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Possiamo indicare l’esistenza di due tipi di cavalieri (una differenza che diventa esplicita già dal 1605 con
“El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha” di Miguel de Cervantes Saavedra):
- Il Cavaliere del Nord (del Ciclo della Tavola rotonda): cavaliere puro, capace di giungere al Graal
- Cavaliere del Sud (del Ciclo carolingio): perso dietro le sue illusioni e le sue passioni.
ARTICOLO 01BOLOGNA2
Riassunto: A Parigi assediata sta per cominciare una battaglia. I Saraceni si preparano e Carlo,
preoccupato, prega Dio e attende l’arrivo dell’esercito britannico insieme a Rinaldo. D’altra parte
Agramante, re d’Africa, comprende di dover attaccare immediatamente se vuole avere una chance di
espugnare Parigi. Dunque la battaglia comincia: gli arabi cercano di oltrepassare la prima cinta di mura della
città, e vengono ostacolati col fuoco, le pietre e l’olio bollente dai cristiani. Ma un guerriero coraggioso e
feroce, musulmano, penetra nelle schiere cristiane e ne fa strage, aprendo una breccia ai suoi oltre le mura: si
tratta di Rodomonte. I musulmani si ritrovano vicino agli argini della Senna, dove viene loro tesa
un’imboscata con le fiamme: solo Rodomonte riesce a oltrepassare con un balzo il muro di fuoco e a
raggiungere la città. Qui, inizia a compiere una strage: uccide uomini, donne e bambini senza alcuna pietà.
Ne uccide a centinaia. Quando Carlo viene avvisato, invia i suoi migliori paladini per combatterlo. Ad
aiutarli nell’impresa ci sono i parigini, che combattono il saraceno come meglio possono. Rodomonte
capisce che se non se ne andrà presto da lì, probabilmente verrà ucciso. Così indietreggia e si getta nella
Senna, passando dall’altra parte, e guardando con malinconia e rimorso quella parte della città che non ha
avuto l’occasione di distruggere.
Temi e valori: nel capitolo prevale il tema del combattimento, della guerra e della violenza.
Analisi: L'episodio, costruito come un grandioso scenario epico mostrando la prima vera battaglia di
tutto il poema, è diviso in due parti e descrive dapprima le difese approntate da Carlo e dai suoi uomini entro
le mura di Parigi, nell'imminenza dell'assalto dei mori (ott. 98-109), poi il "fiero assalto" dei saraceni che
vengono paragonati alle mosche che in estate si gettano sugli avanzi di cibo, oppure agli uccelli che
carpiscono l'uva nelle vigne (ott. 110-134, similitudine che sottolinea il gran numero dei nemici e il loro
carattere feroce, animalesco). La scena mostra soprattutto le forze impari in campo e l'impresa quasi
disperata dei difensori che dovranno respingere l'assalto di un numero sterminato di nemici, talmente
numerosi che contarli tutti sarebbe come contare gli alberi dell'Appennino o le onde del mare in tempesta o
le stelle in cielo (l'iperbole vuol dare l'idea della sproporzione degli eserciti), pure i cristiani riusciranno a
infliggere durissime perdite ai mori che pagheranno a caro prezzo questo primo assalto. Nel frattempo
Rinaldo, di ritorno dalla sua missione in Britannia dove ha raccolto rinforzi, sta rientrando a Parigi aiutato
dall'arcangelo Michele che ha mobilitato per lui il Silenzio permettendogli di arrivare in segreto e il suo
arrivo darà manforte ai difensori, sovvertendo di fatto l'esito della battaglia. In tutta la pagina è molto
evidente l'idea di una Cristianità assediata e minacciata dal nemico musulmano, situazione che riflette i
timori legati all'avanzata dei Turchi in Europa nel XVI sec. (gli Ottomani giungeranno ad assediare Vienna
nel 1529) e che si esprime già in questo canto, col richiamo ai soldati "per Cristo e pel suo onore a morir
pronti" (102.4), e poi soprattutto in XVI.32 ss., quando Rinaldo rivolge un accorato appello ai guerrieri
inglesi affinché difendano Parigi e, con essa, tutta la Cristianità che sarebbe alla mercé dei saraceni invasori
("Commun debito è ben, soccorrer l'uno / l'altro, che militian sotto una Chiesa"). Risulta chiaro che l'intento
di Ariosto in questi versi è tutt'altro che ironico e che la materia epica è trattata con grande serietà, senza
alcun intento di farne la parodia.
