Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Fino alla metà del XVIII secolo la maggior parte dei russi
viveva nei boschi delle nostre pianure. La steppa entrava
nelle loro esistenze solo in occasioni nefaste, con le invasione
tatare e le rivolte dei cosacchi. Nel XVII secolo, a un
occidentale in viaggio da Smolensk a Mosca, la Moscovia
appariva ancora come una sterminata foresta intervallata da
radure di dimensioni più o meno grandi su cui sorgevano
villaggi e città. […] I boschi offrivano ai russi molti vantaggi
economici, politici e perfino morali. Fornivano una casa in
pino o in quercia, da riscaldare con legname di betulla e di
pioppo e da illuminare con accenditoi di betulla. Dalla foresta
si ricavavano scarpe di fibra di tiglio e utensili vari. […] La
foresta era il rifugio più sicuro dai nemici esterni e sostituiva
montagne e fortezze. Lo stato stesso, dopo una Rus’ distrutta
perché troppo vicina alle steppe, si poté sviluppare solo a
nord, lontano da Kiev, protetto dai boschi. […] [Eppure] la
foresta rappresentò sempre un fardello per i russi.
Nell’antichità, quando era troppo rigogliosa, intralciava le
strade e i sentieri, riconquistava a poco a poco prati e campi
disboscati a fatica e minacciava gli uomini e il bestiame con
lupi e orsi. La foresta dava asilo a ladri e briganti. Strappare
con ascia e fuoco appezzamenti da coltivare era un lavoro
ingrato ed estenuante. […] I russi non hanno mai amato la
loro foresta.
880- 1132-
Olegca Jaropolk
912 1139
912- 1139-
Igor ’ Vjaceslav
945 1146
945- 1149-
Ol’ga, reggente Jurij Dolgorukij
962 1157
945- 1157-
Svjatoslav Andrej Bogoljubskij
972 1174
972- Vsevolod «Grande 1176-
Jaropolk
980 Nido» 1212
Vladimir (San 980- 1212-
Jurij
Vladimir) 1015 1238
Svjatopolk il 1015- 1238-
Jaroslav
Maledetto 1019 1246
1019- 1246-
Jaroslav il Saggio Svjatoslav
1054 1248
Izjaslav 1054- Andrej 1248-
1078 1252
1073- 1252-
Svjatoslav Aleksandr Nevskij
1076 1263
1078- 1264-
Vsevolod Jaroslav
1093 1271
1093- 1272-
Svjatopolk Vasilij
1113 1276
Vladimir 1113- 1277-
Dmitrij
Monomach 1125 1294
1125- 1294-
Mstislav Andrej
1132 1304
La supremazia di Vladimir-Suzdal’
Come conseguenza di questi sviluppi, nel XII secolo
emerse a nord un nuovo centro di potere: la regione di
Vladimir-Suzdal’. La città di Vladimir fu fondata sul fiume
Kljaz’ma nel 1108 da Jurij Dolgorukij («Braccio lungo»),
principe di Rostov e Suzdal’ (1125-1157) e, per un certo
periodo, gran principe di Kiev. Da lì a breve sorsero anche
altre città e avamposti di frontiera, tra cui Mosca, nominata
per la prima volta nella Cronaca alla data 1147. Sotto il figlio
di Jurij Dolgorukij, Andrej Bogoljubskij (1157-1174),
Vladimir-Suzdal’ acquistò maggiore importanza. Oltre a
rafforzare Vladimir con grandi opere di fortificazione e ad
abbellirla erigendo alcune chiese in pietra, tra cui la
splendida chiesa del Velo o dell’Intercessione della Vergine
sul fiume Nerl’, Andrej inviò le sue truppe a conquistare e
saccheggiare Kiev durante le guerre per la successione
kieviana del 1169. Ma invece di occupare il posto sul trono
della capitale, decise di restare al nord e cercò, senza
riuscirvi, di spostare la metropoli a Vladimir. Il saccheggio
del 1169 è considerato un avvenimento cruciale, simbolico
e sintomatico della frammentazione dello stato kieviano;
tuttavia, secondo studi recenti, Bogoljubskij sarebbe
entrato in guerra per preservare il sistema tradizionale di
successione; quel sintomo del declino kieviano
diventerebbe l’emblema della forza crescente di altre
regioni della Rus’, per cui Kiev continuava a rappresentare
il centro politico. In ogni caso, furono gli interessi
contrastanti e l’implacabile rivalità intestina tra i principi
rjurikidi ad assorbire considerevoli risorse, minando
l’unità indispensabile al regno per affrontare le minacce
esterne.
I mongoli: il «giogo tataro»
La conquista mongola della Rus’
Oltre alle tensioni interne e agli scontri con le popolazioni
vicine, i principi della Rus’ dovettero affrontare minacce
provenienti dalle steppe e i conflitti contro gli eserciti
nomadi furono un elemento costante nella vita kieviana.
Dopo la caduta della Chazaria, la Rus’ combatté lunghe
guerre contro i pečenegi e nel 1055 apparvero nelle steppe i
cumani del Kipčak, o polovcy, che per i due secoli successivi
rappresentarono un’enorme minaccia. Nel 1096, questi
ultimi attaccarono Kiev e dettero fuoco al Monastero delle
Grotte; la sconfitta del principe Igor ’ Svjatoslavič di
Novgorod-Seversk a opera degli svedesi nel 1185 ispirò Il
canto della schiera di Igor’. Ma se con loro le relazioni si
fecero in seguito meno ostili – si strinsero alleanze, si
celebrarono matrimoni – di fronte agli ultimi e più grandi
invasori della steppa, i cavalieri mongoli di Gengis Khan, la
Rus’ si dimostrò impotente.
L’impero dei mongoli – o tatari, come li definiscono le
fonti della Rus’ con una certa approssimazione – si formò
nel XIII secolo, a una velocità straordinaria. Nel 1215,
raggiunta Pechino, i mongoli completarono la conquista
della Cina, e da lì proseguirono la loro avanzata verso
ovest. Comparvero per la prima volta nella steppa
occidentale nel 1223, quando un grande esercito guidato da
Batu, nipote di Gengis Khan, invase il territorio della Rus’
sconfiggendo una coalizione di rus’ e polovcy sul fiume
Kalka, per poi scomparire di nuovo. I principi della Rus’
non riuscirono a unire o rafforzare i loro territori davanti a
questo nemico potente e sconosciuto. Tra il 1229 e il 1236 i
mongoli attaccarono ripetutamente i polovcy e i bulgari del
Volga, e nel 1237 ripresero la loro offensiva contro la Rus’,
travolgendo tutto ciò che incontravano. Sbaragliati i
principi della Rus’ settentrionale nella battaglia sul fiume
Sit’ del 1238, nell’anno successivo conquistarono il
territorio sudoccidentale di Černigov e la Galizia. Kiev
cadde nel 1240, ma nel nord le maggiori città della Rus’ (in
particolare Novgorod che si arrese, evitando di essere
distrutta) sfuggirono alla devastazione del sud. I mongoli,
in superiorità numerica, equipaggiati anche con macchine
d’assedio, veloci e ben organizzati militarmente, sorpresero
i rus’ e approfittarono delle loro divisioni interne.
L’avanzata mongola si fermò soltanto nel 1242, a Rus’ ormai
conquistata e con le truppe di Batu ai confini della Polonia
e dell’Ungheria.
Nel 1242 il gran khan morì e Batu tornò in Mongolia a
Karakorum per prendere parte alla successione. La Rus’
rimase la più occidentale tra le conquiste mongole;
l’avanzata verso ovest non riprese. Batu organizzò il suo
dominio in un khanato a sé stante dell’impero mongolo
chiamato Kipčak (Dešt-i-Kipčak), più tardi noto nelle fonti
russe ed europee soprattutto come l’Orda d’Oro. Oltre agli
antichi principati della Rus’, includeva una vasta zona della
steppa meridionale, che dal Danubio si estendeva verso est
fino al Caucaso settentrionale e oltre il Volga giungeva al
lago di Aral. La capitale, Saraj, situata sul basso Volga, nel
secolo successivo sarebbe divenuta una grande città dagli
edifici imponenti, con un elaborato sistema di rifornimento
idrico, oltre che un centro internazionale di commerci e
diplomazia. Nell’impero mongolo la Rus’, dunque,
rivestiva soltanto un’importanza secondaria: il khanato
Kipčak era sotto il controllo del gran khan di Karakorum e
la sua politica dipendeva dall’impero mongolo e dalle sue
fazioni.
Con la conquista mongola e le sue devastazioni, gli
equilibri di potere e la distribuzione della popolazione
all’interno della Rus’ mutarono radicalmente. I centri più
antichi si svuotarono e gli abitanti fuggirono in massa
verso città come Mosca e Tver ’. Tuttavia, la struttura di base
della società rimase sostanzialmente immutata. Molti
principi erano stati uccisi, ma la casata dei rjurikidi era
sopravvissuta e manteneva le proprie usanze, nonostante
regnasse ora soltanto su concessione del khan: in una
cerimonia personale a Saraj essi ricevevano un’investitura
(jarlyk) che ne sanciva i diritti. Nel 1243 il principe Jaroslav
di Vladimir rese omaggio al khan e fu confermato gran
principe di Kiev e Vladimir: la sede centrale del potere dei
rjurikidi si trasferì definitivamente da sud a nordest. Ma
per ricevere la conferma o essere giudicati, alcuni principi
erano costretti a intraprendere un viaggio ben più lungo,
fino a Karakorum. La Chiesa ortodossa, protetta dai nuovi
signori, tolleranti in fatto di religione, conservò il proprio
ruolo nella società della Rus’, ricevendo un trattamento
privilegiato riguardo a tasse e proprietà terriere.
I mongoli vivevano per lo più nelle steppe e
intervenivano negli affari dei principi e delle città kieviane
solo per riaffermare la propria autorità e aumentare i
tributi. Avevano richieste ben precise per i popoli soggetti:
essi dovevano offrire truppe d’appoggio e rifornimenti al
loro esercito e garantire il funzionamento
dell’efficientissimo sistema postale (jam); i mongoli
imponevano censimenti e su questi regolavano il
pagamento delle tasse, prendendo in garanzia ostaggi; i
governatori dovevano mantenere l’ordine; il principe era
obbligato a rendere omaggio personalmente al khan.
Nonostante fosse un pesante fardello sia dal punto di vista
economico sia umano – i sudditi pagavano tasse e tributi,
combattevano negli eserciti mongoli e costruivano le loro
città – i principi rus’ potevano governare le loro terre
insieme ai prefetti (baskaki) e agli ufficiali mongoli,
venivano coinvolti negli affari vivendo per lunghi periodi a
Saraj e ricorrevano al potere del khan in base ai loro
interessi. (L’abile sfruttamento della protezione mongola
sarà in seguito una delle basi dell’ascesa di Mosca.) I
principi mantennero anche un proprio esercito
cimentandosi in campagne militari l’uno contro l’altro o
contro nemici esterni.
I principi della Rus’ accettarono presto i khan dell’Orda
d’Oro come loro legittimi sovrani: tra i rjurikidi rivali
l’autorità veniva conferita dallo jarlyk del khan. Bisanzio
rimase fuori dalla conquista mongola e adottò una politica
distensiva di alleanze con Saraj (l’opposizione religiosa ai
conquistatori, che all’inizio del XIV secolo abbracciarono
definitivamente l’Islam, fu quindi un fenomeno molto più
tardo); i mongoli, da parte loro, difendevano la Chiesa
kieviana. La parabola di Aleksandr Nevskij, principe di
Novgorod e Vladimir, figura eroica e leggendaria nella
storia russa, illustra in modo esemplare il rapporto tra i
principi rjurikidi, le loro città e i nuovi sovrani. Eletto a
Novgorod nel 1236, Aleksandr ne difese i territori dalle
principali minacce occidentali e si guadagnò il soprannome
di «Nevskij» grazie alla sua vittoria lungo il fiume Neva,
sulla punta orientale del golfo di Finlandia, contro le
truppe svedesi, la cui espansione era considerata da tempo
un pericolo; due anni più tardi fermò l’avanzata dei
cavalieri teutonici della Livonia in una battaglia sul lago
Peipus ghiacciato (oggi in Estonia). Queste battaglie, che
resero sicuri i confini occidentali della Rus’, crearono il
mito di Nevskij «Salvatore della Russia», portando alla sua
canonizzazione nel 1547 e, in epoca moderna, sotto Stalin,
alla sua celebrazione con il famoso film patriottico
Aleksandr Nevskij di Sergej Ejzenštejn. Dopo la morte del
padre Jaroslav nel 1246, Nevskij visitò l’Orda e Karakorum,
ottenendo il dominio sulla Russia meridionale, compresa
Kiev. Alla sua seconda visita, un esercito mongolo scacciò il
fratello ribelle da Vladimir per investire Aleksandr dello
jarlyk di gran principe (1252). Obbedendo ai sovrani
mongoli e visitandoli spesso, Nevskij riuscì a conservare il
suo potere, sostenuto anche dal metropolita. La sua lealtà
nei confronti di Saraj, poco evidente nella leggenda di
santo e salvatore della patria, rispetto alle sue gesta contro
le invasioni occidentali, gli conquistò la fiducia del khan,
mettendolo in posizione di forza davanti ai suoi sudditi e
agli altri principi, e limitando il peso dell’ingerenza
mongola.
La Rus’ degli appannaggi
La dominazione mongola sulla Rus’, spesso definita in
seguito «giogo tataro», durò per oltre due secoli (1240-1480
circa) e frammentò definitivamente lo stato kieviano. La
crescente divisione fra i principati, soprattutto tra nordest e
sudovest, esistente già prima della conquista, si accentuò, e
i singoli rami della dinastia, davanti all’impatto con i
mongoli, si divisero ulteriormente in appannaggi sempre
più piccoli. Nel corso degli anni, alcuni territori
sudoccidentali dello stato kieviano passarono sotto altri
domini: nel 1349 la Polonia acquisì gran parte del
principato della Galizia, mentre la Lituania prese Polock, la
stessa Kiev e altre zone del sud. Fu minacciata anche
l’unità della Chiesa ortodossa: i nuovi sovrani polacchi e
lituani, che presto si sarebbero convertiti al cattolicesimo,
avevano interesse ad accentuare il loro controllo sulla
Chiesa. Nel 1299 il metropolita della Rus’, capo della
Chiesa in tutte le terre del regno, spostò la sua sede, in via
non ufficiale, da Kiev a Vladimir, e nel secolo successivo
avvennero numerosi tentativi per istituire metropoli
indipendenti nei territori ortodossi divenuti polacchi e
lituani. La dichiarazione di autocefalia moscovita del 1448
(vedi sotto) provocò divisioni tra gli ortodossi del sud; nel
1596 molti di loro accettarono l’Unione di Brest, da cui
nacque la Chiesa cattolica greca ucraina (nota anche come
uniate), che riconosceva la supremazia del papa di Roma,
ma manteneva, come altre Chiese cattoliche orientali, la
propria liturgia. La Chiesa cattolica greca ucraina ha
continuato a esistere nel tempo in un territorio diviso fra
diverse potenze (Austria, Polonia, Russia moscovita e
imperiale e Unione sovietica), che l’hanno appoggiata o
perseguitata a seconda dei propri interessi.
Dalla frammentazione dei territori della Rus’ di Kiev si è
originata una frattura, e la continuità della storia russa è
divenuta materia di controversia. Dal punto di vista
moscovita e russo c’è un’evidente continuità, rappresentata
dal potere dei rjurikidi e dall’integrità della Chiesa
ortodossa russa: la casa regnante sopravvisse sotto i
mongoli e, al loro tramonto, i principi rjurikidi di Mosca,
con l’aiuto dei metropoliti, «riunirono le terre della Rus’»
nello stato russo moscovita che considerava Rjurik il suo
fondatore. Questa interpretazione storica dominò sia in
epoca imperiale sia durante l’Unione Sovietica. Gli storici
sovietici, ad esempio, hanno scritto di una successiva
«riunificazione» di Kiev e Russia con il 1667, anno in cui la
città fu ceduta dalla Polonia-Lituania alla fine della Guerra
dei tredici anni (1654-1667). Ma la storiografia della Grande
Russia ha proposto anche versioni alternative. Dal punto di
vista territoriale lo stato moscovita non ha mai coinciso
esattamente con la Rus’ e l’annessione di Kiev nel XVII
secolo fu il risultato dell’incorporazione nell’impero
moscovita dell’Ucraina degli Hetman, 4 territorio dei
cosacchi semindipendenti. Nel XIX secolo, con l’emergere
del nazionalismo nell’impero russo, il primo gruppo
nazionalista ucraino si diede il nome di Società di Cirillo e
Metodio, richiamandosi agli «apostoli degli slavi», cui la
cultura cristiana di Kiev era legata. Inoltre, la Chiesa
cattolica greca conta ancora molti fedeli: nel 1988
l’anniversario dei mille anni dalla conversione è stato
motivo di rivalità tra chi considerava questa festa russa e
chi ucraina, e la seconda ipotesi ha visto una sua
giustificazione nel 1991 con la nascita (o rinascita) di
un’Ucraina indipendente.
Importante fu anche il ruolo della Lituania e della
Polonia come successori della Rus’. La Lituania,
direttamente confinante a ovest con la Rus’, si salvò
dall’invasione mongola e resistette agli attacchi degli
svedesi e dei cavalieri teutonici della Livonia. Nel XV secolo
divenne una grande potenza e, in seguito, addirittura la più
grande nazione d’Europa, poiché si estendeva dal Baltico al
Mar Nero; se non fosse stato per i sovrani mongoli avrebbe
potuto assorbire anche la Rus’. La Lituania riuscì a
resistere alla pressione mongola e si inserì nella sfera
politica dell’Orda d’Oro, ormai in declino, guadagnando
territori a spese dei mongoli. Rispetto alle altre nazioni
della zona, si convertì tardi al Cristianesimo (cattolico), nel
1386, quando il gran principe Jagellone sposò la regina
polacca. I principi lituani intrattennero rapporti ravvicinati,
stringendo legami diplomatici e matrimoniali con la Rus’, e
i boiari (membri anziani delle famiglie aristocratiche) delle
due comunità si interscambiarono fra loro. Anche la
Polonia, come abbiamo visto, beneficiò del crollo della
Rus’. Nel 1569, di fronte all’affermarsi della potenza
moscovita, Polonia e Lituania si amalgamarono sotto
Sigismondo II in un’Unione polacco-lituana che includeva
gran parte della precedente Rus’ sudoccidentale. Molte di
queste terre furono annesse all’impero russo soltanto nel
XVIII secolo, quattrocento anni dopo essere uscite dalla
giurisdizione della Rus’.
