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La tradizione del deserto -1

La tradizione del deserto

I primi monaci e la nascita del cenobitismo cristiano


Il periodo del monachesimo antico si estende dalla fine del terzo
secolo fino al sesto.
Possiamo definire questo tempo come quello della fine del mondo
antico, della complessa crisi dell’Impero Romano, nel quale la Chiesa
possedeva già un’organizzazione abbastanza solida, una gerarchia diffusa,
un culto, una disciplina, una letteratura, dei patrimoni e, dall’editto di
Milano del 313, la libertà religiosa concessale da Costantino 1. Si calcola
che su 50 milioni di sudditi dell’Impero Romano i cristiani fossero circa 7
milioni. Col monachesimo avrà origine una forma di vita consacrata
interamente alla preghiera e alla penitenza, in un isolamento dal mondo
che ammetterà un minimo e un massimo, ma vorrà esprimere e attuare il
desiderio di un’esistenza dedicata completamente alla ricerca di Dio.
Alcuni cristiani, specialmente in Egitto, iniziarono a ritirarsi nel
deserto, volendo riaffermare con ciò che «il regno di Dio non è di questo
mondo», e rivendicare i più alti valori dello spirito insieme con una in
parte esplicita protesta contro i pericoli della mondanità, ora che la
professione della fede non era più causa di persecuzioni ma poteva, al
contrario, procurare onori e assicurare carriere.
Le radici del movimento monastico appaiono profondamente situate
nel mondo biblico. Quanto all’Antico Testamento è fondamentale, nelle
vite dei santi monaci, il richiamo alla figura di Abramo e al suo
abbandono della patria. D’importanza straordinaria è, poi, il tema del
deserto quale luogo della prova, della tentazione, dell’abbandono in Dio,
della lotta con i demoni, della precarietà e transitorietà di ogni cosa. Né
vanno dimenticati quei «luoghi santi», come il Sinai e il Carmelo, a cui la
tradizione cristiana si rifarà per alcune peculiari esperienze monastiche.
I monaci cristiani quindi -anche perché erano per lo più persone
semplici, aliene da speculazioni filosofiche- non hanno elaborato un
ideale di perfezione per conto proprio ma si sono rifatti sostanzialmente
all’insegnamento della Sacra Scrittura com’era vissuto dalla Chiesa del
tempo. A questo riguardo bisogna ancora aggiungere la pratica della vita
comune in vigore nella Chiesa primitiva, secondo la testimonianza degli
Atti degli Apostoli: per secoli «vita apostolica» significherà non già vita
di apostolato ma, appunto, «vita comune», a imitazione degli apostoli che
avevano lasciato tutto per seguire il Signore.
1
Cf. G. PENCO, Il monachesimo, Mondadori, Milano 2000, 10ss.
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Nella Chiesa dei primi secoli, poi, l’ideale del perfetto cristiano sarà
costituito dal martire di cui, col venir meno delle persecuzioni, i monaci si
considereranno eredi e continuatori.
Per lo più i monaci sono spesso laici, qualche volta ancora
catecumeni, per la convinzione che lo stato monastico sia un equivalente
del battesimo (donde la concezione della professione monastica come
secondo battesimo).
La patria del monachesimo è l’Egitto, dove alla metà del IV secolo i
monaci erano centinaia di migliaia, e la Palestina, In tali ambienti
s’incontrano non solo degli ideali ma anche degli esemplari di altissima
virtù e contemplazione e, a poco a poco, anche una vera e propria dottrina
elaborata dalla corrente monastica dotta di cui è esponente Evagrio
Pontico.
Sul fondamento del contenuto spirituale insito nel messaggio
cristiano venne a poco a poco elaborandosi un itinerario ascetico di cui si
possono individuare le tappe essenziali: Va ricordato in particolare il tema
della compunzione (pénthos), della rinuncia (apótaxis),
dell’allontanamento nella solitudine (anachóresis), dell’ascesi (áskesis),
del combattimento spirituale (agôn), del dominio di sé (apátheia), del
discernimento degli spiriti(diákrisis), del riacquisto dello spirito
colloquiale con Dio (parrhesía), della deificazione (theopoíesis).
Il cammino spirituale era visto come contrassegnato dal progressivo
acquisto della gioia e dal ripudio della tristezza, considerata come facente
parte degli otto vizi capitali e di cui spesso ebbero a occuparsi i padri del
monachesimo. Sotto questo punto di vista non c’è soluzione di continuità
tra antichità e Medioevo, tra Oriente e Occidente. In base alle prime
esperienze compiute dai padri del deserto e descritte nei Detti dei Padri,
venne formandosi un patrimonio comune di dottrina e d’idealità, via via
attuato in forme sempre più differenziate dal punto di vista organizzativo
e istituzionale. E, infatti, dopo la prima fase dell’ascetismo domestico dei
primi secoli, si registra una larga affermazione dell’eremitismo, a volte
nelle forme più drastiche e assolute con distacco deciso da parenti e amici,
a volte mitigato mediante l’unione di vari eremiti in raggruppamenti o
«laure». Non vi sono ancora regole né legami di tipo culturale con la
scuola teologica alessandrina anche se a poco a poco pure i monaci
verranno interessandosi alle dottrine del grande Origene e saranno
coinvolti nelle relative dispute e condanne.
Nel corso del IV secolo il passaggio dall’eremitismo a una pratica
di vita comune (cenobitismo) è riassumibile nell’itinerario che va da
sant’Antonio a san Basilio.
Antonio († 356), nato in una famiglia cristiana e considerato
comunemente come il padre dei monaci, avendo udito in chiesa la
chiamata a seguire il Signore, abbandonò tutto, affidò la sorella a una
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comunità di monache e si ritirò nel deserto. Il suo cammino spirituale è


