisce in quanto
insegnante essere il modo preferito di essere corretto o corretta. Questo non significa che si deve essere buoni
però se si percepisce un modo di correzione che dà fastidio, evidentemente non predispone questo modo
all’apprendimento linguistico, alla serenità in aula e per questo si evita. 
Però diciamo che la modalità di correzione e di feedback dipende dal tipo di errore che si commette e dal
livello di competenza dell’apprendente. Quindi, questa cosa ha molto a che vedere con la questione delle
sequenze di apprendimento linguistico.
Abbiamo visto quelle forme scorrette tipo “Io arrivato”, “Io ho arrivato” e ci siamo chiesti come correggerli;
stiamo parlando della stessa cosa. Non sempre vanno corretti tutti gli errori, o non sempre possiamo
correggere gli errori in maniera esplicita, quindi proponendo una riflessione metalinguistica, perché
l’apprendente è in grado di ragionarci ma non di comprendere quella forma. Non ne vale ancora la
pena rifletterci. 
Che cosa si vuole dire?
Se l’apprendente è ad un livello A1 di italiano ed usa una frase in cui in italiano standard ci sarebbe voluto il
congiuntivo o il condizionale, l’insegnante ad un livello A1 è inutile che gli spieghi che lì ci vuole il
congiuntivo, non ha nessuna efficacia, nessun senso perché l’apprendente non è ancora pronto ad imparare
quella forma verbale. Quindi, non ha davvero nessun senso mettersi lì a spiegare “Vorrei che siano” da dove
provenga, non è utile                                                                                                                                    
Molto più utile in quel caso è produrre un modello corretto ma non ci si deve aspettare che lui o lei la noti e
la sappia usare, che quell’input diventa intake ma produrre un modello corretto.
Altri casi in cui invece il livello di competenza è tale che ci dovrebbe essere un’attenzione ad una forma che
non c’è stata da parte dell’apprendente (in un A1 per esempio un accordo tra articolo e nome), allora in quel
caso se c’è un errore rispetto a questo fenomeno, vale la pena fermarsi, riflettere metalinguisticamente ed
andare a vedere che errore si è commesso, perché si è commesso e qual è la forma giusta.                    
Quando si commette un errore banale, una cosa che l’apprendente dovrebbe sapere, il prompt può essere utile
perché propone una riflessione metalinguistica che si sa di già aver fatto insieme all’apprendente.          
Quando si fa un errore di articolo-nome ad un B1, quindi ad un livello avanzato in cui questo concetto
dovrebbe essere già consolidato, il prompt può aiutare senza mettere di fronte alla regola di nuovo a
riprendere quel ragionamento in maniera autonoma e a produrre una forma corretta in maniera autonoma.  
La conclusione a cui arriva Marina Chini è che sbagliando si impara e che la correzione esplicita può essere
molto utile sicuramente quando si hanno gli strumenti ma la correzione ha senso solamente se riguarda la
vera competenza dell’apprendente in quel dato momento, se tiene conto del suo livello di competenza e degli
stadi a cui l’apprendente si trova rispetto ai diversi fenomeni. Non si prescinde mai dalle sequenze di
apprendimento.
L’ambiente linguistico – l’insegnamento 
Come accennato in un’a,tro momento della lezione, un’ altro macro-ambiente linguistico importante è
sicuramente quello dell’insegnamento.
L’insegnamento ha un ruolo controverso, anche negli studi è controverso a quanto serva l’insegnamento, a
quanto serva l’immersione, quanto è importante essere inseriti in un percorso guidato.
Che cosa accade nell’insegnamento? Perché può essere utile e importante?
Perché per insegnamento si intende:
- Focalizzazione sulla forma, a differenza di quello che accade fuori dove il focus è sull’efficacia
comunicativa e sulla trasmissione del messaggio
- Correzione degli errori, se fatta bene può essere sicuramente efficace
- Strutturazione del sillabo, il sillabo ha a che vedere con la gradualità degli elementi che io propongo
all’insegnante. Il sillabo può essere inteso come il programma del corso, gli argomenti che si toccano durante
il corso. In questo caso possono essere anche argomenti grammaticali o funzionali. Il punto è la gradualità, il
corso è fatto per proporre materiale e una complessità che pian piano aumenta sempre di più. Invece, fuori
dalla classe, tutta questa semplificazione e gradualità non c’è; siamo esposti a telegiornali, testualità,
segnaletiche, moduli, avvisi complicate. In una classe A1, quindi, ci si aspetta certi materiali con determinate
strutture semplici.
 Qual è l’insegnamento più efficace?
Molti si sono interrogati su questo, la risposta di Krashen(studioso che teorizza la differenza tra acquisizione
e apprendimento) è che l’insegnamento, l’apprendimento guidato non deve far altro che rispettare lo sviluppo
naturale dell’interlingua. Infatti, lui propone quello che chiama “The Natural Approach” nel 1983, un
approccio naturale dell’insegnamento che in qualche modo non faccia altro che favorire lo sviluppo
spontaneo dell’interlingua e quindi una fase di ascolto, l’immersione delle prime formule basiche ecc.
Più in classe si cerca di favorire questo sviluppo spontaneo senza intervenire, tanto più l’insegnamento è
efficace.
Questa visione di Krashen, che ormai è vecchiotta, è stata rivalutata perché adesso si parla di approccio
umanistico-affettivo, di approccio funzionalista però questo era uno dei primi approcci dopo l’interlingua. 
 Anche qui il manuale propone una carrellata di studi, sempre uno dopo l’altro.
Alcuni studi:
- Pica 1983, in cui si dice che l’effetto che ha l’insegnamento dipende anche dagli elementi insegnati,
facendo riferimento a due morfemi dell’inglese: “-s” vs “-ing”.                                                                           
C’è una differenza: perché la forma in “-ing” è molto più evidente anche nell’input, nell’evidenza positiva,
nel processo di immersione e viene appresa molto più facilmente; mentre l’apprendimento guidato può
essere molto più utile per delle forme che sono meno salienti percettivamente, cioè che si notano
meno nell’input come può essere il “piccolo” morfema “-s” del plurale in inglese. Nel caso del morfema “-s”
l’insegnamento è sicuramente efficace, cioè produce un apprendimento reale.                                                          
In altri casi, come nella forma in “-ing”, non serve perché è una forma così saliente anche nell’input al quale
è esposto l’apprendente che l’apprendente la conosce già, non ha bisogno dell’apprendimento guidato o
comunque non è così efficace.                                                                                   
 
- Pavesi 1984, lavora sulla relativa in inglese. Lui paragona studenti, quindi, persone che apprendono la
lingua inglese in un contesto formale, con i lavoratori.                                                                                        
I lavoratori progrediscono meno nell’apprendimento della relativa, la sanno utilizzare ma gli studenti che
hanno un percorso di formazione focalizzato sulle forme riescono a raggiungere dei maggiori gradi
di complessità delle proposizioni relative, con un uso più vario dei diversi pronomi. (whose, whom)                      
E’ anche più facile che nell’acquisizione spontanea nei lavoratori si raggiunga una fase di blocco, di
fossilizzazione rispetto a questa struttura delle relative mentre l’apprendimento guidato, secondo lo studio di
Pavesi, riesce a sbloccare questa fossilizzazione.                                                                                
Se si è arrivati ad un punto morto dell’interlingua in cui non si progredisce più, l’apprendimento guidato,
cioè la presenza di una guida che ti fa riflettere sulle forme e che aiuta, può sbloccare la fossilizzazione.                
- Trashey & White 1993, esplicitazione della regola ed evidenza negativa che sarebbe il feedback correttivo,
quindi dire quali sono gli errori.                                                                                                                  
Altro studio sulla posizione dell’avverbio in inglese L2, e pone l’attenzione sulla questione del noticing.
Il noticing è quel fenomeno per cui l’insegnante è in grado di farti notare degli aspetti formali della lingua
che in un contesto di immersione, di esposizione naturale della lingua non si noterebbero. Una di queste è
sicuramente la posizione dell’avverbio, l’insegnante può far notare la posizione, mentre fuori dall’aula si è
più concentrati nel capire il significato dell’avverbio piuttosto che nel posizionarlo correttamente. 
L’istruzione non altera la sequenza di sviluppo naturale ma differenze nell’esito finale e nel tipo di errori

IPOTESI DELL’INSEGNABI di Pienemann


Bambini italiani con competenze diverse che imparano una struttura del tedesco.
E’ un’ipotesi di Pienemann (1984-1986) che parte dai dati del progetto Zisa (Acquisizione della sintassi
tedesca da parte di immigrati lavoratori italiani e spagnoli) e costruisce un esperimento.
Prende due classi di bambini italofoni in Germania che stanno imparando la lingua tedesca e queste due
classi sono a due stadi diversi di quella sequenza implicazionale, della sequenza di acquisizione del tedesco.
Una di queste classi è al primo stadio dell’ordine canonico SVO e un’altra è al terzo stadio (separazione). In
questo impianto sperimentale dello studio propone a entrambe le classi la struttura dell’inversione, un
elemento sintattico che appare al quarto stadio.
Nel momento in cui dovevano produrre un output, solo i bambini della classe del terzo stadio effettivamente
producevano delle forme con inversione tra soggetto verbo.
Che significa?
Benché i bambini del primo stadio avessero compreso il meccanismo di questa struttura, perché era una
questione di logica e non di interlingua, però lo stadio a cui si trovavano non aveva permesso loro di
trasformare quell’input in intake, di interiorizzare questa struttura al punto tale da proporla nell’output.
L’insegnamento è efficace solo se l’interlingua è allo stadio immediatamente precedente a quello in cui
la struttura insegnata è appresa naturalmente.
Se io devo imparare una struttura del quarto stadio, la posso imparare solo se la mia interlingua è al terzo
stadio, se sono naturalmente pronta per questo stadio.
Le variabilità individuali
In una classe, in un gruppo, ciascuno/a apprendente ha il proprio percorso, all'interno del quale c'è una
dimensione universale che è quella relativa agli stadi di acquisizione e apprendimento e poi c'è una
dimensione variabile, all'interno della quale ci sono tutti i fattori che la determinano.
Le caratteristiche individuali comprendono:
ETA’
è tra le caratteristiche più studiate ed esplorate su cui c'è più letteratura, per una motivazione più semplice,
l'età è facilmente misurabile. Domande frequenti sono; << a che età hai iniziato a studiare inglese?>>,
dunque si fa riferimento a dei dati scientifici dai quali poi formulare delle medie o comparazioni.
Molte opinioni affermano che i bambini imparano meglio le lingue seconde; quindi, che se il processo di
apprendimento inizia a quello stadio della crescita è più efficace.
La risposta a ciò è che in molti casi è vero, però non è una generalizzazione così semplice, ma si deve andare
a capire cosa differenzia un bambino apprendente da uno adulto.
Per capire ciò ci sono due ordini di spiegazione:
● Biologica organica
● Socio-esperienziale
SPIEGAZIONE BIOLOGICO-ORGANICA
Una teoria molto importante che spiega come avvenga questo tipo di apprendimento linguistico è: LA
TEORIA DELLA LATERALIZZAZIONE, proposta e teorizzata da Lenneberg (biologo) nel 1967.
Secondo questa teoria nel nostro cervello nell'età dello sviluppo avviene questo processo di lateralizzazione,
che consiste nella sistematizzazione delle diverse funzioni cerebrali in diverse aree del cervello. Quindi
ciascuna funzione cognitiva prende il suo posto nel cervello. Si tratta proprio di uno studio neurolinguistico
concreto che, nella maggior parte dei casi, avviene con l'utilizzo di elettrodi che aiutano a capire quali zone
del cervello si attivano da un punto di vista neuronale, nel momento in cui si compiono varie tasks o quando
si è esposti a determinati stimoli linguistici e non (paura,ansia,risata ecc.)
Perché il processo della lateralizzazione è importante da un punto di vista linguistico?
Perché secondo Lenneberg, prima che avvenga questa localizzazione delle diverse funzioni, il cervello
possiede più flessibilità e dunque l'apprendimento in generale e l'apprendimento linguistico in particolare è
più SEMPLICE. Mentre, nel momento in cui il cervello diventa più statico a livello di sistemazione delle
funzioni, l'apprendimento non è che è impossibile, ma si complica.
Con l'avanzare degli studi si è capito che non esiste un unico periodo critico dopo il quale l'apprendimento
diventa complicato, ma è più giusto parlare in realtà di diversi periodi critici che riguardano le varie abilità
linguistiche.

PERIODI CRITICI MULTIPLI


1)Prescolarizzazione: riguarda la fonetica e fonologia, molto precoce, poiché se esposti già da piccoli ad una
lingua straniera, i bambini riescono con più facilità ad acquisire una pronuncia simile a quella nativa.
Anche questo periodo critico ha una ragione fisiologica, cioè che da bambini il nostro apparato fonatorio,
quindi, i muscoli del nostro apparato fonatorio sono ancora in fase di formazione e dunque flessibili da
assumere posizioni strane o diverse da quelle che assumono nella pronuncia dei suoni della nostra lingua
materna, anche con l'ausilio dell'input proposto dall'insegnante che potrebbe aiutare a produrre quel
determinato suono. Di fatto, da adulti i muscoli del nostro apparato fonatorio sono abituati a determinati
movimenti rispetto ad altri ed è più difficile abituarlo a nuovi suoni.
Ed è proprio per questo motivo che è importante esporre i bambini a tutte le varietà delle lingue straniere da
piccoli per permettere anche di essere sensibili alle differenze.
2) Adulti: riguarda la grammatica di una lingua. Gli apprendenti adulti imparano più facilmente tutto ciò che
riguarda l'aspetto morfosintattico di una lingua, perché gli adulti sono già cognitivamente più maturi, ma
soprattutto se gli adulti sono scolarizzati hanno già riflettuto sulla propria lingua materna da un punto di vista
grammaticale e formale, e hanno già fatto propri tutte le categorie della metalinguistica (nome, verbo,genere
ecc.)
3) Vecchiaia: riguarda l'apprendimento della pragmatica, quale non smette mai di imparare, anche se molto
spesso nell'anzianità il pensiero logico si perde facilmente.
Fatta questa analisi riproponiamo le domande fatte precedentemente:
È vero che i bambini imparano più facilmente L2? Sì e No
È vero che i bambini possono essere avvantaggiati per tutto ciò che riguarda la fonetica, la fonologia e la
prosodia? Sì, perché hanno una maggiore flessibilità dei muscoli fonatori, ma non sono per forza
avvantaggiati per tutto quello che riguarda gli aspetti formali della lingua ossia quelli più logici.
SPIEGAZIONE SOCIO-ESPERIENZIALE
I bambini hanno tanto tempo a disposizione rispetto agli adulti nell'apprendimento delle lingue, soprattutto in
un contesto di IMMERSIONE, che fa da funzione integrativa all'apprendimento linguistico. I bambini non
hanno le sovrastrutture che noi adulti abbiamo già consolidate, hanno una maggiore apertura verso l'incontro
di nuove lingue e culture e hanno anche meno ansia, preoccupazione nel produrre un enunciato.
Tutto questo favorisce, quindi, un apprendimento più sereno.

LA MOTIVAZIONE
MODELLO TRIPOLARE(Krashen)*assente nel manuale*
È un modello molto efficace.
Secondo K. ci possono essere tre possibili impulsi all'apprendimento linguistico, cioè una lingua la si può
imparare essendo guidati da tre possibili impulsi:
● IL PIACERE--> più efficace.Se l'apprendente è guidato da un piacere nell'apprendimento stesso,
quindi gli fa piacere parlare una tale lingua, studiarla, impararla, quella motivazione sarà duratura.
● IL BISOGNO--> efficace. Importante quando l'apprendente ha necessità di imparare una lingua è
motivato/a, ma ha una durata minore, ad un certo punto sfuma.
● IL DOVERE--> meno efficace: però nel momento in cui non ho piacere e neanche la necessità di
riprendere quella lingua, l'apprendimento linguistico non progredirà.

Il manuale, invece, presenta una classificazione diversa dei tipi di motivazione possibili.
MOTIVAZIONI DI CARATTERE CULTURALE
legate alla motivazione di PIACERE di Krashen.
All'interno delle motivazioni culturali rientrano quelle di natura:
● INTEGRATIVA--> volontà di imparare una lingua per far parte di una comunità
● INTRINSECA-->insita nel processo di apprendimento, imparo una lingua perché ho il piacere di
apprendere in generale, parlarla, impararla. Mi piace essere in quel determinato contesto.
MOTIVAZIONI DI CARATTERE STRUMENTALE
la lingua è uno strumento per raggiungere un determinato obiettivo
All'interno di questa macrocategoria ci sono le motivazioni:
● GENERALI--> imparo una lingua perché è quella del futuro, per lavoro
● PARTICOLARI--> imparo una lingua per avere il permesso di soggiorno, cittadinanza
● RISULTATIVA--> raggiungere risultati soddisfacenti
● BASTONE E DELLA CAROTA--> l'apprendente è guidato o da premi, delle ricompense come
per esempio i voti agli esami o la soddisfazione personale, ma dalla paura di essere rimproverato.
La motivazione, per tutti questi motivi, è un qualcosa di davvero problematico da studiare. Lo studio
scientifico e oggettivo di questa variabile dell’apprendimento è davvero complicato.
Problemi della motivazione:
● misurazione: come si misura il livello di motivazione? Come si fa a stabilire qual è il tuo grado di
motivazione? È qualcosa di non misurabile; non è possibile fare una scala di misurazione o fare una
comparazione tra due persone e dire quale delle due sia più motivata, perché in base a cosa si possono
formulare questi giudizi?
● distinzione di vari tipi: un altro problema è che i diversi tipi di motivazione non sono in
opposizione e non si escludono tra loro, ma di solito sono intrecciati, vanno insieme. Una motivazione può
essere sia culturale sia strumentale-particolare, sia culturale che strumentale-generale, sia culturale che
risultativa;
● interazione con altri fattori (atteggiamenti) e contesto sociale: le motivazioni si intrecciano e
interagiscono con altri fattori personali che sono l’atteggiamento (di apertura o di chiusura), la propria
personalità e anche con il contesto sociale, perché un’altra motivazione che non viene menzionata – ma che
può essere molto forte e riguarda il contesto sociale – può essere quella della moda. Ci sono alcune lingue
che in certi periodi storici possono andare più di moda rispetto ad altre, come il coreano grazie al genere
musicale del k-pop (una fetta degli apprendenti di coreano scelgono questa lingua per questo motivo). Anche
i manga, con la loro recente e massiccia diffusione nella nostra cultura, possono aver portato una serie di
apprendenti a scegliere la lingua giapponese, e così via. Vi è quindi un condizionamento che può venire
dall’esterno dalle mode relative agli usi linguistici.
Ad esempio quali sono le lingue che adesso vanno di moda? Gli studenti suggeriscono: spagnolo, coreano,
cinese, russo o il turco (soprattutto grazie alla diffusione delle soap opera in lingua turca).

ATTITUDINE
Predisposizione verso l’applicazione delle abilità messe in gioco nell’apprendimento delle lingue. Ha a
che vedere con tutti quei casi in cui diciamo che una persona sia portata per le lingue. A volte, già da bambini
si individua una certa predisposizione, ci sono infatti persone che notiamo essere indubbiamente più portate
di altre.
In realtà, si parla di una predisposizione non verso le lingue in generale, ma verso l’applicazione delle abilità
messe in atto, messe in gioco, nell’apprendimento delle lingue. In realtà, non è neanche corretto parlare di
una sola attitudine, ma è meglio parlare di più attitudini specializzate.
È più corretto parlare di più attitudini specializzate perché si può essere più portati, ad esempio, verso le
abilità orali (oralità in generale, ad esempio riproduzione fonetica e morfologica delle lingue, predisposizione
verso la comunicazione orale) oppure verso la comprensione di testi scritti, la logica o la manipolazione delle
forme. Quindi possono essere di natura diversa e giocare su piani diversi [la professoressa riporta l’esempio
del marito che, probabilmente essendo un musicista, ha un’attitudine innata verso i suoni e riesce a far finta
di parlare inglese, francese o arabo nonostante non abbia una conoscenza effettiva delle lingue]. Infatti,
Skehan afferma che la predisposizione è sia qualcosa di innato (naturale, dentro di noi da sempre), ma ha
anche un altro aspetto relativo al contesto socioculturale in cui si cresce (per esempio relativo al livello di
istruzione dei genitori). Ciò significa che se si possiede una predisposizione innata verso l’apprendimento
delle lingue, ma si vive in un contesto in cui tale predisposizione non è valorizzata, magari perché le persone
che ci circondano non hanno a disposizione gli strumenti adeguati per notarla, questa non potrà emergere. In
altri casi, invece, c’è una piccola predisposizione ma si è superstimolati dai genitori, dagli insegnanti,
dall’ambiente circostante e, nel tempo, questa predisposizione non fa altro che svilupparsi e rafforzarsi.
Quindi c’è sia un aspetto innato che acquisito; non una sola attitudine, ma più attitudini specializzate.
L’attitudine, come la motivazione, pone un problema di misurazione: come si fa a misurare la
predisposizione innata? Si verifica un paradosso: si misura l’attitudine linguistica con dei test che sono uguali
a quelli utilizzati per misurare la competenza (abilità di comprensione, manipolazione, divisione morfemi,
strutture sintattiche). Il problema quindi sta nella mancanza di uno strumento unico e affidabile per la
misurazione di questa variabile, che sfugge alla misurazione oggettiva e scientifica, perché ciascuno di noi
può avere delle idee sugli studenti, però, quando si affronta la misurazione scientifica, bisogna avere dei dati
misurabili, contestabili che servono per le statistiche.

STILE COGNITIVO
Modo preferito di elaborare l’informazione e di risolvere un problema. Questo ha a che vedere con il modo in
cui pensiamo, il nostro modo preferito di pensare in cui elaboriamo l’informazione. Perché preferito? Non
c’è un unico modo in cui pensiamo, ma abbiamo sicuramente un modo che utilizziamo più frequentemente e
in cui ci sentiamo più a nostro agio. Vi sono modi diversi di imparare, di ragionare sui dati, sulla realtà, non
solo sulle informazioni linguistiche, ma anche su quelle generali che ci vengono proposte. A questi modi
diversi, si pensa corrispondano anche modi diversi di osservare la realtà stessa: si propongono delle coppie di
modelli diversi e opposti tra di loro che rappresentano però un continuum. Ciascuno di noi si pone verso un
modello o verso l’altro, senza che questo comporti un giudizio di valore delle nostre abilità. Non c’è un
modo migliore di elaborare un’informazione, esistono diversi modi e ognuno ha il proprio “preferito”.
Ciascuno di noi può riconoscere o meno il proprio “preferito”.
Uno dei continuum che viene proposto è lo stile cognitivo dipendente dal campo e lo stile cognitivo
indipendente dal campo, differenza che viene proposta spesso. Nel primo stile, si possiede l’abilità di avere
il pieno controllo sulla globalità dell’informazione, sul campo e sul contesto in cui sta avvenendo il processo
di elaborazione dei dati. Nel secondo, si riesce a focalizzarsi su piccole porzioni di informazioni e a
procedere passo dopo passo, anche perdendo di vista il contesto e la totalità dei dati. Lo stile dipendente dal
campo è uno stile cognitivo di carattere più globale in cui si ha un’idea di quale sia il contesto in cui si
muove e del progetto globale della propria azione di osservazione. Invece, con lo stile indipendente dal
campo si può procedere a piccoli passi e concentrarsi sui particolari.
Nello scrivere una tesina ci sono due possibilità: una è pensare prima a tutta la tesina, farsi un’idea di come
sarà globalmente, nella sua totalità. Si fa un progetto del tutto dall’inizio alla fine: qual è l’inizio del
percorso, qual è l’obiettivo finale, quali risultati si vogliono raggiungere. C’è chi ha bisogno di questa visione
globale. Invece, nello stile indipendente dal campo, si riesce a lavorare sul primo capitolo senza avere il
quadro di quale sia la globalità del progetto, senza conoscerne il senso completo. Lo stile indipendente dal
campo è quello di coloro che riescono a lavorare sui pezzetti, sui particolari, però, talvolta, vi è il rischio di
perdere di vista il progetto totale.
Nel nostro manuale c’è scritto che non si vuole dare dei giudizi sui differenti stili, però, al contempo, sono
stati fatti degli studi di carattere discutibile: «ideologicamente, sebbene tutti dicano che non c’è un giudizio
di valore associato con uno stile anziché l’altro, è evidente che nel mondo occidentale essere indipendenti dal
campo è più prestigioso che esserne dipendenti» (pag. 156).
Addirittura, alcuni studi hanno associato diversi stili a diverse categorie di persone: lo stile dipendente dal
campo è comune ai bambini, alle donne, ai lavori orientati sulle persone, alle società rurali e agrarie, alle
strutture sociali rigide e alle persone centrate sul gruppo. L’indipendenza dal campo è associata, invece,
agli uomini, alle società urbane-tecnologiche, alle strutture sociali libere, ai lavori orientati sugli oggetti e alle
persone individualiste [si tratta di una categorizzazione che la professoressa non condivide].
Per comprendere se si è dipendenti dal campo, si usano una serie di strumenti per capire come si elaborano le
informazioni, come questa tipologia di immagini, si intitola My wife and my mother-in-law, di William Ely
Hill. Si possono vedere sia la moglie che la suocera. La suocera, a differenza della moglie, è proprio di
profilo ed è più grande.
Oltre alla questione della dipendenza dal campo e dell’indipendenza dal campo (l’unica opposizione che
viene proposta dal nostro manuale, perché è quella più studiata), in realtà vi sono altri tipi di dicotomie che
vengono proposte dagli studiosi di studi cognitivi. Queste vengono da uno studio sui bisogni educativi
speciali, quindi sui disturbi dell’apprendimento. Chi si occupa di disturbi dell’apprendimento indaga –
osservandole più da vicino e in modo da riuscire a comprenderle – le diverse strategie cognitive usate da
persone con maggiori difficoltà, in modo da sfruttarle, valorizzarle e tenerne conto quanto meglio.
Per esempio, viene proposta la differenza tra uno stile cognitivo globale e analitico, quindi avere un campo
d’insieme o singoli particolari [secondo la professoressa, questa differenza appare molto simile a quella che
oppone la dipendenza e l’indipendenza dal campo].
Nello stile sistematico si tende a fare tutto in maniera molto organizzata (utilizzando per esempio liste, ecc.)
e in quello intuitivo si valuta per ipotesi.
Nello stile verbale, l’elaborazione delle informazioni procede attraverso riassunti e associazioni verbali,
mentre in quello visuale si procede soprattutto per schemi, rappresentazioni grafiche e rappresentazioni
molto sintetiche.
Lo stile impulsivo o riflessivo è una caratteristica non solo molto personale, ma anche dell’elaborazione dei
dati, quindi vi può essere un’elaborazione veloce o più ponderata.
Vi sono anche altre dicotomie. Lo stile dipendente dal campo rimanda a una percezione fortemente
influenzata da come è organizzato il campo, cioè il contesto, mentre quello indipendente è poco influenzato
dal contesto e maggiormente autonomo. Però, in altri casi, sono stati definiti anche come globale e analitico.
Lo stile convergente procede secondo la logica e sulla base delle informazioni che si possiedono, mentre lo
stile divergente procede autonomamente e creativamente con la possibilità di generare quindi diverse
risposte. Lo stile convergente è cioè quello che procede su delle informazioni già date. Per esempio, nella
scrittura di un articolo o di una tesina di laurea, vi può essere chi predilige avere uno stile convergente e
dunque riassumere cose dette da altri e chi, invece, ha uno stile maggiormente divergente e ha più voglia di
trarre le proprie conclusioni, fare delle cose originali, scrivere qualcosa di suo e quindi essere più creativo.
Naturalmente nessuno di questi stili è migliore dell’altro, quindi non c’è un giudizio di valore, però è
importante tenerne conto. È importante che ciascuno di noi rifletta su quali sono i propri stili cognitivi, cioè
su cosa funziona di più per ciascuno di noi. Questo è importante anche nel processo di apprendimento delle
abilità di studio, attraverso cui riusciamo a comprendere in che modo studiamo meglio. Tra l’altro, è utile
non sono agli apprendenti, ma anche ai docenti, che possono valorizzare tutti gli stili cognitivi presenti in
aula.

Personalità e fattori affettivi


La personalità di ciascuno di noi è naturalmente diversa ed è un insieme composito di fattori: la stima che
ciascuno di noi ha di se stesso, la capacità di entrare in empatia con un’altra persona, il livello di inibizione
che ci imponiamo/ci è imposto nel nostro percorso di formazione e quindi quanto siamo inibiti o disinibiti,
quanto siamo estroversi o introversi o ancora il nostro livello di sensibilità nei rapporti con l’altro. Tutti
questi fattori e tanti altri fanno parte della nostra personalità. Ora, diversi studi hanno cercato di individuare
degli aspetti della personalità che potessero essere senza dubbio connessi a un migliore apprendimento
linguistico. Si è provato a cercare questi fattori. Chi è l’apprendente ideale, com’è fatto, che
personalità/carattere ha? E poi man mano ci si è resi conto che non è possibile individuare in maniera così
netta, oggettiva e scientifica dei tratti della personalità che corrispondono a un migliore apprendimento. Ci
possono essere, piuttosto, dei tratti della personalità che fanno in modo che la persona/l’individuo sia più
esposto a un input in lingua straniera, quindi che conversi di più, che abbia più possibilità di contatto con la
lingua straniera (per es. l’estroversione è uno di questi tratti) e che quindi questo possa favorire
indirettamente un processo di apprendimento linguistico. Le persone estroverse sono quelle che ci giriamo un
attimo e stanno già parlando con chiunque sia loro intorno. Le persone estroverse sono quelle che
semplicemente hanno più possibilità di entrare in contatto con l’input, ma non è detto che poi questo contatto
si traduca in apprendimento linguistico e quindi che l’input diventi intake e poi output. Però, quantomeno,
una persona estroversa ha più possibilità. Per quanto riguarda le persone più introverse e silenziose, si è
notato che sono più attente: di solito sono le persone che ascoltano di più e con una capacità di concentrarsi
maggiore, di prestare più attenzione nell’elaborazione scritta (quindi sia nella comprensione che nella
produzione scritta). E quindi è più, in realtà, corretto parlare di tratti della personalità che possono favorire o
sfavorire lo sviluppo di determinate abilità linguistiche – quindi anche in questo caso come nell’attitudine.
Quindi si prendono in considerazione determinate abilità linguistiche e i tratti della personalità possono
essere correlati a delle migliori abilità linguistiche, solo ad alcune.
La cosa importante è che tutti questi tratti della personalità agiscono da filtro, cioè fanno in modo che passi
(e quindi che arrivi all’apprendente) una maggiore o una minore quantità di input. In letteratura si parla
proprio di filtro affettivo, che è appunto una barriera che, se alzata, non permette il passaggio di
informazioni: quando si è arrabbiati, chiusi o in collera oppure si ha una scarsa stima della persona che ci sta
parlando e non si ha voglia di entrarci in relazione, il proprio filtro affettivo si alza (in qualunque lingua,
quindi non solo per le lingue straniere o seconde) e la comunicazione sicuramente non sarà efficace e non
avrà successo. Quando si avvicina per esempio qualcuno per strada che ci sembra poco raccomandabile, la
paura, lo spavento, l’ansia e una considerazione di solito non troppo positiva (più o meno giustificata) della
persona che si sta avvicinando fanno in modo che si alzi il filtro affettivo, tanto che non sentiamo quasi ciò
che ci viene detto dalla persona. È quello che avviene anche nell’apprendimento linguistico: in un clima poco
rilassato, accogliente e sereno (es. in classe), in cui appena parli il/la docente ti rimprovera perché hai
sbagliato a parlare, quindi c’è un clima proprio di tensione che sicuramente non favorisce l’abbassamento(<-
così si dice) del filtro affettivo e quindi il passaggio sereno e senza disturbo di informazioni linguistiche e di
certo non favorisce l’apprendimento. Quindi, tutti i fattori della personalità, così come i fattori contestuali
che riguardano le sensazioni di chi sta interagendo in quel momento, posso creare più o meno un filtro al
passaggio di informazioni e quindi all’apprendimento.
Uno dei filtri più sentiti, anche in questo momento storico (è nominata spessissimo anche in sede d’esame), è
l’ansia. È un problema e una difficoltà fortemente sentita in generale. L’ansia nell’apprendimento linguistico
si chiama proprio ansia linguistica ed è un’ansia particolare perché riguarda l’ansietà che si percepisce nel
momento in cui bisogna produrre qualcosa in una lingua seconda o straniera, quindi fare una vera e propria
performance. Di solito si ha più ansia nelle performance orali che in quelle scritte. L’ansia linguistica è stata
molto studiata in letteratura, soprattutto da Alpert & Harber. È stato studiato che non tutta l’ansia è
negativa, cioè che c’è un livello di ansia basso/lieve che in realtà ha un effetto positivo sull’apprendimento
linguistico: si tratta della cosiddetta ansia facilitante, che produce un livello di attenzione positivo che
permette di stare attenti alla produzione nell’oralità e nella scrittura e a non commettere errori o leggerezze,
insomma fa stare in guardia. Inoltre fa stare attenti a quello che sta dicendo l’altro, a essere predisposti
all’ascolto. E poi c’è un’ansia che invece è assolutamente un’influenza negativa sul nostro apprendimento
linguistico e sulle nostre produzioni in lingua seconda che è l’ansia debilitante, quella che provoca proprio il
blocco nelle produzioni orali o anche nella scrittura per es. davanti a un compito.
Il livello di ansia può variare a seconda del contesto in cui si interagisce. Gli esami rientrano in un contesto
formale, in cui è normale avere almeno un minimo livello di ansia. Anche nel contesto colloquiale ci può
essere l’ansia, ad es. se si viene fermati da una persona per strada che vuole un’indicazione in inglese c’è chi
subito riesce a rispondere e chi si blocca. L’ansia può incidere in maniera diversa sulla performance in lingua
straniera o in lingua seconda a seconda del contesto. C’è chi a causa dell’ansia, quella facilitante, è più
attento alla forma e alla produzione in un contesto formale es. un esame e poi quando deve parlare con un
amico magari non ha nessun tipo di ansia, sta più tranquillo però poi parla peggio/male; c’è anche l’esatto
contrario, cioè chi invece nei contesti formali sta più agitato e quindi parla peggio di come potrebbe e non gli
vengono le parole e le forme, percepisce lui stesso che sta sbagliando delle cose che magari conosce e poi
invece nel contesto informale, quando sta più rilassato, parla benissimo. Ci sono proprio questi due tipi di
personalità. L’ansia può favorire o sfavorire l’attenzione alla forma e ai contenuti - contenuti intesi proprio
come le parole, quello che vogliamo dire, infatti a volte l’ansia fa in modo che non riusciamo a dire delle
cose che dovremmo dire, non ci vengono le parole, non riusciamo a formulare un nostro pensiero.

INTELLIGENZA
Un altro dei fattori personali, un’altra delle caratteristiche individuali che viene studiata e presa in
considerazione è l’intelligenza. Viene definita come un fattore generale che determina il livello del
funzionamento in tutto il dominio cognitivo (quindi che non riguarda solo la lingua) e influisce positivamente
nello studio formale della lingua (cioè un alto livello d’intelligenza ben sviluppata ha una ricaduta positiva
sulla logica, sui meccanismi e sulle forme della lingua) mentre non ha nessun tipo di influenza/conseguenza
un alto livello d’intelligenza sull’apprendimento spontaneo. Dunque nell’apprendimento spontaneo non è
importante quanto le capacità logiche siano sviluppate. Quindi per “intelligenza” ci si riferisce non alla
capacità di formulare delle opinioni che siano più o meno condivisibili, ma proprio all’intelligenza logica,
alla logica, quella che viene testata per es. nei test di ammissione di molte facoltà.
Quindi anche sull’intelligenza ci sono diversi studi che però arrivano alla conclusione che poi effettivamente
l’intelligenza logica non è un parametro importante o fondamentale nell’apprendimento linguistico.