Sotto il dominio mongolo i principi rjurikidi
continuarono a contendersi il potere all’interno della Rus’.
Nevskij fu tra quelli che ottennero maggior successo, e in
questo complesso gioco uscirono infine vincitori i
discendenti di suo figlio minore Daniil di Mosca (morto nel
1303): i Daniiloviči. Secondo le leggi dinastiche tradizionali,
questo ramo cadetto non aveva diritto al titolo di gran
principe, ma i suoi membri si dimostrarono leali servitori
del khan e riuscirono a raggiungere il trono, volgendo a
proprio favore i rapporti tra l’Orda e i rjurikidi: nelle
lunghe lotte che ne seguirono fra gli eredi di Rjurik le forze
militari mongole ebbero un ruolo di rilievo. Con lo jarlyk
del 1327, dopo una disputa contro Tver ’, i Daniiloviči
ottennero definitivamente il titolo di gran principe,
conferito a Ivan Kalita, passato alla storia anche come Ivan
I di Mosca.
1. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, a cura di Italia
Pia Sbriziolo, Einaudi, Torino 1971. (NdT)
2. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, cit. (NdT)
3. Traduciamo il termine velikij knjaz’ con «gran principe» riferendoci
al sovrano. In epoca imperiale, quando quest’ultimo diventerà
imperatore o zar, i fratelli riceveranno il titolo di velikij knjaz’, che
tradurremo con «granduca». (NdA)
4. La regione ucraina sulla riva sinistra del Dnepr conquistata con
l’armistizio di Andrusovo (1667). Hetman era il rango più alto delle
forze armate (in Polonia, Lituania e tra i cosacchi ucraini), secondo
solo al re. (NdT)
II
Mosca e Novgorod:
la nascita dell’impero e dell’assolutismo
1300-1600
1613-
Michail Anna Leopoldovna di
1645
1645- Brunswick-Lüneburg, 1740-
Aleksej
1676 reggente 1741
1676-
Fëdor III
1682
1682- 1741-
Sofia, reggente Elisabetta
1689 1761
Natal’ja 1761-
Naryškina, Pietro III 1762
1689- 1762-
reggente Caterina II
1694 1796
Ivan V, zar col 1682- 1796-
Paolo I
fratello 1696 1801
1801-
Pietro I Alessandro I
1825
(col fratello 1682- 1682- 1825-
Nicola I
1696) 1725 1855
1725- 1855-
Caterina I Alessandro II
1727 1881
1727- 1881-
Pietro II Alessandro III
1730 1894
1730- 1894-
Anna Nicola II
1740 1917
1740-
Ivan VI
1741
Il consolidamento del potere autocratico e il
problema
della sicurezza nazionale (1613-1700)
L’elezione di Michail risolse la crisi politica di legittimità,
segnando la fine dell’«epoca dei torbidi». Tuttavia, ci volle
ancora parecchio tempo per far riacquisire alla Moscovia
piena stabilità. I rapporti con le nazioni confinanti furono
pacificati, prima con la Svezia, tramite il trattato
sfavorevole di Stolbovo del 1617 (le concessioni territoriali
esclusero per un secolo la Moscovia dal Baltico,
permettendole, tuttavia, l’accesso commerciale), poi, dopo
ulteriori conflitti, con la Polonia, con la quale si giunse a
una situazione di stallo e alla tregua di Deulino (1618). Il
regno di Michail (1613-1645), inizialmente fragile, trovò nei
primi anni un forte appoggio nello zemskij sobor, ma dopo il
suo ritorno nel 1619 uno scambio di prigionieri riportò in
patria Filaret, padre di Michail, che era stato tenuto in
cattività durante le trattative con i polacchi. Filaret, uomo
dalla personalità decisa, assunse la carica vacante di
patriarca ed ebbe ruolo preponderante nel governo: egli
ricevette il titolo di «gran gosudar’», di solito riservato al
monarca, e rappresentò l’eminenza grigia dietro il trono
fino alla morte, nel 1633.
Dopo l’epoca dei torbidi il governo e l’élite dovettero
affrontare problemi e sfide che determinarono lo sviluppo
della Moscovia per il resto del secolo. Negli affari interni la
questione principale riguardava la coesione sociale e la
stabilità politica: dopo i terribili eccessi dell’opričnina e i
fallimenti di Godunov e di Šujskij, si rese necessario
trovare una versione della monarchia che fosse accettabile
e potenziare l’amministrazione centrale di fronte al
continuo estendersi del territorio e all’aumento della
popolazione. Il malcontento sociale attendeva risposta, e
poiché l’«epoca dei torbidi» fu interpretata da molti come
un castigo divino, anche la Chiesa affrontò e lei stessa si
fece promotrice di appelli a una rinascita morale e
spirituale. In campo militare, il fallimento di Ivan IV nella
guerra livonica aveva dimostrato che le migliorie da lui
apportate alle forze armate non erano state sufficienti di
fronte alla macchina militare dei vicini europei. Erano
indispensabili un esercito più efficiente, e le risorse per
finanziarlo. Servivano, inoltre, riforme per riassestare
l’economia, migliorarne la produttività e riscuotere le
entrate in modo più capillare: durante l’epoca dei torbidi la
Moscovia aveva perso quasi la metà della sua popolazione.
Questi problemi divennero ancor più cruciali davanti
all’intensificarsi delle relazioni con paesi occidentali che
avevano o stavano sviluppando capacità militari ed
economiche superiori: la crescita economica europea
aumentava a mano a mano che si espandeva il commercio,
sostenuta da strumenti nuovi, come un vasto sistema di
banche e reti di credito. La domanda di cereali a livello
internazionale stava trasformando la Polonia nel granaio
d’Europa e, grazie al rinnovamento favorito da potenze
finanziarie e marittime come Inghilterra e Olanda, il
Baltico e il Mar Bianco stavano diventando importanti vie
commerciali e arene di una sempre maggiore competizione
economica, e di conseguenza politica. La Moscovia venne
coinvolta in queste reti commerciali grazie ai suoi prodotti
tradizionali – catrame, canapa, legname, potassa – che
acquisirono nuovo valore a livello internazionale come
materiali per le navi. Inoltre, dopo i successi militari
riportati durante il Seicento, sul fronte meridionale la
Russia si trovò davanti un temibile avversario, l’impero
ottomano. Questi sviluppi e difficoltà ponevano problemi
la cui soluzione avrebbe messo in questione le strutture
sociali e l’immagine che la nazione aveva di sé, provocando,
nel corso del secolo, una crisi meno urgente, ma non meno
radicale di quella dei «torbidi».
La nuova dinastia si ritrovò a controllare una società
estremamente stratificata. La popolazione complessiva di
allora è stimata intorno ai 6,5 milioni nel 1550, 7 milioni nel
1600, la medesima cifra intorno al 1650 (vennero recuperate
le perdite dell’«epoca dei torbidi»), 9,6 milioni nel 1680 (era
inclusa la regione ucraina sulla riva sinistra del Dnepr) e
12,7 milioni all’epoca del censimento fiscale del 1719. Una
caratteristica dell’inizio dell’età moderna in Russia è
proprio questa crescita esponenziale della popolazione, che
prese avvio nel XVI secolo e proseguì fino al XX, superando
di molto i tassi di crescita degli altri paesi europei. La
popolazione si può sommariamente dividere in militari e
contribuenti. In cima alla società stavano le grandi famiglie
che formavano la corte, vale a dire la ricca élite e la fascia
più alta dei militari, i cui membri potevano essere eletti nei
«ranghi della Duma» (ed entrare quindi nel Consiglio dei
boiari); insieme a loro c’era la nobiltà minore con cariche
statali leggermente più basse, i cosiddetti «ranghi di
Mosca». Nel 1630 erano in totale 2642 (facevano parte dei
quattro ranghi della Duma in 29 nel 1613, in 57 nel 1650 e in
153 nel 1690). Queste famiglie possedevano terreni di
votčina, erano iscritte nei «registri delle priorità di
servizio», secondo il sistema del mestničestvo, e praticavano
l’usanza sempre più diffusa di tenere segregate le loro
donne (i membri femminili dell’élite occupavano
appartamenti separati, i terem). Dopo l’élite veniva la
«classe media dei servitori», composta principalmente
dalla piccola nobiltà locale: i suoi rappresentanti
prestavano servizio nella cavalleria, erano tra i maggiori
beneficiari del sistema di pomest’e e il gruppo più
numeroso di proprietari di servi della gleba. Alla metà del
XVII secolo la classe media ammontava a 20.000-25.000
famiglie, per un totale di 70.000-80.000 persone, e
possedevano in media 5 o 6 famiglie di contadini. Nel corso
del secolo la loro presenza nell’esercito diminuì e molti
andarono a ingrossare le file dei funzionari delle
amministrazioni di provincia. Si trovavano soprattutto al
centro, a ovest e a sud: le zone tradizionalmente concesse
come pomest’e erano quelle dove la terra era disponibile e
fertile, e dove la presenza militare era utile o necessaria. I
funzionari amministrativi e l’esiguo numero dei gosti, i
ricchi mercanti che commerciavano su larga scala,
possedevano anche loro terreni e servi. L’alto clero (i
cosiddetti «neri», monaci e sacerdoti che componevano la
gerarchia ecclesiastica) e i monasteri (nel 1700 circa 25.000
persone appartenevano a ordini monastici) potevano
vantare diritti su quei contadini insediatisi sulle terre della
Chiesa, sebbene la loro autorità non fosse così assoluta. Più
in basso c’era la classe dei militari minori, uno strato molto
vario dal punto di vista sociale, formatosi con l’espansione
e la differenziazione dei ranghi inferiori dell’esercito
moscovita. Non potevano ricevere concessioni di pomest’e o
possedere servi della gleba, erano «a contratto»
nell’esercito e venivano pagati in contanti. Per lo più
cittadini contribuenti, quando non erano in servizio
vivevano di agricoltura, artigianato o piccoli commerci.
Negli anni Ottanta del Seicento questo gruppo formava
ormai la maggior parte delle forze armate moscovite.
I cittadini permanenti registrati (vale a dire i membri
della comunità urbana, il posad) avevano un certo margine
di autogoverno, erano tenuti a pagare tasse e servizi locali
al sovrano, ma dal 1649 non poterono abbandonare la
comunità cui appartenevano. Intorno al 1680 la
popolazione urbana registrata ammontava a circa il 3% del
totale ed era composta per lo più da artigiani e piccoli
commercianti, che spesso svolgevano anche lavori agricoli;
le città della Moscovia non erano infatti nettamente
separate dall’ambiente rurale che le circondava. I
rappresentanti del clero «bianco» sposato vivevano nelle
parrocchie di appartenenza e per i loro servigi ricevevano
terre e denaro, ma non erano molto più agiati dei contadini
che assistevano. A quell’epoca l’ingresso nel clero
parrocchiale era aperto a tutti e nella selezione dei
sacerdoti avevano voce in capitolo le congregazioni, anche
se le famiglie ecclesiastiche erano sempre più imparentate
fra loro; nel XVIII secolo il clero «bianco» divenne a tutti
gli effetti una casta ereditaria chiusa.
La stragrande maggioranza della popolazione, ben oltre
l’80-90%, era formata da contadini. Nel 1719 arrivavano a
circa 11,45 milioni (dagli 8,6 milioni del 1678). Di questi,
6,39 milioni (il 55,8%) lavoravano per i latifondisti ed erano
veri e propri servi della gleba; 1,58 milioni (il 13,8%)
lavoravano per i monasteri, e 1,01 milioni (8,9%) per la
corte, vivendo su proprietà che rifornivano la famiglia
imperiale. Quasi tutto il resto della popolazione contadina
(2,46 milioni, il 21,5%) era formata da semplici contribuenti
(«aratori neri»), che sotto Pietro I vennero ribattezzati
«contadini di stato»: vivevano su terreni statali e pagavano
le tasse direttamente al governo. (Nei due secoli successivi
queste proporzioni cambieranno: nel 1857 i contadini di
stato formeranno il 47% del totale, e i servi e gli altri
contadini dipendenti il restante 53%.) Al gradino più basso
della società stavano gli schiavi (cholopy), che nel 1678
rappresentavano circa il 2% della popolazione ed erano
impiegati in una vasta gamma di mestieri sotto le dirette
dipendenze del loro padrone.
Tuttavia, non si trattò mai di suddivisioni rigide: la
società rigorosamente stratificata prevista dalla
legislazione zarista era, in effetti, una realtà molto più
fluida. Le vere occupazioni non rispecchiavano sempre lo
status ufficiale di chi le svolgeva, i confini sociali erano
labili, a volte si dissolvevano, e i «raminghi» senza fissa
dimora in giro per le strade erano numerosi: mendicanti e
vagabondi, servi fuggitivi, monaci itineranti, pellegrini e
venditori ambulanti, menestrelli e saltimbanchi
(skomorochi). Le frontiere, in particolare al sud, erano un
crogiolo sociale dove le distinzioni tra le differenti
«condizioni» e «stati» venivano spesso ignorate o distorte.
Sebbene i maggiori eserciti cosacchi occupassero territori
propri, molti loro rappresentanti militavano anche nelle
truppe di difesa ai confini, dove le necessità militari e la
mancanza di controllo permettevano a persone di qualsiasi
classe sociale di trovare un lavoro. Inoltre, con la crescita
dell’impero, il cuore della Grande Russia si trovò
circondato da un miscuglio di gruppi etnici, nell’estremo
nord e a est in Siberia, lungo il Volga fino alle steppe e al
Caucaso settentrionale, con una mescolanza di altri europei
a ovest, nei territori conquistati. Anche la situazione
religiosa era complessa: l’ortodossia si avvicendava con
Islam, Buddismo, Animismo e, a ovest, con Ebraismo,
Luteranesimo, Cattolicesimo. Questa situazione complessa
si fece ancora più intricata con l’ulteriore espansione della
Moscovia nel XVII secolo.
Se si esclude un fallito attacco scagliato per vendetta
contro la Polonia nella Guerra di Smolensk (1633-1635),
all’inizio Mosca rimase in pace. Non partecipò alla Guerra
dei trent’anni (1618-1648), da cui la Svezia uscì come
potenza dominante, ed evitò di farsi coinvolgere a sud
dagli ottomani e dai loro vassalli di Crimea. Nel 1635 il
governo riprese una politica tradizionale di successo:
costruì un grande sistema di difesa a sud, la linea di
Belgorod, ottocento chilometri di palizzate e fossati
costellati di fortificazioni, che fu armata con gruppi
eterogenei di servitori minori, mercenari cosacchi e forze
regolari inviate dal centro. Essa si rivelò estremamente
efficace: protesse il cuore del paese dalla minaccia tatara e
rese così disponibile l’esercito per altri compiti, formando
una solida base da cui partire per continuare l’avanzata
attraverso le steppe.
Tuttavia, nel 1654 la questione ucraina portò a uno
scontro con la Polonia. I cosacchi ortodossi dello Zaporož’e,
sulla riva sinistra del fiume Dnepr, avevano cercato a lungo
di difendere la propria indipendenza contro le pretese dei
loro signori polacchi, a maggioranza cattolica. Nel 1648
l’Hetman (capo eletto) Bogdan Chmel’nic’kyj fece scoppiare
una rivolta e, piuttosto che sottomettersi al potere polacco,
cercò la protezione della Moscovia ortodossa. A
Perejaslavl’, nell’Ucraina settentrionale, fu sottoscritto un
accordo che i cosacchi considerarono come un patto
reciproco tra protettore e vassallo, modificabile nel tempo.
La Moscovia, invece, lo interpretò come un gesto di
assoluta sottomissione allo zar autocrate. Questa radicale
differenza di percezione ha avuto conseguenze di enorme
portata nelle relazioni tra la Russia e l’Ucraina e nella
storiografia della regione. Il trattato di Perejaslavl’ del 1654
segnò l’effettiva annessione della riva sinistra ucraina del
Dnepr, un’espansione cruciale che fruttò alla Moscovia
settentrionale nuovi territori e nuove risorse a est del fiume
e allargò i suoi confini meridionali, sempre più vicini ai
turchi e ai polacchi. Inoltre, portò la vivace cultura di Kiev e
dell’ortodossia ucraina a Mosca, avvicinando la Russia alla
cultura polacca e affidandole la difficile eredità della
Chiesa cattolica greca ucraina (uniate).
Accettare le proposte dei cosacchi, ovviamente, voleva
dire iniziare un conflitto con la Polonia. Appoggiato da uno
zemskij sobor, il nuovo zar Aleksej [Alessio] Michailovič
(1645-1676) ratificò l’accordo dando il via alla Guerra dei
tredici anni (1654-1667); per qualche tempo egli dovette
anche far fronte all’intervento svedese con la Prima guerra
del nord (1656-1661). Aleksej guidò le sue armate di
persona: fu il primo zar a lasciare il paese per combattere
all’estero. Il conflitto devastò la Polonia e mise a dura prova
la Moscovia. La grande sollevazione contadina, capitanata
dal brigante cosacco Sten’ka Razin, lungo il Volga nel 1670,
può essere interpretata come una risposta alle privazioni
subite in quel periodo dai ceti più bassi della società
moscovita. Aleksej uscì vincitore dallo scontro con i
polacchi e tramite l’armistizio di Andrusovo (1667)
confermò le sue conquiste sulla riva sinistra del Dnepr,
ottenendo per due anni anche il controllo di Kiev, sulla riva
destra. Acquisire la «madre delle città russe» fu un grande
trionfo: Mosca non la restituì mai più. Nel 1686, quando la
Polonia ebbe bisogno di un appoggio contro l’impero
ottomano, Mosca pretese l’allargamento dei confini e
cessione perpetua di Kiev, richieste che il re polacco Jan
Sobieski, mosso da disperazione, dovette accettare,
firmando un trattato di pace e alleanza «permanenti».
