Alla luce dell’approccio olistico, ci sono due punti cardine per lo sviluppo motorio:
1. L’analisi della relazione tra sviluppo motorio e componenti specifiche dello sviluppo cognitivo
2. L’approccio multidisciplinare
Il movimento è causa ed effetto di cambiamenti cognitivi, percettivi e sociali. Esso è osservabile e misurabile
direttamente. i comportamenti motori implicano anche un controllo adattivo che coinvolge corpo e
ambiente attraverso processi di percezione, di apprendimento, di decision making e di interazione sociale.
Per questo, la strutturazione dell’ambiente e l’organizzazione di opportunità d’interazione influenzano lo
sviluppo di nuove capacità motorie.
Esistono tre macro-approcci teorici: maturativo, cognitivo ed ecologico che riprendono le tre età
metaforiche:
Gli studi di Gesell e McGraw s’inseriscono nell’approccio maturativo. Essi spiegano lo sviluppo motorio
come processo innato e articolato in stadi che possono essere accelerati o ritardati.
Piaget poi considera i primi 18 mesi di vita (=stadio senso-motorio) come la fase in cui il soggetto costruisce
la conoscenza del mondo.
Thomas, infine, si occupa dell’attenzione, della memoria e della pianificazione per controllare il movimento,
che fanno parte dell’elaborazione delle informazioni. All’interno di questa prospettiva, l‘esecuzione di un
atto motorio è spiegata come un processo di risoluzione di problema caratterizzato da una sequenza
coordinata di movimenti finalizzati a raggiungere un obiettivo. Per ciò, c’è una successione di fasi:
elaborazione di input sensoriali, pianificazione dell’azione, selezione di strategie motorie, esecuzione
motoria finale.
Alle tre età individuate, se ne aggiunge una quarta che corrisponde alla realizzazione di un approccio
multidisciplinare. Si studia quindi l’influenza delle capacità motorie sullo sviluppo delle funzioni esecutive.
Da qui, si individuano spiegazioni fisiologiche: le attività motorie favoriscono l’aumento del volume e della
velocità del flusso sanguigno cerebrale e sono rilevanti per le funzioni esecutive. E spiegazioni psicologiche:
l’azione sportiva sviluppa emozioni positive che, insieme al confronto con altri, migliorano la percezione
della competenza fisica.
- Schemi motori di base: hanno dinamicità e si sviluppano nelle tre dimensioni dello spazio e nella
dimensione del tempo
- Schemi posturali: possono essere statici o dinamici, si sviluppano nelle tre dimensioni di spazio.
- Capacità motorie: indicano le caratteristiche fisiche, motorie o sportive che consentono
l’apprendimento e l’esecuzione delle azioni motorie. Comprendono le capacità senso-percettive
(rapporto tra corpo e mondo esterno), condizionali (processi di produzione, trasporto e uso
dell’energia per il movimento. Si articolano in tre sistemi: capacità di forza, velocità e resistenza),
coordinative (sovrintendono ai processi di controllo e di regolazione dei movimenti grossolani, che
richiedono ampia muscolatura, e fini, coinvolgono muscoli circoscritti) e di mobilità articolare.
I primi due si sviluppano per primi e servono per l’acquisizione delle componenti motorie successive.
A partire dalla rivoluzione cognitiva avviata negli anni Sessanta del secolo scorso, lo studio delle emozioni è
divenuto oggetto di ricerca scientifica al pari di altre funzioni psicologiche (es. la memoria). Molto studiosi
hanno contribuito alla definizione di emozione come processo multi-componenziale. L’affermarsi delle
neuroscienze ha portato interesse nel rapporto tra attività di particolari strutture cerebrali e corrispettive
esperienze emozionali.
Lo sviluppo emotivo:
Nell’affrontare lo studio delle emozioni nei bambini, ci s’imbatte in numerosi problemi metodologici. Di
seguito sono elencate le prospettive teoriche sullo sviluppo emotivo.
1. La teoria differenziale:
È sostenuta da Izard che afferma l’esistenza di un certo numero di emozioni innate e universali detto set di
emozioni primarie. Il set comprende paura, collera, gioia, tristezza e disgusto. Le emozioni non di base
(emozioni complesse o secondarie) includono diversi stati emotivi come vergogna, colpa, imbarazzo,
orgoglio ecc. e si presentano in relazione all’emergere della consapevolezza di sé e quindi alla fine del 1°
anno di vita.
Secondo la prospettiva differenziale, le emozioni primarie emergono strutturate come totalità. Le
espressioni facciali, poi, sono dirette manifestazioni delle esperienze emotive in corso: esiste una
concordanza biunivoca e innata tra espressione facciale ed esperienza emotiva. Izard aderisce al feedback
facciale: sostiene che il feedback corporeo-muscolare e le espressioni facciali contribuiscono a generare
esperienze emotive. Inoltre, la concordanza espressione/esperienza emotiva garantisce la comunicazione
sociale da parte del bimbo.
3. L’approccio funzionalista:
È rappresentato da Barrett e Campos. Esso sottolinea la natura funzionale delle emozioni nella regolazione
delle interazioni individuo - ambiente. In particolare
- La funzione biologica ha a che fare con la sopravvivenza degli individui
- La funzione comunicativa è stata approfondita studiando il fenomeno del riferimento sociale
(attraverso l’osservazione dell’espressione facciale materna, il bambino, in situazioni di pericolo,
mostra tale espressione)
- La funzione di informare circa il raggiungimento di scopi e desideri in precise situazioni contestuali.
Il contesto è fondamentale per dare significato a esperienze ed espressioni
2
Lo sviluppo della competenza socio-emotiva:
Gli studiosi si concentrano sul ruolo che le esperienze emotive hanno nella vita. Questo ha caratterizzato sia
la ricerca sociologica centrandosi sul concetto di “cultura emotiva”, sia gli studi psicologici finalizzati alla
misurazione del cosiddetto “quoziente emotivo” o intelligenza emotiva.
La competenza socio-emotiva è costituita da un insieme di abilità necessarie per essere efficaci nelle
transazioni sociali che producono emozioni e in cui gli eventi assumono significato. Saarni parla di 8 abilità:
1. consapevolezza del proprio stato emotivo
2. capacità di riconoscere le emozioni degli altri
3. abilità di usare il lessico emotivo
4. capacità di coinvolgimento empatico e simpatia nelle esperienze altrui
5. comprensione che stati emotivi interni non trovano per forza corrispondenza nell’espressione
visibile esterna
6. capacità di far fronte alle emozioni a valenza negativa
7. consapevolezza che qualità delle relazioni sociali è collegata alla comunicazione emotiva tra partner
8. senso di autoefficacia emotiva
Queste sono state ricondotte a tre macroaree:
1. L’espressione emotiva: è la manifestazione esterna delle emozioni che si realizza attraverso i canali
della comunicazione non verbale e verbale.
2. La regolazione emotiva: concerne i processi estrinseci e intrinseci coinvolti nel monitoraggio,
valutazione e modifica delle reazioni emotive rispetto ai parametri di intensità e durata.
3. La comprensione delle emozioni: riguarda la conoscenza della natura delle emozioni, delle cause
che le provocano e delle strategie che si possono utilizzare per regolarle.
2.1
Lo sviluppo dell’espressione delle emozioni:
L’espressione delle emozioni avviene tramite canali comunicativi e segnali verbali e non. Nella
comunicazione emotiva, importanti sono il volto, lo sguardo, i gesti, i movimenti corporei, la voce e il
contatto, approfonditi da autori del filone di ricerca sull’intersoggettività (Thelen, Fogel) e che hanno
individuato le principali fasi di sviluppo dell’espressività emotiva.
1. Prima fase: è rappresentata da risposte presenti dalla nascita e fondamentali per la sopravvivenza
che sono di tipo riflesso e regolate da processi biologici. Per quanto riguarda l’espressione emotiva,
si parla della comparsa del sorriso endogeno o automatico che si presenta in assenza di stimoli
esterni
2. Seconda fase (2 mesi-1 anno): compaiono comportamenti espressivi non intenzionali che
divengono sempre più intenzionali e funzionali allo sviluppo psicologico del bimbo. In questo
periodo compaiono il sorriso sociale, attivato dal volto umano proteso verso il bambino e dalla voce
umana caratterizzata da toni alti, la sorpresa, la rabbia. In questo periodo si verifica per Izard la
comparsa della vergogna
3. Terza fase (2- 3 anni): Compaiono le espressioni di emozioni sociali o complesse come la vergogna,
l’imbarazzo e la colpa. A partire dai 15 mesi c’è manifestazione visiva del disprezzo, e l’espressione
di emozioni miste. Negli anni successivi, l’espressione delle emozioni può essere controllata e
modificata volontariamente per adeguarsi alle aspettative e agli standard culturali di riferimento.
Queste modificazioni sono dette “regole di esibizione” e consentono al soggetto di apparire
adeguato al contesto sotto il profilo emotivo.
A 2 anni i bambini sono in grado di mascherare i pattern espressivi facciali. A 6 anni, i bambini mostrano
ancora difficoltà nel celare i sentimenti reali e nel modulare l’espressione dei vari stati emotivi in funzione
delle circostanze sociali, un’abilità che continua a svilupparsi in età scolare.
2.2
Lo sviluppo della regolazione delle emozioni:
Thompson definisce la regolazione delle emozioni come l’insieme dei processi coinvolti nel monitoraggio e
nella modifica delle risposte emotive. Grazie a questi processi, gli individui possono attingere alle risorse in
loro possesso per far fronte alle svariate situazioni ambientali nel modo più efficace possibile.
Tronick, a metà degli anni Settanta ha messo a punto un paradigma sperimentale chiamato still face
paradigm per osservare, in condizioni controllate, l’interazione tra madre e bambino. Emerge che a partire
dai 2 mesi i bambini mostrano uno stato di confusione e disagio dovuto al fatto di non riuscire a provocare
nella madre la consueta reazione, quando questa assume l’espressione del “volto immobile”. I
comportamenti del bambino nel ridurre il proprio disagio possono essere:
Tronick ha proposto un modello di regolazione reciproca secondo cui il bimbo è un sistema autorganizzato
che sa regolare le emozioni nella comunicazione con la madre. Nell’interazione, madre e figlio creano un
sistema diadico di mutua regolazione: se la regolazione materna viene meno, il bambino modifica le sue
modalità comunicative.
Anche per la regolazione emotiva è possibile individuare alcune fasi principali del processo evolutivo:
1. Prima fase (0-1 anno): il ruolo esterno dell’adulto è fondamentale per fare un significato alle
esperienze del bambino. Molto presto si osservano condotte auto-regolatorie, come la suzione del
pollice per calmarsi o il distogliere lo sguardo da uno stimolo molto eccitante. Tali condotte nel
corso del primo anno di vita acquistano un carattere di maggiore intenzionalità
2. Seconda fase (1-3 anni): periodo importante per l’acquisizione delle competenze motorie,
cognitive, linguistiche ed emotivo-affettive. Il bambino inizia ad esplorare l’ambiente, a comunicare
anche verbalmente. Si evitano situazioni indesiderate, si cerano alcune persone, si ricerca contatto
fisico. L’adulto sostiene il bimbo
3. Terza fase (3-5 anni): fase di incremento delle capacità linguistiche e cognitive, di sviluppo della
Teoria della mente ovvero di abilità nell’assumere la prospettiva dell’altro che viene riconosciuto
come persona dotata di un mondo interno costituito da pensieri, credenze, emozioni. In questo
periodo è in grado di gestire le proprie emozioni durante il gioco e di alleviare la tristezza dei
compagni con atteggiamenti consolatori
4. Quarta fase (dopo i 5-6 anni): abilità di autoregolazione si accrescono. Il bambino utilizza varie
strategie di regolazione emotiva grazie al crescere della comprensione emotiva. Tra i 6 e i 10 anni
l’uso di strategie cognitive e di meccanismi di difesa nell’autoregolazione diviene più marcato,
consentendo un buon adattamento alle situazioni d’interazione con gli adulti e con i pari
5. Quinta fase (dalla pre-adolescenza): esperienze emotive, anche in relazione allo sviluppo ormonale
e neurologico, si fanno particolarmente intense. Ci sono stili di regolazione emotiva personali
2.3
Lo sviluppo della comprensione delle emozioni:
Denham ha mostrato come bambini di 2/3 anni sappiano affrontare sia compiti in cui viene chiesto di
nominare le emozioni di base osservando le espressioni facciali sia prove di riconoscimento dell’espressione
emozionale a partire dall’etichettamento verbale.
Harris e collaboratori hanno indagato 9 componenti che riguardano la comprensione di: espressione
facciale, influenza dei ricordi, ruolo dei desideri ecc. Gli autori hanno proposto un modello di sviluppo della
comprensione delle emozioni che copre la fascia 3-11 anni ed è costituito da tre fasi e che racchiudono le
nove componenti:
- Livello esterno: raggiunto dai bimbi tra 3-5 anni
- Livello mentale: raggiunto tra 5/6 e 8 anni
- Livello riflessivo: raggiunto entro 10/11 anni.