Strategie di apprendimento
Studiare le strategie di apprendimento vuol dire studiare in che modo si apprende, cioè come gli apprendenti
formulano delle ipotesi sui dati che ricevono per favorire lo sviluppo della propria interlingua. Es. si ricevono
dei dati dal manuale, da chi ci parla in lingua straniera o in l. seconda, da un’insegna, insomma da tutti i tipi
di input al quale si è esposti. Come si fa da questi dati ad apprendere realmente? Innanzitutto bisogna porre
attenzione all’input che ci arriva e poi si dovrà elaborarlo in qualche modo. Quell’elaborazione fa in modo
che l’apprendente favorisca il proprio processo di apprendimento. Molti studi hanno appunto cercato
d’individuare diverse strategie che sono nelle nostre teste e perciò sono difficili da individuare… perché
come si fa a vedere come funzionano le nostre menti? Possiamo cercare di lavorare sul nostro riscontro
linguistico e di quello che facciamo, cioè cercando di spiegare che cosa faccio io nel momento in cui mi
arriva un input in lingua straniera, come lo elaboro… quindi gli studi lavorano soprattutto su questo: sul
cercare di tirare fuori verbalmente/a parole ciò che avviene nella mente dell’apprendente. Però è una cosa
complicata: non è tutto verbalizzabile, non è tutto così dichiarabile da parte di un apprendente. Ci sono certe
cose che avvengono inconsapevolmente, di cui io non si ha contezza/idea.
Sono state individuate in letteratura due tipi di strategie di apprendimento: quelle dirette e quelle indirette. Le
strategie dirette, come la richiesta del significato di una parola sconosciuta, sono tutte quelle strategie in cui
noi direttamente negoziamo un significato. <- Vi ricordate la negoziazione dell’input? Tutti i casi di
negoziazione dell’input, quando si cerca una parola sul dizionario, si chiede a qualcuno di ripetere una
parola, si chiede il significato di una parola, come si forma una determinata costruzione nella lingua straniera
o lingua seconda: tutte queste sono strategie dirette di apprendimento, cioè modi in cui io direttamente cerco
di imparare. Le strategie indirette, invece, sono quelle che fanno in modo da darmi delle opportunità di
esposizione all’input. Qui [nel manuale] c’è scritto “strategie indirette come la trazione di opportunità di
pratica”. Una strategia indiretta [parola che non si capisce min. 39:39] è quella di andare nel paese in cui si
parla la lingua per imparare a parlare meglio. Questa è una strategia indiretta per cui si fa qualcosa per
cercare di essere più esposti all’input e avere più opportunità di praticare la lingua che si sta imparando. O
ancora, cominciare un percorso di teletandem o di tandem (tandem=quando si fa un percorso con un altro
apprendente della tua lingua materna e si impara insieme) vuol dire applicare una strategia indiretta che
sicuramente aiuterà l’apprendente nell’apprendimento in maniera indiretta.
Alcuni studi, come questo di O’Malley e Chamot, mettono in evidenza che l’apprendimento vero avviene
nel passaggio da una conoscenza dichiarativa alla conoscenza procedurale. Abbiamo delle conoscenze
dichiarative, ovvero delle conoscenze per es. delle regole (es. sappiamo come si forma il passato in inglese,
qual è la regola del periodo ipotetico, come si coniugano i verbi, come si declinano i sostantivi di una
determinata lingua in teoria). Quando questa conoscenza dichiarativa diventa procedurale, cioè si trasforma
in una pratica, in un qualcosa che sappiamo anche fare praticamente, mettere in pratica, è una procedura che
sappiamo applicare nelle nostre produzioni orali e scritte, allora questo passaggio dalla conoscenza
dichiarativa alla conoscenza procedurale è quello che corrisponde a un vero e proprio progresso
nell’apprendimento linguistico. Quando l’apprendente da un semplice “sapere” passa al “saper fare”, allora
significa che sta realmente apprendendo una lingua.
Poi, secondo sempre questi due studiosi, le strategie di apprendimento sono di 3 tipi:
1. cognitive -> Le strategie cognitive, come leggete sul manuale, operano direttamente sui materiali
linguistici analizzandoli, vedendo, raggruppando, deducendo, riassumendo, inferendo. Sono le strategie che
noi solitamente utilizziamo in classe. Quindi le strategie cognitive sono quelle che si utilizzano per elaborare
l’informazione linguistica.
2. metacognitive -> Le strategie metacognitive sono quelle che si utilizzano per regolare il proprio
processo di apprendimento, quindi pianificando, monitorando, valutando. Diciamo, sono un livello più alto di
visione del proprio processo di apprendimento. Appunto sono quelle con cui si riflette sui processi di
elaborazione linguistica , ad es. l’apprendente pianifica di cominciare un corso, si dà un obiettivo in questo
anno o mese da raggiungere, valuta il suo apprendimento linguistico. Tutte queste sono delle abilità di tipo
metacognitivo.
3. sociali-affettive -> Le strategie sociali-affettive sono proprio quelle che riguardano la
socializzazione. Permettono l’interazione con parlanti nativi e altri apprendenti.
Quindi ci sono delle strategie attraverso le quali si elaborano direttamente le informazioni linguistiche e sono
quelle cognitive; le strategie metacognitive sono quelle in cui si riflette facendo diciamo un passo più in alto,
un po’ più dall’alto sul proprio percorso di apprendimento e quindi si fa una valutazione anche di com’è
andato un corso per es., di quanto si è imparato, tutto il portfolio(=è uno strumento che serve per monitorare
il proprio percorso di apprendimento linguistico, in cui si segnano i progressi, è una specie di diario del
proprio apprendimento linguistico, è uno strumento che serve a sviluppare/usare le strategie metacognitive);
le strategie sociali-affettive sono quelle che riguardano la socializzazione, quindi si usano nel momento in cui
per es. si cerca di mantenere un’amicizia con una persona nativa di quella lingua e quindi si ha un contatto, si
cerca di interagire con i nativi della lingua straniera che si sta parlando, viene cercata proprio l’opportunità di
interagire nella l. straniera o nella l. seconda.
Tutte queste strategie collaborano affinché ciascuno/a di noi possa apprendere una lingua straniera o una l.
seconda. Qual è la migliore? Non c’è una strategia che è migliore delle altre. Naturalmente più strategie
vengono messe in campo e meglio è, nel senso che più strategie vengono usate (più o meno
consapevolmente) e meglio è. Queste cose di cui stiamo parlando che sembrano tanto teoriche servono a
riflettere sul proprio percorso di apprendimento, a capire quali strategie ciascuno/a di noi mette
quotidianamente in atto, quali magari invece non utilizziamo affatto e potremmo utilizzare per
l’apprendimento linguistico. Sono certa che ciascuno di voi metta in atto delle strategie di carattere cognitivo
perché lo facciamo nei corsi di lingua quando siamo portati a riflettere sulla lingua, a elaborare le
informazioni linguistiche, a leggere, a riassumere, a rispondere alle domande, a comprendere (<- si tratta di
strategie cognitive). Non so se ciascuno di noi utilizzi delle strategie metacognitive e quindi rifletta sul
proprio percorso di apprendimento (si potrebbe fare monitorando come sta andando) e se ciascuno di noi
metta in campo delle strategie sociali-affettive cioè cerchi un’interazione con dei parlanti nativi o magari in
lingua ma con dei colleghi anche italofoni con cui può interagire. Tutte queste strategie insieme sicuramente
collaborano all’apprendimento linguistico.

Il buon apprendente Rod Ellis


Rod Ellis, studioso dell’interlingua, dell’apprendimento linguistico e della glottodidattica, cioè insegnante
delle lingue, ha delineato una serie di caratteristiche del buon apprendente.
Il buon apprendente:
- risponde alle dinamiche di gruppo, quindi sa lavorare in gruppo;
- non ha ansia;
- non ha inibizioni, quindi non presenta blocchi di comunicazione ;
- approfitta di ogni occasione per usare la lingua straniera;
- si concentra più sul significato che vuole trasmettere che sulla forma, o meglio, prima sul significato e poi
sulla forma;
- ha una forte motivazione;
- è sempre pronto a mettersi alla prova;
- sa adattarsi ai diversi livelli di apprendimento.

Caratteristiche culturali
Le caratteristiche culturali sono quelle ambientali, che riguardano il contesto socio culturale
dell’apprendimento, in particolare quelle che riguardano la cultura in cui l’apprendente di una seconda
lingua, di una lingua straniera, è immerso e sta cercando di avvicinarsi.
Per parlare delle caratteristiche culturali, vengono presentati nel nostro manuale 2 modelli, il primo modello
è quello dell’acculturazione.

MODELLO DELL’ACCULTURAZIONE
di Schumann negli anni 80 (1978,1986 le due pubblicazioni maggiori).
Schumann sta studiando l’apprendimento della lingua inglese da parte di gruppi di immigrati di varia
provenienza negli Stati Uniti. Raccoglie i dati di questi immigrati che lavorano nei posti più svariati, tra cui
tante fabbriche. Raccoglie dati longitudinali, cioè dati nel tempo: fa una prima raccolta dati all’inizio della
ricerca, poi un’altra dopo 6 mesi e un’altra ancora dopo ulteriori 6 mesi. Nel raccogliere questi dati vede il
progresso nell’interlingua di questi immigrati ma si accorge che un tale Alberto, costaricano, non progredisce
nel tempo. Schumann decide di osservarlo ulteriormente ma si rende conto che non c’è progresso nella sua
interlingua. Di fronte a questo mancato sviluppo dell’interlingua, si pone una serie di ipotesi e una di queste è
che questa persona abbia un deficit cognitivo, quindi che presenta disturbi dell’apprendimento, del
linguaggio e decide di fare una serie di test, di indagini. Scopre però che Alberto non ha nessun tipo di
difficoltà cognitiva o disturbo. Ma allora perché non apprende l’inglese?
Schumann, di fronte a questo palese insuccesso, comincia a ragionare su un fattore che chiamerà distanza
sociale: la distanza sociale che esiste tra il gruppo della L2, ovvero il gruppo che ha come lingua materna la
lingua d’arrivo dell’apprendente, in questo caso la società degli Stati Uniti anglofona, e il gruppo della L1
dell’apprendente, ovvero la comunità costaricana. Quindi la distanza sociale è la distanza che intercorre tra
questi 2 gruppi, NON tra due persone! In realtà, lui ne teorizza 2:
- Distanza sociale (composta dalle 8 dimensioni sopracitate)
- Distanza psicologica-affettiva (non citata nel nostro manuale)
La distanza sociale è composta da 8 fattori:
Secondo Schuman questi 8 fattori sono importantissimi perché determinano la maggiore o minore distanza
sociale tra i 2 gruppi, L1 e L2, e possono spiegare il perché Alberto non stesse apprendendo la L2 e non
stesse sviluppando la sua interlingua di inglese.
La dominanza ha a che vedere con i rapporti di dominanza, di subordinazione, di carattere politico,
economico e sociale che possono intercorrere tra i due gruppi. Ad esempio, nel contesto italiano, la comunità
italiana può essere percepita come dominante dal gruppo di immigrati senegalesi presenti in Italia. La
comunità italiana è dominante da un punto di vista economico, politico perché è la comunità che detta le
regole anche per la comunità di immigrati. Ci possono essere altre comunità che percepiscono meno, o non
percepiscono una subordinazione rispetto alla comunità ospitante. Ad esempio la comunità cinese è molto
grande, economicamente è molto ben integrata sul territorio italiano, ha una forte identità nazionale e una
forte tradizione culturale, e tutto ciò fa in modo che questo rapporto di dominanza, di subordinazione, non si
percepisca o che si percepisca in maniera minore nei confronti della comunità italofona.
L'integrazione ha a che vedere con la capacità o la volontà di integrarsi nel tessuto della società ospitante da
parte della comunità di L1, ovvero da parte della comunità degli apprendenti.
Il livello di integrazione ha a che vedere con quanto avviene e,se avviene, una perdita o se avviene un
mantenimento dell'identità culturale da parte del gruppo di L1, ovvero il gruppo di immigrati, in un
determinato contesto.
Ci sono gruppi di immigrati più propensi a una perdita delle proprie tradizioni culturali, a uno smussamento
della propria identità culturale a favore dell’integrazione nel tessuto italiano; altre comunità, come quella
cinese o quella srilankese, hanno un senso più forte di mantenimento della propria identità culturale, ad
esempio in Italia, anche a Napoli, ci sono molte scuole srilankesi dove i bambini srilankesi studiano in lingua
inlese. Questo è indice di una volontà di mantenere la cultura di appartenenza, ci sono altre comunità dove
questa volontà non esiste o esiste in misura minore e quindi c’è una maggiore integrazione nel tessuto sociale
italiano.
La chiusura riguarda l’assenza o la presenza di dialogo tra le due comunità, cioè quanto sono chiuse le due
comunità. L’impermeabilità o permeabilità verso l’esterno del gruppo di L1.
La coesione riguarda la forza del legame all’interno della comunità: ci sono delle comunità di immigrati
molto coese, come ad esempio sul territorio italiano, napoletano, dove creano delle associazioni, delle reti di
aiuto molto solide; e altre invece dove i componenti di una comunità sono sparpagliati sul territorio senza che
vi siano delle strutture o dei luoghi virtuali di incontro di quelle comunità.
La dimensione riguarda il numero delle persone che appartengono a una comunità o all’altra. Più grande è la
dimensione del gruppo L1, maggiore sarà la sua coesione e minore sarà la sua integrazione.
La congruenza ha a che vedere con la somiglianza dei due gruppi da un punto di vista culturale. Quanta
congruenza c’è tra un gruppo di immigrati cinesi e un gruppo di italofoni ospitanti ?
Non c’è molta somiglianza tra le due culture perché sono molto distanti l’una dall’altra; con i romeni o
albanesi è possibile che ci siano più punti di contatto perché sono geograficamente molto più vicini. Quindi
con altri tipi di gruppi ci possono essere più somiglianze.
L’atteggiamento riguarda i sentimenti, le opinioni che si hanno rispetto all’altro gruppo, di L1 o di L2,
quindi se ci si pone in modo positivo o negativo nei rapporti con l’altro gruppo.
L’intenzione riguarda il progetto migratorio, ovvero per quanto tempo si ha l’intenzione di rimanere su un
dato territorio. Ad esempio nel gruppo di immigrati cinesi spesso l’intenzione è quella di rimanere negli anni
dell’età adulta in Italia e poi tornare in Cina da anziani per crescere i bambini degli adulti che sono in Italia.
Quindi i bambini crescono nel contesto culturale cinese e poi da grandi vengono in Italia. È un progetto
migratorio ben definito, sempre in evoluzione, in cui è chiara l’intenzione di non rimanere in Italia. Però se il
progetto migratorio è di questo tipo (quindi non rimanere in Italia, non sposare italiani e tornare in Cina),
allora si ha meno motivazione a entrare nel tessuto sociale italiano e apprendere la lingua italiana. Ci sono
molte donne e uomini cinesi che in Italia non parlano l’italiano perché si tratta di comunità numerose molto
coese e chiuse, possono vivere al loro interno, in maniera abbastanza isolata, soddisfacendo i beni primari.

Tutti questi fattori possono essere positivi ma anche negativi e incidere positivamente o negativamente sulla
distanza sociale, provocando una maggiore o minore distanza sociale. Nel caso in cui la distanza sociale è
maggiore, la presenza di questa distanza sociale non favorisce il percorso di apprendimento linguistico.
Schumann arriva alla conclusione che nel caso di Alberto non c’è nessuna difficoltà linguistica, nessuna
difficoltà prettamente legata alla lingua che sta apprendendo, ma è più una difficoltà legata alla distanza
sociale tra il gruppo di costaricani e il gruppo di anglofoni statunitensi ospitante che fa in modo che Alberto
non progredisca nel suo sviluppo dell’interlingua.
Questo perché il gruppo di costaricani nel territorio statunitense è coeso, grande, autonomo, indipendente ma
non tanto integrato sul territorio e nella società anglofona. La comunità costaricana percepiva la dominanza
della società anglofona (quindi una loro subordinazione nei confronti della società anglofona).
Tutti questi fattori incidevano negativamente.
All’inizio Schumann dice “minima distanza sociale, si apprendimento”, “maggiore distanza sociale, no
apprendimento”
Schumann, nei suoi primi scritti, fa un’affermazione netta: la distanza sociale è direttamente legata a
maggiore o minore apprendimento, a seconda di quanto è ampia.
Successivamente ridimensiona quest’affermazione perchè riceve molte critiche, e arriva ad un'ipotesi meno
netta: una minore o maggiore distanza sociale non è direttamente collegata a un maggiore o minore
apprendimento, piuttosto i fattori che determinano la distanza sociale possono favorire o sfavorire le
possibilità di interazione con la comunità dei nativi, quindi le possibilità di esposizione all’input da parte dei
nativi, e indirettamente possono favorire o sfavorire l’apprendimento linguistico. Mentre la prima teoria di
Schumann prevedeva un legame diretto tra la distanza sociale e l’apprendimento, nella revisione della sua
teoria Schumann interpone, tra questi 2 elementi precedentemente menzionati, l’input.
QUINDI: distanza sociale - input - apprendimento linguistico
Con questa seconda teoria, Schumann afferma anche che l’acculturazione di per sé (da sola) NON è
sufficiente, perché NON è detto che se c’è acculturazione c’è per forza anche apprendimento linguistico. Di
fatti, c’è bisogno comunque che entrino in campo altri fattori anche individuali, come l’applicazione e la
motivazione da parte dell’apprendente.
Ma l’acculturazione NON è neanche necessaria ai fini dell’apprendimento linguistico: ci sono dei casi in cui,
anche in assenza di acculturazione, c’è apprendimento linguistico. Questo avviene, ad esempio,
nell’apprendimento delle lingue straniere.
Possiamo applicare questo concetto anche su noi stessi: ci troviamo a Napoli ad apprendere delle lingue
straniere senza che, al momento, ci sia acculturazione 🡪 ossia apprendiamo le lingue straniere senza avere un
contatto diretto con i parlanti nativi di tali lingue.

MODELLO MULTIDIMENSIONALE di Pienneman


Il modello multidimensionale si chiama così proprio perché cerca di analizzare ed osservare diverse
dimensioni nel processo di apprendimento linguistico e prova a tenere conto anche delle variabili culturali e
personali.
La prima dimensione di cui tiene conto è la “dimensione della regolarità”, che abbiamo già osservato
insieme quando abbiamo parlato degli stadi di acquisizione e dell’apprendimento della grammatica. Quando
abbiamo parlato della grammatica, abbiamo detto che gli stadi di acquisizione della grammatica sono uguali
per tutti gli apprendenti e dunque c’è una dimensione che è sicuramente universale nell’apprendimento
linguistico, cioè che riguarda tutti gli apprendenti.
A questa dimensione universale degli stadi di acquisizione grammaticale, ma anche lessicale e pragmatica, si
intreccia inevitabilmente anche una dimensione di variabilità che ha a che vedere con tutti gli altri fattori,
ad esempio: congestuali (come quelli della distanza sociale) individuali (come la motivazione) e tanti altri di
cui abbiamo già parlato, come la predisposizione, l’attitudine, gli stili cognitivi, e così via.
Quindi, il modello multidimensionale parte dai dati del progetto ZISA.
Il progetto ZISA è un progetto in cui si osserva e si analizza lo sviluppo della sintassi tedesca da parte di
immigrati italiani e spagnoli che si sono trasferiti in Germania. Sulla base di quei dati si cerca di individuare i
fattori di regolarità e di universalità nelle sequenze di acquisizione, ma anche fattori di variabilità e si cerca
di capire da che cosa possono dipendere.
In particolare, nel modello multidimensionale, si mettono in luce 2 modi di vivere l’apprendimento
linguistico, che sono legati a caratteristiche personali come la propria personalità, ma anche a caratteristiche
sociali.
All’interno di questo modello, si individuano:
- Degli apprendenti più volti all’efficacia comunicativa, cioè che sono più propensi a produrre degli
enunciati/messaggi che siano efficaci da un punto di vista comunicativo, anche se formalmente scorretti,
visto che pongono meno attenzione all’accuratezza formale.
- Degli apprendenti che pongono più attenzione alla forma degli enunciati che producono.
Questi 2 poli sono considerati anche sulla base di caratteristiche sociali.
Chi usa la L2, puntando sull’accuratezza formale anche a rischio di comunicare meno, tende
segregatamente (si parla di “segregazione”) a essere incerto sulla durata della permanenza in Germania,
non avere con sé l’intera famiglia, avere sul lavoro contatti minimi, essere privi di ambizione sociale, avere
minimi livelli di istruzione. D’altra parte, chi punta all’efficacia comunicativa tende invece, in una
prospettiva di integrazione, ad abitare in un vicinato tedesco, avere sul lavoro maggiori contatti con i
tedeschi ed essere socialmente più ambizioso.”
Si intrecciano, quindi, variabili di diversa natura. Da un lato ci sono variabili legate ad un uso diverso della
lingua che si fa e un grado di attenzione diversa che si può porre, o da un lato dell’efficacia comunicativa o
sulla correttezza formale.
Questo tipo di osservazioni rispetto all’uso della lingua e rispetto alle caratteristiche dell’interlingua si
intrecciano e si associano ad osservazioni di carattere socio-culturale.
In questo caso, i 2 parametri che vengono presi in considerazione sono la volontà di integrazione nel Paese
di accoglienza (in questo caso la Germania) e una situazione o volontà di “segregazione”. Alcuni parametri
relativi alla segregazione e all’integrazione vengono messi in relazione sistematica con delle caratteristiche
dell’interlingua.
Chi è più propenso all’efficacia comunicativa, è inserito anche in un determinato contesto socio-culturale e
sembra avere una volontà di integrazione maggiore nel contesto tedesco rispetto a chi invece produce
enunciati e testi in interlingua che sono più focalizzati sull’accuratezza formale.
I diversi piani dell’apprendimento, ossia il piano puramente linguistico e il piano che riguarda la sfera socio-
culturale, vengono intrecciati e si cercano delle correlazioni tra loro.
Ecco spiegato, anche una volta, perché il modello prende il nome di “multi-dimensionale”.
Quindi il progetto ZISA con i suoi dati viene ripreso in almeno altre 2 teorie, oltre che dal modello
multidimensionale. Queste due teorie sono:
- L’ipotesi dell’insegnabilità, elaborata da Pienemann.
Prevede che l’insegnamento sia efficace solamente se gli apprendenti si trovano in uno stadio
immediatamente precedente alla struttura che si sta insegnando.
Detto in altre parole, l’insegnamento è efficace solo se l’apprendente è pronto ad imparare la struttura che si
sta insegnando.
- La teoria della processabilità. (ne parleremo successivamente)

Prendere consapevolezza di qualcosa in più del nostro apprendimento linguistico in termini di nostre
caratteristiche, motivazioni, attitudini, predisposizioni, stili e strategie di apprendimento e capire anche quali
input ci può offrire il contesto di apprendimento, ci aiuta come apprendenti a migliorare sempre di più e a
cercare delle occasioni di incontro con l’input e indirettamente di favorire il processo stesso di
apprendimento linguistico.

Capitolo 5
Nel capitolo riguardante “le spiegazioni” vengono presentate le spiegazioni in quanto teorie
dell’apprendimento di lingue seconde o straniere. Però, dobbiamo tenere in mente che queste teorie
nascono come teorie dell’apprendimento delle lingue prime o materne e, poi, si applicano anche al contesto
delle lingue seconde.
Le spiegazioni vengono classificate in:
- CONTRASTIVISMO
- GENERATIVISMO (di Chomsky – questa teoria è legata al concetto di “grammatica universale” e alla
sintassi)

Una distinzione importante tra le diverse teorie è quella che viene fatta tra:
- Teorie EMPIRISTE
- Teorie RAZIONALISTE
Le 2 sequenze in basso mostrano:
- Un processo di apprendimento tout-court, quindi in generale (riquadri blu)
- Un processo di apprendimento linguistico (riquadri arancioni)

Per quanto riguarda il processo di apprendimento tout-court (in generale): si parte da un’esperienza, la
quale produce un effetto sulla nostra mente e un cambiamento nel nostro sistema di conoscenze. Questo
cambiamento nel nostro sistema di conoscenze si traduce poi in un nostro dato comportamento.
Esempio riguardo l’aspetto NON verbale: Se un bambino tocca il fuoco e si scotta (anche toccando un piatto
caldo, il forno, o la pizza appena sfornata), dunque fa questo tipo di esperienza, ha uno stimolo cerebrale, che
è quello del dolore. Questo stimolo conduce ad un ampliamento del sistema di conoscenze.
A volte, infatti, alcuni adulti dicono: “Fallo scottare, così capisce”.
Questo stimolo fa in modo che il bambino capisca che toccare qualcosa di caldo provoca dolore.
Dunque, assume un tipo di comportamento: NON tocca più qualcosa che scotta o, comunque, non lo fa di
proposito.
Per quanto riguarda l’apprendimento linguistico, la sequenza è la stessa ma vengono usati specifici termini
linguistici.
Dal punto di vista linguistico, l’esperienza viene chiamata “input”, al quale l’apprendente è esposto.
Questo input produce un effetto sulla nostra facoltà del linguaggio, che è nella nostra mente.
Tale effetto può tradursi, e spesso si traduce, in una conoscenza linguistica, quindi è un ampliamento delle
nostre conoscenze su una data lingua, materna o seconda.
Infine, l’ampliamento delle nostre conoscenze si traduce in un comportamento linguistico, ossia in un output,
quindi in una produzione linguistica, che sia orale o scritta.

EMPIRISTE E RAZIONALISTE
Le diverse teorie, a seconda che siano EMPIRISTE o RAZIONALISTE, pongono l’attenzione su una fase
diversa di questo processo.
- Le teorie EMPIRISTE (anche dette “ambientaliste” o “teorie induttive”) si focalizzano soprattutto sul ruolo
dell’ambiente e dell’esperienza nell’apprendimento linguistico, quindi sul ruolo dell’input.
Dunque, enfatizzano il ruolo dell’esperienza linguistica, in questo caso dell’input, nel processo di
apprendimento.
Per spiegarle in maniera semplice si usa a volte la metafora della tavoletta di cera che, quando non è
ancora stata utilizzata, è piatta. Poi, per utilizzarla, si fanno delle incisioni (dei solchi) sopra di essa, usando
un bastoncino/pennina. Ad esempio, si può pensare anche ad una tavoletta di DAS.
Questa metafora ci dice che la nostra mente, quando nasciamo, è piatta come una tavoletta di cera prima
dell’utilizzo. Le esperienze che facciamo, sia quelle generali che quelle specificamente linguistiche
(attraverso l’esposizione all’input) incidono dei segni.
L’esperienza fa in modo che la nostra tavoletta si arricchisca di incisioni/segni 🡪 è una metafora per dire che,
attraverso l’esperienza, la nostra mente si arricchisce di conoscenze.

- Le teorie RAZIONALISTE (anche dette “innatiste” o “deduttive”) spostano l’attenzione dal ruolo
dell’esperienza al ruolo della nostra mente e, nel caso della linguistica, al ruolo della facoltà del linguaggio.
Le teorie “innatiste” (come quella di Chomsky) prevedono una facoltà del linguaggio innata nell’uomo,
nella donna, nel bambino o nella bambina.
Per descrivere queste teorie si usa la metafora del museo al buio: secondo queste teorie, la mente di un
bambino quando nasce è come un museo in cui tutte le luci sono spente, quindi è completamente al buio.
Le opere d’arte nel museo ci sono già, la conoscenza e l’esperienza NON hanno il ruolo di immettere nel
museo le opere d’arte, poiché ci sono già, ma hanno il ruolo accendere le luci pian piano nelle diverse sale,
dunque svelare delle competenze e delle facoltà che in realtà sono già presenti, in maniera innata, nel
bambino o nella bambina.

Ci sono altri modi di classificare le teorie:


- Teorie modulari o non modulari, a seconda della presenza o dell’assenza di una concezione della facoltà
del linguaggio vista come un modulo a sé all’interno della nostra mente e della nostra elaborazione cognitiva.
Le teorie modulari considerano che la facoltà del linguaggio come un modulo a sé, indipendente e separato
dalle altre facoltà cognitive.
Secondo le teorie non modulari, invece, la facoltà del linguaggio è intrecciata a tutte le altre facoltà della
nostra mente.
- Teorie formaliste e funzionaliste.
Le teorie formaliste si concentrano sulle forme linguistiche.
Le teorie funzionaliste prendono in considerazione le funzioni linguistiche, o meglio il rapporto tra le forme e
le funzioni di una lingua.
- Teorie della proprietà e della transizione.
Le teorie della proprietà si focalizzano su una descrizione sincronica delle proprietà del linguaggio o
proprietà del processo di apprendimento.
Le teorie della transizione hanno, invece, una prospettiva più diacronica e studiano i processi
dell’apprendimento linguistico nel corso del tempo, quindi si focalizzano sulle “transizioni” nel tempo.
Quando abbiamo parlato del progetto ZISA abbiamo detto che è un progetto descrittivo, che teorizza quali
sono le proprietà dell’interlingua e descrive l’interlingua così com’è.
Però ci sono delle teorie di carattere più cognitivo e psico-linguistico che, invece, ragionano sul perché si
arriva a determinati output e perché l’interlingua assume determinate proprietà.
Queste teorie che ragionano sulle elaborazioni all’interno del processo di sviluppo dell’interlingua sono,
appunto, teorie della transizione e si focalizzano più sul come si arriva a determinati output, piuttosto che
sulla descrizione delle proprietà degli output e dell’interlingua.
- Teorie data-driven e theory-driven si basano su dei DATI.
Le teorie data-driven partono dai dati per arrivare a delle spiegazioni generali.
Le teorie theory-driven partono da ipotesi e poi, sulla base di esse, cercano di trovare dei dati che le
confermino o le confutino/neghino.
Queste classificazioni sono piuttosto teoriche. Poi, facendo riferimento a degli esempi, si può capire come si
traducono nelle diverse teorie.

CONTRASTIVISMO
la quale è anche la prima teoria di apprendimento in termini cronologici.
Che caratteristiche ha il contrastivismo?
È una teoria empirista, quindi, vuol dire è una teoria che si concentra sul ruolo dell’esperienza, sulla
formazione di abitudini linguistiche.
L’ipotesi dell’Analisi Contrastiva si afferma e si consolida a partire dagli anni ’50 del ‘900 (come si può
notare ci troviamo nel 1950, e l’interlingua emerge come concetto negli anni ’70, dunque, ci troviamo prima
dello sviluppo del concetto di interlingua) ed è la prima teoria che dalla L1 viene applicata, poi, anche alle
lingue seconde.
È una teoria empirista che si basa a sua volta su una teoria di carattere psicologico, ovvero il
comportamentismo (la base teorica del contrastivismo è il comportamentismo).
Il comportamentismo è una teoria secondo cui l’apprendere equivale a formare delle abitudini. Il
comportamentismo è una teoria di carattere psicologico. Nella teoria del comportamentismo, in ciascun
fenomeno/episodio di apprendimento, c’è uno stimolo (ovvero, input esterno) che provoca una risposta nel
soggetto. Poi, a seconda della riuscita di questa risposta, quest’ultima può essere rinforzata (nel senso che si
continua a praticare questa risposta stessa) oppure può essere rimessa in discussione con un’operazione di
scomposizione, ovvero di riflessione su ciò che è accaduto, quella risposta non è stata efficace se ne deve
cercare un’altra.
Dunque, l’apprendimento linguistico è visto come formazione di abitudini linguistiche;
Nell’apprendimento della L2 (quindi, una lingua seconda) le abitudini già consolidate/formate della lingua
materna sono già salde e, quindi, interferiscono. con i fenomeni di transfer, il trasferimento di elementi
dalla lingua materna alla L2. Dunque, quella dell’analisi contrastiva è un’ipotesi che mette in primo
piano/enfatizza molto il fenomeno del transfer. Con l’ipotesi dell’analisi contrastiva si arriva a dire [ossia,
quell’ipotesi massimalista di cui avevamo già parlato quando abbiamo affrontato il discorso del transfer] che
il transfer provoca più del 50%, addirittura fino al 70% degli errori nell’interlingua di un apprendente.
Questa ipotesi sarà smentita successivamente ma, comunque, questa è una delle teorie sulla L2: il
contrastivismo.
Di conseguenza nell’insegnamento [secondo la teoria del contrastivismo], si deve puntare proprio su quei
punti di divergenza tra lingua materna e L2. In questo modo si otterrà che le abitudini della lingua materna
siano scardinate e si arriva, invece, ad assimilare nuove abitudini (quindi, nuove regole) che sono quelle della
lingua seconda o della lingua straniera.
Nella teoria del contrastivismo e del comportamentismo in generale, l’apprendimento linguistico è visto
come [vedi foto] un fenomeno che (essendo una teoria empirista), dal punto di vista dell’apprendente, vede
una certa passività. Il ruolo dell’apprendente è svilito: l’apprendente è solo colui che assimila/riceve input e
che riceve informazioni e conoscenze dall’esterno. Questa è la visione dell’apprendimento della teoria
comportamentista.
Nella didattica questo tipo di visione si traduce in esercizi molto incentrati sulle ripetizioni, sulla continua
ripetizione di regole con esercizi meccanici che ripropongono sempre l’utilizzo della stessa regola, che si
ripete infinite volte soprattutto con frasi costruite ad hoc con una determinata regola. Tutti quei tipi di attività
vengono dalla necessita (secondo questa teoria) di smantellare un’abitudine linguistica errata e cominciare a
formare un’abitudine linguistica diversa (dunque, secondo questa teoria, applicare la stessa regola molte
volte si dovrebbe poi arrivare ad una memorizzazione).
Quando c’è una forte distanza tipologica tra le lingue da un punto di vista strutturale, può essere utile, sia per
l’insegnate che per l’apprendente, proporre dei confronti così da rendere ancora più chiare delle cose che
suonano strane all’apprendente.
Impostare tutto il percorso di apprendimento su un continuo confronto è sì efficace ma non tiene conto della
dimensione universale dell’apprendimento, che è quella degli stadi di acquisizione, etc., i quali non hanno
nulla a che vedere col fenomeno del transfer (le sequenze acquisizionali sono indipendenti dai fenomeni di
transfer). In queste teorie contrastiviste, che precedono la teoria dell’interlingua, non se ne tiene
assolutamente conto.
Dunque, non è tutto da buttare tutte le cose che sono relative alla teoria contrastiva e ci sono dei casi specifici
in cui, lavorare costantemente sulla ripetizione, può funzionare.

(IL CASO DEI SENEGALESI)


- No literacy in L1
- Scuola francese e Scuola coranica
Studio sulle abilità orali in L2 – task di imitazione elicitata

Questa riflessione ha a che vedere con il caso di apprendenti senegalesi di italiano L2.
Molti dei senegalesi adulti non hanno sviluppato o hanno sviluppato in maniera debole le abilità di lettura e
scrittura (quindi, la cosiddetta “literacy” [non sono alfabetizzati]) nella lingua materna. Però, anche se sono
andati a scuola per 3-4 anni (a volte anche 5 anni) hanno potuto frequentare delle scuole diverse. In Senegal –
e come in altri Paesi africani e non solo – esistono due sistemi educativi paralleli:
1. Un sistema educativo è quello delle SCUOLE FRANCESI🡪 sono delle scuole di stampo “europeo”
nelle quali piano piano si stanno introducendo anche le lingue nazionali (come il wolof, il malinké ed altre
lingue locali che si parlano in Senegal) però parlano principalmente la lingua francese e, il processo di abilità
di scrittura e lettura, nella scuola francese, avviene in francese (la quale per gli apprendenti NON è la lingua
materna – dunque, risulta già essere complicato in partenza) e con le metodologie delle nostre scuole
occidentali;
2. In maniera parallela al sistema delle scuole francesi, esiste il sistema delle SCUOLE
CORANICHE🡪 come si capisce dal nome stesso, si insegna il Corano attraverso il metodo della
ripetizione mnemonica dei passi del Corano, i quali vengono memorizzati e ripetuti e, spesso, non si
conosce il significato delle parole stesse, è una memorizzazione esclusivamente fonetica [possiamo anche
paragonare le persone anziane italiane che imparavano le preghiere in latino e non capivano nulla di ciò che
dicevano].
Ora, quando questi ragazzi/uomini hanno frequentato qualche anno della scuola francese ed altri della scuola
coranica in Italia, si ritrovano di fronte alla necessità di apprendere l’italiano come lingua seconda. [La prof
ha lavorato con loro per la sua tesi di dottorato] Chi ha lavorato con loro si è reso conto che gli apprendenti
della Scuola Coranica avevano sviluppato nel loro breve percorso di formazione in Senegal delle abilità
particolari. Questi sono degli audio che provengono da un esperimento in cui si propone ai ragazzi di Scuola
Coranica e Scuola Francese di fare un task di imitazione: ovvero, loro dovevano sentire (senza alcun aiuto in
forma scritta) un file audio in cui c’erano un ragazzo ed una ragazza italiani, i quali pronunciavano delle frasi
(affermative, domande ed ordini) e i ragazzi senegalesi dovevano ripeterla/imitarla, a prescindere dal fatto
che avessero capito o meno il significato delle frasi:
- 1° MODELLO da imitare 🡪 “Domani è sabato?”🡪 questo è un esempio di frase breve; altre frasi
utilizzate in questo esperimento erano anche molto più lunghe con una struttura sintattica più complessa e
con parole meno frequenti.
o IMITAZIONE DEL 1° MODELLO degli apprendenti s. francese🡪 Gli apprendenti di Scuola
Francese producevano l’enunciato con una curva intonativa che va a scendere, tipica di un’affermazione
“Domani è sabato”;
o IMITAZIONE DEL 1° MODELLO degli apprendenti s. coranica🡪 L’apprendente di Scuola
Coranica formula effettivamente una domanda, riusciamo a sentire l’intonazione della domanda, proprio
com’è il modello.
In entrambi i gruppi, le frasi brevi e semplici non ponevano dei problemi di comprensione; per cui, loro, le
sapevano imitare in termini di ripetizione segmentale (cioè, riconoscevano i suoni e le sapevano ripetere).
Dunque, il gruppo di apprendenti della Scuola Coranica, proprio le caratteristiche del proprio percorso di
formazione – anche se breve – nel loro Paese d’origine, hanno sviluppato un’abilita, ovvero quella di
prestare attenzione e, quindi, poi saper riprodurre tutti gli aspetti prosodici ed intonativi della lingua.
Questa non è un’abilità assolutamente scontata, infatti, gli apprendenti di Scuola Francese – essendo esposti
ad una formazione più tradizionale e più sulle forme e sulla scrittura piuttosto che sull’oralità – riproducono
bene le frasi (sono più attenti alla forma) però non prestano attenzione all’intonazione (forse è anche una
cosa non volontaria).
Invece, gli apprendenti della Scuola Coranica lo fanno. Questa è un’abilità: cioè, questa loro abilità è
davvero una svolta perché, quando si fa lezione con degli apprendenti analfabeti o debolmente alfabetizzati,
la prospettiva più semplice e più diffusa è quella di partire da tutte le cose che gli apprendenti non sanno fare,
scrivere o leggere e, dunque, lo si deve andare a “riparare”.
Invece, in questa prospettiva, l’insegnante riconosce un’abilità che già c’è in questi apprendenti e, dunque,
c’è un punto di forza che l’insegnante può valorizzare andando a “sfruttarlo” per favorire il processo di
apprendimento linguistico e anche la motivazione all’apprendimento – che per gli adulti analfabeti è proprio
molto in pericolo, siccome è facile che si abbandoni subito il percorso di apprendimento. Invece, se si fa
notare agli apprendenti che sono in grado di fare una determinata cosa e l’insegnante li invoglia a metterla in
pratica, si cambia completamente prospettiva.
Tornando ai modelli da imitare, questo era un modello di frase semplice.
Durante questo esperimento, quando venivano proposte delle frasi più complesse, emergeva sempre
un’abilità sviluppata negli apprendenti di Scuola Coranica:
- 2° MODELLO da imitare🡪 “Perché usi ancora il cucchiaio di plastica?”🡪 di fronte a modelli del genere
con una complessità maggiore dal punto di vista sintattico si creavano più difficoltà.
o IMITAZIONE degli apprendenti di SCUOLA FRANCESE🡪 gli apprendenti di scuola francese,
di solito, non capivano la frase o non la producevano proprio oppure dicevano solo “perché…” e si
fermavano; oppure inventavano altre parole. La loro non padronanza della forma li bloccava.
o IMITAZIONE degli apprendenti di SCUOLA CORANICA🡪 invece, [se noi ci trovassimo in
questa situazione, faremmo la stessa cosa] gli apprendenti della scuola coranica provano a dire la frase
“Perché [parole incomprensibili] plastica?”. Anche con altre frasi sempre complesse, loro producevano gli
enunciati in cui l’inizio e la fine venivano riprodotti bene, c’era un’effettiva ripetizione segmentale delle
parole; al centro, invece, (che noi indichiamo col termine mumbling🡪 borbottio) c’erano delle sillabe messe a
caso ma che facevano in modo che loro non si arrendevano di fronte ad una frase difficile: piuttosto, ne
producevano una il cui inizio e la fine erano comprensibili ma il centro della frase no. È simile a quando noi
cantiamo una canzone ma non sappiamo tutto il testo ed inventiamo parole.
Questo, però, faceva sì che loro riuscissero a riprodurre un’imitazione – e che non abbandonassero il task – e
che riuscivano a riprodurre anche degli enunciati con una struttura ritmica che corrispondeva a quella del
modello (anche se, comunque, erano presenti lo stesso delle sillabe strane, abbozzate). Non si arrendono di
fronte all’imitazione di frasi del genere, questo grazie al loro background formativo.
Durante questo esperimento, con questi apprendenti gli insegnanti sono passati alla sperimentazione
didattica ed avevano provato anche a lavorare sulle ripetizioni: dunque, riprendendo una tecnica del metodo
contrastivo (ovvero, l’uso delle ripetizioni continue, metodo audio-orale) che, però, in questo caso
funzionava ed era soprattutto funzionale alla valorizzazione di competenze già acquisite dagli apprendenti e
al mantenimento di una motivazione alta. Loro non si avvilivano ma si rendevano conto di essere in grado di
fare delle cose rispetto ai loro “colleghi” della Scuola Francese.
Dunque, è stato proprio sperimentato come delle tecniche che oggi sono obsolete ma che, in questo caso, si
sono rivelate essere efficaci.
GENERATIVISMO (GRAMMATICA UNIVERSALE)
La grammatica universale
● La grammatica universale, che è alla base della teoria generativista, viene teorizzata a partire dalla
seconda metà del 900.
● E’ una teoria razionalista, innatista, induttiva, è una teoria della proprietà (non spiega tanto i
processi di esecuzione linguistica, cioè come avviene l’elaborazione linguistica, ma spiega più che altro che
cosa c’è nelle nostre menti, quali sono le regole della lingua che sono presenti nelle nostre menti).
● La Grammatica Universale è una predisposizione innata nella mente umana all’apprendimento del
linguaggio. Secondo la teoria di Chomsky, nelle nostre menti, già nel momento in cui nasciamo, c’è un vero
e proprio dispositivo (Language Acquisition Device).
Questo dispositivo è la grammatica universale: un insieme di regole di carattere universale che non sono
smentite da alcuna lingua naturale. La grammatica universale è attivata grazie all’imput ricevuto \ grazie
all’esperienza. Quindi l’esperienza ha un ruolo, ma non è quello di incidere qualcosa nelle nostre menti,
piuttosto quello di attivare qualcosa che già c’è.

