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Il Quattrocento è sempre stato considerato come un secolo transitorio, una sorta di “passaggio

obbligato per qualcosa di più grande, ossia il Rinascimento. La letteratura italiana del Quattrocento
sempre non avere nomi, ma solo concetti e immagini. Si ricorda il Quattrocento per l’Umanesimo,
per l’egemonia culturale di Firenze, per i Medici e per la filosofia neoplatonica. Ma cosa c’è dietro
questo secolo? Chi sono i protagonisti della letteratura umanistica? Sono dei meri imitatori o hanno
qualcosa di speciale?
Nel XV secolo il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, da
visitare e studiare. L’Italia ritrova i suoi antenati e l’impulso dato dal Petrarca per la poesia e dal
Boccaccio per la letteratura diventa una febbre. La nuova era fu chiamata Rinascimento. Roma era
la capitale del mondo, gli stranieri erano barbari e gli italiani restavano gli antichi romani con
sangue latino. La loro lingua era il latino, anche se la lingua parlata era il volgare, un latino usato
dal volgo. La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Bracciolini che furono i Colombi
di questo mondo nuovo. Gli scopritori sono insieme scrittori e professori. Pullulano i latinisti e i
grecisti, stimolati non solo dalla fame, ma anche dal guadagno. Sorgono centri letterari nelle grandi
città: Roma, Napoli, Ferrara e sopratutto Firenze. E quei centri si organizzano e diventano
accademie: la Pontaniana (Giovanni Pontano) a Napoli, l’Accademia Neoplatonica (Marsilio
Ficino) a Firenze, la Romana (Pomponio Leto) a Roma. La filosofia neoplatonica prende il posto
di quella aristotelico-tolemaica e nasce lo stimolo a scoprire le bellezze dell’Oriente (notevole la
dottrina di Pico della Mirandola che notificava l’Oriente come culla della società). La cultura
acquista una fisionomia nazionale, diviene italiana. Anche il volgare si scosta dagli elementi locali
e municipali e prende aria italiana. L’Italia però è dei letterati, il suo centro di gravità nelle corti.
Non viene dal popolo e non si cala in esso: il popolo è coperto dalla voce dei cortigiani e dei
letterati che in versi latini zittiscono la plebe. C'è un ritorno del mecenatismo augusteo (anticipato
dal Petrarca): i letterati servivano chi pagava meglio, erranti per le corti, si vendevano all’incanto.
Questa stanchezza e servilità di carattere, con una profonda indifferenza religiosa, morale e
politica è costume e abito sociale e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinica. È una
letteratura senza veli, più spacciata in latino che in volgare. Ciò che importa non è cosa si deve dire,
ma come si deve dire. La bella unità della vita è rotta; il letterato non ha obbligo di avere delle
opinioni, a lui spetta solo dargli la veste. Il suo cervello è un ricco emporio di frasi, di sentenze, di
elegante. Il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonia: forme vuote e staccate da ogni contenuto.
Il movimento sorto a Bologna e a Firenze era intellettuale: si cercava negli antichi forma e scienza;
sorge la critica. I testi antichi non vengono più confusi e considerato un unico ammasso, ma
vengono criticati, commentati e studiati. Libri di grammatica e retorica vengono pubblicati. Spicca
tra tutti l’opera Eleganze di Lorenzo Valla. Effetti sono una certa stanchezza di produzione,
inerzia del pensiero, imitazione delle forme antiche, uomo e natura viste alla maniera classica.
I classici verranno in seguito incolpati di questo Quattrocento vuoto e senza sintesi, ma essi sono
innocenti poiché la colpa è da additare ai limiti intellettuale dei letterati che dei testi latini non
poterono che riprodurre solo il meccanismo esteriore: sotto quel meccanismo c'è il vuoto.
L’ossessione per la forma ucciderà il contenuto.
Nel Duecento e nel Trecento, caratterizzati da mistiche astrazioni e disputazioni sottili, il latino fu
scolastico, mentre nel Quattrocento fu idillico, artistico e vivo, nel quale il dolore era elegiaco e il
piacere idillico. La vita era un riso della natura e dell’anima. Espressione di questo latino artistico è
Giovanni Pontano nei suoi Amori e nei suoi Bagni di Baia, ove è tutto vezzeggi e languori. Nella
Lepidina la crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie dell’immaginazione e i profumi
dell’eleganza, negati agli illepidi atque inelegantes. Spirito ed eleganza, questo è il mondo poetico
di una borghesia colta e contenta. Accanto al latino figurativo del Pontano, si trova la semplicità del
Poliziano, ispirato dalla natura nella stesura del suo Rusticus. Il suo latino non cade nel vuoto, è
modulato con grazia e i suoi canti non solo stimati come lavori di pura erudizione e imitazione. Il
latino era dunque stimato come la lingua della cultura e della scienza, intesa da tutti gli uomini
istruiti.