Gli studiosi si sono chiesti quali siano le cause dei diversi ritmi evolutivo nello sviluppo della comprensione
delle emozioni, individuandoli primariamente nei processi di socializzazione emotiva.
3
La socializzazione emotiva:
I primi studi sulla socializzazione emotiva risalgono agli inizi degli anni 80 dove è stato posto l’accento
sulle strategie degli adulti che interagiscono con il bambino per promuoverne la competenza emotiva.
La ricerca in questo ambito si è focalizzata su:
- I contenuti: vengono socializzati → etichettamento verbale delle emozioni, riconoscimento negli
altri e in sé stessi di vissuti emotivi
- I processi di insegnamento-apprendimento
Ha riguardato poi:
- La socializzazione emotiva genitoriale, mettendo a fuoco il contesto familiare;
- Contesto culturale, approfondendo le pratiche di socializzazione più diffuse nelle diverse culture;
- Modalità socializzanti che si realizzano in contesti educativi extrafamiliari
3.1
La socializzazione emotiva in famiglia:
Il tema della socializzazione emotiva è stato approfondito anche da Gottman che ha definito filosofia della
meta-emozione l’insieme di opinioni e convinzioni sulle emozioni che un adulto ha.
Vi sono due filosofie meta-emotive dei genitori:
1. Guida delle emozioni
2. Messa al bando delle emozioni
Le differenze tra le due riguardano il grado di consapevolezza delle emozioni proprie e del proprio figlio, la
capacità di assistere il bambino durante l’esperienza emotiva.
Le ricerche hanno rivelato che i figli di genitori coaching risultino socialmente più competenti e siano più
capaci di abbassare il livello delle emozioni a valenza negativa.
La socializzazione emotiva avviene dunque sia attraverso l’osservazione del comportamento espressivo
verbale e non verbale del genitore, sia per mezzo degli insegnamenti esplicitamente forniti, sia in virtù delle
stesse reazioni prodotte di fronte alle manifestazioni emotive del bambino. Per questo, Morris propose un
modello tripartito dei processi di socializzazione emotiva che si focalizza sull’osservazione dei
comportamenti dei famigliari, sulle pratiche nei confronti delle esperienze ed espressioni emotive dei figli e
sul clima emotivo famigliare. Questi tre sono considerati in relazione all’impatto che hanno sulla
regolazione emotiva del bambino che svolge un ruolo sull’adattamento sociale.
3.2
La socializzazione emotiva nei contesti extrafamiliari:
Durante l’età prescolare i contesti extrafamiliari diventano più importanti per lo sviluppo del bambino. I
bambini acquisiscono conoscenze sulle emozioni nelle interazioni quotidiane con gli insegnanti e i pari.
Le insegnanti hanno la funzione di facilitazione dello sviluppo della competenza socio-emotiva dei bambini.
Infatti, livelli elevati di supporto emozionale dell’insegnante sono associati a migliori abilità emotive dei
bambini.
Per quanto riguarda il modeling, l’espressività negativa degli insegnanti è negativamente correlata con
l’espressività positiva dei bimbi più grandi d’età prescolare. Rispetto al contingency, è emerso che gli
insegnanti incoraggiano o no l’espressione emotiva dei bimbi. Per quanto riguarda la modalità del teaching
(simile al coaching) recenti studi approfondiscono il ruolo di particolari pratiche o formati educativi nello
sviluppo di competenze socio-emotive dei bambini.
Capitolo terzo: i legami di attaccamento nel ciclo di vita.
La teoria dell’attaccamento giunge a una sua prima formulazione tra 1970-1980 con la trilogia di John
Bowlby intitolata “Attaccamento e perdita”; e i lavori osservativi di Mary Ainsworth sulle prime relazioni
madre-bambino. Essa può essere considerata una teoria dello sviluppo della personalità basata sull’analisi
dei percorsi evolutivi e delle differenze individuali. Questa teoria rappresenta un cambio di paradigma
basato sui contributi più innovativi della cultura scientifica del suo tempo quali l’etologia, la psicologia
cognitiva, la teoria dell’informazione e la biologia evoluzionista.
L’ipotesi chiave è che il bambino sia dotato di una predisposizione biologica innata a costruire legami di
attaccamento ricercando prossimità e contatto fisico con i suoi caregivers per ottenere conforto e
protezione sia a livello fisico che emotivo. Tale tendenza, funzionale alla sopravvivenza, gli permette di
raggiungere quella sicurezza, utilizzando la figura di attaccamento, che costituirà il fondamento delle
competenze relazionali ed emotive che svilupperà nel corso della vita.
Gli studi condotti negli anni 40-50 evidenziano gli effetti negativi di una precoce separazione dalla madre o
di deprivazione dalle sue cure sulla salute mentale del bambino → studi di Anna Freud sugli orfani della II
Guerra Mondiale, quelli di Spritz sui bambini ospedalizzati che ne evidenziano le reazioni tipiche costituite
da protesta, disperazione, distacco rispetto alla separazione dalla madre.
Bowlby evidenzia come la carenza di cure materne può avere conseguenze rilevanti sullo sviluppo della
personalità e sull’insorgenza di gravi disturbi. Secondo lui poi, alla base di comportamenti delinquenziali
degli adolescenti, ci siano prolungate esperienze di deprivazione affettiva nell’infanzia, con conseguente
sviluppo di ritiro emotivo e anaffettività.
La considerazione di Bowlby per gli studi osservativi sulla relazione madre-bambino lo portano a rimanere
colpito e influenzato dalle ricerche che erano condotte da Lorenz e poi da Harlow nell’ambito della
psicologia comparata e dell’etologia, una disciplina, quest’ultima, volta a studiare il comportamento degli
animali nel loro ambiente naturale. Cruciale in ciò è l’esperimento di Harlow con giovani scimmie da cui
emerse che la ricerca del contatto fisico e della protezione sia prioritaria nell’infanzia rispetto ad altri
bisogni quali la ricerca di cibo.
2
Sviluppo e tipologie di attaccamento:
Bowlby ipotizza che il bambino sia spinto a formare legami di attaccamento con figure capaci di
proteggerlo, essendo dotato di modalità comunicative quali il pianto, il sorriso, le vocalizzazioni, in grado di
attivare l’intervento dei caregivers, conquistandosi la loro protezione. Tali modalità si articoleranno in
concomitanza con lo sviluppo delle capacità locomotorie, in comportamenti volti a conquistarsi la
prossimità con i caregivers. Parallelamente a tali comportamenti il bambino sviluppa anche un approccio
esplorativo verso l’ambiente, reso possibile dal disporre di una figura da utilizzare come base sicura per
l’esplorazione in situazioni di tranquillità. Si struttura un sistema di attaccamento che ha lo scopo di
mantenere un equilibrio omeostatico tra prossimità al caregiver in condizioni di pericolo o stress e
distanziamento dal caregiver ed esplorazione dell’ambiente in condizione di assenza di stress.
Il caregiver deve rispondere alle richieste di vicinanza e protezione del bambino in modo sensibile,
aiutandolo nella regolazione delle emozioni di paura e stress, assecondandone al contempo il distacco da
lui e la conseguente esplorazione dell’ambiente in tranquillità.
Bowlby e Ainsworth studiano l’evoluzione dello sviluppo dei legami di attaccamento, distinguendo
differenti fasi nei primi anni di vita.
1. Prima fase (0-2 mesi): bambino è in grado di esprimere i suoi bisogni di attaccamento, attraverso il
repertorio comunicativo che ha a disposizione (pianto, sorrisi, vocalizzi)
2. Seconda fase (3-6 mesi): il bambino inizia a privilegiare le figure familiari e in particolare la figura
che si occupa di lui
3. Terza fase (6 mesi- 2 anni): orientamento preferenziale verso una o più figure di attaccamento si
definisce in modo specifico anche grazie all’acquisizione delle capacità locomotorie (gattonare e
camminare). Il bambino sviluppa ansie di separazione quando tali figure si allontanano
4. Quarta fase: rapporto tra il bambino e le figure di attaccamento si delinea reciproco mentre la
comunicazione da parte del bambino è sempre più intenzionale e orientata al raggiungimento di
scopi condivisi con il caregiver
2.1
I pattern di attaccamento:
Il sistema di attaccamento ideato da Bowlby si rivelò variare a seconda dei bambini osservati. Al momento
della separazione e della riunione con la madre, emersero differenze individuali. Sulla base di tali
osservazioni Ainsworth mise a punto un paradigma sperimentale chiamato strange situation, in grado di
attivare nel bambino comportamenti di attaccamento attraverso la sua esposizione a condizioni stressanti.
Utilizzando questo paradigma, Ainsworth ha distinto tre tipologie o pattern di attaccamento (a seguito delle
quali se ne individua un’altra):
1. Pattern sicuro: il bambino utilizza il genitore come base per esplorare l’ambiente quando
quest’ultimo è presente, manifesta disagio alla separazione e ricerca il contatto con lui al momento
della riunione. Se è a disagio, si mostra consolabile e la relazione con l’estraneo è percepita in
modo stressante. Questo pattern è diviso in quattro sottogruppi
2. Pattern insicuro evitante: il bambino non condivide la propria attività di gioco o di esplorazione con
il genitore quando presente, né mostra disagio alla separazione con quest’ultimo. Negli episodi di
riunione evita il contatto, distogliendo lo sguardo e continuando a giocare o esplorare l’ambiente.
Non appare turbato quando lasciato solo con l’estraneo. L’attaccamento di tipo insicuro evitante è
suddiviso in due sottogruppi a seconda del grado di evitamento più o meno marcato
3. Pattern insicuro ambivalente\resistente: il bambino si mostra focalizzato sul genitore nel corso
della procedura sperimentale, rivelandosi in difficoltà nell’esplorare l’ambiente e a disagio durante
la separazione da quest’ultimo. Manifesta rabbia e\o inconsolabilità alla riunione con lui, alternate
a ricerca di contatto. Non torna a giocare dopo la riunione e può mostrare paura o rabbia nei
confronti dell’estraneo. È suddiviso in due sottogruppi a seconda che il bambino mostri segni di
rabbia nei confronti dei genitori o reagisca allo stress più passivamente, mostrandosi inconsolabile.
4. Pattern disorganizzato\disorientato: il bambino usa strategie incoerenti verso la figura di
attaccamento. Ha comportamenti contraddittori oppure può apparire disorientato, con immobilità
a livello mimico e motorio e stereotipie. La principale caratteristica è la mancanza di una strategia
di attaccamento coerente. Alla base di tale attaccamento ci sono interazioni con la figura di
attaccamento che inducono paura (il bambino è posto di fronte a un conflitto senza soluzione:
quando è a disagio si rivolge al genitore come fonte di consolazione, ma il genitore è anche fonte di
paura)
2.2
I precursori dell’attaccamento sicuro vs. insicuro:
Varie ricerche hanno dimostrato come i diversi pattern di attaccamento che il bambino sviluppa nei
confronti della madre siano correlati alla sensibilità che quest’ultima ha dimostrato nei suoi riguardi nel
corso del primo anno di vita. Ainsworth ha valutato la sensibilità analizzando diverse componenti di tipo
comportamentale, tra cui:
Sulla base di un altro studio è emerso che i bambini sicuri alla strange situation hanno a 12 mesi una madre
sensibile nel primo anno di vita. I bambini evitanti invece avevano una madre insensibile verso i loro segnali
di attaccamento.
La mancata corrispondenza che il futuro bambino disorganizzato incontra rispetto alla madre può minare la
sua organizzazione emotiva di base e l’integrazione della sua personalità emergente. Poi, i bambini sicuri
appaiono godere a 4 mesi di una più adeguata contingenza interattiva con la loro madre sia a livello di
attenzione visiva e tattile che di rispecchiamento emotivo. Essi appaiono perciò fare affidamento sulla
capacità di sintonizzazione emotiva delle loro madri, e grazie alla madre che è in grado di rispondere in
modo contingente e prevedibile alla loro comunicazione. Cruciale dunque per la formazione dei pattern di
attaccamento appare, da una parte, la sensibilità dimostrata dalla figura di attaccamento nei confronti del
bambino, dall’altra gli stili comunicativi diadici che si strutturano tra i due partner.
2.3
Attaccamento e regolazione emotiva:
I pattern di attaccamento che il bambino forma nei primi anni di vita con le figure più significative possono
essere considerati come stili di regolazione emotiva che egli sperimenta rispetto alla disponibilità emotiva
fornita dai caregivers. Questi ultimi devono regolare le emozioni negative del bimbo.
L’attaccamento sicuro è risultato correlato alla possibilità sperimentata dal bambino nei primi anni di vita di
comunicare emozioni positive e negative al caregiver, percepito come emotivamente disponibile ed efficace
nella regolazione emotiva. Altri tipi di attaccamento implicano una restrizione di tale capacità.