Nella grammatica universale esistono dei principi e dei parametri


● Principi = regole universali che non sono smentite da nessuna lingua naturale; sono la vera parte
innata della grammatica universale. Un esempio di principio proposto nel libro è il principio di dipendenza
dalla struttura
● Parametri = Secondo la teoria di Chmosky, i parametri rappresentano una sorta di interruttori
presenti nella nostra mente(interruttori parametrici)
Il valore di questi interruttori dipende dalle caratteristiche della lingua che si sta apprendendo.
Un principio è quello che riguarda la dipendenza dalla struttura. Nei diagrammi ad albero notiamo che
esiste una struttura più in profondità della struttura superficiale (frase composta da sintagmi) . Ragionare in
questi termini significa ragionare nei termini di una struttura profonda come se fosse insita in ciascun
enunciato prodotto da ciascun parlante in ogni lingua.
All’interno di questa struttura ci possono essere delle caratteristiche legate alle singole lingue (si dicono
linguo-specifiche). Una di queste caratteristiche, che è un parametro, è la testa del sintagma. In italiano,
solitamente, la testa del sintagma è posizionata a sinistra. Ci sono, però, altre lingue in cui la testa del
sintagma è posizionata a destra. In cinese si può parlare di “postposizioni” in cui il determinante segue
sempre l’elemento determinato.
Quindi, dato il principio, cioè la dipendenza dalla struttura, la testa del sintagma equivale, nella teoria di
Chomsky, ad un parametro e a seconda della lingua che da bambino imparo e a cui sono esposto, nella mia
testa si attiverà il parametro \ l’interruttore relativo alla testa a sinistra o a destra. (vedi anche esempio a pag
176)
Principi = universali e uguali per tutte le lingue
Parametri = possono variare da lingua a lingua

Quindi, secondo Chomsky, in che cosa consiste l’apprendimento linguistico?


L’apprendimento linguistico consiste
● Nell’attivazione di principi = ciò riguarda tutte le lingue, anche quella materna
● Si fissano i parametri = man mano che l’apprendimento procede, vengo esposto all’imput nella
lingua che sto apprendendo. Di conseguenza, fisso i miei interruttori parametrici e quindi avrò un
determinato setting di interruttori a seconda delle caratteristiche della lingua
● Scoperta del lessico = è un qualcosa di indipendente dalle regole della grammatica universale
Nel caso dell’apprendimento della L1 questo percorso di attivazione dei principi e fissazione dei parametri
avviene da bambini appena nati. Lo studio di Radford riporta come i bambini angolofoni hanno già fissato il
parametro della testa con valore di “testa iniziale” già quando producono enunciati di due sole parole ,dove
non c’è sintassi, ma si tratta solo di sintagmi isolati.
Nell’apprendimento delle lingue seconde ci sono una serie di teorie. Molti hanno cercato di capire se
nell’apprendimento della L2 o della LS si utilizzassero i principi della grammatica universale oppure no.
Negli anni sono state proposte ipotesi rispetto al rapporto tra L2 \ LS e grammatica universale.
Queste teorie sono state sintetizzate da Mitchell e Myles nel 1998.
● Teorie dell’inaccessibilità = la grammatica delle L2 o LS non ha accesso alla grammatica
universale, cioè non funziona con i principi della grammatica universale, ma il funzionamento della
grammatica delle L2 o LS è regolato da altre facoltà cognitive
● Teoria della piena accessibilità \ accesso diretto = la grammatica della L1 ha accesso alla
grammatica universale così come avviene per la L2 o LS
● Teoria dell’accessibilità indiretta (indirect access) = la grammatica della L2 ha accesso alla
grammatica universale, ma attraverso la L1
● Teoria dell’accessibilità parziale = vede un accesso ai principi della grammatica universale per la
L2 , ma non per i parametri
Come si fa a capire se c’è o meno accesso alla grammatica universale? Come si formulano queste ipotesi?
I dati che vengono utilizzati negli studi di carattere generativista sono gli studi sui giudizi di
grammaticalità. Questi giudizi di grammaticalità consistono nel proporre degli enunciati ai parlanti di una
determinata lingua e chiedere ai partecipanti dell’esperimento se queste frasi sono grammaticali o
agrammaticali, cioè se hanno una struttura grammaticale valida indipendentemente dal significato delle
parole o meno. Se sono delle frasi che vanno contro i principi della grammatica universale, i parlanti della L1
non accettano la frase come grammaticale.
Ci si chiede se ciò succede anche nella L2. Si ha una stessa percezione innata delle regole \ dei principi della
grammatica universale anche nelle lingue che si stanno apprendendo? Qualcuno dice si e quindi prevede che
ci sia un accesso diretto alla grammatica universale e c’è chi invece sostiene che esistono altri meccanismi
che hanno a che vedere poco o nulla con la grammatica universale; o hanno a che vedere con la grammatica
universale tramite la L1. Per esempio si fa riferimento ai principi attivi nella L1. Gli stessi parametri si
riportano anche nella L2.
Se vi proponessi delle frasi nella vostra L2, alcune grammaticali e altre non accettabili e mi confermereste
che alcune frasi sono grammaticali, mentre in realtà infrangono dei principi di grammatica universale, allora
vuol dire che la grammatica universale non funziona nelle nostre menti per quanto riguarda la L2
Pagina 181
Ma non basta: se i soggetti giudicano in accordo con la Grammatica Universale, lo fanno perché ne hanno
accesso diretto, o indiretto attraverso la L1? Per deciderlo è necessario considerare apprendenti con L1 che
non manifesti il principio in questione. Questo è possibile, poiché non tutti i principi della Grammatica
Universale sono presenti in tutte le lingue.
N.B I PRINCIPI DELLA GRAMMATICA UNIVERSALE NON SONO PRESENTI IN TUTTE LE
LINGUE, MA NON SONO SMENTITI DA NESSUNA LINGUA (non sono attivi in tutte le lingue tutti i
principi della grammatica universale, ma non c’è alcuna lingua che vada contro questi principi)
A questo proposito, è molto discusso il principio della soggiacenza.
Secondo questo principio, il movimento di un costituente può avvenire attraverso un nodo limitante di un
solo tipo. Ogni lingua ha i suoi nodi limitanti. Nell’inglese i nodi limitanti sono il soggetto e il SN.
Esempio 6 e 7 sono corrette, mentre l’esempio 8 è agrammaticale e mostra come il movimento sia soggetto a
determinate restrizioni.
(6) Sam destroyed a book.
What did Sam destroy?
La frase è corretta, perché l’elemento spostato t supera solo il nodo del soggetto (Sam). L’elemento “a book”
viene spostato e sostituito da “what” . Quindi, lo spostamento avviene dalla fine, nell’avverbio interrogativo,
all’inizio. Questo spostamento supera una sola s (un solo nodo,cioè il soggetto)

(7) Clair heard that Peter thought that Sam destroyed a book.
What did Claire hear that Peter thought that Sam destroyed?
La frase è grammaticale anche se complessa, perché lo spostamento dal t (posto dove stava il book) al what
(avverbio che si riferisce a book) supera 3 nodi. Ma sono tre nodi dello stesso tipo (tre soggetti)
(8) Sam destroyed a book about tulips
* What did Sam destroy a book about?
Questa frase non è grammaticale, perché l’elemento spostato, tulips (t), passa attraverso due nodi, che però
sono di tipi diversi (il soggetto “Sam” e il SN “ a book”).
Il principio della soggiacenza può essere testato con i giudizi di grammaticalità sia nella L1, sia nella
L2 \ LS. In termini generativisti si lavora molto su queste trasformazioni di frasi. In questi casi c’è il
passaggio dalla frase affermativa a quella interrogativa.
Questo principio della soggiacenza è universale, nel senso che in ogni lingua con movimento wh- (come in
italiano o in inglese), il movimento è limitato da questo principio – anche se poi in lingue diverse può
variare che cosa costituisca un nodo. Ma, se una lingua non ha il movimento wh- (come il coreano e il
giapponese), gli effetti limitanti della Grammatica Universale non saranno evidenti. Perciò, se gli
apprendenti coreani o giapponesi seguono il principio della soggiacenza nella loro interlingua italiana o
inglese, questo proverebbe che operano in accordo con le limitazioni della Grammatica
Universale,avendone accesso diretto.
Ciò significa che: se un apprendente coreano o giapponese (lingue nelle quali il principio della soggiacenza
non è attivo), nel momento in cui vengono posti dinanzi a frasi agrammaticali in inglese o in italiano, che
violano il principio della soggiacenza, riescono a comprendere che tali frasi sono agrammaticali, questo vuol
dire che hanno accesso nella loro mente ai principi della grammatica universale. Non c’è una mediazione con
la loro lingua materna.

Quali sono i punti di debolezza della grammatica universale? Un punto di debolezza della grammatica
universale sta, innanzitutto, nel fatto che essa tenta di spiegare quali sono i meccanismi della nostra testa,
quali sono le regole che inseguiamo quando pensiamo e quando apprendiamo delle lingue, quindi si basa
molto sul descrivere qual è la nostra competenza. Diremo, quindi, che la teoria della grammatica universale
si basa molto di più sulla competenza astratta che sulla descrizione dell’esecuzione, della concretezza
dell’uso della lingua. La teoria della grammatica universale presenta una debolezza dal punto di vista
metodologico, ma ha una solida base teorica.

FUNZIONALISMO
La teoria del funzionalismo non è un’unica teoria, piuttosto un approccio funzionalista che abbraccia diverse
teorie nello specifico. Nel descrivere la teoria del funzionalismo, si fa riferimento a una serie di filoni
funzionalisti, quali la Scuola di Praga, il funzionalismo europeo con Dick, il funzionalismo sistemico con
Halliday e il funzionalismo americano.
Che differenza c’è tra le teorie formaliste e le teorie funzionaliste? Per quanto riguarda le teorie formaliste, le
forme che una lingua assume sono determinate da categorie astratte e innate, ad esempio le categorie
grammaticali di verbo e soggetto. Anche il generativismo è una teoria formalista, ed è una teoria modulare
perché tutte le teorie modulari prevedono che esista nella nostra mente una facoltà del linguaggio, un modulo
dedicato all’apprendimento linguistico e al linguaggio, all’interno di questo modulo esistono le categorie
astratte che si realizzano a seconda della lingua che impariamo, in forme linguistiche diverse.
Al contrario, nelle teorie di carattere funzionalista c’entrano le funzioni e quindi le forme linguistiche non
dipendono dalle categorie astratte e innate, ma sono create, governate, limitate in maniera prettamente
correlata alle funzioni comunicative. Le teorie funzionaliste non sono modulari, nel senso che non prevedono
che ci sia un modulo nella nostra testa dedicato alla lingua, piuttosto prevedono che le funzioni linguistiche
sono “mischiate” a tutte le altre funzioni celebrali. In altro modo, la realizzazione delle forme linguistiche è
vista in relazione a ciò che si intende dire, al tipo di comunicazione che io devo portare avanti.
Per esempio, l’enunciato “Io acqua” prodotto da un bambino, dalle teorie formaliste sarebbe analizzato come
un sintagma nominale con mancanza di sintagma verbale, quindi descrizione della forma che si rifà a delle
categorie astratte. Al contrario, in un’ottica funzionalista, sarebbe visto come un enunciato funzionale ad un
messaggio, ad una comunicazione, quindi cosa vuole dire il bambino con “Io acqua”. L’analisi delle teorie
funzionaliste mette in primo luogo il soggetto, il topic e aggiunge qualcosa, un comment che, in questo caso,
è l’acqua. Il bambino produce un enunciato con una struttura comment-topic, una struttura formativa
determinata in maniera molto pragmatica, per raggiungere un obiettivo specifico che è quello di ricevere
l’acqua.
All’interno delle teorie funzionaliste, il rapporto forma-funzione è assolutamente centrale. In tutte le lingue,
il rapporto forma-funzione non è mai unico, cioè non è mai sola funzione perché solitamente ci sono più
forme per realizzare una sola funzione comunicativa così come possono esserci più funzioni comunicative
realizzate attraverso una stessa forma. Quindi, in “Amelia ha sbucciato le mele” e “Le mele sono state
sbucciate da Amelia”, la funzione comunicativa è assolutamente la stessa, ma le forme sono diverse, quindi
ho due forme per trasmettere la stessa funzione. Nello studio di relazione forma-funzione ci possono essere
due direzione d’analisi, cioè posso partire dalle forme per capire quale funzione veicolano oppure posso
partire dalla funzione e capire in quali forme può essere veicolata quella stessa funzione. Fin ora abbiamo
ragionato solo sulle teorie funzionaliste riguardanti la lingua madre.
Cosa avviene in una lingua seconda? L’apprendimento di una lingua ha motivo di essere nelle circostanze del
suo uso dell’interazione comunicativa. Nella prospettiva funzionalista, l’apprendimento di una lingua non è
semplicemente un apprendimento di regole, ma la lingua viene appresa per cercare di veicolare sempre un
numero maggiore di funzioni comunicative anche attraverso una lingua seconda e una lingua straniera.
Quindi l’apprendimento di una lingua si sostanzia nelle circostanze del suo uso all’interno dell’interazione
comunicativa. Secondo le teorie funzionaliste, appunto, man mano che io apprendo una lingua seconda o una
lingua straniera continuo sempre di più a scoprire quali sono i rapporti tra forma e funzioni all’interno della
lingua straniera. Ciò significa che ci sono forme diverse che si complicano sempre di più nel processo di
apprendimento linguistico, e nell’apprendente sono sempre più chiari quali sono i vari rapporti tra forma e
funzione con l’avanzare del processo di apprendimento linguistico.
Gli approcci funzionalisti vedono l’apprendimento linguistico come collegato all’uso che della lingua si fa
nell’interazione comunicativa. Le tecniche didattiche che traducono le teorie funzionaliste, sono quelle di
stampo comunicativo, si parla proprio di approccio comunicativo il quale punta non solo sullo sviluppo della
grammatica, piuttosto si propongono dei sillabi, cioè una sorta di corsi si lingua che puntano allo sviluppo di
alcune funzioni comunicative. Il sillabo è la sequenza dei contenuti che si propongono durante un corso di
lingua, e l’indice di un manuale ci può dare l’idea di quale sia il sillabo a cui quel manuale sta facendo
riferimento. Esistono vari tipi di sillabi, come il sillabo formale che fa riferimento alle categorie astratte,
quindi focus sulle categorie grammaticali; vi sono anche manuali che fanno riferimento a un sillabo
funzionale, si parte dal focus sulle funzioni comunicative. In questo tipo di manuali si utilizzano solitamente
dei materiali autentici, quindi dialoghi avvenuti dal vero, trascrizioni di interviste oppure materiali proprio
dalla vita quotidiana, come volantini, manifesti pubblicitari attraverso cui l’apprendente può essere esposto al
di fuori della classe.

MODELLO DELLA COMPETIZIONE


Nella corrente funzionalista c’è il Modello della Competizione da prendere in considerazione: questo non è
difficile da capire ma è fondamentale sapere che può essere una domanda dell’esame. Il modello della
competizione è un modello allo stesso tempo funzionalista e cognitivista. È cognitivista perché, in generale,
queste teorie cognitiviste sono quelle che riflettono la cognizione sulla nostra mente, sui processi mentali di
elaborazione delle informazioni; in questo modello si tenta di capire proprio in che modo un autore, un
lettore, qualcuno che riceve un imput in una lingua straniera elabori l’informazione e cerchi in essi la forma-
funzione all’interno di un testo. In parole povere, in che modo la ricerca di queste relazioni tra forme
grammaticali e funzioni comunicative lavori nella nostra mente di un lettore o di un ascoltatore, qualcuno che
riceve un imput in L2.
Il Modello della competizione risale alla fine del ‘900, alla fine degli anni ’80 del ‘900 ad opera di
MacWhinney e Bates. L’ascoltatore/parlante, per determinare la funzione degli elementi della frase, fa uso di
indizi formali. Questo significa che l’ascoltatore/lettore/parlante che legge un testo in L2, per capire quali
sono le relazioni e le funzioni degli elementi della frase, fa delle ipotesi basandosi su degli indizi formali. Per
capirla meglio, il volume di Bettoni fa un esempio sull’agentività. È importante capire che il Modello della
competizione non parla dell’agentività, ma parla di quello che è stato detto precedentemente. L’agentività è
usata per dare un esempio, non parla solo di questo. Si vedrà l’esempio.
Es. agentività
 ordine delle parole
 accordo
 caso
 animatezza
Io lascio Venezia domani in aereo
gli indizi collaborano
Domani in aereo per Venezia parto io
L’aereo domani mi porta a Venezia
*Domani in aereo per Venezia partono io
gli indizi sono in competizione
L’agentività è il ruolo di agente all’interno di una frase, mentre il ruolo stesso è una funzione comunicativa:
l’agente è colui o colei che compie l’azione. L’agentività può essere espressa tramite strumenti formali,
attraverso cui esprimere la funzione stessa dell’agentività; questi strumenti formali si trasformano in indizi
formali per l’ascoltatore. Questi indizi sono: l’ordine delle parole, l’accordo, il caso, l’animatezza. Possono
essere quattro indizi che servono a individuare in una frase chi è l’agente, chi compie l’azione. Si
propongono esempi in italiano.
Io lascio Venezia domani in aereo-> l’agente è “io”.
Quali indizi formali ci sono qui? L’ordine delle parole, perché “io” è in prima posizione e quindi l’agente è
in prima posizione. Poi, l’accordo perché “io” è accordato con “lascio” che è l’azione principale. Poi, il caso
perché non c’è scritto “me”, ma “io” e infatti i pronomi sono quei pochi elementi all’interno della lingua
italiana che hanno i casi, anche se in generale non li chiamiamo così. Poi, l’animatezza perché “io” è un
agente animato, una persona. In questo esempio tutti e quattro gli indizi formali collaborano, affinché chi
legge questa frase possa individuare la funzione della frase. Però, nella stragrande maggioranza dei casi, gli
indizi non collaborano ma sono in competizione ed è proprio il motivo per cui il Modello della competizione
si chiama così: se all’esame sorge la domanda “Chi è in competizione in questo modello?” la risposta dovrà
essere “Sono in competizione gli indizi formali che un ascoltatore/lettore usa per individuare le funzioni
all’interno della frase, come ad esempio l’agentività, ma non solo”.
In questi esempi gli indizi sono in competizione:
Domani in aereo per Venezia parto io-> l’indizio che viene a mancare è l’ordine delle parole, gli altri tre ci
sono ancora. Per un nativo non è un problema nell’individuazione.
L’aereo domani mi porta a Venezia -> l’agente non è “l’aereo”, ma sempre “io” quindi bisogna pensare che
chi si muove sia “io”, il soggetto parlante. Però la forma linguistica è diversa e gli indizi sono strani, perché
in prima posizione abbiamo l’aereo, inanimato, poi il “mi” è in un caso diverso dal soggetto e quindi gli
indizi sono in competizione. In questo caso l’indizio che prevale è l’animatezza, perché l’agente può essere
solo animato.
*Domani in aereo per Venezia partono io-> c’è l’asterisco perché non è corretta grammaticalmente, non si
capisce chi parta, cioè se “io” parto e quindi c’è errore nella forma verbale oppure nel pronome. La mancanza
dell’accordo porta fuori strada e non si può individuare l’agente.
Nella lingua italiana, per l’individuazione dell’agentività, l’indizio più forte è l’accordo, perché quando viene
meno, viene meno tutta la costruzione della frase. In inglese, l’indizio più forte è l’ordine delle parole perché
l’inglese vuole sempre il soggetto espresso e all’inizio della frase. Bisogna analizzare questi indizi in inglese:
1) Andrew is leaving Palermo by plane tomorrow
In questo caso, Andrew è l’agente.
2) *Is leaving Palermo by plane tomorrow Andrew
Questo è lo stesso spostamento che abbiamo visto in italiano. In questo caso in inglese non funziona, già
porta ad una frase sgrammaticata.
3) *Leave Palermo by plane tomorrow we
Stesso discorso della seconda frase.
Es. agentività
ordine delle parole – indizio più forte in inglese
 accordo
 caso
 animatezza
Andrew is leaving Palermo by plane tomorrow
*Is leaving Palermo by plane tomorrow Andrew
*Leave Palermo by plane tomorrow we
Quindi, l’ordine delle parole è sicuramente l’indizio più forte in inglese. E in tedesco? Qual è l’indizio più
forte?
Es. agentività
 ordine delle parole
 accordo
 caso – indizio più forte in tedesco
 animatezza
L’indizio più forte in tedesco è il caso.
Es. agentività
 ordine delle parole
 accordo
 caso
 animatezza – indizio più forte in giapponese
In giapponese, ad esempio, è l’animatezza ad essere l’indizio più forte.
Questo significa che nella lingua materna solitamente non è che si ragiona su tutte queste cose, ma si ha
assimilato la forza di questi indizi formali. Quando invece si sta apprendendo una lingua straniera, o una
lingua seconda, piano piano si resetta tutta questa questione degli indizi e la si riconsidera, si riapprende sulla
base di come funziona la lingua straniera, o lingua seconda, che si stia apprendendo.
 La forza di un indizio dipende dalle seguenti proprietà:
 Affidabilità – regolarità di relazione forma-funzione
 Disponibilità – frequenza nell’input
 Validità nel conflitto – n. di volte in cui vince/n. di confitti
 Modello di natura probabilistica, costruito a partire dai dati
Da che cosa dipende quale sia l’indizio più forte in una lingua? Da che cosa dipende la forza di un indizio?
Dipende da queste proprietà:
1) la sua affidabilità, quindi dalla regolarità di relazione forma-funzione, cioè con quale regolarità una data
forma è associata ad una data funzione;
2) la disponibilità, cioè quante volte è frequente negli input;
3) la validità nel conflitto, quindi ritorna la questione della competizione, cioè il numero di volte in cui un
dato indizio si trova in conflitto con un altro indizio e quel dato indizio vince.
Tutto questo sembra molto astratto, non è che quando si apprende una lingua straniera, o una lingua seconda,
ci si mette a calcolare la forza degli indizi, o a vedere quante volte appare in relazione alla funzione, o quanto
sia frequente quella forma nell’input. Lo si fa in realtà a livello inconsapevole, a livello inconscio secondo
questa teoria. È così quindi che funzionano i nostri meccanismi di elaborazione della lingua seconda o della
lingua straniera. Inconsciamente, il nostro sistema cognitivo individua la forza dei diversi indizi man mano
che il livello dell’interlingua si sviluppa e consolida gli indizi più forti.
Questo modello è di natura probabilistica, cioè che ragiona su queste probabilità, sulle percentuali di
validità, disponibilità e affidabilità, ed è costruito su dati; quindi, è un modello empirista che si fonda su dati
empirici. Il lato negativo di questo modello è che si concentra molto sull’elaborazione cognitiva, quindi sulla
ricezione, e non considera affatto la produzione in lingua seconda, o in lingua straniera.
È compito dell’apprendente scoprire la forza degli indizi nella L2
 Metodologia degli studi: es. di comprensione
 Es. I bambini baciano la mamma
La mamma baciano i bambini
Il bambino bacia la mamma
I bambini baciate la mamma
Il modello della competizione dice quindi che il compito dell’apprendente è scoprire pian piano la forza degli
indizi nella lingua seconda: si resettano gli indizi formali nella propria lingua materna su quelli della lingua
seconda. Come si studia a quale indizio dare più peso? Proponendo una serie di casi e chiedendo, ad
esempio, chi è l’agente all’interno di questa frase? Di conseguenza, si va a notare quali indizi siano stati più
usati da una data popolazione, o un gruppo di parlanti. Per esempio:
1) I bambini baciano la mamma.
L’agente qui è “I bambini”.
2) La mamma baciano i bambini.
“I bambini” è sempre l’agente perché c’è l’accordo. Se fosse stata utilizzata la lingua inglese la risposta
sarebbe cambiata, ma dato che in italiano l’indizio più forte è quello dell’accordo, si rimane dell’opinione
che “i bambini” sia l’agente.
3) Il bambino bacia la mamma.
“Il bambino” è l’agente, perché si associano due indizi: non solo l’accordo, ma anche l’ordine delle parole. I
due indizi collaborano.
4) I bambini baciate la mamma.
Sono in competizione, non c’è l’accordo, di conseguenza è ambigua la frase.

1. Come si gestiscono gli indizi in una lingua seconda o straniera. Tra i vari studi è citato quello di
(Kilborn 1987)
che riflette sull’ordine delle parole sull’ordine delle parole e l’agentività tra tedeschi (con inglese L2) e
inglesi.
- Nei primi stadi dell’apprendimento, I TEDESCHI trasferisco gli indizi che sono più forti della lingua
materna anche nella lingua seconda o nella lingua straniera: TRASFERIMENTO DIRETTO DEI MODELLI
DELLA L1).
- Maggiore è il livello di competenza (e l’esposizione all’input), più la forza assegnata agli indizi si avvicina
ai modelli del parlante nativo (ORDINE DELLE PAROLE)

2. Un altro studio sul trasferimento delle strategie è uno studio sul giapponese e inglese, sempre di
Kilborn.
Questo studio arriva a un risultato un po’ diverso perché si evidenzia un trasferimento indiretto. Succede
che trasferiscono solo la strategia dell’ordine della parole in giapponese però utilizzano l’ordine delle parole
previsto nella lingua giapponese. In questo caso è un trasferimento indiretto soltanto della strategia che però
si adegua all’ordine delle parole standard, quello tipologicamente normale, non marcato della lingua
giapponese.
Un altro studio era sui sordi e su quale fosse l’indizio per l’agentività più forte nella lingua dei segni. La
lingua dei segni è usata dai sordi per comunicare e non sono dei gesti ma è una vera è propria lingua e non un
linguaggio. Ci sono diversi parametri come noi abbiamo il parametro del tempo, del modo verbale o della
diatesi attiva e passiva, loro hanno parametri diversi come la direzione, la posizione delle mani davanti al
parlante, la forma che assume la mano e la direzione del gesto. In uno studio, si metteva in relazione l’indizio
più forte nella lingua dei segni che è l’ordine delle parole e nell’italiano verbale e si andava a vedere che cosa
accadesse quando dei sordi si trovano a decifrare delle frasi in italiano scritto. Molti di quelli che utilizzano
la lingua dei segni, trasferiscono l’ordine delle parole come indizio più forte.
Questa è un po’ una conclusione su tutto il funzionalismo.
-Punti di forza: ancoraggio della lingua al mondo reale ( facendo una valutazione delle teorie funzionaliste,
la Bettoni ci dice quali sono i punti di forza delle teorie funzionaliste, il fatto che con le teorie funzionaliste
cercano di ancorare la lingua al mondo reale, quindi alla comunicazione concreta, all’uso che si fa della
lingua).
-studio dell’interlingua come sistema (la Bettoni ci dice anche che nello studiare come anche si evolvano le
funzioni comunicative nel percorso dell’apprendimento, si studia l’interlingua come un sistema in
evoluzione).
-Punti deboli: necessità di validazione dalla psicolinguistica (?). (Nei punti deboli, la Bettoni individua il
fatto che tutte queste teorie necessitano di una valutazione da parte della psicolinguistica e che ci sia molto
bisogno di capire come funzionano davvero i meccanismi al livello psicologico della mente umana per capire
come funziona questa elaborazione e questa individuazione dei rapporti forma-funzione. Il modello Della
competizione è cognitivista e tenta di mettere insieme questo aspetto Linguistico e l’aspetto più cognitivo e
psicologico, però la Bettoni ci dice che sarebbe necessaria un ulteriore valutazione psicolinguistica e quindi
in questo vede un punto di debolezza delle teorie funzionaliste).

L’INTERAZIONISMO
Parlammo dell’input, la negoziazione(l’interazione) è sempre la strategia più efficace per promuovere la
comprensione dell’input da parte dell’apprendente e quindi anche lo sviluppo della sua interlingua.
Le teorie dell’interazionismo si basano sul fatto che l’apprendimento avvenga soprattutto attraverso
l’interazione; quindi, il focus dell’interazionismo è proprio sull’interazione sociale.
- È un approccio teorico, empirista e data driven. (Si basa sui dati, punta sul ruolo dell’input che serve
moltissimo nell’interazione per l’apprendimento Linguistico. È un approccio molto concreto perché è basato
su dei dati raccolti, su raccolte molto grandi di dati di carattere interattivo.
- E’ un tipo di funzionalismo sociale: cioè quelle teorie del funzionalismo che hanno radici del
funzionalismo e quindi nell’approccio comunicativo, ma non sulla comunicazione in astratto ma proprio
nell’interazione, nel dialogo, nella conversazione.)
- Differenze con il funzionalismo:
-Transition theory: rispetto al funzionalismo ha il pregio di essere una transition theory e cioè focalizzarsi
proprio sui processi di evoluzione dell’interlingua, su come l’interazione produca apprendimento, quindi,
determini i passaggi da uno stadio all’altro dell’interlingua, per questo “transition”.

- Un’altra differenza sta nel fatto che l’interazionismo si è molto occupato delle applicazioni didattiche,
mentre il funzionalismo ben poco.

Il ruolo dell’ambiente linguistico per la Grammatica Universale:


l’input non è sufficiente per l’apprendimento della L2, mentre per l’interazionismo, l’input è sufficiente e
causa l’apprendimento. Tra le numerose variabili ambientali, l’interazionismo privilegia l’input interattivo,
quello della conversazione quando apprendente e interlocutore insieme ne negoziano i contenuti.

Le teorie interazioniste provengono o comunque si sono sviluppate sulla didattica basata sui task. Task in
inglese significa “compito” però la didattica basata sui task non è solamente la didattica basata sui compiti
come la intendiamo noi. Una didattica basata sull’uso dei task prevede la proposta di compiti che sono
extralinguistici, non sono il tema o l’esercizio a cui siamo abituati in una classe di lingua, ma compiti che
vanno oltre la sola lingua e che prevedono delle azioni vere, delle azioni sociali. Questo tipo di didattica
prevede, ad esempio, che in classe si proponga come attività quella di organizzare il viaggio di istruzione
quindi ad un gruppo di ragazzi viene dato il compito di organizzare il viaggio di istruzione in Spagna, come
in un corso di lingua spagnola. Questi ragazzi dovranno utilizzare la lingua spagnola per prenotare le camere
e cercare gli alberghi, dovranno usare la lingua spagnola ma non con una finalità prettamente linguistica, ma
per svolgere un compito extralinguistico. L’uso dei task non è solo una proposta di compiti del genere, ma è
un tipo di didattica molto strutturata per cui alla fine si arriva sempre ad una riflessione linguistica passando
dallo svolgimento di questi compiti di natura molto completa, di natura pratica che promuovono il “learning
by doing” cioè l’apprendimento attraverso il fare o compiere azioni di varia natura. Queste teorie su cui si
basano l’insegnamento delle lingue sulla base dei task sono soprattutto utilizzate da uno studioso importante
che si chiama “Rod Ellis”. I task, però, vengono utilizzati anche nella ricerca, cioè per raccogliere dei
campioni o degli esempi; ricordiamo che l’interazionismo si basa sui dati, da dove vengono questi dati?
Dall’utilizzo di task nella ricerca per raccogliere esempi, registrazioni di parlato interattivo e vedere cosa
succede in queste interazioni solitamente tra parlante nativo e parlante straniero.
Abbiamo un altro esempio di task , il “map task” quindi un task basato su una mappa, molto utilizzato per
raccogliere interazioni; una mappa dove ci sono vari punti di riferimento e l’altro partecipante ha una mappa
senza percorso per cui lo scopo è quello di dare delle indicazioni per fare in modo che il tuo compagno tracci
lo stesso percorso che hai tu sulla sua mappa. Le teorie interazioniste hanno uno sbocco, una traduzione
nella didattica che si basa molto sulle interazioni e il ruolo delle interazioni come ruolo principale è un fattore
importantissimo nell’apprendimento linguistico e il risvolto nella didattica più palesemente basato
sull’interazione comunicativa è proprio questa didattica basata sui task comunicativi ovvero task di natura
non linguistica, ma che prevedono l’uso della lingua nelle comunicazioni reali. Secondo appunto le teorie
interazioniste l’uso della lingua nelle interazioni reali favorisce la comprensione dell’input e quindi
l’apprendimento linguistico. L’interazionismo dal punto di vista della ricerca si traduce in ricerche che
utilizzano i task anche in questo caso per raccogliere parlato soprattutto interattivo ed emotivo (map task o
card task).

(Ipotesi Interazionista – Long, 1996)

- La negoziazione del significato facilita l’apprendimento della L2: perché questa negoziazione fa in modo
che io apprendente possa testare il mio output, quindi, possa riformulare la frase che ho sbagliato o che non
ho capito testandola con un parlante nativo in quel momento stesso

COGNITIVISMO
Come il funzionalismo, anche il cognitivismo non è una singola teoria ma è piuttosto un approccio, un
aspetto di diverse teorie. Tant’è vero che quando si è parlato del Modello della Competizione, si è detto che il
Modello della Competizione è un modello funzionalista ma anche cognitivista perché il Modello della
Competizione si concentra sui nessi forma-funzione ma si concentra sul modo in cui l’apprendente elabora
da un punto di vista cognitivo l’informazione linguistica.
Che differenza c’è tra il cognitivismo e la neurolinguistica? La neurolinguistica studia il rapporto tra
l’elaborazione del linguaggio e la mente umana proprio da un punto di vista neurologico e quindi si basano
su dei dati medici e molto fisiologici che riguardano l’attivazione neuronale e quindi il lavoro dei nostri
neuroni all’interno del cervello nel momento in cui affrontiamo dei compiti linguistici.
Invece, le teorie cognitiviste fanno delle ipotesi sul funzionamento della mente umana e non vanno ad
osservare l’attivazione neuronale o come funzionano i neuroni nella mente umana ma lavorano queste teorie
su delle ipotesi avvalorate naturalmente su dei dati. Addirittura il generativismo può essere definito una
teoria cognitivista perché il generativismo prevede un LED, un dispositivo di acquisizione linguistica
all’interno del cervello umano, prevede una facoltà del linguaggio che è innata nel cervello umano. Quindi
nel parlare di cervello e di funzionamento del nostro cervello anche il generativismo è definito da qualcuno
una teoria cognitivista. Però il generativismo è una teoria che descrive come è fatto il cervello, dice che ci
sono delle regole una Grammatica Universale ma va poco a concentrarsi sui processi di elaborazione
linguistica e come avviene l’effettiva esecuzione linguistica. Da questo punto di vista non si focalizza
sull’elaborazione, quindi da alcuni non è ritenuta del tutto cognitivista. Mentre il funzionalismo sì. In alcuni
casi può essere associato anche alle teorie cognitiviste come nel caso del Modello della Competizione.
Quindi il cognitivismo è un approccio trasversale che può incontrarsi con tutte le altre teorie viste, con il
funzionalismo, con il generativismo in parte, con l’interazionismo anche appunto perché le teorie
interazioniste cercano di capire in che modo l’apprendente nell’interazione elabori l’informazione linguistica.
Il cognitivismo quindi è una teoria della transizione (transition theory) nel senso che il focus è sui processi di
apprendimento di elaborazione linguistica, quello che in inglese viene detto processing, cioè il modo di
processare l’informazione. Come si conducono gli studi di carattere cognitivista? Una metodologia
sperimentale della linguistica cognitiva è quello di proporre degli stimoli, dei task da svolgere e vedere qual è
la risposta cognitiva a questi stimoli.
Ma ci sono anche degli studi che partono dai dati. Per esempio, un dato interessante riguarda i c.d. lapsus
cioè quando viene in mente una parola invece che un’altra.
Nello studio dei lapsus, vediamo 2 esempi presi da uno studio di Bock & Levelt (infatti il Modello di Levelt
è psicolinguistico). Bock e Levelt propongono questo studio sui lapsus.
- Invece di usare la parola ‘califlower’ (cavolfiore) si usa la parola broccoli. E’ un lapsus possibile.
Che cosa ci dicono queste informazioni sui lapsus? Innanzitutto ci dicono che nella nostra testa le parole
sono organizzate in diversi cassetti, come se fossero diverse scatole, per classi di parole. Sicuramente non ci
può essere un lapsus che riguarda il cambio di categoria, il cambio di classe di parole cioè non si passa da un
aggettivo a un sostantivo o da un sostantivo a un verbo.