Grazie al trattato bilaterale di Mosca del 1686 tra Moscovia
e Polonia, la prima fu ammessa come membro minore nella
Lega Santa, formata con il benestare del papa da Sacro
Romano Impero, Polonia e Venezia nel 1684, dopo il fallito
assedio ottomano di Vienna dell’anno precedente: per lo
stato moscovita quella rappresentò la prima alleanza
europea, nonché un notevole successo diplomatico. Mosca,
che aveva già combattuto una guerra contro gli ottomani
(1678-1681), dovette rompere il trattato di Bachčisaraj
(1681) con cui il conflitto si era concluso. Il ruolo della
Moscovia nella Lega Santa era di indebolire le forze
ottomane attaccando di nuovo a oriente. Seguirono
infruttuose campagne militari attraverso la steppa ostile
contro i tatari di Crimea (1687 e 1689) e attacchi via fiume
di Pietro I contro la fortezza ottomana sul Mare di Azov del
1695-1696, che ottennero finalmente successo. La pace di
Karlowitz (1698), che pose fine alla guerra tra la Sublime
Porta e la Lega Santa, non coinvolse, tuttavia, la Moscovia:
questa dovette concludere una pace separata nel 1700,
segno del suo ruolo subordinato nelle questioni europee.
Nel XVII secolo la Moscovia si ritrovò in guerra per
quarantadue anni. I nuovi governi, di conseguenza,
lavorarono alacremente per migliorare le forze armate,
partecipando all’innovazione internazionale di quella che è
stata definita l’«area comune euro-ottomana» di
interazione militare, di cui la Moscovia entrò a far parte.
Mentre era sempre più impegnata contro i nemici
occidentali (Polonia e Svezia), Mosca continuava a
combattere contro la Crimea e gli ottomani nella steppa,
dove le tecniche e le necessità di guerra erano
notevolmente differenti da quelle in Europa centrale. Se
applicate altrove, quelle stesse tecniche potevano
trasformarsi in innovazioni: Eugenio di Savoia, per
esempio, ottenne grandi vittorie applicando i metodi
orientali ai teatri di guerra occidentali. Eppure, per la
Guerra di Smolensk sui suoi confini occidentali, il governo
moscovita creò nuovi «reggimenti di formazione straniera»:
una fanteria di contadini moschettieri e dragoni con armi
pesanti, organizzati seguendo modelli europei e guidati da
mercenari stranieri. Questi nuovi reggimenti, che all’inizio
venivano formati e sciolti in base alla necessità del
momento, divennero in seguito elementi costanti
dell’esercito moscovita e sempre più spesso sostituirono
l’obsoleta cavalleria di leva. Nelle fallite campagne di
Crimea degli anni Ottanta del Seicento, di un esercito
formato da circa 113.000 unità la nuova fanteria ne
costituiva il 44%, la nuova cavalleria il 23% e la vecchia
cavalleria della classe media dei servitori solo il 7%. Anche
in altri campi vi furono notevoli cambiamenti. Nel 1632 un
ingegnere olandese costruì a Tula la prima fabbrica di
munizioni specializzata; inoltre, furono tradotti manuali
militari occidentali. Il sistema di comando fu modificato: le
regole di priorità, spesso sospese durante le campagne
militari per ottenere maggiore efficienza, nel 1682, sotto
Fëdor, furono definitivamente abolite per il «bene comune»
(era la prima volta che si adottava questa espressione in
una legge moscovita). La libertà di nomina rafforzò il
potere della corona e aumentò (con alcune fluttuazioni)
anche il numero di truppe utilizzate, 100.000 nel 1650 e
200.000 negli anni Ottanta; infatti, erano state introdotte
coscrizioni obbligatorie. Al contempo Mosca manteneva
ingenti forze di cavalleria irregolare, reclutate tra i cosacchi
e tra i popoli delle steppe del sudest. Queste modifiche
preannunciarono le riforme e i successi militari di Pietro I.
Ai progressi in campo militare corrisposero
miglioramenti dell’amministrazione centrale. La rete delle
cancellerie (prikazy) continuò a crescere, andando a
formare, a inizio Settecento, il tipico apparato
amministrativo, ben concepito, proprio di uno stato della
prima età moderna, grazie al quale Michail e i suoi
successori ebbero una sempre maggiore capacità di
governo e controllo sulla società moscovita. La funzione di
base di questo sistema era la riscossione dei tributi a scopo
militare: tra il 1631 e il 1681 le forze armate erano cresciute
di due volte e mezzo, e il loro costo si era triplicato. Tra le
circa sessanta cancellerie del XVI secolo alcune erano
organizzate su base geografica; la maggior parte era
definita in base alle funzioni. Il pomestnyj prikaz, per
esempio, si occupava delle terre concesse ai servitori,
quello degli ambasciatori trattava gli affari esteri, mentre
quello del tesoro amministrava le finanze statali. Erano
organizzati da prikazy anche gli affari personali del
patriarca e dello zar: per quest’ultimo il governo creò nel
1654 la Cancelleria segreta, che operava anche come unità
di controllo e polizia. Il Consiglio dei boiari, potendo
contare su un maggiore supporto amministrativo, divenne
più efficace, sebbene nel corso del secolo la moltiplicazione
dei suoi membri ne diminuì prestigio e potere. Lo zemskij
sobor lentamente sparì: l’ultimo con questo nome sembra
datato 1653; consigli più piccoli svolsero in seguito, a volte,
funzioni simili. Queste due istituzioni scomparvero sotto
Pietro I che le ignorò completamente.
Il codice delle leggi, la riforma della Chiesa e lo
scisma
Le procedure burocratiche mal si accordavano con la
cultura sociale dominante: come sostiene Geoffrey
Hosking, l’attività delle cancellerie «implicava una gestione
delle questioni ufficiali sempre più impersonale e
legalistica, che rischiava sempre di essere irritante per una
popolazione abituata a vedere il potere monarchico come
un potere personale esercitato in base alla tradizione o
secondo norme morali di derivazione divina». Un simile
scontro culturale ebbe ripercussioni gravi nei primi anni
del regno di Aleksej, succeduto al padre Michail nel 1645.
La successione non venne contestata, ma il nuovo zar
dovette affrontare il malcontento popolare a causa di tasse,
corruzione e regolamentazione del servizio militare. La
popolazione di Mosca espresse il proprio malcontento in
una petizione di massa presentata ad Aleksej nel 1648: le
lamentele erano indirizzate direttamente al sovrano, in
accordo con la natura personale e patriarcale della cultura
politica tradizionale. Il giovane zar, però, del tutto
inesperto, rifiutò inizialmente la petizione, violando così il
tacito accordo tra l’umile postulante e il pietoso sovrano, e
provocò una rivolta. Gruppi di pomeščiki di media levatura,
preoccupati dalla fuga dei contadini e dal declino della
propria dignità militare, approfittarono degli eventi per
rinnovare le proprie richieste. Aleksej riuscì a disinnescare
la minaccia sacrificando alcuni consiglieri impopolari e
promettendo una revisione delle leggi incriminate sotto
l’egida di uno zemskij sobor. Nacque così il Sobornoe uloženie
(Codice dell’Assemblea, o conciliare) del 1649.
L’Uloženie è uno dei grandi monumenti giuridici della
Russia. Fu la prima raccolta di leggi applicata in ogni zona
del paese e rimase il codice di riferimento fino al 1830.
Rappresentò un notevole passo avanti rispetto al codice del
1550 poiché fornì norme giuridiche stabili, di riferimento
per molti settori della vita pubblica e sociale, e definì con
chiarezza le procedure legali e giudiziarie. Fu anche la
prima opera secolare a essere pubblicata in Moscovia, con
una tiratura di 2400 copie (una cifra enorme per l’epoca) a
opera della nuova stamperia di Mosca e distribuita agli
uffici governativi di tutto il paese. Dal Codice traspariva
l’impegno di Aleksej per il «buon ordine» del suo regno,
interesse dimostrato ampiamente nel preambolo attraverso
la breve formula: «L’amministrazione della giustizia… sia
uguale per tutti». Questo non significava che ogni grado
della società sarebbe stato ugualmente favorito, ma che la
giustizia doveva essere amministrata equamente e senza
corruzione, nell’interesse stesso della società e del sovrano.
Nell’élite si stava dunque diffondendo una visione
consensuale della società come «comunità devota» ben
ordinata che andava sostenuta: un pensiero rintracciabile
soprattutto nelle frequenti dispute moscovite attorno
all’onore personale e all’insulto. Come sostiene Nancy
Kollmann, si trattava di «uno stato composto da individui
pii, uniti in famiglie ordinate all’interno di una gerarchia al
servizio del signore e dello zar». L’idea che un giusto
ordine dovesse e potesse essere raggiunto all’interno dello
stato e attraverso la legge favorì la coesione e l’integrazione
sociale.
I provvedimenti del Codice rispondevano alle
insicurezze dello zar e alle più immediate lamentele del
popolo. I primi capitoli, infatti, descrivono nel dettaglio le
prerogative e la protezione dello zar e del patriarca con
pene severe contro le infrazioni. Tra le altre cose venivano
proibite le petizioni dirette: queste dovevano ora essere
presentate all’ufficio governativo competente (l’umile
petizione, però, rimaneva in effetti una forma essenziale di
comunicazione politica ancora nell’epoca sovietica). Il
Codice legò più fedelmente al trono la classe media dei
servitori, unificando le forme di possesso terriero e, come
abbiamo visto, abolendo il limite di tempo per il reclamo
dei contadini fuggiti. Così l’asservimento divenne
definitivo; neanche la fuga illegale garantiva più la libertà:
una volta servo della gleba, lo eri per sempre. Tramite altri
provvedimenti fu rafforzata anche l’istituzione della
schiavitù. Si venne incontro alle richieste dei cittadini con
nuove pene per la corruzione, un problema costante e
irrisolvibile, e con l’esclusione dal territorio cittadino e dai
diritti per chi non pagava le tasse; il Codice, tuttavia, legava
i cittadini, come i contadini, alla propria comunità.
Sebbene molti di questi provvedimenti siano stati mal
applicati, e col tempo ignorati, il Codice accrebbe a tutti gli
effetti il controllo e l’autorità del governo. Oltre a offrire
procedure più sistematiche con cui amministrare la
giustizia, le sue disposizioni ponevano l’accento molto
meno sui diritti che sugli obblighi e sul servizio, ed inoltre
irrigidirono le differenze di classe all’interno della società
moscovita. Nello stesso periodo la creazione della
Cancelleria per i monasteri, che poteva intervenire
nell’amministrazione ecclesiastica, indebolì anche il potere
istituzionale della Chiesa.
La difficile situazione ereditata dall’«epoca dei torbidi» e
i crescenti scontri a ovest con le potenze cristiane
(cattoliche e protestanti) posero seri problemi alla Chiesa e
al governo. Nei decenni che seguirono i «torbidi» sorse un
movimento religioso guidato dagli Zeloti della pietà, un
gruppo di ecclesiastici e di laici che predicava un
rinnovamento dei valori spirituali e della vita nella Chiesa.
Le questioni poste dagli Zeloti andavano dritte al cuore
dell’identità culturale e nazionale di Mosca: non si
preoccupavano, infatti, soltanto di morale, ma anche di
purezza della fede e di devozione della Chiesa (nel corso
degli anni, a causa del lavoro impreciso dei copisti e di altri
errori, la liturgia ortodossa aveva subito mutamenti).
Queste inquietudini portavano a conclusioni radicalmente
diverse.
Con il trionfo di Ivan IV sui tatari e la nascita del
patriarcato di Mosca, la Moscovia si era imposta come
influente forza politica all’interno del mondo ortodosso ed
esteuropeo. Questa supremazia fu appoggiata dai
patriarchi greci, che contavano sulla guida e sull’aiuto
politico e finanziario della Moscovia. I patriarchi
incoraggiarono Mosca a sostenere la cultura ortodossa e a
introdurre istituzioni educative nel paese: furono fondate
alcune scuole monastiche. Le varianti della liturgia
ortodossa e dei libri sacri stavano diventando sempre più
evidenti e già nel 1616 furono intrapresi dei passi per la
revisione dei testi corrotti. Il giovane Aleksej era
strettamente legato ad alcuni Zeloti, in particolare
l’archimandrita Nikon, suo mentore e intimo amico. Nel
1650 Aleksej convocò un concilio per discutere sui
problemi della riforma e nel 1652 nominò patriarca Nikon,
uomo di origini contadine, inflessibile e ambiziosissimo. Il
dibattito sulla riforma subì un’accelerazione. Con atto
autoritario, Nikon emendò i testi della Chiesa e il rituale
liturgico, ignorando le proteste dei conservatori, che nel
1657 si riunirono al monastero delle isole Solovki, sul Mar
Bianco, per dichiarare la loro fedeltà ai testi e alla liturgia
non revisionati e consacrati dalla tradizione. Essi divennero
noti come «vecchi credenti». I vecchi credenti
identificavano la forma con la sostanza e credevano, come
sostiene Gabrielle Scheidegger, che «il più piccolo
cambiamento, anche […] la cancellazione di una singola
lettera, avesse un significato nascosto: […] corrompere gli
insegnamenti di Dio e consegnare i fedeli nelle mani di
Satana». Quando nel 1654 Aleksej dichiarò guerra alla
Polonia, il governo fu affidato a Nikon, cui venne conferito,
come a Filaret, il titolo di «gran gosudar’». Ma a differenza
di Filaret, Nikon non aveva legami di sangue con lo zar ed
era molto vulnerabile: la sua arroganza e le sue pretese gli
alienarono la corte e quando Aleksej tornò in patria, più
esperto e più sicuro di sé, i rapporti tra lo zar e il patriarca
si guastarono. Lo scontro culminò nel 1667, con la
deposizione di Nikon in un concilio e con la netta
affermazione di supremazia del potere temporale su quello
spirituale: uno scarto dalla tradizionale «sinfonia»
bizantina tra imperatore e patriarca e la negazione
dell’immagine di Mosca come impero ortodosso
universale.
Tuttavia, allo stesso tempo, il concilio confermò le
riforme liturgiche di Nikon e scomunicò i vecchi credenti.
Questa decisione causò uno scisma che allontanò milioni di
persone dallo stato e dalla sua Chiesa «nikoniana» ufficiale.
La spaccatura rifletteva anche la debole autorità della
Chiesa nei confronti dei suoi fedeli e i difficili rapporti, in
particolare nelle campagne, tra le alte gerarchie
ecclesiastiche e il popolo, con i suoi problemi e le sue
aspirazioni. Benché privi di potere politico, con il tempo gli
scismatici costituirono una società alternativa all’interno
della società russa, e questo ebbe notevoli conseguenze.
Secondo i vecchi credenti usare il sapere straniero per
cambiare le forme e le pratiche religiose della Moscovia
significava tradire la vera spiritualità russa ortodossa,
sancita dai Padri della Chiesa e tramandatasi intatta
attraverso le generazioni: era un tradimento che portava
direttamente all’apostasia e alla dannazione, facendo
chiaramente presagire la venuta dell’Anticristo. Questa era
la visione dell’arciprete Avvakum, un altro Zelota della
pietà, che in seguito sarebbe divenuto il più noto
rappresentante dei vecchi credenti, anche se all’epoca non
ebbe un ruolo di spicco. La straordinaria autobiografia di
Avvakum fu una delle prime opere importanti scritte in
volgare russo. Una volta deposto, Nikon morì come
semplice monaco nel 1681, mentre Avvakum fu arso sul
rogo l’anno successivo. Nonostante le persecuzioni, i vecchi
credenti sopravvissero. Alcuni dissidenti si immolarono
suicidandosi per sfuggire all’Anticristo; molti altri
cercarono rifugio in luoghi remoti, contribuendo alla
colonizzazione delle zone periferiche. Essi svilupparono
una propria cultura con un alto livello di alfabetizzazione e
specializzandosi nella riproduzione manoscritta dei loro
testi (negli anni Sessanta del Novecento, in una sperduta
valle siberiana fu scoperta una casa dove si producevano
ancora manoscritti per i vecchi credenti). La solidarietà e il
mutuo soccorso tra i rappresentanti di questa fede,
tutt’oggi ancora esistente, li portò al successo economico:
alcuni dei maggiori imprenditori russi del XIX secolo ne
erano seguaci.
Le riforme liturgiche di Nikon, che miravano a
correggere errori evidenti, rappresentarono
paradossalmente un tentativo conservatore di ritornare al
Cristianesimo ortodosso «originario» e riportare la
tradizione moscovita nel solco dei testi greci. Inoltre,
mancando della necessaria competenza per una simile
opera, Mosca dovette ricorrere a monaci educati all’estero,
sul monte Athos o in Ucraina. In questo campo la cultura
di Kiev era più sofisticata, perché lì l’ortodossia aveva
dovuto fronteggiare a lungo la minaccia ideologica del
cattolicesimo. Nel 1634 il metropolita di Kiev, Pëtr Mogila,
aveva fondato un’Accademia ortodossa sul modello delle
scuole gesuitiche che cercava di avversare. L’Accademia
mogiliana divenne un influente centro di studio
sistematico in un’epoca in cui la Moscovia non possedeva
nulla di simile. Per avere una scuola secolare di quel
genere, Mosca dovette attendere il 1686, quando fu aperta
l’Accademia slavo-greco-latina. Dopo la deposizione di
Nikon il clero ucraino occupò molte posizioni importanti
all’interno della gerarchia moscovita.
