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1. le molte facce della flessibilità.

Oggi giorno le istituzioni non chiedono altro che la flessibilità del lavoro sia accresciuta, ponendola
come uno dei problemi più urgenti dell’economia italiana. Ma cos’è la flessibilità? Si definiscono
così i lavori che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l’organizzazione della propria
esistenza alle esigenze mutevoli dell’occupazione. E’ una cosa che richiede costo umano perché
sconvolge il complesso dell’esistenza personale. Si distingue tra: flessibilità numerica oppure
funzionale, quantitativa o qualitativa, esterna o interna. Basterebbe invece parlare di :
—flessibilità dell’occupazione: contratti di lavoro atipici, di durata determinata, di collaborazione, a
progetto, di prestazione occasionale, ecc.
—flessibilità della prestaz: con la modulazione di attività e salari, lavoro a turni, orari slittanti, ecc.
Esiste però anche l’instabilità o discontinuità dovuta al fatto che il contratto non esiste o è solo
verbale e implicito, il lavoro nero cioè. Nel mercato italiano è una fetta molto consistente e non si
può parlare di flessibilità omettendo circa 5 milioni su 11 di lavoratori irregolari. Diventa difficile
condurre una ricerca giacché gli ostacoli sono svariati, e tra questi le discrepanze tra i dati ottenuti
mediante intervista e quelli amministrativi, stabilire certezze sui contratti a termine
nell’imprecisione di chi li racconta, impianto campionario non privo di errori.
2. Alle origini della richiesta di lavoro flessibile da parte delle imprese.
Questa richiesta di flessibilità persegue due scopi principali: ridurre il costo del lavoro adeguandolo
all’andamento della produzione e ridurre il rischio di impresa. I principi risolutivi di questi problemi
sono la strategia del just-in-time che fa in modo che nulla arrivi nel posto di lavorazione se non nel
preciso momento in cui possa essere usato, e il principio per cui si produce solo su domanda.
Si è fatta strada l’idea che questi due principi potessero essere applicati anche alla forza lavoro, il
punto di arrivo è il lavoratore flessibile (quindi o il taglio di posti o le richieste di straordinari
estenuanti) e com’è ovvio le proteste dei sindacati. Questa richiesta è alimentata dall’incipiente
globalizzazione che distribuisce la produzione su scala mondiale.
La grande impresa di oggi ha reso indipendenti e autosufficienti gli anelli delle catene e ne ha
ridotto le dimensioni in termini di numero di addetti: si chiama frammentazione funzionale e
avviene perché quando le unità produttive sono lontane è meno facile che si associno contro
l’impresa, perché se gli anelli sono autonomi si possono analizzare più precisamente, e perché è più
facile chiudere una unità produttiva se questa è già stata ridotta. Senza contare la difficoltà di
eventuali accertamenti da parte delle autorità, è il meccanismo di manipolazione dei “prezzi di
trasferimento”. E’ anche deresponsabilizzazione delle imprese, non si imita Olivetti, anzi; oggi
l’impresa non reputa come suo compito l’occuparsi del destino degli operai, la prima
preoccupazione è la competitività. Il lavoro stabile comunque non è destinato a scomparire ma a
diventare privilegio, mentre la flessibilità è l’alibi per gli scarsi investimenti nella formazione.
3. I dubbi rapporti tra flessibilità e occupazione.
Pare che la flessibilità favorisca l’aumento dell’occupazione, occorrerebbe però stabilire a quali
indicatori si fa riferimento, se per esempio a quello del numero effettivo degli occupati nonché delle
sue variazioni nei vari periodi, o a quello di coloro che “dichiarano” di aver lavorato almeno un’ora
nella settimana di riferimento. Parliamo comunque di grandezze incerte e sovrapponibili a volte,
distinguiamo per prima cosa qualche sottoinsieme:
—l’occupazione regolare: misurata con contratti regolarmente registrati presso un istituto. In Italia
però solo gli enti (tra i tanti istituti) sono alcune centinaia, è impossibile misurarli tutti.
—il tasso di disoccupazione: valutato in base alle iscrizioni presso le apposite agenzie pubbliche.