L’attaccamento insicuro evitante implica la de-attivazione del sistema di attaccamento da parte del
bambino, accompagnato da una riduzione della comunicazione delle emozioni, percepite come rifiutate dal
genitore. L’attaccamento insicuro ambivalente si basa sulla massimizzazione del sistema di attaccamento
espressa attraverso le richieste di etero-regolazione emotiva rivolte al genitore, percepito come non
responsivo in modo prevedibile. L’attaccamento insicuro disorganizzato implica un break down delle
strategie di regolazione emotiva del bambino, a fronte di un caregiver percepito come incapace di regolare
le emozioni proprie e del bambino.
3
I modelli operativi interni di attaccamento nel ciclo di vita:
Bowlby e Main hanno ipotizzato che i bambini nel 1° anno di vita creino dei modelli mentali delle figure di
riferimento. Quindi, i pattern si identificano come i correlati comportamentali di tali modelli e le esperienze
che ha vissuto nelle interazioni con i genitori e caregiver sono organizzate in schemi specifici (memoria
episodica). La generalizzazione di tali schemi porta alla costruzione di un modello “sintetico” di tali
interazioni (memoria semantica) in grado di riassumere la relazione con quella figura.
I modelli operativi interni, concepiti come strutture affettivo-cognitive basate sulla generalizzazione delle
esperienze di attaccamento, hanno un doppio ruolo:
Particolare rilevanza hanno i modelli operativi interni che il soggetto costruisce nei primi anni di vita, in
quanto essi funzionano, specialmente in modo inconsapevole, come filtro rispetto alle successive
esperienze di attaccamento del soggetto nel corso della sua vita infantile e adulta.
Nel caso di attaccamenti non adattivi (come quello insicuro), la funzione di filtro si trasforma in una
funzione di tipo difensivo.
3.1
Attaccamenti multipli:
La formazione dei modelli operativi interni prosegue anche nelle fasi successive. In tali fasi è importante il
dialogo relativo alle emozioni che intercorre tra bambino e figure di attaccamento in quanto contribuisce
all’evoluzione dei modelli operativi formati nella prima infanzia.
A partire dagli anni 90 sono iniziati studi sull’attaccamento alla figura paterna, che hanno evidenziato una
distribuzione dell’attaccamento sicuro al padre simile a quello nei confronti della madre, per cui
l’attaccamento al padre e quello alla madre sono tra loro parzialmente indipendenti. I comportamenti
paterni maggiormente in grado di predire la qualità dell’attaccamento dei loro figli sono la
capacità di sostenere il gioco del bambino e la sua attività esplorativa fornendogli sicurezza
nell’esplorazione. Nei primi anni i bambini sono in grado di sviluppare legami di attaccamento anche con
caregivers non familiari.
3.2
Adult Attachment Interview:
Dagli anni 80 ci si concentrò sull’analisi delle rappresentazioni generalizzate relative all’esperienza di
attaccamento. Per valutare i modelli operativi interni Main ha messo a punto l’Adult Attachment Interview,
un’intervista che, attraverso uno specifico protocollo e un correlato sistema di codifica, permette di
indagare in soggetti di età adolescenziale e adulta lo stato mentale generale del soggetto rispetto alle
esperienze di attaccamento.
Le aree indagate dall’intervista riguardano da una parte le esperienze vissute dal soggetto nell’infanzia
rispetto alle principali figure di attaccamento e i sentimenti relativi a tali esperienze. Dall’altra, la capacità di
comprendere tali vicende, nonché la successiva evoluzione delle relazioni con tali figure. Assume
particolare rilievo l’indagine intorno a eventi di lutto o traumatici vissuti.
È importante la coerenza con cui si narrano le esperienze di attaccamento in quanto il soggetto poi viene
assegnato a una delle cinque categorie: sicuro\autonomo; distanziante; preoccupato; irrisolto\
disorganizzato nei confronti del lutto e del trauma; non classificabile.
Per valutare i modelli di attaccamento nell’età preadolescenziale si usano i Separation anxiety test, una
serie di immagini che raffigurano situazioni di separazioni di un bambino dai genitori. L’analisi delle
differenti reazioni emotive alla separazione e delle modalità adottate dal bambino per fronteggiarle
permette di individuare i modelli di attaccamento sicuri o insicuri.
Per l’attaccamento nella preadolescenza e adolescenza (dai 9 ai 16 anni) c’è Friends and family interview
che valuta, con tecniche analoghe all’AAI, l’attaccamento non solo riferito ai genitori ma anche ai fratelli\
migliori amici.
3.3
Nuovi legami di attaccamento nell’adolescente e nel giovane adulto:
Nel corso dell’adolescenza si assiste a un progressivo spostamento dai genitori come principali figure di
attaccamento agli amici, in particolare dello stesso sesso, e successivamente ai partner sentimentali.
Gli adolescenti e in seguito i giovani adulti si rappresentano gli amici e i partner sentimentali anche come
figure di attaccamento, rivolgendosi a loro con l’obiettivo di: ricercarne il contatto fisico per mantenere il
senso di sicurezza; utilizzarli come base sicura per l’esplorazione; fruirli come porto sicuro per ottenere
conforto e regolazione emotiva in caso di eventi stressanti.
Durante l’adolescenza il legame con il migliore amico assolve la funzione di porto sicuro e contatto fisico
mentre quello con la madre continua a svolgere quello di base sicura. Durante la giovane età adulta si
assiste a uno spostamento delle tre funzioni alla relazione con il partner.
4
Modelli di attaccamento e traiettorie evolutive:
L’impatto della qualità dell’attaccamento infantile, combinata con altre variabili, è risultata esercitare la sua
influenza anche a lungo termine, dalla media infanzia all’adolescenza fino all’età adulta. Le cure materne e
pattern di attaccamento considerati nei primi 2 anni di vita sono determinanti per l’acquisizione di
competenze di autonomia e autorganizzazione e per le relazioni sociali con i pari fino ai 3 anni. Le
competenze influenzano, a loro volta, insieme alle cure genitoriali considerate nello stesso periodo, lo
sviluppo socio-emotivo successivo, determinando la qualità delle amicizie nella media infanzia e nella
preadolescenza, qualità che saranno influenti rispetto alle competenze sociali e relazioni sentimentali
nell’età adulta e nell’adolescenza.
Altro aspetto importante è l’attaccamento sicuro come fattore di protezione rispetto alla comparsa di
comportamenti disadattivi dopo i 5 anni. I bambini sicuri, a fronte di eventi stressanti, si sono dimostrati più
in grado di fronteggiarli, senza sviluppare disturbi, come invece è accaduto a bambini insicuri. Inoltre, se
comparivano i disturbi, i bambini sicuri avevano una maggior capacità di recuperare i precedenti pattern
adattivi. È emerso dunque come basti un attaccamento sicuro a una delle due figure per svolgere un’azione
protettiva rispetto a problematiche psicopatologiche.
4.2
La trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento:
Attraverso l’analisi dell’Adult Attachment Interview, svolto con genitori nei primi mesi di vita del bambino o
in gravidanza, si sono individuati i modelli di attaccamento dei genitori stessi nei confronti delle proprie
figure di attaccamento. Tali modelli sono stati confrontati con quelli del loro bambini valutati con la Strange
Situation a 12 mesi. Secondo i risultati raggiunti, un genitore con un modello di attaccamento sicuro ha
un’elevata probabilità di avere un bambino a sua volta con attaccamento sicuro nei suoi confronti. Tra i
fattori che spiegano tale trasmissione si possono individuare sia la qualità della responsività dimostrata dal
genitore rispetto ai bisogni fisici del bambino, sia la capacità di sintonizzarsi e rispecchiare le emozioni
espresse nei suoi confronti. Un altro fattore chiave è la capacità del genitore di riflettere sugli stati mentali
del bambino, attribuendo a quest’ultimo desideri, emozioni e pensieri.
4.3
attaccamento e rischio psicopatologico:
Un terzo filone di studi è quello che indaga l’influenza dei diversi tipi di attaccamento stabilitisi nella prima
infanzia rispetto alle emergenze di problematiche psicopatologiche. Un punto su cui i ricercatori appaiono
convergere è la funzione di protezione svolta dall’attaccamento sicuro rispetto al rischio psicopatologico
considerato nel ciclo di vita. L’attaccamento insicuro risultata un fattore di rischio per esiti psicopatologici.
L’attaccamento disorganizzato è risultato invece un predittore di patologie di tipo esternalizzante
(aggressività, disturbi della condotta) nell’infanzia e di disturbi della personalità borderline e di rischio
suicidario nell’adolescenza e nell’età adulta. Questo attaccamento appare correlato a caregiver
sperimentati come ostili e terrorizzanti. Questo può comportare la comparsa di condotte non adattive.
Ai modelli di attaccamento sono correlate le modalità di regolazione delle emozioni, specialmente quelle
negative (un attaccamento insicuro ha meno capacità di regolazione emotiva e questo è un rischio rispetto
alle problematiche psicopatologiche).
4.4
Interventi di prevenzione: Molti interventi vengono definiti “Attachment based” in quanto i loro obiettivi
sono mutuati dalla teoria dell’attaccamento. Obiettivo primario in questo tipo di interventi, di cui molti
fondati sull’uso del video-feedback, è rendere adeguata la relazione tra bambino e genitore.
1. Stadio sensomotorio (0-1 anno e mezzo) La fine di esso porta alla funzione simbolica, evidente
nell’imitazione differita e nel gioco simbolico, nelle maggiori competenze linguistiche. Esso
comprende 6 sotto-stadi:
1) Esercizio dei riflessi (0-1 mese): il bambino mette in atto i primi schemi sensomotori, cioè i riflessi primari
2) Reazioni circolari primarie (1-4 mesi): il bimbo esegue ripetutamente alcune azioni; emergono le prime
forme di coordinazione di schemi
3) Reazioni circolari secondarie (4-8 mesi): fa un’azione casualmente che produce uno spettacolo
nell’ambiente esterno, per cui il bambino la riproduce
4) Coordinazione degli schemi acquisiti (8-12 mesi): capacità di coordinare più schemi per un obiettivo
5) Reazioni circolari terziarie (12-18 mesi): il bambino introduce variazioni all’azione come per studiarne gli
effetti
6) Invenzione di mezzi nuovi (18-24 mesi): il bambino sembra aver progettato le azioni da compiere.
2. Stadio preoperatorio (2-6 anni): il bambino usa simboli e possiede semplici regole e concetti, ma
l’indizio percettivo prevale ancora sulla rappresentazione mentale. Il bimbo non sa usare il pensiero
logico. È il periodo dell’egocentrismo infantile (Pensiero egocentrico = il bambino non è ancora in
grado di considerare altri punti di vista oltre al suo. Ciò che vede lui, lo vedono per forza anche gli
altri). I bambini credono che gli oggetti siano vivi (animismo), che gli eventi accadano in favore delle
persone (finalismo) e che elementi del mondo naturale siano stati costruiti dagli esseri umani
(artificialismo).
3. Stadio operatorio concreto (7 anni): il bambino dispone del pensiero logico, riesce a tenere a mente
più punti di vista come più proprietà degli oggetti. Il dato percettivo non porta più all’errore perché
i bambini dispongono di operazioni, cioè rappresentazioni mentali su cui riesce a operare. Esse
sono azioni interiorizzate e irreversibili.
4. Stadio operatorio formale (preadolescenza): sono possibili forme complesse di ragionamento
ipotetico.
La differenza tra uno stadio e l’altro concerne il tipo di strutture cognitive di cui la persona dispone. Gli
schemi possiedono secondo Piaget due proprietà:
Assimilazione: capacità di applicare ciò che si conosce già, si interagisce con l’ambiente secondo il
modo di pensare di cui disponiamo. Un bambino interagisce con il mondo soprattutto assimilando
le informazioni che possono essere comprese attraverso gli schemi di cui dispone. Lo schema si può
modificare per assimilare nuove informazioni.
Accomodamento: proprietà dello schema di modificarsi
La possibilità di acquisire nuovi schemi e coordinarli tra loro è determinata dalla stessa attività del bambino.
Se nel suo agire un bambino incontra un disequilibrio, un conflitto cognitivo, è possibile che si attivi un
cambiamento. Attraverso questi accomodamenti parziali il bambino può generare schemi d’azione nuovi ed
efficaci. Il cambiamento, lo sviluppo, l’incremento di conoscenza avviene quando il bambino riesce a
utilizzare i feedback negativi o le informazioni contraddittorie per superare i limiti degli schemi preesistenti
e costruire nuovi strumenti di conoscenza. Questa e l’idea costruttivista di sviluppo. Lo sviluppo è dunque
un cambiamento qualitativo. Il fatto che il sistema cognitivo non sia rigido, ma evolva di fronte a
inadeguatezze degli schemi posseduti ed elementi della realtà dipende da un processo di equilibrazione: il
sistema ricerca un nuovo equilibrio.
Secondo Piaget ogni nuovo schema acquisito stimola una crescita globale: il sistema nel tempo progredisce
verso una nuova organizzazione. Il bambino, grazie a questi meccanismi (assimilazione, accomodamento,
equilibrazione e organizzazione) costruisce schemi più funzionali a interagire con la realtà, a comprenderla
e ad adattarsi ad essa. Il bambino è dunque costruttore del suo sviluppo.