Queste tendenze trovavano naturale resistenze a Firenze, dove il volgare aveva messo delle radici
ferree, illustrato da tanta gloria. Grandissima era l’ammirazione dei classici, frequentatissimi gli
Studii del Landino, del Crisolora, del Poliziano: si disputava di Platone e Aristotele, preferendo il
primo, intriso di plotinismo, e si parlava di volgare come lingua nazionale. Si spiegavano Dante e
Petrarca (Filefo e Landino) e si sosteneva (Leonardo Bruni) che il volgare era il latino dell’antica
Roma. Vi erano anche degli oppositori; si sosteneva che Dante era un ignorante e uno spropositato.
Certamente il vezzo del latino introduceva nel volgare forme, vocaboli e frasi pedanti e
latineggianti. Ma il volgare non morì, poiché non era facile guastare una lingua così legata alla vita.
La forza della lingua volgare era che rifletteva la vita pubblica e privata poiché divenuta parte
inseparabile della società nelle sue usanze e nei suoi sentimenti. Se gli uomini colti scrivevano in
latino per procacciarsi fama, nell'uso vario della vita quotidiana adoperavano il volgare. Il mondo
ascetico e mistico scolastico del secolo passato era ritenuto il rozzo e barbaro e continuava la sua
vita come un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima. Era uno strato di
produzione di sviluppo il mondo profano, la gaia scienza dava i suoi colori anche alle cose sacre.
La lauda tende al rispetto, la leggenda tende alla novella. La leggenda è un racconto
meraviglioso animato da uno spirito mistico e ascetico con le sue estasi, le sue visioni, i suoi
miracoli. Esempi di leggende sono quelle scritte dal Passavanti e le Vite del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che compare nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo. Con la sua
natia rozzezza è andata via anche la semplicità, l'unzione, ogni sentimento liturgico e ascetico. Il
motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori certe mutazioni nello stato dei personaggi
morale o materiale; i contorni sono chiari e decisi, l'azione è tutta esteriore e superficiale e si ferma
solo quando un'amputazione improvvisa provoca esplosioni liriche di gioia, dolore, meraviglia.
Questa è la lirica superficiale propria del Boccaccio.
La lirica è sacra di nome e non a quella elevazione dell'anima verso un mondo superiore, propria
dell'Alighieri. C'è la preghiera ma non c'è il sentimento l'azione è pedestre e borghese, non
trasformata dall'immaginazione, non animata dal sentimento. C'erano le confraternite che davano
queste rappresentazioni, ma si andava a queste rappresentazioni sacre come alle feste
carnascialesche, per sollazzarsi. Il mistero era per essi un piacevole esercizio dell'immaginazione.
Se quelle rappresentazioni non poterono mai acquistare la serietà e la profondità di un vero mondo
drammatico su perché manco all'Italia un ingegno drammatico. I più pensano che la colpa ad abitare
a latino poiché a tiro a segno mini-corti e il mistero fu trascurato come cosa del popolo. Ma la verità
è che il povero latino non potevo uccidere nulla, perché nulla c'era: nessuna serietà di sentimento
religioso, politico, morale, pubblico e privato, da cui potessi uscire fuori il dramma. Il mistero è un
aborto, è materia sacra che non dici più nulla la mente al cuore. La serietà e la solennità della
materia era in flagrante contraddizione con quella forma tutto senso è tutta superficie. Ma il mistero
ci fu e ci fu un ingegno a realizzarlo. Quel mistero fu l'Orfeo e quelli ingegnoso di Angelo
Poliziano.
Angelo Poliziano (1454 - 1494) fu la più spiccata espressione della letteratura quattrocentesca. C'è
già l'immagine schietta del letterato, fuori da ogni partecipazione alla vita pubblica, vuoto di ogni
coscienza religioso o politico o morale, cortigiano, amante del quieto vivere e che alterna ore di
studio e di lieto ozio. Comincio la sua vita letteraria voltando l'Iliade in latino. Dettava epigrammi
latini con la facilità di un improvvisatore. Si trova da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e
Virgilio. Il suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il compendio di questa vita tranquilla e
placito. Aveva uno squisito sentimento della forma nella pieni differenza di ogni contenuto.