Le caratteristiche in base alle quali queste iscrizioni sono possibili vengono però continuamente
modificate per ragioni politiche, è un indicatore poco attendibile.
—occupazione rilevata mediante intervista: si sa con una certa approssimazione che una parte è
regolare e l’altra parte no.
—occupazione informale: è sommessa e irregolare, ma soprattutto invisibile.
—occupazione mediante censimento: viene misurata ogni dieci anni.
A fronte di indicatori tanto differenti non è chiaro su quale base i vari governi possano vantare un
aumento dell’occupazione, solitamente si finisce per usare solo l’indicatore delle interviste.
4. Il ruolo della legislazione sul lavoro.
La frammentazione della forza lavoro e la disconnessione delle sue parcelle diventa più agevole
quando il lavoro è concepito e trattato come un oggetto che viene “prestato”, cioè ceduto dal
soggetto dietro retribuzione. E’ questa la deregolazione per via legislativa del mercato del lavoro, in
termini poveri lo smantellamento della legislazione che protegge l’occupazione.
Si ritorna ai tempi in cui l’individuo era solo una merce, tuttavia negli anni ’90 questa concezione
era già stata superata in quanto il lavoro è un elemento integrante del soggetto, identità della
persona e della sua posizione nella comunità e nella vita familiare. Naturalmente, se il lavoro è solo
merce diventa più facile modificare i provvedimenti sull’occupazione e ormai il nesso tra ricerca
della flessibilità e ri-mercificazione del lavoro è evidente. Con lo stesso contratto a chiamata, il
lavoratore assume la condizione umana della disponibiltà perenne che è la stessa che caratterizza
chi è agli arresti domiciliari. Il lavoro in affitto è il culmine della mercificazione poi, il lavoratore
viene infatti assunto da un’azienda che poi lo spedisce a un’altra impresa. Le tappe della ri-
mercificazione sono state principalmente quattro: (1) protocollo di intesa tra governi, sindacati e
organizzazioni del 1993 in cui si promette la modernizzazione della normativa con disciplinamento
forme di lavoro tempo determinato (2) “Pacchetto Treu” 1997 che vieta l’interposizione di terzi nel
rapporto tra lavoratore e impresa e introduce rilevanti forme di flessibilità e l’orario pluriperiodale.
L’unico vantaggio restano i cosiddetti limiti di contenimento (quota limite a seconda localizzazione,
periodo annuale ed esigenze produttive). (3) Legge 2003, una volta ceduta la sua merce lavoro
all’impresa il soggetto non ha più alcun titolo da far valere, si tratti di condizioni di lavoro, orari,
ambiente, retribuzione, ecc. Egli può svolgere attività sindacale ma è ovviamente una concessione
vuota. (4) “Libro verde della commissione europea” del 2006, vuole lanciare un dibattito per
sostenere gli obiettivi della strategia di Lisbona su più posti di lavoro di migliore qualità.
Quando si parla di flessibilità serve puntare l’accento sulla “flessicurezza”, che dovrebbe combinare
con la libertà delle imprese anche un’elevata probabilità che il lavoratore trovi effettivamente un
altro lavoro di pari opportunità e che negli intervalli tra un lavoro e un altro abbia una generosa
indennità di disoccupazione.
5. Dalla flessibilità del lavoro alla precarietà della vita
Il maggior costo umano dei lavori flessibili è l’idea di precarietà, condizione sociale e umana che si
aggrava mano a mano che la sua durata aumenta. Coloro che restano precari per molto tempo
sviluppano nuovi atteggiamenti e linguaggi, c’è una possibilità quasi nulla di formulare progetti di
lunga e breve portata, si alimenta l’antipolitica nella battuta “sono tutti uguali”, si arriva a non saper
rispondere alla domanda interiore “chi sono?” e a quella pubblica “chi sei?”. L’Organizzazione
Internazionale del Lavoro tempo fa per definire il lavoro decente o dignitoso ha stilato dei principi
che dovrebbero essere assicurati a tutti i lavoratori: sicurezza dell’occupazione, professionale, sui
luoghi di lavoro, del reddito, di rappresentanza e previdenziale. Chi lavora con un contratto atipico,
pur di lavorare, tende a trascurare tutto ciò. I suddetti contratti atipici oggi giorno forniscono un
reddito basso, non assicurano i normali 12 mesi di lavoro e neppure la retribuzione piena. I
giovanissimi che crescono in una famiglia segnata dalla precarietà del lavoro possono addirittura
sviluppare comportamenti patologici che oscillano tra la rivolta senza scopo e il rinchiudersi in se
stessi.