Vygotskij ha poi elaborato l’idea di zona di sviluppo prossimale. Essa rappresenta il potenziale di sviluppo,
cioè quelle abilità che il bambino da solo non manifesta ancora ma può dimostrare se aiutato
opportunamente.
Le riflessioni di Vygotskij continuano ad essere fonte di stimolo per la psicologia e pedagogia. Sono
numerosi gli studiosi che si sono ispirati all’approccio storico culturale tra cui Bruner.
Bruner presta attenzione al ruolo delle influenze culturali e sostiene l’importanza del ruolo degli adulti che,
nell’interazione con i bambini, offrono elementi di sostegno (scaffolding) alle loro acquisizioni cognitive. Egli
ipotizza che i bambini conoscano il mondo prima attraverso rappresentazioni esecutive (azioni, procedure)
poi possano anche utilizzare rappresentazioni iconiche (immagini della realtà) infine divengano capaci di
rappresentazioni simboliche (formulazione di ipotesi). Queste tre forme di rappresentazione, o sistemi di
codifica, compaiono in successione (una volta presenti non eliminano quelle precedenti): rappresentazioni
esecutive (1 anno); rappresentazioni iconiche (da 1 anno e si affermano verso 5\7 anni); rappresentazioni
simboliche (dai 18 mesi e si stabilizzano nell’adolescenza).
Approccio neo-piagetiano:
Un gruppo di ricercatori, tra cui Pascual- Leone, si sono definiti neo-piagetiani: le loro diverse teorie
riprendono la proposta di Piaget modificandola però profondamente e integrandola con l’approccio
dell’elaborazione delle informazioni.
La teoria di Piaget costituisce per questi autori un’utile base di partenza, una descrizione approssimativa dei
modi con cui il bambino cerca di risolvere i problemi. Tuttavia essi utilizzano anche concetti tratti
dall’approccio cognitivista, considerando lo sviluppo del sistema cognitivo che elabora informazioni.
La prima teoria neo-piagetiana è stata di Pascual-Leone. Egli riprende da Piaget il concetto di schema come
unità di base delle rappresentazioni mentali e delle elaborazioni cognitive. La soluzione dei problemi
cognitivamente complessi richiede di coordinare schemi diversi.
L’idea da lui proposta, è che il grado di complessità del ragionamento di un bambino dipenda soprattutto
da quanti schemi riesce a coordinare mentalmente e che le risorse attentive disponibili per questo
scopo crescano con l’età. Egli distingue tra: situazioni fuorvianti ossia problematiche, in cui si può essere
tratti in inganno dalle apparenze o applicare erroneamente gli schemi ben appresi ma inappropriati al
contesto; e situazioni facilitanti ossia dati percettivi e gli apprendimenti precedenti facilitano l’attivazione di
schemi appropriati. Le differenze individuali di stile cognitivo possono essere importanti.
Oltre alla capacità di coordinare più schemi, anche lo stile cognitivo avrà un impatto sulle risposte dei
bambini ai problemi piagetiani.
Pascual-Leone fa una rilettura delle risposte ai compiti piagetiani e propone modelli teorici delle operazioni
e dei ragionamenti in età diverse. Una serie di ricerche convalida il modello della crescita quantitativa delle
risorse attentive utili all’attivazione degli schemi (chiamate anche M capacity). Nelle situazioni facilitanti, il
bambino può riuscire a coordinare un numero di schemi ancor maggiore, grazie alla sinergia fra la M
capacity e altre risorse del sistema cognitivo.
Approccio simile a questo è quello di Halford. Dopo l’acquisizione della funzione simbolica sul finire del
periodo sensomotorio, i bambini passano da una serie di stadi caratterizzati dalla capacità di svolgere
compiti e risolvere problemi che comportano relazioni fra diversi elementi, a relazioni sempre più
complesse che richiedono di tenere presente un numero crescente di elementi. Ciò sarebbe reso possibile,
secondo l’autore, dalla crescita delle risorse attentive e della memoria di lavoro.
Case propone nuova idea: il costrutto di “strutture concettuali centrali”. Queste emergerebbero intorno ai 4
anni come una sorta di reti di schemi che interconnettono le rappresentazioni del bambino in domini
cognitivi molto generali. Ognuna di queste strutture concettuali è centrale in quanto permette di
organizzare le conoscenze anche in domini molto diversi: ad esempio la struttura concettuale spaziale serve
al bambino per orientarsi nell’ambiente in cui vive, per comprendere le mappe, per imparare concetti fisici,
geometrici e grafici ma anche per acquisire abilità in giochi sportivi che richiedono di padroneggiare
relazioni spaziali.
Ogni struttura concettuale centrale si sviluppa indipendentemente dalle altre, anche in base alle
esperienze, agli interessi del bambino. Tuttavia, lo sviluppo di ciascuna struttura concettuale e la
complessità crescente delle relazioni che essa comprende dipendono dalla crescita della capacità della
memoria di lavoro.
Approccio neuro-costruttivista:
L’attenzione è rivolta allo sviluppo cognitivo in relazione allo sviluppo del cervello. Ci si interroga come nel
corso del tempo si acquisiscano maggiori conoscenze e competenze cognitive.
Una delle voci che maggiormente hanno contribuito alla diffusione dell’approccio neuro-costruttivista è
quella di Smith, la quale si era formata con Piaget. Viene ripresa l’idea costruttivista proposta da Piaget in
base alla quale il bambino è costruttore del suo sviluppo: secondo questo approccio il sistema cognitivo e il
cervello si modificano in relazione all’attività del soggetto in interazione con l’ambiente. Non si ipotizza che
lo sviluppo cognitivo coinvolga simultaneamente tutto il nostro sistema cognitivo. Sono infatti considerati
diversi domini di conoscenza così come proposto dall’approccio dell’elaborazione delle informazioni
(dominio =insieme delle rappresentazioni che fanno parte di un ambito di conoscenza). Il livello di
specializzazione cognitivo e neurale che caratterizza gli adulti è l’esito di un processo di sviluppo.
Questo approccio ipotizza che il sistema vada incontro a una progressiva specializzazione per via
dell’interazione con l’ambiente. È invece accolta l’idea che possano essere innate le predisposizioni che ci
orientano verso alcuni aspetti dell’ambiente. Le nostre predisposizioni guidano la nostra attenzione verso
particolari stimoli dell’ambiente, che a sua volta influenza i successivi processi di sviluppo.
Smith introduce il termine di modularizzazione: la mente nel corso dello sviluppo si modularizza ovvero si
costituiscano moduli sempre più specializzati nel processare specifiche informazioni. La mente non è quindi
modulare alla nascita ma si modularizza attraverso l’esperienza. La mente evolve a fasi nel senso che si ha
uno sviluppo di più processi dominio-specifici invece che una maturazione globale. Vi può essere uno
sviluppo indipendente nei diversi ambiti di conoscenza (domini). Esiste un processo che si attiva per ogni
dominio, il processo di ri-descrizione rappresentazionale: nel corso dello sviluppo si assiste a una ri-
descrizione delle rappresentazioni che consente il passaggio da rappresentazioni implicite della
mente, a rappresentazioni esplicite, per cui diviene possibile riflettere su rappresentazioni della conoscenza
acquisita in un dominio e verbalizzarle o renderle disponibili anche per altri domini. Le fasi del processo di
ri-descrizione sono:
I. La prima fase è caratterizzata dal livello I (implicito): bambini prendono il blocco, lo posizionano sul
supporto e muovendosi per tentativi di errori cercano il punto in cui ciascun blocco sta in equilibrio.
L’azione è guidata dalle informazioni ricevute dall’ambiente, ogni blocco è considerato come un
problema diverso da risolvere.
II. Livello E-1 (esplicito 1): i bambini affrontano il compito sulla base di una rappresentazione che si
sono creati con l’esperienza, per cui i blocchi stanno in equilibrio se posizionati considerando il loro
centro. Ciò dimostra che, una volta acquisita esperienza in un ambito, il bambino sia in grado di
sviluppare una rappresentazione unitaria del problema (il bimbo ha una teoria di come si posiziona
un blocco in equilibrio).
III. Livello esplicito 2 ed esplicito 3: i bambini divengono consapevoli dell’idea che guida il loro
comportamento. Al livello E-2 sono consapevoli della loro teoria, al livello 3 sono in grado di
verbalizzarla. I bimbi sono attenti alle informazioni dell’ambiente
Questo processo di ri-descrizione rappresentazionale si suppone avvenga ripetutamente all’interno dei
domini lungo tutto l’arco dello sviluppo e perfino in età adulta quando ci si trova di fronte a nuove
acquisizioni. Smith pone l’importanza anche allo sviluppo neurale.
7
Abilità e sviluppo:
ora si tratteranno le informazioni sullo sviluppo cognitivo e nel suo divenire, si tratta di acquisire
conoscenze rispetto sia al come evolviamo sia rispetto alle diverse ipotesi sul perché questo avvenga. Lo
sviluppo prosegue per l’intero processo di vita.
7.1
Prima infanzia:
La concezione della prima infanzia è nel tempo cambiata. Oggi si ha infatti un’idea di neonato molto più
competente e attivo rispetto al passato. L’infanzia inoltre è considerata una delle fasi di maggiori
cambiamenti. In soli due anni dalla nascita i bambini acquisiscono numerose e complesse competenze.
Questi progressi rendono i bambini sempre più competenti nell’interagire con il mondo fisico e sociale.
Piaget si è per primo dedicato a comprendere le caratteristiche cognitive dei bambini nelle diverse fasi di
vita. Anche oggi si ritiene che vi sia un’evoluzione dai riflessi primari a comportamenti sempre più
controllati e intenzionali. Inoltre, al termine della prima infanzia sono evidenti dei comportamenti indicativi
della capacità dei bambini di rappresentarsi la realtà percepita e di usare i simboli.
Secondo Piaget, il passaggio dai riflessi primari alla possibilità di avere una rappresentazione mentale della
realtà e delle azioni che in essa si possono compiere è lento.
Numerose conoscenze sono derivate dagli studi sulla percezione. Sono state esaminate le variazioni a livello
delle risposte comportamentali e fisiologiche come l’analisi dello sguardo, ritmo suzione, variazione ritmo
cardiaco. Questa attivazione è maggiore di fronte a stimoli nuovi e decresce di fronte a uno stesso stimolo
ripetuto nel tempo. Questo fenomeno viene chiamato abituazione, che ha consentito di ideare esperimenti
finalizzati a studiare lo studio percettivo: se il bambino rinnova il suo interesse quando si presenta uno
stimolo nuovo, possiamo inferire che abbia colto la differenza tra stimolo a cui si è abituato e il nuovo. Gli
infanti mostrano anche delle preferenze tra gli stimoli.
Sono state osservate reazioni comportamentali in risposta all’emissione di un suono in prossimità del
ventre materno. Alla nascita le abilità uditive non sono identiche a quelle dell’adulto, e le abilità visive
migliorano rapidamente. Il neonato possiede una serie di abilità percettive che gli consentono di cogliere gli
stimoli del mondo esterno grazie sia alla funzionalità dei diversi organi di senso, sia alla coordinazione inter-
sensoriale, sia alla percezione trans-modale, ovvero la capacità di integrare le informazioni provenienti dai
diversi sensi. I bimbi hanno preferenze, per quanto riguarda la vista, per le configurazioni che riproducono
le sembianze di un volto. Per questo, si pensa a delle predisposizioni che orientano l’attenzione del neonato
verso stimoli fondamentali per lo sviluppo.
Delle ricerche, poi, hanno mostrato come i bambini hanno delle rappresentazioni degli oggetti e della realtà
molto prima di quanto supposto da Piaget.
Un’altra abilità nostra fin dalle prime fasi di vita è la capacità di cogliere certe regolarità nel mondo esterno.
Nello sviluppo cognitivo sono rilevanti molteplici abilità come l’abilità rappresentativa, capacità della
memoria di lavoro.
7.2
Seconda infanzia (età prescolare):
Ci si occupa dei cambiamenti che occorrono tra i 2-3 anni e i 5-6 anni. Una significativa acquisizione è la
funzione simbolica che si colloca intorno ai 18 mesi. Le acquisizioni di questo periodo sono:
Funzione simbolica: la capacità di rappresentarsi qualcosa tramite simboli; è proprio tra i 3 e i 5
anni che si assiste ad un incremento di tutte le manifestazioni che sono legate all’uso di questa
funzione
Gioco di finzione: il bambino intenzionalmente sovrappone una situazione ipotetica a una effettiva
con finalità ludiche. Il bimbo sa gestire il piano di finzione e quello di realtà. Successivamente la
capacità di gestire la distanza tra finzione e realtà aumenta e consente di svolgere un’azione per
finta anche senza la presenza di oggetti concreti. Inoltre, il gioco diventa più complesso; i bambini
attribuiscono ruoli a sé stessi e agli altri, drammatizzando gli scenari che conoscono, per cui il gioco
di finzione diventa una palestra in cui si allenano immaginazione e creatività. I bambini mostrano di
saper passare abilmente tra gioco di finzione e di realtà
Scripts: durante l’età prescolare sono significative le conoscenze che i bambini acquisiscono della
realtà circostante e delle routine che sono solitamente agite. Con questo termine si intende un
particolare schema, costituito da una sequenza di eventi generalizzata e organizzata
temporalmente e spazialmente, relativa a una routine familiare. Essi consentono ai bambini di
avere un maggior grado di controllo sull’esperienza che vivranno
Capacità di concettualizzare: nell’età prescolare i bambini incrementano la conoscenza sul mondo.