Teologia, scolasticismo, simbolismo, il Medioevo era un mondo in tutto estraneo alla sua cultura e
al suo sentire. Il lui è tutto il sentimento della bella forma. Questo era la cultura, l'umanità, il
Risorgimento, orgoglio di una società erudita, artistica, digli che, sensuale, qual è il Boccaccio
aveva abbozzato e che ora si specchia nel Poliziano come suo modello ideale. Si dice che il
cardinale Gonzaga, rientrando in patria, per ornare le pubbliche feste, chiede al Poliziano di scrivere
per lui un'opera e angelo scrive l'Orfeo. L'Orfeo di Poliziano è l'evoluzione quattrocentesca del
Ninfale e dell’Ameto di Boccaccio. Orfeo è il grande protagonista di questo è il regno della cultura,
venuto dall'antichità giovane e glorioso nei carmi di Ovidio e di Virgilio. Questo fondatore
dell'umanità col suono della lira e con la dolcezza del canto mansuefà le fiere gli uomini
impietosisce la morte. Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando il regno
dell'umanità, inaugurando l'umanesimo. Sembrano ritornati i tempi di Atene e Roma. Ciò che una
volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento dell'arte, la sola religione
sopravvissuta, e si vive nell'immaginazione. È un mondo mobile e superficiale; la parola e come
ebbra e si esala nel suono e nel canto, il pensiero appena iniziale incalzato dalle onde musicali, la
tragedia è un elegia, l'inno è un idillio, e ne esce fuori un mondo idillico- elegiaco, che ti lusinga, ti
accarezza. Questo mondo non ha altra serietà, se non quella che gli dall'immaginazione. La stessa
leggerezza penetra nelle forme, flessibili: il settenario ammorbidisce l'endecasillabo, la ballata dà
le ali all'ottava, le rime si annodano nei più voluttuosi intrecci; il dialetto ora è nella sua grazia, la
lingua ora nella sua maestà.
L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova e tra le feste di Firenze nacquero le Stanze. Quel mondo
borghese della cortesia, così ben dipinto nel Decamerone, riproduce le giostre, il mondo profano dei
romanzi e delle novelle, la cavalleria. Le giostre sono dei duelli nel torneo medievale tra due
cavalieri singoli in onore della loro amata: erano in realtà una rappresentazione teatrale e i
giostranti erano attori che rappresentavano i personaggi dei romanzi. Le Stanze per la giostra di
Giuliano de' Medici, opera incompiuta del Poliziano, a causa della morte improvvisa, avvenuta nel
1476, di Giuliano, è uno dei residui di questa cultura cortigiana. Nella giovane mente del Poliziano
non c'è il romanzo: c'è Claudiano, Stazio, Teocrito, Euripide, Ovidio, Virgilio e infine il
Petrarca. C'è tutto un mondo di immagini fluttuanti, sciolte, disseminate. È un mondo che viene
fuori da un legame artificiale e meccanico poiché la giostra non è il motivo di questo mondo, è una
semplice occasione. Il contesto è frivolo e la trama debole. La sua validità è nell'opera stessa, nello
spirito che la muove ed è in quel vivo sentimento della natura e della bellezza che il Boccaccio
tanto elogiava nelle sue opere. Non si hanno non si hanno più gli schizzi di Dante, ma i quadri del
Boccaccio (Foscolo), non più la faccia di Giotto virgola ma la figura del Perugino (Carducci). La
sensualità filtrata tra tanta dolcezza di note lascia in fondo la sua parte grossolana ed esce fuori
purificata; nel Poliziano l'immaginazione come un crogiuolo, dove l'oro ro si affina. La sensuale e
volgare Griseida spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrena e diviene la gentile Simonetta,
bellezza nuda, sviluppata da ogni bel allegorico dantesco e petrarchesco. Simonetta Cattaneo fu
una gentildonna italiana tra le più note del Rinascimento, amata da Giuliano de' Medici e da Sandro
Botticelli, morta improvvisamente il 26 aprile del 1476 di tisi o peste. Tra il poeta suo mondo non
c'è comunicazione diretta: Ci stanno Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio, Ovidio che gli prestano
loro immagini e loro colori. Ciò che riceve esce dalla sua stampa come una nuova creazione scienze
mitologiche classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo. Ciò che prova non è sensualità,
ma voluttà, sensazione alzata sentimento, che fondò il plastico e te ne fa sentire la musica interiore.