TEORIA DELLA PROCESSABILITÀ (Pienneman 1998)


La teoria della processabilità è una teoria psicolinguistica in cui rientra il cognitivismo, quindi è anche una
teoria cognitivista. E' una delle teorie che nascono già come teorie delle lingue seconde. In questa teoria si
cerca di spiegare le sequenze di sviluppo delle abilità procedurali, cioè la processabilità, dall'inglese,
processare, elaborare le informazioni linguistiche. Le abilità procedurali sono quelle con cui elaboriamo e
produciamo la lingua, le quali permettono le sequenze dell'interlingua. Si sviluppano in un processo di
apprendimento, che altro non è che un processo di automatizzazione delle operazioni linguistiche. Nello
sviluppo dell'interlingua tutte le operazioni linguistiche all'inizio sono molto macchinose e lento, richiedendo
sforzo e impegno da parte dell'apprendente, man mano che l'interlingua si sviluppa tutte queste operazioni
mentali che riguardano le produzioni in lingua seconda o lingua straniera diventano più facili e automatiche.
Nella teoria della processabilità ci si concentra su tre fonti principali. Per rispondere a questa domanda, la
teoria della processabilità usa da un lato i dati del progetto ZISA come già anticipato, ossia dei dati che ci
danno una sequenza di stadi; utilizza un apparato teorico, ossia il modello di Levelt; una descrizione
grammaticale, la grammatica lessico-funzionale, un modo di spiegare le regole linguistiche. Nella parte
centrale del modello del parlato c'è il formulatore, dove avviene la codifica grammaticale - se n'è parlato nel
modello di Levelt - e la codifica fonologica, cioè quella superficiale.. Viene posto in primo piano il ruolo
della memoria e lo scambio dell'informazione lessicale. Vengono individuate nella teoria della
processabilità cinque procedure di codifica grammaticale. Se è avvenuta l'ultima procedura vorrà dire che
sono state implicate tutte le altre. Le procedure sono: accesso lessicale, cioè la prima procedura che si mette
in atto nell'apprendimento linguistico è semplicemente la scelta della parola. Accesso lessicale vuol dire
avere accesso ad una parola o trovare una parola. E' la prima cosa che deve avvenire perchè ci sia una
formulazione linguistica. Se si chiede un libro in biblioteca, per esempio, servirà la parola libro . La
procedura categoriale, per cui a quella parola si assegna una categoria, una classe di parola. Si è detto che
nell'interlingua vi sono le cosiddette forme basiche che all'inizio non sempre fanno capire se sono verbi nomi
o "aia lavora" laddove lavora non si sa se è "Ho lavorato" , "Ho un lavoro , dunque non si capisce se è un
sostantivo o un verbo. Non si riesce a categorizzare le parole in quanto classe morfologica. La seconda
procedura che avviene è l'individuazione della parola e la categoria. Si chiarisce così nella mente
dell'apprendente se quella parola è un verbo, un nome o un aggettivo. Man mano che si ampliano i legami
grammaticali, avviene uno scambio dell'informazione grammaticale fra elementi prima vicinissimi e poi man
mano più distanti. procedura sintagmatica. Significa riuscire a scambiare l'informazione grammaticale, a fare
in modo che ci siano delle relazioni grammaticali all'interno di un solo sintagma, per cui nell'enunciato breve
o nel sintagma" Il libro " c'è una relazione grammaticale, perchè si accorda l'articolo con il sostantivo
maschile singolare. Nel sintagma "Il mio amico" si avrà la stessa relazione tra tre elementi. All'inizio si riesce
a produrre dei sintagmi in cui ci sono delle relazioni grammaticali, man mano queste relazioni si ampliano
sempre di più, per cui la successiva procedura è: procedura frasale, nella quale avviene lo scambio di
informazione tra sintagmi "Il libro preso" vorrà dire "Ho preso il libro". Anche in questa frase non del tutto
grammaticale esiste una procedura frasale, perchè vi è già uno scambio di informazione grammaticale tra il
sintagma nominale Il libro e il sintagma verbale preso , perchè preso è accordato nel genere e nel numero con
libro. Successivamente lo scambio di informazione grammaticale si amplierà ancora di più fino ad arrivare
alle proposizioni subordinate "Ho preso il libro perchè mi serviva". ( Cosa mi serviva? Il libro. ) Questo
scambio di informazione tra la proposizioni subordinata e la principale è uno scambio di informazione che
richiede un certo impegno e competenza delle lingue seconda.
Rispetto all'afasia riguarda proprio queste procedure qui. Quando si ha, per esempio, a causa di un incidente
o a causa di un danneggiamento per altri motivi si ha nella parte del cervello una perdita delle funzioni
linguistiche, queste ultime non si perdono a caso, ma si perdono nell'ordine inverso. Si perde prima la
procedura della proposizione subordinata, poi la procedura frasale, poi quella sintagmatica e pian piano si
recuperano nello stesso identico ordine. Non si perdono in maniera caotica, ma si va a ritroso rispetto a
questa sequenza. Per esempio, dei vecchietti che riescono ancora a produrre dei sintagmi " la pasticca" ma
non riescono a produrre delle frasi. Ciò significa che sono fermi in questo momento nella procedura
sintagmatica e bisognerebbe lavorare per raggiungere la procedura frasale. L'acquisizione delle procedure
dell'elaborazione linguistica segue la sequenza implicazionale con cui vengono attivate nella produzione del
parlato. Queste procedure che si sviluppano una dopo l'altra nell'apprendimento linguistico sono le stesse
procedure che si mettono in atto ogni volta che si parla. Questo accade quando si produce nella mente
qualcosa nella propria lingua madre o in una lingua seconda o straniera. Ovviamente nella lingua materna la
procedura è velocissima e automatica. Nelle lingue straniere o seconde all'inizio è molto più lenta e faticosa,
diventando poi sempre più semplice. Secondo la teoria della processablità tutta questa sequenza di procedure
è quella che si attua ogni volta che si produce lingua. In questa stessa sequenza le procedure vengono
apprese. Nell'accesso al lemma lo scambio dell'informazione non c'è, perchè è una sola parola. Nella
procedura categoriale non c'è scambio di informazione perchè si hanno più informazioni sulla parola ( si sa
se quella parola è un sostantivo, verbo o aggettivo) ma non vi è lo scambio con alcun elemento. Nella
procedura sintagmatica c'è uno scambio di informazione tra la testa e i costituenti del sintagma "Il libro".
Nella procedura frasale tra le teste dei sintagmi "Il libro è arrivato" . Nella procedura della proposizione
subordinata tra le proposizioni. Man mano questo scambio di informazione si allarga dal sintagma alla
proposizione subordinata. La teoria della processabilità è stata prestata anche sull'italiano da Di Biase.
Per esempio, al primo stadio dell'accesso lessicale si possono trovare frasi come "Ciao sono Wendy". Al
secondo stadio della procedura categoriale "Io voglio studiata musica". Al terzo stadio della procedura
sintagmatica "Molto...molte donne e alcuni uomini" , "tre sono più grandi" " è difficile in Australia perchè
noi parliamo inglese". Nel caso di "Ciao sono Wendy", cioè il primo stadio, all'inizio le formule non sono
analizzate - come già detto tante volte- , i costituenti sono singoli. In questo caso non c'è alcuna informazione
tra i costituenti ma è una formula memorizzata. Al secondo stadio "Io voglio studiata musica" l'uso
dell'informazione è locale, non c'è un passaggio di informazione, nemmeno all'interno del sintagma nominale
tra il nome e il suo determinante. " Io voglio studiata musica / volere studiare musica" a questo stadio emerge
la flessione temporale del verbo con la distinzione minima tra passato e passato. Studiata è la prima forma di
participio passato che emerge. Dunque in questo caso "Io voglio studiata musica" c'è un accenno alla forma
del passato ma emerge un'assenza di scambio grammaticale tra voglio e studiata. Secondo di Biasi dovrebbe
essere "Io volevo studiare". al terzo stadio c'è uno scambio di informazione all'interno del sintagma. Infatti
"molte donne" e "molti uomini" "sono grandi" sono accordati generando così uno scambio all'interno del
sintagma. "noi parliamo inglese " vi è uno scambio all'interno del sintagma verbale. Al terzo stadio lo
scambio avviene tra la testa del sintagma e gli altri costituenti ma non ancora al di fuori. Così "molto...molte
donne e molti uomini" i nomi e i loro determinanti si scambiano le informazioni di numero e genere
all'interno del sintagma nominale. La copula e l'aggettivo si scambiano quelle del numero nel sintagma
verbale. In italiano la morfologia personale del verbo emerge al terzo stadio, cioè in realtà nella lingua
italiana Di Biase evidenzia che già al terzo stadio, dove vi è la procedura sintagmatica, nella lingua italiana
avviene già come se fosse uno scambio tra sintagmi con l'accordo tra soggetto e verbo, come nel caso di "Noi
parliamo", c'è uno scambio tra i sintagmi perchè c'è il Noi sintagma nominale e il sintagma verbale parliamo.
Però la spiegazione sta nel fatto che l'italiano è una lingua pro-drop in cui il soggetto pronominale non è
obbligatorio. Ciò significa che essendo una lingua pro-drop in cui il soggetto può non esserci, in realtà
l'informazione sul soggetto è già dentro il sintagma verbale. Quindi non c'è un vero e proprio scambio di
informazioni o almeno non è della stessa natura rispetto alle lingue come l'inglese in cui dovendoci essere per
forza un soggetto, lo scambio di informazioni è più evidente. In questo caso, nelle lingue pro-drop in cui
l'informazione sul soggetto è già nella flessione del verbo, è come se lo scambio dell'informazione attenda in
loco all'interno della flessione del verbo, rimanendo così nel sintagma verbale. In tal senso, l'accordo tra
soggetto e verbo è osservabile anche al terzo stadio, soprattutto con i soggetti pronominali come Noi, Io i
quali possono essere anche annullati poichè impliciti all'interno del verbo. Nelle lingue pro-drop la marca è
un tratto lessicale del verbo, quindi il significato della persona è già presente all'interno della flessione
verbale. La teoria della processabilità è interessante perchè tiene conto delle possibilità che ha l'apprendente
nel momento in cui sta apprendendo, cioè nel cosiddetto spazio di variazione o spazio delle ipotesi. Lo spazio
delle ipotesi riguarda le opzioni formali, strutturali che l'apprendente ha a disposizione ad ogni stadio
dell'interlingua. Quindi un inglese per esprimere una frase come "Where is she going?" un apprendente
potrebbe utilizzare i seguenti enunciati "Where she going?", "Where is going?" "Where she is going?" "She
is going where?" . L'utilizzo di una forma piuttosto che di un 'altra forma è dovuto alla competenza
dell'apprendente, ma anche da una serie di scelte che compie l'apprendente. Ci sono tanti casi in cui
l'apprendente non è sicuro di una forma e può scegliere di evitarla. In passato, per esempio, non ricordava
come si dicesse in inglese "iscriversi ad un corso" per cui evitava di dirlo, utilizzando una forma più
analitica, ossia strategia analitica. L'opzione dell'evitamento non porta ad un vero apprendimento. E' ciò che
può accadere nel caso in cui un apprendente in maniera più o meno consapevole evita di utilizzare una data
forma perchè non sicuro si saperla utilizzare. L'opzione dell'evitamento o del non uso fa in modo tale che
l'apprendimento rispetto a quella forma si fermi, non va avanti. Se non si usa mai il periodo ipotetico in
inglese o non provo mai ad utilizzarlo, non si svilupperà mai come competenza l'utilizzo del periodo
ipotetico. All'interno dello spazio delle ipotesi che ha a che vedere con le diverse opzioni che l'apprendente
ha nel momento in cui deve produrre un enunciato, c'è anche una forma di evitamento totale o parziale di una
forma. Questa forma porta al fenomeno della fossilizzazione, il quale subentra quando l 'apprendente tra le
variabili di cui dispone lo portano in un vicolo cielo strutturale, facendo sì che la sua interlingua non si
evolva. Per esempio l'evitamento o l'omissione di una data forma è una scelta tra le varie opzioni di cui
dispone che porta alla fossilizzazione, cioè al non progredire in quella determinata struttura e di tutte quelle
ad essa associate. La fossilizzazione è spiegata all'interno della teoria della processabilità come una
conseguenza delle scelte che può compiere un apprendente. Quindi, tra le varie scelte strutturali c'è anche
quella dell'omissione o dell'evitamento, e questa scelta, secondo la teoria della processabilità porterebbe alla
fossilizzazione. Nell'osservare i dati del progetto ZISA Pienenmann, ossia colui che ha elaborato la teoria
della processabilità ha osservato che tutti i soggetti che non progrediscono usano una varietà della L2 molto
semplificate, ricca di omissioni. Più si evita di sperimentare forme complesse nella lingua straniera o seconda
che si apprende, più questo non favorirà il processo di apprendimento. Secondo la teoria della processabilità,
l'insegnamento non può alterare le sequenze di sviluppo ordinate implicazionalmente, per cui si ricollega
all'ipotesi dell'insegnabilità. L'insegnamento della grammatica può influire sulla velocità dei passaggi, cioè
da una procedura all'altra, insistere sulle regole di accuratezza formale, quindi insegnare le strutture formali
può essere utile per favorire l'accuratezza formale, ma soprattutto l'insegnamento può essere utile per
prevenire o sbloccare i fenomeni della fossilizzazione. Per esempio, un percorso guidato in classe può essere
utile per mettersi in gioco, per provare a far evolvere un'interlingua basica. In un contesto in cui
l'apprendimento è spontaneo invece, se nell'interlingua basica con delle frasi semplici e non complesse si
sopravvive all'interno del contesto di L2, ci si può fermare, facendo sì che la lingua si fossilizzi. Molto meno
possibile invece sarà in un contesto guidato dove l'insegnante dovrebbe stimolare a rendere l'interlingua
sempre più complessa, progredendo nel processo di apprendimento. L'insegnamento dunque può prevenire o
sbloccare questi fenomeni di fossilizzazione. Vi sono stati molti casi di uomini e donne cinesi, per esempio, i
quali imparano poco la lingua italiana, forse per motivi di lavoro, senza progredire, rimanendo così dopo 10
anni con un A1. Se queste persone, ad un certo punto, entrano a far parte/rientrano in un corso di lingua,
rimettendosi in gioco, dove l'insegnante sprona a mettersi in gioco, il fenomeno di fossilizzazione si può
sbloccare. Meno probabile che accada da solo con un 'esposizione naturale, spontanea, senza apprendimento
guidato.
Conclusione: Il Modello Integrato di Gass tenta di conciliare tanti aspetti dell’apprendimento della L2
incontrati nel libro. Secondo Gass, nel tragitto dall’input all’output, vengono identificati quattro momenti:
1. Bisogna percepire il divario tra quello che si sa già e quello che dà imparare;
2. Quando l’input percepito e capito (nella comprensione) viene assimilato abbiamo la tappa successiva;
3. L’accettazione: intake
4. L’integrazione con le regole già esistenti nel sistema. Nel tragitto intervengono numerosi fattori di
mediazione: fattori di personalità, contesto ecc.
L’output rappresenta non solo il prodotto finale della conoscenza linguistica, ma è anche parte attiva
dell’intero processo di apprendimento

LINGUA E CULTURA
Il volume si apre con una storia molto carina in cui si parla di un corso di inglese nel Galles frequentato da
persone adulte provenienti dall’Italia, dal Giappone e dalla Finlandia:
Questa storia è molto verosimile che introduce una questione: quella degli stereotipi culturali, che talvolta
sono lontani dalla realtà, ma a volte sono molto giustificati poiché rispondono a delle caratteristiche culturali
di determinati popoli, determinati gruppi etnici ma anche delle caratteristiche linguistiche; nel testo, per
esempio, si tratta la questione della gentilezza dei giapponesi che è un tratto che accomuna tutti gli orientali,
infatti, si dice che sono molto gentili, accondiscendenti.
Questo tratto della gentilezza in realtà è qualcosa che riguarda proprio la pragmatica e le norme di carattere
pragma-linguistico.
Nelle culture orientali, come si vedrà nel corso di questo focus sulla pragmatica, esiste la regola della cortesia
linguistica, una cortesia accentuata soprattutto rivolta verso chi è più anziano, verso chi ha uno status sociale
più alto rispetto all’interlocutore. Questa cortesia si manifesta sia nella gestualità, nella prossemica (come
guardare negli occhi le persone per non mancare di rispetto) ma anche nella lingua, per cui si manifesta anche
in azioni lingustiche che si compiono dal punto di vista linguistico (per esempio l’atto linguistico del
complimento e la reazione a esso)
Questi aspetti ritorneranno lungo tutto il corso e quanto detto finora rappresenta solo un’introduzione. Bisogna
partire da un’altra domanda:
Quali sono gli aspetti in comune tra lingua e cultura?
Innanzitutto la non-natura. Che cosa significa? Che sebbene le lingue e le culture possano svilupparsi
spontaneamente, sia la lingua che la cultura sono degli apparati non esattamente naturali, cioè non hanno
origini naturali ma sono stati ricreati dagli uomini e quindi la lingua è cominciata con gli uomini e con i primi
sistemi di scrittura (poiché si deve pensare alla lingua nella sua totalità quindi sia nella sua forma scritta che
orale), si evolve con gli uomini, viene descritta dagli uomini cosi come l’apparato culturale.
Sono entrambi dei sistemi di conoscenza infatti la lingua serve a conoscere il mondo e la cultura è una parte di
conoscenza all’interno del globo, ma sono anche sistemi di comunicazione quindi si comunica attraverso la
lingua ma si comunica anche attraverso la cultura. Basti pensare, ad esempio, a quanto possono comunicare le
bandiere, a quanto possono comunicare i simboli sia positivi come la bandiera della pace, l bandiera
dell’arcobaleno, sia negativi come la svastica fascista.
Sia la lingua che la cultura sono pratiche cognitive-interpretative cioè delle pratiche, dei sistemi con cui
conosciamo il mondo, ma anche delle pratiche sociali-comunicative che sono delle pratiche condivise
all’interno di una società o di più comunità che servono per intessere delle relazioni di tipo sociale attraverso
la comunicazione.
Nonostante abbiano questi aspetti in comune, noi riusciamo a capire cos’è una lingua e cos’è una cultura;
La lingua possiamo definirla come la più profonda e la più alta espressione di una determinata cultura.
Spesso si sente dire che “la lingua non può prescindere dalla cultura che trasmette” e ciò si sa. Lo sanno bene
anche gli studenti di lingue perché sono abituati a lavorare sulle produzioni, perché hanno imparato delle
lingue straniere e sanno che ci sono dei termini che hanno una connotazione culturale fortissima che non
possono essere tradotti in altre lingue perché sono fortemente legati alla lingua di un determinato paese, i
cosiddetti termini intraducibili.
Si sa che da un punto di vista intuitivo ci sia un legame imprescindibile tra lingua e cultura eppure si riesce a
scindere, ad individuare che sono due sistemi diversi e che, nonostante siano cosi legati, anno una certa
indipendenza.
Che cos’è la cultura?
Descrivere la cultura è una cosa difficilissima e infatti ci hanno provato in tantissimi nel corso dei secoli a
cercare di descriverla e ognuno ha dato una definizione piuttosto parziale poiché è qualcosa di troppo grande
che non si riesce a vedere in maniera completa visto che siamo completamente immersi quindi la nostra
visione della cultura è sempre culturalmente connotata cioè è sempre filtrata dall’idea che noi abbiamo della
nostra cultura nel momento in cui noi apparteniamo ad una cultura stessa.
Nella definizione dell'antropologo inglese Edward Burnett Tylor si può leggere:
“ La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la
conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita
dall'uomo come membro di una società (Tylor [1871] )”
In questa definizione ci sono: la complessità che si evidenzia anche nella lista di cose che fanno parte della
cultura, il concetto di acquisizione che fa da specchio rispetto al fatto della non-natura cioè la cultura è
qualcosa che si acquisisce in un processo di crescita di un uomo o di una donna e che fa parte dell’uomo in
quanto membri di una società e, quindi, si riprende anche in concetto della cultura come qualcosa che lega
insieme le persone all’interno di una società.
Nel corso degli anni, ci sono state altre definizioni di cultura:
● “la cultura di una società consiste di qualunque cosa uno deve sapere 0 credere per operare in modo
accettabile ai suoi membri (Goodenough [1964])”.
Qui c’è il concetto dell’accettabilità all’interno di una società, di una comunità per cui la cultura è tutto ciò che
una persona deve sapere per far parte e agire in maniera accettabile all’interno di una comunità. Questa è una
definizione che, al giorno d’oggi, verrebbe definita poco inclusiva perché i comportamenti inaccettabili come
se venissero tagliati fuori da una determinata cultura. Tuttavia è importante perché dà modo di riflettere sul
concetto di appropriatezza, di accettabilità.
Questo concetto oggi è un po' più ambiguo ed è stato messo un po' più in discussione soprattutto nell’età
contemporanea dove tutto sembra più sfumato, i confini sembrano più sfumati. Con confini si intende quelli
culturali ma anche quelli tra i generi sessuali, identitari, percepiti, dimostrati.
● “Sistema di mediazione tra l'uomo e l'ambiente (Rossi-Landi [1973])”
Secondo Rossi-Landi tutto quello che riguarda la cultura riguarda tutto quello che l’uomo usa per interagire in
qualche modo con l’ambiente; quindi tutti gli strumenti creati dall’uomo come, per esempio, le posate (che
servono all’uomo per interagire con il cibo) sono un esempio di un prodotto culturale. Questo è un esempio
molto concreto ma sono incluse anche le cose astratte. In sostanza, quindi, sono cultura tutti quegli strumenti,
sia concreti che astratti, che permettono agli uomini di interagire con il mondo, con l’ambiente.
● “Cultura come habitus (Bordieu [1990])”
Bordieu, invece, definisce la cultura come abitudine e, quindi, come tradizione, come qualcosa che nel tempo
si stabilisce, si solidifica, diventa un’abitudine stabile e solida nel tempo.
Come si studia la cultura?
Si può studiare con un approccio comparativo cioè comparando delle culture tra di loro. Questo tipo di
approccio può essere pericoloso:
− perché c’è il pericolo della localizzazione cioè dire in “quel posto c’è quella cultura” è qualcosa di
molto superficiale perché in uno stesso posto possono convivere più culture. Ad esempio nella penisola
italiana, la cultura (intesa come apparato di tradizioni apparato di credenze, ecc...) di un napoletano e molto
diversa rispetto a quella di un trentino.
− Perché c’è il pericolo di reificazione cioè di trattare la cultura come una cosa come un oggetto che è
osservabile, che è isolabile quando invece la cultura è qualcosa di fluido ed è in continuo cambiamento.
Si può studiare la cultura anche studiando diversi livelli di analisi quindi andando a osservare piccole
comunità locali. Il prof.re Gner, docente all’Orientale, ha passato la sua vita a studiare delle piccole comunità
della America Latina e gli indigeni del posto; si è focalizzato su queste piccole comunità e ha effettuato delle
analisi di carattere qualitativo cioè andando in profondità di questi piccoli gruppi.
Si può studiare, infine, la cultura anche attraverso delle metodologie effettuando delle analisi qualitative o
quantitative.
Si possono utilizzare delle indagini qualitative focalizzandosi sulle piccole comunità, sui singoli soggetti come
quando si parla di lingue minoritarie, di lingue che stanno morendo di cui ci sono pochi parlanti, oppure si può
lavorare sui grandi numeri cercando raccogliere quanti più dati possibili per creare delle analisi che in qualche
modo generalizzano ma che possono essere statisticamente rilevanti, un esempio può essere il modello di
Hofstede del 2001.
MODELLO DI HOFSTEDE
Geert Hofstede definisce la cultura come programmazione collettiva della mente. Questa definizione è
interessante e risente di tutto l’apparato informatico che si è sviluppato, basti leggere il termine
“programmazione” per capire che è strettamente legato all’ambiente informatico.
“programmazione collettiva della mente” dove la mente è:
1. La testa che pensa, cioè la ragione
2. Il cuore che sente, cioè i sentimenti e le emozioni
3. Le mani che agiscono, cioè le azioni
Questi tre fattori hanno come conseguenze le credenze, i sentimenti e le abilità.
Questa è la definizione che Hofstede dà di cultura, dopodiché fa una serie di studi di carattere quantitativo.
Elabora un modello di cultura e, a partire da quello, individuerà alcuni valori e cercherà di analizzarli in
maniera quantitativa raccogliendo tanti dati in tanti paesi del mondo per capire come le diverse culture,
soprattutto della parte occidentale e quindi più ricca del globo, si posizionano rispetto a determinati valori.
Bisogna vedere, però, prima come si struttura il suo modello di cultura.
Il modello della cultura, che è definito come programmazione collettiva della mente, è definito anche modello
a cipolla.
All’ interno, nel cerchio più piccolo ci sono i valori; i valori rappresentano il centro della cipolla perché non
sono direttamente visibili cioè non li vediamo direttamente.
I valori vengono definiti come una tendenza generale a preferire uno stato di cose ad un altro, sono i fini a cui
tendiamo, hanno carattere polare e due proprietà cioè l’intensità e la direzione.
Per “carattere polare” si intende che un determinato valore può trovarsi in una persona, in un individuo o in
una collettività verso un polo o verso l’altro. Ad esempio, possedere il denaro può essere un valore e questo
valore può avere una connotazione positiva perché magari si può vivere in gruppi etnici all’interno dei quali
possedere denaro è una cosa positiva, oppure si può vivere in dei gruppi nei quali questo stesso valore può
avere una connotazione del tutto negativa come, ad esempio, dei gruppi religiosi che praticano il valore della
sobrietà per cui il possedere denaro è un valore da non perseguire. Ci sono dei gruppi religiosi chiamati “le
piccole sorelle e i piccoli fratelli” in cui le suore, le donne religiose, i frati non possono fare dei lavori dove si
guadagna tanto e questa è proprio una regola.
Quindi, ciascun valore può avere una direzione cioè una connotazione negativa o positiva e un’intensità più o
meno marcata.
Il manuale fa poi una distinzione fra i valori desiderati e desiderabili che ha a che vedere con una sfera ideale.
I valori desiderati sono quelli che effettivamente si perseguono nella vita, quelli concreti mentre i valori
desiderabili sono quegli ideali che rimangono teorici che difficilmente si riescono a perseguire. Per esempio
nell’ideale dell’ecologia e della sostenibilità ambientale sarebbe ottimale eliminare la plastica ma quante volte
ciò si riesce a far a meno di utilizzare come le buste di plastica dell’insalata, le bottigliette d’acqua, alcune
carte delle merendine ecc.
I valori non vanno confusi con i fatti. Non sono osservabili e lo diventano nel momento in cui vengono attuati
in PRATICHE
Le pratiche sono le manifestazioni visibili della cultura che si dividono in tre cerchi:
● I rituali: attività collettive tecnicamente inutili per raggiungere scopi desiderati ma che vengono
ritenuti socialmente necessarie per legare l’individuo alla collettività. (ES.cerimonie religiose e
saluti)
● Gli eroi: personaggi (veri o immaginari, vivi o morti, non necessariamente positivo) che
posseggono caratteristiche ambite dalla cultura e quindi offrono modelli di comportamento. (ES.
valentino rossi, madre teresa o asterix)
● I simboli: parole, gesti, figure e oggetti i cui significati spesso complessi sono riconosciuti come
tali solo da chi condivide la cultura. (slogan, abiti che indossiamo, la coca-cola)
Ci sono anche simboli che chi è esterno ad una cultura può comprendere;
Che cosa succede quando si incontra un’altra cultura, cioè quando per un processo di apprendimento
linguistico, o per un processo di immigrazione, ci troviamo ad apprendere una lingua altra, quindi una lingua
seconda, una lingua straniera, ma anche ad entrare in contatto con un’altra cultura? La domanda che si pone
Hofstede é: ‘’Si può essere biculturali? In che modo è possibile la biculturalità? Si può vivere in 2 culture
diverse?
(biculturale: condividere 2 culture diverse ).
Hofstede dice che: il biculturalismo è facilmente possibile (aggiunge la prof.= Soprattutto oggi con la
globalizzazione) in termini di pratiche, cioè è molto facile ormai ed è molto semplice da un punto di vista
identitaria, assumere pratiche di altre culture. (es. sposarsi sulla spiaggia Hawaiiana), assumerne eroi,
assumerne simboli.
Essere invece biculturali dal punto di vista dei valori NON è possibile, dice Hofstede; ‘’non posso avere,
condividere, assumere nello stesso momento 2 valori diversi’’. Pensiamo al valore per eccellenza, quello della
fede: es. non posso essere cristiano e mussulmano allo stesso tempo. Oppure credere che il denaro sia un
valore negativo e ambire a quello, quindi valori diversi non possono coesistere nello stesso individuo. Quello
che può accadere è quello che lui stesso chiama una CONVERSIONE, cioè una trasformazione dell’individuo
nella comunità con un cambiamento di un valore, che assume una direzione diversa da quella che aveva in
precedenza. Per questo non è semplice, è qualcosa che manda in crisi, a volte può essere complicato perché
questa trasformazione può portare a momenti di tensione.
Quindi coesistenza di valori no, cambiamento di valori si. Quello che può succedere è che si crei
nell’incontro tra C1 e C2 (cultura1 e cultura2) una C3, una cultura ibrida.
A pag 62 c’è uno schema a proposito. Si fa anche un esempio del rituale dei saluti di una cultura senegalese,
in cui il rituale del saluto è molto lungo (pag. 60), fondato sulle relazioni sociali e sulla visione di queste in
una concezione gerarchica. Ma se io in Senegal inizio a praticare questi saluti che non è detto che assuma il
valore gerarchico della società.
Hofstede ha proposto un’indagine su 50 Paesi, soprattutto occidentali, condotta attraverso un questionario, e
ne è andato ad analizzare 5 dimensioni culturali, maggiori problemi che ogni società deve affrontare ma a cui
ognuna dà risposte diverse:
-la distanza dal potere= il grado di disuguaglianza con cui funziona una particolare società e la dipendenza
emotiva dalle persone più potenti
-l’evitamento dell’incertezza= quanto spazio si può dare all’incertezza all’interno di una cultura, quello che
non si sa, quello che non è logico, quello che non è oggettivo, non è scientifico
-l’individualismo= considera il grado in cui l’individuo sa badare a se stesso o rimane integrato nel gruppo
-la maschilità= Considera la distribuzione tra i due generi
-l’orientamento temporale= Considera quanto a lungo una cultura programma i proprio membri ad accettare il
differimento della gratificazione dei proprio bisogni materiali, sociali ed emotivi
Per ogni dimensione ciascuna nazione ottiene un punteggio, quindi Hofstede lavora su grandi numeri, crea
questi dizionari che somministra a tantissime persone all’interno di questi 50 paesi e ottiene per ciascuna di
queste dimensioni un punteggio, e quindi ciascuna nazione sarà caratterizzata da 5 punteggi diversi relativi a
ciascuna di queste dimensioni.
E poi i Paesi vengono raggruppati culturalmente (es. ci saranno i paesi che prediligono il collettivismo e quelli
che prediligono l’individualismo ecc.). É questo il modo in cui Hofstede lavora ragionando su quelle 5
dimensioni. Per cercare appunto dei gruppi congruenti da questo punto di vista. Questa ricerca ha il limite di
rimanere superficiale.
Interconnesse con la cultura, ci sono tre questioni che costituiscono un pericolo sempre in agguato:
Etnocentrismo, quando osserviamo una cultura diversa lo facciamo dal punto di vista della nostra, ma una
cultura non ha criteri assoluti, non è superiore o inferiore.
pregiudizio: Solo quando avremo capito le differenze culturali nelle loro radici e nelle loro conseguenze
potremo evitare almeno in parte il pregiudizio.
stereotipo: vengono attribuite indistintamente a tutti i membri di una categoria le medesime caratteristiche
mentre è un’arma a doppio taglio: uno stereotipo può avere una componente oggettiva in termini di varietà
statistica probabilisticamente applicabile alla collettività. Lo stereotipo è tanto più pregiudiziale quanto più
una cultura che dopo essere stata monoliticamente individuata all’esterno è invece larga e articolata al suo
interno
La lingua è descritta come simbolo più potente di una cultura e vengono descritte le varie funzioni di una
lingua, per riuscire a capire cosa si può fare attraverso la lingua, e a che cosa serve.
Una delle funzioni è quella referenziale, che è quella funzione che ha a che vedere con la lingua che viene
usata come strumento per rappresentare la realtà, per riferirsi:
● alla realtà;
● agli oggetti concreti e astratti della realtà.
Una seconda funzione è quella comunicativa, la lingua come strumento di comunicazione e trasmissione di
messaggi;
La funzione espressiva ha a che fare invece con la capacità che ha la lingua di poter essere veicolo di
emozioni, sentimenti, atteggiamenti, passioni, insomma tutto ciò che riguarda la sfera più intima e interiore.
La funzione fàtica ha a che vedere con lo stabilire e mantenere il contatto interpersonale. È una funzione
linguistica perché attraverso la lingua è possibile stabilire e mantenere un contatto interpersonale, per esempio
mediante i saluti.
C’è inoltre una funzione performativa, perché attraverso la lingua si compiono anche delle azioni:
● si può battezzare o anche sposare qualcuno, e l’operazione linguistica che si fa è un’azione
concreta;
● si può dare un nome alle cose, alle persone
● si possono compiere azioni che hanno una realizzazione molto concreta nella realtà.
Un’ulteriore funzione è quella identitaria, perché attraverso la lingua si manifesta la propria identità, che può
essere ad esempio biologica, perché attraverso la lingua parlata si possono ricavare molte informazioni: sesso,
età, identità nazionale e regionale, per tutto ciò che riguarda anche l’accento che ciascuno ha.
LINGUA E PENSIERO.
Tra lingua e pensiero si oppongono due posizioni filosofiche:
-L'universalismo: di stampo illuminista, sostiene che per dote innata ragioniamo tutti allo stesso modo, che il
pensiero informa la lingua e che quindi le differenze linguistiche riscontrabili nella realtà sono manifestazioni
che non possono intaccare l'universalità dell'essere umano. Può garantire, inoltre, l'uguaglianza, glissare sulle
differenze e risultare rispettosa.
-Il relativismo: di stampo romantico, sostiene che la conoscenza viene acquisita attraverso l'esperienza. Oggi
però prevale una versione più debole di relativismo che sostiene che solo alcune categorie mentali più generali
e astratte sono innate, ma che la forma effettiva con cui vengono realizzate è il risultato dell'esperienza. A
questo punto é importante distinguere il relativismo, ossia l'interpretazione storica del fenomeno, e la
relatività, ovvero il fenomeno stesso.
LINGUA E IDENTITA’
Crystal distingue otto principali tipi di identità:
- IDENTITA’ FISICA. È il tipo fisico a cui apparteniamo (grassi o magri, biondi o bruni, ecc), le condizioni
fisiche in cui ci troviamo (sani o malati, senza denti, stanchi, ecc), la nostra età, il sesso.
- IDENTITA’ PSICOLOGICA, cioè la personalità (estroversi o introversi, rilassati o ansiosi, intelligenti o
meno, ecc). Tutti questi tratti (fisici o psicologici) non vengono usati in egual misura per esprimere l’identità.
Eppure, ci sono culture in cui la distinzione corpo-mente è meno drastica di quella occidentale. Per esempio la
tradizione ayurvedica identifica tre principi che connettono mente e corpo, chiamati dosha: il kapha, che
controlla la struttura del corpo, comporta calma e solidità; pitta, che controlla il metabolismo, comporta
creatività e stimoli; vata, che controlla il movimento, comporta vivacità e leggerezza. La natura di ognuno di
noi dipende dalla misura in cui questidosha si trovano in noi. Inoltre, a proposito di questi tratti con la lingua,
se la come parliamo e cosa diciamo possono uscire fuori tratti della personalità, nel caso in cui uno si presenta
affidabile o sobrio, significa che lo è davvero?
Se sappiamo ancora poco sui tratti fisici e psicologici, la sociolinguistica ha illuminato parecchio su
- IDENTITA’ GEOGRAFICA, cioè il luogo da cui proveniamo
- IDENTITA’ ETNICA, legata alla fedeltà al gruppo ancestrale cui apparteniamo (a volte coincite con quella
geografica, in casi come la diaspora invece no)
- IDENTITA’ NAZIONALE, diversamente interpretabile perché, per esempio, il Regno Unito è una nazione
in senso statale, ma è formata da quattro nazioni
- IDENTITA’ SOCIALE, si afferma l’appartenenza non solo a gruppi sociali stratificati (quella
socioeconomica) ma anche a gruppi più vari (famiglia)
- IDENTITA’ CONTESTUALE, dove si è al momento dello scambio comunicativo, il contesto della
situazione (riunione, bar, telefono)
- IDENTITA’ STILISTICA, per cui pur condividendo le altre identità con qualcuno, ci si differenzia
comunque. Lo stile non è facile da individuare e può cambiare in base alle circostanze (se al bar o in una
conferenza)
Esistono due tipi basilari di identità:
- IDENTITA’ INDIVIDUALE, idiosincratica dell’individuo
- IDENTITA’ COLLETTIVA, condivisa da un gruppo di individui né questo elenco è completo, né questo è
l’unico modo di categorizzare le varie identità. Seguendo vari criteri, possono inoltre essere:- alcune sono a
più forte base genetica, altre a base totalmente culturale- alcune sono inalienabili, altre sono temporanee-
alcune vengono coltivate con cura e accentuate da noi stessi, altre ci vengono imposte dagli altri- di alcune
siamo consapevoli, di altre meno- alcune sono positive, fonte di orgoglio e passione, altre negative e possono
essere fonte di vergogna, ansia e odio- alcune sono espresse linguisticamente, altre sono meglio espresse con
mezzi non verbali- nella loro espressione linguistica, alcune poggiano più sulla qualità della voce, altre su
quello che si dice. E l’identità culturale? Non c’è niente di più culturalmente costruito dell’identità, per cui
tutta l’identità è sempre culturale, indipendentemente dai tratti con o senza base biologica su cui si fonda.
Infatti l’identità non etichetta la realtà, ma la convenzionalità (che è sempre un fatto sociale) della realtà.
Mentre sesso, etnia, ecc sono tratti oggettivi comuni di differenziazione, identità sessuale, etnica, ecc son
l’esperienza soggettiva dell’individuo e quindi anche quando l’identità è collettiva rimane individuale (anche
perché il nostro DNA è unico).Inoltre, l’identità è performativa. Mentre è comune pensare che sia qualcosa
che si ‘ha’, è una forma di azione, poiché vengono ‘fatti, ‘costruiti’, ‘asseriti’ da chi parla parlando come
parla. Infine, è multipla. In primo luogo perché tutti abbiamo tratti diversi e interpretiamo ruoli diversi. In
secondo luogo l’identità che si attribuisce a se stessi non è necessariamente quella che attribuiscono gli altri,
così come quelle che ci vengono attribuite possono essere diverse. È quindi anche relativa. Allo stesso tempo,
però, se può sembrarlo al di fuori, è singolare e coerente dal di dentro.