Il concetto può essere definito come la rappresentazione mentale di una categoria. Per poter
classificare occorre saper cogliere somiglianze fondamentali tra le diverse unità
Abilità di contare: questa abilità compare già al termine della prima infanzia ed è un’abilità che si
perfezionerà durante l’età scolare
Oggi sappiamo che il nostro sistema cognitivo è capace di più funzioni mnestiche: è in grado di ricordare
alcune informazioni a lungo, di tenere a mente alcuni dati per il tempo utile ad eseguire un’operazione,
mantenere più informazioni e contemporaneamente operare su queste. Tra queste abbiamo:
Un simile cambiando strutturale può essere osservato anche nel pensiero narrativo: con l’età si sviluppa
l’abilità di narrare storie più complesse.
I bambini poi crescendo fanno esperienza. Il bagaglio di conoscenze acquisite si consolida ed è possibile
analizzare una situazione con maggiore competenza e pianificare la soluzione più funzionale. La situazione
pregressa viene infatti utilizzata per orientarsi rispetto alla situazione contingente. Grazie all’esperienza, si
può contare su una serie di conoscenze e procedure che possono essere applicate ormai in automatico.
Migliorano i compiti di memoria di lavoro, che richiedono di tenere a mente alcune informazioni ma anche
di rielaborarle. L’efficienza del sistema cognitivo è legata alla velocità con cui elaboriamo le informazioni.
Tale velocità aumenta nel passaggio dalla seconda infanzia all’età scolare.
I bambini usano strategie più funzionali: ad esempio ripetono a bassa voce o a mente le informazioni da
ricordare.
Le abilità di calcolo si sviluppano e sono favorite dall’educazione formale. Le capacità di calcolo trasmesse
dall’adulto divengono una risorsa del bambino utile a comprendere per mezzo dei numeri le misure dello
spazio, del tempo e di ogni sorta di quantità.
Incrementa anche la metacognizione ossia le conoscenze che abbiamo sul nostro funzionamento cognitivo
e la capacità di usarla per regolare il nostro pensiero e comportamento.
Comunicare significa mettere in comune, scambiare, partecipare. È possibile distinguere due concezioni
complementari della comunicazione:
I. Comunicazione come scambio interpersonale di qualcosa che preesiste allo scambio, ad esempio i
bisogni individuali (comunicazione fondata). Essa è possibile sulla base di una predisposizione
innata a interagire, per mezzo di segnali naturali, con i membri della propria specie
II. Comunicazione come costruzione e fondazione della soggettività, frutto di esperienze condivise
(comunicazione fondante). Essa comporta un’interazione partecipativa e costruttiva di nuove
rappresentazioni tramite simboli che consentono di dare forma a una mente mediata ed ibrida
La comunicazione ha un ruolo fondante la relazione interpersonale (rapporto io-tu) così come la relazione
intrapsichica (rapporto io-me). È lo scambio comunicativo con altri esseri umani che consente al bambino di
costruire il senso della propria collocazione nel mondo al fine di prenderne parte attiva, colmando il gap tra
le risorse cognitive di cui dispone alla nascita e la realtà socioculturale in cui si trova immerso.
Nelle prime fasi dello sviluppo infantile, si può comunicare con i propri simili grazie a disposizioni
comportamentali innate che si attivano automaticamente in risposta a configurazioni di stimoli interni ed
esterni con valenza evocativa, al fine di garantire la sopravvivenza. Nel neonato tali disposizioni si
manifestano come semplici riflessi. Mentre Piaget assume i riflessi come base per lo sviluppo di schemi
cognitivi senso-motori, Bowlby li considera precursori di comportamenti comunicativi volti a favorire il
contatto sociale e la formazione del legame di attaccamento.
Già alla nascita il bambino è impegnato a preparare, in collaborazione con l’adulto, quel terreno comune di
condivisione per la costruzione progressiva dello sviluppo psicologico individuale e di quello socioculturale,
destinati a incontrarsi e integrarsi, soprattutto grazie al linguaggio verbale che svincola gli individui dalla
dipendenza dal contesto esperienziale. Questo processo di integrazione avviene se il bambino apprende, il
più precocemente possibile, le regole basilari di tale attività condivisa, prima di tutte la distinzione tra i ruoli
comunicativi. Preliminare a un uso intenzionale dello scambio comunicativo è la scoperta dei ruoli alterni,
reciproci e complementari di emittente e ricevente.
Il neonato è selettivamente orientato verso la voce umana e le configurazioni visive costituite dai volti. È
capace di riprodurre espressioni facciali per un innato meccanismo riflesso attivato dai neuroni specchio.
Quindi, il bambino si pone come partner competente nell’interazione con l’adulto, in grado non solo di
assumere il ruolo di ricevente, ma anche di emettere informazioni sul proprio stato e sui propri bisogni
spontaneamente.
A partire dall’alternanza di momenti di attività e passività, esperiti, ad esempio, nei ritmi di poppata, nello
scambio di sguardi, vocalizzi e sorrisi, il bambino partecipa a delle proto-conversazioni in cui sperimenta i
primi comportamenti di turn taking e role taking. La responsività, la coerenza e insieme la flessibilità dei
comportamenti della figura materna facilitano questo apprendimento, favorendo la scoperta
dell’intenzionalità comunicativa. Il bambino, inizialmente, non piange per attirare l’attenzione della madre.
È l’accorrere della madre, l’interpretazione e la risposta che dà che fanno scoprire al bambino di poter
utilizzare il pianto come mezzo per ottenere qualcosa. È il processo di interpretazione che favorisce
l’incontro di due intenzionalità e la loro collaborazione. Un’interpretazione corretta di un messaggio
avviene sulla base della condivisione di un contesto esperienziale e di attese reciproche o postulati
conversazionali.
Considerando la sequenza nella comparsa delle funzioni comunicative, si osserva che la funzione base,
propedeutica a tutti i successivi scambi interpersonali è la funzione di contatto (o fatica) che consente agli
individui di segnalare gli uni agli altri la propria presenza, richiamando l’attenzione su di sé. Qualcosa di
analogo succede nei primi mesi di vita tra bambino e caregiver nello scambio di sorrisi e vocalizzazioni,
espressione del riconoscimento reciproco e premessa per interazioni più articolate.
Si possono designare come funzioni imperativo-regolative quelle per agire (o pragmatiche), mentre
descrittivo-referenziali quelle per apprendere (o matetiche).
Nelle abilità comunicative il percorso di sviluppo procede da modalità autocentrate (l’altro non esiste
ancora) verso la progressiva conquista dell’individuazione e del decentramento (separazione e distinzione
tra sé e l’altro) grazie alle quali si possono confrontare, orientare e negoziare bisogni, stati d’animo, punti di
vista.
Gesti comunicativi e intenzionalità comunicativa:
Per lo sviluppo delle funzioni comunicative più evolute è necessaria la scoperta dell’intenzionalità
comunicativa. L’intenzionalità comunicativa è implicitamente presente già nell’uso dei gesti comunicativi:
gesto richiestivo (dammi) e gesto dichiarativo (guarda).
Quando, tra 9-12 mesi, il bambino inizia a scoprire l’altro come dotato di intenzionalità, si realizza la
conquista che Tomasello chiama “rivoluzione socio-cognitiva del nono mese”. Essa consiste nel passaggio
dall’intento comunicativo all’intenzione vera e propria. Il bambino che non sa ancora parlare, effettua già
movimenti controllati delle braccia, inizia ad usare i gesti per comunicare con l’adulto e influenzarne il
comportamento. Dapprima esibisce il gesto richiestivo o imperativo che consiste nell’allungare il braccio
verso qualcosa che vuole ottenere, successivamente il gesto di indicare il cui fine è l’attenzione dell’adulto
su qualcosa di interessante (attenzione congiunta). Il gesto per condividere ha una funzione dichiarativa ed
è considerato un precursore dello sviluppo della Teoria della Mente, ovvero la scoperta che l’altro è dotato
di stati interni su cui si può agire per mezzo della comunicazione. I gesti sia richiestivi sia indicativi sono
accompagnati (preceduti e\o seguiti) da uno scambio di sguardi con la funzione di segnalare all’altro che si
sta cercando di entrare in contatto con lui. Il gesto indicativo segna l’inizio dell’interazione triadica: io, tu,
l’oggetto di interesse. Ricerche hanno dimostrato che l’uso comunicativo dell’indicare è un predittore dello
sviluppo linguistico, in generale, e delle competenze grammaticali, in particolare.
Tra 9-12 mesi il bambino inizia a produrre le prime parole con una forma fonetica e un contenuto che si
avvicinano sempre più ai segni convenzionali del codice linguistico (proto-parole).
Sviluppo del linguaggio verbale: modelli teorici:
Bruner considera sia gli aspetti funzionali del comportamento sia gli aspetti biologico-evoluzionistici della
cultura umana (modello socio-costruttivista). Egli pone l’accento sul ruolo dell’interazione sociale come
specifico sistema di supporto all’apprendimento del linguaggio: LASS (language acquisition support system).
La tendenza dell’adulto a commentare l’azione del bambino, a nominare e\o descrivere gli oggetti a cui sta
prestando attenzione favorirebbero l’apprendimento del lessico. Senza l’ambiente linguistico in cui è
immerso sin dalla nascita, il bambino andrebbe ben poco oltre i primi balbettii.
Altri studiosi si concentrarono su meccanismi innati per l’apprendimento del lessico, dominio-specifici e
indipendenti da abilità cognitive e percettive, quali l’assunto dell’oggetto intero (una parola udita per la
prima volta è associata all’oggetto nella sua globalità); l’assunto tassonomico (una parola è generalizzata
all’esemplare più simile); assunto del contrasto (una parola viene attribuita ad un altro referente).
Recentemente sono stati individuati due meccanismi per l’acquisizione del linguaggio: l’abilità di calcolo
statistico-probabilistico del cervello e l’immersione in un universo sociale parlante.
Il ruolo dell’adulto:
Adulti e bambini collaborano nella costruzione dell’abilità comunicativo-linguistica, essendo entrambi
predisposti biologicamente a entrare in contatto (intersoggettività primaria) e a cooperare tra loro
(intersoggettività secondaria). La responsività della madre è predittiva per lo sviluppo della comunicazione
e per lo sviluppo mentale. Le madri si rivolgono ai figli piccoli utilizzando uno specifico stile linguistico
chiamato Motherese o baby talk che presenta alcune caratteristiche: semplificazione, ridondanza, toni
acuti, ritmo più lento, che richiamano l’attenzione del bambino sulla parola e sullo scambio comunicativo.
Di recente, si è mostrato come la musicalità rappresenta una facilitazione nell’apprendimento del
linguaggio.
Le madri hanno la tendenza ad adattare stili comunicativi differenti (espressivo o referenziale) in analogia o
contrasto con l’organizzazione cognitiva dei loro bambini. Lo stile espressivo è incentrato sugli aspetti
emotivi dello scambio interpersonale; lo stile referenziale ha un approccio cognitivo al contesto.
Inoltre sono state individuate strategie materne idonee a promuovere lo sviluppo del linguaggio:
Contingenza tematica: aderenza al contesto immediato a cui il bambino sta prestando attenzione;
Contingenza semantica: espansione delle espressioni linguistiche del bambino.
Sarebbero più utili i comportamenti comunicativi dell’adulto che lasciano a lui l’iniziativa di dettare il tema
dello scambio.
La formazione del concetto inizia in fase preverbale attraverso attività di esplorazione e categorizzazione
senso-motorie, precede e prepara la costruzione del significato delle parole. Esso costituisce il nucleo
cognitivo del linguaggio (denotazione), senza coincidere con esso, nella misura in cui il significato è
un’entità più ampia che dipende anche da convenzioni linguistiche e socioculturali, variabili storicamente e
individualmente (connotazione culturale e personale).
Il sistema semantico è una conoscenza organizzata linguisticamente, per cui i significati sono connessi tra
loro da reti semantiche che si modificano.
Il rapporto tra parole e significati riguarda l’abilità metalinguistica, che si manifesta dapprima in forme
implicite e successivamente in forme sempre più de-contestuali.
Alla fine del 2°anno di vita il linguaggio verbale da mezzo per la comunicazione interpersonale si integra con
il sistema cognitivo diventando un mezzo elettivo di costruzione e organizzazione delle conoscenze. Il
linguaggio può influenzare il sistema cognitivo e avvia il processo che porta alla costruzione intersoggettiva
della mente mediata e ibrida, per cui la cultura, assimilata dall’individuo, integra rappresentazioni cognitive
e vissuti individuali, rendendoli condivisibili intersoggettivamente. Tale condivisione si realizza grazie alla
scolarizzazione, attraverso cui il bambino impara ad utilizzare il linguaggio rispettando le regole di forma e
contenuto. Negli anni della scolarizzazione si attua il passaggio dal pensiero narrativo al pensiero
paradigmatico.