Rodomonte è il vero protagonista delle ottave che descrivono l'assalto dei saraceni alle mura di Parigi,
così come degli altri episodi di carattere militare che si succedono nel poema: la sua figura giganteggia sulla
scena e viene presentato come un guerriero ardito e infaticabile, smanioso di combattere già prima dell'inizio
dello scontro e poi pronto a uccidere persino i suoi se arretrano o voltano le spalle al nemico; indossa una
corazza di pelle di drago già appartenuta al suo avo Nembrod, al quale assomiglia per il suo carattere di
bestemmiatore senza alcun rispetto per la divinità o l'ordine costituito (il gigante biblico era associato alla
costruzione della torre di Babele, benché tale tradizione fosse un'errata interpretazione del Medioevo). In
realtà l'azione di Rodomonte è più temeraria che saggia ed egli trascina di fatto i suoi uomini al macello,
perché li fa accalcare nel fossato stretto tra il muro e il secondo argine dove i cristiani hanno nascosto
materiale infiammabile, così un gran numero di saraceni muoiono orrendamente bruciati quando i difensori
danno fuoco alle fascine. All'inizio del canto seguente Ariosto sottolinea l'avventatezza della sua condotta
che ha causato la morte di oltre 12.000 soldati mori, mentre Rodomonte si salva dalle fiamme superando
l'argine e trovandosi poi all'interno di Parigi dove causerà una strage infinita e da dove verrà cacciato a
fatica, allontanandosi a nuoto nella Senna (evidente l'imitazione con l'episodio di Turno nel campo
troiano, Aen., IX.672 ss.). Il re africano sarà protagonista di altri episodi in cui darà prova di efferatezza e
poco senno, come la morte di Isabella e soprattutto il duello finale in cui verrà ucciso da Ruggiero.
In tutto l'episodio è molto evidente l'imitazione dei modelli dell'epica classica, ovviamente dell'Iliade in
cui l'azione bellica ruota attorno all'assedio di Troia, ma soprattutto del libro IX dell'Eneide in cui i Troiani
sono trincerati nel loro accampamento e attaccati dai soldati di Turno, il quale a un certo punto verrà chiuso
da solo all'interno delle mura e darà prove di incredibile ferocia prima di esserne cacciato e gettarsi nel
Tevere (l'episodio è strettamente imitato da Ariosto in XVIII.8-24). L'autore si rifà allo stesso passo anche
nelle ottave 122-125 del canto XIV, che descrivono l'eccidio compiuto da Rodomonte e ricalcano Aen.,
IX.691 ss. in cui è Turno a fare strage di Troiani (cfr. specialmente IX.762-777, dove Virgilio elencava con
minuzia tutti i nemici abbattuti dal tremendo re dei Rutuli). Il brano ricorda anche Aen., X.380-425, in cui è
Pallante ad abbattere i Latini prima di essere a sua volta affrontato e ucciso da Turno. Naturalmente l'arrivo
poco dopo di Rinaldo con i rinforzi a Parigi che sovvertono l'esito della battaglia ricorda fin troppo da vicino
l'arrivo di Enea con gli Arcadi a salvare il campo troiano assediato, per cui cfr. Aen., X.260 ss.