BILINGUISMO
Imparare un’altra lingua significa riuscire ad utilizzare anche l’altra lingua appresa, per espletare le stesse
funzioni: quindi non solo per poter nominare oggetti concreti, ma anche per poter avere una conversazione
(sviluppando così la funzione comunicativa), per poter esprimere i propri sentimenti, le proprie emozioni
(anche se gli studi confermano che la lingua privilegiata per esprimere le proprie emozioni resta quella
materna), la L2 può servire inoltre a sviluppare la funzione fàtica, per compiere delle azioni linguistiche e
anche per manifestare la propria identità, (l’accento straniero ad esempio in una L2, può servire a mantenere il
parlante legato alla propria identità originaria).
Il termine bilinguismo può essere usato (e verrà usato anche nel manuale) per riferirsi a tutti quei casi in cui
un parlante è capace di usare alternativamente più di una lingua, quindi ha nel suo repertorio linguistico, più di
un codice linguistico. Questo uso alternato delle lingue è indipendente dal grado di competenza, dalla
frequenza dell’uso e anche dalla distanza strutturale. Questa è un’accezione molto ampia del fenomeno del
bilinguismo, se si pensa che molte persone al di fuori dell’ambito accademico si riferiscono ai bilingui come
SOLO quelle persone che nascono e crescono in un contesto bilingue e che hanno una competenza avanzata in
entrambe le lingue; quest’ultima “divisione” rappresenta l’accezione più ristretta del termine “bilinguismo”,
che è stata scardinata a favore di un’accezione più ampia: “è bilingue una persona che almeno padroneggia
due lingue, se ne padroneggia di più è trilingue oppure si può arrivare al plurilinguismo”.
Tutti siamo bilingui, anche se non studiamo una lingua straniera, anche solo per il fatto di conoscere il
dialetto, che rappresenta un codice linguistico, (seppure con uno status diverso dalla lingua standard),
prettamente per motivi storici e politici, e funziona come qualsiasi altra lingua.

Si può dire quindi che il bilinguismo nella sua accezione più ampia è un fenomeno molto diffuso,
nell’articolo sul bilinguismo i dati dimostrano che almeno il 50% della popolazione è bilingue, (anche se
in realtà si arriva anche al 90%). ←Questi dati dimostrano che l’Italia, anche se ufficialmente è un paese
monolingue, in realtà è un paese plurilingue a tutti gli effetti.
I dati che vengono mostrati nella foto riguardano i diversi tipi di dialetto, o comunque ogni ceppa di dialetto:
ogni sfumatura di colore rappresenta un gruppo di dialetto:
● Il dialetto napoletano è rappresentato dal celeste e comprende:
▪ Napoletano
▪ Dialetti del Lazio meridionale
▪ Beneventano
▪ Irpino
▪ Cilentano
▪ Etc.
● La lingua Siciliana viene rappresentata dal giallo ocra e ha tutta un’altra serie di dialetti;
● Le lingue retoromanze in blu
● Il gruppo toscano corso in rosso
● La lingua veneta in verde
Oltre ai dialetti, sono rappresentate anche le minoranze linguistiche come:
● Occitano
● Francoprovenzale
● Albanese
● Tedesco
● Sloveno
● Croato
● Catalano
Poi vengono rappresentate anche friulano, sardo, etc.… che sono le minoranze linguistiche UFFICIALI.

Dai dati emersi dalla cartina si ha un’idea della pluralità linguistica dell’Italia, a quei dati si aggiungono quelli
dell’immigrazione. A questi dati degli stranieri residenti, si aggiungono poi quelli dei migranti: quelle persone
che arrivano sulle coste italiane ma che molto spesso non rimangono in Italia per tanto tempo, ma che per un
po’ fanno comunque parte della nostra società, e per la durata del loro “soggiorno” contribuiscono ad
arricchirla dal punto di vista linguistico.
Qualche decennio fa si parlava di oltre cento lingue di immigrazione, molto probabilmente ad oggi sono molte
di più.
Il bilinguismo può essere osservato da diverse dimensioni e può variare a seconda di:
● Delle due lingue
● L’uso che si fa nelle due lingue
● La competenza che si ha in ciascuna lingua
● L’organizzazione cognitiva
● Il grado di attivazione delle due lingue
● L’identità che le diverse lingue del repertorio, comportano.
Nel manuale sono presentate una serie di etichette dicotomiche che servono a descrivere i vari tipi di
bilinguismo a seconda di tutto quello elencato.
Le prime etichette riguardano le circostanze di apprendimento tra le due lingue.

1. Secondo le circostanze dell’apprendimento si può distinguere un bilinguismo infantile da un bilinguismo


adulto, la variabile in questo caso è l’età in cui si inizia ad apprendere una seconda lingua:
❖ si parla di bilinguismo infantile quando si impara una seconda lingua prima della scolarizzazione, quindi
6 anni (alcuni mettono un limite a 3 anni);
❖ si parla invece di bilinguismo adulto quando la seconda lingua si impara successivamente, dopo il
momento di sviluppo della lettura e della scrittura, anche se il vero bilinguismo adulto è quello in cui
l’apprendimento di una lingua seconda avviene dopo il consolidamento dell’apprendimento
della lingua materna, quindi sostanzialmente dopo il periodo della lateralizzazione.

2. Un’ulteriore distinzione è quella tra bilinguismo isolato e collettivo:


❖ Il bilinguismo collettivo riguarda tutti quei casi di territori, nazioni, paesi, regioni, in cui il bilinguismo
riguarda tutta la società es.migrazione; il Canada, ad esempio, è un paese bilingue, ma ci sono tanti altri paesi
che hanno un assetto nazionale già di per sé bilingue.
❖ Il bilinguismo isolato, invece, riguarda una sola persona, o una persona e la sua famiglia trasferitasi in
ambiente l2, si limita ad un individuo singolo con i suoi legami più prossimi, NON riguarda l’assetto
governativo, regionale o nazionale, ma riguarda le singole persone.

3. Altra distinzione è quella tra Bilinguismo primario e bilinguismo secondario:


❖ Il bilinguismo primario è quello che avviene e si sviluppa in un ambiente L2; quindi, un ambiente in cui
il principale veicolo di comunicazione è la seconda lingua che si sta apprendendo.
ESEMPIO: se ci si reca negli Stati Uniti per imparare l’inglese americano, il bilinguismo sarà di carattere
primario perché si sta sviluppando in un ambiente in cui per comunicare è necessario l’uso della seconda
lingua.
❖ Il bilinguismo secondario, al contrario, si sviluppa in un ambiente L1; quindi, un ambiente in cui il
principale veicolo di comunicazione è la lingua materna dell’apprendente.

4. Ancora una distinzione è quella tra Bilinguismo additivo e bilinguismo sottrattivo.


❖ Si parla di bilinguismo additivo quando l’apprendimento di una nuova lingua è qualcosa che aggiunge
alla persona, che arricchisce l’individuo. Quindi, alla lingua materna si aggiungono competenze in una
seconda, terza lingua ALTRA.
❖ Si parla di bilinguismo sottrattivo, invece, quando l’apprendimento di una L2 o LS va a sottrarre
qualcosa a ciò che si sapeva già; quindi, sottrae qualcosa alla lingua materna. I casi di bilinguismo
sottrattivo non sono molto usuali, generalmente riguardano i contesti di adozione: il bambino o la
bambina che dal Brasile arriva in Italia e deve inserirsi in una famiglia italiana, è molto probabile che
inizi ad apprendere l’italiano a discapito del portoghese, che molto probabilmente andrà a dimenticare
nel tempo. Le cause possono essere diverse, ad esempio il NON uso della lingua portoghese brasiliana
in un contesto italiano; la motivazione che si può avere nell’imparare la lingua italiana; o anche perché
magari ci può essere una scelta consapevole, soprattutto da parte dei bambini più grandi, di non voler
restare legati alle proprie origini, che può presentarsi nel caso in cui il contesto sia stato traumatico o
comunque infelice.

5. Un’altra distinzione che si pone è quella tra bilinguismo elitario e bilinguismo popolare, questa
distinzione si rifà ad una visione gerarchica delle lingue.
⮚ Il Bilinguismo elitario riguarda tutti quei casi in cui l’apprendimento di una data lingua va ad accrescere
le competenze proprio in termini di Curriculum di una determinata persona. prestigio sociale
ESEMPIO: si frequenta l’università e si conosce l’Arabo: è un caso di bilinguismo elitario perché la
conoscenza della lingua araba mi dà un certo punteggio sul curriculum.
⮚ I casi di bilinguismo popolare invece, sono quei casi in cui magari si conosce l’arabo in una delle sue
varietà, ma perché si è figli di marocchini; in quel caso lo stesso tipo di bilinguismo è definito popolare perché
è legato a delle circostanze biografiche e non ha un prestigio sociale; è un bilinguismo che è legato al fatto di
essere un figlio di immigrati o un figlio in una seconda fascia di migrazione.
6. Ultima distinzione è quella tra bilinguismo strumentale e bilinguismo integrativo, che ha a che fare con
la motivazione.
❖ Il bilinguismo strumentale comprende tutti quei casi in cui l’apprendimento di una seconda lingua è
legato a motivazioni di carattere strumentale: per trovare un lavoro, per raggiungere un livello di competenza
linguistica per poter entrare in un’università in un paese estero, per un obiettivo concreto;
❖ Il bilinguismo integrativo invece, poggia su una motivazione di carattere integrativo: l’apprendente L2
vuole imparare una seconda lingua perché vuole far parte di una determinata società.

Quindi, le variabili sono diverse, riguardano proprio le circostanze dell’apprendimento ma anche le


caratteristiche individuali della persona bilingue, come: l’età, la motivazione, etc.

Rispetto all’uso delle due lingue, si può fare una riflessione su:
⮚ quando si usano le due lingue
⮚ dove si usano le due lingue
⮚ in quali contesti si usa la L1 e in quali la L2
⮚ perché si usa una lingua o l’altra
⮚ parlando di quale argomento
⮚ con chi
sulla base di queste domande, si può osservare il comportamento bilingue di qualsiasi persona.

Restando sull’uso delle lingue, si possono osservare dei casi di Diglossia e di Dilalia
Per quanto riguarda i casi di diglossia, sono tutti quei casi in cui all’interno di una collettività (bilinguismo
collettivo) viene usato più di un codice linguistico, ma in contesti del tutto diversi gli uni dagli altri. Molti
paesi africani, ex colonie, presentano molto marcato il fenomeno della diglossia: in questi paesi di solito c’è
una lingua ufficiale che è il “lascito” della ex colonia, (il francese, l’inglese, lo spagnolo, a seconda del paese
di cui si parla) che è la lingua delle istituzioni, dei momenti formali, dell’istruzione, la lingua dei processi
burocratici, spesso anche delle funzioni religiose, sostanzialmente è la lingua che si usa in tutti i contesti alti di
comunicazione, mentre la lingua (o le lingue) della quotidianità, del mercato, della famiglia, degli amici, è
solitamente diversa da quella del contesto alto. Queste situazioni di bilinguismo o plurilinguismo, vengono
chiamate diglossia, perché le due (o più) lingue si differenziano in maniera netta rispetto soprattutto al dove e
al quando, quindi rispetto ai contesti di uso della lingua stessa.

In Italia non è esattamente la stessa cosa perché l’italiano è abbastanza usato anche nei contesti informali,
anche se spesso si usa switchare sul dialetto in qualche contesto. Questo tipo di contesto italiano prende un
altro nome che è dilalia.
Nella dilalia abbiamo ad esempio: l’italiano che viene utilizzato in tutti i contesti alti, ma che viene utilizzato
molto massicciamente anche nei contesti bassi, nei suddetti contesti l’italiano può essere anche affiancato dal
dialetto (o dialetti).
L’accezione che noi usiamo di bilinguismo è ampia ed è indipendente dal grado di competenza
linguistica che si ha nelle diverse lingue. Naturalmente, in ciascuna lingua si può avere un livello di
competenza diverso, sia da un punto di vista linguistico (esempio: sviluppo maggiore del lessico in una
lingua, e in un’altra meno), sia delle abilità linguistiche (esempio: in alcune lingue si può aver
sviluppato solamente abilità orali e non quelle scritte), sia rispetto alla competenza comunicativa si
possono avere abilità diverse in più codici linguistici che si utilizzano nel proprio repertorio linguistico,
e anche rispetto al processo di produzione e comprensione (esempio: alcune lingue si possono produrre
meglio, capire meno e viceversa). Quindi, ci possono essere competenze linguistiche diverse nelle
diverse lingue che si padroneggiano, ma si rimane comunque bilingui.
Altro parametro per riflettere e per descrivere i fenomeni di bilinguismo è l’organizzazione cognitiva. Si fa
qui una distinzione tra:
● Bilinguismo coordinato: L2 appresa prima della pubertà in contesto extrafamiliare. Non è tanto
l’età ma il modo e contesto d’uso: se L1 e L2 sono separate nei contesti d’uso lo rimangono in termini
cognitivi.
● Bilinguismo composito: L1 e L2 apprese contemporaneamente prima dei 6 anni in famiglia
Questa distinzione ha a che vedere con il modo in cui sono utilizzati i concetti all’interno delle singole menti.
Per capire questa distinzione, può essere utilizzato il modello di Kroll & de Groot del 1997 che si chiama
modello dei legami concettuali e dei legami lessicali.
Sono presenti i concetti (in alto),
la L1 (a sinistra) e la L2 (a
destra). Entrambe le lingue hanno
un legame diretto (la freccia) con i
concetti, ma i legami concettuali
sono più solidi nel momento in cui
si prende in considerazione la L1,
e fra L1 e L2 esistono dei legami
lessicali.
Che cosa significa questo? Significa che quando si apprende in una L2, agli stadi meno avanzati
dell’apprendimento, non si comincia subito a produrre concetti, cioè a pensare nella L2, si continua a fare un
passaggio dalla L1. Solo successivamente, in uno stadio più o meno intermedio si comincia a pensare
direttamente nella L2. Quel “pensare in una lingua” ha a che vedere proprio con il legame tra la lingua e la
sfera dei concetti. La lingua privilegiata alla sfera dei concetti (ovvero la lingua in cui si pensa in maniera
automatica) è la lingua materna. Naturalmente, si stabilisce un legame concettuale anche tra la L2 e la sfera
dei concetti, ma con il tempo; questo legame è meno solido e ha a che vedere sia con il livello di competenza
che deve essere almeno intermedio, ma anche con l’uso che si fa di una lingua. (esempio: si può avere in un
contesto di L2 dove si parla solo la L2, che si inizia a pensare in quella lingua. Ma se poi ritornando nel
proprio contesto L1, si inizia ad usare di meno la L2 e quindi si ha difficoltà a pensare in L2). Ecco perché la
freccia tra L2 e concetti è meno solida (non in grassetto), perché appunto, è un legame che si instaura
successivamente e può anche perdersi nel momento in cui non si usa più una determinata L2 o LS.
Le due frecce laterali che collegano L1 e L2 ai concetti, hanno a che vedere con la lingua in cui si pensa. Le
due frecce in orizzontale che collegano L1 e L2 una all’altra, sono i legami lessicali ossia i passaggi da una
lingua all’altra e in questo senso, sono più solidi i legami dalla L2 alla L1; nel senso che per parlare in L2 si fa
riferimento alle proprie parole in L1; e meno solido è il legame inverso, quindi sono meno quei casi in cui nel
parlare una L1 si pensa a parole delle proprie L2.
(sorvola la relatività linguistica con l’esperimento di Hoffman nel bilinguism cinese-inglese per dire che
lingue diverse comportano una differenza nel concepire il mondo, vale per monolingui e bilingui).
L’attivazione è quello che viene definito come Language mode e riguarda quale lingua è attivata nel
momento in cui il bilingue parla (si pensa a un interruttore). Se il bilingue padroneggia più lingue ci possono
essere dei momenti di attivazione monolingue, ossia in cui è attivato solo l’interruttore di una lingua. E altri
momenti in cui ci possono essere casi di attivazione bilingue, ovvero casi in cui sono attivati entrambi gli
interruttori delle lingue che si conoscono; in questi casi si realizzano fenomeni come quelli del code-
switching e del code-mixing. Un esempio è l’espressione “vuoi un drink?” che è un enunciato composito dal
punto di vista linguistico. (O si può ricordare la produzione orale proposta all’inizio del corso in cui c’era un
ragazzo marocchino che parlava insieme italiano, dialetto, francese. Che utilizzava tutti i codici che aveva nel
suo repertorio per riuscire ad essere comunicativamente efficace). La questione dell’attivazione è relativa a un
determinato momento dell’enunciazione, quindi a un testo, a un momento orale, un dato atto di enunciazione
in maniera sincronica.
Ci sono poi studi (che troviamo anche in alcuni saggi della dispensa) che ritengono che nei parlanti bilingui
siano sempre attivate le lingue e quello che fa la differenza è il controllo bilingue, quindi la capacità di
controllare l’uso di una delle due lingue a seconda del contesto e dell’attivazione. Era proprio questa capacità
di avere sempre attive le due lingue, ma di controllarle che fa dei bilingui appunto delle persone
cognitivamente più vivaci, che hanno una risorsa cognitiva maggiore rispetto ai parlanti monolingui.
IDENTITA’
Molte persone cambiano carattere, modo di porsi nel momento in cui parlano una L2. Si può cambiare, non
esattamente la propria identità perché questa è molto profonda e difficile da cambiare, possono esserci però
aspetti del proprio carattere che emergono o sono favoriti da una L2 o LS rispetto alla L1. Quindi, che ci si
senta più a proprio agio ad esprimere una parte del proprio carattere in una L2. Non si parla proprio di cambio
di identità perché questo porterebbe a questioni psichiche e preoccupanti.
BICULTURALISMO
Dalla riflessione sul bilinguismo, si passa poi al biculturalismo (si è parlato del biculturalismo anche
nella lezione precedente). Ci si chiede se esso sia possibile.
Si fa riferimento al modello a cipolla di Hofstede. Il biculturalismo secondo questo modello è possibile in
termini di pratiche (rituali, eroi, simboli), ma non è possibile in senso di valori. Nel senso delle pratiche è
possibile un’identità biculturale o ibrida; però non è possibile in senso di valori, perché ogni persona ha dei
valori diversi, quindi ci può essere una conversione di valori, ossia un momento di crisi che porta alla
formazione di una cultura terza. Si fa l’esempio, sia in inglese australiano sia in wolof, rispetto al rituale del
saluto al quale sottostà il valore di una società vista in maniera più gerarchica (nella comunità wolof) e in
maniera più paritaria e simmetrica, equilibrata (nella società inglese australiana).
Se non è possibile la coesistenza di valori diversi che si trovano ai poli opposti è invece possibile la
conversione e la scelta di un nuovo valore.
C1+C2=C3 =terza cultura o terzo spazio
Il contatto implica inevitabilmente tensione (positiva o negativa).
LA DOPPIA PERSONALITA’ È ancora aperta la questione se una persona bilingue abbia una doppia
personalità o meno. Possiamo intendere la personalità come:
- l’insieme di stati psicologici temporanei, dovuti a comportamenti diverse e diverse identità, allora com’è
possibile essere biculturali nel senso delle pratiche culturali è possibile avere anche una doppia personalità.
Tuttavia si tratta prevalentemente di comportamenti diversi in contesti diversi, cosa che avviene anche
all’interno della stessa lingua. Una persona bilingue può presentarsi in modi diversi a seconda della lingua che
usa.
- l’insieme dei tratti psicologici. È impossibile avere due personalità, come dice Jung. Una persona estroversa
non può diventare estroversa o una persona classica diventare romantica.
IMPORTANTE!!!AGGIUNTA DI UNA COSA CHE AVEVA DIMENTICATO.
In tutti i casi di bilinguismo non è mai possibile un bilinguismo perfetto, quindi una competenza perfetta del
tutto equilibrata di due o più lingue. Il bilinguismo perfetto, quindi un bilinguismo nel quale due lingue si
padroneggiano allo stesso modo, non è reale, è teorico e ideale, ma non esiste mai nella concretezza degli usi
linguistici. Perché possono variare gli usi, la frequenza d’uso ed esiste sempre una delle lingue che domina
sull’altra (la lingua dominante), un aspetto della dominanza può riguardare la scelta della lingua di
scolarizzazione, ossia in molti casi di bilinguismo succede che il bambino deve iniziare a leggere e scrivere,
quindi si sceglie qual è la lingua che il bambino comincerà a imparare. Quella lingua diviene in quel dato
momento la lingua dominante perché è la lingua in cui si hanno più abilità rispetto alle altre; con il passare
degli anni quella lingua della scolarizzazione sarà quella più ricca rispetto alle altre (non per forza perché è la
più utilizzata) ma perché si amplierà il vocabolario di quella lingua con tutto il lessico disciplinare
(matematica, storia, geografia). C’è sempre il concetto della dominanza. A volte per valutare la dominanza
non bisogna guardare solo la lingua della scolarizzazione ma anche altre domande come: In che lingua pensi?
In che lingua conti? In che lingua sogni? E la lingua che si utilizza più spesso è quella dominante.

PRAGMATICA
La pragmatica studia I fattori che nell’interazione sociale governano le scelte linguistiche, e gli effetti di tali
scelte sugli altri. La pragmatica è il livello di analisi che si occupa dell’uso della lingua in un contesto, che
studia I rapporti tra I segni e I parlanti e pone al centro dell’attenzione il processo di produzione linguistica e
I suoi utenti piuttosto che il prodotto. All’interno della pragmatica ci sono delle specializzazioni, questo
volume si occupa principalmente della pragmatica interculturale, ovvero incontro tra culture diverse e cosa
accade tra due persone che usano lingue materne diverse, con regole diverse, che devono interagire.
Invece la pragmatica intraculturale ha a che vedere con ciò che accade all’interno di una sola cultura, ma è
difficile stabilire I limiti di tale pragmatica e I limiti di una cultura. La pragmatica contrastiva invece è quella
che si occupa di mettere a confronto. La pragmatica interlinguistica ha a che vedere con l’interlingua e con
lo sviluppo delle competenze pragmatiche all’interno del percorso di formazione linguistica
dell’apprendente, nello studiare una lingua seconda o straniera svilupperò anche capacità pragmatica che
sviluppandosi diverra sempre più complessa. Una suddivisione interna alla pragmatica è quella tra
pragmalinguistica che si rapporta alla grammatica in quanto consiste in forme linguistiche che hanno
determinate funzioni e sociopragmatica che si rapporta alla sociologia e considera le percezioni sociali che
inducono gli interlocutori ad agire in un determinato modo in un atto comunicativo.

Cosa si intende per contesto: tutto quanto influenza la lingua di un enunciato e tutto quanto dalla lingua è
influenzato, cioè luogo, spazio e tempo dove si mostrano gli effetti delle scelte linguistiche di un parlante.
Per contesto si intende sia il contesto linguistico ( anche chiamato co-testo) essenziale per la comprensione
del significato giusto, che quello extralinguistico che secondo il criterio di ampiezza si può dividere in 3
unità di analisi: la comunità linguistica o community of practice, ossia il contesto più ampio dell’interazione
verbal, costituita da parlanti che condividono la stessa lingua e le stesse norme d’interpretazione ed uso
della lingua stessa. l’evento comunicativo (telefonata, dibattito) al quale associamo il modello speaking
proposto da hymes nel 1980 per l’identificazione delle sue componenti. (e infine l’atto linguistico)

● S 🡪 situation (Situazione): il contesto in cui avviene una determinata comunicazione.


● P🡪 participants (Partecipanti): gli interlocutori all’interno della comunicazione.
● E🡪 ends (Scopi) e si riferisce agli scopi della comunicazione. Obiettivi raggiunti o in vista.
● A🡪acts (atti linguistici e sequenza di atti linguistici, forma e contenuto del messaggio).
● K🡪 key (chiave interpretativa, tono, espressività).
● I🡪instrumentalities (canale (orale,scritto) e strumenti della comunicazione (codici))
● N🡪norms (norme d’interazione e di interpretazione)
● G🡪 genre (conversazione, preghiera).
La complessità del contesto è dovuta alla sua dinamicità nel senso che non tutte le componenti
del contesto sono attivate in tutte le situazioni comunicative.

I principali fenomeni pragmatici


L’ambiguità
Per ambiguità s’intende sia quella che caratterizza qualche nostro enunciato quando vogliamo dire
qualcosa ma non esplicitamente e quindi siamo volutamente ambigui. L’ambiguità, in realtà, non è
soltanto caratteristica degli enunciati consapevolmente ambigui prodotti dai parlanti ma è
caratteristica di tutta la lingua.
Es. piano (strumento musicale, aggettivo o avverbio, superficie, piano di un palazzo, piano come
progetto). La polisemia è una caratteristica fondamentale dell’ambiguità. Basti pensare alle
preposizioni che sono altamente ambigue.
- Il violino è andato in gabinetto
Questa frase è ambigua. Questa frase può significare: all’interno di un’orchestra si può fare
riferimento alla persona che suona il violino che è andata in gabinetto. Questo è un caso di
Ambiguità semantica.
Le ambiguità possono avere anche carattere sintattico. In questo caso di parla di Ambiguità
sintattica
- Hanno salvato il surfista con l’ombrello o luigi ha visto un uomo con il telescopio
L’ambiguità sta nel fatto che il surfista potrebbe essere stato salvato con un ombrello (complemento
di strumento) oppure lo stesso surfista è stato salvato mentre aveva in mano un ombrello.
L’ambiguità è, dunque, un fenomeno pragmatico perché per risolverla c’è bisogno del contesto (o al
cotesto) dell’enunciazione.

La deissi
La deissi è sicuramente un altro fenomeno pragmatico in quanto essa a che fare con la possibilità di
identificare le cose del mondo attraverso fenomeni linguistici e metterle in relazione con il contesto.
La deissi si articola in vari tipi:
● Personale
La deissi personale fa riferimento alle persone che in quel momento intervengono in un
determinato enunciato. Essa si traduce in lingua attraverso i pronomi personali (io, tu, noi,
voi ecc) o attraverso altre forme di allocuzione (“bello” o “hey” per chiamare una persona).
● Sociale
Essa ha a che vedere con quelle parole che non solo mettono in relazione gli interlocutori ma
li caratterizzano anche in quanto a relazione sociale, status sociale, relazione di potere,
distanza sociale o vicinanza sociale. L’uso, per esempio, dei pronomi di cortesia (“Lei”,
“Voi”, “vostro onore”, “vostra maestà”, “Don Pasquale”) ha a che vedere proprio con la
deissi sociale. Se utilizzo il “lei” sto asserendo che c’è una formalità tra me e il mio
interlocutore. Nelle situazioni in cui, al contrario, si vuole creare vicinanza, si utilizza il “tu”
nella relazione tra gli interlocutori.
● Temporale
Essa fa riferimento alla temporalità.
Es. Domani ritornerà quarantasei minuti in ritardo rispetto a oggi.
Questo enunciato è piano di caratteri deittici a livello temporale. La parola “domani” ha a
che vedere con un determinato contesto. Il riferimento al domani cambia sempre a seconda
di quale sia il contesto dell’enunciazione. Un riferimento ancora più specifico di carattere
temporale è “quarantasei minuti in ritardo rispetto a oggi”, vuol dire che c’è un oggi in cui
c’è un dato orario, c’è quindi in questo caso un fortissimo legame al contesto.
● Spaziale
Gli elementi deittici spaziali fanno riferimento a un dato luogo in cui sta avvenendo
l’enunciato. Gli elementi deittici spaziali non corrispondono soltanto a “qui”, “lì”. Questo o
quello, ad esempio, sono considerati ugualmente elementi deittici.
Es. dammi questo
In questo caso mi sto riferendo a qualcosa che è vicino a me che parlo
“Dammi quello” è invece lontano da me che parlo.
Il principio di cooperazione
Secondo questo principio, all’interno di qualunque conversazione i partecipanti collaborano per fare
in modo di raggiungere l’obiettivo della conversazione. Si collabora seguendo delle regole o
massime conversazionali:
● Quantità: fornire il giusto numero di informazioni
● Qualità: fornire delle informazioni veritiere
● Relazione: essere pertinenti
● Modo: essere brevi, chiari e proficui
Le regole non sono sempre seguite naturalmente. Il violare le regole conversazionale ha a che
vedere anche con tutti quei casi che danno vita a un’implicatura conversazionale che si ha quando
resta implicita una parte di informazione ed è compito dell’interlocutore inferire per comprenderne
il senso.
L’implicatura conversazionale è molto ricorrente.
Es. - sai che ora sono? - Si è scaricato il telefono

La cortesia
La cortesia linguistica è legata al concetto di Faccia: la stima di sé, la propria reputazione,
l’immagine pubblica, emotiva e sociale che ognuno ha di sé, che vorremmo proteggere e potenziare
(Goffman, 1967).
● Faccia positiva – il bisogno di essere accettati e piacere
Tutte le volte che io faccio un complimento o faccio qualcosa per qualcuno o dico “visto che
bel lavoro che ho fatto?” sto cercando una conferma della mia faccia positiva o nel fare un
complimento sto potenziando la faccia positiva del mio interlocutore.
● Faccia negativa – il bisogno di essere liberi da imposizioni.
Se chiedo a qualcuno di abbassare la voce o chiudere la porta in un contesto di biblioteca,
sto facendo un’azione che minaccia la faccia negativa di una persona perché sto limitando la
sua libertà perché sto chiedendo di limitarsi nei suoi comportamenti.
(Brown & Levinson, 1987)
Quando gli interessi della faccia sono a rischio si adoperano delle strategie verbali da parte del
parlante minimizzando gli svantaggi e massimizzando i vantaggi in termini di faccia, sua e
dell’interlocutore. Cortesia positiva: complimenti; cortesia negativa: scuse.

L’organizzazione della conversazione


L’interazione quotidiana è governata da regole su chi può parlare, quando, quanto a lungo, chi può
intervenire o interrompere e come si può interrompere, etc.
L’analisi della conversazione ha rilevato regolarità nel:
● Nell’avvicendamento del turno (Sacks et al., 1974) hanno suggerito delle regole: se il
parlante seleziona il parlante successivo, deve smettere di parlare al successivo PRT per
permettere al parlante successivo di prendere turno; se il P non seleziona nessuno, un altro
può autoselezionarsi e assicurarsi il turno; se non viene né selezionato né si autoseleziona, il
parlante può continuare a parlare.
● Gestione delle pause: ci sono delle culture all’interno delle quali le pause sono più tollerate
(gestite dagli interlocutori/ cultura finlandese) e altre culture in cui stare in silenzio in una
conversazione può mettere a disagio (es. in ascensore) oppure si riesce a stare in silenzio con le
persone che ci sono più vicino (parenti, amici) perché non c’l’ansia di dover riempire i silenzi con
conversazioni ambigue.
● Complementarità delle sequenze e coppie adiacenti (Schegloff, 1968)
Le coppie adiacenti sono tutte quelle coppie che all’interno della conversazione prevedono
una ricorsività di domanda e risposta o azione e reazione
Es. io: Buongiorno! – tu: Buongiorno!
Il saluto è una coppia adiacente, in questo caso, simmetrica perché la coppia dice la stessa
cosa. Nel caso in cui, invece, io faccio un complimento, mi aspetto una reazione o se compio
l’atto linguistico di una protesta, mi aspetto una reazione alla protesta e anche in quel caso si
parla di coppie adiacenti, ovvero, coppie di turni all’interno della conversazione che vanno
solitamente insieme. Se faccio una richiesta mi aspetto che mi si dica “va bene” e si passi
direttamente alla richiesta oppure si dica “No, non posso farlo”, se io chiedo un orario mi
aspetto che qualcuno me lo riferisca o dica “Non lo so”.

GLI ATTI LINGUISTICI


La teoria degli atti linguistici è stata determinata da AUSTIN nel 1962 poi Searle ha fatto una classificazione
più specifica dei diversi atti linguistici. Austin nel suo volume “How to do things with words”, aveva distinto
3 atti linguistici:

a. Atti Locutori= quando diciamo qualcosa;

b. Atti illocutori= quando compiamo un’azione

c. Atti perlocutori= provochiamo un effetto.

Ogni enunciato può avere una diversa forza illocutoria. Ad esempio quando ci sono i verbi performativi
come ordinare, giurare in prima persona la forza è inequivocabile; in assenza esistono degli indicatori
(modo del verbo, tipo di frase, intonazione, condizioni generali di felicità) che fungono da indizi, per cui una
illocuzione non necessariamente provoca l’attesa perlocuzione (una battuta può essere interpretata come
una critica)

COMPLIMENTO
Il complimento è un atto linguistico definito espressivo di natura fàtica, cioè non ha una finalità concreta,
ma ha la funzione primaria di stringere i rapporti/ le relazioni tra le persone; il complimento si distingue
dalla lode, perché la lode è più ampia, soprattutto la lode è qualcosa che si attende per qualcosa che si è
fatto, mentre il complimento è più breve ed inaspettato.

● I fattori di variazione:

-oggetto del complimento: vengono messi in luce diversi studi sui complimenti evidenzia come in
diverse culture si abbiano delle regole diverse e quello che varia è l’oggetto del complimento:

a) -mondo occidentale: riguardano l’aspetto,le abilità (es come sei bravo a disegnare!) e gli oggetti
posseduti
b) -mondo orientale: su abilità e competenze
c) Donne e uomini: le donne statunitensi ed egiziano nominano volentieri l’aspetto in egual modo; gli
uomini egiziani più degli americani.
d) Posizione gerarchica: chi si crede superiore preferisce abilità e competenze.
1. -forma linguistica: nel mondo anglofono ad esempio si preferiscono le formule sintatticamente
fisse, nel mondo iraniano o arabo delle forme proverbiali e rutinizzate; gli arabi si distinguono
anche per la lunghezza (ridondanza), metafore e similitudini
2. -funzione: oltre alla primaria, attenuare una critica, rinforzare un ringraziamento e accompagnare i
saluti.
3. -risposta: si può accettare o non accettare e si segue un principio di cortesia diverso: se accetto
seguo la massima dell’accordo (ti do ragione), proteggo la faccia positiva dell’interlocutore; se non
lo accetto seguo la massima della modestia (sminuisco me stesso e metto in discussione ciò che hai
detto), minaccia in qualche modo la faccia positiva del mio interlocutore.

Culture diverse reagiscono in maniere diverse in merito a questo:

-nel mondo anglofono: nel 90% dei casi si accetta il complimento, tendono ad accettare volentieri
complimenti circa l’aspetto

- nel mondo orientale: prevale la massima della modestia (i complimenti si rifiutano al 90%). Non avviene
un transfer in lingua inglese. Tendono ad accettare complimenti relativi ad abilità e possedimenti.

Studio di Loh riporta che i soggetti cinesi parlando in inglese si conformano e tendono ad accettare e
ringraziare;

Altri studi tra inglese e francese vedono gli inglese con francese L2 accettare e ringraziare come farebbero
in inglese L1.

-nel mondo italiano: c’è uno studio di Frescura che dimostra varie reazioni= accettazione diretta
(ringraziamento, accettazione compiaciuta e ricambio); accettazione limitata (minimizzazione, merito,
qualità, deflessione) è quella più frequente in italiano è una cultura di compromesso ed è il tipico caso di
cultura che lei definisce conflittuale o di compromesso tra le due massime.

PROTESTA

L’atto della protesta è espressivo e direttivo. Per realizzarsi, da parte di chi lo inizia, ha bisogno di (Olshtain
e Weinbach):

▪ Il destinatario della protesta (D) compie un atto inaccettabile, contrario al codice comportamentale
dell’autore della protesta (A);

▪ A ritiene che il comportamento di D abbia conseguenze negative per sé o per altri;

▪ L’espressione verbale di A si riferisce direttamente o indirettamente al comportamento di D e ha


quindi la forza illocutoria della censura;

▪ A ritiene che il comportamento di D lo legittimi a chiedere una riparazione.

Le prime 2 condizioni sono preliminari, le altre 2 sono l’effettiva protesta nelle sue due componenti:
espressiva e direttiva.

La componente espressiva corrisponde alla funzione comunicativa di esprimere lo stato psicologico del
parlante (Searle)- in questo caso uno stato di disapprovazione, fastidio e di sentimenti negativi che portano
alla censura.

La componente direttiva ha la funzione comunicativa di fare in modo di ottenere la riparazione del torto
subito. La protesta non deve essere confusa con la lamentela la cui forza illocutoria si limita alla parte
espressiva (solo sfogo, senza riparazione). La richiesta di riparazione è parte della protesta. La protesta non
va nemmeno confusa con la semplice richiesta, che trova la sua ragione d’essere in una esigenza del
parlante (non nel comportamento del destinatario).