Il mutamento culturale
Il conservatorismo della Chiesa ufficiale del XVII secolo
trovò espressione anche in tutta la sfera culturale, portando
a un’azione di retroguardia contro il progressivo
diffondersi nella società moscovita di influenze culturali
estere, che provenivano principalmente dagli stranieri
reclutati per le necessità dello stato. Nikon, che cambiò la
liturgia in modo autoritario, fece distruggere
pubblicamente le icone dipinte in stile realistico, non
tradizionale. Si stava diffondendo l’uso del tabacco,
considerato dalla Chiesa un abominio, e alcuni uomini
addirittura profanavano l’immagine divina dell’uomo
radendosi la barba: nel 1675 lo zar Aleksej promulgò un
decreto che vietava di vestirsi con abiti stranieri e di
tagliarsi i capelli. Nel 1652 la crescente colonia di
occidentali residenti a Mosca (soldati, mercanti, artigiani)
era stata segregata in un quartiere separato alla periferia
della città, che aveva sostituito quello distrutto da Ivan IV.
(Lo zar, inorridito dalla recente sacrilega decapitazione di
Carlo I d’Inghilterra, aveva esiliato temporaneamente la
comunità inglese ad Archangel’sk.) Il nuovo quartiere
straniero (o quartiere tedesco) prosperò: l’unità fu la sua
forza.
Anche a corte l’atmosfera culturale stava cambiando.
Aleksej era noto per la sua devozione ai precetti della
Chiesa, e grazie alla sua religiosità si guadagnò il
soprannome di «zar mite». Appoggiò la riforma liturgica,
ma non tollerò né il cesaropapismo di Nikon né la
xenofobia oscurantista di Avvakum: la deposizione del
patriarca e la scomunica dei vecchi credenti furono segnali
della crescente autorità della corona. Ma la condanna
pubblica delle mode straniere non rispecchiava il suo stile
di vita. Le sue sortite in Polonia durante la Guerra dei
tredici anni erano state per lui esperienze fondamentali:
benché conoscesse fin dall’infanzia oggetti importati
dall’Occidente e gli usi dei visitatori stranieri, la Polonia e i
suoi palazzi gli rivelarono un nuovo mondo intellettuale e
culturale. Al suo rientro in patria, come scrisse il suo
medico, l’inglese Samuel Collins, «il suo pensiero si era
evoluto ed egli cominciò a imporre maggior solennità alla
sua corte e ai suoi palazzi». Senza sfidare pubblicamente i
dettami della Chiesa nelle questioni morali e culturali,
Aleksej, la sua famiglia e il suo entourage cominciarono a
interessarsi in privato a idee, attività e artefatti nuovi.
Attraverso agenti commissionari acquistarono
regolarmente strumenti e ninnoli europei. I nuovi mobili
dei loro appartamenti riflettevano le nuove idee
architettoniche dei palazzi che li ospitavano: il cosiddetto
barocco moscovita o Naryškin del tardo XVII secolo mostra
evidenti influenze italiane e il palazzo di Aleksej
Kolomenskoe fu decorato secondo il nuovo stile. A corte
furono organizzate rappresentazioni teatrali a uso
strettamente privato, e Aleksej assunse Semën Polockij,
sacerdote e poeta bielorusso, come istitutore per i suoi
figli, alcuni dei quali impararono anche il polacco e il
latino. Artisti occidentali trovarono ingaggi a Mosca: i
ritratti nello stile polacco della parsuna divennero di moda
fra l’élite, e il brillante Semën Ušakov fu l’esponente di
spicco di una nuova scuola figurativa dai tratti innovativi
nella pittura delle icone; nel 1683 ai laboratori dediti a
questo genere di pittura andò ad aggiungersene uno di arte
profana. Anche alcuni membri della corte adottarono un
nuovo stile di vita: il più famoso è il principe Vasilij
Golicyn, primo ministro durante la reggenza della figlia di
Aleksej, Sofia, e noto per il suo palazzo maestoso, la
predilezione per gli stranieri e la padronanza delle lingue.
Il mutamento culturale fu graduale, informale e limitato a
piccoli circoli, ma si insinuò nell’élite.
Innovazioni simili si possono osservare anche
nell’economia e nel pensiero economico. Le dottrine
mercantiliste, correnti in Europa orientale e occidentale,
entrarono nella Moscovia con i mercanti e gli ambiziosi
imprenditori stranieri. Il governo tentò di rafforzare
l’economia e aumentare le entrate incoraggiando gli
stranieri a fondare industrie nel paese (ad esempio la
fonderia di Tula, nata nel 1632), ma si preoccupò anche di
proteggere i mercanti russi dai loro concorrenti esteri:
impose dazi pesanti sulle importazioni e acquisì il
monopolio delle merci da esportazione. Il grande fautore
delle politiche mercantiliste fu il ministro Afanasij Ordyn-
Naščokin, che approfittò della Guerra dei tredici anni per
favorire gli interessi commerciali russi nel Baltico; alla fine
della guerra redasse il fondamentale Nuovo Codice
Commerciale del 1667. Anche se Mosca non poteva contare
su una tradizione navale, l’aspirazione al commercio con
l’Oriente spinse Aleksej a costruire ed equipaggiare, sotto
la supervisione olandese, una flottiglia sul mar Caspio, le
cui navi, tuttavia, furono bruciate da Sten’ka Razin nel
1670. Lo sviluppo di queste politiche mercantiliste, nate per
ampliare e consolidare il potere statale, prefigurò
l’aggressivo cameralismo di Pietro I, che derivava dal
mercantilismo europeo.
Nel corso del XVII secolo la nuova dinastia Romanov
sviluppò un sistema di governo e capacità economiche e
militari che le permisero di dominare la società, finanziare
le proprie guerre e imporsi su un nemico storico, la
Polonia. La dinastia rafforzò il proprio potere allargando il
proprio campo d’azione amministrativo, e assicurandosi
l’appoggio dell’élite di servizio, mentre rafforzava e
accrebbe il suo controllo sui contadini, sulle città e
sull’instabile e pericolosa frontiera meridionale. Nessuna
autorità istituzionale frenava o controbilanciava più il suo
dominio: il regno di Aleksej segnò il completo instaurarsi
di un regime assolutistico. Gli studiosi hanno parlato di
uno «sviluppo ipertrofico del potere statale» (Richard
Hellie), un processo che di per sé metteva in discussione la
tradizionale cultura, l’autorappresentazione e la
Weltanschauung moscovite come si erano evolute dal XV
secolo in poi e provocò la «crisi del tradizionalismo»,
minando le sicurezze della Moscovia attraverso i contatti
con altre società e la necessità di sopravvivere agli
imperativi della competizione internazionale. La diffusione
graduale di atteggiamenti culturali lontani dall’ortodossia
rifletteva il crescente individualismo e secolarismo
dell’élite. Sintesi di questo scontro di civiltà sarà il regno di
Pietro I, sia nella sua persona e nel suo comportamento, sia
nei suoi rapporti con la società, che egli spinse con metodi
polizieschi a adeguarsi ai nuovi valori.
La Russia di Pietro
L’apprendistato di Pietro I
Aleksej morì relativamente giovane, nel 1676, e anche il suo
successore, Fëdor Alekseevič, figlio di primo letto, non
visse a lungo. La morte di Fëdor, senza figli, nel 1682 causò
una crisi di successione, e la lotta per il potere tra le
famiglie delle due mogli si risolse solo con la nomina, sotto
reggenza, di due giovani zar: il fratello di Fëdor, Ivan, di
salute cagionevole e ritardato, e il suo intelligente
fratellastro minore Pietro, di nove anni, figlio della seconda
moglie di Aleksej. Ebbe ruolo di reggente Sofia, sorella di
Ivan. Pietro (Pëtr, Pietro I, detto il Grande, 1682-1725) passò
i successivi anni (1682-1689) lontano dalle questioni
ufficiali e dalla tradizionale vita di corte. Questo periodo fu
cruciale per il suo sviluppo: ricevette un’educazione
formale alquanto irregolare, ma fu libero di vivere come
preferiva. Abbandonò presto gli abiti moscoviti per
indossare vestiti stranieri e cominciò ad andare in giro
rasato. La sua passione per l’arte della guerra fu coltivata
attraverso i reggimenti «giocattolo» o «ludici» con veri
ufficiali stranieri nei quali arruolava i suoi compagni di
gioco; più tardi questi diventeranno i reggimenti scelti
delle Guardie Preobraženskij e Semënovskij. In una
rimessa di campagna trovò una piccola barca inglese e
rimase incantato quando un marinaio olandese gli insegnò
a farla veleggiare. Nacque così l’amore di Pietro per tutto
ciò che aveva a che fare con la navigazione, e questa sua
passione si espresse in seguito nella creazione di una flotta
potente. L’utilità pratica degli stranieri portò Pietro a
frequentare regolarmente il quartiere tedesco, in particolar
modo dopo la morte, nel 1690, del patriarca Ioachim,
ferocemente xenofobo. Il futuro zar iniziò anche a darsi alle
più sfrenate gozzoviglie: a questo periodo risale, infatti, la
sua bizzarra Assemblea dei pazzi, ubriachi e motteggiatori,
teatro di feste sregolate e sovvertimenti carnevaleschi delle
autorità, paragonabile ai club Hellfire dell’Inghilterra
dell’epoca, un divertimento che mantenne e frequentò per
tutta la vita. In quel quartiere Pietro imparò anche a
ballare, a tirare di scherma e a parlare olandese, l’unica
lingua straniera che conobbe; apprese inoltre la tolleranza
delle diversità religiose, un tratto distintivo dei suoi futuri
rapporti con gli stranieri; e sviluppò, anche se in maniera
meno evidente, una mentalità imprenditoriale,
razionalistica e pluralista, sempre aperta a nuovi orizzonti.
E lì conobbe anche l’amore, che ebbe il volto di Anna
Mons, figlia di un mercante straniero di vini; nel 1689, però,
per convenzione, prese in moglie Evdokija Lopuchina, una
giovane appartenente a una famiglia della piccola nobiltà,
educata in modo tradizionale. Ebbero due figli, ma siccome
Pietro non riuscì a trovare con lei nessuna affinità, la
costrinse in seguito a farsi monaca.
Nel 1689 uno scontro tra Pietro e Sofia mise fine al
governo di quest’ultima. La reggenza di Sofia rappresentò
un avvenimento importante nella storia della monarchia
russa: dai tempi di Ol’ga nella Kiev del X secolo,
nessun’altra donna aveva detenuto il potere nelle terre
degli slavi orientali; inoltre, Sofia inaugurò un «secolo al
femminile», unico per la casa regnante russa. Tra il 1682 e il
1796 ci furono dodici monarchi e reggenti, di cui sette
donne, al potere per 79 su 114 anni.
Nel 1695, un anno prima che la morte di Ivan lo rendesse
l’unico sovrano, Pietro entrò in contatto con la dura realtà
della vita in un’importante azione militare, intrapresa
nuovamente a favore della Lega Santa. Questa volta, però,
l’obiettivo non era l’incrollabile Crimea, ma una fortezza
turca sul Mare di Azov. Il risultato fu un disastro, come nel
1687 e nel 1689: i moscoviti non conoscevano ancora le
tecniche d’assedio e mancavano di capacità navale. Ma la
reazione di Pietro fu radicale: la Moscovia riattaccò l’anno
successivo con nuove galee progettate dagli olandesi e con
l’ausilio di esperti austriaci in armi da fuoco, pagati tramite
una tassazione straordinaria. Dopo aver respinto la flotta
turca, Pietro fece breccia nelle mura della fortezza e Azov
si arrese. Dopo i festeggiamenti trionfali per quella vittoria,
che ricordarono più la Roma dei Cesari che la Russia
ortodossa, Pietro cominciò a pianificare una nuova città
portuale sul sito di Azov con il nome di Petropoli, progetto
sostituito dalla creazione di San Pietroburgo e impedito
dalla riconquista turca di Azov. Da quell’avvenimento,
tuttavia, emerse anche la necessità di rinsaldare l’alleanza
contro i turchi e di migliorare le conoscenze militari e
navali. Pietro partì alla volta dell’Europa occidentale.
Come la Polonia per Aleksej, la Grande Ambasciata del
1697-1698, soprattutto in Olanda e in Inghilterra, si rivelò
decisiva per il regno di Pietro. Motivi di interesse
commerciale gli meritarono ovunque una buona
accoglienza. Il giovane zar, stravagante e un po’ rozzo, alto
più di due metri, che girava l’Europa in incognito, incuriosì
i londinesi almeno quanto l’Inghilterra incuriosì lui. Pietro
capì che la campagna contro gli ottomani non aveva futuro:
le grandi potenze erano impegnate nella Guerra di
successione spagnola. Vide coi propri occhi la scienza e la
tecnologia, la ricchezza e la varietà di cui aveva sentito
parlare nel quartiere straniero. Studiò l’architettura e
l’amministrazione navale, viaggiò con la flotta britannica,
assoldò specialisti inglesi e olandesi e acquistò tutto ciò che
gli sarebbe potuto servire per seguire la stessa strada in
patria. Al suo ritorno a Mosca, con un gesto passato alla
storia, tagliò personalmente la barba a tutti i cortigiani che
erano venuti a salutarlo, un modo per annunciare il suo
radicale programma di cambiamento culturale. Intanto,
dato che le ostilità con gli ottomani si trovavano a uno
stallo, Pietro cominciò a riorganizzare l’esercito, reclutando
ventisette nuovi reggimenti da addestrare secondo i metodi
europei. Pose inoltre le fondamenta di una nuova industria
metallurgica sugli Urali, dove le grandi riserve di minerali
permettevano l’approvvigionamento in loco. Fino ad allora
le necessità metallurgiche russe venivano soddisfatte con
l’importazione dalla Svezia.
Le sue furono precauzioni indispensabili: nel 1698, sulla
via del ritorno, Pietro aveva stretto un’alleanza con Federico
Augusto, grande elettore di Sassonia e re di Polonia, contro
la Svezia e il suo nuovo giovane re Carlo XII. Federico
ambiva a ottenere la Livonia, mentre Pietro desiderava
riguadagnare l’accesso al mare, e al resto del mondo,
attraverso il Baltico, perso un secolo prima a Stolbovo.
L’alleanza già conclusa con il Brandeburgo (1697) venne ora
rafforzata da trattati con Polonia e Danimarca, e non
appena fu stipulata la Pace di Costantinopoli con gli
ottomani nel 1700, Pietro e il suo nuovo esercito mai sceso
in guerra prima mossero, non provocati, contro la Svezia.
La Grande guerra del nord (1700-1721)
La Grande guerra del nord occupò buona parte del restante
regno di Pietro e, nei suoi primi anni, insieme alla Guerra
di successione spagnola (1701-1714), cancellò la pace dalla
faccia dell’Europa. Gli inizi furono disastrosi. Carlo XII
dimostrò di essere il più grande stratega del suo tempo, a
capo del migliore esercito d’Europa. Dopo aver
rapidamente costretto la Danimarca ad abbandonare la
coalizione, schiacciò l’esercito moscovita a Narva sul golfo
di Finlandia (1700), per poi inseguire attraverso la Polonia
le truppe sassoni-polacche di Federico Augusto. Gli anni
che seguirono la sconfitta di Narva furono per la Russia
una lotta per la sopravvivenza. Sotto la pressione della
guerra e dei cambiamenti sociali, le tensioni interne si
esasperarono e scoppiarono rivolte ad Astrachan’ (1705) e
sul Don (1708-1709): se Pietro avesse perso un’altra
battaglia importante, avrebbe dovuto affrontare una
sollevazione generale. Lo zar appoggiò disperatamente i
sassoni nella loro resistenza a Carlo e, ampliato e rafforzato
l’esercito, creò una nuova flotta nel Baltico, per poi
avanzare gradualmente contro le forze svedesi rimaste in
Livonia mentre Carlo inseguiva i sassoni. La fortezza di San
Pietro e Paolo, fondata nel 1703 sui territori vinti agli
svedesi vicino al golfo di Finlandia, formò il primo nucleo
di San Pietroburgo, città costruita, contrariamente a quanto
sostiene la leggenda, non su una palude, ma vicino a una
cittadina confinante con la fortezza di Nienskans, strappata
agli svedesi. Lo zar definì immediatamente la nuova città il
suo «paradiso».
Nonostante la mobilitazione di vasta portata delle
risorse da parte della Moscovia, lo straordinario esercito
svedese rimaneva comunque superiore a quello di Pietro.
Lo zar, a quel punto, sfruttò la vastità del paese come
un’arma contro l’invasore: mentre questo avanzava, i russi
si ritiravano e facevano terra bruciata, bloccandogli i
rifornimenti e isolandolo dagli alleati. Nell’estate del 1709,
nello scontro decisivo presso Poltava in Ucraina, i russi
furono superiori agli svedesi per uomini e mezzi. Fiaccato
da un rigido inverno, con scarso equipaggiamento e Carlo
immobilizzato da una ferita al piede, l’esercito svedese subì
una pesante sconfitta. Carlo riuscì a rifugiarsi in territorio
turco. Nel 1711 Pietro attaccò gli ottomani, ma subì una
catastrofica sconfitta sul fiume Prut e dovette cedere Azov
con il trattato di Adrianopoli (1713). Ma la disfatta degli
svedesi annientò il loro esercito, spezzando il potere della
Svezia per sempre. Soddisfatto delle sue conquiste
territoriali, e dal 1717 padrone oltre che della Livonia anche
della Polonia, Pietro desiderò la pace, cui arrivò solo nel
1721, quando riuscì finalmente a imporre un accordo al
tavolo dei negoziati. A quel punto la Russia aveva sostituito
la Svezia come prima potenza navale e militare della
regione. Con il trattato di Nystadt Pietro acquisì il territorio
di San Pietroburgo e tutta la Livonia: Lettonia ed Estonia
con le loro grandi città portuali di Riga e Reval (Tallin). Il
Baltico era ora aperto al commercio russo; da quel
momento l’aristocrazia germanica della Livonia inizierà a
offrire ottimi servitori all’esercito imperiale e
all’amministrazione civile. Alla sua morte, quattro anni
dopo, Pietro lasciò un formidabile esercito moderno di
circa 200.000 soldati. Nel 1725 la nuova marina contava
27.000 uomini, 34 navi di linea, circa 40 imbarcazioni più
piccole e diverse centinaia di galee, una forza che fece
preoccupare i capi della possente marina britannica, ma
che dopo Pietro andò rapidamente decadendo.