Il contemporaneo sviluppo cognitivo consente di usare il linguaggio con funzione argomentativa, ovvero la
capacità di sostenere ragionamenti e punti di vista e confutare quelli di altri. Lo sviluppo del linguaggio
verbale, dunque, si colloca in continuità funzionale rispetto allo sviluppo delle abilità comunicative e
prevale un modello interpretativo multifattoriale.
In sintesi, il linguaggio verbale svolge funzioni sia interpersonali sia intrapsichiche: designazione della realtà
(funzione referenziale), organizzazione del pensiero (funzione cognitiva), riferimento autoriflessivo al
linguaggio stesso (funzione metalinguistica). Il linguaggio verbale fornisce un contributo allo sviluppo della
consapevolezza, dell’autoconsapevolezza e pertanto alla formazione dell’identità personale (funzione di
individuazione).
Capitolo sesto: la Teoria della Mente
L’espressione “Theory of Mind” si riferisce ad un’abilità psicologica fondamentale per la vita sociale: la
capacità di capire e prevedere il comportamento sulla base della comprensione degli stati mentali propri e
altrui.
Durante gli anni 80, iniziò un ricco filone di studi sullo sviluppo della ToM in età evolutiva. Questi lavori
misero a punto diverse versioni di quello che divenne un compito prototipico: il 1 compito della falsa
credenza con cui si chiede al bambino come il protagonista di una storia agirà, tenendo conto della falsa
credenza di questo e non del dato di realtà, noto soltanto a lui e allo sperimentatore.
Nella versione dello 2spostamento inatteso, il soggetto deve predire dove il protagonista della storia andrà a
cercare un oggetto da lui inizialmente riposto in un contenitore e poi spostato in un altro recipiente
dall’altro personaggio a sua insaputa.
Nella versione della 3 scatola ingannevole, lo sperimentatore mostra al soggetto sperimentale una scatola
chiusa di caramelle il cui contenuto è stato sostituito a insaputa del soggetto medesimo. Dopo che il
soggetto ha risposto alla domanda circa il contenuto, gli viene chiesto di prevedere che cosa un’altra
persona penserà vi sia nella scatola quando lo sperimentatore gliela mostrerà chiusa.
Per risolvere questo genere di prove il bambino deve sospendere la propria conoscenza sulla realtà,
assumere la prospettiva dell’altro e rappresentarsi una falsa credenza rispetto alla realtà così da prevedere
come l’altro si comporterà sulla base della propria falsa credenza.
Disporre della ToM significa usare un processo di meta-rappresentazione degli stati mentali: il soggetto si
sforza di inferire i contenuti della mente umana che sono soggettivi.
Il pensiero ricorsivo è un pensiero che implica la meta-rappresentazione (io penso\io credo). Esso, insieme
alla meta-conoscenza costituiscono la base di quell’insieme di concezioni che ogni persona si costruisce
sulla modalità di funzionamento della mente e sui suoi nessi con il comportamento.
L’approccio Theory-Theory pone un’analogia tra il bimbo alle prese con la costruzione della comprensione
e della spiegazione della mente, e lo scienziato impegnato a elaborare un sistema teorico. Questo
approccio afferma che quando un bambino verso i 4 anni è in grado di comprendere che il modo con cui
l’altro agisce è guidato dalle sue credenze sul mondo e che queste credenze non sono necessariamente lo
specchio fedele della realtà, ma sono referenzialmente opache rispetto a esso, quel soggetto possiede una
ToM o capacità di mindreading.
L’approccio della simulazione pone maggior accento sul ruolo della conoscenza in prima persona
nell’attribuzione degli stati mentali, per cui il bambino arriverebbe a comprendere gli stati mentali
attraverso il lavoro dell’immaginazione. L’espressione comprensione della soggettività indica la capacità di
riconoscere che l’altro possa avere una credenza che si discosta non solo dalla propria, ma anche dal dato
di realtà, apre la strada alla comprensione e alla consapevolezza della soggettività degli stati mentali, che
consente di uscire dall’egocentrismo intellettivo e di intervenire per influenzare gli stati mentali,
modificando il corso delle azioni.
Queste tre prospettive teoriche hanno dominato la scena fino ai primi anni Novanta.
L’approccio delle forme di vita attribuisce peso ai processi di socializzazione; il punto di vista narrativo
pone l’accento sul ruolo rivestito dall’esperienza quotidiana che, corredata da strumenti culturali quali
script e format, conduce il bambino alla costruzione della teoria della mente; la prospettiva interazionista
sottolinea il peso dei contesti affettivamente connotati nel guidare il bambino alla costruzione della
capacità di mentalizzazione.
Questa svolta in direzione socio-contestualista ha anche aperto connessioni con il dominio dello sviluppo
affettivo. Due autori sono da considerare: Meins e Fongay.
Meins ha unito la teoria di Vygotskij alla teoria dell’attaccamento per formulare un nuovo costrutto: la
Mind-Mindedness materna. Essa è definita come la propensione a trattare il proprio figlio come soggetto
attivo, dotato di una mente, e a usare nell’interazione termini che si riferiscono in modo appropriato a stati
mentali. Il dato più importante che emerge dai suoi studi è la capacità delle madri con attaccamento sicuro
di svolgere il ruolo di scaffolding. Meins propende per un modello in cui la sicurezza nella relazione
bambino-caregiver esercita un effetto a livello metacognitivo attraverso la mediazione di specifici processi
sociali come il gioco di finzione e linguaggio.
Fonagy cerca di comprendere l’origine di disturbi di personalità dell’adulto. Egli usa di due etichette per
designare la capacità di comprendere gli stati mentali propri e altrui: funzione riflessiva del Sé e
mentalizzazione. L’autore assegna importanza alla responsività materna, che fin dalle prime interazioni
diadiche bambino-caregiver apre la strada alla costruzione della comprensione mentalistica da parte del
piccolo. Egli definisce la capacità di contenimento materna come una competenza di tipo metacognitivo,
che rende la madre in grado di concepire il proprio figlio come soggetto mentale, e di restituirgli, attraverso
le interazioni, tale immagine di sé come soggetto dotato di una mente. La sistematica mancanza di tale
capacità da parte del caregiver, condurrebbe al fallimento nello sviluppo nel bambino della capacità di
mentalizzazione.
Con la funzione riflessiva del sé (o mentalizzazione) si intende la capacità intersoggettiva di comprensione
di sé e degli altri, che si sostanzia nella relazione primaria tra il piccolo e il caregiver. Il termine
mentalizzazione include sia la componente cognitiva sia quella emotivo-affettiva.
Le tappe evolutive della ToM:
Un primo elemento di indagine su cui gli studiosi si focalizzarono fu quello di stabilire a quale età i bambini
raggiungessero la capacità di ragionare sul comportamento in termini meta-rappresentazionali.
Il compito di falsa credenza venne utilizzato come cartina al tornasole per la verifica del possesso della
ToM. Tre sono le ragioni che spiegano la centralità della comprensione delle credenze per la nostra vita
sociale:
I. La predicibilità del comportamento: diviene non solo comprensibile ma anche prevedibile se
sappiamo tutto ciò che l’altro crede
II. La spiegazione del comportamento: anche e soprattutto per quei comportamenti che sembrano
strani, divengono più chiari grazie al nostro sforzo di inferire cosa passi per la testa dell’altro
III. Manipolazione del comportamento: conoscere le credenze dell’altro ci consente di intervenire su di
esse
L’età dei 4 anni è considerata una sorta di spartiacque tra una fase evolutiva in cui il bambino non è ancora
in grado di ragionare a livello metarappresentazionale sulla credenza, tanto da commettere quello che nei
compiti di falsa credenza è definito “errore realistico” (cioè estendere la propria conoscenza della realtà
all’altro) e una fase successiva in cui raggiunge tale abilità che gli consentirà di articolare livelli di ricorsività
del pensiero sempre più complessi.
Già nei 2 anni di vita i bambini mostrano di possedere strutture e schemi cognitivi che preparano la
comparsa della ToM, veri e propri precursori quali:
L’attenzione condivisa e i gesti deittici costituiscono tappe fondamentali dello sviluppo comunicativo e
Linguistico. I gesti deittici svolgono inizialmente una funzione imperativa o richiestiva. Per esempio, un
bambino di 6 mesi indica l’oggetto lontano (pointing) o alterna lo sguardo tra esso e l’adulto (joint-
attention) affinché l’adulto a sua volta lo guardi, lo prenda e glielo porga: si tratta del performativo
richiestivo. Tra 11-14 mesi il bambino indica ma lo fa anche per attirare l’attenzione su qualcosa che per lui
è interessante (performativo dichiarativo). Quello che muta è la finalità del gesto deittico, in quanto viene
usato per influenzare lo stato mentale.
Verso la fine degli anni 90 e inizio anni 2000, l’interesse per il percorso evolutivo della ToM si è aperto a una
prospettiva del ciclo di vita che considera lo sviluppo come un processo complesso, multi-componenziale e
multifattoriale. Tale percorso non si conclude con il raggiungimento della prima età adulta ma è soggetto a
continue trasformazioni anche nell’età adulta successiva e nell’età anziana.
Dal comprendere e dal sentire morale deriva l’azione morale che risente anche di influssi sociali differenti e
può scostarsi o contraddire la valutazione di quale comportamento sia giusto porre in essere.
Secondo Elliot Turiel, la moralità attiene a due principali dimensioni delle relazioni interumane: cura ed
equità. La dimensione della cura ha a che fare con un sentimento di preoccupazione per il benessere altrui
(far male agli altri senza motivo è sbagliato mentre aiutare un individuo che soffre è giusto). La dimensione
della equità (o della giustizia) riguarda il rispetto di regole, secondo il principio per cui tutti gli individui
dovrebbero godere degli stessi diritti. I bambini si ritiene siano spontaneamente egoisti.
Thomas Hobbes afferma che gli individui, spinti dalla rivalità e dalla competizione per il soddisfacimento dei
bisogni, sarebbero condannati all’annientamento reciproco e, solo accordandosi gli uni con gli altri,
attraverso l’istituzione di norme sociali e morali, è possibile la convivenza civile.
Anche secondo Freud lo sviluppo ontogenetico è basato sul passaggio dal cosiddetto “Principio del
piacere” al “principio della realtà” nel corso del quale il bambino rinuncia al soddisfacimento delle proprie
pulsioni “naturali” a beneficio delle istituzioni sociali, anche se ciò comporterà costi in termini di felicità e
appagamento (disagio della civiltà).
Rousseau ipotizzò che l’essere umano nascesse buono e fossero le regole e i valori sociali a corromperne la
natura durante la crescita.
Negli ultimi decenni, grazie a ricerche in area psicologica, il quadro di riferimento è mutato; ha cominciato
a farsi strada l’idea che i bambini tendano spontaneamente a mettere in atto condotte altruistiche.
2.1
L’empatia:
Secondo Hoffman, l’empatia è il cardine intorno a cui si sviluppa la moralità. La ricerca psicologica ha messo
in luce tre componenti dell’empatia: affettiva, cognitiva e fisiologica.
Come espressione affettiva, l’empatia va intesa come condivisione emozionale, una risposta affettiva
corrispondente a quella di un’altra persona.
In termini cognitivi, essa va intesa come la comprensione dell’esperienza di un altro, come consapevolezza
cognitiva degli stati interni di un’altra persona.
La componente fisiologica dell’empatia, si riferisce al coinvolgimento di funzioni legate alle attività del
sistema nervoso autonomo o di substrati neurali o ormonali che operano nell’indurre un individuo a
comportarsi e a sentire in modo speculare a un’altra persona.
La scoperta dei neuroni specchio ha gettato nuova luce sulle basi neurali della capacità di comprendere lo
stato mentale dell’altro. Essi sono un particolare tipo di neuroni motori collocati nella neo-corteccia che si
attivano in modo del tutto speculare ai neuroni di un altro soggetto che viene osservato compiere
un’azione. Probabilmente essi sono implicati nel processo innato dell’imitazione e svolgono un ruolo
decisivo nella comprensione e condivisione delle emozioni altrui e quindi dell’empatia.
Quando è possibile osservare le prime manifestazioni empatiche nel bambino? Secondo Hoffman sin dalla
nascita esiste una forma rudimentale di empatia, lo stadio zero che si osserva durante il “pianto reattivo del
neonato”, quel fenomeno per cui i neonati tendono a piangere nell’udire il pianto di un altro neonato.
Si tratta di una corrispondenza empatica molto primitiva, attivata da processi automatici e fisiologici (alcuni
studiosi definiscono questa esperienza come un “contagio emotivo”).
Il 1° stadio di autentica empatia compare nei 6 mesi, denominato “empatia egocentrica”: quando il
bambino manifesta disagio in presenza del malessere di un altro ma cerca conforto per sé stesso.
Il 2° stadio è quello dell’empatia “quasi egocentrica” e si manifesta verso il 2° anno. In questa fase il
bambino manifesta i primi veri e propri comportamenti di aiuto verso una persona che mostra sofferenza
ma le modalità che utilizza nel prestare aiuto sono ancora molto rudimentali.