Per George, dal punto di vista del destinatario, la reazione è strutturata così:

o D esegue il direttivo (riparazione) senza menzionare l’espressione della critica

o D accetta l’espressivo (critica) ed esegue il direttivo

o D mette in dubbio l’espressivo e non esegue il direttivo

o D rifiuta il direttivo con menzione dell’espressione della protesta


Tra le reazioni più comuni, la più semplice e veloce è la prima, mentre nelle altre 3 può subentrare la
negoziazione, anche lunga, per raggiungere la risoluzione della protesta.

Quindi, l’atto del protestare è un macro atto strutturalmente complesso perché, a differenza del
complimento, spesso non finisce con una sola coppia di atti, ma può comprenderne altri per esprimere la
forza illocutoria desiderata, con lo scopo di ottenere la riparazione.

Questi sono:

- l’espressivo e il direttivo da parte dell’autore della protesta;

- la reazione da parte del destinatario;

- la negoziazione da parte di entrambi gli interagenti;

- la risoluzione, positiva o negativa.

La negoziazione è facoltativa, gli altri sono obbligatori, ma possono essere impliciti (direttivo- espressivo:
almeno uno dei due esplicitato).

L’atto della protesta è complesso anche per la difficoltà di CALIBRAZIONE, poiché è un atto che per sua
natura arreca un danno alla faccia degli interagenti (Brown e Levinson). Per l’autore della protesta viene
minacciata la faccia positiva (poca sensibilità nei confronti dell’interlocutore), per il destinatario sia quella
positiva che negativa. La componente espressiva della protesta censura il suo comportamento,
incriminandone l’immagine pubblica, mentre la componente direttiva gli impone la riparazione,
limitandone la libertà di azione. Per raggiungere un compromesso e ottenere un esito positivo della
protesta, bisogna ridurre l’impatto negativo sul destinatario e, quindi, mitigare l’atto.

Grazie a Trosborg e ai suoi esempi, si può notare che per mitigare la protesta si possono variare degli
elementi pragmatici:

❖ la forza illocutoria dell’atto espressivo : l’atto espressivo si può realizzare attraverso un leggero
accenno al comportamento inaccettabile, una menzione delle conseguenze negative o una pesante
accusa al destinatario. “mi sto un po’ innervosendo”

❖ la forza illocutoria dell’atto direttivo : l’atto direttivo può essere indirettamente accennato, oppure
essere costituito da una minaccia

❖ la prospettiva di questi due atti: la prospettiva della protesta ha varie possibilità: la focalizzazione sul
destinatario della protesta (con l’uso della seconda persona you) la focalizzazione sulla regola (con
l’uso della forma passiva) oppure con un pronome indefinito.

❖ i loro modificatori interni: includono due categorie: gli attenuatori (come richieste di accordo “Don’t
you think?” oppure soggettivismi “I’m afraid”), che servono ad alleggerire il peso del contenuto degli
atti espressivi e direttivi, e i rafforzativi (come avverbi intensificatori “really; veramente” oppure
imprecazioni “Damn”), che lo appesantiscono.

❖ i loro modificatori esterni: i modificatori esterni di Trosborg sono atti di supporto utili a giustificare il
diritto alla critica dell’espressivo e il diritto alla richiesta del direttivo. Possono però anche occuparsi
della faccia degli interagenti. Anche i modificatori esterni possono alleggerire o appesantire il
contenuto a tre livelli: a livello di discorso; a livello interpersonale; a livello di contenuto.

È difficile stabilire una scala di maggiore o minore cortesia complessiva quando diversi elementi di
modulazione vengono usati insieme e contraddittoriamente. Ad esempio in “Ma non può abbassare ‘sta
musica?”, la forma interrogativa alleggerisce la richiesta, ma l’aggettivo dimostrativo (‘sta) l’appesantisce.

Comunque, non è impossibile dare una giusta interpretazione alla protesta. In questo ci aiuta il contesto,
linguistico e extralinguistico.

Per quanto riguarda il CONTESTO SOCIOPRAGMATICO, extralinguistico, per la protesta l’entità della
minaccia alla faccia dell’interlocutore dipende dall’interazione di alcuni fattori (Brown; Levinson):
o la distanza sociale tra il parlante e l’ascoltatore: è costituito dalla familiarità che c’è tra i parlanti.
Wolfson ha notato che nella classe media anglo-americana il livello è più cortese tra interlocutori non
intimi, tra amici di uguale status sociale, tra colleghi di lavoro e conoscenti. Quindi, ai due estremi,
cioè tra intimi ed estranei, è più semplice mitigare l’atto minatorio della faccia, perché tra questi c’è
meno margine di negoziabilità della relazione.

o il potere relativo del parlante sull’ascoltatore: riguarda il modo in cui uno può imporre i propri piani e
l’attenzione alla propria faccia sull’altro. Ad esempio, tra intimi, un genitore ha più potere sul figlio
che non viceversa.

o il livello assoluto di imposizione: varia in base alla gravità del comportamento e all’impegno
dell’azione richiesta come riparazione. Ad esempio, una distrazione occasionale è una colpa minore di
un inganno ripetuto; abbassare il volume (suggerito dalle norme del vivere civile) è meno impegnativo
di abbattere una terrazza costruita abusivamente (richiesta dalla legge).

Quindi, prima di protestare in L2, secondo Olshtain e Weinbach, il parlante deve capire se il destinatario della
protesta compia un atto non conforme al codice comportamentale della sua cultura (alcuni atti sono accettati in
una cultura ma in un’altra no). Poi, bisogna considerare il contesto sociopragmatico delle variabili situazionali.
Infine, bisogna trovare il giusto equilibrio tra le componenti pragmalinguistiche per esprimere la giusta forza
illocutoria al fine di ottenere la riparazione desiderata.

Gli STUDI che hanno analizzato la protesta non sono molti. George confronta l’italiano napoletano e
l’inglese britannico, con parti di contrastività interculturale tra lo stile napoletano e quello torinese. Poi,
Bettoni e Rubino contrastano l’italiano veronese con l’inglese australiano. Nuzzo, studia l’italiano L2 di tre
apprendenti, 2 ispanofone e una tedescofona.

PROGETTO ITALO-AUSTRALIANO, di Bettoni e Rubino.

Il lavoro, in fase di elaborazione, riguarda lo studio contrastivo sulla realizzazione dell’atto della protesta in
inglese da parte degli australiani di origine anglo-celtica a Sydney, e in italiano da parte degli italiani a
Verona. Quindi i soggetti, in coppia, recitano una serie di 9 scenette con varie caratteristiche
sociopragmatiche (sono in realtà 15 perché, per distrarre i soggetti, ne hanno aggiunte 6 che richiedono un
complimento). Le scenette propongono situazioni facili da incontrare in tutte e due le culture (attivazioni di
ruolo= role enactments). Le istruzioni sono nella loro L1

1 Musica rock ad alto volume fino a tardi.

2. Posto al parcheggio qualcun altro ti prende il posto.

Sono due situazioni con attacchi diversi: il 1° più garbato e il 2° più brusco. Nella prima scena, in entrambi i
gruppi, troviamo elementi preliminari all’espressivo e al direttivo:

- saluti: hi; buonasera

- presentazioni: eh sono Viganò, Viganò Alessandra, la Sua vicina

- sollecitazioni: excuse me; senta

- fatismi: well, I’m I’m really good and it’s nice to have you in the neighbourhood

Nella seconda scena troviamo solo i sollecitatori di attenzione. Gli italiani sono più bruschi degli australiani:
usano meno saluti, presentazioni, fatismi, e più sollecitatori (meno gentili di altri elementi)

Poi, si va ad esaminare l’espressione della critica e la richiesta di riparazione. Per la prima ci sono 6 tipi di
strategie (es. nessuna menzione, menzione del comportamento, accusa indiretta/diretta della persona,
biasimo del comportamento/persona) e atti secondari (preparatorio, disarmante, giustificatorio)

Queste strategie possono essere accompagnate da dei modificatori esterni


- Nella scena della musica col vicino, tutti gli australiani tranne uno protestano esplicitamente, ma in modo
garbato, utilizzando gli atti secondari. Metà degli italiani, invece, protesta in modo implicito, chiedendo
subito la riparazione e l’altra metà, come gli australiani, non accusano mai la persona o il suo
comportamento. In entrambi i gruppi la protesta non è conflittuale.

-Nella scena del parcheggio, invece, gli australiani preferiscono strategie conflittuali, accusando
direttamente la persona, rimproverando il comportamento o la persona, anche con più strategie. Gli
italiani, invece, sono meno conflittuali, 6 su 10 menzionano lo sgarbo ma alleggeriscono con atti secondari.

Per la richiesta di riparazione ci sono 6 tipi di strategie: nessuna richiesta, negoziazione suggerimento,
domanda, pretesa, minaccia che possono essere accompagnati da atti secondari: preparatorio,
giustificatorio.

-Nella scena della musica, 4 australiani su 10 non chiedono la riparazione, confidando nella semplice
espressione della critica. E in 5 casi su 10 c’è la domanda di riparazione esplicita, ma attenuata da un atto
secondario. Gli italiani, invece, chiedono esplicitamente (3 su 10), altrettanti pretendono o minacciano.
Inoltre, solo un australiano parte più conflittualmente con l’atto direttivo, mentre gli italiani a farlo sono 6
su 10.

-Nella scena al parcheggio, 6 su 10 australiani e 5 su 10 italiani ricorre a strategie forti di domanda, pretesa
e minaccia. Tra i soggetti che non chiedono la riparazione, alcuni australiani non lo fanno perché se ne
vanno arrabbiati, mentre gli italiani non lo fanno perché ottengono la riparazione senza chiedere.

Quindi, nelle due scenette, i due gruppi si comportano in modo diverso in base alla situazione, ma in modo
coerente nelle tre fasi della situazione, cioè gli australiani, disturbati dalla musica rock, salutano, si
presentano e socializzano più degli italiani. Inoltre sono più garbati nell’esprimere la critica e la richiesta di
riparazione.

Per quanto riguarda la scena del parcheggio, questi stessi australiani reagiscono in modo più forte degli
italiani, accusando e non chiedendo la riparazione. La differenza tra le 2 situazioni è più marcata da parte
degli australiani che sono più garbati degli italiani nel primo caso, ma più conflittuali nel secondo.

Secondo Bettoni e Rubino queste differenze stanno nel fatto che gli anglo-celtici australiani pensano che la
situazione con il vicino di casa sia rimediabile e che sia più conveniente socializzare, dato che l’offesa subita
non è grave. Nella scena del parcheggio, invece, gli australiani sono certi della malafede dello sconosciuto,
quindi la situazione è irrimediabile e non vale la pena insistere. Per gli italiani, invece, le due situazioni sono
simili, quindi utilizzano in entrambe la stessa dose di aggressività, sperando di ottenere la riparazione. Nel
caso della musica, i 10 interpreti australiani ottengono tutti la risoluzione, utilizzando modi più garbati,
mentre solo 8 italiani la ottengono. Nel caso del parcheggio, 4 italiani su 10 ottengono la risoluzione del
problema, mentre per gli australiani solo 2 su 10. Quindi essere più civili e garbati porta migliori risultati.

Abbiamo, poi, l’analisi di George su

DUE EPISODI DI PROTESTA A ISCHIA.

La ricercatrice, seduta presso la cassa del “Negombo”, un Bagno con spiaggia e piscine termali a Ischia,
registra delle conversazioni riguardanti delle proteste da parte del pubblico e raccoglie dei dati.

-La prima conversazione avviene tra il cassiere e una cliente torinese: La signora torinese inizia la protesta
con il direttivo, giustificandolo con il diritto che chi arriva prima prende il posto in prima fila, basandosi
anche su come era organizzato l’anno precedente. Invece deve accontentarsi dell’ultima fila a causa dei
posti prenotati. Ogni volta che il cassiere risponde, lei utilizza controargomentazioni ma alla fine cede e se
ne va.

-Nella seconda conversazione partecipano la signora napoletana, il cassiere, il custode, il cameriere del
ristorante e il bagnino: La cliente napoletana ha cancellato la prenotazione perché non le danno un posto
vicino alla piscina naturale, così come le era stato promesso il giorno prima, e quindi se ne lamenta alla
cassa. Anziché chiedere la restituzione dei soldi per un servizio che non viene dato ma che era stato
garantito, preferisce forzare per ottenere ciò che vuole. La cliente torinese vuole ottenere il posto sulla
base di un suo diritto, quella napoletana attraverso l’aiuto del cameriere. Quando il cassiere le offre un
posto sulla spiaggia o alla piscina termale, dapprima mostra che è disposta a trattare e, poi, che non è
disposta a mollare. George nota che la cliente torinese si basa sul fatto che gli impiegati lavorino con una
serie di regole uguali per tutti i clienti, mentre la napoletana fa affidamento sulla pressione del potere, per
far cedere l’impiegato attraverso l’insistenza.

George, contrapponendo le due nozioni del sociologo tedesco Tönnies, ritiene che Napoli rappresenti un
caso di Gemeinschaft è una società basata sull’amicizia, personalizzata, con la possibilità di esprimersi e
relazionarsi agli altri nella comunità. La Gesellschaft (Torino) è una società basata su principi teorici uguali
per tutti, industrializzata, dove bisogna rispettare delle norme e in cui valgono determinati diritti.

5. La conversazione
La conversazione viene realizzata diversamente in alcune lingue dal punto di vista della sua organizzazione
collaborativa e sequenziale, per cui bisogna trattare la collaborazione tra gli interagenti e la sequenzialità
dei turni, focalizzando l’attenzione sulle mosse e sui turni della conversazione. Si tratta quindi dell’analisi
dell’inter-azione co-prodotta da co-autori che co-operano. Dobbiamo considerare in primo luogo la
sequenzialità delle mosse, cioè, come, all’interno di uno stesso macro atto, alcune mosse possano
verificarsi in posizioni diverse contribuendo a produrre stili di conversazioni diverse. In secondo luogo,
dobbiamo considerare l’avvicendamento dei turni tra interlocutori.

Tra tutti i fenomeni caratteristici della conversazione, ci concentriamo su quello specifico


dell’organizzazione preferenziale della dispreferenza. Nelle coppie adiacenti, o sequenze complementari,
ci sono due parti, prodotte in turni diversi dai parlanti; queste hanno un ordine preciso: la prima, viene
prodotta da un parlante con l’aspettativa che l’interlocutore produca la seconda parte di complemento.
Per esempio, se chiedo l’ora mi aspetto che mi venga data, ma è anche possibile che non mi venga data. Le
seconde parti di una coppia adiacente complementare possono variare in base a se le aspettative riguardo
a come la conversazione dovrebbe svolgersi normalmente, vengono soddisfatte o meno. Nel primo caso (se
le aspettative vengono soddisfatte), parleremmo di sequenza preferita, nel secondo (se le aspettative non
vengono soddisfatte) di sequenza dispreferita. Queste presentano una struttura diversa: quelle preferite
sono generalmente brevi, semplici, immediate, quindi non marcate, mentre quelle dispreferite sono più
lunghe, complesse e marcate e tendono ad essere evitate. La lunghezza e la complessità delle sequenze
possono variare in base ad elementi come scuse, giustificazioni, esitazioni (come ehm e mah), ecc.
Nonostante non si tratti di nozioni psicologiche, bensì strutturali, c’è una motivazione psicologica e sociale
per la quale le seconde parti preferite sono semplici, concise, immediate, più comuni, non marcate, e al
contrario quelle dispreferite sono più complesse e marcate. Gli enunciati dispreferiti, infatti, a differenza di
quelli preferiti, minacciano la faccia degli interlocutori e pertanto richiedono un lavoro di riparazione per
rimediare alla dispreferenza, da cui derivano complessità e lunghezza. Ma la questione dell’organizzazione
preferenziale può avere conseguenze, oltre che sulla seconda, anche sulla prima parte di una coppia
adiacente. Il parlante, per evitare di esporsi a una reazione dispreferita che minaccerebbe la sua faccia, può
“mettere le mani avanti” e preparare nel suo turno una reazione preferita:

Rag. Giovanardi: Lei non saprebbe l’ora, no?


Geom. Vecchiato: no, ho lasciato l’orologio a casa.

In questo esempio, il rag. Giovanardi anticipa la risposta negativa del geom. Vecchiato, per cui, quando
arriva la risposta, essa è tecnicamente preferita, cioè è in accordo dal punto di vista formale con la
domanda, anche se sostanzialmente non soddisfa il reale desiderio del ragioniere di ottenere informazioni
sull’ora. Il fenomeno delle sequenze preferite/dispreferite probabilmente è universale, ma il modo in cui la
preferenza/dispreferenza viene realizzata non lo è.

ZORZI - DISPREFERENZA IN ITALIANO E IN INGLESE

Lo studio di Zorzi rientra nell’ambito del noto progetto di ricerca PIXI sulla pragmatica degli incontri di
servizio in inglese e in italiano cui hanno partecipato (dal 1984) ricercatori di 6 università italiane. I dati di
questo progetto consistono in circa 400 incontri di servizio registrati in librerie italiane a Bologna e inglesi a
Londra. Nelle interazioni tra cliente e commesso nelle librerie italiane e inglesi sembra che la realizzazione
dell’opzione preferita avvenga nello stesso modo e si presenti con la stessa struttura formale: breve,
semplice, immediata. La risposta dispreferita è invece diversa nelle due lingue. Se in italiano, ad esempio,
la risposta dispreferita viene fornita immediatamente, in inglese è ritardata da esitazioni (errr) e da segnali
che prendono tempo (well), che servono da lavoro di riparazione e preparano la dispreferenza, ovvero la
negoziazione dell’accettabilità della risposta dispreferita, prima della produzione del no da parte del
commesso. In italiano, invece, c’è prima la risposta dispreferita da parte del commesso, in seguito c’è il
lavoro di riparazione con la negoziazione della dispreferenza, solo quando questo lavoro viene compiuto e
si è rimediato alla dispreferenza, l’incontro si può concludere. Dunque, se le due lingue hanno in comune la
ricerca sistematica della preferenza e il fatto che un incontro si possa chiudere solo dopo una coppia
preferita, è diverso il modo con cui i due interlocutori ci arrivano: post-riparatorio in italiano e preparatorio
o pre-riparatorio in inglese. Queste due tendenze opposte hanno delle conseguenze sull’apertura e sulla
chiusura degli incontri italiani e inglesi. Per quanto riguarda l’apertura, in tutte e due le lingue, insieme alla
richiesta vera e propria da parte del cliente, possono esserci degli elementi pre-modificatori (come saluti,
richiami del commesso), oppure post-modificatori (riformulazioni della richiesta, proposte alternative).
Quando il cliente intuisce che la propria richiesta sia problematica, questi elementi vengono distribuiti
diversamente nelle due lingue. In italiano, il cliente fornisce un’espansione (l’informazione dell’editore nel
caso dell’esempio) che riguarda la richiesta fatta e aiuta a chiarirla dopo averne data una inadeguata,
poiché alla fine è rilevante la risposta referenziale, sia essa positiva o negativa. In inglese invece, oltre alla
risposta referenziale, è importante anche quella formalmente preferita, dunque, il cliente gioca d’anticipo,
fornendo un’espansione che non riguarda la richiesta, bensì la risposta, infatti, non fornisce dati utili ad
ottenere ciò che desidera, ma che aiutano il commesso a dare una risposta preferita, cioè anticipa una
sequenza di accordo formale. Per quanto il modo in cui il diverso trattamento della dispreferenza in italiano
e in inglese incida sulla chiusura, bisogna innanzitutto considerare che in italiano, ci insegnano da bambini
che al grazie debba seguire quasi automaticamente il prego, a scuola ci insegnano che in inglese
l’equivalente del prego (per esempio you’re welcome) è più raro e marcato, ma se è vero che in italiano si
risponde ai ringraziamenti più spesso che in inglese, anche in una stessa lingua i ringraziamenti a volte ci
sono, a volte no. In inglese la routine equivalente al grazie-prego è estremamente rara perché la
dispreferenza è rimediata prima del no esplicito, dopodichè segue immediatamente e spontaneamente la
proposta, quindi basta l’accettazione della proposta, la tendenza anticipatoria del commesso inglese rende
superflua la sua ratifica finale. In italiano, l’aggiunta del prego al grazie del cliente consiste in un lavoro
rimediale del commesso che rassicura il cliente, dopo avergli fornito una proposta sollecitata dal cliente
stesso e qualificata in modo pessimo, da cui la necessità di rassicurare il cliente sul fatto che non ha altro di
meglio da proporgli.

-Nell’interculturalità, quando interagiscono un cliente inglese e un commesso italiano, i due modelli per
negoziare la dispreferenza si scontrano: il cliente segue il suo e altrettanto fa il commesso, l’incontro si
conclude negativamente sia sul piano transazionale sia su quello conversazionale. GLI INTERLOCUTORI
MANTENGONO IL PROPRIO STILE L1.

LA GESTIONE DEL DISACCORDO (momento in cui esprimo una discordanza- atto minatorio che minaccia la
faccia)

Qui ci interessa la TEORIA DELLA CORTESIA di Brown e Levinson, basata su tre assunti: essa prende atto del
fatto che i parlanti sono esseri razionali e in quanto tali scelgono il modo migliore per raggiungere il loro
scopo; poi, basandosi sulla nozione della faccia di Goffman, ne considera importantissima la gestione;
infine, considerando gli atti, sostiene che alcuni intrinsecamente minacciano la faccia degli interlocutori più
di altri (proteste, disaccordi, ecc.). Secondo Brown e Levinson, il modo migliore per salvare la faccia nel
compiere un atto minatorio, è scegliere tra 5 strategie principali:

1. Compi l’atto esplicitamente senza azione rimediale (non la vedo come te)
2. Compi l’atto esplicitamente con azione rimediale di cortesia positiva (sei intelligente ma)
3. Compi l’atto esplicitamente con azione rimediale di cortesia negativa (non ti voglio convincere ma)
4. Compi l’atto implicitamente (cambiare discorso)
5. Non compiere l’atto
A quelle principali si aggiungono una larga serie di strategie minori. Più minaccioso è l’atto, più il parlante
vorrà scegliere una strategia che lo minimizza, minore è la stima del rischio di perdere la faccia, minore è la
cortesia, e più diretto l’atto. La scelta tra queste 5 strategie principali e tra le altre minori del lavoro
rimediale (esitazioni, pause, giustificazioni, ecc.), non dipende solo dalla stima del rischio che comportano
per la faccia, ma anche dal calcolo del valore di altre tre variabili: la distanza sociale tra il parlante e
l’ascoltatore, il potere relativo del parlante sull’ascoltatore, e il livello assoluto di imposizione.

CHENG- DISACCORDO TRA ANGLO-CELTI E CINESI

Il lavoro di Cheng sull’analisi della diversa organizzazione preferenziale del disaccordo consiste in 25
conversazioni spontanee della durata di complessiva di 13 ore. In ogni conversazione interagiscono due
parlanti diversi, l’uno anglo-celtico parlante di inglese L1, l’altro cinese parlante di inglese L2. Il disaccordo è
un atto che minaccia la faccia dell’interlocutore, quella positiva perché il parlante non condivide il suo
punto di vista e quella negativa perché gliene impone uno diverso e contrario. In quanto tale, ci sono
culture che tendono ad evitarlo più di altre o almeno a ripararlo con un lavoro discorsivo maggiore. Le tre
ipotesi di Cheng sono:

● I cinesi in inglese L2 esprimono il disaccordo nei confronti degli anglo-celti più spesso dei nativi
inglesi;
● I cinesi, rispetto agli interlocutori anglo-celti, nell’esprimere il disaccordo usano un numero minore
di strategie esplicite senza rimedio;
● I cinesi, paragonati agli interlocutori anglo-celti, usano maggiore lavoro rimediale nell’esprimere il
disaccordo.

I dati presi in considerazione sono eterogenei, i primi contrastivi italiani e inglesi (di Zorzi), gli altri
interculturali anglo-celti e cinesi (di Cheng). Abbiamo constatato che, mentre nel confronto italiano-
inglese sono gli inglesi che compiono maggiore lavoro rimediale e tendenzialmente prima della parte
conflittuale, nel confronto inglese-cinese, sono gli inglesi che tendono a farne di meno e a farlo dopo.
Inoltre, mentre negli esempi di Cheng lo sforzo collaborativo tra amici e colleghi ha sempre permesso
un pacifico svolgimento della conversazione, nonostante gli stili diversi, Zorri negli esempi ha mostrato
come tra estranei stili conversazionali diversi possono essere causa di fraintendimenti. Inoltre, mentre
nel lavoro di Zorzi mancano considerazioni non linguistiche sulle motivazioni culturali che potrebbero
portare italiani e inglesi a usare stili conversazionali diversi, nel caso di Cheng, questo tipo di
considerazioni sono esplicitate addirittura come ipotesi da provare. Si tratta di due lavori con
prospettive e intenti diversi, a Cheng interessa sostanzialmente provare l’abbinamento lingua-cultura, a
Zorzi interessa mostrare le regolarità conversazionali.

INTERRUZIONI

Al centro della conversazione vi è il cambio di turno tra chi vi partecipa. Normalmente, questo cambio
avviene al punto tecnicamente chiamato punto di rilevanza transizionale (PRT), identificato da elementi
sintattici, semantici, intonativi, ecc. in cui un parlante smette di parlare e l’altro incomincia. Questa è la
regola d’oro: un parlante per volta. Ovviamente, le violazioni a questa regola sono frequenti. Le cause e i
modi in cui la regola viene violata possono variare molto da lingua a lingua, da cultura a cultura e da
situazione a situazione all’interno di una stessa lingua e cultura. Funzionalmente, così come la gente
comune, anche la ricerca è partita in un primo momento considerando le interruzioni generalmente
irrompenti, aggressive e correlate con questioni di potere (interrompono di più quelli che se lo possono
permettere), di genere (interrompono di più gli uomini delle donne), tra le donne interrompono
maggiormente quelle sicure di sé rispetto a quelle insicure, nonché di ansietà sociale (interrompono di più i
meno ansiosi) e di loquacità (interrompono di più i più loquaci). Anche recentemente persiste l’opinione
che interrompere voglia dire generalmente atteggiamento ostile, violazione del diritto alla parola e così via.
Tuttavia, opinioni meno negative vedono il discorso simultaneo come espressione di entusiasmo, e in
generale correlato con questioni affettive ed emotive di partecipazione e incoraggiamento. Altri ancora lo
hanno interpretato positivamente e sostenuto che potesse servire per indicare ascolto e comprensione, per
chiedere chiarimenti e per presentare legittimamente il proprio punto di vista. Il discorso simultaneo varia
non solo funzionalmente ma anche strutturalmente. Le principali variabili strutturali sono tre:
● La lunghezza della sovrapposizione: da una sillaba, a una sequenza più lunga, fino a un intero
enunciato
● La sua posizione: più o meno vicina al punto di rilevanza transizionale (PRT); PROBLEMA: si può
distinguere tra sovrapposizioni e interruzioni. Le prime inizierebbero nelle immediate vicinanze del
PRT, le seconde lontano dal PRT. Ma, come nota Zorzi, non esistono criteri assoluti, semantici,
sintattici o intonativi, per determinare il PRT a priori senza che gli interagenti lo riconoscano come
tale; inoltre il termine ‘sovrapposizione’ è essenzialmente descrittivo, mentre ‘interruzione’ è più
interpretativo.
● E l’effetto che produce: permettere o impedire al parlante che detiene il turno di proseguire;
PROBLEMA: si potrebbe distinguere tra interruzioni supportive e interruzioni competitive, le prime
sarebbero quelle in cui il parlante del primo turno continua a parlare, le seconde quelle in cui viene
fermato.

L’interruzione può non coincidere con un PRT ma con un momento di pausa causata da difficoltà di
pianificazione del discorso, può essere vista tanto come un intervento irrompente (funzione competitiva)
quanto come un intervento collaborativo volto a riempire la pausa (funzione collaborativa). Vi sono dei
parametri oggettivi e contestuali che possono aiutare a precisare il fenomeno del discorso sovrapposto.

I PARAMETRI OGGETTIVI sono quelli che valgono sempre, indipendentemente dal contesto e sono:

● Altezza del tono e/o volume della voce


● Durata della sovrapposizione
● Insistenza o arrendevolezza
● Distanza dal PRT
● Presenza o assenza di modalizzatori
● Accordo o disaccordo proposizionale
● Mantenimento o cambio di argomento

I PARAMETRI CONTESTUALI del discorso sovrapposto sono quelli il cui valore viene stabilito dalle specifiche
circostanze dell’enunciazione. Tra questi:

● Il rapporto di status tra interlocutori


● Lo scopo dell’interazione
● L’urgenza psicologica
● La causa di forza maggiore
● Lo stile individuale
● L’abitudine culturale

È evidente che da cultura a cultura può cambiare l’interpretazione di ogni parametro, oggettivo o
contestuale. Nella

LETTERATURA CONTRASTIVA E INTERCULTURALE

domina l’inglese, sono infatti classici i lavori di Deborah Tannen sullo stile conversazionale degli ebrei a New
York, che possiamo definire ‘a mitraglietta’, è un fenomeno sociale che tipicamente esprime interesse per
l’argomento e pieno coinvolgimento. Tuttavia, in una conversazione interculturale, quindi all’esterno della
comunità, può essere percepito come aggressivo.

All’estremo opposto rispetto agli ebrei di New York, vi è la percezione che i finlandesi tollerino un silenzio
più lungo tra turni e interrompano poco.

Per quanto riguarda le culture orientali, secondo Murata, in quella giapponese prevale l’imperativo
territoriale che pone maggiore enfasi sul diritto del parlante di finire il proprio turno. Dunque, quando i
giapponesi conversano tra loro, tendono a seguire la regola d’oro di un parlante per volta, soprattutto con
chi è gerarchicamente superiore. Questo comportamento contrasta con quello dei britannici che
interrompono in misura maggiore dei giapponesi e in misura uguale se stanno parlando tra loro o con i
giapponesi, mentre questi ultimi, parlando con i britannici, tendono ad adattare il loro stile a quello inglese
interrompendo di più di quanto non facciano parlando in giapponese tra di loro, ma mai quanto i britannici
con loro.
Cheng, analizzando le sue 25 conversazioni in inglese tra cinesi di Hong Kong e parlanti nativi di varia
provenienza anglosassone, conferma tutte le ipotesi iniziali, cioè, che rispetto agli anglofoni:

● I cinesi presentano meno casi di discorso simultaneo


● Lo fanno più spesso al PRT o nelle immediate vicinanze
● Cedono il turno più prontamente, indipendentemente dalla posizione in cui il discorso sovrapposto
è iniziato, e indipendentemente da se stanno parlando loro e vengono interrotti o se stanno
interrompendo loro.

Dunque i cinesi, come i giapponesi, seguono la regola d’oro dell’uno per volta e sono più collaborativi nel
conversare rispetto agli anglosassoni.

Noi italiani siamo noti per parlare a voce alta, tutti insieme e per interrompere senza controllo, alcuni studi
partono proprio per sfatare o confermare questo stereotipo, confrontando il nostro modo di interrompere
con quello britannico, tra cui: Testa (1988), Zorzi (1990) e Bargiela-Chiappini e Harris (1995,1997).

TESTA

è uno studio contrastivo di due serie di conversazioni in inglese L1 e in italiano L1, ottenute rispettivamente
in Inghilterra e in Toscana. Sono amici e parenti che vengono registrati a loro insaputa. L’analisi quantitativa
delle diverse categorie di sovrapposizioni, non rivela differenze significative tra le due lingue, anche l’analisi
qualitativa mostra delle somiglianze. In primo luogo, sia tra gli inglesi sia tra gli italiani i motivi più frequenti
per partire prima che l’interlocutore abbia finito sono rappresentati dalla conoscenza condivisa di quanto si
sta dicendo. In secondo luogo, sia gli inglesi sia gli italiani partono premettendo alcuni modificatori, sia per
accaparrarsi il turno, sia per controllare l’argomento della conversazione. La grossa differenza sta nel
diverso impiego degli elementi lessicali usati nel discorso sovrapposto: da una parte gli inglesi tendono a
interrompere il parlante di turno iniziando con well e un segnale affermativo (yea, yea well, well yea) e
usano pochissimo but. Dall’altra parte, fanno un largo uso del ‘ma’ iniziale (che traduce but), e scarso uso
del be’ e del sì be’ (well e yea well). La percezione di maggiore aggressività degli italiani può essere dovuta
non al numero di interruzioni ma alla scelta lessicale compiuta nel praticarle.

Bargiela-Chiappini e Harris mella loro analisi, queste studiose usano due criteri per distinguere tra
interruzioni e sovrapposizioni: la distanza dal PRT, che può essere vicina o lontana, e la natura del
contenuto proposizionale, che può essere di supporto o in contrasto con quanto detto dal primo parlante in
termini sia di convergenza/divergenza semantica, sia di continuità/discontinuità dell’argomento. Le autrici
concludono che per quanto riguarda il discorso sovrapposto nel comportamento degli italiani e dei
britannici ci sono più somiglianze che differenze e che tale risultato dipende ovviamente dal fatto che, in
questo caso, la variabile dominante è il genere del discorso delle riunioni manageriali.

(DOMANDE ESAME CAP: DISACCORDO, DISPREFERENZA, INTERRUZIONI, MASSIME


GRICE-cap.precedente)
Apprendimento e insegnamento
La competenza pragmatica è la capacità di operare delle scelte in relazione al contesto comunicativo in cui
ci si trova; la competenza pragmatica si compone poi di due sottocomponenti che sono la componente
socio pragmatica e quella pragmalinguistica. La componente sociopragmatica ha a che vedere con le norme
sociali che regolano l'agire linguistico in una specifica cultura cioè quello che è appropriato fare
linguisticamente in una cultura e quello che non è appropriato fare in un'altra cultura. ES. nella cultura
italiana nel contesto funebre non è appropriato ridere. La componente pragmalinguistica invece ha a che
vedere con la capacità di sapere utilizzare delle forme linguistiche associate alle molteplici funzioni, sapere
operare delle modificazioni delle forme linguistiche a seconda del contesto in cui ci si trova.

In L2? Quando non si sviluppa una competenza pragmatica adeguata il fenomeno che accade più facilmente
è il transfer (domanda esempi di transfer), fraintendimenti interculturali (bring a plate), mancato
apprendimento (non volontà di apprendere alcune norme pragmatiche che non si condividono).
RICHIESTA

(apprendimento della richiesta-atto del complimento, protesta (riflessioni di carattere interculturale e


constrastivo) è un atto direttivo, con il quale il parlante cerca di orientare l’azione dell’interlocutore, che è
chiamato così a sostenere un costo più o meno alto in termini di tempo, sforzo o beni materiali. E’ un atto
minaccioso. Si possono richiedere varie cose di natura verbale, come fornire un’informazione, e non
verbale, ad esempio dare un oggetto o prestare un servizio. Come nota Trosborg, non sempre è facile
distinguere la richiesta da altri atti impositivi, come il suggerimento, il consiglio, o la minaccia, poiché la
richiesta può assumere la forma di questi atti: “che ne diresti dell’idea di potare le rose?”; “se non poti le
rose non ti faccio il dolce di mandorle”. In tutti i casi di richiesta, comunque, è il contesto comunicativo a
chiarire e rendere evidente il loro valore illocutorio. La Teoria della cortesia di Brown e Levinson (1987)
colloca la richiesta tra gli atti che minacciano la faccia. Infatti, chi fa la richiesta limita la libertà d’azione
dell’interlocutore orientando il suo comportamento a proprio vantaggio, quindi ne minaccia la faccia
negativa. D’altra parte però, formulando la richiesta, mette in gioco la propria faccia positiva, poiché il
destinatario potrebbe reagire opponendo un rifiuto. Come per gli altri atti minacciosi (per esempio la
protesta), anche per la richiesta il peso della minaccia è il risultato dell’interazione di tre principali fattori: la
relazione di potere tra i partecipanti alla comunicazione; la loro distanza sociale; la valutazione del grado
d’imposizione della richiesta. Il grado di imposizione a sua volta dipende dal tipo di azione oggetto della
richiesta, che può essere più o meno importante per chi la richiede, e più o meno impegnativa per chi la
riceve. Questi tre fattori vanno considerati nell’ambito del contesto comunicativo, che istituisce tra gli
interlocutori un sistema di diritti e doveri legato alle loro competenze specifiche e occasionali. Per quanto
riguarda la forma grammaticale, il modo più esplicito attraverso il quale il parlante può ottenere l’effetto
che intende dare al suo messaggio (affermazione, richiesta, ordine, offerta, promessa…) è, in italiano, come
in inglese e in molte altre lingue, l’uso di un verbo performativo. Per la richiesta il verbo più ovvio è
chiedere: “ti chiedo di potare le rose”; ma, in modo meno esplicito, si può esprimere una richiesta
utilizzando l’imperativo: “pota le rose”. Il modo più diffuso per compiere questo atto è, in italiano come in
altre lingue, la domanda: “puoi potare le rose?”. Per individuare un enunciato come richiesta bisogna
verificare che esso contenga le due caratteristiche che contraddistinguono questo atto, cioè: il beneficio per
il richiedente e il costo per l’interlocutore, se il beneficio fosse dell’ascoltatore e il costo del parlante allora
si tratterebbe di un’offerta: “scegli la rosa più bella”. Formulare una richiesta è in qualche misura un atto
pericoloso per la relazione tra i due attori della comunicazione, per questo, chi inoltra la richiesta cerca di
ridurre il rischio utilizzando mezzi linguistici che possano attenuare il peso della minaccia. Per esempio, il
richiedente può verificare in anticipo se sussistono le condizioni affinchè l’interlocutore possa compiere ciò
che gli viene domandato:

Rosa: senti, ti sei portato dietro l’orologio?

Margherita: sì, ce l’ho nel borsone

Rosa: be’ dai allora, dimmi che ore sono

Fedele: non è che oggi ti sei portato dietro l’orologio?

Costanza: no, l’ho lasciato a casa

Fedele: be’ pazienza

Le strategie per l’espressione della richiesta, come per altri atti, possono essere: dirette (obbligo, ellissi,
performativo, imperativo “chiudi la porta”, “ti chiedo di chiuderla”) o indirette. Sono dirette quando
veicolano un’unica forza illocutoria indicata nell’enunciato attraverso elementi grammaticali, lessicali o
semantici specializzati in questa funzione. Sono indirette quando invece offrono la possibilità di veicolare
una forza illocutoria diversa.