Nel passo è nominata Doralice, la bellissima figlia di Stordilano re di Granata e promessa sposa di
Rodomonte, che Mandricardo ha rapito dopo essersene follemente invaghito (XIV.38-64): il re africano porta
uno stendardo che raffigura un leone in campo rosso tenuto al guinzaglio da una fanciulla, due personaggi
che si rifanno allo stesso Rodomonte e alla sua fidanzata che, lui ignora, nel frattempo è stata ben felice di
concedersi al suo feroce rapitore. Invece il re Dardinello d'Almonte che viene citato fra i guerrieri mori che
affiancano Agramante nell'assalto è lo stesso che sarà protagonista, suo malgrado, dell'episodio di Cloridano
e Medoro, quando i due fanti usciranno sul campo di battaglia per ritrovare il suo cadavere insepolto
Ludovico Ariosto:
Vita:
Ariosto rappresenta la tipica figura dell’intellettuale cortigiano, egli vive tutta la sua vita nella corte
rinascimentale, ma ha, nei confronti di questo ambiente, un macellato rifiuto e sottile polemica. Questa
segreta ambivalenza è presente anche nelle sue opere.
Ludovico Ariosto proviene da una nobile famiglia, dove il apdre era un funzionario al servizio dei duchi
d’Este ed era comandante della guarnigione militar di Reggio Emilia. Ludovico Ariosto nasce nel 1474 ed è
il primo di dieci figli.
Si stabilisce a Ferrara con diversi incarichi amministrativi e qui intraprende i primi studi, frequentando tra i
15 e i 20 anni corsi di diritto all’Università di Ferrara. Nonostante ciò si dedicà ad approfondire la sua
formazione letteraria e umanistica, producendo liriche latine, grazie anche all’influenza di Pietro Bembo, dal
quale soggiornò: uno dei principali poeti volgari del tempo. Iniziò anche ad entrare tra le cerchie di
cortigiani.
Con la morte del padre fu costretto a prendersi cura dei fratelli minori e far sposare le sorelle, oltre a vesitirsi
di cariche ufficiali e ad accettare missioni politiche e diplomangiche. Per aumentare le entrare divenne anche
chierico, prendendo gli ordini minori, in modo da poter godere di benefici ecclesiastici. Nel frattempo si
occupò anche di due commedie: “La Cassaria” e “I supposti”.
Quando ricevette il ruolo di Ambasciatore a Roma, iniziò a pensare di rimanere nella città romana, anche
perché nel emntr stava stringendo rapporti con gli ambienti fiorentini. Ludovico Ariosto pensava che con
l’elezione a papa di Giovanni de’Medici (Leone X), avrebbe ricevuto incarichi import anti, ma ciò non
avvenne e così rimase a Ferrara.
Si sposò in segreto con Alessandra Benucci.
Nel 1516 Ariosto pubblica la prima edizione de “L’Orlando Furioso”, dedicandola al cardinale Ippolito, il
quale però non apprezzò l’opera come Ariosto avrebbe sperato. Ciò portò l’uomo a declinare l’offerta del
cardinale di seguirlo in Ungheria, passando così al servizio del duca Alfonso, che lo fece divenire
governatore della Garfagnana (una terra piena di banditi), Ariosto ebbe così l’opportunità di mostrare le
proprie capacità politiche.
Mancandoli la sua città e la libertà di dedicarsi alla poesia e agli studi, portarono Ariosto a tornare a Ferrara,
dove riprese a occuparsi degli spettacoli di corte. Questi furono gli anni più tranquiolli del poeta, il quale
potè occuparsi della stesura delle sue opere.
Muore nel 1533 per complicazioni polmonari.