come scandito dalla ricerca di una solitudine sempre più completa, dalla
scelta di località sempre più remote e inospitali, in cui il santo è esposto
alle violente tentazioni dei demoni. Questa ricerca della solitudine non
impedisce che attorno a lui si raccolgano dei discepoli; l’influsso da lui
esercitato sulla spiritualità monastica fu enorme. La sua biografia fu
composta da Atanasio a pochi anni dalla sua morte e, subito tradotta in
latino, divenne un testo conosciutissimo in tutto il mondo cristiano,
esercitando un’influenza decisiva su tutta la posteriore letteratura
agiografica, sull’ascesi, sull’iconografia.
Una fase successiva concretamente Orientata verso il cenobitismo,
è testimoniata dall’esperienza di Pacomio († 346). Originario di famiglia
pagana, si ritirò anch'egli nella solitudine. Raccolse ben presto però
numerosi discepoli nella Tebaide, a Tabennisi nell’Alto Egitto. Ebbero
così inizio varie comunità caratterizzate da una notevole tendenza alla
centralizzazione con cenobi formati da raggruppamenti di case, giungendo
a costituire villaggi veri e propri. Pacomio compose una Regola in cui era
minuziosamente fissato l’orario riguardante il lavoro, alla preghiera, ai
pasti, alla penitenza: è la prima Regola monastica a noi nota. In essa viene
tra l’altro codificato il sistema decanale, ossia la distribuzione dei monaci
in gruppi di dieci, criterio adottato anche dalla Regola di San Benedetto.
Quanto alla sua biografia ci sono giunte diverse vite scritte dai suoi
discepoli.
Basilio di Cesarea († 379), il più importante dei padri cappadoci, ci
riporta a tutt’altro ambiente, quello dell’Asia Minore. Proveniente da una
famiglia d’intensa spiritualità cristiana era dotato di una grande cultura
arricchitasi anche mediante numerosi viaggi, preziose amicizie, soggiorni
nelle metropoli culturali dell'Oriente cristiano (Atene, Costantinopoli).
Basilio condusse il monachesimo antico all’affermazione del pieno
cenobitismo con la costituzione di monasteri autonomi, uno per ogni
singola località. Le sue comunità erano spesso doppie, composte cioè di
monaci e di monache, e la vita che vi si conduceva era profondamente
ispirata all’insegnamento evangelico, al punto che le sue Regole morali
(l'unico scritto cui egli attribuì il nome di «regola») non erano altro che
un’antologia di testi del Nuovo Testamento. Accanto a esse vanno
ricordate altre due raccolte ascetiche le cosiddette Regole diffuse e Regole
brevi. L’ideale monastico basiliano è caratterizzato da un vivo spirito
ecclesiale, dall’importanza assegnata all’obbedienza dall’attività in scuole
e opere di assistenza,
Nonostante Basilio abbia espresso scarsa stima per l’eremitismo, il
santo è considerato il legislatore della tradizione monastica orientale nelle
sue varie formulazioni successive mentre la corrente pacomiana fu un
filone meno diffuso. Con tali testi e tali autori il monachesimo orientale
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presentò altissimi modelli di perfezione ascetica a tutto l’antico mondo


cristiano.