Inoltre, le strategie indirette vengono distinte in convenzionali e non convenzionali (cortesi, non
esplicitano). Tra le strategie convenzionalmente indirette si può distinguere ulteriormente tra quelle che
indagano sull’abilità o disponibilità dell’interlocutore ad assecondare la richiesta e quelle che invece
affermano l’abilità o la disponibilità, o ancora tra quelle orientate sull’interlocutore e quelle che invece si
basano su desideri e bisogni del richiedente. Le strategie non convenzionalmente indirette sono
teoricamente totalmente aperte, illimitate ed imprevedibili, e vengono interpretate in base al contesto
comunicativo. Ad esempio, la richiesta di potare le rose, potrebbe essere formulata indirettamente e non
convenzionalmente in mille altri modi: io
adesso sono stanca= perciò pota tu le rose; oggi ho già segato il prato= quindi tocca a te potare le rose;
domani vengono gli zii= bisogna fare bella figura> il giardino deve essere in ordine> pota le rose.

Gli studi sull’apprendimento della richiesta si sono focalizzati sia sulla comprensione della richiesta sia sulla
produzione.

1. Per quanto riguarda la COMPRENSIONE, c'è uno stretto rapporto tra grammatica e pragmatica nel senso
che se non ho sviluppato anche un'adeguata competenza morfosintattica sarà sicuramente più difficile
comprenderne gli aspetti pragmatici cioè se io non sono in grado di capire i verbi modali in italiano non sarò
in grado di capire tutte le forme con le quali può essere espressa una richiesta (vorrei dovrei potrei);quindi
il grado di competenza linguistica nella L2 sicuramente influenza la comprensione pragmatica delle
implicature perché quanto più sono competente in una lingua seconda, tanto più sono in grado di capire
quand'è che mi viene fatta anche una richiesta indiretta, meno sono competente, meno sarò anche in
grado di comprendere delle richieste implicite; è anche vero però che anche livelli alti di competenza ci
possono essere dei casi in cui possono mancare delle specifiche conoscenze culturali “Bring a plate” (casi
di opacità culturale).

Cook e Liddicoat è uno studio australiano che analizza la comprensione di 15 brevi scenette inglesi,
contenenti richieste realizzate con tre tipi di strategie: 5 dirette, 5 indirette convenzionali e 5 indirette non
convenzionali. I soggetti sono 150 studenti universitari, un terzo parlanti nativi di inglese, un terzo
giapponesi e un terzo cinesi. I risultati mostrano come tutti i soggetti interpretino più correttamente le
richieste dirette, seguite da quelle convenzionalmente indirette, mentre forniscono maggiori
interpretazioni letterali dispreferite per quelle indirette non convenzionali. Inoltre, come si può prevedere,
il calo nella comprensione è maggiore passando dai parlanti nativi fino a quelli con competenza minore.

2.Per quanto riguarda gli stadi di sviluppo della PRODUZIONE dell’atto della richiesta, ci rifacciamo a una
scaletta di Kasper e Rose che riassume i risultati di due studi sull’apprendimento quasi ab initio dell’inglese
L2:

-pre-basico: l’efficacia della richiesta si poggia su fattori contestuali, niente sintassi, niente scopi relazionali
es. coffee

-formulaico: non analizzate e imperativi es. andiamo

-spacchettamento: Strategie indirette convenzionali (i modali ad esempio) es. vuoi venire?

-espansione pragmatica: sintassi più complessa, uso di elementi di mitigazione

-messa a punto

Nuzzo

(2005) sembra essere finora l’unico progetto che analizza alcuni atti linguistici in italiano L2, di esso fa parte
anche un lavoro sull’atto della richiesta. Vengono seguite per cinque mesi 3 donne immigrate residenti a
Milano, dove lavorano regolarmente e frequentano lezioni di italiano due volte la settimana: Betty, tedesca
di 32 anni, Karen, peruviana di 34 e Anna ecuadoriana di 24. I dati vengono rilevati attraverso giochi di ruolo
proposti anche a un gruppo di 16 parlanti nativi di età ed estrazione sociale simili. Per quanto riguarda
l’apprendimento della richiesta, nei cinque mesi di osservazione, dato lo stadio già sufficientemente
avanzato delle apprendenti, non viene registrato progresso nella scelta della strategia principale. Come i
parlanti nativi, le tre apprendenti già utilizzano soprattutto le richieste indirette convenzionali e
accompagnano la domanda con la giustificazione. La maggiore differenza tra i parlanti nativi e le
apprendenti sta nell’uso di modificatori interni all’atto principale. Le conclusioni offerte da Nuzzo
sull’apprendimento della richiesta in italiano L2 mostrano in primo luogo che, in cinque mesi di soggiorno a
Milano e di lezioni di italiano, tutte e tre le apprendenti progrediscono nell’uso dei modificatori. Il
progresso comporta un uso più frequente e una gamma più ampia dei mitigatori morfosintattici più
comunemente usati dai parlanti nativi. Tuttavia, in secondo luogo, la conoscenza delle forme grammaticali
sembra insufficiente per farne un uso pragmalinguistico adeguato. Ad esempio, pur sapendo formulare
l’interrogativa negativa, non la usano mai per mitigare la richiesta, nonostante sia frequente nell’input che
ottengono quotidianamente interagendo con gli italiani. Né, in terzo luogo, la conoscenza del valore
pragmalinguistico di alcuni elementi grammaticali sembra sufficiente per farne un uso
sociopragmaticamente simile a quello dei parlanti nativi. In quarto luogo, l’influenza della L1 agisce sia a
livello pragmalinguistico che sociopragmatico, e può essere tanto di vantaggio quanto di svantaggio. Per
esempio, nel caso del condizionale, la L1 spagnola funziona negativamente nell’interlingua di Karen, che,
avvertendolo come molto formale nella sua L1, è frenata nell’uso. Al contrario, la L1 tedesca probabilmente
aiuta Betty a espandere l’uso del condizionale, mentre nel caso del mitigatore ‘forse’ è relativamente
neutra, poiché se spinge a eccederne nell’uso, le richieste che lo contengono non risultano comunque
inappropriate.

Per quanto riguarda IL RAPPORTO TRA PRAGMATICA E GRAMMATICA, sembra tutt’altro che ovvio che la
grammatica debba sempre precedere la pragmatica. Kasper e Rose si dedicano alla questione dello sviluppo
più o meno parallelo di queste due competenze ed esaminano un’ampia serie di lavori che sembrano
arrivare a due conclusioni opposte:

● La pragmatica precede la grammatica


● La grammatica precede la pragmatica.

In realtà, come concludono questi autori, non c’è contraddizione tra le due affermazioni, sono entrambe
corrette a diversi stadi dello sviluppo, e probabilmente anche in contesti di apprendimento diversi e per
elementi pragmatici diversi. L’argomentazione che la pragmatica precede la grammatica va intuitivamente
contro il buon senso, poiché prima di poter usare le parole bisogna conoscerle e saperle collegare l’una
all’altra. Ma, dal punto di vista della linguistica interazionale, possiamo intendere l’apprendimento della
lingua come indissolubilmente legato alle pratiche di socializzazione attraverso cui l’apprendente entra a far
parte di una comunità. In questa prospettiva, la grammatica non precede ma ‘emerge’ dalla miriade di
interazioni concrete che si svolgono tra i parlanti. Inoltre, l’apprendente già conosce numerose proprietà
pragmatiche che L1 e L2 condividono come regolarità, tendenze, strategie e principi per la costruzione dei
turni di parola e la gestione degli scambi verbali, la cortesia come strategia che salva la faccia degli
interagenti, la realizzazione più o meno diretta di molti atti linguistici, ecc. Negli stadi iniziali
dell’apprendimento, soprattutto se spontaneo nel paese della L2, l’apprendente usa quella che è stata
definita una pragmatic mode, un modo pre-sintattico di agire linguisticamente sfruttando il contesto
situazionale e discorsivo, insieme con quel minimo di lessico ed espressioni di cui già dispone o che va
contestualmente imparando. Possiamo osservare come tutto questo si applichi a una bambina che, senza
ancora la grammatica, con il ‘semplice’ espediente pragmatico della ripetizione riesce
contemporaneamente a imparare la L2 e a essere accettata come membro nella micro-cultura in cui è
inserita.

Pragmatica> PALLOTTI-FATMA

ES. Fatma è una bambina marocchina di 5 anni seguita da Gabriele Pallotti nell’acquisizione dell’italiano L2
per 9 mesi iniziando da quando conosce solo l’arabo marocchino. La rilevazione dei dati e l’apprendimento
avviene durante le classi della scuola materna cui partecipano altri 24 bambini, quasi tutti italofoni o
altamente italianizzati. All’asilo i bambini devono competitivamente guadagnarsi la partecipazione
all’interazione nei confronti sia dell’insegnante sia degli altri bambini, e chi ha scarse competenze
linguistiche rischia l’emarginazione. Così Fatma ripete spesso quanto viene detto da altri o da lei stessa.
Pallotti dimostra che, all’interno di singole rilevazioni, il numero delle ripetizioni aumenta con la
complessità dell’enunciato e la competizione comunicativa, invece, evolutivamente, le costruzioni verticali
autonome ottenute per mezzo delle auto-ripetizioni tendono ad aumentare in numero e in complessità nei
primi mesi man mano che cresce l’ambizione di comunicare, per poi ridursi mano mano che procede
l’apprendimento, quando Fatma acquisisce altri mezzi più avanzati per esprimersi e partecipare alle attività
conversazionali della sua micro comunità linguistica.
Grammatica> Frieda particelle modali

L’argomentazione che la grammatica precede la pragmatica necessita di minore difesa


dell’argomentazione contraria. Prendiamo in considerazione un esempio di apprendimento del tedesco L2
da parte di una donna italiana, Frieda, seguita per 3 anni dal quarto mese della sua permanenza a Berlino.
In tedesco, alcune parole con funzione primaria (lessicale) di avverbi e congiunzioni hanno anche la
funzione secondaria (pragmatica) di particelle modali. Queste particelle servono per regolare gli
atteggiamenti, le posizioni soggettive e l’atmosfera del dialogo, e sono dunque molto significative nella
comunicazione interpersonale. Tuttavia, queste particelle vengono apprese tardi dagli apprendenti di
tedesco L2 e anche una volta apprese vengono usate in misura insufficiente rispetto ai parlanti nativi. Nel
caso di Frieda, rispetto all’uso primario lessicale, c’è grande ritardo nell’uso pragmatico di quasi tutte le
particelle considerate. Particolarmente rilevante è il ritardo di ja, che nelle sue varie funzioni primarie come
quella di risposta affermativa, viene usato presto e con altissima frequenza, ma che nella sua funzione
modale viene usato solo dopo forse due anni e con sicurezza dopo tre anni, nonostante l’alto uso che
invece ne fanno anche modalmente i parlanti nativi. Questo ritardo potrebbe essere spiegato dalla scarsa
rilevanza fonologica con cui questa particella viene pronunciata e dalla posizione sintattica che occupa nella
frase. Oltre a queste cause strutturali, ciò che rende particolarmente difficile l’apprendimento e l’uso di ja,
è il suo significato altamente deittico1. Infatti, le particelle modali acquisiscono il loro significato dal
contesto, che perciò varia di volta in volta. Prima di poterle riusare in modo autonomo e originale,
l’apprendente deve notarne, capirne e ricordarne vari significati contestualizzati in un alto numero di
esempi diversi per poi estrapolarne funzioni deitticamente generalizzabili. Inoltre, sono poco parafrasabili e
spesso difficili da tradurre il L1.

INSEGNAMENTO DELLA PRAGMATICA

La letteratura che ha esaminato l’efficacia dell’insegnamento della pragmatica è giunta alla conclusione,
pressochè unanime, che in genere la pragmatica è insegnabile e che insegnarla serve per evitare
incomprensioni che possano minare la relazione tra i parlanti, per evitare discriminazioni. Non sappiamo
notare questi meccanismi nella L1.

(Liddicoat e Crozet- STUDIO SU FRANCESI E AUSTRALIANI)

in questo caso il punto interculturalmente ricco da imparare è la risposta alla domanda apparentemente
semplice T’as passé un bon week-end? Da parte di un gruppo di 10 studenti universitari australiani al loro
secondo anno di apprendimento del francese. La domanda viene scelta perché uno studio precedente ha
dimostrato come il modo in cui si risponde sia spesso causa di malinteso tra australiani e francesi nella vita
reale anche quando questi hanno competenze linguistica alta acquisita nel paese della L2. Infatti, australiani
e francesi alla stessa domanda nello stesso contesto, sembrano reagire seguendo diverse norme di
contenuto, di sequenziazione e di stile interazionale. Nell’inglese d’Australia la domanda di solito inizia uno
scambio ritualizzato che il lunedì mattina fa parte dei normali saluti e alla domanda che è formulaica, si da
una risposta formulaica. Spesso la conversazione si conclude qui. Se prosegue, lo fa con una descrizione
breve di attività altamente prevedibili. Nel contesto culturale francese, invece, la domanda non è di routine
e non si usa come saluto, ma è l’inizio di un argomento che si considera sufficientemente interessante per
essere svolto, con la conseguente aspettativa che verrà svolto nella conversazione che perciò diventa lunga
e dettagliata. Ovviamente si tratta di tendenze, anche tra anglofoni australiani le attività e gli eventi del
weekend possono diventare argomento di lunghe e dettagliate conversazioni, tuttavia non è la normale
scelta di default. Nell’esperimento di Liddicoat e Crozet l’insegnamento di queste differenze pragmatiche
agli studenti australiani avviene in quattro fasi (consapevolezza, sperimentazione, produzione, riflessione)
con varie attività (giochi di ruolo, spiegazione, analisi, ecc.) e dura 13 settimane (come parte di un modulo
più ampio che mira allo sviluppo dell’abilità orale in generale). I ragazzi vengono testati 3 volte: prima
dell’esperimento, alla fine e a distanza di un anno. I risultati indicano che l’insegnamento ha avuto successo
e che l’effetto positivo è durato nel tempo.

1
Tra le tecniche per l’insegnamento della pragmatica troviamo il roleplay, role-anactment, role-talking,
questionari, interviste singole, discussioni di gruppo, i task.

Gli studi dimostrano in generale una maggiore efficacia dell’insegnamento esplicito, con riflessione meta-
pragmatica.

È però innanzitutto necessario tenere presenti due fattori di variazione fondamentali:

● Il contesto di apprendimento
● L’età degli apprendenti
e
● Lingua seconda
● O lingua straniera

Le maggiori questioni che interessano la didattica, o meglio L’AZIONE PEDAGOGICA PIANIFICATA, per
l’insegnamento della L2 in generale sono queste:

● I bisogni: che cosa devono saper fare con la lingua gli apprendenti? Umanitari e sociali, Intellettuali
e culturali, Commerciali e industriali, Politici e strategici, Turisti e ricreativi
● Gli obiettivi: per quale scopo insegnare?
● I contenuti: che cosa insegnare?
● Le sequenze: in quale ordine?
● I metodi: come?
● I materiali: con quali mezzi?
● La verifica: come valutare l’insegnamento?

-Questi bisogni determinano prima di tutto quali lingue insegnare

● Il destino delle lingue minoritarie


● E la diffusione dell’inglese internazionale

Con la sostituzione dell’inglese alla lingua locale ne guadagna la comunicazione internazionale. Ma se la


funzione comunicativa è fondamentale, è importante anche la funzione dell’identità. La sua importanza è
tale che nell’abbandonare le vecchie lingue locali la gente che le parlava mantiene la diversità originale
producendo sempre nuove varietà della lingua nazionale e internazionale che le sostituisce. In questo senso
non avanza l’inglese ma avanzano gli inglesi (non solo scozzese, australiano, ecc. ma anche nigeriano,
indiano, singaporiano ecc.), allo stesso modo non avanza l’italiano ma avanzano gli italiani (non solo
piemontese e pugliese, ma torinere e novarese, barese e leccese, ecc.), secondo le esigenze della
popolazione locale che intende distinguersi affermando la propria identità diversa da quelle altrui. Il
pericolo di appiattimento mondiale su alcune, poche, lingue localmente modulate, è impedito da due
fattori: l’imperativo della incomprensione, finchè esiste la necessità di istituire o mantenere la
rappresentazione e l’identità di un gruppo fondato su una storia comune (vera o presunta, non importa), e
la meravigliosa realtà del plurilinguismo, che giostra inisieme numerose combinazioni di rappresentazione
e di identità senza rinunciare alla comunicazione. Insomma, nel considerare i bisogni e gli obiettivi più ampi
della programmazione è necessario tenere conto delle questioni di fondo, sia politiche sia linguistiche, in
termini non solo di comunicazione ma anche di identità.

-Dunque, per quanto riguarda la pianificazione pedagogica della componente pragmatica di un corso di L2,
bisogna stabilire una serie di specifici obiettivi perseguibili a lezione.

-Per la scelta dei contenuti pragmatici da insegnare è utile partire dai risultati delle ricerche. Ne è una
dimostrazione il Quadro comune europeo di riferimento per l’insegnamento delle lingue (Consiglio d’Europa
2002), un documento di grande importanza. Tuttavia, mentre è specifico nella presentazione degli obiettivi,
lo è meno sui contenuti sia linguistici sia pragmatici che servono per raggiungerli. Infatti, i criteri per la
selezione dei contenuti non sono facili da individuare, poiché la pragmatica include una lunga serie di
fenomeni alquanto eterogenei. Comunque, la selezione dei contenuti pragmatici di un programma di
insegnamento può avvenire in due direzioni. In una prima selezione, va chiarito il tipo di lingua che un corso
di lezioni vuole insegnare, nel senso di quale varietà, registro o stile. In questo, i criteri che guidano la
scelta sono principalmente di natura esterna alla lingua.
-In che sequenza vanno proposti alla classe gli elementi pragmatici della L2? Sono fondamentalmente due i
criteri che possono guidare nella programmazione:

● L’elaborabilità delle procedure grammaticali


● L’elaborabilità delle implicature

-I metodi di insegnamento devono richiedere che, anziché puntare sull’insegnante che informa, puntino
sull’apprendente che interpreta. ES di Gumperz delle inservienti indiane in un aeroporto inglese: erano
ritenute molto scortesi dai clienti, questo aveva a che fare con delle caratteristiche prosodiche (profilo
discendente dell’intonazione) delle inservienti dalla loro lingua materna.

-Se l’obiettivo ultimo è il comportamento linguistico culturalmente appropriato nella vita reale, e se il
metodo più efficace è la stimolazione all’analisi e all’interpretazione dell’apprendente, quali sono i
materiali didattici che risultano più utili? È utile proporre non solo testi interi piuttosto che frasi isolate, ma
anche testi completi del loro contesto situazionale e culturale, oggi facilmente ottenibili grazie alla
multimedialità. Una questione che ha a lungo dominato la glottodidattica è quella relativa all’autenticità dei
materiali, oggi, nell’insegnamento della L2, si riconosce che l’autenticità è un concetto relativo e che anche
un testo autentico, quando viene usato in classe, non viene usato autenticamente per lo scopo con cui era
stato creato. Tuttavia, nel caso della pragmatica, l’autenticità dei materiali rimane importantissima. E oltre
ai materiali, è essenziale a presenza di un parlante nativo.

-L’ultima tappa della programmazione didattica è la verifica delle competenze raggiunte, grazie alla quale
vengono valutati non solo il progresso degli allievi, ma anche l’efficacia della programmazione stessa. Se
infatti gli allievi progrediscono poco, le cause possono essere numerose: possono avere appreso male loro,
ma si può anche avere sbagliato nel determinare gli obiettivi e i contenuti del corso, nell’avere scelto
materiali inopportuni e così via. Nella verifica è bene chiarire esattamente che cosa si intende verificare e
sapere distinguere tra

● la conoscenza pragmatica (correggibile e testabile)


● e l’identità personale (da rispettare).

Oppure, da un altro punto di vista, è bene distinguere tra la recita in L2 in classe e l’uso reale della L2 fuori
dalla classe.

Inoltre possono esserci delle questioni ideologiche: es. donne americane in Giappone che non progredivano
nell’apprendimento di alcune norme sociopragmatiche in giapponese che ad esempio vedevano il ruolo
subalterno delle donne. In questo caso non apprendono ma lo fanno consapevolmente.

L’insegnamento della cultura

Nell’insegnarla il sistema educativo può includere di tutto: le pratiche di vita, le norme sociali gli studi
d’area: storia, geografia, arte, istituzioni, ecc.,il canone letterario. La pragmatica costituisce l’anello di
giuntura tra la cultura e la lingua. Oltre alla diversa interpretazione di che cosa costituisca cultura in un
corso di L2, anche gli obiettivi della componente culturale possono variare notevolmente. Hammerly ne ha
elencati dieci, grosso modo in ordine di difficoltà. Si alternano questioni più linguistiche, più cognitive,
affettive, come ai punti 3 e 9. Da un altro punto di vista, Stern ha identificato tre prospettive per gli obiettivi
dell’insegnamento della cultura

● la prospettiva dell’apprendente
● la prospettiva del parlante nativo della L2
● la prospettiva della ricerca

Riguardo alla prima, quando gli apprendenti si trovano nel proprio paese e la L2 è una lingua straniera,
fisicamente e psicologicamente lontana, l’insegnamento della cultura serve per dare un senso di realtà al
compito, per suggerire un contesto senza il quale la lingua rischierebbe di sembrare un vuoto sistema di
regole. In questo caso l’aspetto cognitivo predomina su quello affettivo. Per gli immigranti o per gli
apprendenti della lingua straniera che si trovano nel paese in cui viene parlata, l’insegnamento della cultura
offre l’opportunità di un’introduzione al nuovo ambiente. In questo caso l’aspetto affettivo può
predominare su quello cognitivo. In ogni caso, nel processo di familiarizzazione con la nuova cultura,
qualunque apprendente parte dal proprio punto di vista con aspettative e pregiudizi. In questo processo di
acculturazione dell’apprendente si possono riscontrare tre fasi: di shock culturale,stress culturale,di
assestamento. Questo percorso può sfociare nella completa assimilazione alla nuova cultura, nel completo
rifiuto o, più probabilmente, in un parziale adattamento. In ogni caso, l’esperienza diretta nel paese della
L1 è il metodo più efficace. Oltre a questo, ci sono vari modi per godere di un contatto diretto con la C2,
come la presenza di lettori di madrelingua che affiancano l’insegnante locale. Spetta all' apprendente
decidere tra l’assimilazione nella nuova cultura da una parte, il rifiuto o un parziale compromesso nella
creazione del suo proprio terzo spazio.

SORDI
Il percorso di formazione dei sordi prevede o una tradizione oralista (hanno l’italiano vocale come lingua
materna, quindi allenati a produrre dei suoni nell’italiano vocale) o tramite la lingua dei segni (hanno come
lingua materna la lingua italiana dei segni). I sordi, proprio perché non possono ascoltare, non sono esposti a
input orali.
Questo studio intende verificare la possibilità di estendere il quadro teorico proposto dal competition model ad
una particolare categoria di apprendenti, i sordi italiani. Ulteriore obiettivo del lavoro è evincere l’influenza
esercitata dalla lingua materna (italiano vocale o LIS) e dal canale comunicativo o acustico-uditivo (cioè orale o
visivo-gestuale) nella scelta dei candidati alla funzione di agente. Il modello della competizione è un approccio
sviluppato alla fine degli anni ’80 da Bates e McWhinney. È una teoria sia funzionalista sia cognitivista perché si
basa e cerca di capire come funziona l’elaborazione di un input da parte di un ascoltatore/lettore (si intende
l’elaborazione cognitiva di un input) rispetto ai meccanismi di associazione forma-funzione; quindi, per questo è
funzionalista. Il rapporto forma-funzione non è quasi mai (forse mai) di carattere biunivoco cioè ad una forma
corrisponde una funzione. Si fa l’esempio dell’agentività e si riprendono gli indizi formali che consentono di
capire chi è l’agente all’interno della frase.
Vengono riportati degli esempi:
(1) Mia sorella legge i fumetti (in questo caso l’agente è “mia sorella”)
(2) Il libro di fisica lo prendo io (in questo caso l’agente è “io” ma viene posto alla fine della frase quindi
cade e viene meno l’indizio dell’ordine delle parole)
(3) Le auto blu hanno scortato il Presidente della Repubblica (in questo caso viene meno l’animatezza perché
l’agente è “le auto blu”, che non sono esattamente animate)
(4) Gli scolari saluta i maestri (in questo caso, l’indizio che viene meno è l’accordo e si evidenzia anche qui
(come si era evidenziato nel manuale) che quando manca l’indizio dell’accordo la frase è sgrammaticata, in
italiano l’accordo è imprescindibile (è l’indizio più forte).
I tre parametri utili per valutare l’indizio più forte nell’individuazione dell’agente sono:
(1) Affidabilità: frequenza con cui ad una forma si associa una funzione
(2) Disponibilità: frequenza con cui un indizio ricorre nell’input
(3) Validità nel conflitto: rapporto tra il numero di volte in cui l’indizio si aggiudica la competizione con altri
indizi e il numero di volte in cui si trova in un conflitto, cioè quante volte vince nel momento in cui si trova in
competizione.
Anche i bambini pian piano riescono ad attribuire una forza agli indizi a seconda della lingua che stanno
apprendendo. I bambini italofoni riusciranno a capire che la lingua italiana, l’indizio più forte nell’espressione
dell’agentività è l’accordo. I bambini inglesi invece capiranno che l’indizio più forte è l’ordine delle parole.
Quali sono i partecipanti coinvolti? Sono diciotto informanti campani, sei udenti e dodici sordi tra 20/40 anni.
Solitamente in tutti gli studi di carattere sperimentale ci sono i partecipanti che sono il focus dello studio (i
balbuzienti, i sordi, i bambini dislessici, a seconda dello studio) e poi, solitamente, ci sono i partecipanti che
fungono da gruppo di controllo cioè che fungono da punto di riferimento sano. In questo caso, ci sono gli udenti
(che fungono da punto di riferimento) e poi si vede in che modo i sordi differiscono dagli udenti dalle loro
risposte.
All’interno del gruppo dei dodici sordi si hanno situazioni differenti:
- sei soggetti sordi avevano dichiarato di avere la LIS come lingua materna, provenienti da famiglie sorde
con un livello profondo di sordità, avevano seguito un percorso di scolarizzazione in istituti per sordi
- sei soggetti sordi avevano dichiarato di avere l’italiano vocale come lingua materna , provenienti da
famiglie di udenti, due avevano un livello medio e quattro profondo e tutti avevano completato il ciclo di studi
superiori di scuole per udenti (“normali”), conseguendo un diploma di istruzione tecnico-professionale.
Successivamente, viene ancora più specificato che all’interno di questo secondo gruppo dei sei soggetti che
avevano dichiarato l’italiano vocale come lingua materna sono emerse due diverse condizioni di bilinguismo tra i
due sordi medi e i quattro sordi profondi.
I primi (i sordi medi) avevano una buona competenza dell’italiano scritto e una scarsa competenza della LIS
invece i sordi profondi avevano una competenza migliore per la LIS rispetto all’italiano: ciò è dovuto
all’integrazione nella comunità sorda e la quantità di esposizione alla LIS.
Di conseguenza, sono stati elaborati 2 test. Uno che utilizzava delle frasi scritte in italiano, e un altro invece in
cui si utilizzavano video con la stessa tipologia di frasi, ma segnate in lingua dei segni. Quindi c'era un interprete
che aveva collaborato allo studio. Compito degli informanti era quello di identificare l'agente della frase,
scegliendo fra due alternative. Quindi, 84 frasi scritte, costituite da due nomi e un
verbo, combinati però in maniera varia, al modo di riprodurre 3 ordini di parole, 3 diverse condizioni di
accordo, 4 combinazioni di animatezza, ovvero:
- Nome-verbo-nome, es. I cani inseguono i gatti.
- Nome-nome-verbo, es. I cani e i gatti inseguono.
- Verbo-nome-nome, es. Inseguono i cani i gatti.
Le combinazioni che si riscontrano nel testo scritto e più o meno le stesse combinazioni si riscontrano anche nel
testo segnato, in quest’ultimo sono diverse soprattutto nell’ordine di parole, ha a che vedere con la sintassi di
quella lingua. Quindi 21 frasi del corpus di italiano scritto sono state tradotte in LIS.
I RISULTATI:
Nel testo scritto, fondamentalmente, succede che:
- i sordi medi con italiano come lingua materna, hanno messo in atto strategie di comprensione
comparabili con quelle impiegate dal gruppo di udenti. Qui l’indizio più forte
sembra essere proprio l'accordo.
- Invece, i sordi profondi, indipendentemente dalla lingua materna, quindi sia quelli che hanno
l'italiano come lingua materna, sia quelli che hanno la LIS come lingua materna, si comportano in
modo molto simile; accade che quando il verbo si accorda con entrambi i nomi, al 50% scelgono il
primo nome, e vuol dire che quindi lo scelgono in maniera casuale, a volte al primo e a volte il
secondo e quindi che la scelta di quale nome sia l'agente, sia casuale. Quando invece il verbo è
accordato con il secondo nome, la scelta del primo nome come agente, è scesa quasi allo 0%.
Quindi vuol dire che hanno scelto il secondo nome, quello a cui era accordato il verbo. Quindi,
l'accordo sembra non essere così importante, perché non produce all'interno del gruppo delle
scelte nette chiaramente identificabili. Quindi, nell'individuare l'agente in frasi scritte in italiano
vocale, i sordi profondi di entrambi i gruppi utilizzano l'ordine delle parole e non l'accordo come
fanno gli altri.
Nel test segnato succede che le cose si invertono completamente. I dati relativi al test in LIS mostrano
un'inversione di tendenza rispetto al test sull'italiano scritto, e quindi i due gruppi di sordi profondi cominciano a
dare più peso all'accordo in LIS. Nei sordi medi invece, l'accordo, che nel testo scritto aveva guidato in maniera
sicura i sordi medi, insieme agli utenti, non è altrettanto dirimente nell'individuazione dell'agente nelle frasi
segnate. Quindi, sia i sordi medi, sia i sordi profondi, cambiano completamente comportamento nell'italiano
segnato, nella LIS.
CONCLUSIONI
I risultati dello studio hanno evidenziato l'influenza esercitata dal canale comunicativo, dalla lingua materna e
dalla quantità di esposizione alla LIS nella messa in atto delle strategie di elaborazione e comprensione
linguistica fin qui discusse. Quindi diversi fattori influiscono sulla scelta dell'indizio più forte, non solo il fatto di
essere sordi ma qual è il canale comunicativo che si usa, cioè se si usa un test scritto o un test segnato, qual è
l'ambiente nel quale si cresce o si nasce in quanto sordo o in quanto sorda, e poi la quantità di esposizione alla
LIS, perché i sordi profondi che pure avevano indicato come lingua materna l'italiano vocale e pur essendo stati
esposti tanto tempo alla LIS, cioè alla lingua dei segni, hanno un comportamento comunque più vicino ai sordi
profondi con lingua materna LIS. I dati derivanti dal test scritto, infatti, dimostrano che i sordi medi ITA_L1,
provenienti da famiglie di udenti con scarsa competenza in LIS e poco integrati nella comunità sorda Campana,
si avvalgono degli stessi indizi utilizzati dagli utenti per l'identificazione dell'agente. Per entrambi i gruppi è
infatti possibile ipotizzare la seguente scala di rilevanza degli indizi: accordo>animatezza>ordine delle parole.
Per i sordi, noi abbiamo visto invece che per il test segnato c'è stato un cambio di direzione in quanto alla forza
sono attribuiti diversi indizi.
Quindi la conclusione vera è che per i sordi, nel caso dell'acquisizione dell'Italiano e della LIS come lingue
seconde, l'indizio a cui danno maggior peso nella seconda lingua è l'ordine delle parole. Lo fanno sia i sordi
profondi con l'italiano scritto nel primo test, sia i sordi medi con la LIS nel secondo test. Quindi quando il sordo
si trova ad apprendere una lingua seconda, sia essa LIS, sia essa l'italiano vocale attribuisce più forza all'inizio
dell'ordine delle parole. La posizione iniziale nella frase rappresenta l'indizio di default per il riconoscimento
dell'agentività sia nell'italiano vocale, sia nella LIS. Tale parametro sembra essere selezionato automaticamente
dall'apprendente, quindi è il primo parametro che il sordo individua come quello più forte, fino a che il sordo non
apprendendo più la LIS o l'italiano vocale, non resetta del tutto questa questione della forza degli indizi, quindi
finché l'input ricevuto e il livello di competenza della L2 non siano sufficienti a cambiarne la forza.