Il sentimento che ne esce ti chiude nella contemplazione e ti tieni avvinghiato come se fosse il tuo
mondo, da guardare con meraviglia nella sua varietà. Il motivo dell'ispirazione non è lo spirito
nella sua natura trascendente musicale, ma il corpo. Il periodo e l'ottava di Boccaccio sono
divenute la base della nuova letteratura. L'ottava del Boccaccio diffusa, pedestre, insignificante, qui
si pizza, prendo una fisionomia. La stanza però non ti danno insieme ma le parti; non ti da la
profondità, ma la superficie, quello che si vede. Deve essere l'anima cogliere l'insieme tramite la
voluttà, nuova musa della letteratura. In Dante non c'è voluttà ma ebbrezza, poiché molto
trascendente. In Boccaccio c'è sensualità, non voluttà. Essa è l'ideale della carne o del senso, è il
senso trasportato nell'immaginazione e raffinato, divenuto sentimento. Nelle Stanze, per via della
tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia e delicatezza nell'eleganza e nella pulizia della
forma, possiamo definirla una voluttà idillica. L'Orfeo e le Stanze rappresentano i due modelli di
questa letteratura che, iniziata dal Boccaccio, andrà fino al Metastasio.
Lorenzo Il Magnifico (1449-1492) non aveva la cultura e l’idealità del Poliziano, ma aveva molto
spirito ed immaginazione, qualità della borghesia italiana. Cristiano e platonico in apparenza,
epicureo e indifferente in realtà, allegro, compagnevole, ora scriveva laude e strambotti, ora si
abbandonava ad orge notturne e disputazioni accademiche. Alla violenza psicologica che esercitava
sul popolo succedeva la malizia: Lorenzo riuscì a personificare tutto il popolo fiorentino,
diventando lui stesso il popolo, e ad ucciderlo. Esordì con il sonetto, petrarchista, ma incapace di
rendere quell’analisi psicologica, quel miscuglio di sensuale, idillico, elegiaco del maestro. Del
Petrarca rimane, grazie ai sonettisti, solo il cadavere: sfuse immagini vuote ed insofferenti. Di lui
mancano l’immaginazione, la malinconia e l’estasi; del suo mondo restano le astrattezze
platoniche e le acutezze dello spirito. Il sonetto e la canzone sono considerate quasi consacrate ed
inalterabili, ma un nuovo spirito si fa spazio con l’ottava rima (o stanza). Modello di questo genere
è la Selva d’Amore di Lorenzo, composizione a stanze, alquanto sazievole, di cui spicca il
soverchio naturalismo.
La differenza con il Poliziano è che il Magnifico è un acuto osservatore naturalista, amante della
bella forma, ma il Poliziano è l’artista, che rappresenta il sentimento e l’armonia della natura. Nel
genere dell’alta poesia idillica, il cui modello è il Ninfale di Boccaccio, oltre al Petrarca, il poeta
non è obbligato a platonizzare e sottilizzare le sue fiamme poetiche per tutta la vita. La donna cala
dalle nubi dantesche e acquista una storia umana. L’Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia
sono poemetti di questo genere. La Nencia è il capolavoro, sembra una novella boccaccesca, ove
Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici ed entra nel vivo della società,
rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini. Qui l’idillio si accompagna al sale
comico. Si parla di idealità comica: caricatura fatta con brio e grazia. Il poeta è qui voce di quella
società licenziosa e burlevole. I Beoni o il Simposio non sono che una parodia della Commedia e
dei Trionfi: le immagini sacre di Dante sono torte a significare le sconcezze e le turpitudini
dell’ebbrezza.
Lo stesso spirito è nelle ballate e nei canti carnascialeschi: sensualità illuminata dall'allegria e
dall’umor comico. Il mondo convenzionale dei trovatori è andato via con il suo vocabolario.