I successi di Pietro nella Grande guerra del nord
portarono d’un tratto alla ribalta la Moscovia come nuova
potenza europea. Inoltre, i rapidi cambiamenti interni che
lo zar introdusse in molti campi misero l’élite moscovita di
fronte a nuovi modi di pensare e di comportarsi. Emblemi
di questo processo furono soprattutto la fondazione di San
Pietroburgo, una città totalmente nuova, costruita secondo
gli stili europei, che divenne presto la nuova capitale, e il
nome di impero russo dato alla Moscovia nel 1721, dopo
che il trattato di Nystadt ne aveva confermato la vittoria. Il
nuovo Senato dichiarò Pietro «il Grande, Padre della
Patria» e «Zar di tutte le Russie». 6 I due secoli successivi di
storia russa, che vanno fino al 1917, sono
convenzionalmente chiamati «periodo imperiale» o
«pietroburghese».
Le riforme e lo stato petrini
Per sconfiggere un avversario troppo a lungo sottovalutato,
Pietro ristrutturò completamente la propria macchina
militare e cambiò il sistema per mantenerla. Prima del 1705
l’esercito era già stato ampiamente riformato seguendo
modelli europei, e nei due decenni successivi prese forma
un nuovo personale militare. Le vecchie classi di servizio
moscovite vennero racchiuse, tutte con gli stessi diritti e gli
stessi doveri, in un’unica nuova categoria, la nobiltà
(dvorjanstvo). I nobili erano tenuti a prestare servizio a vita,
secondo la volontà dello zar, cominciando la loro carriera
nei ranghi inferiori, e ad acquisire una certa istruzione,
obbligo oneroso cui molti cercavano di sottrarsi. Una legge
del 1714 unificò le terre di pomest’e e quelle di votčina,
assicurando i diritti di proprietà, ma abolì anche la
consolidata tradizione dell’élite di suddividere l’eredità fra
i figli: ora soltanto uno, a discrezione del padre, poteva
ottenerla, mentre i fratelli dovevano trovarsi una valida
occupazione lontano da casa. La nuova legge, accolta
dall’ostilità generale, provocò forti tensioni all’interno delle
grandi casate e fu più infranta che rispettata. La
ristrutturazione di Pietro coinvolse ogni aspetto della vita
militare: l’addestramento e l’equipaggiamento degli
ufficiali, prima stranieri, poi con i russi in aumento; la
creazione di un nuovo modello di carriera che sostituisse il
mestničestvo, un problema risolto definitivamente tramite la
tabella dei ranghi (1722); il nuovo sistema di reclutamento,
che obbligò tutti i contribuenti maschi della classe
inferiore a prestare servizio a vita e rifornì di uomini la
nuova marina (durante il regno di Pietro si raccolsero
300.000 soldati da 53 coscrizioni); l’elaborazione di nuovi
regolamenti militari, completata con lo Statuto militare del
1716; gli straordinari sforzi compiuti per risolvere i
problemi di logistica e rifornimento, oltremodo difficili in
un’Europa orientale così scarsamente popolata; lo sviluppo
di una produzione indigena di equipaggiamenti, armi e
munizioni; gli ingegnosi stratagemmi trovati per finanziare
questa impresa colossale, che raggiunsero l’apice con
l’introduzione della tassa di capitazione (1719-1722),
escogitata proprio per coprire le spese militari. Si trattava
di misure e progetti tutti elaborati e messi in pratica con
successo durante il regno petrino.
Questa grande riorganizzazione, avvenuta nel bel mezzo
di una guerra disperata, fu inevitabilmente difficile: la
riforma militare di Pietro, secondo Lindsey Hughes, fu «un
procedere per errori e tentativi, un guazzabuglio di ordini
promulgati da diversi quartier generali, dove capacità di
adattamento e intraprendenza sono state sostenute dalla
reazione indignata e istintiva di una Russia ferita dalla
propria arretratezza militare». Un processo che, tuttavia,
riuscì a portare alla vittoria contro Carlo XII e a porre basi
durevoli: dopo il 1700, fino alla Guerra di Crimea, lo stato
russo (malgrado alcune singole sconfitte) vivrà un secolo e
mezzo di straordinari successi militari. Per avere un’altra
radicale riforma militare bisognerà attendere gli anni
Settanta dell’Ottocento. Molti cambiamenti attuati da
Pietro diedero pieno frutto solo con il tempo: durante la
guerra regnava spesso il caos e molte decisioni venivano
prese secondo i casi; né la capacità di adattare le tecniche di
combattimento esteuropee per sconfiggere Carlo XII poté
salvare Pietro dalla completa disfatta nel 1711 da parte dei
potenti ottomani.
Allo stesso tempo lo zar e i suoi consiglieri erano
pienamente consapevoli delle implicazioni di un maggiore
potere militare e di un’accresciuta influenza a livello
internazionale. In quel momento della storia europea,
un’amministrazione produttiva e sistemi legislativi,
economici e finanziari funzionanti e razionali, con
personale preparato ed esperto, erano necessari a una
grande potenza quanto un esercito efficiente. Pietro
riorganizzò e rinnovò rapidamente la società russa
modellandola sugli esempi migliori che conosceva, senza
tuttavia dimenticare mai le specificità e i bisogni del paese.
Si interessò alla medicina cinese, ma anche a quella
olandese, alle tecniche di costruzione navale adottate a
Venezia ma anche a quelle inglesi. Riguardo all’istruzione
si consultò con tedeschi protestanti, ma permise anche ai
gesuiti di aprire una scuola a Mosca. Dopo aver mandato i
russi a imparare e a addestrarsi in tutta Europa, persino in
Spagna, trovò alcuni modelli più interessanti di altri:
esercitarono un’influenza particolarmente forte le potenze
nordiche protestanti. Negli anni che precedettero la
battaglia di Poltava, Pietro si concentrò sui problemi pratici
e sulle necessità immediate della guerra, ma dal 1710
cominciò ad affrontare questioni più ampie: alcune delle
maggiori riforme militari furono completate solo negli anni
Venti del Settecento.
Le innovazioni di Pietro interessarono quasi ogni settore
della vita dello stato: lo zar desiderava riordinare le
istituzioni, modellare e disciplinare i sudditi, in particolare
l’élite aristocratica, e per farlo seguì la migliore tradizione
del primo Illuminismo e si affidò al cosiddetto «stato di
polizia ben ordinato», la teoria di un governo
interventistico e di una società prospera e regolata,
elaborata in Francia e dai cameralisti in Germania. Questo
approccio onnicomprensivo, razionalistico e attivista al
modo di governare era nuovo per la Russia, come nuovi
erano anche il concetto di «progresso» (la parola entrò
allora nella lingua russa) e la distinzione tra sovrano e stato
che si affermò con Pietro. Prese singolarmente, quasi tutte
le iniziative di questo zar avevano precedenti nel XVII
secolo (la fondazione di San Pietroburgo rappresenta
l’unica eccezione). Da un lato, la sua volontà di
cambiamento e il suo amore per le usanze straniere, per il
pensiero sistematico e per la legislazione rappresentavano
un’offesa per la tradizione moscovita. Molti membri di
importanti famiglie rimanevano analfabeti, le antiche
consuetudini erano radicate e rispettate, l’erudizione
restava prerogativa dei monaci ed era cosa normale
diffidare delle conoscenze profane (il sapere straniero era
considerato un «trucco», un «inganno» che avrebbe portato
la Russia all’umiliazione o alla perdizione). Ma dall’altro
lato l’influenza del mercantilismo, da cui derivava il
cameralismo, i primi cambiamenti culturali, la crescente
secolarizzazione, le nozioni di «buon ordine» e di «bene
comune», che avevano ispirato Aleksej e Fëdor, l’immagine
della «comunità devota», propria dell’élite, e il continuo
sostegno dato da Pietro all’élite e ai suoi privilegi avevano
aperto la via alla comprensione e all’accettazione delle sue
idee. I risultati furono quindi contrastanti. Pietro incontrò
un’enorme resistenza nella massa tradizionalista che,
tendenzialmente passiva, esplose in rivolte, soppresse
brutalmente nel sangue. Siccome nell’immaginario
popolare nessuno zar ortodosso poteva comportarsi come
faceva Pietro, si diffusero voci che l’avessero scambiato
nella culla con un tedesco o che fosse l’Anticristo. Anche
all’interno dell’élite si formarono ampie frange di dissenso:
Pietro dovette affrontare la rivalità dei boiari e persino
l’opposizione di molti inclini alle riforme. La resistenza più
conservatrice si concentrò intorno al probabile erede di
Pietro, lo sventurato figlio di Evdokija, Aleksej Petrovič; nel
1718 padre e figlio si scontrarono apertamente e lo zarevič,
accusato di tradimento, morì in prigione sotto tortura. A
causa di questo episodio lo zar promulgò un decreto
tramite cui, con un salto radicale rispetto a tutta la
tradizione precedente, rimetteva la successione nelle mani
del sovrano; il nuovo ufficio di polizia segreta, il
preobraženskij prikaz, sorvegliò sul minimo cenno di
sedizione. Ma oltre agli oppositori, a corte vi erano anche
molti che compresero le azioni dello zar, divenendo suoi
fedeli sostenitori, gli «uccellini del nido di Pietro».
In soli trent’anni, Pietro tentò di mutare radicalmente e
rinnovare la società russa, in particolare l’élite. Riorganizzò
l’amministrazione centrale e locale, seguendo soprattutto il
modello svedese: le cancellerie centrali furono sostituite da
dodici ministeri, detti Collegi, e nel 1711 fu creato un
Senato di governo che colmò il vuoto lasciato dal Consiglio
dei boiari. Nel 1700 fu istituita, senza successo, una
Commissione giuridica per ricodificare le leggi; vennero
introdotte misure per favorire l’istruzione e lo sviluppo
della scienza, cominciando dalla fondazione di istituti
tecnici per le forze armate (d’artiglieria nel 1699, di
navigazione nel 1701), passando per una rete nazionale di
scuole elementari provinciali e seminari ecclesiastici (1714-
1722), fino ad arrivare all’Accademia delle scienze di San
Pietroburgo, creata nel 1725-1726, su suggerimento di
Leibniz. L’Accademia riuniva in sé le funzioni di centro di
ricerca, dipartimento governativo e università, e anche se
inizialmente era costituita solo da stranieri, fece entrare la
Russia, cosa prima inconcepibile, nella «Repubblica dei
dotti» dell’Europa settecentesca. Un primo museo, la
Kunstkammer a San Pietroburgo, esibiva la collezione dello
zar di campioni e strumenti scientifici, nonché di creature
mostruosamente deformate, secondo il gusto dell’epoca.
Pietro riformò anche l’amministrazione della Chiesa,
imponendole il controllo statale. Alla morte del patriarca
nel 1700 la carica fu affidata a un sostituto, fino
all’abolizione del patriarcato nel 1721. Al suo posto
comparve il «Santissimo Sinodo Governativo», il
corrispettivo del Senato, ma strutturato come un Collegio.
Le entrate della Chiesa furono ridotte e le vennero imposti
nuovi compiti sociali e educativi. Le celebrazioni di
importanti festività ed eventi religiosi assunsero forme più
secolari; nel 1700 il vecchio calendario, che partiva dalla
creazione del mondo, fu sostituito con quello giuliano, il
cui conteggio si basava sulla nascita di Cristo. Pietro
incoraggiò le arti alla maniera europea: la corte fece da
mecenate a pittori, incisori e architetti stranieri, e i
programmi edilizi statali alimentarono una «rivoluzione
petrina» nell’architettura. Aprirono i primi teatri pubblici.
Fu sostenuta la stampa: dopo un tentativo fallito sotto Ivan
IV, una tipografia ecclesiastica era stata fondata sotto
Michail, e negli ultimi anni della Moscovia si era giunti a
quota tre; ora le tipografie attive erano dieci, al Senato,
all’Accademia delle scienze e altrove, e fu introdotto un
nuovo sistema di scrittura «civile» (1710) per semplificare
l’ornata complessità della tradizione slavoecclesiastica.
Apparvero i primi giornali; cominciò a essere pubblicato
un numero sempre maggiore di libri, anche se la
produzione era irrisoria rispetto alle altre nazioni e ancora
costituita per lo più da testi religiosi. Si elaborò un nuovo
vocabolario per esprimere nuovi termini militari e concetti
stranieri, dando così avvio a un’evoluzione della lingua
letteraria russa che sarebbe durata per tutto il secolo.
Pietro cambiò radicalmente il modo di vivere
dell’aristocrazia. Partendo con il taglio della barba nel 1698,
il governo introdusse nuovi modi di vestire, pettinarsi,
conversare, comportarsi e socializzare, imponendoli ai
nobili di entrambi i sessi. Questi cambiamenti si
riversarono sui gruppi più abbienti come una tromba
d’aria. La vita quotidiana subì profonde trasformazioni,
soprattutto per la corte.
Tuttavia, non solo l’attività di riforma petrina possedeva
solide basi secentesche, ma in settori di cruciale
importanza non modificò nulla, rafforzando anzi le
strutture moscovite. Le relazioni tra i diversi gruppi sociali
restarono sostanzialmente invariate e la nobiltà continuò a
dominare la società. Davanti alle richieste del governo le
città rimanevano deboli e sottomesse; l’uso che Pietro fece
dei monopoli di stato portò alla rovina dei cittadini più
facoltosi, i gosti. La riorganizzazione fece nascere qualche
nuovo gruppo sociale, i già menzionati «contadini di stato»
e i raznočincy («persone di altro rango»), categoria
onnicomprensiva per coloro che non erano inquadrabili
nelle categorie sociali preesistenti. Tutto ciò influenzò la
gerarchia sociale solo in minima parte. I contadini rimasero
impermeabili ai cambiamenti culturali, mantenendo intatte
barbe e convinzioni, ma furono sempre più vittime dello
sfruttamento, tassati e coscritti nell’esercito come non mai;
lo zar, che aveva ricevuto proposte di abolire la servitù, la
rinsaldò. La società che emerse dal regno di Pietro I,
dunque, fu sostanzialmente una versione aggiornata e
raffinata dello stato moscovita basato sul servizio, in cui
egli sfruttò al massimo l’autorità e il potere coercitivo degli
autocrati moscoviti. Né l’importanza fondamentale per la
società russa del rango, delle reti di parentele e
clientelismo, e del potere personale, subì mutamenti in
seguito ai cambiamenti istituzionali e alla preferenza dello
zar verso «uomini (e donne) nuovi» di umili origini. Da
questo punto di vista, la sua riforma fu conservatrice, ma si
rivelò adeguata ai bisogni dell’epoca.
Molte istituzioni e riforme petrine rimasero incomplete,
imperfette o inefficaci, ma in quasi tutti i campi il sovrano
pose le fondamenta per una struttura imperiale dello stato
e della vita pubblica che, con ulteriori aggiustamenti,
supportò lo status di grande potenza della Russia, durando
fino al XIX secolo e, in alcuni casi, fino al 1917. Pietro I
lasciò in eredità uno stato sempre più forte dal punto di
vista militare, governato da una piccola élite privilegiata
con un livello culturale via via sempre maggiore, ma che si
fondava sullo sfruttamento della sua numerosa
popolazione contadina, di cui ci si assicurava la
cooperazione con un miscuglio di ideologia, forza e
minima protezione; un paese, seppur in espansione, in cui
lo sviluppo dell’economia e delle risorse, e la capacità
amministrativa erano a malapena sufficienti a soddisfare le
necessità di governo, soprattutto nelle province e in
periferia. Il vasto impero russo soffrì sempre di un deficit
di governo.
Questo regno fu di fondamentale importanza nella
storia della Russia, tanto che Pietro I rimane termine di
paragone nelle discussioni sul destino del paese. Le sue
azioni, nella loro eterogeneità e brutalità, e nelle frettolose
imperfezioni e incompletezze, risolsero la «crisi del
tradizionalismo» della Moscovia nel XVII secolo e
permisero alla Russia di svilupparsi come grande potenza
economica e militare. Pietro è quindi ricordato come il
creatore della Grande Russia, statista lungimirante,
risoluto e infaticabile; ma anche attaccato in quanto
dispotico e crudele precursore di Stalin, che rafforzò
l’oppressione e la servitù e tentò di raggiungere il
«progresso attraverso la costrizione». Da un lato lo si
ammira per aver traghettato la Russia in Europa, dall’altro
lo si condanna per aver dato vita a quella frattura culturale,
sociale e spirituale tra le masse e l’élite che portò infine alla
rivoluzione. È soprattutto riguardo al regno di Pietro che
gli storici hanno utilizzato i concetti fuorvianti di
«arretratezza» e «occidentalizzazione». Esistono
sicuramente modelli interpretativi più fecondi. Il regime di
Pietro prefigurò numerosi tratti dell’«assolutismo
illuminato» (di cui si discuterà più oltre); egli è stato visto
come colui che introdusse una variante «statalista»,
controllata dal governo, del primo Illuminismo. La Russia,
inoltre, rientra anche nel concetto di stato «militar-
burocratico» o «stato fiscale» dei primordi dell’epoca
moderna, organizzato per trarre il massimo dalle risorse
della popolazione a scopo militare. Eppure, non disponeva
delle tecniche fiscali di cui erano provvisti gli stati
dell’Europa occidentale su cui quel modello si basava in
origine.
Lo «stato contadino»: contadini e servi della
gleba
Un altro modo di considerare questo insieme di relazioni
riporta al concetto di «stato contadino», elaborato dal
sociologo rurale Gerd Spittler, che pone l’accento
sull’interazione tra la classe contadina e le autorità di
governo che caratterizzarono la Russia fino alla caduta
dell’Unione Sovietica. È un modello che si può applicare a
paesi con governi relativamente autoritari, popolazione
contadina e un mercato poco sviluppato. Rappresenta uno
stato dove i contadini, la maggior parte degli abitanti,
forniscono le fonti essenziali di ricchezza ma sono
governati in maniera interventistica dai non appartenenti
alla loro classe; le relazioni tra la società contadina e il
governo sono mediate da leader contadini, rappresentanti
o organizzazioni amministrative. Nella Russia imperiale il
governo trattava con la comunità contadina o con il
proprietario pomeščik.