L’uomo secondo i primi monaci

Anche se, com’è stato detto, i monaci non elaborano delle


speculazioni profonde, non si può dire che il modo nel quale praticano la
direzione spirituale e il discernimento sia privo di un’antropologia e cioè,
di una visione concreta dell’uomo.
La sua è una visione molto pragmatica e, oltre ai topici che
prendono alcune citazioni cercando di generalizzarli, i primi monaci né
idealizzano né demonizzano l’uomo e la donna. Ogni uomo è chiamato a
diventare come Dio l’ha voluto, per cui dev’essere accompagnato nel
cammino della scoperta della volontà di Dio e nella sua realizzazione.
La vita umana è concepita come lotta, combattimento: come
conseguenza del peccato, la persona si trova pressa di tante miserie, vizi,
rappresentati come demoni, che cercano di impedire la sua marcia verso
Dio. Il primo paso, molto importante e quello di voler compiere il
desiderio divino, di superare tutti gli ostacoli che impediscono la
comunione con Lui.
La lotta non si svolge soltanto nella mente dell’uomo, perché la
povertà della persona non è anzitutto una questione intellettuale ma
piuttosto una condizione profonda, radicata nel cuore per la forza del
peccato, ma non inestinguibile.
Né la persona neanche la sua anima sono contaminate
irrimediabilmente, ma il peccato riesce a indebolirla e seminare in lei
propositi, piani, intenzioni, desideri, idee, sentimenti, motivi e stati
d’animo che impediscono la realizzazione del piano di Dio sull’uomo.
Non bisogna, tuttavia, combattere questi sentimenti ma andare alla sua
radice, domandarsi il perché e il senso della sua esistenza.
Per i monaci è chiara la procedenza dei pensieri e sentimenti cattivi:
sono i demoni a produrli. Essi, anche possono a volte assumere una forma
visibile, lavorano soprattutto nell’interiorità della persona.
Il monaco si fa consapevole di questa verità presente in se stesso e
incomincia la lotta contro le forze del male, convinto della possibilità
della propria salvezza, anche in mezzo al peccato.
I monaci mai si scandalizzano del monaco caduto, ma continuano
ad accoglierlo con la speranza che dal suo peccato possa nascere una
possibilità di salvezza: per cui, una volta accolto, gli aiutano a riscoprire
le vie di Dio. Sono anche convinti che le proprie forze ci porteranno
soltanto a strade tortuose e sbagliate per cui abbiamo sempre bisogno
della misericordia di Dio.
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Il cammino spirituale del monaco, comunque, è importante non


soltanto per lui stesso ma perché, attraverso la sua decisione per il bene e
il compimento della buona battaglia (cf. 2Tm 4,7) collabora unito a Cristo
alla salvezza del mondo.

Verso l’unione con Dio

Per compiere la volontà di Dio in modo perfetto, il monaco


intraprende un cammino di purificazione verso l’incontro con Lui. Il
monaco vuole vedere Dio, essere un’unica cosa con Dio.
Quindi, tra i monaci la direzione spirituale è in fondo una via
mistagogica (mistagogia) il cui obiettivo è raggiungere la comunione con
Dio per così poter compiere e conoscere la sua volontà, i suoi
comandamenti, diventando se stessi, uomini giusti.
Il padre o madre del deserto accompagnerà il discepolo e gli darà
consigli in un processo di direzione che è una via verso la visione di Dio.
Ogni atto, ogni pratica deve essere valutata positiva se i suoi effetti per la
relazione con Dio sono positivi e le vicende della vita devono essere
scrutate col fine di scoprire la parola di Dio in esse nascosta.
Su questi principi che i monaci costruiranno quindi la sua proposta
di accompagnamento spirituale. Tuttavia, bisogna dire che non è facile
trovare un metodo costruito intellettualmente dietro la direzione dei padri.
Troveremo nelle sue testimonianze esempi e incontri da cui potremo
ricavare alcuni elementi concreti.
La fonte principale per conoscere i contenuti e i modi di
realizzazione della direzione spirituale nei primi monaci, sono i detti.
Premetto che i detti sono piuttosto un’opera letteraria, cioè, non troveremo
in essi le parole registrate dei padri e delle madri del deserto, ma piuttosto
una rilettura fatta in un contesto geografico, culturale e anche monastico
diverso a quello del deserto egiziano, nel quale furono pronunciati.
Trasmessi prima oralmente durante molti anni (per lo più in lingua
copta), sono stati dopo raccolti in diverse collezioni in lingua greca, come
quelle di Evagrio, Cassiano, l’anonimo autore della Storia dei monaci di
Egitto e soprattutto, le raccolte di Abba Isaia e della cosiddetta Collectio
monastica etiopica.
La sinassi o assemblea eucaristica è anche il tempo della istruzione
per i monaci di Scete, il più famoso dei deserti di cui provengono un
grande numero di detti. I monaci si ritrovavano presso la chiesa centrale,
celebravano un’agape, recitavano i salmi (dodici solitamente) e
celebravano l’eucaristia. In quest’ambiente, il presbitero responsabile
rivolgeva ai monaci parole d’insegnamento, di correzione o di
esortazione. Altre volte, erano gli stessi fratelli a raccogliersi
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spontaneamente attorno agli anziani per chiedergli consiglio o


