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EUGENIO MONTALE (1896 -1981)

Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 e trascorre l’adolescenza a Monterosso (Cinque Terre),
il cui paesaggio marino è protagonista di tante liriche degli Ossi di seppia. Studia canto come
baritono e si diploma in ragioneria. Nel 1916 parte per il fronte, vivendo quindi l’esperienza della I
guerra mondiale.
Nel 1925 firma il “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, redatto da Benedetto Croce e pubblica
la prima raccolta di poesie, intitolata Ossi di seppia. Si trasferisce a Firenze e frequenta il Caffè
delle Giubbe Rosse, dove si ritrovano gli intellettuali antifascisti.
Nel 1939 esce la raccolta Le occasioni e nel 1940 è richiamato alle armi (viene congedato due anni
più tardi per motivi di salute). Traduce scrittori contemporanei e classici di lingua inglese
(Shakespeare, Melville, Scott Fitzgerald, Hemingway). Dopo la guerra entra a far parte del
Comitato di Liberazione Nazionale toscano e aderisce al Partito d’azione. Fino al 1973 collabora
con il “Corriere della Sera”, trasferendosi a Milano (molti suoi articoli saranno poi raccolti, nel
1956, nella Farfalla di Dinard). Per conto del giornale, compie numerosi viaggi (New York, la
Bretagna, Parigi, Barcellona, Londra, dove incontra Eliot nel 1948).
Nel 1956 esce la raccolta La bufera e la fama del poeta varca i confini nazionali: Montale è
tradotto in altre lingue, riceve lauree ad honorem da università prestigiose, come quella di
Cambridge, e nel 1967 è nominato senatore a vita per “ i meriti nel campo letterario e artistico ”.
Nel 1971 esce la raccolta Satura e nel 1975 a Stoccolma riceve il premio Nobel per la letteratura.
Negli ultimi anni di vita si interessa a discipline come la fisica, l’astronomia e le scienze naturali.
Muore a Milano nel 1981.

Uno sguardo disincantato sul mondo


Il mondo, la sorte dell’uomo, la Storia appaiono sempre a Montale come oggetti desolanti: muri
screpolati, terre riarse dal sole, plumbei spazi urbani abitati da uomini -automi, bufere turbinose,
che seminano devastazione, indicano chiaramente che Montale non è un poeta dell’illusione. Per
lui LA PAROLA POETICA non illumina l’esistenza (si pensi ai Simbolisti e ad Ungaretti); inoltre non
conforta nel suo essere parola poetica (si considerino invece poeti come Leopardi, per il quale
quando nasce un ‘bel verso’, nel momento in cui c’è, solleva dall’infelicità).

Per Montale, quindi, la poesia è TESTIMONIANZA dell’assurda condizione esistenziale dell’uomo,


del suo spaesamento e della sua disarmonia rispetto alla realtà. Montale riprende l’espressione
“male di vivere” dal francese mal de vivre, che indica, grosso modo, quello che gli Antichi
chiamavano “malinconia” (o taedium vitae o “accidia”) e i Moderni “depressione”.

La sorte dell’uomo è dolore: prova ne è la Storia, soprattutto la I guerra mondiale, il Fascismo, la II


guerra mondiale, la massificazione e l’omologazione della società dagli anni ’60, gli “anni di
piombo”; “il male di vivere”, però, è anche connaturato all’uomo che, per natura, tende alla
felicità, spesso frustrata dai “limiti” del suo essere “finito”. Secondo Montale, la Storia e la Vita di
tutti gli esseri sono scandite da leggi deterministiche, leggi inalterabili di sofferenza. Oltre al male
storico, infatti, il poeta percepisce un male cosmico, cioè una sofferenza connaturata alla vita, un
dolore che è parte stessa della vita, intesa come NECESSITA’, FERREO MECCANICISMO. Della noia
esistenziale è spesso allegoria il paesaggio brullo, desolato, inaridito. La poesia di Montale, quindi,
non alimenta l’illusione di una felicità, poichè il Bene, in quanto tale, non esiste: questa è la sua
DISINCANTATA VISIONE DEL MONDO.