Allegria spensierata e licenziosa è il motivo di questi canti: l’amore non è un affetto, ma un
divertimento. Il motto comune è la brevità della vita, l’orrore della vecchiezza, il dover cogliere
la rosa mentre è fiorita. Questo perpetuo carnevale si manifesta nei Canti Carnascialeschi di
Lorenzo de’ Medici, con i suoi carri ora con rappresentazioni mitologiche (come il Trionfo di
Bacco e Arianna), ora con corporazioni di arti e mestieri. Motivo generale è l’amor licenzioso,
stuzzicato con equivoci e allusioni che mettono in moto l’immaginazione. È il cinismo del
Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo. In questa plebea pozzanghera finiscono serenate,
mattinate, dipartite, ritornate, lettere, strambotti, cacce, mascherate, frottole, ballate: è il mondo
del Boccaccio e del Sacchetti, ma che perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie. La più schietta voce, in
mezzo a letterati corrotti, era quella di Angelo Poliziano, che di rado capita negli equivoci. Nelle
sue ballate prevale la gentilezza e la grazia delle montanine del Sacchetti. Nelle sue Lettere e nei
suoi Rispetti non si trovano né novità di idee, immagini o situazioni né una particolare impronta
personale, come nel Petrarca. Si trova però il repertorio segreto del popolo, che traduce in forma
elegante il repertorio comune della plebe. I motivi sono semplici e comuni, come la bellezza della
dama o del damo, lo sperare, l’incitare, la dipartita, la gelosia ecc...
Le forme restano uguali: stanze con rime variamente alternate, canzonette di settenari o ottonari, la
ripigliata (vezzo toscano).
Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e sensuale, con l’aria di chi vuole far parte di
quella vita, Angelo vela con un manto di porpora tutte le più frivole apparenze. All’idealità del
Poliziano si accosta solo La Canzona di Bacco.
Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario dei canti popolari, sparsi in dialetto e in volgare.
Questa letteratura profana e proibita i tempi del Boccaccio ora è il passatempo furtivo anche di
donne colte ed eleganti. Era alla moda i romanzi francesi con le loro traduzioni, imitazioni e
raffazzonamenti in volgare. In questo secolo si moltiplicarono con i rispetti i romanzi. Della
cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle corti e le compagnie di ventura ne davano qualche
reminiscenza. La maggiore attrattiva era la libertà delle invenzioni: si empivano le carte di folle e
di sogni... e chi le diceva più grosse era stimato più. Le rappresentazioni presero una tinta
romanzesca: l'effetto si cercava nella varietà e nel meraviglioso degli accidenti. Il romanzo era
penetrato in tutti gli strati della società e dalle corti scendeva nei più umili villaggi; la plebe aveva i
suoi cantastorie, le corti i suoi novellatori. La cavalleria aveva il suo centro negli eroi di Carlo
Magno e nei paladini della Tavola Rotonda.
Matteo Maria Boiardo (1441-1494), conte di Scandiano, crebbe nella corte estense, divenuta
centro letterario importante accanto a Napoli, Roma, Firenze. Il Boiardo, dottissimo di latino,
studioso di Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio e
dalla letteratura toscana. Nei suoi sonetti, canzoni, ballate è facile vedere un non so che di astratto
e rigido, impacciato quasi. In quel secolo di parodie lui rappresenta un anacronismo. Gli piace
recitare i suoi canti tra liete brigate, ma i passatempi e gli scherzi non erano il suo elemento. Allora
venne salutato con l’appellativo di Omero italiano, poiché narrava con la sua serietà. Il mondo
omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono realizzati
perfettamente e armonizzati: il mondo cavalleresco è sotto le forme epiche il mondo plebeo
dell’immaginazione, sciolto da leggi spaziali e temporali. Il miracolo continua: non è fatto da santi,
ma da maghi e maghe. Il fine del miracolo è sorprendere i lettori con la straordinarietà degli
eventi. I motivi delle azioni sono da cercare nel libero gioco delle passioni e dei caratteri sotto
l’influsso di potenze occulte: è il mondo del Boccaccio reso moderno dal Boiardo. A quest’ultimo
mancano due cose, che sarebbero state essenziali per il suo Orlando Innamorato: l’immaginazione
e lo spirito. Matteo ha molta inventiva, anche se prende spunto da altri poemi (L’Orlando), tenta
talora con lo scherzo, ma rimane un tentativo abortito. La fantasia non gli appartiene. A questo
grande inventore di magie, la natura negò la magia dello stile. E così scade nel volgare facendo
diventare Orlando un babbeo e Angelica una poco di buono: mancano le gradazioni e le mezze
tinte.