incoraggiamento.
I monaci –tranne il presbitero responsabile durante la sinassi
eucaristica- mai davano un consiglio senza prima di avere ricevuto una
domanda del tipo: “Dimmi una parola!”, “Dimmi una parola ed io sarò
salvato!” “Che cosa devo fare!”. Nella domanda c’è la disposizione,
l’apertura fiduciosa al padre per ricevere da lui un consiglio, una parola di
salvezza. Nel domandare, il discepolo afferma in qualche modo la sua
disposizione a compiere quello che gli sarà consigliato. Infatti, il padre,
riconosciuta la sincerità della richiesta del discepolo, risponde con parole
di discernimento e incoraggiamento, talora accompagnandole con qualche
gesto eloquente –perfino richieste bizzarre- a patto di riuscire a imprimere
le sue parole nella memoria del domandante.

Elementi essenziali dell’accompagnamento spirituale nei


detti (presentazione schematica)

 I padri fanno sempre indicazioni molto concrete che riguardano la


situazione dell’individuo, non si rivolgono invece, di solito a
principi generali.
 Le sue parole cercano, anzitutto, consolare e incoraggiare il
discepolo. Perciò sono più duri nel consigliare di non giudicare mai
l’altro.
 Il suo agire può essere considerato di natura “maieutica”, perché
cercano di aiutare il discepolo a trovare la propria risposta alla
propria domanda.
 La risposta dei padri e, a volte, il silenzio.
 Invitano ad affrontare le passioni per comprenderne il significato:
ad esempio, l’ira può essere conseguenza di avere dato agli altri
troppo potere su di noi, la lussuria, compensazione per essere troppi
desiderosi di perfezioni e poco umili, e così via.
 Il padre e la madre spirituale non sono in primo luogo né psicologi
né medici che aiutino a superare le difficoltà della vita ma
mistagoghi, guide alla contemplazione, all’incontro con Dio.
Aiutano il discepolo a diventare un’unica cosa con Dio e
trasmettono la conoscenza di Dio da loro raggiunta.

Un fratello si recò presso un anziano che abitava al Monte Sinai e gli domandò:
«Padre, dimmi come si deve pregare, perché ho molto irritato Iddio». L'anziano
gli disse: «Figliuolo, io quando prego parlo così: Signore, accordami di servirti
come ho servito Satana e di amarti come ho amato il peccato».

Madre Teodora era solita ripetere che né l’ascesi, né le veglie, né la fatica


salvano l’uomo, ma soltanto la sincera umiltà. C’era infatti un anacoreta che
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cacciava i demoni, e un giorno li interrogò chiedendo: “Che cosa vi fa uscire?


Il digiuno?”. Questi risposero: “Noi non mangiamo né beviamo”. Egli chiese
ancora: “Sono forse le veglie? O la solitudine?”. I diavoli replicarono: “Noi
non dormiamo e viviamo nei deserti!”. L’anacoreta, spaesato, chiese dunque:
“Ma allora, che cosa vi caccia?”. Dissero allora gli spiriti maligni: “Nulla ci
vince se non l’umiltà”.

Un monaco egiziano disse a un anacoreta siriano, tutto eccitato, che voleva


andare in città a vedere un santo che operava miracoli e che, con la sua
preghiera, risuscitava i morti.
L'altro monaco, sorridendo disse: “Che strane abitudini avete da queste parti:
chiamate santo chi piega Dio a fare la propria volontà. Da noi invece,
chiamiamo santo chi piega la propria volontà a quella di Dio”.

Un giovane si recò un giorno da un padre del deserto e lo interrogò: “Padre,


come si costruisce una comunità?” Il monaco gli rispose: “E' come costruire
una casa, puoi utilizzare pietre di tutti i generi; quel che conta è il cemento, che
tiene insieme le pietre”. Il giovane riprese: “Ma qual è il cemento della
comunità?” L'eremita gli sorrise, si chinò a raccogliere una manciata di sabbia
e soggiunse: “Il cemento è fatto di sabbia e calce, che sono materiali così
fragili! Basta un colpo di vento e volano via. Allo stesso modo, nella comunità,
quello che ci unisce, il nostro cemento, è fatto di quello che c'è in noi di più
fragile e più povero. Possiamo essere uniti perché dipendiamo gli uni dagli
altri”.

Abba Poimen disse: «Se uno pecca, e non lo nega, dicendo: “Ho peccato”, non
rimproverarlo, altrimenti spezzi il suo zelo. Se invece gli dici: “Non
scoraggiarti, ma d'ora in poi sta' attento”, inciti la sua conversione».

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