Il 3° stadio è quello dell’empatia veridica, che avviene verso i 3 anni. c’è una forma più matura di empatia e
il bambino comprende lo stato di malessere dell’altro e pone azioni di effettivo beneficio all’altro.
Il 4° stadio è quello della empatia per la condizione esistenziale dell’altro che può manifestarsi quando
sono state raggiunte forme più astratte di pensiero. In questo caso si può provare empatia anche in assenza
di una manifesta espressione di sofferenza nell’altra persona ma in relazione alle rappresentazioni mentali
evocate dalla sua condizione esistenziale.
2.2
Il comportamento prosociale:
Hoffman ha messo in relazione lo sviluppo della moralità allo sviluppo dell’empatia, che richiede una piena
integrazione tra maturazione affettiva e maturazione cognitiva con lo sviluppo delle abilità di Teoria della
Mente, alla base dell’abilità di perspective-talking (la capacità di comprendere lo stato mentale dell’altro).
Si potrebbe ipotizzare che se si comprendono e si condividono le emozioni dell’altro, in particolar modo
quelle di sofferenza, questi vissuti dovrebbero promuovere una congruente azione di aiuto e supporto della
persona che soffre.
Si deve soprattutto a Nancy Eisenberg il merito di avere contribuito a comprendere il rapporto tra empatia,
pro-socialità e moralità. Eisenberg ha posto attenzione alla sympathy (compassione), un sentimento che
origina dall’empatia, ma che comprende anche un sentimento di preoccupazione verso la condizione
dell’altro che può precedere un vero e proprio comportamento prosociale. L’attivazione empatica non
sempre si traduce in un comportamento prosociale e morale, dal momento che
condividere la sofferenza di un altro implica che si sperimenti anche una condizione di disagio personale
(personal distress), che può divenire così intenso da indurre a un ritiro egoistico allo scopo di evitare di
sperimentare la stessa sofferenza che prova l’altro. Per Eisenberg, il fattore chiave alla base dell’evoluzione
dell’empatia in sympathy, e quindi del comportamento prosociale, risiede in primo luogo nella capacità di
self-regulation, ossia quei processi psicologici implicati nella gestione e modulazione degli stati emotivi,
motivazionali e fisiologici. L’autoregolazione emotiva è determinata da un tratto temperamentale
denominato effortful-control, che sovrintende all’abilità di pianificare le proprie azioni e rilevare errori nella
propria condotta.
Quando si è a contatto con un’altra persona che prova un intenso dolore, si può verificare un eccesso di
attivazione empatica e sperimentare livelli elevati di disagio personale. Di conseguenza, i bambini
potrebbero rifuggire da tale situazione. Se, però, essi sono in grado di mantenere l’attivazione emotiva
entro livelli moderati, grazie alle abilità di effortful-control, sarà possibile dare conforto all’altro che ha
bisogno di aiuto e trasformare l’esperienza empatica in sympathy.
Quali sono i fattori alla base di una risposta empatica di tipo simpatetico? Se, da un lato, fattori biologici di
tipo temperamentale hanno un ruolo rilevante, dall’altro anche i fattori educativi e relazionali svolgono un
ruolo fondamentale. È stato osservato come un clima familiare positivo, improntato al calore e alla
condivisione di stati emotivi, possa influenzare i livelli di sympathy nei bambini. Quando i genitori sono in
grado di instaurare con i figli una relazione improntata al calore, di creare le condizioni per un legame di
attaccamento sicuro e offrono essi stessi un modello di comportamento prosociale ai figli, quest’utlimi
esibiscono livelli più elevati di sympathy.
2.3
Le origini naturali del “buono” e del “giusto”:
Quale vantaggio deriverebbe dal dedicare tempo, risorse ed energie per aiutare un altro individuo? La
risposta risiede nella stessa teoria dell’evoluzione dell’uomo, la cui sopravvivenza è stata resa possibile
proprio dalla propensione naturale di creare alleanze, di cooperare, di costruire rapporti basati sulla
reciprocità. Alcuni comportamenti altruistici sono sorprendenti nella specie umana e molte specie animali.
Una spiegazione fornita dagli evoluzionisti è quella della kin selection, ovvero della selezione di parentela,
per cui gli individui agiscono in modo altruistico soprattutto nei confronti di altri individui con cui vi è un
legame di parentela. Questi atteggiamenti sono attivati anche verso un numero più esteso di individui. È
quella che viene definita “morale nel modo della seconda persona”, una sorta di innato modulo morale che
guida il comportamento e il giudizio delle persone fin dalla più tenera età, sulla base del principio che
aiutare gli altri è giusto e che esista una sorta di equivalenza tra gli esseri umani per cui il senso del noi
sostituisce il senso dell’io nel prendere decisioni. Persino bambini molto piccoli sembrano in grado di
discernere un comportamento ingiusto da uno equo e mostrano di preferire quest’ultimo.
3
La cognizione morale:
Gli approcci classici allo sviluppo morale si sono incentrati principalmente sulle dimensioni cognitive,
connesse ai processi di valutazione e presa di decisione morale e all’architettura della conoscenza relative a
norme e regole.
3.1
I modelli stadiali:
In questa prospettiva rientrano i modelli stadiali proposti da Piaget, Kohlberg e Gibbs. Questi autori sono
accomunati da un’impostazione strutturalista e cognitivo-evolutiva che vincola lo sviluppo della capacità di
compiere ragionamenti e inferenze di tipo morale allo sviluppo delle più generali abilità cognitive, che
nell’ipotesi formulata da Piaget, dovrebbe avvenire secondo una sequenza stadiale comune a tutte le
persone.
Piaget ritiene che il cambiamento con l'età dei processi di ragionamento morale dipenda principalmente
dall'evolvere nel tempo dell'organizzazione cognitiva e delinea una sequenza di sviluppo morale in tre
periodi:
1. Fino 4-5 anni di vita il bambino vivrebbe in una condizione di anomia morale, in cui non
mostrerebbe interesse per le regole e il suo comportamento eterodiretto dall'adulto.
2. Fino ai 7-8 anni il bambino si troverebbe nel primo vero stadio della moralità, denominato di
realismo morale. La comprensione morale del bambino sarebbe caratterizzata da una concezione
della norma come eteronoma, ossia fondata da un'autorità esterna (l'adulto) e avente valore solo
nella misura in cui l'autorità è in grado di farla rispettare. Il bene si identifica con l'obbedienza e il
rispetto di una regola deriva dal fatto che dalla sua trasgressione deriva una punizione. Nel valutare
un'azione il bambino considera prevalentemente le conseguenze che essa produce (responsabilità
oggettiva) e non l'intenzione che anima.
3. l'ultimo stadio è chiamato di relativismo morale (o soggettivismo). Compare intorno ai 10 anni e la
concezione della norma che lo contraddistingue è di una norma che ha valore per sé stessa
(moralità autonoma), perché fondata sulla cooperazione, la reciprocità e la negoziazione sociale. La
valutazione morale si basa su principi interiorizzati che esprimono un ideale di giustizia avvertito
come esigenza interiore, indipendentemente dai dettami dell'autorità e nel giudicare l'azione
prevale la valutazione dell'intenzione da cui l'atto origina (responsabilità soggettiva).
Kohlberg condusse una serie di studi in cui a partecipanti di diversa età venivano proposte situazioni
dilemmatiche ipotetiche poche richiedevano di scegliere tra due principi morali. Egli ha proposto un
modello stadiale fondato sull'acquisizione del concetto di convenzionalità, secondo cui lo sviluppo morale
prevede un progressivo adeguamento alle norme morali dei gruppi sociali a cui si appartiene con una
sequenza evolutiva su tre livelli di ragionamento morale, ciascuno suddiviso in due sotto livelli o stadi.
1. Livello "preconvenzionale" e prevale fino ai 9-10 anni. Il pensiero del bambino appare superficiale e
autocentrato, con una concezione della norma eteronoma.
Nello stadio 1, il bambino nel valutare la situazione privilegia i bisogni personali e obbedisce alla
norma per evitare le punizioni.
Nello stadio 2 le regole sono rispettate quando ne deriva un vantaggio e si agisce in funzione dei
propri bisogni
2. Livello convenzionale tra 13-20 anni, in cui le regole e le aspettative sociali sono interiorizzate.
Nello stadio 3 il giovane tende a conformarsi alle aspettative del proprio gruppo sociale e agisce al
fine di sentirsi buono e ottenere considerazione dagli altri
Nello stadio 4 la regola è riconosciuta come fondata dalla necessità di mantenere l'ordine sociale e
il giovane agisce per senso di responsabilità verso le istituzioni
3. Livello post-convenzionale, compare verso i 20 anni ed è contraddistinto da una concezione dei
valori morali più complessa in cui è presente l'idea che esistano dei principi etici universali a cui si
aderisce per scelta e che possono confliggere con le regole sociali e convenzionali.
Nello stadio 5 il giovane nel valutare l'azione è ora pienamente consapevole dell'esistenza di
opinioni e valori diversi a seconda dei gruppi sociali ma riconosce anche l'esistenza di alcuni valori
assoluti validi anche quando contrastano il valore della maggioranza.
Nello stadio 6, i principi etici universali sono concepiti come fondamento della legge e se vi è
contrasto tra regole sociali e principi universali, questi ultimi vengono privilegiati.
Un aspetto importante di tale modello è la transizione dallo stadio 2 allo stadio 3, grazie al quale avviene il
passaggio a una moralità più matura e questo elemento è ripreso nel modello stadiale proposto da Gibbs.
Gibbs ritiene che il ragionamento morale evolva con una sequenza stadiale, ma distingue due aspetti che
denomina fasi dello sviluppo: la fase dello sviluppo morale standard e la fase esistenziale.
Nel suo modello Gibbs conserva alcuni degli assunti di base delle concettualizzazioni di Piaget e Kohlberg, in
particolare l'idea che sia possibile riconoscere una sequenza invariante di stadi a cui fondamento vi è lo
sviluppo cognitivo, che rende possibile l'accesso agli stadi più maturi grazie alla comparsa delle funzioni
operatorie, seppure sia comunque possibile che si verifichi un blocco o un ritardo morale (moral delay) per
cui la persona può rimanere vincolata ai primi stadi di moralità immatura.
3.2
Dal ragionamento all'azione morale:
Nella teoria dei domini, gli studiosi pongono in discussione l'ipotesi che lo sviluppo morale proceda secondo
una sequenza di stadi di ragionamento caratterizzati da una diversa visione della norma e propongono che
la cognizione morale, ossia la conoscenza connessa a tipi diversi di regole e alle condizioni della situazione
che influiscono sulla valutazione di un'azione come giusta, sia articolata in domini cognitivi separati.
Vengono distinte tre tipologie di regole a cui fanno riferimento domini diversi:
1. Regole morali: hanno fondamento sul principio che si debba salvaguardare il benessere delle
persone, esemplificato dalla norma che non si debba procurare dolore agli altri. Esse sono
percepite avere valore in modo universale, trasversalmente alle culture e indipendentemente dai
dettami delle autorità
2. Regole socio-convenzionali: mirate a preservare l'ordine sociale. Esse trovano fondamento
nell'autorità che le definisce e che è in grado di farle rispettare, non sono universali ma valide nel
contesto in cui sono formulate e la loro trasgressione è avvertita come meno grave di quella delle
regole morali
3. Principi di scelta personale: non soggetti ai dettami dell'autorità e dipendenti esclusivamente dalla
decisione della persona
Queste regole riflettono la distinzione tra moralità eteronoma (in cui la norma vale per l'autorità che
l'istituisce) e autonoma (in cui la norma ha valore in stessa) proposta nelle teorie stadiali. Già nei primi anni
di vita i bambini sarebbero in grado di comprendere le norme morali come valide per sé stesse,
distinguendole dalle regole socio-convenzionali il cui valore è relativo al contesto e alla loro esplicitazione
da un'autorità.
A seconda di quale tra questi tre aspetti di dominio prevale nella valutazione personale, l'eventuale
trasgressione commessa viene valutata come più o meno grave. La differenza nelle tendenze personali a
favorire un dominio all'altro nelle situazioni concrete di dominio misto, quindi, potrebbe spiegare perché è
possibile mettere in atto azioni trasgressive di regole morali riconosciute in astratto come inviolabili.
Bandura contesta l'impostazione troppo razionalistica dei modelli stadiali, valutati come troppo distanti
dalla realtà sociale e da come gli individui giudicano nella vita reale. Bandura sostiene che nelle interazioni
con il contesto sociale, in primo luogo famiglia e gruppo dei coetanei, il bambino apprende e interiorizza le
norme morali e impara i criteri da utilizzare per le valutazioni morali. In questo processo, particolarmente
rilevante è il ruolo degli adulti che attraverso premi, rinforzi, proibizioni e sanzioni guidano la condotta del
bambino e facilitano la sua comprensione di cosa sia socialmente approvato o disapprovato.