6. Costi umani della flessibilità in diversi sistemi lavorativi.
Distinguiamo innanzitutto fra quattro tipi di sistemi lavorativi:
—lavoro razionalizzato: vincolato da fattori tecnici e organizzativi, descrizione mansioni, controllo
da capi, ritmo imposto dalle macchine. Non soffre di crisi strutturali, lavoratore X verrà assunto in
sequenza da più datori di lavoro ogni volta con ruolo più basso, raggiunto i 40 anni la probabilità di
trovare lavoro dello stesso genere è pari praticamente a zero.
—lavori a qualificazione medio-bassa: alta intensità forza di lavoro, attività di sicurezza, portierato,
ecc. La flessibilità qui chiede di combinare molte competenze in diversi contesti a periodi alterni,
non c’è molto da temere ma la grande affluenza comporta salari bassi.
—lavori semi-autonomi: comportano attività di controllo su altre persone. Nel pieno dell’età matura
è prevista disoccupazione, erosione della posizione professionale perché oggi non sono più richiesti
i cosiddetti quadri.
—lavori a qualificazione elevata: condizioni di notevole autonomia e responsabilità. Questi
lavoratori sono rari e quindi merce pregiata sul mercato, la parola carriera con la flessibilità vuol
dire riuscire ad ottenere compiti sempre più interessanti.
7. L’economia globale e le ict non eliminano il lavoro tradizionale.
Mentre c’è grande possibilità che i giovanissimi rientrino nel quarto settore di lavoro, c’è invece da
chiedersi se siano davvero in progressiva estinzione i settori 1 e 2. Appare azzardato dirlo, in Italia
quasi improbabile.
8. Società flessibile e integrazione sociale.
La società post-industriale coniò quella che oggi è la società flessibile, una società in cui le barriere
che fissavano gli individui in appartenenze e identificazioni sono cadute e che favorisce
l’autonomia dell’azione e l’indipendenza dell’individuo. Oggi ciascuno adatta le proprie condizioni
e tempi di lavoro alle sue esigenze, non risulta però ancora una realtà compiuta ed è piuttosto un
progetto riformista. Occorre in primo luogo adattare gli orari pubblici (di asili, negozi, scuole,
mezzi pubblici) a quelli dei lavoratori e la mobilità incessante deve essere incoraggiata da percorsi
di formazione permanenti life-wide. Le garanzie del lavoro non devono più essere cercate nei
sindacat ma nel possesso di conoscenze ed esperienze che ci rendono alto il tasso di occupabilità.
La stratificazione dei lavoratori assume una forma a clessidra, nella parte alta salari elevati e nella
parte bassa la massa, che non pecca solo in quantità ma anche in qualità del lavoro (mansioni
ripetitive in cui non si richiede il pensare, ecc). Per mantenere l’ordine sociale è necessario
mantenere nel tempo un’integrazione soddisfacente che si base sulla durata di relazioni sociali
stabili, su una significativa misura della ritualità (gratuiti, irrazionali, intransitivi, ecc). Tuttavia ciò
è sempre più difficilmente realizzabile e tra l’altro all’integrazione completa mirano solo le società
autoritarie, in una società democratica invece vi è la questione della società intermedia in cui
l’individuo prima si integra in famiglia, nella comunità locale e nelle associazioni e solo in seguito
nello spazio pubblico.
8. La flessicurezza, come curare gli effetti ignorando le cause.
Come rendere più sostenibile la flessibilità? Si può intervenire o sulle sue cause o sui suoi effetti.