“ (…) l’azzurro si mostra /soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase”.


Eppure, la poesia di Montale non tacita la speranza di un Bene, sebbene questo si lasci solo
intravedere, a “scaglie”, a sprazzi, e non si possa mai cogliere definitivamente. La sua poesia,
quindi, è anche CONATO, TENSIONE, DESIDERIO VERSO UN VARCO, per cui le cose oscure possano
schiarirsi; rappresenta la fiducia in un “miracolo”, in un “prodigio” rivelatore e liberatore, in grado
di spezzare la catena delle leggi deterministiche e dare un senso all’esistere. La poesia diventa
quindi lo strumento essenziale di questa RICERCA dell’“anello che non tiene”, della “maglia rotta
nella rete”. Protagonista dell’immaginario poetico di Montale è spesso la VITALITA’ DELLE
IMMAGINI: i suoi versi, infatti, se non alimentano l’illusione, TUTTAVIA NON SOFFOCANO LA
SPERANZA. All’”arsura” e all’alienazione del mondo contemporaneo, egli contrappone una
condizione diversa, vitale, luminosa che si lascia solo intravedere e mai cogliere: è un “varco”,
sempre pronto a richiudersi, che affaccia su un “altrove” collocato nella lontananza della
MEMORIA o dell’IMMAGINABILE.

OSSI DI SEPPIA
Gli ossi di seppia sono residui calcarei della seppia che possono galleggiare felicemente nel mare
(emblema della felicità naturale) oppure essere sbattuti sulla riva, come inutili relitti. La prima
possibilità sembra la più difficile da attuarsi, mentre tende ad imporsi la seconda situazione: come
l’“osso di seppia” gettato sulla terra, il poeta si sente esiliato dal mare, escluso quindi dalla
naturale felicità.

Il poeta si sente PROSCIUGATO, INERTE, DETRITO, SCARTO come un osso di seppia rispetto ad una
vita che gli appare priva di senso; egli testimonia una condizione esistenziale inaridita, in cui gli
esseri vegetali, animali, umani sembrano imprigionati, senza possibilità di scampo. Negli Ossi di
seppia è evidente, dal punto di vista filosofico, l’influenza di Schopenhauer: ricorre spesso, infatti,
l’immagine della realtà come rappresentazione fittizia (è il “velo di Maja” del filosofo tedesco). Ciò
che ci appare reale altro non è che proiezione ingannevole, dietro la quale dovrebbe essere celato
il senso delle cose che l’io aspira a cogliere, strappando il velo o cercando un VARCO NELLA
CONTINGENZA in cui è bloccato. Secondo la prospettiva montaliana, l’uomo è dunque prigioniero
di una rigida catena di cause ed effetti che lo vincola e lo schiaccia.

La terra è il luogo – emblema dei limiti della condizione umana, tuttavia Montale coltiva la
SPERANZA di cogliere nella realtà “l’anello che non tiene” (I limoni), cioè L’ATTIMO O L’OGGETTO
RIVELATORE che lo conduca al centro del significato stesso della vita. Sulla terra sembrerebbe
possibile, di tanto in tanto, una sorta di “miracolo” laico, che può concretizzarsi in incontri
rivelatori, in epifanie, in smemoramenti: per esempio, l’odore dei limoni intravisti in un cortile; il
vortice inebriante del mare; l’upupa, definita “nunzio primaverile”; il girasole “impazzito di luce”.