Dal contesto sociale, tuttavia, il bambino apprende anche a utilizzare processi cognitivi di disimpegno
morale, che consentono di evitare la reazione affettiva interna conseguente all'avere trasgredito i propri
standard di condotta e i principi morali interiorizzati. I meccanismi di disimpegno morale sono 8 e operano
ristrutturando a livello di pensiero la portata della propria azione trasgressiva, il peso della propria
responsabilità nell'azione (attribuendo la responsabilità ad altri), il ruolo della vittima o le conseguenze
dell'atto, che vengono minimizzate. In questo modo l'azione trasgressiva viene presentata a sé stessi come
accettabile. Nel modello di Bandura i principi morali interiorizzati non assicurano la messa in atto di azioni
moralmente giuste, come nei modelli stadiali, ma i processi di autoregolazione della condotta e i
meccanismi di disimpegno morale di interpongono come mediatori tra la valutazione del giusto e l'azione
concreta.
3.3
Il comportamento aggressivo come azione immorale:
Diversi studi hanno rivelato che bambini e adolescenti aggressivi o prepotenti ricorrono maggiormente al
disimpegno morale. Per comprendere meglio la relazione tra cognizione morale e sociale e condotta
aggressiva, è necessario distinguere aspetti e tipi diversi di questo comportamento.
Aggressione: atto che procura danno agli altri
Aggressività: tendenza come stile personale di condotta a porre in essere aggressioni
Aggressività reattiva: tendenza ad agire risposte distruttive emotivamente calde a una situazione
percepita come un attacco
Aggressività proattiva: l’aggressione è posta in essere al fine di ottenere un beneficio materiale
sociale o emotivo. Questa è meno emotivamente pregnante e spesso pianificata e calcolata
Nello stesso comportamento aggressivo possono esservi sia componenti di aggressività reattiva che di
aggressività proattiva e una stessa persona può mettere in atto condotte aggressive di entrambi i tipi.
Un modello dei processi socio-cognitivi che possono soggiacere a spiegare la condotta aggressiva è il
modello dell’elaborazione dell’informazione sociale, secondo cui le interazioni sociali spesso costituiscono
problemi da risolvere in cui la persona deve comprendere le intenzioni alla base delle azioni dell’altro e
decidere che azione porre in essere in risposta. Nell’immediatezza dell’interazione sociale si attiverebbe in
modo automatico un processo sequenziale di analisi ed elaborazione dell’informazione sociale a sei passi:
I. Codifica dello stimolo sociale: viene posta attenzione ai comportamenti del partner dell’interazione
II. Interpretazione dello stimolo: viene attribuita all’azione dell’interlocutore un’intenzione (es.
attacco)
III. Definizione degli obiettivi: la persona definisce gli obiettivi che vuole raggiungere con l’azione che
metterà in atto, di mantenimento delle buone relazioni con l’altro (relational goals) o di
raggiungimento di un vantaggio personale (instrumental goals)
IV. Ricerca di una risposta: la persona elabora tutte le possibili azioni che può agire per raggiungere i
suoi obiettivi
V. Scelta della risposta da mettere in atto: avviene sulla base dell’analisi della situazione e in base a
quanto la persona si sente efficace nel mettere in atto un comportamento
VI. Messa in atto della risposta: La risposta agita produrrà negli interlocutori e negli astanti delle
reazioni (feedback) che consentono nel futuro di affinare o modificare il processo.
L’intero processo è inoltre influenzato da fattori emotivi. Crick e Dodge sostengono come alla base del
comportamento aggressivo vi siano distorsioni cognitive (bias) e alterazioni nella qualità dell’elaborazione
dell’informazione sociale durante questo processo. Infatti, si è visto come soggetti aggressivi-reattivi hanno
difficoltà nei primi due passi del processo, focalizzandosi maggiormente su elementi che segnalano una
possibile minaccia attribuendo all’altro un’intenzione ostile verso di sé (tendenza all’attribuzione ostile).
Bambini aggressivi-proattivi presentano distorsioni nel terzo e quarto passo: privilegiano il raggiungimento
dei vantaggi personali al mantenimento di buone relazioni con gli altri.
La teoria dei domini fornisce una spiegazione. La condotta aggressiva può essere dovuta al verificarsi di uno
scivolamento (shift) di dominio, per cui la condotta aggressiva viene riportata dalla persona al dominio delle
regole socio-convenzionali e non a quello delle regole morali. Quindi, il comportamento aggressivo
verrebbe considerato come un’azione regolata da norme specifiche di contesto.
4
La socializzazione morale: i contesti di crescita
4.1
Il ruolo della cultura
Il confronto tra diversi modelli di moralità è un tema attuale poiché si è di fronte a società multiculturali in
cui convivono differenti sistemi valoriali e modelli normativi di comportamento. Un interrogativo che guida
gli studiosi è se tali differenze siano profonde o superficiali, se cioè, al di là di alcune evidenti differenze, le
diverse culture condividano gli stessi principi morali di base o se, invece, il processo di acculturazione abbia
prodotto una varietà di principi da renderli inconciliabili.
La prima tesi è data dall’approccio evoluzionistico o approccio stadiale: lo sviluppo morale procede lungo
una analoga sequenza invariante in tutti gli individui. Ad esempio, secondo Kohlberg, le differenze
socioculturali, identificate nel livello di maggiore o minore complessità e flessibilità della struttura
economica e sociale, possono influire sui livelli di moralità che l’individuo raggiunge nel corso della vita ma
non sull’ordine gerarchico con cui i livelli di moralità compaiono nel corso dello sviluppo individuale.
Un’altra ipotesi è data dall’approccio culturalista: le persone che appartengono a una specifica cultura
acquisiscono i modelli di moralità dominanti nella società cui essi appartengono. Una delle classificazioni è
quella che distingue le società in individualistiche e collettivistiche.
Le culture con un orientamento individualistico: lo sviluppo deve procedere verso una sempre
maggiore autonomia dell’individuo e che i principi che guidano l’esistenza umana siano la libertà
individuale e il perseguimento dei propri obiettivi personali
Le culture con un orientamento collettivistico strutturano l’esperienza sociale in modo da
consolidare sempre più i legami verso strutture collettive come la famiglia e la comunità. Gli
individui interiorizzano come norma morale dominante il rispetto dei doveri verso la comunità a
scapito della realizzazione personale e i fondamenti della moralità sono la conservazione dei valori
morali della tradizione, a cui si associa un elevato controllo sui comportamenti individuali che
devono essere conformi a pratiche culturalmente accettabili
Etica dell’autonomia: il discorso sulla morale è incentrato sui temi della cura verso gli altri, la difesa
dei diritti inalienabili dell’individuo, i principi dell’equità e il valore della libertà
Etica della comunità: i discorsi sulla morale vertono sulla valutazione del grado di accordo tra il
comportamento individuale e le norme della comunità in cui la persona vive
Vennero fatti degli studi per verificare l’esistenza dei diversi codici: si notò come i giudizi dei bambini erano
identici a quelli degli adulti, a riprova di come il processo di trasmissione culturale dei valori alla base dei
due codici morali fosse interiorizzato. Altri studi hanno evidenziato come, sin dai primi anni di vita, i
bambini tendono a formulare giudizi su temi morali conformi ai pattern culturali dominanti nella società di
appartenenza.
4.2
Il ruolo della famiglia:
La trasmissione dei valori morali dai genitori ai figli avviene durante il percorso della socializzazione, un
insieme di processi costituiti da pratiche educative, formazione, imitazione attraverso cui il bambino farà
propri, percependoli come autogenerati e indipendenti da fattori contestuali, valori e norme di
comportamento che gli consentiranno di adattarsi al contesto in cui vive. Ha luogo tuttavia un processo di
“riproduzione interpretativa”, termine con cui si enfatizza il contributo attivo del bambino nel filtrare,
selezionare, elaborare i contenuti tramandati dalle generazioni precedenti e, al tempo stesso, creare nuove
norme sociali nel corso dello sviluppo.
Grusec e Godnow enfatizzano il ruolo del figlio nel percepire e interpretare i valori genitoriali. Secondo gli
autori, diversi fattori influenzano il processo di internalizzazione dei valori morali genitoriali da parte dei
figli. In primis va considerata l’accuratezza della percezione ossia la chiarezza con cui il figlio percepisce i
valori dai propri genitori. Perché ciò avvenga, è necessario che vi sia un elevato grado di accordo nella
coppia genitoriale su quali siano i principi morali più importanti in base a cui educare i figli. Al contrario, il
disaccordo valoriale nella coppia genitoriali genererà confusione nei figli sui valori di riferimento. Un altro
aspetto è la ridondanza ossia la tendenza dei genitori a ribadire in più occasioni il proprio punto di vista ai
figli, che in tal modo avranno meno incertezze su quali siano i principi morali dei genitori. Necessaria è
anche la coerenza che i genitori devono mostrare tra i principi professati e comportamento concreto. È
importante anche la flessibilità educativa associata a un clima relazionale positivo. Un’eccessiva rigidità
genitoriale non favorisce l’internalizzazione dei valori morali, che non può avvenire sulla base di costrizioni.
I figli saranno più motivati e sollecitati ad aderire ai valori morali genitoriali se si sentiranno accolti nei
propri bisogni.
Vi è ampio accordo tra gli studiosi che un clima affettivo improntato al calore e all’aiuto reciproco
nell’ambito familiare rappresenti un fattore cruciale per lo sviluppo della moralità nei bambini. Inoltre, nel
quadro di un attaccamento sicuro vi è meno timore nell’esprimere i propri sentimenti e punti di vista.
Tuttavia, è soprattutto nell’analizzare lo stile educativo genitoriale e le pratiche disciplinari che gli psicologi
dello sviluppo hanno individuato i fattori chiave alla base del processo di internalizzazione morale.
Hoffman definisce “incontro disciplinare” una situazione in cui un bambino mette in atto un
comportamento ritenuto indesiderabile dal genitore il quale interviene allo scopo di prevenirlo, reprimerlo
o modificarlo. Essi raggiungono il picco intorno ai 2-3 anni e tendono progressivamente a diminuire.
Secondo Hoffman le modalità educative che i genitori adottano durante gli incontri disciplinari sono
particolarmente influenti sul processo di internalizzazione dei principi morali. Egli distingue tre diverse
modalità:
1. Disciplina basata sul potere: può essere esercitata attraverso richieste autoritarie al bambino,
punizioni fisiche, privazione o cessazione di privilegi. Quest’approccio disciplinare si caratterizza per
l’assenza di spiegazioni circa la fonte stessa dell’autorità (il genitore) e quindi il bambino non ne
comprenderà a fondo il significato. Con questo approccio disciplinare non viene promossa
un’autentica interiorizzazione della norma in quanto rispettata solo in presenza di un controllore
esterno o per il timore di una punizione
2. Disciplina basata sul ritiro dell’amore: tecnica sintetizzabile dalle ingiunzioni “se ti comporti così,
non ti voglio più bene!”. Esso fa leva sul rapporto affettivo esistente tra genitori e figli per cui
quest’ultimi sono spinti a comportarsi nel modo desiderato dal timore di perdere l’affetto o il
supporto genitoriale. Quest’approccio, oltre a generare forti sentimenti di ansia nei figli, non
favorisce una reale internalizzazione dei valori morali perché il bambino è spinto a compiacere i
genitori
3. Disciplina induttiva: è un forte attivatore d’interiorizzazione dei principi morali. Le tecniche
induttive hanno l’obiettivo di indurre il bambino a comportarsi nel modo desiderato non
imponendo il rispetto della norma ma facendo in modo che il bambino stesso giunga a considerarla
positivamente e percepisca un sentimento interno di obbligazione a rispettarla. Le tecniche
induttive sono incentrate sul role-taking, nel fare in modo che il bambino si metta nei panni della
vittima e giunga automaticamente alla valutazione del comportamento. Il processo avviene in tre
tempi: dapprima si pone l’attenzione sulla condizione provata dalla vittima, poi si invita il bambino
a mettersi nei suoi panni attraverso un’attivazione empatica e, infine, si chiede al bambino come si
sentirebbe lui se si trovasse effettivamente al posto dell’altro. In questo modo il bambino giunge
automaticamente a valutare quale sia il modo adeguato di comportarsi e riesce anche a
generalizzare una regola di comportamento.
4.3
Il ruolo dei coetanei:
Anche i coetanei costituiscono una fonte di influenza per lo sviluppo morale. È soprattutto Bandura a
evidenziare il ruolo svolto dai coetanei nel fornire modelli e rinforzi al comportamento e spunti e
informazioni per l’elaborazione degli standard morali. Bandura ha anche suggerito che nella prima
adolescenza gli amici esercitano effettivamente un’influenza sullo sviluppo del disimpegno morale.
Similmente, anche le norme informali che si strutturano nel gruppo, in termini di credenze condivise tra i
coetanei in merito all’accettabilità morale di comportamenti sociali sono risultate influenzare il
comportamento morale del singolo. Il funzionamento morale è complesso e non basta, quindi, riconoscere
ciò che è giusto per farlo e anche la comprensione del giusto e dello sbagliato segue percorsi di sviluppo
articolati e culturalmente influenzati.