BALBETTIO
INTRODUZIONE
Il balbettio nel bilinguismo, è un'area che non ha ricevuto finora troppa attenzione. Secondo le stime più recenti –
che sono comunque vecchiotte (Bloodstein, 1995) –, l’1% della popolazione mondiale balbetta e più del 50%
della popolazione mondiale è bilingue – secondo la prof è un dato sottostimato perché ritiene che quasi il 90%
(forse) della popolazione mondiale sia bilingue, se intendiamo come bilinguismo come un’accezione ampia del
fenomeno, per cui è bilingue anche chi parla l’italiano standard e un dialetto ad esempio.
balbettio: un disordine, un deficit, nel ritmo del parlato, in cui l'individuo, cioè il parlante, conosce precisamente
cosa vorrebbe dire ma in un dato momento è impossibilitato a dirlo a causa di una ripetizione involontaria , di un
prolungamento o della cessazione di un suono. Quindi il parlante, da un punto di vista cognitivo, non ha nessuna
difficoltà. E’ qualcosa che riguarda proprio l’elaborazione linguistica a monte, prima del momento articolatorio,
la così detta sentence processing cioè l’elaborazione degli enunciati.
Studiare il rapporto tra balbuzie e bilinguismo è interessante perché può avere risvolti concreti nella pratica
medica, osservazioni e riflessioni utili ai clinicians – dottori, medici – che si trovano a diagnosticare la balbuzie e
a dover prescrivere delle terapie. Identificare la balbuzie in una lingua che non si conosce può essere molto
complicato ed è sicuramente impossibile individuare i cosiddetti loci, cioè i luoghi all’interno dell’enunciato in
cui avviene il fenomeno del balbettio, perché alcuni fenomeni prettamente linguistici come la ripetizione
morfologica di alcuni morfemi che avviene in alcune lingue, potrebbe essere erroneamente identificata come un
caso di balbettio, quando magari non lo è. Il fenomeno del balbettio può avvenire in diversi punti dell’enunciato:
all’inizio, prima degli elementi lessicali/parole di contenuto – non le parole di definizione come gli articoli etc.
ma parole come casa, pane, aurora – o in alcune posizioni strategiche di carattere sintattico – come prima del
verbo; alcuni studi hanno individuato come anche luogo del balbettio i fenomeni di code mixing, ovvero quei
fenomeni in cui c’è un passaggio di codice, proprio nel caso dei parlanti bilingue, da una lingua all’altra.
1. I primi studi che vengono presi in considerazione nell’articolo sono quelli che ipotizzano la
presenza di numerosi fenomeni di balbuzie nella popolazione bilingue. Il primo è uno studio di
Seeman (1974) che viene preso come punto di riferimento: in questo studio si emergeva come nel
bilinguismo precoce ci fosse un più alto rischio di emersione della balbuzie. Questo studio, però, è
stato confutato nel tempo perchè presentava un difetto di carattere metodologico – ci dicono gli
autori di questa review – il quale aveva a che fare con il giudizio di balbuzie dato che la
valutazione era stata sviluppata da un solo medico/valutatore, quindi basato sulle osservazioni di
una sola persona. Naturalmente, questo tipo di studi non ha una validità statistica poichè non si
può basare uno studio sulle valutazioni di una singola persona perché significa arrivare a delle
generalizzazioni dovute alla percezione soggettiva di quel valutatore o di quella valutatrice; oggi
non sarebbe più accettato, proprio perché ha una debolezza metodologica.
2. Lo studio seguente che si prende in considerazione è del 2000 (partito dall’University College
London) e si tratta di un indagine condotta via internet nella quale si cercava di raggiungere tante
persone sia monolingue che bilingue – si sono raggiunti circa un migliaio di persone –,
proponendo un’autovalutazione del proprio balbettio: si chiedeva alle persone monolingue e
bilingue se balbettassero, in quali momenti e a quali emozioni, sensazioni, stati psicologici fosse
associato questo fenomeno del balbettio. In questo studio si arriva alla conclusione che non ci
sono differenze tra bilingui e monolingui, confutando in un certo senso lo studio di Steem del ’74.
Anche questa indagine condotta via internet ha un vizio – definito in inglese come bias(es) che
possono essere vizi/difetti di carattere metodologico, come in questo caso, che possono alterare i
giudizi –: il difetto, in questo caso, è che non si proponesse una definizione chiara di balbettio per
cui è possibile che molte persone abbiano dichiarato di balbettare, intendendo per balbettio quelle
situazioni in cui ciascuno di noi può avere nei momenti in cui siamo emotivamente presi ad
esempio dall’ansia e non ci vengono le parole ma questo è un fenomeno assolutamente diverso
dalla balbuzie come disordine nel linguaggio; quindi, può accadere che ci sia un vizio di fondo nei
risultati e che i dati non siano del tutto attendibili, come in questo caso.
Il punto è che è possibile che esista una correlazione tra bilinguismo precoce e balbuzie, che non è una
correlazione di causa-effetto, ovvero non significa che crescere in una famiglia bilingue provoca la balbuzie,
piuttosto, è possibile che nei casi in cui c’è una predisposizione per la balbuzie, il bilinguismo può accentuare o
far emergere prima questo disordine in maniera più evidente. In questo caso una soluzione possibile da attuare
nel caso emerga la balbuzie in bambini bilingue è quello di evitare di esporre il bambino a due lingue già da
subito, quindi provare a far in modo che il bambino sviluppi il pieno possesso di una delle due lingue e poi
introdurre successivamente la seconda. Quando ciò non è possibile, si può ricorrere alla soluzione un parlante
una lingua e fare in modo che il bambino parli una sola lingua con un genitore e un’altra sola lingua con l’altro
genitore; in questo modo il bambino non è esposto a frasi mistilingui, cioè a frasi mezze in una lingua e mezze in
un’altra lingua, che possono creare confusione ed essere difficili da processare, e il bambino sa quale lingua
aspettarsi nel momento in cui sta parlando con un genitore, quindi c’è una sorta di ordine all’interno di un mondo
bilingue.
3. Altri studi prendono in considerazione dei fattori diversi, spostano l’attenzione dagli aspetti che
sono puramente linguistici e prendono in considerazione dei fattori ambientali, contestuali. Ad
esempio, nello studio di Mussafia (1967) si prendono in considerazione i disordini legati al
balbettio tra i bambini dei lavoratori stranieri in miniera in Belgio; qui si collegano i fenomeni di
balbettio non solo a delle caratteristiche puramente linguistiche ma anche a fattori contestuali,
esterni: si prendono in considerazione l’insicurezza economica e l’instabilità emotiva di un
bambino/una bambina che si sta trasferendo in un paese straniero e che sta affrontando un periodo
di cambiamento totale della propria vita e, magari, sente di riflesso una fase di crisi familiare
dovuta a questo cambiamento. Questo fenomeno di shock culturale e linguistico sembra essere
associato a dei fenomeni di balbuzie, ma successivamente si vedranno altri casi di questo tipo in
cui il fenomeno della balbuzie non è legato solo ad una predisposizione naturale o ad un disordine
di carattere solamente linguistico ma ad altri fattori contestuali che provocano nei parlanti degli
stati d’animo tali da far emergere un disordine come quello della balbuzie.
Inoltre, nello studio si ritiene che il bilinguismo sia un fenomeno complesso e ci siano casi diversi di
bilinguismo: il bilinguismo contemporaneo, che prevede che due lingue vengano affrontate in maniera
simultanea sin da bambini, come nel caso in cui si nasca in una famiglia bilingue, e il bilinguismo consecutivo,
che ha a che vedere con l’apprendimento di una lingua e successivamente l’apprendimento di una seconda
lingua, e si vede come in questi due casi il fenomeno del balbettio possa avere un incidenza diversa; diversi
sottotipi di bilinguismo possono prevedere fenomeni di balbuzie di natura diversa.
4. Lo studio di Agius (1995) ha a che vedere con l’input, cioè quale lingua viene proposta al
bambino e si suggerisce di proporre ad un bambino che nasce e cresce in un contesto bilingue
degli input mistilingue con i fenomeni di code mixing, cioè un input che preveda delle frasi che
sono in due codici diversi mischiati, può presentare una difficolta maggiore per un bambino
perché si stratta di elaborare degli enunciati che presentano codici diversi, quindi poi non sa in che
modo riformulare una risposta; questo compito è cognitivamente complicato da affrontare per tutti
bambini, ma un bambino che non ha una difficoltà del linguaggio come il balbettio lo può
affrontare in maniera più serena, quindi se c’è un disordine come quello della balbuzie forse è
meglio non esporre i bambini ad un input più complesso del solito. Inoltre, l’input di enunciati
misti dal punto di vista linguistico potrebbe incentivare lo sviluppo del balbettio in bambini
bilingui con una predisposizione alla balbuzie.
Un’altra osservazione importante è quella relativa al fenomeno in bambini e adulti, effettivamente, la balbuzie
non emerge mai da adulti ma sempre da bambini, nessuno diventa balbuziente da adulto a meno che non ci siano
dei fenomeni come l’afasia o altre cause gravi. Durante l’apprendimento infantile, la balbuzie può emergere
anche nella seconda lingua perché la stessa area si dedicherà all’apprendimento di entrambe le lingue. Invece,
quando cresciamo e apprendiamo una lingua straniera seconda, le due aree sono separate: da adulto, anche se il
fenomeno della balbuzie è presente nella lingua materna, non emergerà nella lingua seconda o straniera perché si
utilizzano diverse strategie cognitive, se invece apprendo le lingue contemporaneamente da bambino, il
fenomeno della balbuzie comparirà in entrambe le lingue perché l’apprendimento di entrambe le lingue funziona
tramite la stessa area cerebrare.
Inoltre minore è la competenza nella lingua seconda o straniera, minore è anche la possibilità che avvenga il
fenomeno della balbuzie perché gli enunciati che io posso elaborare sono minimi e quindi non c’è una grossa
elaborazione linguistica.
5. Un altro caso esposto da Dale (1997) propone come il fenomeno della balbuzie sia da collegare al
contesto in cui sta avvenendo l’apprendimento linguistico; secondo Dale, i fattori culturali e
sociologici hanno un ruolo molto importante nello sviluppo di questo fenomeno di balbettio: si
parla di ragazzi cubani che si spostano negli Stati Uniti, quindi che hanno come lingua materna lo
spagnolo e che apprendono l’inglese americano. I ragazzi cominciano a balbettare nella lingua
spagnola e, secondo Dale, questo avviene perché è come se i ragazzi fossero soggetti ad una
pressione molto forte da parte della comunità cubano-americana (cubani residenti negli Stati
Uniti) riguardo al mantenimento della conoscenza dello spagnolo. Avveniva che i ragazzi, in
maniera naturale, vivendo in un contesto anglofono, in qualche modo stavano perdendo la
competenza nella lingua spagnola – magari qualche parola non ritornava alla mente –, ma data
questa pressione esterna nella comunità d’origine, vivevano questa perdita della lingua spagnola
con molta difficoltà e senso di colpa. Dale riteneva che il balbettio di questi ragazzi fosse emerso
durante il processo di americanizzazione, quando hanno cominciato a dimenticare un po’ del
vocabolario dello spagnolo e, di fronte a questo fenomeno del tutto naturale, e condizionati da una
pressione esterna che era quella della comunità di origine, emergeva nel loro parlato in spagnolo
una sorta di balbettio.
Il balbettio dello stesso tipo (same-hypothesis) è poco frequente perchè non è possibile che si abbia una stessa
padronanza in entrambe le lingue che si parlano; Però è vero che anche nei fenomeni di bilinguismo
contemporaneo c’è comunque una differenza tra le due lingue e quindi, di conseguenza, è anche vero che tutti i
fenomeni che avvengono nelle due lingue, compresa la balbuzie si manifestano in maniera diversa: questa è una
seconda ipotesi (differences-hypothesis) che prevede una differenza tra la balbuzie in una lingua e la balbuzie
nella seconda lingua che si padroneggia e può essere una differenza nel caso di gravità della balbuzie, ad esempio
nel grado di frequenza della balbuzie o nel grado di tempo di balbuzie, ma non dove avviene il fenomeno della
balbuzie.
-Uno studio del 1988 condotto su 16 balbuzienti bilingui, (con un’educazione fino alle scuole superiori, quindi
con un livello alto di scolarizzazione), in Nigeria. In questo studio si sono riscontrate delle differenze sia rispetto
alla natura della balbuzie, sia rispetto al grado di severità in entrambe le lingue, però i casi erano molto
eterogenei.
Un confronto delle disfluenze in inglese e in Igbo1, ha dimostrato un uso eccessivo di riempitivi (quali: Er, mm),
in inglese che non erano presenti nella lingua Igbo.
In più tutti i balbuzienti che hanno preso parte allo studio, erano consapevoli della lingua in cui balbettavano di
più e davano diverse spiegazioni; qualcuno diceva che balbettava di più in inglese perché era la lingua in cui
aveva meno competenza; perché aveva bisogno di più pianificazione e anticipazione; per altri questo stesso
motivo era motivo di difficoltà perché era meno spontanea.
-Inoltre, aspetti sociopsicologici sembravano avere un ruolo importante nel fenomeno. Nwokah (autore dello
studio del 1988) riportava una tendenza dei ragazzi a balbettare di più nella lingua con cui avevano avuto
esperienze più negative, sia a scuola che a casa, quindi anche lui riteneva che ci fosse anche un’influenza
extralinguistica e del contesto.
DIAGNOSI
Nelle diagnosi una delle prime osservazioni da fare è quella di riuscire a differenziare il balbettio dagli altri tipi
di disfluenza, che possono essere dovuti all’incertezza sulla padronanza di una lingua. Una delle soluzioni è
quella di utilizzare dei parlanti nativi, cioè in quanto medico, farsi accompagnare da un mediatore che parli la
lingua materna dei suoi pazienti, occorre anche che il parlante nativo che farà da mediatore sia formato e
adeguatamente preparato per osservare questo fenomeno della balbuzie.
Un altro segno diagnostico, molto importante, è la presenza o l’assenza di comportamenti secondari, cioè: la
balbuzie viene associata a comportamenti fisici secondari. → Se le disfluenze del parlante bilingue non sono
accompagnate da una tensione notevole del corpo, o il comportamento di chiudere spesso le palpebre degli
occhi, si tratta di balbuzie dovuta ad una mancata competenza linguistica.

Quindi c’è bisogno di un’attenzione particolare a tutti gli aspetti che riguardano anche l’emotività.
TERAPIE
Una possibile soluzione per quanto riguarda i bambini con un bilinguismo emergente è quella di bloccare per un
po’ l’esposizione del bambino ad una delle due lingue.
Rustin et al. concordavano che fosse più efficace il metodo di “un parlante una lingua” cosicché il bambino
possa essere già predisposto all’ascolto di una determinata lingua quando parla quella determinata persona.
Le terapie funzionano in egual modo in monolingui e bilingui.
Di solito funziona in questo modo: quando emerge la balbuzie in un bambino bilingue, si lavora su una sola
lingua (la predominante), quella che si sceglie insieme alla famiglia e poi si passa anche alla seconda lingua, solo
dopo aver lavorato prima sulla lingua predominante.
Un’altra questione, la finale, è il coinvolgimento (quando si è bambini) anche delle famiglie per avere una sorta
di mediatore familiare durante la terapia logopedica, la cui presenza può essere molto utile.
Ultima questione da affrontare è quella delle difficoltà di carattere culturale, che un medico può riscontrare (in
qualsiasi ambito, ma nel nostro caso per quanto riguarda la balbuzie) quando si ritrova un paziente con un
background culturale diverso dal proprio. Le questioni possono essere molto concrete: i medici dovrebbero
costantemente fare attenzione a tutta una serie di parametri culturali; dovrebbero per esempio ricordarsi che il
contatto visivo, in qualche cultura può essere visto come un atto di aggressività, quindi, non è sempre qualcosa
da fare con tutti i pazienti.; in qualche cultura inoltre non è concesso ai bambini parlare con gli adulti, quindi se
ci aspetta che il bambino parli con il medico, per cui se dovesse avvenire una situazione del genere, non è perché
il bambino non sa parlare per una questione di emotività ma semplicemente perché nella sua cultura, non può
cominciare una conversazione con una persona adulta; in alcune culture la balbuzie del bambino è considerata
una punizione religiosa per qualcosa che i genitori hanno fatto e che quindi può essere guarita solo se i genitori
compiono un processo di purificazione dei loro peccati. Quando i dottori hanno a che fare con un background
culturale di questo tipo, la difficoltà può essere concreta, perché se un genitore ritiene che la balbuzie del figlio
sia una punizione nei miei confronti, non riterrà utile usufruire della terapia, piuttosto cercherà di espiare i propri
peccati.
Nel paragrafo finale si fa riferimento al fatto che ci sia un’eterogeneità del fenomeno, anche dal punto della
relazione tra bilinguismo e balbuzie, dovuto al fatto che fondamentalmente nessuno è bilingue allo stesso modo,
non esistono due bilinguismi identici, due fratelli che crescono in uno stesso ambiente bilingue, svilupperanno
due diversi tipi di bilinguismo. Non ci sono quindi bilingui uguali.
Questa eterogeneità si porta dietro anche nella balbuzie.

DISLESSIA
La dislessia è un disturbo specifico dell’apprendimento, e ha a che vedere con una difficoltà sia di
consapevolezza fonologica (conoscenza dei suoni che compongono l’enunciato) sia rispetto a tutta la sfera della
scrittura e della lettura, quindi rispetto alla decodificazione dei segni linguistici ed è originato da una
neurodiversità dunque un modo diverso di apprendere e provoca una generale difficoltà nell’automatizzazione di
compiti di natura linguistica, mnemonica (Palladino e Cornoldi hanno esaminato la memoria fonologica di
ragazzi con difficoltà nell’apprendimento della L2 e hanno evidenziato una memoria verbale più fragile) e
motoria (orientamento spaziale). Normalmente la dislessia non comporta una difficoltà cognitiva nella
comprensione di una lingua, e nell'oralità non si dovrebbero avere problemi ma nel caso in cui queste cose si
presentino ne sarebbero compromessi tutti gli aspetti linguistici e naturalmente il soggetto avrà dei risultati
inferiori rispetto a chi non è affetto da dislessia in tutte le prestazioni in linguistiche.
Si parla di dislessia evolutiva è un disturbo specifico dell’apprendimento di origine neurologica, è
contraddistinto da difficoltà di riconoscimento di parole a livello di accuratezza e/o fluenza e da scarse abilità di
spelling e decodifica, si presenta nell’evoluzione del bambino in maniera spontanea, mentre ci sono dei casi di
dislessia consecutiva o acquisita, che sono conseguenze di un trauma, un incidente, un ictus.
Naturalmente la dislessia non dipende dalla qualità dell’istruzione scolastica, non può essere una conseguenza.
Ci può essere al contrario un’istruzione scolastica più sensibile in cui si lavora sul tema dell’inclusione e disturbi
dell’apprendimento. Tuttavia può essere causa dello scoraggiamento nell’apprendente dislessico soprattutto il
non riconoscimento del disturbo fa in modo che i docenti ritengano che sia svogliato e abbia dei deficit cognitivi,
inconsapevoli (i docenti) che la non abilità è legata ad un disturbo specifico. Il non riconoscimento porta a delle
conseguenze molto gravi: si pensa di non essere uguali agli altri. Tra le conseguenze secondarie si possono
riscontrare problemi nella comprensione scritta e un contatto ridotto con i testi scritti (se non so leggere, leggerò
poco) che impediscono l’espansione del bagaglio lessicale e delle conoscenze sul mondo. (perché il lessico si
apprende in primo luogo con la lettura).
Fino all’avvio del processo di scolarizzazione i genitori possono non rendersi conto del disturbo. In realtà ci sono
studi che evidenziano che prima della scolarizzazione ci possono essere dei campanelli di allarme, ad esempio
quando bambin* fa fatica ad associare un segno ad una corrispondente fonica, difficoltà nel riconoscere le forme
geometriche, i loghi. A volte alla dislessia si associa anche la discalculia, che consiste nella difficoltà di gestione
dei conti della matematica. Solitamente i dislessici vanno peggio nelle lingue straniere e nelle materie
scientifiche.
Se queste difficoltà esistono già nella lingua materna, è un compito arduo per una persona dislessica ma anche
molto motivante (un riscatto). Ma se la motivazione non è tenuta alta da docenti, materiali adeguati, potrebbe
esserci un calo della motivazione e ritorno ad una fase di difficoltà e frustrazione. Gli apprendenti dislessici
spesso hanno una forte ansia linguistica sia nella lingua materna, sia nella lingua straniera, non caratteriale ma
situazionale, determinata dallo svolgimento di compiti in cui è richiesta una notevole automatizzazione dei
processi linguistici.
Un altro fenomeno già accennato è quello della dislessia differenziale che ha a che vedere con la differenza tra
le lingue, non di carattere tipologico ma il grado di opacità o trasparenza ortografica ma anche la fluidità
linguistica; la lingua italiana è abbastanza trasparente, altre lingue sono molto opache come l’inglese, il francese;
per cui la dislessia può manifestarsi con gradi diversi a seconda della lingua che si sta apprendendo. Quando il
bambino inizia ad apprendere lingue opache come l’inglese emerge il fenomeno della dislessia poiché si hanno
maggiori difficoltà, ambiguità. Di conseguenza alcune lingue amplificano le manifestazioni della dislessia, altre
le attenuano.
IL Miur esorta a fare un passo verso i bambini dislessici attraverso la metafora della L2. Ci invitava ad
immaginarci in un paese straniero dove non si riesce a capire nulla di quello che ci circonda, e dove, magari,
riusciamo a tornare in una nostra ipotetica casa linguistica dove si parla la nostra lingua. Tutto ciò per un
bambino dislessico non è possibile, questa “casa” non c’è se non c’è un riconoscimento del suo disturbo. Egli
troverà sempre intorno dei segni difficili da decifrare. Di fatto quando non possediamo le competenze
appropriate per comunicare veniamo sopraffatti da un senso di impotenza e disagio. Non è importante quanto la
L1 e la L2 (o LS) siano distanti dal punto di vista tipologico o geografico, le difficoltà sono le stesse in tutte le
lingue.
Cosa succede in una classe in cui il docente pensa ci possa essere un bambino dislessico? La fase di
osservazione: il docente dovrebbe raccogliere dei dati sulle abilità linguistiche, dunque rilevare la presenza di
prestazione atipiche lavorando sull’oralità, scrittura, lessico, morfosintassi, utilizzando il resto della classe come
termine di paragone; l’indagine deve avvenire a più riprese e si utilizzano strumenti, griglie di osservazione.
es. sull’oralità (non riesce a ripetere le lettere dell’alfabeto, fa fatica a contare, non comprende le consegne in
lingua, confonde lettere) e il docente può segnare il grado di difficoltà. Nel momento in cui si capisce che quello
studente non riesce a stare al passo, si possono attuare tutta una serie di misure compensative e dispensative, cioè
misure che vadano a colmare delle lacune, quindi magari l’uso di materiali compensativi e siano dispensate da
alcune prove.
Studio di due studenti cinesi Chung e Ho con dislessia per valutare l’apprendimento dell’inglese come L2,
2010.
L’obiettivo di questo studio era quello di comprendere se la distanza tra le lingue ( in questo caso cinese e inglese
che differiscono sotto molti punti di vista) creasse delle asimmetrie nel pattern di difficoltà per gli studenti con
dislessia. Ci sono dislessie di grado diverso tra cinese e inglese L2? I risultati dello studio hanno dimostrato che i
ragazzini dislessici presentavano delle prestazioni (prove di lettura, ortografia, consapevolezza fonológica e
morfologica) inferiori al gruppo di controllo, sia per la L1 sia per la L2 perché apprendere la L2 per chi ha un
disturbo nella L1 è un compito arduo e la distanza tra le lingue non modifica il quadro delle criticità, la dislessia
appare più o meno accentuata nelle lingue diverse.
Altri studi ugualmente dimostrano che indipendentemente dalla L1 questi soggetti dimostrano una difficoltà nella
componente fonológica-ortografica nella L2
In un altro punto dell’articolo, si parla della motivazione. Molto interessanti e coerenti con questi dati sono state
le evidenze qualitative e quantitative ottenute da Miller-Guron e Lundberg (2000) nelle ricerche correlate allo
sviluppo della tesi di dottorato del primo autore. La ricerca si è focalizzata sulle prestazioni in L2, inglese, di
adulti svedesi con dislessia. Negli adulti c’è anche una maggiore consapevolezza del percorso fatto. In questo
caso, si parla di adulti ai quali è stata diagnosticata la dislessia, essi imparano una seconda lingua e vivono tutto
ciò con una forte motivazione perché è una sorta di riscatto del proprio percorso di apprendimento. L’inglese
come L2 sembra aver rappresentato una nuova sfida in cui tutti gli allievi, anche senza dislessia, erano alle prese
con una nuova alfabetizzazione. È importante il fatto che siano adulti, quindi molto consapevoli, persone già
strutturate che hanno fatto i conti una vita intera con questo disturbo.
-La dislessia, per gli studenti italiani, si caratterizza, nel corso della scolarizzazione, principalmente come
problema di velocità, più che di accuratezza della lettura. Imparare a leggere e a scrivere in una lingua straniera
meno trasparente, come per esempio l’inglese, può porre allo studente italiano con dislessia importanti ostacoli.
L’italiano, infatti, per l’elevato grado di trasparenza e regolarità della lingua, consente ai bambini di imparare
velocemente le regole fonologiche e di affidarsi a esse nella lettura sia di parole sia di non parole. L’italiano
agevola di più, è più facile da imparare, per una persona con la dislessia rispetto, all’inglese.
In uno degli studi che si propongono, si mette in evidenza come i bambini dislessici siano più bravi a leggere le
non parole in L2 inglese, cioè sequenze di lettere simili per scomposizione alle parole inglesi ma non esistenti nel
lessico inglese. Con le non parole non hanno il problema del riconoscimento del lessico, e non hanno nemmeno il
problema di trovare la pronuncia esatta (possono pronunciarle come vogliono), si tratta di parole non codificate.
Sembra infatti che i ragazzi con dislessia riescano a leggere le non parole avvalendosi, molto probabilmente,
delle regolarità dell’inglese, le quali si possono applicare indistintamente a tutte le stringhe di lettere che non
rappresentano un’unità lessicale esistente. In altri termini, essi leggono una determinata parola in maniera più
regolare possibile.

AUTISMO
INTRODUZIONE
L’autismo è un disordine di carattere neurologico che si manifesta in un’interazione sociale deficitaria, una
comunicazione alterata e dei comportamenti limitati. A ciò si aggiunge una dipendenza eccessiva sulle routine e
un focus su specifici item, cioè su elementi specifici. Inoltre, a volte, sfocia in vera e propria ossessione.
Si parla di disturbi dello spettro autistico al plurale perché ci possono essere tantissimi gradi all’interno di un
continuum che va dalle forme di autismo più lievi, quasi invisibili e che non creano grossi problemi nelle
relazioni e nella comunicazione, a delle forme di autismo gravi, più pesanti ed evidenti che chiudono la persona
in se stesso. L’autismo comporta il fatto che l’essere sia ripiegato su se stesso da un punto di vista cognitivo: si
tratta di un chiudersi alle relazioni e alla comunicazione.
Uno dei segnali per diagnosticare l’ASD, è la presenza di un ritardo nello sviluppo della lingua. Nei bambini
autistici, già tra i 15 e i 18 mesi, può esserci un ritardo. Se a un anno e mezzo il bambino non parla, c’è qualche
problema. I ritardi linguistici sono una delle componenti chiave per identificare la presenza di un disturbo dello
spettro autistico.
L’autore di questo saggio dice che se un bambino è riconosciuto come autistico e vive in un contesto bilingue, la
prima cosa che i dottori fanno è quella di dare come consiglio ai genitori di non esporre il bambino a due
lingue. Un po’ come nel balbettio che però era avvalorato da un’ipotesi anche teorica importante che era quella
della lateralizzazione del cervello. In quel caso, si diceva di aspettare che le funzioni motorie relative alla L1
fossero consolidate per poi introdurre la seconda lingua, perché si doveva stabilizzare il controllo motorio della
lingua materna. Invece, nel caso dell’autismo, l’autore dice che questa scelta di privare il bambino della seconda
lingua che si parla in casa, non è esattamente fondata su dei dati certi, scientifici. La domanda che si pone è se
davvero la privazione della seconda lingua sia un qualcosa che porta vantaggi al bambino. I dottori dicono, di
solito, di non esporre il bambino a due lingue e se si è in un contesto anglofono, sebbene i genitori siano di due
origini diverse (inglese e giapponese per esempio), consigliano di usare solo l’inglese. Perché i medici danno
questo consiglio? Si basano su delle solide osservazioni scientifiche? È un consiglio che è veramente favorevole
allo sviluppo della persona autistica?
OBIETTIVO L’autore, nel corso dell’articolo, cerca di dare delle risposte a queste domande.
è altrettanto fondamentale ragionare sulla terapia che si fa con il bambino, la sua educazione, le interazioni con la
famiglia. Decidere quali pratiche linguistiche usare con un bambino autistico è problematico se la prima lingua
dei genitori del bambino non è la lingua predominante della scuola o dei servizi clinici.
Vengono menzionati vari studi nei quali i genitori, su consiglio dei dottori, evitano di parlare in cinese in una
famiglia bilingue cinese-inglese e altre ricerche riportano che i genitori hanno paura di parlare una lingua che non
sia l’inglese con i loro bambini. Questo timore nasce dalla preoccupazione che i loro figli con l’autismo possano
essere troppo confusi, che imparare due lingue possa essere un compito troppo arduo, e che i bambini non
diventino fluenti abbastanza in inglese per poter socializzare con i pari, e partecipare nel contesto scolastico.
Di conseguenza, i genitori riconoscono il potere dell’inglese (anche nelle terapie) e si preoccupano del tempo
speso parlando al bambino in una lingua altra dall’inglese, temono che questo tempo possa influenzare
negativamente il livello di competenza linguistica sviluppata dal bambino in inglese.
Naturalmente, la relazione tra il genitore e il bambino con cui si può parlare solamente inglese e non si può
utilizzare la propria lingua materna, è sicuramente negativamente influenzata da questa restrizione. Il genitore
non può avere accesso linguistico a una conversazione con il bambino che sia di carattere emotivo. La lingua
delle emozioni, la lingua dell’affetto, la lingua anche delle coccole linguistiche è la lingua materna. Non viene
naturale essere affettuosi, emotivamente connotati nel proprio parlato in una lingua straniera.
STUDIO BILINGUISMO CINESE-INGLESE il bambino è escluso da tutte le comunicazioni in cinese, in più,
gli viene privata anche la possibilità di sviluppare un senso di appartenenza nella comunità cinese perché
mantenere la lingua d’origine significa conservare le proprie origini, far crescere in se stessi la consapevolezza
delle proprie origini. Dunque, inevitabilmente, il bambino perde la sua storia, le sue origini in questo modo. I
genitori riportavano che, a causa della loro scarsa competenza in inglese, si sentivano limitati nelle loro
interazioni con il figlio. Inoltre, il bambino aveva perso opportunità vantaggiose di istaurare dei rapporti sociali
proprio perché gli mancavano delle abilità linguistiche, anche solo orali, in lingua mandarina. La sua identità ne
era influenzata, il bambino non può interagire in cinese con bimbi di famiglie immigrate. Egli non si dichiarava
cinese, ma americano.
LINGUA RUMENA Un'altra famiglia ha smesso di parlare armeno con il loro bambino quando è arrivato ai 4
anni perché non voleva confonderlo.
Per entrambi esempi di questi bambini, il bilinguismo sarebbe stato una via d’uscita per sviluppare delle
abilità sociali, il bilinguismo può essere vantaggioso anche per un bambino autistico perché si trova ad avere
più strumenti: conoscendo più lingue ha più modi di interagire.
I ricercatori hanno trovato che non ci sono differenze tra i bambini autistici bilingui e i loro pari monolingui in
termini di vocabolario concettuale in entrambe le lingue, di ampiezza del vocabolario in inglese, di abilità di
comunicazione espressive-ricettive e di livelli socio-comunicativi. A tutti ciò si aggiunge anche la presenza di
combinazione di parole, l’età della prima parola, l’età del primo sintagma.
Petersen e i suoi colleghi hanno scoperto che i bambini bilingui avevano un vocabolario più ampio rispetto ai
bambini monolingui, avevano delle risorse in più. I bambini bilingui con l’autismo non dimostrano deficit in più
nello sviluppo linguistico se comparati ai bambini monolingui. Ci sono delle aree in cui possono essere più
avvantaggiati dei monolingui. il bilinguismo è considerato ancora purtroppo uno svantaggio piuttosto che una
risorsa.
AFASIA
L’afasia è un disturbo che può avere diverse cause. Una di queste cause è proprio l’ictus, ma ci sono casi di
AFASIE EVOLUTIVE: che emergono in un individuo, adulto o bambino, in maniera naturale, spontanea, senza
che ci sia una causa esterna, un effetto scatenante, emergono nell’evoluzione della persona. Ci sono AFASIE
ACQUISITE, conseguenza di traumi cranici; è dovuta a causa di un danneggiamento cerebrale. In genere,
nell’afasia le parti danneggiate del cervello sono quelle che coordinano e fanno funzionare la lingua. A seconda
della parte del cervello che si danneggia, l’afasia può presentarsi in maniera diversa nel tempo.
le afasie emergono in un bambino che sta ancora in una fase di apprendimento linguistico della lingua materna o
di straniere o seconde, in una fase di ancora consolidamento di competenze linguistiche, DI CONSEGUENZA è
come se si fermasse o si disturbasse un processo di apprendimento ancora in corso (nel caso dei bambini);
invece, le afasie negli adulti colpiscono persone che hanno già consolidato una competenza linguistica nella
lingua materna e nel caso in questione anche persone bilingui che hanno già una competenza solida o comunque
cognitivamente strutturata di una o due lingue; nell’afasia degli adulti è una perdita di una competenza, che era
già consolidata, e questa riabilitazione e l’intervento da parte dei medici, è completamente diversa.
1. Nel caso in cui sia danneggiata l’area di Broca, il parlante non riesce semplicemente a parlare, nel senso
che non riesce a strutturare degli enunciati complessi, utilizza delle frasi molto semplici, SI CARATTERIZZA
DALL’AGRAMMATISMO, ma è favorita la capacità di comprensione
2. L’afasia di Wernicke si manifesta in modo completamente diverso. Il paziente con l’afasia di Wernicke
parla molto di più di come parlerebbe una persona senza il disturbo, ma parla male, a vanvera con strutture alte e
lessico inappropriato e la capacità di comprensione è povera.
Addirittura nell’articolo si fa riferimento, per esempio, a dei danneggiamenti del lessico, cioè nel ripescaggio del
lessico mentale, e, talvolta, può capitare che le persone affette da afasia facciano fatica a recuperare le parole
concrete, il lessico concreto e quindi non riescono a dire “forchetta”, “telefono”, etc., ma non hanno problemi
con il lessico astratto, infatti quando si parla, ad esempio, di amore, di amicizia, di serenità. Lo studio di questi
tipi di deficit fa emergere che, evidentemente, ci sono delle aree diverse del cervello collegate alla concretezza e
all’astrattezza delle parole.
Qui si prende in considerazione l’afasia post-ictus che è un tipo di afasia in cui è presente un certo grado di
tendenza al miglioramento EVOLUZIONE SPONTANEA, cioè quando emerge un’afasia da ictus si può
lavorare sulla riabilitazione, la quale si protrae finché non si raggiunge un risultato soddisfacente per il paziente,
cioè fino a che il paziente non è sereno oppure fino a che non si evidenziano miglioramenti. Nel momento in cui
visite a distanza di 6 mesi si vede che il paziente non migliora più evidentemente significa che ha raggiunto il suo
massimo di ripresa linguistica ci si ferma con la riabilitazione.
Per capire come funziona la perdita delle funzioni e abilità linguistiche e poi come lavorare sul recupero e sulla
riabilitazione di queste, le autrici propongono il modello del sistema semantico-lessicale in cui l’elaborazione
del linguaggio si scompone in una serie di sottocomponenti. Questo modello prevede che le conoscenze relative
al significato delle parole siano elaborate in modo distinto rispetto a quelle relative alla forma (il significato è un
modulo di rielaborazione; la forma è un altro modulo), che le conoscenze relative alla comprensione siano
elaborate in modo distinto da quelle relative alla produzione, e che le conoscenze relative alla lingua parlata siano
elaborate in modo distinto da quelle relative alla lingua scritta (la produzione: parlato e scritto)”
- se le difficoltà nella ripetizione e nel dettato di questo soggetto sono maggiori per le parole meno
frequenti (meno conosciute dal paziente o meno comuni) e per le parole appartenenti a una specifica classe
grammaticale (solo parole meno conosciute dal paziente o meno comuni, i nomi, i verbi, astratte, concrete, etc.) è
più probabile che il deficit sia nel lessico fonologico di input, piuttosto che nel buffer.
- Se le difficoltà sono maggiori per le parole più lunghe e non ci sono differenze rispetto alla frequenza
d’uso o alla classe grammaticale, ma è solo la lunghezza dell’enunciato o della parola stessa che crea più
difficoltà, allora forse la parte danneggiata è quella del buffer, cioè della memoria. Se chiedendo a un paziente la
ripetizione orale e scritta di una parola lunga (es. parallelepipedo) si nota che il paziente ha più difficoltà che con
una parola breve (es. cane), allora vuol dire che il paziente ha difficoltà a ritenere nella memoria temporanea la
parola troppo lunga.
Nel saggio c’è un riepilogo dei test come il BADA, l’Esame del linguaggio II, etc. e porta anche un esempio di
risultati dell’Esame del linguaggio II somministrati allo stesso paziente all’inizio del trattamento, a distanza di 6
mesi, l’ultima somministrazione. Più le caselle sono scure più significa che il paziente sa fare cose, e la cosa
importante da vedere è che inizialmente le caselle nere sono poche e poi alla fine tutte nere, evidenziando il
recupero linguistico. Quindi una volta valutato con i test appositi qual è l’area della rielaborazione linguistica
danneggiata si può iniziare la riabilitazione.
Per recuperare la lingua si dovrebbero attivare gli stessi processi di apprendimento che si attivano nel momento
in cui una lingua si apprende, quindi è necessario un apprendimento linguistico per un recupero linguistico.
Una parte del cervello danneggiata non si può più usare e quindi per recuperare la lingua si deve fare in modo
che altre aree del cervello lavorino all’apprendimento linguistico, anche le parti del cervello che non hanno
quella funzione e che vengono riadattate in qualche modo dal paziente affinché possa avvenire di nuovo un
apprendimento linguistico.
Il riabilitatore può potenziare il cervello attraverso modificazione di strutture e funzioni (plasticità neuronale).
Queste affinità tra afasiologia e linguistica acquisizionale possono essere sfruttate in diverse situazioni, per
esempio nelle strategie riabilitative. La teoria della processabilità viene recuperata anche negli studi di
afasiologia, perché emerge che quando c’è una perdita delle funzioni linguistiche, la perdita va in senso contrario
rispetto a questa procedura di apprendimento, cioè queste procedure di elaborazione si perdono nello stesso
modo in cui si apprendono, quindi si perde prima la procedura della proposizione subordinata, la frasale, la
sintagmatica, la categoriale e poi l'accesso al lemma. Sapendo questo si può lavorare affinché si sviluppino e si
riprendano nella stessa sequenza le varie procedure.
Nel caso di persone bilingui emergono delle aree del cervello interessate dall’apprendimento della seconda lingua
e, in particolare, emerge il ruolo del sistema di controllo cognitivo dell’elaborazione linguistica, che permette
di controllare quale lingua utilizzare nei diversi momenti di enunciazione. Persone che a volte perdono nello
stesso modo le abilità linguistiche nelle lingue che conoscono, talvolta, invece, perdono delle funzioni
linguistiche nella prima lingua e non nella seconda, perché l’apprendimento di quest’ultima coinvolge altre aree
cerebrali, soprattutto se avviene in età adulta dopo il fenomeno della lateralizzazione.
ALZHEIMER
L’Alzheimer è una malattia di carattere neurodegenerativo, terapia farmacologiche, o mediche possono solo
cercare di limitare i sintomi, non c’è al momento una cura. E’ stato per la prima volta descritto nel 1906
dall’omonimo scienziato ma all’inizio non si riteneva che fosse davvero una malattia. (dopo con Ronald Regan).
L’Alzheimer è una malattia legata all’anzianità, neurodegenerativa, caratterizzata da un declino delle funzioni
cognitive, difficoltà a svolgere task semplici ed un ritiro dal lavoro e dalla vita sociale. Il linguaggio viene perso
e viene perso in maniera sempre più consistente nel tempo fino anche non si riesce a parlare nelle fasi più gravi.
In quest’articolo anche questo una review, si prendono in considerazione quattro o cinque articoli scritti in
diversi contesti GEOGRAFICI che però avevano tutti lo stesso risultato. E si prenderanno in considerazione delle
ricerche fatte in Canada, Regno Unito, India ed in Svizzera, tutti su parlanti anziani e poi invece l’ultima è anche
su dei volontari dell’esercito intorno ai vent’anni.
Lo scopo è presentare informazioni sulle scoperte scientifiche recenti riguardanti la relazione che è stata
riscontrata tra il bilinguismo e la malattia di Alzheimer in quanto è stato rilevato che i soggetti bilingui riportano
emersione dei sintomi fino a cinque anni dopo dei pazienti monolingui, contribuisce a creare una riserva
cognitiva e quindi al conseguente ritardo dei sintomi.
1. Il primo studio presentato è quello Canadese dove è coinvolta Ellen Bialystok che è una studiosa
di tutti i fenomeni del bilinguismo e lei ha confermato che il bilinguismo offre protezione verso
l’emersione dei sintomi. Perché il bilinguismo offre una protezione? Perché il bilinguismo tiene la
mente sempre attiva, soprattutto per quello che riguarda la capacità di controllare le due lingue
2. Nello studio del signor Bak è interessante perché fa uno studio di un contesto poco studiato
Hyderabad in India dove i bilingui sono sempre disponibili ad essere contattati perché ci sono 850
lingue quotidianamente in uso in india ed il plurilinguismo è molto comune, Bach è andato in
india perché era più facile trovare soggetti bilingui o plurilingui ed ha fatto lo stesso tipo di analisi
sull’emersione del Alzheimer ma quello che è venuto fuori è che questa i benefici del bilinguismo
non dalla scolarizzazione, perché molto dei suoi pazienti erano analfabeti.
3. Altro studio di Schweizer e Weiser del 2007: Visto che i bilingui switchano costantemente tra le
lingue o devono sopprimere una per usare l’altra, quando l’Alzheimer emerge, i loro cervelli sono
più preparati ad usare pathways alternative, sono più preparati ad usare tutte le funzioni cerebrali
che devono continuamente controllare le due lingue e quindi reagiscono meglio all’emersione
della malattia da un punto di vista cognitivo.
4. Lo studio del 2013 di Brian Gold. Parla dei bilingui e si fa attenzione agli switching task nel caso
dei parlanti anziani che sono cresciuti come bilingui, le persone che sono state bilingui
dall’infanzia continuano a svolgere le funzioni esecutive meglio dei monolingui nel momento in
cui invecchiano. Quindi Gold ha trovato che i cervelli degli anziani monolingui lavoravano con
più difficoltà mentre i bilingui anziani erano più simili nel comportamento ai giovani adulti.
5. Esperimento svizzero: al quale sono stati sottoposti dei volontari militari per imparare in 13 mesi
una nuova lingua. Prima e dopo l’apprendimento sono state analizzate le strutture del cervello in
quanto gli scienziati intendevano verificare cosa potesse succedere al cervello nell’imparare una
lingua in così poco tempo ed è risultato che lo studio intensivo di una lingua permette di
mantenere il cervello in forma.

Potrebbero piacerti anche