Luigi Pulci (1432-1484) rallegrava le feste i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo
Morgante. Ritroviamo la fisionomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello fino a
Lorenzo de' Medici. Il Pulci discende in dritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti, ne sviluppa le
tendenze con più energia. Prende il romanzo come lo trova per le vie, un miscuglio di santo e di
profano, di buffonesco e di serio. Dà un mondo rimpicciolito, fatto borghese: gli eroi sono scesi
dal piedistallo, hanno perduto la loro aureola. Di caratteri e passioni non si parla più due punti è un
mondo superficiale e mobilissimo. Sono rappresentati con la stessa indifferenza e leggerezza di
colorito: è la cavalleria com'era veduta e trasformata dalla plebe. Il cantastorie è in fondo un
giullare, un buffone plebeo; il cibo è la nuova religione e il nuovo protagonista. Qui il buffone è un
uomo colto, che parla a un pubblico colto, e non è il buffone, ma fa il buffone, contraffacendo il
cantastorie e la plebe che gli crede. La parodia è ancora più comica virgola dissimulata con molta
cura, è posto e più sovente nella natura stessa del fatto senza alcun artificio di forma. La plebe non
analizza né descrive, ma ha l'intuito sicuro e la percezione viva. La forma è tutto esteriore e rapida.
L'ottava non è periodo e le rime non hanno gioco: frettolosi, poco curati, gli uni addossati agli altri,
tutto il quadro è un verso solo. Il dialetto è maneggiato maestrevolmente per la proprietà dei
vocaboli. Il romanzo è una commedia, che contro l'intenzione dell'autore si volge in tragedia. La
tragedia da burla se non c'è sentimento. Il Pulci è plebe, poiché a forza di rappresentarla è divento
lui stesso il cotale. Ha l'angustia di un'immaginazione plebea, visto che i suoi personaggi non hanno
molta ricchezza di carattere e i suoi paladini sono tutti a uno stampo. Il protagonista però è lo
scudiero, non il cavaliere. Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto,
millantatore, ignorante, buono, fedele e coraggioso. Margutte é la plebe nella sua degenerazione
corruzione, ignobile, bastardo, ladro, fraudolento.
Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto di Dante, che si trova in Inferno XXVII,
qui prende aria paesana, diventa un buon compagnone. È il nuovo spirito del secolo: motteggiatore,
ironico e libero pensatore, teologo, astrologo, spiega la Bibbia a modo suo, vede la filosofia a fascio
con l’astrologia e le arti di gabbare l’uomo. E conosce la verità non per ragione, ma per
esperienza, confermandone l'autorità con le Scritture. E afferma che piacciono a Dio quelli che
osservano la loro religione come fecero gli antichi romani, sui quali piove tanta grazia celeste, e
che al di là delle Colonne d’Ercole c’è un altro emisfero, abitato come il suo. Rinaldo si lancerà
nell’impresa di conquistare questo remoto emisfero, a mo’ di Cristoforo Colombo, ma anni prima
della sua spedizione. Il dotto Astarotte era in realtà il celebre Toscanelli, amico e suggeritore del
Pulci.
È qui che il secolo volta le spalle alle forme scolastiche e alla contemplazione ascetica e si getta
nelle esplorazioni della natura e dell’uomo. La fisica, la storia naturale, la nautica, la geografia
prendono il posto della filosofia. Ma, come ogni autore di questo secolo, al Pulci manca
l’elevatezza d’animo che rende eloquente l’uomo quando gli lampeggiano nuovi orizzonti. E il suo
Astarotte riesce l’eco volgare e confusa di un secolo ancora inconsapevole di sè.
Leon Battista Alberti (1404-1472) è colui che riesce ad abbracciare tutte le innovazioni del secolo.
Pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato. Nativo di Genova, educato a Bologna, vissuto
a Firenze assieme al Ficino, al Landino, al Filefo, celebrato come uomo dottissimo e di miracoloso
ingegno. Tra le sue opere tecniche si trovano le Piacevolezze matematiche, i libri Dell’Architettura,
i Rudimenti, gli Elementi di pittura, la Statua. Pratico di latino, come dimostra nel Philodoxios (che
addirittura venne attribuito a uno scrittore latino, tanto la lingua era idillica e modellata sul latino
classico), e di volgare, in prosa e in verso, come dimostra negli Intercenali, negli Apologhi, nel
Momo (dove rappresenta sè stesso), nelle Egloghe, nelle Elegie. Platone era di moda e anch’egli
platonizzò. Ma al suo ingegno così pratico non poteva andare bene il misticismo platonico, che
faceva andare in visibilio il Ficino, che seguì come artista nella Tranquillità dell’animo e nei libri
della Famiglia. Il dialogo è la sua maniera prediletta, poiché amante del discorrere alla familiare e
alla buona, alieno alle pedanterie scolastiche.