Sebbene sia più logico concentrarsi sulle cause, fin’ora si è sempre preferito analizzare e curare gli
effetti con l’idea che la flessibilità possa essere semplicemente coniugata con la sicurezza per
renderla più sostenibile. La Commissione Europea nel 2007 tramite un comunicato fa sapere che
“flessicurezza” vuol dire anteporre la sicurezza dell’occupazione alla sicurezza del posto con
interventi ad hoc mirati ai soggetti più deboli . Per questo la flessicurezza è stata anche definita la
flessibilità dal volto umano, qualcosa che non faccia corrispondere la frequente perdita di lavoro
come la trappola della precarietà, uno scambio tra due probabilità. In molti paesi è praticata per
esempio con la richiesta di un gran preavviso di licenziamento. Facendo riferimento al caso italiano
ci si chiede se i programmi di flessicurezza adottati da altri paesi (la Danimarca) possano
funzionare, e se le misure per la riduzione dell’insicurezza sociale siano importabili. Per quanto
riguarda la prima questione serve specificare che non è tutto oro quel che luccica perché alcune
opzioni statistiche della Danimarca fanno diminuire la misura totale della popolazione attiva. Ci
sono molte differenze anche tra le legislazioni dei due paesi e l’indennità di disoccupazione italiana
è anche di molto inferiore, sarebbero alti poi i costi dei corsi di formazione e l’aumento dei
dipendenti pubblici. Per l’Italia sarebbe fuori portata, una buona idea potrebbero essere però gli
ammortizzatori sociali e cioè dei sostegni al reddito come la cassa integrazione, ecc. Con il
protocollo 2007 il governo si è impegnato a riformare gli ammortizzatori sociali, è però comunque
improbabile che i governi si accordino, che si trovino i soldi pubblici, ecc. La flessicurezza può
sembrare un volto umano allora, ma è solo una maschera.
10. Contro la precarietà, una politica del lavoro globale.
Iniziamo a scomporre la questione in due piani: internazionale e interno. Iniziando con quello
internazionale scopriamo che tra i suoi maggiori obiettivi c’è quello di andare a produrre in quei
paesi dove il costo del lavoro e i diritti in merito sono minimi. La flessibilità qui è soltanto una parte
della tanta pressione che le imprese globali esercitano sui lavoratori. I gruppi multinazionali o
transnazionali sono costituiti in un modo che rende quasi nullo il potere esercitato dalle autorità.
Senza la minaccia di sanzioni effettive le Linee guida diventano completamente nulle, la proposta di
inserirle ha d’altra parte scatenato polemiche perché considerata ingerenza negli affari interni ed
equivalente a danneggiamenti economici. Alcune zone permettono di produrre a prezzo minimo
merci da esportare in tutto il mondo, la Cina per esempio dispone di leggi avanzatissime che però
non ha mai fatto rispettare e la legge non conferisce ai sindacati il diritto di bloccare i licenziamenti,
essi hanno invece soltanto il diritto ad essere consultati. La politica del lavoro oggi dovrebbe essere
centrale per ristrutturare la domanda di occupazione flessibile, gli strumenti esistono ma la loro
applicazione ha problemi concettuali e pratici. Va aggiunto che numerosi paesi asiatici sono
dominati da dittature che non hanno alcun interesse a salvaguardare i diritti dei lavoratori. Sul piano
nazionale un passo sostanziale potrebbe essere una nuova legge complessiva sul lavoro che
dovrebbe stabilire che quest’ultimo non è una merce e che non può essere trattato e scambiato come
tale; la stessa nozione di mercato del lavoro deve essere rivista, e il processo del lavoro dovrebbe
essere non assimilabile al processo civile; si dovrebbe trattare anche il lavoro irregolare per
promuoverne la regolarizzazione introducendo strumenti utili e non solo e sempre repressivi,
sottolineando per esempio che il lavoro irregolare toglie potere all’attività sindacale che è
impossibilitata dal far valere i diritti dei lavoratori. Ciò che manca è anche e soprattutto il sostegno
dei governi dei principali paesi coinvolti, in Italia per esempio a sinistra si ha una concezione
adattiva della politica del lavoro che si differenzia dalla destra solo perché più disponconammortso

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