In una storia generale della Russia (come per ogni altro
paese agrario e preindustriale) è difficile riconoscere la
giusta importanza alla classe contadina, i cui membri non
erano motori o attori principali degli avvenimenti; i lenti
ritmi della vita rurale raramente coincidevano con la
rapidità degli eventi nazionali. La cultura contadina era
analfabeta e ha lasciato poche tracce scritte. Le fonti che
risalgono a prima dell’epoca moderna sono pochissime: la
società contadina russa cominciò a essere documentata in
maniera accettabile solo a partire dal XIX secolo, e anche
allora poco si sa della vita nelle piccole proprietà. La società
e la mentalità contadina sono molto lontane dal modo di
pensare che si diffonderà in seguito tra i cittadini istruiti.
Eppure per tutta la storia russa, fino a metà del XX secolo, i
contadini formarono la vasta maggioranza della
popolazione. La corte, l’aristocrazia e i funzionari non
rappresentavano che uno strato piccolissimo al di sopra
della massa contadina. Nel XVIII secolo, la popolazione
urbana era circa il 4% e tutte le categorie esenti da tasse
(nobili, funzionari civili, clero, esercito) formavano nel
complesso circa il 6% degli abitanti: i contadini
continuavano a essere il 90%.
È difficile anche generalizzare sulla società contadina
che, nonostante i tratti in comune, variava enormemente a
seconda dei luoghi. Nelle regioni centrali e settentrionali,
dove l’agricoltura era più povera, vale a dire fuori dalla
zona di černozëm, le attività non agricole (artigianato,
commercio, trasporto, vendita di legname) indebolirono il
legame con la terra e resero i contadini più dinamici. Le
tradizioni dei contadini ucraini differivano da quelle della
Grande Russia. I contadini di stato avevano più autonomia
dei servi della gleba, e potevano esserci enormi disparità
fra i vari regimi economici. Nella Russia imperiale la
maggior parte dei possidenti non viveva sui propri terreni
(erano lontani a prestare servizio allo stato o preferivano
vivere in città, oppure possedevano più di una proprietà), e
la gestione della terra da parte di un amministratore era in
genere meno favorevole ai contadini. La fustigazione era
un castigo molto diffuso. I contadini di villaggi che
dovevano prestare corvé (barščina) al loro signore vivevano
sulla sua proprietà per coltivarne i campi: i servi della gleba
che pagavano in denaro o in natura (obrok) il loro tributo
potevano poi condurre tranquillamente i propri affari, se
avevano pagato i loro debiti, e godevano di una certa libertà
di movimento. Le famiglie più agiate tenevano un gran
numero di contadini servi come domestici e questa «gente
di corte» viveva più di ogni altra categoria sotto il controllo
diretto del padrone o della padrona: ciò poteva comportare,
nei casi più sfortunati, pesanti maltrattamenti, o
all’opposto una vita felice come servitore stabile.
Quest’ultimo destino era particolarmente comune per le
balie, alle cui amorevoli cure venivano affidati per anni i
figli dei nobili. La letteratura russa ce ne offre vividi ritratti:
il più famoso resta forse quello della bambinaia di Tat’jana
nell’Evgenij Onegin (1823-1831) di Puškin. Il racconto di
Ivan Turgenev Mumu (1852), all’opposto, narra di un
contadino corpulento, gentile e muto (simbolo di tutta la
sua classe), costretto a subire i soprusi di una padrona
spietata ed egoista. In Contadini (1897) di Čechov la cupa
immagine della vita rurale dopo l’emancipazione
contraddice, a sua volta, le idealizzazioni di Tolstoj.
Solo una piccola minoranza di contadini poteva
viaggiare liberamente e le fughe illegali, frequenti per tutto
l’inizio dell’epoca moderna, avvenivano per i motivi più
disparati: condizioni intollerabili o la speranza di trovarne
di migliori altrove, voci sull’esistenza di terre libere o la
volontà di sottrarsi alla punizione per un crimine
commesso. Dopo il 1649 fecero la loro comparsa
investigatori incaricati di rintracciare i fuggiaschi con
l’aiuto, se necessario, delle forze militari; continuarono a
essere attivi fino agli anni Settanta del Settecento, quando
le loro funzioni furono assorbite dal governo locale. Nella
sola provincia di Kazan’ negli anni 1722-1727 furono
catturati 13.188 contadini maschi in fuga. A volte le bande
di fuggiaschi si scontravano violentemente con esercito o
polizia e le spedizioni militari per il loro recupero si
spingevano persino oltre il confine polacco. Alla frontiera
meridionale, e dovunque servisse altra manodopera, le
autorità, invece, si dimostravano spesso restie a
riconsegnare fuggiaschi utili ai loro padroni.
L’atteggiamento degli stessi contadini verso i fuggitivi era
dunque ambivalente: il sistema della responsabilità
collettiva, che risaliva all’epoca kieviana, e ancora in vigore,
obbligava i contadini rimasti a pagare le tasse anche per chi
era scappato, e ricompense sostanziose erano offerte a
chiunque denunciasse o facesse catturare i fuggiaschi.
La vita della maggior parte dei contadini che non
scappavano orbitava intorno al villaggio: la loro esistenza
era tutta concentrata lì. Nei villaggi più grandi la chiesa del
paese aveva un ruolo centrale, ma in epoca imperiale,
specialmente al nord, i centri erano spesso molto piccoli: si
trattava per la maggior parte di borghi di cinque o sei case.
I villaggi delle steppe, invece, erano di norma più popolosi.
Al loro interno l’unità di base era costituita dalla famiglia e
dalla sua fattoria. Il mondo contadino era un universo
analfabeta, figurativo e spirituale, rafforzato da credenze
animiste e dalla magia, popolato di santi e spiriti, dove a
scandire gli anni erano le stagioni, le festività sacre e il ciclo
agricolo. Ogni contadino aveva un «angolo bello» con le
icone alle pareti, ma rispettava anche il domovoj o folletto
della casa.
L’insegnamento ortodosso era vincolante, sebbene
spesso mal compreso, e i contadini, salvo rare eccezioni,
rimasero estranei alla secolarizzazione e alle aspirazioni
imperiali della nuova cultura dell’élite di Pietro I.
L’esistenza contadina aveva le proprie norme estetiche, le
proprie tradizioni di musica, danza e cultura materiale. Le
donne tessevano stoffe e nastri con disegni e colori
straordinari; gli uomini erano abilissimi nel lavorare il
legno (lo strumento tipico dei contadini era l’ascia, non la
sega). La casa del contadino, nel nord spesso a due piani,
era in genere una capanna di un solo piano (izba) costruita
con ciocchi di legno, dal tetto di scandole o paglia, e a volte
decorata con complessi intarsi. Nel sud, fuori dalla zona
boschiva, erano diffuse costruzioni in fango e argilla
imbiancate a calce. Nelle foreste della Russia l’edilizia
contadina, che adoperava quasi esclusivamente il legno,
possedeva forme e tradizioni proprie, il cui apice fu
rappresentato dalla famosa chiesa della Trasfigurazione
(1714), a Kiži sul lago Onega, ora patrimonio dell’umanità.
Nel villaggio la vita era strettamente legata alla natura:
l’izba, costruita intorno alla grande stufa, spesso con
pavimento di terra e a volte senza camino, attraverso un
capanno portava direttamente al cortile fangoso, all’orto e
alla strada non lastricata del villaggio. Le fattorie della
Grande Russia erano in genere raggruppate lungo un
fiume o una strada. I contadini vivevano tutti insieme,
senza privacy, in famiglie allargate. Un gran numero di
persone era stipato in piccole abitazioni infestate da insetti,
e maleodoranti specialmente d’inverno quando gli ingressi
erano tenuti chiusi e nell’aria stantia si mescolavano fumo,
odori corporei e di cibo. Le malattie erano all’ordine del
giorno; i bambini morivano con enorme frequenza. D’altra
parte, però, si usava regolarmente il bagno di vapore e nei
periodi tranquilli la dieta base del contadino, ben
bilanciata, preveniva lo scorbuto che tanto si diffondeva fra
i cittadini e le forze armate.
Era la tipica vita comunitaria, con la terra in comune,
divisa («ripartita») tra le famiglie, che oltre a creare spirito
di cooperazione portava spesso a litigi e conflitti. La
comunità (mir) e la sua assemblea (mirskoj schod), che
regolavano gli affari del villaggio, davano a ogni
capofamiglia il diritto di esprimere le proprie opinioni.
Dopo queste assemblee, spesso molto vivaci, l’anziano del
villaggio o gli uomini più importanti annunciavano le
decisioni prese dalla maggioranza. La vodka e altre
indebite influenze avevano un peso notevole: i villaggi
erano governati da legami di parentela, rapporti economici,
sociali e clientelari, da una vita politica propria. Regolava i
rapporti personali all’interno della comunità il diritto
consuetudinario, non quello statale, e contemplava pene
come l’umiliazione pubblica. Emersero poi le élite di
villaggio: alcuni servi della gleba, in particolare alla fine del
XVIII e nel XIX secolo, divennero ricchi imprenditori, che
possedevano a loro volta servi della gleba; ma siccome per
legge non potevano avere proprietà in uomini o immobili,
intestavano i loro beni al padrone, cui non dispiaceva per
niente di possedere servitori così abbienti e usufruire di
queste ricchezze registrate a suo nome. Si è discusso a
lungo delle disparità economiche e della mobilità sociale
all’interno della classe contadina, soprattutto da quando i
marxisti sovietici individuarono nella crescente
differenziazione lo sviluppo di relazioni capitalistiche nelle
campagne. Oggi la maggior parte degli studiosi considera
cicliche le differenze di ricchezza, che riflettono le
dimensioni delle famiglie e il conseguente potenziale di
lavoro.
La vita familiare era a forte impronta patriarcale e la
violenza all’ordine del giorno. Le relazioni sui villaggi del
XIX e XX secolo mostrano nei rapporti umani, all’interno e
all’esterno della famiglia, un tipico egoismo senza
cedimenti sentimentali, che diveniva ancora più accentuato
nei confronti degli estranei. Le risorse erano scarse e
l’autorità esterna arrogante e brutale: i contadini,
arrendevoli al potere quando lo incontravano, si
comportavano in modo arrogante e brutale anche nei
confronti dei propri parenti quando avevano occasione di
esercitare essi stessi il potere. Era in genere la religione,
invece, a ispirare atteggiamenti compassionevoli: monaci
itineranti, pellegrini e questuanti «in nome di Cristo» non
venivano quasi mai scacciati e i detenuti che marciavano in
catene sulla lunga strada per la Siberia ricevevano
facilmente elemosine. Cooperazione e solidarietà
apparivano quando era in gioco l’interesse di tutto il
villaggio – le vittime degli incendi, ad esempio, venivano
aiutate a rimettersi in sesto perché potessero poi pagare la
loro parte di tasse. Il capofamiglia (bol’šak) godeva di un
illimitato potere dispotico, che crebbe ulteriormente dalla
fine del XVII secolo, quando l’economia della servitù
incoraggiò famiglie allargate di più generazioni: i
proprietari terrieri si sentivano garantiti da un’unità
contadina economicamente forte. La moglie del bol’šak, a
sua volta, dominava sulle donne della casa, soprattutto
sulle nuore. Le donne erano considerate esseri inferiori: la
cultura russa abbonda di proverbi contadini spesso
misogini, che parlano di capelli lunghi e intelligenza corta
o sostengono che «un granchio non è un pesce e una donna
non è una persona». Erano inoltre spesso vittime di
violenze fisiche, che generalmente subivano dal marito
(«Più batti la tua vecchia, più è saporita la zuppa»), e di
abusi sessuali perpetrati dal capofamiglia e dai pomeščiki
libertini (nel XVIII secolo alcuni proprietari avevano harem
di giovani contadine). Tuttavia, un uomo non era
pienamente un contadino senza una moglie (e un cavallo):
le donne, infatti, contribuivano in maniera essenziale al
benessere e alla cultura del villaggio, non solo come madri
e lavoratrici con le stesse incombenze degli uomini, ma
anche come depositarie del sapere, che predicevano il
futuro, narravano storie popolari e tramandavano
tradizioni.
Nel villaggio il lavoro era costante, meno intenso nei
lunghi inverni paralizzati dalla neve e più duro nella breve
stagione estiva del raccolto, il «periodo della sofferenza»,
quando si dovevano ottenere i frutti a tutti i costi. Nel XVII
secolo il sistema di rotazione delle colture, con coltivazione
a strisce, si era ormai diffuso quasi ovunque; la coltura di
maggiore consumo era la segale. Il XVII e il XVIII secolo
sono il periodo in cui il commercio, soprattutto di grano,
passò dai mercati locali a quelli regionali, e dagli anni
Sessanta del Settecento l’esportazione di questo prodotto
cominciò a crescere. Con l’ingresso della Russia in mercati
più ampi i prezzi salirono raggiungendo quasi gli standard
europei (si ebbe una «rivoluzione dei prezzi»). Di questi
sviluppi beneficiarono i contadini, ma soprattutto i nobili
proprietari terrieri. Nella maggior parte dei casi le
eccedenze dei contadini non erano ingenti, anche se alcuni
furono in grado di vendere il proprio grano, mentre le
calamità naturali potevano distruggere completamente le
colture: in media una o due volte ogni dieci anni si
ottenevano raccolti poverissimi. In periodi normali i
contadini russi vivevano in condizioni economiche
ragionevolmente buone, ma le carestie erano sempre in
agguato. Questo portava i contadini ad avere un
atteggiamento conservatore, ostile a ogni nuova
«invenzione moderna» che consideravano rischiosa,
specialmente se contraria alla loro visione del mondo.
Adottavano invece razionalmente le innovazioni di cui
comprendevano l’efficacia. Intorno al 1840 si cercò di
diffondere nelle campagne la coltivazione della patata,
introdotta in Russia alla fine del XVII secolo. I contadini la
rifiutarono: la ritenevano un’infernale «mela del diavolo»
perché cresceva a rovescio; ci vollero parecchi decenni
perché la nuova coltura fosse generalmente accettata.
Abbandonare per sempre il villaggio era possibile,
anche se difficile. In epoca imperiale un numero
considerevole di contadini si trasferì e si registrò nelle città.
Ma si trattava di un processo complicato e costoso, e dopo
il 1722 i servi della gleba dovettero ricevere il permesso del
padrone. I contadini, in generale, si allontanavano per
lavoro solo temporaneamente, si univano in gruppi con i
loro compaesani o con lavoratori locali (zemljačestvo) per
formare cooperative (arteli) che rispecchiavano la loro
comunità originaria e dove vigeva un regime di mutuo
soccorso. La migrazione dei lavoratori stagionali divenne
pratica su larga scala solo nel XIX secolo, ma già nel XVIII
un osservatore la paragonò agli spostamenti degli stormi di
uccelli. Per il contadino medio, tuttavia, il mondo esterno al
villaggio era un luogo ostile. Chi veniva da fuori, di solito,
non aveva buone intenzioni: erano nuovi contadini che
rivendicavano appezzamenti di terreno, mercanti disonesti
o banditi, e i villaggi disponevano soltanto di rudimentali
strutture di polizia e controllo. L’intervento negli affari del
villaggio da parte di un’autorità superiore (polizia,
funzionari, ufficiali dell’esercito, il pomeščik o il suo
amministratore) portava sempre richieste e imposizioni e
spesso percosse. Degli stranieri bisognava sempre
diffidare.
Dal XVII al XIX secolo la servitù della gleba fu in Russia
una delle istituzioni più caratteristiche, al punto che
continuò a far sentire la propria influenza persino dopo
l’abolizione nel 1861. All’epoca di Pietro, il servo era già
sotto il pieno controllo del suo signore: nel 1721 lo zar
dovette promulgare un decreto che vietava la vendita di
contadini «come bestiame, pratica ignota in ogni altra parte
del mondo […] e particolarmente crudele quando separa
un figlio o una figlia dalla famiglia, provocando molto
dolore». Era il chiaro riconoscimento di una situazione di
fatto. Il divieto restò lettera morta. D’altra parte, per
adattare in modo più produttivo la società alla sua visione
complessiva, Pietro prese deliberatamente una serie di
misure che estendevano e rafforzavano la servitù: abolì la
differenza tra schiavi e contadini servi della gleba che
pagavano le tasse e istituì forme di servitù industriale per
fornire forza lavoro gratuita allo stato (contadini «ascritti»)
e alle imprese private (contadini «di proprietà»). Il suo
nuovo sistema di reclutamento liberava de iure le reclute
dal padrone, per poi asservirle nuovamente de facto alla
disciplina militare, fino alla morte o alla invalidità. La tassa
sulle anime, pagata da tutte le categorie inferiori non
militari, divenne un indicatore di servitù e un mezzo di
asservimento. I registri del censo, che indicavano
l’assoggettamento alla tassa, venivano infatti usati anche
per dimostrare la proprietà dei servi. L’introduzione di
passaporti interni (1724) per i contadini che dovevano
viaggiare facilitò il controllo degli spostamenti. Il servo,
dunque, era a completa disposizione del padrone; il resto
dei contadini, per la maggior parte «contadini di stato»,
vennero chiamati da alcuni storici «servi della gleba di
stato» in quanto soggetti a un controllo simile da parte
degli organismi statali. Questa visione, tuttavia, ignora una
differenza essenziale: essi non erano proprietà di una
persona e non potevano essere venduti. Se ne avevano
l’opportunità, i contadini che lavoravano per i possidenti
esprimevano l’aspirazione a diventare contadini di stato.