Battista ha già tutta la fisionomia dell’homo novus. La scienza è in lui amabile e familiare.
Lascia le discussioni teologiche e ontologiche, concentrandosi sulle investigazioni morali e
fisiche, mediante l’esperienza. Anima idillica e tranquilla, alieno alle agitazioni politiche,
ritirato nella pace e negli affetti familiari, vuoto di ogni cupidigia e ambizione, formò una
filosofia conforme, di cui la base è l’aurea mediocritas. Il suo amore campestre non ha nulla di
sentimentale e di indefinito. Il vero protagonista è l’uomo, sottratto alle tempeste della vita
pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra i campi. Egli predilige
l’atarassia, mediante la quale l’uomo deve tenere lontane da sé le passioni e i turbamenti
dell’animo. Questo equilibrio metà epicureo è quella pace che Dante cercava nell’altro mondo
e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi moralisti
e che Lorenzo Valla definisce voluttà. Il concetto ascetico secondo cui l’uomo non può
conseguire la felicità in terra è alieno nel Quattrocento, che non nega, ma nemmeno afferma il
cielo e si occupa della terra. Egli non dà una filosofia rigoroso, poiché in realtà non è il
filosofo: egli è l’artista e il pittore della vita. Non ha vuota esteriorità, ma il vero ideale
dell’uomo savio e felice. È l’onesto borghese idealizzato, purgato ed emendato, toltasi l’aria
beffarda e licenziosa. La sua pazienza e la sua uguaglianza dell’animo è la genialità della
nuova letteratura, impressa dalle forme del Boccaccio e del Sacchetti prima, del Poliziano e del
Battista poi, che si innamora delle forme riposate e terse, il cui equilibrio interno si manifesta
nella grazia e nella bellezza. Il suo sentimento religioso si trasforma in sentimento artistico e
muove l’anima come architettura e musica. I suoi ragionamenti non sono originali e profondi,
sembrano uscire più dalla memoria che dall’intelletto. Nelle sue opere si trova una latinità
temperata dalla vivezza e dalla grazia paesana, evidente nella miscela tra voci, collocamento
semantico e intreccio del periodo latini. Egli, dunque, rimane inferiore al Boccaccio e lontano
dalla perfezione.
Non rimane nessuna opera integrale del Battista, solo bei frammenti di trentacinque opere. Il
secolo finisce e non si ha ancora il libro del secolo. De Sanctis divide la prima letteratura in due
secoli: il PRIMO SECOLO comprende Duecento e Trecento (Dante e la Commedia, opera
fondamentale, Petrarca e il Canzoniere, transizione tra i due secoli) e il SECONDO
SECOLO che comincia con Boccaccio e ha la sua sintesi nel Cinquecento.
Il Quattrocento è un secolo di gestazione e di elaborazione. È il passaggio dall’età eroica a
quella borghese, dalla società cavalleresca a quella civile, dalla fede al libero esame,
dall’ascetismo e dal simbolismo allo studio diretto della natura e dell’uomo, dalla barbaria
scolastica alla cultura classica. Hai i frammenti, manca il libro; hai l’analisi, manca la sintesi.
Il grande uomo del secolo fu Angelo Poliziano, che con le Stanze si accostò di più all’ideale
classico. L’eleganza e il decoro delle forme è accompagnato con la licenza dei costumi ed uno
spirito beffardo. Aveva provato a turbare gli animi ormai classici ed idillici Gerolamo
Savonarola, volendo mettere a rogo tutti gli autori, considerati peccatori, volgari, poiché
considerati la causa del male. Ma era impossibile imbarbarire l’Italia, orgogliosa della sua
civiltà.
Spuntava già la nuova generazione di intellettuali che sintetizzeranno nel Cinquecento tutti gli
ideali quattrocenteschi: essi si chiameranno Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini,
Ludovico Ariosto, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni e
rappresenteranno una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.

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