Per Montale la parola poetica è ALLEGORIA (detta anche FIGURALITA’), cioè la concretizzazione
della vita interiore, che viene emblematizzata da un oggetto. L’allegoria è una procedura di
rappresentazione dei sentimenti, delle emozioni e degli stati d’animo, senza che questi vengano
nominati direttamente. A differenza della metafora e dell’analogia che si servono di immagini per
evocare significati tramite legami di tipo associativo, con l’allegoria gli oggetti si caricano di
significati emblematici che spesso prescindono dalle connotazioni degli oggetti stessi e da legami
logici di somiglianza. Montale eredita da Dante Alighieri questa modalità di rappresentare la sua
visione del mondo: ciò che è astratto non viene nominato in modo esplicito ma sostituito senza
spiegazioni né mediazioni con una dimensione concreta, che diventa “l’oggetto visibile” di quella
dimensione astratta, non nominata; è il lettore che deve tradurre quelle immagini concrete, in
astratte. Questi OGGETTI- EMBLEMA, dice Montale, “sono veri e propri correlativi dell’esperienza
interiore”.
Quella di Montale può essere quindi definita POESIA OGGETTUALE, poiché è popolata di oggetti,
paesaggi, situazioni concrete, il cui valore allegorico relega in un ruolo defilato e periferico l’io
lirico.

Spesso il male di vivere ho incontrato

Spesso il male di vivere ho incontrato:


era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
 
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Il girasole: emblema della possibilità di un’armonia, di una sintonia, di un accordo con il tutto.
Eugenio Montale,«Upupa», 1966. Acquaforte colorata

“Fatti non foste a viver come bruti /ma per seguir virtute e canoscenza” (Dante, Inf. XXVI, vv.119-
120): questi versi di Dante, poeta amato da Montale, sintetizzano il tema della poesia Portami il
girasole.

Portami il girasole ch’io lo trapianti

Portami il girasole ch’io lo trapianti


nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,


si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
 
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

Il girasole, che Montale vuole trapiantare nel suo “terreno bruciato dal salino” (oggetto -emblema
dell’interiorità del poeta e della condizione umana), è l’allegoria della tensione dinamica verso un
altrove, verso una trascendenza, che il “suo volto giallino” cerca con “ansietà”. Il girasole è
l’emblema di un'ebrezza quasi mistica, che rischiara la visione delle cose, estremo tentativo di una
poesia che è anche filosofia, ‘teoria della luce’. Tutto tende verso l’alto, l’etereo; le cose si
stemperano in colore e musica; “svanire è dunque la ventura delle venture”, cioè perdere
consistenza, liberarsi dalla stringente e crudele necessità delle leggi deterministiche, dissolversi
per identificarsi con il tutto, è la fortuna più grande.
Il personaggio di Ulisse nei versi di Dante, nonostante sia vecchio, non vuole finire i suoi giorni tra
le spiagge anguste di Itaca ed allora riparte verso l’ignoto; così l’uomo- girasole, seppure
abbarbicato alla terra dalle sue radici, come anche l’agave, cerca di girarsi e segue
incessantemente il sole, la salvezza, intesa come conoscenza. Il desiderio di conoscenza è innato
nell’uomo ed è il motore della sua vita. La poesia- girasole può diventare l’antidoto ad una società
che vive nell’ombra e che, al contrario del girasole, non guarda mai in alto, anzi volge lo sguardo
solo verso la terra, dimenticando come si possa impazzire di gioia di fronte alla bellezza della
conoscenza. Montale, con questa poesia, ci “educa” alla luce e al volo.
Il girasole è la ricerca del cielo, della luce e dell’infinito, a cui l’uomo è vocato.

L’agave sullo scoglio

O rabido ventare di scirocco


che l’arsiccio terreno gialloverde
bruci;
e su nel cielo pieno
di smorte luci
trapassa qualche biocco
di nuvola, e si perde.
Ore perplesse, brividi
d’una vita che fugge
come acqua tra le dita;
inafferrati eventi,
luci-ombre, commovimenti
delle cose malferme della terra;
oh aride ali dell’aria
ora son io
l’agave che s’abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d’alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d’ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.