Al suo massimo sviluppo il sistema russo della servitù
della gleba è stato equiparato alla piena schiavitù. I suoi
dannosi effetti sul carattere e sulla personalità di alcuni
servi – ignoranza, apatia, pigrizia, ubriachezza, slealtà,
propensione al furto – sono stati più volte elencati da
osservatori compassionevoli e giustamente interpretati
come forme di resistenza all’autorità del padrone, nonché
conseguenze della disperazione e dell’assoluta mancanza
di incentivi per un possibile miglioramento; i sostenitori
della servitù portavano invece questi vizi a riprova della
necessità di uno stretto controllo. È importante
sottolineare, inoltre, che fino al tardo XVIII secolo la
maggior parte dell’opinione pubblica europea era
perfettamente a suo agio davanti alla servitù della gleba dei
bianchi e alla schiavitù dei neri; solo gli abusi suscitavano
preoccupazione. Nella Russia petrina non era argomento di
discussione se la servitù della gleba fosse auspicabile.
Secondo gli standard moderni, in genere i proprietari
terrieri trattavano duramente i servi (esattamente come
facevano i primi industriali britannici con i loro operai), ma
esisteva un ambito accettato di relazioni, un’«economia
morale», all’interno della quale entrambe le parti potevano
agire senza alcuna ritorsione. Uccidere i propri servi era
proibito, ma se questi morivano dopo essere stati picchiati,
il padrone non era ritenuto responsabile; tuttavia, simili
casi, benché a volte celebri, erano probabilmente
eccezionali. A volte erano i contadini a uccidere i padroni,
sebbene quasi sempre spinti da condizioni estreme o in
epoche di tumulti. Alcune insurrezioni contadine ebbero
esiti violenti e furono sedate dall’esercito, che solo in
rarissimi casi si spinse fino a veri e propri massacri.
Nonostante i limiti posti alle lagnanze e alle petizioni, i
contadini continuarono a farne buon uso, anche se la
maggior parte di loro utilizzava soprattutto forme di
resistenza passiva: trascinavano i piedi, lavoravano male, si
fingevano malati, rubacchiavano. È sorprendente, dunque,
che in generale il livello di scontro e di tensione sia rimasto
così basso. La servitù della gleba offriva anche protezione e
garantiva la possibilità di coltivare la terra: dal 1734 il
proprietario era tenuto per legge a nutrire i propri
contadini in tempo di carestia, le proprietà erano sicure dai
briganti e tradizionalmente i contadini ricevevano una
parte del fondo per uso personale. In epoca imperiale,
come abbiamo detto, emersero alcuni imprenditori
contadini di successo, la maggior parte di origini servili:
per accumulare capitale era necessaria la protezione di un
signore. Inoltre, come abbiamo visto, i servi potevano
condurre vite molto differenti. All’interno del villaggio
l’amministratore, l’anziano e i capifamiglia avevano tutti
posizioni di potere da difendere, ed erano di conseguenza
interessati a mantenere lo status quo. Per molti contadini,
soprattutto quelli che pagavano l’obrok, il regime servile
assicurava una notevole flessibilità e autonomia, mentre le
politiche interne del villaggio andavano a volte al di là delle
intenzioni del padrone.
Questo ci riporta al modello di Spittler dello «stato
contadino» che insiste sulla relazione tra l’autarchia del
villaggio, con le sue gerarchie e le sue dinamiche interne, e
le richieste esterne da parte di uno stato a caccia di risorse.
Il governo poteva imporre al villaggio la mobilitazione
coercitiva delle risorse, ad esempio la tassazione, le
coscrizioni militari, di manodopera e la produzione di una
particolare coltura. Ma i tentativi di cooptare, influenzare la
popolazione o comunicare con lei dipendevano dalla
cooperazione e dagli interessi sia dei rappresentanti dei
contadini – l’anziano del villaggio e la comunità – sia dei
contadini stessi, che avevano i propri valori e le proprie
priorità. Gli sforzi per ammodernare le pratiche agricole –
per esempio, la prescrizione da parte di Pietro I della falce
fienaia al posto del falcetto – si scontrarono con la cultura
tradizionale dei villaggi. Anche la politica dei villaggi
faceva a pugni con i disegni del mondo esterno: il successo
di un contadino all’interno della sua comunità non
dipendeva da un decreto governativo o dalla volontà del
proprietario terriero, e neppure dalla giustezza della sua
causa, ma dall’influenza o dalla protezione all’interno del
villaggio e dalle decisioni della comune. Gli anziani
derivavano il loro potere non tanto dalla semplice
esecuzione degli ordini, ma dal farlo o meno a beneficio di
se stessi, dei loro amici e del villaggio nel suo complesso. Il
governo si teneva al di fuori di queste relazioni, e
solitamente faceva lo stesso anche il proprietario. Un ruolo
importante ebbero in quest’epoca le informazioni. Se si
esclude qualche precedente catasto, fu il XVIII secolo a
inaugurare in Russia l’epoca delle statistiche attendibili: i
governi avevano sempre più la necessità e il desiderio di
contare ciò che stavano amministrando, e pretendevano che
gli amministrati comprendessero e accettassero il loro
operato. I decreti di Pietro I sono pieni di clausole
esplicative in cui si esorta a rispettare una certa legge non
solo per paura del castigo, ma per altre buone ragioni.
Tuttavia, i funzionari di città, ignoranti, pieni di pregiudizi
e arroganti nei confronti dei contadini (per non parlare
delle bustarelle e della corruzione), spesso non riuscivano a
comprenderli o a persuaderli. Alla ricerca di
interpretazioni razionali, si creavano una propria immagine
della campagna e delle relazioni che la governavano, molto
lontana dai desideri dei contadini e dalla realtà stessa.
Quando Caterina II in persona, con le migliori intenzioni,
cercò di riorganizzare le proprietà terriere dei contadini
adottando criteri razionali, incontrò una violenta resistenza
(che prontamente neutralizzò con la forza e la
deportazione). Inoltre, era difficile per funzionari e padroni
sapere cosa accadeva di preciso nel villaggio basandosi
esclusivamente sui documenti: i contadini dicevano la
verità agli estranei solo quando conveniva loro, la
burocrazia scritta si scontrava con la cultura orale, e
l’autarchia dei contadini, in un’economia di mercato non
ancora pienamente sviluppata, resisteva ai tentativi esterni
di misurare e controllare la produzione.
Questo sistema di rapporti si realizzò in Russia con il
nuovo governo cameralista di Pietro I. Se in precedenza i
tentativi di influenzare la cultura contadina e i metodi di
produzione erano stati esigui, d’ora in avanti i governanti si
assunsero la responsabilità, arrogandosene il diritto, di
dirigere gli affari dei sudditi secondo le proprie idee e
senza consultare gli interessati. Così in buona parte
fallirono sia nel trovare un accordo con le comunità
contadine sia nel raggiungere i loro scopi primari.
All’inizio ciò era in linea con le relazioni sociali vigenti e
non ebbe serie conseguenze: il governo del XVIII secolo
aveva nelle campagne un raggio d’azione ancora
relativamente limitato, e Pietro si interessava soprattutto di
commercio e industria; l’agricoltura divenne una questione
politica di moda solo dopo il 1750. Questo stato di cose
segnò tuttavia un precedente, un esempio per tutte le
successive iniziative statali nelle questioni rurali, fino alla
fine dell’epoca sovietica. Dal 1929 il rifiuto sovietico di
trattare e comprendere la società contadina in termini
diversi da quelli di una rigida visione stalinista portò ai
disastri della collettivizzazione, della dekulakizzazione e
della carestia di massa, e contribuì al terrore e all’affanno
permanenti dell’agricoltura sovietica. Questo
atteggiamento, che ebbe più ampie conseguenze
nell’integrazione e nelle relazioni sociali in tutto il periodo
rivoluzionario, sottolinea un dilemma fondamentale e
duraturo che ha inciso profondamente su tutta la storia
della Russia moderna fino al giorno d’oggi: l’impossibilità
di integrazione tra città e campagna. Tuttavia, nei decenni
governati da Pietro, e in quelli immediatamente successivi,
la servitù della gleba, con tutti i suoi difetti, rappresentò
per lo stato un utile strumento che ne sostenne e accrebbe
le capacità di mobilitazione e organizzazione delle risorse,
garantendogli una certa competitività nel mondo
contemporaneo. Gli svantaggi strutturali di una società non
libera non minarono per il momento il potere statale:
l’impero russo, fondato sulla servitù della gleba, si arricchì
internamente e si rafforzò a livello internazionale.
I successori di Pietro (1725-1762):
l’epoca delle rivoluzioni di palazzo
Pietro I morì nel 1725, all’età di cinquantadue anni, per una
malattia della vescica e cancrena, e per l’indecisione dei
suoi dottori. Benché avesse decretato che doveva essere il
sovrano a nominare il proprio successore, Pietro fu
sopraffatto dalla malattia senza aver designato nessuno.
Gli successe la seconda moglie Caterina, una giovane serva
catturata durante la guerra in Livonia. Caterina (con questo
nome era stata battezzata convertendosi all’ortodossia) era
giunta al vertice del potere divenendo prima amante del
favorito dello zar, Aleksandr Menšikov, e poi dello zar
stesso. Fu la madre dei suoi figli, moglie e infine incoronata
nel 1724. La sua ascesa al trono, nonostante le
rivendicazioni dei giovani maschi dei Romanov, fu dovuta
alla pronta azione di Menšikov, che la fece proclamare
zarina dalla Guardia. Questo fu il modello successorio per
il secolo seguente: fino al 1801, i sovrani più stabili e saldi
saranno donne, la metà delle quali giunte al potere
attraverso un colpo di stato, una «rivoluzione di palazzo»
sostenuta dalla Guardia. Il decreto sulla successione a
opera di Pietro, solitamente ritenuto responsabile di questi
avvenimenti, ebbe un’influenza trascurabile: i colpi di stato
riflettevano l’assenza di candidati maschi convincenti e
l’instabilità della politica di corte del periodo. Per ricevere
sostegno nel suo governo, Caterina creò un Supremo
consiglio segreto formato da esperti uomini politici. La
zarina morì nel 1727, lasciando il trono a Pietro II, l’erede
da lei designato, nonché nipote di Pietro I. Ma la notte
prima delle nozze nel 1730, il giovane principe morì
improvvisamente di vaiolo, senza aver nominato un erede.
I membri del Supremo consiglio segreto decisero allora
di offrire la corona ad Anna Ioannovna (Ivanovna), vedova
del duca di Curlandia, nonché nipote di Pietro I, a
condizione che la nuova zarina accettasse di porre limiti
alla sua autorità. In pratica, queste «condizioni»
trasferivano i poteri al Consiglio segreto. Anna, abituata a
condurre una vita povera e isolata tra il suo ducato
baltogermanico e le proprietà in Russia, accettò
immediatamente. Notizie dell’accordo trapelarono fra i
nobili radunati per l’incoronazione di Pietro II e il
Consiglio dovette fidarsi di loro; questi, però, si resero
conto delle evidenti pretese oligarchiche che il Consiglio
stava accampando. Al suo arrivo Anna fu avvertita della
situazione: la zarina si nominò colonnello di uno dei
reggimenti della Guardia e, sostenuta da questa, affrontò
apertamente i consiglieri facendo a pezzi le «condizioni» e
assumendo il potere assoluto. Così fallì miseramente
l’unico tentativo nel XVIII secolo di porre limiti
costituzionali al potere del sovrano. Per conciliare e
premiare la nobiltà Anna alleggerì le condizioni di servizio,
abrogò l’odiata legge sull’eredità, promulgata da Pietro nel
1714, e creò uno speciale Corpo dei cadetti nobili di
fanteria (1730) per offrire ai nobili un’educazione esclusiva.
Abolì, inoltre, il Supremo consiglio segreto, ridando al
Senato la sua dignità di organo supremo del governo.
Anna si portò dietro un seguito di cortigiani
baltotedeschi, tra cui il suo favorito, Ernst Bühren (Biron).
Il suo regno (1730-1740) rimase tristemente noto come
un’epoca di tirannia straniera, la bironovščina («il malefico
regno di Biron»), ma in realtà, a parte un certo numero di
tedeschi influenti, la sua amministrazione non fu né
particolarmente tedesca né particolarmente tirannica. La
sua cattiva reputazione fu costruita a posteriori dai
pubblicisti di colei che salì successivamente al trono: la
figlia nubile e spensierata di Pietro, Elisabetta (Elizaveta
Petrovna, 1741-1761), giunta al potere grazie a un colpo di
stato nel 1741. In quei casi denigrare il proprio
predecessore era tappa obbligata. Con il sostegno di
Francia e Svezia, ma in nome di una causa «nazionale» e
«petrina» contro gli «stranieri», Elisabetta prese il potere,
rovesciando e imprigionando il piccolo Ivan VI, pronipote
di Anna ed erede designato, insieme con la madre e
reggente tedesca. Non avendo figli, la nuova imperatrice
chiamò il nipote Karl Peter Ulrich a San Pietroburgo e lo
nominò suo erede legittimo: era il figlio di sua sorella Anna
Petrovna, duchessa di Holstein. Alla morte di Elisabetta nel
1761, Karl Peter le succedette come Pietro III, ma non
seppe gestire i suoi appoggi politici e nel giro di sei mesi fu
deposto dalla moglie, Sophie Auguste Friederike,
principessa di Anhalt-Zerbst, meglio nota come
l’imperatrice Caterina II (1762-1796). Il deposto monarca
morì poco dopo, ufficialmente per una «colica
emorroidale», in realtà in una rissa con le guardie che lo
custodivano.
Le riforme di Pietro I avevano desacralizzato la
monarchia agli occhi dell’élite e i legittimi sovrani potevano
ora essere deposti, anche con futili pretesti, da rivali più
abili o meglio organizzati. I nuovi reggimenti delle guardie
agivano come pretoriani o giannizzeri. Le lotte tra frazioni
a corte resero instabile il potere di quei sovrani che non
riuscivano ad affermarsi politicamente in fretta: è il caso di
parlare di una vera e propria politica della corte
autocratica. Ma questo non incrinò in alcun modo la
stabilità dell’autocrazia in quanto istituzione: come
dimostrarono i fatti del 1730, in epoca imperiale l’élite non
vedeva un’alternativa auspicabile al patto con la corona, che
le garantiva privilegi in cambio del riconoscimento del
diritto esclusivo di un sovrano autocratico.
Le relazioni internazionali: 1752-1763
Le turbolenze che seguirono la morte di Pietro non
alterarono la posizione internazionale della Russia, né
ostacolarono la sua costante ascesa verso il ruolo di grande
potenza. La Russia era adesso ben inserita nei giochi di
potere europei, mentre prima vi era stata coinvolta solo in
maniera marginale. In breve tempo fu strettamente legata
anche alle reti diplomatiche europee: mentre i sovrani
moscoviti precedenti, salvo rare eccezioni, non avevano
avuto stabili rappresentanti all’estero, Pietro e i suoi
successori inviarono delegazioni diplomatiche, aprirono
consolati e accolsero a San Pietroburgo ambasciatori di
altre potenze straniere. Pietro rese la Russia potenza
regionale dominante nel nord, e con i suoi successori,
anche grazie alle vittorie nella Guerra dei sette anni, il
paese assunse sempre maggiore importanza, fino a
divenire, nei decenni che precedettero la Rivoluzione
francese, una delle principali potenze territoriali europee.
La politica matrimoniale adottata dalla corte all’epoca di
Pietro il Grande sottolinea lo stato di «parvenu» della
Russia nell’ambito delle relazioni internazionali. I sovrani
moscoviti avevano cercato di rado una moglie all’estero, e le
figlie della casa regnante di solito non si sposavano. Pietro,
invece, si adeguò alla pratica internazionale delle alleanze
matrimoniali. Nel 1711, durante la sua visita in Francia, la
maggior potenza dell’epoca, lo zar offrì sua figlia Elisabetta
in sposa al delfino, proposta rinnovata da Caterina I nel
1725: la Russia sperava così di rimpiazzare la Svezia nel
sistema di relazioni e alleanze internazionali della Francia.
Luigi XV sposò invece Maria Leszczyńska, figlia del
candidato al trono polacco appoggiato dagli svedesi. Per il
figlio di Pietro, Alessio, e per le sue figlie e nipoti il
massimo che si riuscì a ottenere furono esponenti
principeschi minori di origine tedesca: nel 1711 Aleksej
sposò una principessa di Wolfenbüttel, che non fu costretta
nemmeno a convertirsi all’ortodossia, e le fanciulle della
casa reale divennero le duchesse Anna Ioannovna di
Curlandia, Ekaterina Ioannovna di Mecklenburgo e Anna
Petrovna di Holstein, con lo scopo di rafforzare l’influenza
russa sulla costa meridionale del Baltico. Elisabetta rimase
nubile. Un altro segno del prestigio relativo di cui godeva la
Russia fu la questione del titolo imperiale: ci vollero
decenni perché fosse universalmente riconosciuto e fu al
centro di inutili discussioni che guastarono parte dei
rapporti internazionali, soprattutto con la Francia.
Nel 1726 la Russia aderì al trattato ispano-austriaco di
Vienna, che le garantiva aiuto contro gli ottomani.
Nonostante ulteriori negoziati, la Russia combatté contro
la Francia nella Guerra di successione polacca (1733-1735),
cui seguì un conflitto a fianco dell’Austria contro gli
ottomani (1736-1739), grazie al quale, con il trattato di
Belgrado, la Russia riacquistò Azov. Sotto Elisabetta fu
respinto un tentativo di vendetta da parte degli svedesi,
che fece guadagnare territori in Finlandia; poi il paese si
prodigò per ottenere alleanza e sostegno da Austria e
Inghilterra, arrivando a inviare una spedizione militare sul
Reno nel 1748. Gli stretti rapporti con l’Austria
complicarono le relazioni con la Francia ma, dopo la
«rivoluzione diplomatica» che preannunciò la Guerra dei
sette anni (1756-1763), la Russia si trovò in guerra con
Francia e Austria contro la Prussia, sostenuta dagli inglesi.