Opere:
Le liriche sul modello del petrarchismo : Ludovico Ariosto, fin da giovane, ha composto svariate
liriche, cioè componimenti poetici incentrati sulla resa di sentimenti ed emozioni individuali del poeta che si
immedesima direttamente nei versi per dare sfogo ai moti del suo animo. Queste liriche si dividono in due
gruppi: molte sono in latino, un gruppo meno sostanzioso è in volgare. Senza addentrarci nell’analisi di
queste opere uno è il dato importante che va tenuto in gran considerazione quando si pensa alla produzione
lirica di Ludovico Ariosto. Le sue poesie si inseriscono in quella tendenza poetica che era il petrarchismo,
appena riportato alla ribalta da Pietro Bembo, amico di Ariosto, e pioniere della riforma linguistica
cinquecentesca. Questo significa che Ludovico Ariosto si inserisce nel pieno clima del dibattito linguistico
del suo tempo sposando quella che sarà l’idea vincente: utilizzare Petrarca, e in particolare il Canzoniere,
come un modello di stile nella stesura di ogni nuovo componimento lirico. Ludovico Ariosto integra però
l’esempio di Petrarca con l’esempio degli antichi autori latini, dando come risultato delle poesie
classicheggianti, pregne di un linguaggio aulico e ricercato, in piena armonia con le tendente Umanistiche
che proprio ai classici facevano puntuale riferimento.
Le Satire di Ariosto: Altro gruppo di componimenti minori ma di maggiore interesse sono poi le
Satire, composte fra il 1517 e il 1525, modellate sulla satira classica di Orazio e molto apprezzate sia dagli
studiosi che dai contemporanei di Ariosto. Le Satire sono scritte infatti in un periodo in cui in Italia è vivo il
dibattito sul sistema dei generi letterari: si cercano cioè modelli, classici o contemporanei, a cui rifarsi per
comporre opere, di volta in parte, appartenenti ad un determinato genere. Ludovico Ariosto diventa con
questi componimenti un modello per la stesura delle satire successive.
Quando parliamo di Satire di Ludovico Ariosto parliamo di sette componimenti di natura autobiografica in
cui l’autore immagina di dialogare, polemizzando, con esponenti della sua cerchia sociale e culturale. Scrive
ai suoi fratelli, immaginando con loro appunto uno scambio di idee, scrive a Pietro Bembo e al segretario del
duca Alfonso I d’Este per cui, come abbiamo visto, Ludovico Ariosto di trovò a lavorare. I temi più scottanti
e divertenti di queste satire sono quello del matrimonio, della vita ecclesiastica dei suoi contemporanei, della
stanchezza per i troppi lavori che gli Este commissionavano ad Ariosto.
Le commedie: Ariosto si occupava anche dell’allestimento di spettacoli per le feste di corte, quindi di
teatro. Inizialmente però venivano inscenate opere tratte e tradotte da testi comici latini, finché non si passò
all’elaborazione di testi in volgare, tra i primi a intraprendere questa nuova attività ci fu anche Ariosto, il
quale scelse, in un primo tempo, la stesura di opere in prosa, riprendendo il tipico schema plautino del
conflitto tra i giovsani , che tentano di raggiungere i loro obiettivi amorosi, aiutati anche dai servi astuti, e i
vecchi che in vari modi li ostacolano. Dopo la stesura della Cassaria e de I supposti la produzione teatrale di
Ariosto si concluse per un decennio, finchè non riprese abbandonando la prosa a favore dei versi
(endecasilabo sciolto sdrucciolo, osssia terminante con una parola dall’accento sulla terzultima sillaba).
Le lettere: Ariosto scrisse 214 lettere negli ultimi trennt’anni circa della sua vita. Esse
rappresentavano un modello autentico, non scritto per la pubblicazione, ma bensì esse erano delle lettere
private: relazioni diplomatiche, rapporti ai signori, biglietti d’occasione, in stile semplice ed immediato.
Il pensiero:
Tutto ciò produsse in lui un senso di INUTILITÀ, perché intuì che doveva affrontare un mondo che non
conosceva: quello della corte, dove si imponeva di lavorare. Entrò infatti al servizio del duca Ercole I poi a
quello del cardinale Ippolito d'Este, il quale considerava i suoi uomini come pedine, non aveva alcun rispetto
per la dignità altrui. Lo utilizzava, infatti, per le più varie mansioni e cioè, in senso pratico, se ne serviva. Al
cardinale non interessava la poesia dell'Ariosto, almeno che non fosse elogiativa (come pure per quanto
riguardava la poesia di tutti gli altri).