L’agave abbarbicata allo scoglio e tempestata dal vento è allegoria della condizione dell’uomo e
del suo male di vivere. Il tormento consiste proprio nella condizione di immobilità, nel suo essere
attaccata alla terra, nella consapevolezza del limite. Con l’immagine dell’agave Montale trova uno
splendido OGGETTO per esprimere il limite metafisico dell’uomo di tutti i tempi, la sua condizione
di ontologica infelicità derivante dalle sue radici abbarbicate alla terra. Proprio la Terra diventa
matrigna, prigione, mentre il cielo ed il mare, entrambi elementi uniti dalla vastità e dal colore
azzurro sono emblemi del varco, della felicità e della salvezza, anche se l’uomo moderno può
godere solo di “scaglie di mare”, che arrivano all’improvviso a rischiarare la sua vita (il testo di
riferimento è Meriggiare pallido e assorto).
Questi versi testimoniano la grande sete di vita del poeta che, nonostante la consapevolezza
chiara dei limiti ontologici dell’uomo, non perde il desiderio di elevazione o meglio la speranza di
un cambiamento della condizione di infelicità attraverso una tensione verso l’infinito: l’infinito, per
Montale, non coincide con la fede religiosa, ma con la libertà, con il varco che può condurre
l’uomo verso la conoscenza della vita quale “essenza”, si legge in Portami il girasole.

L’accettazione coraggiosa della condizione umana non significa per il nostro poeta una rinuncia
alla vita, anzi il tentativo del volo e le immagini di elevazione che ci sono nei suoi versi
testimoniano vitalità e fiducia nelle potenzialità dell’uomo che, se non può staccare le radici
come l’agave, può trasformarsi in girasole e guardare il sole, anzi seguirlo sempre, fino ad
ubriacarsi di luce e addirittura ad impazzirne. Proprio il girasole impazzito di luce che si trapianta
nell’animo “bruciato dal salino” è un’immagine positiva di vita e di desiderio di conoscenza
dell’uomo, che non si arrende e che cerca incessantemente la felicità.

Il valore della poesia


La poesia di Montale, dunque, pur aspirando a farsi RICERCA METAFISICA (ricerca cioè di un senso
superiore, che trascenda il piano della realtà concreta e deterministica dei fenomeni), deve
sempre fare i conti con i limiti della condizione umana e con la consapevolezza del “male di
vivere”. Egli rifiuta quindi l’atteggiamento da “vate” o da voyant: la poesia, per lui, non canta valori
o ideali elevati (D’Annunzio) nè offre la “formula che mondi possa aprirti”, rivelando il significato
ultimo del reale. Proprio in questa coscienza del limite e della relatività della parola poetica, però,
risiede il grande VALORE ETICO DELLA POESIA, LA FUNZIONE E IL SENSO DELLA LETTERATURA:
essa, infatti invita a diffidare delle verità sbandierate, della retorica propagandistica, del pensiero
unico dei regimi.

La coscienza del limite della parola poetica, dunque, convive in Montale con la convinzione che
essa costituisca uno STRUMENTO DI DIFESA DEI VALORI LIBERALI (libertà, ragione e democrazia);
essa è però anche un’estrema FORMA DI RESISTENZA DEL SOGGETTO di fronte al dolore. Dice
Montale: “L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la CONDIZIONE
UMANA IN SE’CONSIDERATA. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa
solo COSCIENZA, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio”.

L’ “essenziale” della condizione umana e dunque l’oggetto della sua poesia e anche se la poesia
non è in grado di svelare che cosa sia la verità, Montale riconosce però ai poeti almeno la
possibilità di dire che cosa essa non è: “Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò
che non vogliamo” (Non chiederci la parola).

Il poeta può dunque solo esprimere messaggi “in negativo”, nella piena consapevolezza dei limiti
della parola umana ma questa funzione minima ha un grande valore etico, perché mette in guardia
dalla menzogna, dall’illusione e dagli inganni di cui la ragione può essere vittima più o meno
consenziente.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato


l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,


agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

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