Furono proprio la determinazione di Elisabetta e il peso
della potenza russa a sconfiggere il nemico e a fiaccare
infine l’abile Federico II di Prussia. Nel 1760 la notizia che
la zarina era malata rese più cauti i generali russi, e la sua
successiva morte nel 1761 salvò Federico dalla completa
distruzione. Come Federico ben sapeva, il successore di
Elisabetta, Pietro III, era un suo fervente ammiratore:
Pietro si ritirò immediatamente dalla guerra, restituì le
terre conquistate e strinse un’alleanza con la Prussia. Salita
al trono, Caterina II ripudiò le azioni di Pietro, ma ancora
debole nel suo ruolo e con la nazione esausta, non riprese
le ostilità: la guerra finì ufficialmente con il trattato di
Hubertusberg del 1763.
La sempre maggior considerazione della Russia a livello
europeo dopo l’annientamento della Svezia rispecchiava
l’affermarsi della sua forza militare e anche alcuni
cambiamenti nell’equilibrio tra le potenze: la Russia avanzò
così tanto proprio perché altri stati non riuscirono a
evitarlo. I francesi furono spesso distratti da altre questioni
e gli Asburgo considerarono la Russia un utile alleato. La
genialità di Carlo XII aveva fatto dimenticare che una
Svezia troppo estesa non aveva le risorse per mantenere la
sua posizione di dominio nella regione. La Polonia aveva
gradualmente perso terreno a livello internazionale e nel
1717 i dissensi tra la corona e la nobiltà che seguirono le
sconfitte di Federico Augusto permisero alla Russia di
controllarne completamente gli affari. La potenza
ottomana aveva raggiunto il suo culmine nel 1683; come
Pietro aveva scoperto a sue spese, era ancora temibile, ma
cominciò a tramontare quando gli ottomani, e i loro vassalli
tatari, non riuscirono a stare al passo con le innovazioni in
campo militare. Le altre potenze emergenti, vale a dire
Prussia e Inghilterra, avevano tutto l’interesse
(rispettivamente geopolitico e commerciale) a mantenere
buoni rapporti con il nuovo gigante del nord. Negli anni
che seguirono la morte di Pietro il Grande, la Russia si era
inserita sempre di più nella politica europea, ma le guerre
degli anni Trenta e Quaranta del Settecento, pur coronate
da qualche successo, non avevano avuto l’impatto della
Grande guerra del nord. La Guerra dei sette anni, invece,
nonostante il finale in sordina per la Russia, aveva di nuovo
messo in risalto, al di là di ogni ragionevole dubbio, la
potenza militare del nuovo impero.
La corona e la nobiltà
Nel 1763, grazie alle riforme di Pietro il Grande, la Russia
disponeva ormai di un gran numero di funzionari nati e
istruiti in patria. Pietro aveva legato a doppio filo la nobiltà
recente al nuovo e oneroso sistema di servizio, da cui
dipendeva la vita stessa dell’élite. Dal regno di Ivan IV il
servizio militare era sempre stato universale, ma
occasionale: i servitori accorrevano quando erano chiamati
a partecipare alla guerra, che in genere consisteva in una
serie di brevi campagne estive. Ora invece il servizio era
diventato a tempo pieno, permanente, e le carriere erano
definite in base alla tabella dei ranghi, un’innovazione che
durò fino al 1917. All’epoca imperiale il prestigio dipendeva
ancora dal lignaggio, ma anche, in misura persino
maggiore, dal rango stabilito dalla tabella. Questa era
composta da tre colonne (forze armate, servitori civili e
corte), ognuna delle quali elencava quattordici ranghi
paralleli, nei quali erano inseriti tutti gli impieghi statali.
La tabella, inoltre, legava in modo indissolubile nobiltà e
servizio: bastava arrivare sufficientemente in alto per
ottenere automaticamente un titolo nobiliare. Il grado
militare più basso (portabandiera), conferiva l’ultimo
rango, il quattordicesimo, nella tabella e garantiva titolo
nobiliare a chi non lo aveva; l’equivalente nella scala civile
era l’ottavo rango: assessore di collegio. La carica di
generale rientrava in uno dei quattro ranghi più alti,
riservati tra i civili solo al cancelliere (capo degli affari
esteri) e ai consiglieri privati del sovrano. Le promozioni
dipendevano dal merito e dall’anzianità di servizio, ma la
prima nomina della tabella riconosceva apertamente i
diritti di nascita. Poiché lo stato creato da Pietro necessitava
di una grande quantità di funzionari per l’esercito e
l’amministrazione, la via del servizio era aperta anche ai
non nobili. Gli aristocratici restavano tuttavia avvantaggiati
e nei decenni che seguirono il 1722 i ranghi più alti furono
prerogativa dei discendenti delle antiche famiglie
moscovite.
Con la morte di Pietro il rigore del sistema si allentò
immediatamente. Nel 1725, dopo l’ultima guerra contro la
Persia (1723-1724), la Russia era in pace, ma il paese era
ormai stremato. Il governo si dimostrò subito attento alla
difficile situazione dei contadini contribuenti e al bisogno
dei funzionari di avere a disposizione un po’ di tempo
libero per occuparsi dei propri affari privati: fu introdotto
rapidamente un sistema di licenze, segnando l’inizio di
una graduale e costante diminuzione del peso del servizio
nobiliare. Oltre ad abolire la legge sull’eredità del 1714 e a
unificare i diritti di votčina e quelli di pomest’e, Anna limitò
a venticinque anni il servizio dei nobili. In che modo l’élite
dovesse prestare servizio rimase tuttavia questione
rilevante per tutta la prima metà del secolo: con
l’alleggerirsi del sistema e il prosperare dell’economia, i
nobili cominciarono a dedicarsi sempre più ad altre
attività. Inoltre, l’urgenza che aveva spinto Pietro a
mobilitare ogni uomo disponibile non era più attuale: il
paese aveva ormai un numero sufficiente di ufficiali e
funzionari civili. Siccome sotto Elisabetta rifiutarsi di
servire era pratica illegale ma molto diffusa, si affrontò il
problema riunendo fra il 1754 e il 1766 una Commissione
legislativa che ricodificasse la legge statale. La bozza
elaborata dalla Commissione includeva la proposta di
cancellare il servizio obbligatorio; ma essa non fu mai
promulgata. Nel 1762, conclusa la Guerra dei sette anni, le
norme proposte furono incorporate in un manifesto che
Pietro III pubblicò poco prima della sua deposizione e che
aboliva completamente il servizio obbligatorio. Fu un
punto di svolta per la storia sociale della Russia. Da quel
momento i nobili erano obbligati a servire solo in periodi
di emergenza, e a garantire che i loro figli fossero
ugualmente pronti, rischiando altrimenti di cadere in
disgrazia e di venire esclusi dalla corte. Nei periodi
normali, però, tutti i nobili potevano decidere se servire o
no a loro piacimento. Molti continuarono a farlo: godeva di
grandi ricchezze solo un ristretto numero di magnati,
mentre la maggior parte dei nobili era povera, non
possedeva che pochi servi e a volte nemmeno un terreno.
Lo stipendio era una garanzia e il servizio, in quanto
prerogativa dei nobili, era considerato una via privilegiata
con cui acquisire favore e influenza. Ma in generale la
nobiltà diventò ora una classe di agiati proprietari terrieri,
che potevano dedicarsi ai propri possedimenti e ad attività
nate con la nuova cultura europeizzata dell’epoca
successiva alla morte di Pietro.
La nuova cultura
Prima di Pietro, la nobiltà condivideva la cultura
tradizionale della Moscovia che si basava sul Cristianesimo
ortodosso. Come abbiamo visto, durante il XVII secolo ci
furono le prime avvisaglie di un mutamento culturale,
mentre negli ultimi decenni del secolo cominciarono a
emergere nuove forme letterarie: «drammi scolastici» e
racconti popolari profani, cui si aggiunsero ulteriori segnali
della crescente secolarizzazione dell’élite, come il declino
della fede nei miracoli. Ma la visione che l’élite aveva del
mondo circostante era ancora sostanzialmente religiosa, e
si trattava di una cultura condivisa da ogni strato della
società. Le riforme di Pietro promossero ulteriori
cambiamenti e svilupparono, a corte e negli ambienti
aristocratici, una nuova cultura di tipo europeo. Oltre a
imporre nuovi requisiti per il servizio, il governo
intervenne direttamente anche nella vita quotidiana,
prescrivendo norme e regole che riguardavano la cultura
personale, l’aspetto esteriore, i titoli ufficiali e le dignità
pubbliche. Questo atteggiamento trovò la sua massima
espressione nella nuova capitale, San Pietroburgo. Pietro
costrinse magnati, nobili e mercanti a trasferirsi nel suo
«paradiso» ancora in costruzione e a erigere loro stessi
nuove case, secondo un progetto prescritto. Nei luoghi
pubblici furono esposti manichini a dimostrazione delle
nuove mode imposte. Lo zar, sebbene di gusti molto
frugali, pretendeva dai suoi maggiori cortigiani consumi e
lussi. Dedito in prima persona a baldorie
abbondantemente innaffiate di alcol, Pietro I istituì nel
1718 riunioni speciali per la nobiltà dette assamblei
(termine derivato dal francese): questi incontri si tenevano
in case private, in cui gli ospiti si dedicavano alla politesse,
vale a dire all’arte della conversazione, al gioco delle carte,
alla danza e all’intrattenimento delle dame. Queste ultime
vennero strappate dalla segregazione del terem e costrette a
unirsi agli uomini, in un’atmosfera di educata cordialità,
dove si suonava musica strumentale straniera, infrangendo
la secolare condanna ortodossa di simili diabolici
passatempi. (La politesse, con tante altre cose, era
obbligatoria: alle porte venivano poste delle guardie per
assicurarsi che nessuno andasse via troppo presto, e gli
ospiti – uomini e donne – che mancavano o si
comportavano «in modo improprio» potevano subire
punizioni.) Nel 1706 apparve il primo manuale di scrittura
epistolare e nel 1717 fu stampato un galateo intitolato
L’onorevole specchio della gioventù.
In questo processo il ruolo delle donne aristocratiche
mutò notevolmente rispetto alle vecchie tradizioni, in
genere molto restrittive. Così scrisse un osservatore
straniero a proposito della vita di provincia negli anni
Sessanta del Seicento: «Le donne sono tenute recluse come
schiave e devono lavorare tutto il giorno. Nessun uomo
può guardarle in viso e le figlie vengono maritate senza che
le abbia mai viste il fidanzato». Nel 1700 le donne che
vivevano in città furono obbligate a indossare nuovi vestiti
di foggia europea e nel corso del regno, soprattutto a San
Pietroburgo e a corte, si diffusero anche altre
caratteristiche della buona società occidentale. Nel 1724 un
altro osservatore straniero scriveva sulla vita di corte: «La
donna russa, fino a poco tempo fa rozza e ineducata, ha
subito un tale miglioramento che non ha ora più niente da
invidiare alle signore tedesche o francesi in fatto di
raffinatezza e buone maniere, e sotto certi aspetti, è
persino loro superiore». Ma lontano dallo sguardo dello
zar, i cambiamenti avvenivano in maniera più graduale e
discontinua (con maggior lentezza tra i cittadini di rango
non nobiliare), e a uniformarsi per primi furono gli aspetti
esteriori, non la mentalità; tuttavia, le fondamenta erano
ormai poste. Le donne ottennero anche un maggior
controllo sulla loro vita: i matrimoni forzati o troppo
precoci, ad esempio, furono vietati ufficialmente, e le
donne russe, rispetto alle loro contemporanee europee,
godettero di un incredibile potere decisionale riguardo alle
loro proprietà.
Le riforme di Pietro trasformarono i timidi mutamenti
culturali non ufficiali del XVII secolo in un fiume in piena
decretato per legge. Le nuove mode e i nuovi usi imposti,
in effetti, obbligavano i nobili a comportarsi come stranieri
nel proprio paese. Ma il nuovo regime, se da un lato
screditava le usanze tradizionali, dall’altro non
comprendeva ogni aspetto della sfera privata e personale.
Così, verso la fine del secolo, l’élite cercò di trovare nuovi
valori morali e filosofici tali da giustificare il proprio status.
Queste novità provocarono, però, anche una forte
resistenza: la maggior parte della nobiltà, che in casa
spesso ritornava ai vecchi vestiti moscoviti, non perse
completamente il contatto con la cultura popolare,
circondata com’era dai contadini e dalla vita che si svolgeva
sulle sue proprietà. L’osservanza religiosa, inoltre, continuò
a rappresentare una parte importante della loro esistenza.
Tuttavia, grazie a educazione e abitudini, nell’arco di una
generazione i nobili si adattarono alle loro nuove funzioni
e al loro nuovo aspetto: avevano interiorizzato le norme
pubbliche e i comportamenti derivati, di seconda mano,
dalla cultura europea del tempo.
La cultura e la mentalità dell’élite russa del XVIII secolo
subì, dunque, una rapida evoluzione. Cento anni dopo il
taglio della barba di Pietro nascerà Aleksandr Puškin
(1799-1837), futuro poeta nazionale russo, uno scrittore
europeo a tutti gli effetti: colto, cosmopolita e dandy,
Puškin era un uomo di mondo nel senso più ampio del
termine. Nelle prime fasi, fino a metà del secolo, furono
poste le fondamenta. In questo processo di acculturazione,
il sostegno e la fruizione di cultura da parte dell’élite
furono fondamentali, sebbene, stranamente, si sappia
ancora poco della corte imperiale in quanto istituzione. Il
mecenatismo di Pietro nei confronti della pittura e
dell’architettura incoraggiò i talenti stranieri e, più tardi,
quelli russi, tra cui il ritrattista Ivan Nikitin. Pietro e sua
sorella Natal’ja sostennero anche i primi teatri pubblici:
più tardi, nel 1757, fu creata una compagnia teatrale di
stato. Negli anni Trenta del Settecento le compagnie
straniere d’opera e ballo, con le loro relative orchestre,
divennero ospiti fisse della corte (con costi altissimi);
contemporaneamente (1738), Anna fondò una scuola per
cantanti russi, allo scopo di mantenere viva la tradizione
della musica corale indigena. Questa fu anche un’epoca di
grandi dibattiti sulla lingua e sulle forme letterarie più
adatte alla poesia e al teatro, pensate soprattutto per le
feste a corte: nel 1731 l’Accademia delle scienze pubblicò il
primo dizionario e all’interno dell’Accademia fu fondata
un’Assemblea russa (1735-1741) per migliorare la lingua
delle traduzioni, che iniziarono a proliferare. Aleksandr
Sumarokov, autoproclamatosi il «Racine russo», tradusse
l’Art poétique di Boileau e scrisse versi e drammi neoclassici
per esemplificarla. Le istituzioni educative vennero
ampliate e la pratica di ingaggiare precettori privati
stranieri (notoriamente di qualità davvero disparate) si
diffuse tra i nobili di più alto rango. Funzionari statali
come il direttore delle miniere Vasilij Tatiščev (morto nel
1750) diffusero conoscenze scientifiche e ingegneristiche
anche in provincia. Tatiščev, che viveva a Ekaterinburg e
amministrava l’industria metallurgica statale degli Urali, si
era laureato a Uppsala in Svezia: fu geografo, statistico,
naturalista e storico, e mantenne buoni rapporti con
l’Accademia delle scienze.
Sebbene l’Università dell’Accademia vivacchiasse, nel
1755 ne fu fondata un’altra a Mosca che divenne (ed è
ancora oggi) il più importante istituto di istruzione
superiore in Russia. I suoi creatori furono il colto
cortigiano Ivan Šuvalov, un favorito dell’imperatrice
Elisabetta, interessato all’educazione e alla vita
intellettuale, e lo straordinario genio Michail Lomonosov,
l’«uomo universale» della Russia. Figlio di un pescatore e
mercante di pesce benestante del Mar Bianco, formalmente
un contadino, Lomonosov imparò a leggere da alcuni
parenti e da un prete locale, nascose le sue origini per
potere ricevere un’istruzione secondaria a Mosca, studiò a
San Pietroburgo e fu mandato all’università in Germania.
Fu uno dei primi membri russi dell’Accademia delle
scienze, che alla metà del secolo cominciò ad avere tra le
sue file anche studiosi nativi, e compì un importante lavoro
pionieristico in una grande varietà di campi (chimica, fisica,
storia, grammatica, poesia di corte, fabbricazione del vetro
e mosaico), oltre a occuparsi direttamente
dell’amministrazione dell’Accademia. Lomonosov scalò la
tabella dei ranghi, diventando infine consigliere di stato
(rango quinto), nobile e proprietario di servi. La sua fu una
carriera unica, ma comunque sintomatica della rapida
evoluzione del periodo.
Accanto alle belles lettres fecero la loro apparizione le
prime opere sulla storia della Russia, parte di un mercato
librario in espansione, benché ancora molto limitato, che
includeva anche i primi giornali letterari. Nel 1757 fu
fondata un’Accademia delle arti. Le lingue straniere
divennero di moda, prima fra tutte naturalmente il
francese, la lingua dell’eleganza, della diplomazia e di
Versailles. (Il latino fu confinato nei seminari ecclesiastici.)
La maggioranza di questi processi riguardò le capitali, la
più alta nobiltà e l’aristocrazia, mentre i nobili di basso
rango non erano ancora a loro agio con queste novità:
l’aristocratico di provincia Andrej Bolotov, che in seguito
diverrà un famoso agronomo e memorialista, racconta del
suo stupore quando da giovane, durante la Guerra dei sette
anni, vide per la prima volta una libreria piena di volumi a
Königsberg.
Nelle famiglie nobili più colte anche alcune donne
studiavano le lingue e leggevano libri, cimentandosi
addirittura in ambito letterario. Le prime poesie pubblicate
da una donna, Ekaterina Sumarokova, apparvero nel 1759
sulla «Trudoljubivaja pčela» (Ape operosa), la rivista del
padre drammaturgo Aleksandr Sumarokov. Tutto questo
preannunciò l’ascesa al trono nel 1762 dell’autrice più
prolifica del secolo, Caterina II, un’«intellettuale con la
corona».
www.librimondadori.it